come funziona l`accoglienza

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come funziona l`accoglienza
Immigrazione
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c
ome funziona l’accoglienza
Non c’è solo il Centro di Lampedusa:
le diver se strutture, le molte lacune
C’
è molta confusione sull’immigrazione, a partire dalla mescolanza di
situazioni che andrebbero invece distinte, come quelle dei migranti per lavoro e
dei richiedenti asilo. I migranti vengono identificati in toto con gli sbarcati a Lampedusa e sulle coste meridionali. Dopo le tragedie dei mesi scorsi, si usa meno l’etichetta di «clandestini», ma perdura la visione di un’immigrazione come fuga dalla povertà e dalla disperazione. Il ruolo attivo degli immigrati è in continua crescita malgrado
la crisi: oltre il 10% degli occupati complessivi nel 2012,1 senza contare lavoratori stagionali e lavoratori coabitanti
con i datori (collaboratrici familiari fisse e soprattutto assistenti familiari, dette volgarmente badanti). Ma tutto questo sfugge al discorso pubblico e mediatico, concentrato sugli sbarchi.
A questo proposito, disordini, incidenti, notizie di trattamenti disumani rilanciano le polemiche sulle strutture pubbliche destinate ad accogliere o a trattenere richiedenti asilo, rifugiati, immigrati non autorizzati destinati all’espulsione. Anche su questo argomento regna però molta confusione: le
proteste sulle docce all’aperto di Lampedusa rilanciano la richiesta di chiudere i Centri di identificazione ed espulsione e magari di abolire la legge BossiFini. Vorremmo qui fornire un contributo di chiarimento sulle strutture che
con finalità anche molto diverse accolgono immigrati stranieri e sulle più vistose lacune del sistema.
Il sito del Ministero dell’interno ru-
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brica sotto un generico «Centri dell’immigrazione» tre tipi di strutture: i Centri di accoglienza (CDA), i Centri di accoglienza richiedenti asilo (CARA) e
i Centri di identificazione ed espulsione (CIE). A un non addetto ai lavori a
queste espressioni sembra corrispondere una logica ordinatrice