Accoglienza profughi_relazione e monitoraggio attivita

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Accoglienza profughi_relazione e monitoraggio attivita
in collaborazione con
Comune
di Pettinengo
progetto
PETTINENGO: un paese che accoglie
RELAZIONE E MONITORAGGIO ATTIVITA’
PERIODO: SETTEMBRE 2014/GENNAIO 2015
a cura di
associazione RAMODORO
antropologia pratica per il sociale
eleonora spina e fabio pettirino
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Premessa: le falle del sistema nazionale di accoglienza e i suoi effetti
.3
Relazioni locali: logiche del diritto e logiche del dono
.7
Accoglienza: da dispositivo di produzione di marginalità a luogo di creazione di cittadinanza
.9
Micro-progettualità: Inte(g)razione
.9
Progetti produttivi: Gente che r/accoglie .11
Da Ospiti ad Abitanti .12
L’attuale sistema di gestione dell’accoglienza da parte dell’Associazione “Pacefuturo”
e le prospettive future .13
2
Premessa: le falle del sistema nazionale di accoglienza e i suoi effetti
Il progetto “Pettinengo: un paese che accoglie”, promosso e sviluppato dall’Ass. Pacefuturo ONLUS
dal mese di Marzo 2014 ad oggi, sconta le falle e i limiti macroscopici del sistema di accoglienza
per rifugiati e richiedenti asilo a livello europeo ma soprattutto italiano.
Avere consapevolezza e una visione puntuale delle incrinature strutturali dell’ampio meccanismo
in cui i singoli progetti d’accoglienza sono inseriti, risulta propedeutico all’elaborazione di un
qualsiasi piano d’azione che sia verosimile ed ambisca ad essere concretamente realizzabile.
Sebbene infatti, come è noto, manchi un vero coordinamento e delle chiare linee di indirizzo a
livello nazionale - soprattutto per quanto concerne le cosiddette emergenze le quali, a loro volta,
sono state istituite per sopperire alle lacune dei progetti SPRAR (Sistema Protezione Rifugiati e
Richiedenti Asilo) -, i margini di manovra dei soggetti che hanno in appalto tale servizio sono più
limitati di quello che ci si potrebbe aspettare e la nebulosità, la gestione emergenziale e la scarsa
lungimiranza del sistema nazionale gravano pesantemente sulle realtà locali. Quella di Pettinengo,
ovviamente, non fa eccezione.
Non è questa la sede per analizzare nel dettaglio quelle che possiamo a buon diritto definire delle
“crepe strutturali”, le quali, per altro, sono già note ai più.
Vale la pena invece sottolineare alcuni degli effetti di realtà più visibili e più dannosi che queste
contribuiscono a produrre:
1. Attraverso l’istituzione di “campi”o “centri di accoglienza” e indipendentemente dalla
forma che questi assumono, vengono creati ex nihilo spazi e tempi artificiali e scollegati
rispetto agli spazi e ai tempi che circondano questi luoghi e in cui questi luoghi sono
collocati.
I “campi” o centri di accoglienza rientrano infatti a pieno titolo nella categoria di “eterotopie”
ed “eterocronie”, ossia, semplificando al limite, spazi connessi a tutti gli altri ma in cui i normali
rapporti e il normale fluire del tempo vengono sovvertiti radicalmente. Si tratta di aree al
contempo aperte e isolate. In effetti i centri di accoglienza sono solo fisicamente inseriti nel
contesto circostante: in realtà e nella pratica d’uso si rivelano luoghi altri, in cui solo gli ospiti,
gli operatori e, al limite, qualche volontario si avventurano. Sono luoghi, cioè, in relazione al
resto per un mero vincolo di adiacenza o contiguità, allo stesso modo di un corpo estraneo. Lo
stesso destino tocca ai suoi residenti: anch’essi sono, in rapporto al territorio e ai suoi abitanti,
dei corpi estranei vicini fisicamente ma ostinatamente alieni e sostanzialmente sconosciuti. Lo
si nota con maggiore evidenza nelle sporadiche occasioni in cui i centri di accoglienza
diventano il teatro di azioni che coinvolgono contemporaneamente gli “ospiti” dei “campi” e la
popolazione al di fuori di essi – come è accaduto alcune volte anche a Villa Piazzo nel corso di
questi ultimi quattro mesi - : lo spazio continua ad essere rigidamente ripartito da confini
invisibili ma netti ed immediatamente evidenti, lungo i quali i richiedenti asilo e i loro
occasionali ospiti si muovono senza sfiorarsi, guardandosi come attraverso un vetro. Le
interazioni – quando ci sono – appaiono impacciate, quasi forzate. Il più delle volte, tuttavia, la
relazione che si stabilisce è quella, ancora una volta, di mera contiguità fisica.
Si può dunque concludere che questo sistema di accoglienza fa sì che i comuni e le province
non ospitino ma piuttosto contengano i richiedenti asilo, i quali, a loro volta, non diventano
abitanti del territorio ma piuttosto dei semplici “occupanti”.
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Anche il tempo, in questi luoghi vicini e sideralmente lontani, fluisce in maniera
sostanzialmente diversa: la scadenza e il rinnovo trimestrale o semestrale dei permessi di
soggiorno, le periodiche visite in Questura, l’accredito mensile del pocket money, le visite
mediche di routine, le audizioni presso le commissioni territoriali, i ricorsi, sono gli
appuntamenti che scandiscono questo tempo lento e vuoto, fatto sostanzialmente di attesa. I
richiedenti asilo, normalmente uomini adulti, con famiglie a carico, o comunque in età da
lavoro, sono costretti dalla normativa vigente, dalla congiuntura economica sfavorevole e dal
tipo di sistema in cui sono inseriti che, come abbiamo poc’anzi accennato, crea più
segregazione che integrazione, a una passività e a una dipendenza pressoché totali. Dopo aver
intrapreso viaggi lunghi e pericolosi per raggiungere il nostro Paese, nei centri d’accoglienza la
loro vita stagna in un Limbo di mesi, un’anticamera esasperante in cui, lontanissimi ormai dai
loro Paesi d’origine, attendono di fare il loro ingresso in Europa. Come si è detto, infatti, i
“campi” sono una sorta di non-luoghi, al contempo dentro e fuori dal contesto in cui sono
calati. Impossibilitati a provvedere alle proprie esigenze personali e a quelle dei familiari
lasciati in patria, l’attesa diventa la principale attività in cui si consumano i giorni, le settimane
e i mesi dei richiedenti asilo, che si trovano così a sperimentare una nuova versione di quella
che Sayad definisce la “doppia assenza del migrante”.
2. Tale prossimità senza intimità non solo non evolve in un graduale avvicinamento e in una
crescente conoscenza reciproca, ma rafforza stereotipi e diffidenze secolari che alimentano
l’equivoco e, se le condizioni lo favoriscono, perfino tensioni e conflitti – è il caso, per
esempio, di Tor Sapienza a Roma -.
In quest’attesa coatta che, come si è appena detto, costituisce la cifra dominante dell’esistenza
all’interno di qualsiasi centro di accoglienza, i richiedenti asilo si dedicano, con una profusione di
tempo e di energie davvero ragguardevole, ad alimentare un immaginario completamente avulso
dalla realtà che sperimentano. I destinatari di questa vera e propria rappresentazione drammatica
di sé, realizzata attraverso i potenti mezzi digitali e che va in scena soprattutto sul palcoscenico
virtuale dei social network, sono parenti e amici lasciati nei Paesi d’origine o sparsi per l’Europa,
magari in qualche altro “campo”. Ma soprattutto loro stessi. Basta aprire una pagina Facebook a
caso dei richiedenti asilo risiedenti a Villa Piazzo e a Villa Pasini per rendersi conto di quali siano gli
elementi irrinunciabili di tale accurata messa in scena: macchine, negozi straripanti di merce –
possibilmente non di prima necessità -, vestiti alla moda, cibo in abbondanza, pose da padroni o
da ricchi possidenti, donne bianche. Emerge, da queste rappresentazioni, un’immagine
dell’Occidente quasi archetipica e clamorosamente inattuale – se mai è stata tale – fatta di
consumismo, sesso, potere e bianchezza, nonché tutto la dismisura del desiderio che
quest’immagine ancora suscita in chi dall’Occidente e dalla torre d’avorio dei suoi eccessi si
sempre sentito escluso. Pare che l’appello alla decolonizzazione dell’immaginario e del desiderio
che Frantz Fanon lanciò dalle pagine de “I dannati della terra” all’epoca delle lotte di liberazione
africane nel 1961 sia ancora di là dal venire accolto. Aspirare a diventare bianco e dunque ad
accedere a pieno titolo al cerchio magico dell’Occidente, significa aspirare a tutti gli attributi che il
bianco ha sempre esibito, dalla colonia in avanti: appunto ricchezza, donne e potere. Un’indagine
approfondita e puntuale dei desideri e dei mondi immaginati e sognati dai migranti – non esclusa
quella categoria particolare che sono i richiedenti asilo – meriterebbe uno spazio che in questa
sede evidentemente non possiamo concedergli. E’ tuttavia interessante interrogarsi ancora sul
perché i richiedenti asilo continuino ad alimentare e a perpetuare tale immaginario – che va
tenuto nella massima considerazione per il fatto che, lungi dall’essere una dimensione impalpabile
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ed astratta, ha effetti di realtà di primaria rilevanza – anche quando si scontrano con una realtà
che queste fantasie smentisce quotidianamente.
Per prima cosa bisogna tenere in considerazione l’ingente investimento, esistenziale prima ancora
che economico, che un viaggio verso l’Europa comporta. Dalle storie che ai profughi è richiesto di
tradurre in forma cronologica e narrativa in vista delle audizioni presso la Commissione Territoriale
si ha la conferma, caso mai ce ne fosse bisogno, che si tratta sempre di percorsi di mesi e talvolta
di anni, fatti di battute d’arresto, di imprevisti continui, di tappe forzate, di fatica fisica e mentale,
di compromessi moralmente costosi, di perdite e di abbandoni, di orizzonti incerti e di mete
imprecise, che cambiano ad ogni nuovo arrivo e ad ogni nuova ripartenza. Non è difficile, dunque,
darsi ragione del fatto che a questo immaginario – il quale, vale la pena ribadirlo, affonda le sue
radici molto lontano nel tempo, nei particolari rapporti di dominio e colonizzazione che l’Europa
ha intrattenuto per secoli con il resto del mondo extraoccidentale – non sia così immediato
rinunciare, dal momento che esso ha giocato un ruolo tutt’altro che marginale nella scelta di
intraprendere un viaggio così oneroso, sotto tutti i punti di vista.
Ma ciò non basta a spiegare del tutto l’alacrità con cui i soggetti in questione individuano ed
estrapolano dal loro vissuto di ogni giorno oggetti, scenari e comparse i quali, abbinati in maniera
sapiente e precisa, come in un moderno bricolage, vanno poi a formare le scene quotidiane della
loro vita virtuale di successo, di cui le fotografie e i video su Facebook sono la prova inconfutabile
e sempre reiterata.
La cosa e il suo doppio.
Quanto scritto finora non deve far dimenticare che l’equivoco non è unidirezionale. Le immagini
fantasmatiche che i richiedenti asilo proiettano sul mondo occidentale che li circonda da quelle
eterotopie che sono i centri di accoglienza, non sono gli unici diaframmi ad interferire nella
relazione tra tali soggetti e gli abitanti dei territori che li contengono. Anche a Pettinengo, due
sono le visioni stereotipate che ricorrono più di sovente.
La prima è quella inquietante dell’invasore e dell’untore: così come i loro corpi esotici, venuti in
massa, sono potenzialmente latori di bacilli, virus, germi e batteri i quali, giunti da strani mondi
lontani, rischiano di contaminare o addirittura minacciare surrettiziamente la buona salute dei
corpi locali, allo stesso modo la presenza aliena di questi nuovi attori sociali, che un po’drenano
parassitariamente le già esigue finanze statali, un po’si collocano come competitori a basso costo
su un mercato del lavoro già saturo, rischiano di minare i precari equilibri di un corpo sociale già
gravemente malato. Nel punto di intersezione tra queste due paure – insidia al corpo biologico e
insidia al corpo locale – sta il timore estremamente diffuso – e anch’esso di antichissima data,
come può facilmente riconoscere chiunque abbia un po’di dimestichezza con la storia – che questi
nuovi soggetti del panorama locale possano sedurre le ingenue adolescenti residenti in paese.
La seconda è quella, al tempo stesso più rassicurante e benevola, del profugo come essere umano
disperato che, in fuga da guerre, carestie e brutalità di ogni genere, si riversa sulle coste europee
come un’onda in cerca affannosa e scomposta di un porto sicuro. Senza voler minimizzare i
cosiddetti fattori “push”, che nel panorama internazionale si fanno sempre più numerosi e
drammatici, questa visione ha il limite di non tenere in giusto conto i fattori “pull”, ossia quelle
promesse – puntualmente mancate –, quei canti da sirena con cui l’Occidente, lo voglia o no,
continua ad attrarre senza sosta chi sta al di fuori dei suoi confini. E non ci si riferisce, ovviamente,
soltanto a diritti e democrazia. Ma anche a ricchezza, consumismo e potere che, come abbiamo
detto, rappresentano tanta parte dell’immaginario di tanti migranti. Richiedenti asilo e profughi
inclusi. Il fatto che fuggano da persecuzioni, dittature, conflitti armati, carestie e così di seguito
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non implica automaticamente che questi soggetti non abbiano in mente un progetto ben definito,
delle aspettative, delle mete da raggiungere, un piano da seguire. Insomma, un’agency individuale
che non lo fa essere semplicemente oggetto, rifiuto umano sospinto dalle correnti tumultuose
della storia, ma soggetto protagonista della sua personale vicenda, decisore e fautore a sua volta
di storia.
Questi stereotipi incrociati, che l’attuale adiacenza fisica, come abbiamo detto, non aiuta a scalfire
ma piuttosto ripropone con maggiore evidenza e nitidezza di prima, ostacolano a loro volta il
passaggio da una logica categoriale a una logica relazionale. I richiedenti asilo restano, nella
visione comune, una classe, una categoria monolitica e senza crepe, a cui spesso il colore della
pelle conferisce un suggello visibile, dotata di attributi condivisi e generalizzati e con cui è possibile
relazionarsi in solido. Lo stesso vale per gli autoctoni visti dai richiedenti asilo, qualunque siano le
etichette con le quali vengono nominati e incasellati: bianchi, italiani, europei, occidentali.
Insomma, l’insidiosa dinamica nella quale i potenziali soggetti di questa relazione mancata restano
irretiti, con conseguenze nefaste per tutti, è quella del Noi/Loro, la quale non consente la scoperta
e l’ emersione delle storie e delle agentività individuali, delle tante e sostanziali differenze interne
alle categorie e agli altrettanto numerosi punti di contatto tra esponenti di categorie ritenute
irriducibilmente diverse e lontane.
3. L’attuale sistema d’accoglienza, infine, occupandosi fondamentalmente di rispondere alle
esigenze primarie dei richiedenti asilo, contribuisce a ridurre tali soggetti a “zoé”, ossia a
vita biologica o, per usare un’espressione divenuta molto ricorrente, a “nuda vita”
(Agamben).
Il centro di accoglienza, luogo di “esclusione inclusiva” (Zizek), soprattutto nelle sue versioni più
estemporanee e meno codificate che sono le cosiddette “emergenze”, a causa di lacune
normative, difficoltà logistico-organizzative, burocrazia farraginosa e, non da ultimo, cospicue
spese di gestione – almeno laddove i fondi pubblici vengono spesi effettivamente per le ragioni
per le quali sono stati stanziati, senza andare ad arricchire il malaffare – si occupano
prioritariamente ed essenzialmente di provvedere alle esigenze fisiologiche dei soggetti residenti,
attenendosi al logico precetto del “primum vivere”.
Dal momento però che la missione dei centri di accoglienza e degli enti che li gestiscono si
esaurisce o quasi, per i motivi sopra indicati, nel garantire tre pasti giornalieri, assistenza medica,
un riparo e un ambiente accogliente – nel migliore dei casi – e le energie degli operatori che
lavorano nelle strutture vengono impiegate in maniera pressoché totale per il raggiungimento di
tali obiettivi, quello che accade è che i richiedenti asilo, da soggetti politicamente e giuridicamente
individuati e attivamente impegnati nel farsi riconoscere un diritto, vengono automaticamente
trasformati in “vita biologica” o “nuda vita”, ridotti consapevolmente o meno ai loro bisogni vitali,
alle loro funzioni fisiologiche, alla loro sofferenza fisica, ai loro corpi. Questi ultimi, d’altronde,
vengono tramutati dal sistema in corpi-oggetto o corpi passivi, corpi ancora una volta in costante
attesa: di essere nutriti dal cibo preparato da altri, di essere coperti da vestiti procurati da altri, di
essere visitati secondo un calendario stabilito da altri, di muoversi in spazi di altri. Ma la
trasformazione non avviene del tutto e proprio il corpo diviene uno spazio conteso, l’ultimo luogo
di esistenza e resistenza, territorio di contrattazioni e di negoziazioni estenuanti, che si ha torto a
liquidare frettolosamente come futili o, addirittura, infantili. E’ il corpo dei migranti la vera pietra
di scandalo di tutte le politiche di immigrazione, di tutte le leggi che regolano l’asilo e l’iter per
ottenerlo perchè è il corpo di questi uomini e donne che nessun mancato riconoscimento, che
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nessuna etichetta di illegalità e clandestinità, che nessuna retorica xenofoba è in grado di
cancellare o di far scomparire dal nostro suolo nazionale e europeo, per quanto ardentemente lo
si desidererebbe. E’ questo corpo che costituisce il limite ostinato contro cui si infrangono le
strategie difensive della cosiddetta “Fortezza Europa” e che si tenta di “addomesticare” nei centri
di accoglienza, ciò che i richiedenti asilo reclamano indietro quando, come conseguenza di una
ipersorveglianza del proprio sonno, della propria alimentazione, della propria salute, non fanno
che richiedere visite specialistiche urgenti per motivi apparentemente futili, lamentarsi del cibo,
della temperatura degli ambienti e dell’insonnia, pretendere medicine, vestiti e scarpe nuove,
esigere, insomma, sempre nuove e più minuziose attenzioni per il loro corpo, che diventa il campo
di una vera rivendicazione politica attraverso la quale questi uomini e queste donne si rifiutano di
essere ridotti a “nuda vita”.
Imprigionati mai come ora entro i confini della loro dimensione fisica, il loro profondo disagio
esistenziale imbocca le strade impervie della carne, traducendosi nel linguaggio criptico ma
sempre estremamente evocativo del malessere corporeo o, tutt’al più – ma raramente –
psicologico.
Relazioni locali: logiche del diritto e logiche del dono
Prassi e teorie dell'accoglienza non possono essere concepite senza interessarsi dei contesti
specifici nei quali si trovano ad essere prodotte. La sola attenzione formale per gli aspetti logistici e
giuridico istituzionali dell'accoglienza rischia di dimenticare aspetti fondamentali di ordine sociale
e relazionale che se tralasciati possono emergere anche in forma radicale come ha testimoniato la
recente rivolta di una parte degli abitanti del quartiere Tor Sapienza a Roma, sommossa scatenata
direttamente contro le strutture ospitanti numerosi richiedenti asilo in uno scenario di crescente
degrado sociale e culturale. L'elemento scatenante la rivolta è stato il divieto di ingresso agli
stranieri in un bar con il conseguente effetto domino che esso ha generato dando sfogo a tensioni
e malumori accumulati.
Rispetto a questa nuova tipologia migratoria ed alle conseguenti azioni istituzionali di
organizzazione dell'accoglienza la popolazione necessita di essere informata, compresa ed in
qualche misura coinvolta.
Fra le criticità comunicative è da rilevare come i soli eventi mirati ad informare gli abitanti di un
territorio relativamente alle ragioni della presenza di richiedenti asilo sul territorio locale hanno
spesso un impatto ridotto giacché il tema dell'immigrazione - come altre tematiche in Italia risulta essere estremamente polarizzato su estremi ideologici che affondano le radici nello
scenario politico nazionale (mediatico) col risultato che le posizioni assunte rispetto all'argomento
sembrano immuni da qualsiasi argomentazione che viene costantemente letta come pretestuosa e
diviene generalmente obiettivo polemico. Inoltre gli stessi eventi comunicativi che mirano a
fornire informazioni generiche sono disertati proprio da coloro che si pongono per principio su
posizioni contrarie ad ogni sorta di accoglienza e che, a maggior ragione, avrebbero necessità di
essere raggiunti dalle informazioni sul tema e trovare risposte a quesiti specifici sull'argomento.
L'accoglienza si pratica dunque inevitabilmente in uno scenario locale caratterizzato da ampio
pregiudizio con posizioni ideologiche spesso inconciliabili.
In un territorio di dimensioni ridotte come quello di Pettinengo si è dunque immaginato un
percorso che potesse unire la sensibilizzazione dell'opinione pubblica, rispetto ad alcuni capisaldi
dell'accoglienza, alla raccolta di informazioni rispetto agli umori, all'immaginario ed alla
disponibilità degli abitanti a collaborare su vari progetti. I risultati dei questionari distribuiti casa
per casa sono stati in linea con le aspettative formulate in base alle ragioni delineate in
precedenza. Dalla restituzione pur limitata (nella misura del dieci per cento o poco più) dei
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questionari distribuiti emerge soprattutto la posizione più critica rispetto alla presenza dei
richiedenti asilo sul territorio locale, come se i più motivati alla compilazione del questionario
fossero coloro che ritenevano di poter finalmente far sentire la propria voce critica. La
maggioranza delle risposte polemiche ricevute non si basa su alcun tipo di fatto o disagio reale
accaduto, ma sembra esprimere un parere contrario in pura linea di principio ricorrendo ad una
retorica che fa eco ai più ampi dibattiti politici in tema di immigrazione che, come noto,
alimentano paure e timori di vario genere oppure, al contrario, fanno leva in maniera stucchevole
sul valore umano dell'accoglienza. Rispetto ai contenuti, accanto alle notevoli preoccupazioni che
le risorse spese per l'accoglienza siano sottratte agli italiani indigenti e, alla visione generale che
identifica i richiedenti asilo come una massa di individui pericolosi e privi di scrupoli, si mescolano
altre prospettive paternalistiche che descrivono gli immigrati come individui bisognosi, spesso
ridotti in miseria dalle condizioni proibitive alle quali sono stati esposti, a cui è necessario elargire
beneficienza. Risulta difficile trovare riscontri di posizioni critiche che incanalano la questione sui
binari del diritto e delle reali condizioni che soggiacciono alla partenza di differenti individui che,
con motivazioni dissimili, si allontanano da diversi contesti internazionali. Sembrano peraltro
sconosciute o sottovalutate le ragioni giuridiche e morali che regolano il diritto d'asilo e obbligano
gli Stati ad organizzare l'accoglienza dei richiedenti asilo sia in stato di emergenza che attraverso
risposte strutturali.
I questionari si sono comunque rivelati un utile strumento per testimoniare la presenza, al
cospetto di persone completamente avverse all'ospitalità in ogni sua forma - con evidenti derive
razziste - per le motivazioni prima addotte, di posizioni intermedie, fondamentalmente non
critiche, superficialmente tolleranti o del tutto indifferenti all'argomento e, tra i favorevoli
all'accoglienza dei richiedenti asilo in strutture del territorio, una decina di persone che si sono
rese disponibili a collaborare facendosi coinvolgere come volontari in attività di diverso tipo.
Insomma, indipendentemente dalle posizioni ideologiche che strutturano le retoriche e creano
ostacolo ad una comprensione olistica della tematica è da sottolineare l'emersione di un
fraintendimento che fa valutare la pratica dell'accoglienza come un dono (che deve essere
meritato ed esige essere contraccambiato) anziché come un diritto (il cui esercizio è indipendente
dalle relazioni contestuali). L'azione comunicativa dovrebbe dunque mirare a risolvere questo
malinteso di fondo che costituisce di fatto le fondamenta di un'architettura retorica pregiudiziale.
La sfida è quella di garantire il diritto inserendolo in una più ampia logica del dono, cornice
propedeutica al miglioramento delle relazioni locali e del futuro inserimento dei richiedenti asilo
nel tessuto sociale (dettagliare più avanti).
Per ottenere una risposta meno sommaria e più articolata rispetto a sensazioni, idee ed umori
presenti sul territorio locale si sono prodotti diversi incontri con le associazioni locali fatta la
considerazione che in un paese di poco più di mille abitanti si possono contare venti realtà
associative segno evidente di un certo fermento e volontà degli abitanti di costruire sulla base di
valori comuni.
Dai rappresentanti del mondo dell'associazionismo e da alcuni informatori privilegiati intervistati
(parroco, sindaco, etc.) non solo è stata data conferma delle impressioni suscitate dalla lettura dei
questionari raccolti ma sono state avanzate anche ipotesi di collaborazione per progettualità
condivise tra i richiedenti asilo e gli abitanti di Pettinengo per ricavarne vantaggi comuni .
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Accoglienza: da dispositivo di produzione di marginalità a luogo di creazione di cittadinanza
Se le pratiche di accoglienza a livello locale risentono di criticità derivanti da un sistema ancora
acerbo ed incerto a livello nazionale, il rischio è quello di erogare servizi vincolati ad una sola logica
assistenzialistica alimentando il senso di frustrazione comune ad operatori ed ospiti che si trovano
costretti a vivere una situazione che si replica costantemente in maniera indefinita senza colmare
le aspettative di senso che ciascuno investe nel proprio progetto professionale o di vita.
Soprattutto nella prima fase, durante i primi mesi di soggiorno in Italia, quando i richiedenti asilo
per legge non possono lavorare e si trovano gioco-forza in una situazione di isolamento all'interno
delle nuove strutture di accoglienza, c'è il pericolo che queste ultime possano lentamente
degenerare finendo per assomigliare a luoghi poco virtuosi di organizzazione della vita comune,
che prendono a modello ora la caserma - con regole ferree imposte e non negoziate, con continui
richiami autoritari alla disciplina -; ora la scuola (o asilo) - con una sorta di infantilizzazione degli
ospiti che, resi incapaci di agire, necessitano della guida paternalista, alle volte buonista altre volte
severa, dell'insegnante; o ancora, malauguratamente, dell'ospizio - in cui sono gli stessi ospiti ad
adagiarsi su una situazione di vana comodità assistenziale, divenendo volontariamente o meno
corpi docili rassegnati ad essere trattati come corpi inutili (ma ostinati). Affinché vengano
scongiurate tali derive - in cui possono trovare spazio rivendicazioni spesso esagerate degli ospiti l'accoglienza dovrebbe essere basata sulla consapevolezza che essa si fonda sul riconoscimento di
un diritto e che deve essere praticata sulla base di regole condivise, negoziate di volta in volta con
i soggetti coinvolti: responsabili, operatori, ospiti. La produzione negoziata delle regole e la loro
periodica discussione permette una maggiore responsabilizzazione e disponibilità al loro rispetto
da parte di tutti gli attori in gioco. Al contempo una ragionata organizzazione dell'accoglienza può
trasformare uno spazio ordinato adibito ad un temporaneo parcheggio dei richiedenti asilo in una
via, pur tortuosa, verso la loro autonomia. Una progettualità a livello locale che consenta di
interagire con il circondario può essere un utile strumento per tracciare un iniziale cammino verso
un miglioramento delle relazioni con il territorio volto ad una progressiva autonomia dei singoli.
Micro-progettualità: Inte(g)razione
È chiaro che l'autonomia, soprattutto quella lavorativa, non si può conquistare in tempi rapidi,
soprattutto se teniamo presenti le reali condizioni socio-economiche che riguardano attualmente i
nostri territori. Se l'obiettivo è quello dell'integrazione, allora è possibile lavorare ad attività che
consentano un costante incremento delle interazioni tra ospiti e residenti locali per costruire
percorsi di conoscenza reciproca basati su pratiche ed obiettivi condivisi.
Il primo passo verso l'integrazione al tessuto locale è sicuramente l'apprendimento della lingua
italiana. Non è necessario ricorrere al sapere antropologico per predisporre l'insegnamento di una
lingua. Bravi docenti sanno raggiungere ottimi risultati ricorrendo a metodi tradizionali che basano
l'insegnamento sull'alfabetizzazione e sulla trasmissione sostanzialmente ripetitiva di elementi
grammaticali e sintattici via via più complessi che i discenti debbono individualmente elaborare e
coniugare in enunciati di senso pertinenti. Inutile dire che questa metodologia avvantaggia
soprattutto coloro che sono già stati scolarizzati in precedenza e perciò possiedono strumenti più
adeguati per imparare attraverso una metodologia teorica di istruzione alla quale sono già stati
abituati fin da bambini. Gli analfabeti e coloro che sono stati istruiti in un alfabeto diverso da
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quello latino incontrano inevitabilmente difficoltà che presto o tardi potrebbero trovare
insormontabili. L'antropologia può invece suggerire metodologie maggiormente critiche che fanno
riferimento ad una cultura linguistica sempre più pratica, reticolare, collaborativa ed induttiva,
liberando così le lezioni da metodi frontali, generici, individualistici, deduttivi e ripetitivi.
Nella pratica si tratta di immaginare un metodo collaborativo facendo diventare la classe un
insieme di gruppi di scopo, connessi fra loro in un tipo di apprendimento attivo. Si tratta di
invertire metodologicamente teoria e pratica come avviene nell'apprendimento di una lingua
naturale che si produce in maniera spontanea e delega al successivo contesto scolastico
l'insegnamento di strutture grammaticali e sintattiche che già si sanno applicare nel parlato. Se
l'insegnamento linguistico scolastico tradizionale tendeva ad attribuire primaria importanza
all'elemento della correttezza grammaticale, a partire dalla seconda metà del secolo scorso lo
scopo della glottodidattica si è orientato maggiormente sull'acquisizione, da parte del discente, di
efficacia comunicativa soprattutto nel parlato corrente. Gli esercizi di un insegnamento più
tradizionale mirano "alla fissazione più che all'uso della lingua", mentre nelle "attività" di un
metodo situazionale viene richiesta la messa in campo di creatività nel risolvere un compito
(fittizio o reale) con l'utilizzo della lingua che si sta apprendendo. Il cosiddetto insegnamento
situazionale prevede dunque che la lingua sia fin dall'inizio "agita" in situazioni specifiche ove le
locuzioni quotidiane non hanno senso rispetto ad un significato che risiede nelle strutture più
profonde del linguaggio ma divengono significative in base al loro uso grazie al potere che hanno
di far succedere delle cose. Insomma è molto più facile memorizzare la frase "passami il sale"
quando sei seduto a tavola e verifichi che dicendo quelle parole qualcuno procurerà di darti ciò
che hai chiesto piuttosto che studiare a tavolino la composizione grammaticale della frase data da
soggetto, verbo e complemento richiedendo poi la sua memorizzazione (decontestualizzata) ed il
suo utilizzo nel momento più adeguato. Questa metodologia di ispirazione pratica si rivela poi di
grande utilità qualora divenga pretesto di frequentazione ed interazione con il territorio
circostante e con i suoi residenti, particolarmente se organizzato logisticamente in maniera che le
lezioni possano svolgersi all'aperto, trasformando spazi pubblici in luoghi di incontro e relazione.
Un esempio concreto in questo senso è dato dal progetto In piazza s'impara (sviluppato anche a
Torino) che fornisce spunti teorici ed utili indicazioni pratiche sull'organizzazione di corsi di lingua
in contesti pubblici con l'installazione di gazebo grazie ai quali si tengono lezioni in piazza, al
mercato, ai giardini pubblici. Al contempo negli stessi luoghi possono aver luogo sessioni di
conversazione in lingua straniera che permettono di valorizzare le competenze linguistiche già
possedute dagli stessi richiedenti asilo (soprattutto relativamente alla loro conoscenza della lingua
inglese e francese) producendo automaticamente nuove possibili occasioni di conoscenza e
scambio.
Rispetto a tali argomenti sono state coinvolte diverse realtà locali (scuole medie, oratorio, diverse
associazioni) che hanno affermato - per il momento soltanto attraverso una generica dichiarazione
di intenti - di voler collaborare allo sviluppo di iniziative che prevedano uno scambio linguistico
come iniziale attività finalizzata ad una reciproca conoscenza in grado di procurare vantaggi
comuni.
Nel solco delle medesime intenzioni di favorire possibilità di incontro degli ospiti con differenti
realtà sociali per generare occasioni di interazione, scambio culturale e conoscenza è stato attivato
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un progetto che coinvolgerà gli allievi dell'Istituto Alberghiero di Trivero e che avrà nella
conoscenza di differenti ingredienti e nella preparazione di pietanze il suo focus centrale nella
convinzione che il miglior incontro si realizzi non tanto nel raccontarsi reciprocamente quanto
nell'individuare obiettivi comuni che consentano un "fare insieme".
Altre realtà associative locali si sono poi rese disponibili per offrire opportunità di svago e scambio
nell'ambito delle loro specifiche attività ed interessi per agevolare l'inserimento dei richiedenti
asilo nella nuova realtà sociale.
L'importanza di queste iniziative non è quella filantropica o caritatevole di incontro fine a se stesso
ma mira al coinvolgimento come strumento privilegiato di costruzione e trasformazione delle
relazioni sociali per le quali i richiedenti asilo, attraverso un lento processo di interazione
linguistica e di conoscenza di ambiti e persone legate ad attività specifiche, vedranno la loro
condizione di ospiti (bene o mal tollerati) mutare in quella di abitanti di un territorio.
Progetti produttivi: Gente che r/accoglie
L'associazione Pacefuturo ha già varato una serie di azioni nell'ambito del progetto Pettinengo: un
paese che accoglie, volte ad operare nel settore produttivo e commerciale privilegiando un
approccio dichiaratamente volto alla costruzione di un futuro sostenibile, allargando la prospettiva
culturale dal locale al globale attraverso l'educazione e la promozione di nuove forme di
cittadinanza riservando particolare attenzione al patrimonio paesaggistico antropico ed
incoraggiando la solidarietà e l'integrazione socio-economica dei soggetti svantaggiati. Tra le
iniziative produttive già avviate si segnala Incontrarsi nell'altro un progetto di raccolta e
trasformazione di erbe spontanee, esempio di riuscita sperimentazione soprattutto sul piano del
marketing e dell'impiego di collaboratori reclutati tra le fila dei richiedenti asilo per la raccolta ed
essicazione delle erbe.
Altri progetti di Pacefuturo riguardanti apicoltura, tessitura a mano, laboratorio di ceramica,
raccolta di frutti e manutenzione di aree verdi sono già stati iniziati o sono in fase di attivazione.
Inoltre gli incontri con le associazioni del territorio hanno suggerito di procedere nel senso di una
progressiva riattivazione di attività ormai desuete in accordo al ciclo stagionale, che preveda la
realizzazione di orti in terreni inutilizzati; il recupero di orti la cui coltivazione è progressivamente
abbandonata dagli anziani proprietari pensando anche ad un recupero delle loro competenze in
chiave didattica; l'allestimento di un vivaio per la produzione di piante; ideare collaborazioni per la
manutenzione e la pulizia di boschi e bordo strade per rispondere all'ordinanza provinciale;
raccolta e lavorazione di frutti altrimenti abbandonati (mele, castagne, etc.).
L'inserimento di tali progettualità nel contesto locale può avvenire in maniera virtuosa a patto che
la logica produttiva e di opportunità individuale vengano incorporate nella logica delle relazioni
sociali. Questo può significare un parziale mutamento di approccio che non perda di vista gli
obiettivi commerciali ma ponga la necessaria attenzione al processo di attivazione, organizzazione
e sviluppo delle progettualità. Si tratta in pratica di recuperare il concetto di scambio inteso come
celebrazione della reciprocità che non si sviluppa secondo una stretta logica del profitto, in
un'operazione che semplicemente ottimizza costi e guadagni, ma mira, attraverso un
comportamento economico, a rinsaldare le relazioni sociali. Dare, ricevere e contraccambiare è il
meccanismo che dovrebbe essere reso operativo come logica di funzionamento generale di ogni
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progettualità che abbia come scopo quello di valorizzare le relazioni sociali. Insomma se Carlo
offre una birra a Gianni, Gianni attenderà l'occasione per sdebitarsi e appena possibile offrirà
un'altra birra a Carlo. Lo scambio economico è a somma pari ciascuno ha pagato e bevuto due
birre. Avrebbero potuto bersele ognuno per conto suo ed il risultato economico non sarebbe
cambiato. Ciò che cambia in questo caso è il rapporto tra i due conoscenti che hanno
simbolicamente rinsaldato la loro relazione attraverso una serie di scambi. Se la logica monetaria
mira a rendere gli scambi equi e a disimpegnare gli individui, la logica della reciprocità tende
invece ad impegnare gli individui rendendoli costantemente "indebitati" per ottenere un vantaggio
maggiore di natura sociale. Re-incorporare l'economico nel sociale è dunque un'operazione che
può trovare vantaggi nella costruzione di un tessuto comunitario.
Non a caso la pulizia di strade e sentieri o l'impegno in attività volontarie dei richiedenti asilo che
producono vantaggi comuni sono apprezzate da parte dei residenti locali che vedono in queste
iniziative la restituzione di quell'accoglienza sul territorio che viene (erroneamente) interpretato
come un dono (anziché come il riconoscimento di un diritto).
Per il medesimo motivo la raccolta delle castagne avvenuta durante lo scorso mese di novembre
ha costituito un momento di grave criticità che ha alimentato la diffidenza diffusa rispetto alla
presenza dei migranti in paese. Improvvisata e non pianificata dovutamente, la raccolta ha messo
a nudo la delicatezza degli strumenti a disposizione per creare relazioni virtuose con il territorio.
L'iniziativa ha contrapposto interessi di parte, promuovendo la raccolta per il vantaggio di alcuni
apparentemente a danno di altri. Il coinvolgimento dei migranti è apparso strumentale, poco
delicato ed ha fornito appigli sostanziali ai detrattori dell'accoglienza che hanno potuto
riaffermare la loro retorica vedendo nell'iniziativa una sorta di appropriazione indebita perpetrata
da estranei che vengono ad impossessarsi delle scarse risorse locali.
Impostare future progettualità basate sulla raccolta di frutti normalmente inutilizzati per ricavarne
un vantaggio collettivo significa pianificare le azioni coinvolgendo gli stessi proprietari delle piante
sia riguardo la raccolta sia riguardo la condivisione progressiva della lavorazione dei prodotti
tenendo presente che oltre ai vantaggi economici ottenuti dall'impiego di mano d'opera migrante
e locale e, della possibile commercializzazione dei prodotti derivanti dalla trasformazione dei
prodotti altrimenti inutilizzati, l'obiettivo principale sarà quello di generare gruppi di lavoro
eterogenei che consentano di rafforzare le relazioni in una cornice di scambio e reciprocità. Solo
costruendo relazioni di reciprocità attraverso progettualità diverse diverrà possibile il
raggiungimento dell'ambizioso obiettivo di rendere il futuro sostenibile anche dal punto di vista
delle relazioni comunitarie.
Da Ospiti ad Abitanti
Accanto all'interazione come principio di base propedeutico all'integrazione, intesa come lo
sviluppo di progetti per tutti, ed alla reciprocità, vista come cornice di senso nella quale inserire le
iniziative e le attività, si dovrà cercare di affermare il concetto di abitante che consente di superare
le dicotomie esistenti tra residenti locali ed ospiti stranieri ricomprendendoli in una categoria che
indica le relazioni costruite sul territorio locale. I progetti destinati non solo ai nuovi arrivati ma
volti alla creazione e crescita di relazioni sul territorio possono rispondere alla volontà di operare
un tentativo di edificazione di rapporti definibili come comunitari (per un esaustivo sviluppo del
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concetto di comunità nei contesti contemporanei cfr. Z. Bauman, Voglia di comunità, 2001,
Laterza).
La costruzione di tale tipo di rapporti può essere agevolato anche compiendo uno sforzo che operi
sul piano specificamente simbolico oltre a quello delle attività produttive.
In particolare l'attivazione di un progetto teatrale si potrebbe delineare come un’occasione da non
perdere per prevedere un’importante occasione di espressione creativa e socializzazione tra gli
ospiti richiedenti asilo ed un gruppo di residenti di Pettinengo. Non solo, l'esperienza teatrale
significherebbe anche dare origine ed impulso ad una forma potente di riflessione collettiva.
Il teatro trova la sua origine nel rito e costituisce un'opportunità comunicativa e di espressione di
grande impatto e potenza in cui la condizione di estrema precarietà esistenziale in cui versano gli
ospiti delle strutture può trovare una rinnovata interpretazione. Lo sviluppo di attività laboratoriali
e performative può inoltre offrire uno spazio simbolico in cui le convenzioni della vita quotidiana
vengono sospese. In tale spazio la vita ordinaria può essere reinterpretata e sottoposta a giudizio e
valutazione diventando uno luogo non solo di svago e di incontro con l’altro ma di vera e propria
riflessione critica (e politica, nel senso nobile del termine) nei confronti della realtà.
La stessa prassi dell'azione teatrale, affine per l'appunto a quella rituale, permette inoltre di
"agire" la realtà anziché riprodurla attraverso una modalità discorsiva e narrativa alla quale spesso
gli ospiti provenienti non solo dall'Africa sono poco abituati (ma paradossalmente richiamati di
continuo a riprodurre nella costruzione incessante di racconti relativi alla loro esperienza
migratoria). La performance teatrale si configura quindi come un'opportunità creativa di
attribuzione di un nuovo senso all'esperienza iniziata in Italia rinsaldando i legami con gli altri
ospiti delle strutture e con gli abitanti di Pettinengo che vorranno partecipare ai laboratori teatrali
organizzati da Stalker.
L’attuale sistema di gestione dell’accoglienza da parte dell’Associazione “Pacefuturo”
e le prospettive future
Conviene, in chiusura, esaminare almeno per sommi capi la maniera in cui l’Associazione
“Pacefuturo” ha gestito l’accoglienza dei richiedenti asilo fino ad oggi allo scopo di individuarne le
debolezze e intervenire su di esse, anche in vista di un possibile passaggio da progetto
emergenziale a progetto strutturato secondo le linee guida del sistema nazionale SPRAR.
Vale la pena ricordare che “Pacefuturo”, dopo una circoscritta esperienza di accoglienza nel 2012
in occasione della cosiddetta “Emergenza Nord Africa”, nel Marzo 2014, in risposta all’”Emergenza
Primavera”, si è resa disponibile ad occuparsi dell’ospitalità presso Villa Piazzo a Pettinengo di 24
profughi provenienti per la maggior parte dall’Africa sub sahariana.
Anche a conseguenza del drammatico incremento di sbarchi che ha tristemente caratterizzato il
2014 a ragione del moltiplicarsi dei fronti di conflitto sul piano internazionale, agli enti gestori
dell’accoglienza è stato richiesto di attrezzarsi per ampliare i posti a disposizione nelle loro
strutture. A Settembre, pertanto, Pacefuturo ha ottenuto dalla Diocesi di Biella in comodato d’uso
gratuito l’edificio noto come Villa Pasini a Pettinengo, in cui sono stati alloggiati 25 nuovi
richiedenti asilo, anch’essi provenienti dall’Africa sub-sahariana.
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Attualmente, come da accordi con l’Amministrazione Comunale, a Villa Piazzo risiedono soltanto 5
richiedenti asilo e sono stati affittati quattro appartamenti occupati rispettivamente da 15 persone
divise in tre alloggi a Ronco Biellese e 8 persone a Vaglio Pettinengo. Si tratta di unità abitative
solo parzialmente autonome: gli ospiti, infatti, non hanno la possibilità di cucinare da sè i pasti,
che vengono preparati nella cucina di Villa Piazzo e poi smistati quotidianamente, a pranzo e a
cena, nelle diverse sedi dell’accoglienza.
La gestione del progetto vede impegnati oltre al Coordinatore, cinque operatori diurni – con
diverse mansioni e diversi orari -, quattro operatori notturni, due cuoche, tre insegnanti di italiano
e si avvale della collaborazione di due antropologi culturali. In aggiunta al personale, alcuni
abitanti del comune di Pettinengo si sono avvicendati in questi mesi nel prestare servizio
volontario presso le strutture di Villa Pasini e Villa Piazzo.
Alla luce dei mesi di “osservazione partecipante” presso i diversi centri di accoglienza gestiti
dall’associazione, chi scrive ha individuato due aspetti che renderebbero più efficace ed incisivo il
lavoro, per il resto assolutamente ammirevole, svolto dagli operatori e, in piccola misura, dai
volontari:
1. Un miglior coordinamento: se la flessibilità e la capacità di adattarsi a situazioni che sono
per loro stessa natura estremamente mutevoli non può che essere una delle caratteristiche
fondamentali di un sistema di accoglienza emergenziale – e sono indubbiamente tratti
distintivi della gestione di “Pacefuturo” -, ciò non toglie che l’intera macchina organizzativa,
che si fa via via sempre più complessa, trarrebbe un notevole vantaggio da una più precisa
distinzione dei ruoli tra gli operatori e un maggior coordinamento all’interno del personale
e tra questo e i volontari che generosamente si prestano a collaborare. Spesso gli operatori
si trovano a far fronte in maniera estemporanea e non pianificata a situazioni facilmente
prevedibili e per le quali si sarebbero potute trovare soluzioni più tempestive e funzionali.
Non solo, poi, occupandosi tutti di tutto e mancando un vero e generale coordinamento,
spesso è difficile avere il quadro completo della situazione e individuare chi è il
responsabile dei vari aspetti del servizio di accoglienza, ma negli ultimi mesi molto è stato
lasciato all’iniziativa, alla creatività e alla buona volontà dei singoli soggetti (sia del
personale, sia dei volontari), senza che le diverse attività fossero inserite in una più ampia
cornice di senso, senza che fossero dirette ad alcuno scopo dibattuto e condiviso e spesso
senza nemmeno la garanzia che fossero portate a termine. Se la gestione emergenziale di
un fenomeno migratorio così peculiare e così complesso non può che produrre stati di
ansia, frustrazione e smarrimento anche in chi lavora nel sistema dell’accoglienza,
bisognerebbe dunque tentare di ridurre al minimo, nei limiti del possibile, i margini di
confusione e di incertezza, per non gravare gli operatori di ulteriori carichi di lavoro e di
stress, alla lunga difficilmente sostenibili. Se una programmazione di lungo periodo non
sembra ipotizzabile, si potrebbero però prevedere degli incontri a scadenza settimanale o
bimensile durante i quali stabilire un calendario e una ripartizione delle incombenze e delle
responsabilità, ma anche condividere gli obiettivi generali del progetto, le finalità a cui
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tendere, le attività avviate, facendo periodicamente il punto della situazione, discutendo il
senso delle azioni intraprese e individuando collegialmente le soluzioni più opportune per
rispondere a eventuali contingenze problematiche o a possibili difficoltà dei singoli
operatori.
2. Una maggiore consapevolezza: se il personale dell’Associazione “Pacefuturo” si è senz'altro
distinto in questi mesi per dedizione al lavoro, flessibilità e sensibilità umana, in alcuni
momenti sembra risentire di una conoscenza approssimativa del fenomeno che è chiamato
a vario titolo a gestire, nonché delle sue complesse implicazioni politiche, giuridiche,
sociali, antropologiche e psicologiche. Avere strumenti che consentano di leggere ed
interpretare la realtà in cui si lavora quotidianamente in maniera critica, mette infatti
almeno in parte al riparo dalle pesanti frustrazioni e dalla fatica mentale che comporta la
condivisione giornaliera di spazi e luoghi con persone in situazione di grave disagio, il cui
linguaggio, le cui strategie esistenziali, i cui progetti e le cui azioni appaiono spesso opache
e difficilmente comprensibili. Per ovviare almeno in parte al senso di frustrazione e alla
stanchezza psicologica che rischiano con il tempo di creare disaffezione o addirittura
insofferenza al lavoro da parte del personale, con evidenti ripercussioni negative sulla
qualità del servizio offerto agli ospiti delle strutture, sarebbe consigliabile fornire agli
operatori dei mezzi per comprendere meglio l’ampio sistema in cui sono inseriti e le
dinamiche che spesso si instaurano nei centri di accoglienza. Si potrebbero dunque
prevedere degli incontri di formazione e/o auto-formazione con scadenza da stabilire su
alcuni temi che siano riconosciuti collettivamente come importanti da discutere insieme ed
analizzare in maniera più approfondita. Anche questo sarebbe un modo per far sì che la
convivenza non si riduca a semplice concomitanza fisica – la quale rischia addirittura di
confermare o esacerbare certi pregiudizi e stereotipi di vecchia data – ma al contrario si
trasformi in un’occasione per tutti per acquisire maggiore consapevolezza e senso critico.
Questa maggiore coscienza del proprio ruolo, del sistema in cui si è inseriti e delle
dinamiche che lo percorrono e lo attraversano, può costituire inoltre un importante argine
a quello sconfinamento tra mansione lavorativa e coinvolgimento personale che riguarda
molti operatori sociali.
Quanto scritto poco sopra risulta tanto più rilevante e urgente se si intende andare nella direzione
auspicabile di una cosiddetta accoglienza diffusa, ossia un’accoglienza che non preveda più, o solo
in minima parte, la concentrazione di un numero elevato di persone in un’unica struttura (è il caso
per esempio di Villa Pasini), ma che consista invece in nuclei abitativi di ridotte dimensioni
dislocati in maniera il più possibile capillare sul territorio provinciale oppure nell’accoglienza dei
richiedenti asilo presso le abitazioni di privati cittadini che si rendano disponibili. Non solo questa
è la direzione in cui spinge il protocollo Stato-Regioni siglato a Luglio dello scorso anno, che
vorrebbe le strutture di emergenza confluire progressivamente nel sistema nazionale SPRAR, ma
l’Associazione “Pacefuturo” ha già cominciato a muoversi esattamente in questo senso, affittando
quattro appartamenti tra Vaglio Pettinengo e Ronco Biellese.
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Optare per un’accoglienza diffusa, che si adegui sempre più alle linee-guida SPRAR, significherebbe
per l’organizzazione e per il suo personale focalizzare ancora di più le proprie energie e la propria
attenzione sui processi individuali di autonomizzazione dei richiedenti asilo e sui processi sociali di
integrazione sul territorio che sono, infatti, tra i principali obiettivi che il sistema SPRAR
esplicitamente si pone.
Si tratterebbe dunque di uscire in maniera definitiva dalla logica meramente assistenziale a cui la
gestione emergenziale del fenomeno spingerebbe – ma alla quale l’associazione “Pacefuturo” ha
fin da subito tentato in vari modi, come si è visto, di sottrarsi -, e di preoccuparsi piuttosto di
sostenere i richiedenti asilo nell’orientarsi all’interno del nuovo territorio, nell’individuarne le
opportunità sulla base delle proprie competenze, inclinazioni, potenzialità e possibilità e nel
cercare una via personale all’autonomia.
Nel “Manuale operativo per l'attivazione e la gestione di servizi di accoglienza e integrazione per
richiedenti e titolari di protezione internazionale” del Servizio Centrale del Sistema di Protezione
per Richiedenti Asilo e Rifugiati, si legge fin dalle prime frasi programmatiche che il sistema SPRAR
ha “come obiettivi principali: garantire misure di assistenza e di protezione della singola persona;
favorirne il percorso verso la (ri)conquista della propria autonomia” (p.4). Pertanto è necessario
che “gli interventi materiali di base, quale la predisposizione di vitto e alloggio, siano contestuali a
servizi volti a favorire l'acquisizione di strumenti per l'autonomia”(p.4). Ciò significa garantire i
seguenti servizi: “Assistenza sanitaria; assistenza sociale; attività multiculturali; inserimento
scolastico dei minori; mediazione linguistica e interculturale; orientamento e informazione legale;
servizi per l'alloggio; servizi per l'inserimento lavorativo e servizi per la formazione”.
Appare evidente, dunque, che, al fine di tener fede a tali impegni, l’Associazione dovrebbe non
solo migliorare il coordinamento tra gli operatori e fornire loro strumenti che li mettano in grado
di assolvere la loro delicata funzione in maniera più cosciente e consapevole – come si è poco
sopra suggerito –, ma potrebbe utilmente avvalersi della collaborazione di figure professionali
qualificate in ambito psicologico, sociale, giuridico e così via.
Sempre nel documento sopra citato leggiamo infatti che: “Ogni progetto di accoglienza dovrebbe
prevedere un'équipe con la presenza di alcune figure professionali con competenze specifiche:
assistente sociale e/o psicologo; educatore professionale; mediatore interculturale e linguistico;
operatore legale e/o avvocato” (p.19).
Tale adeguamento progressivo alle linee-guida SPRAR, che, vale la pena ribadirlo, “Pacefuturo” ha
già avviato negli ultimi mesi, potrebbe costituire, dunque, un fase propedeutica alla partecipazione
ad un bando SPRAR vero e proprio, in collaborazione con un ente locale, il quale si deve
obbligatoriamente candidare a titolare del progetto.
I requisiti tecnici e giuridici per partecipare ai bandi SPRAR sono reperibili nel sito:
http://www.serviziocentrale.it
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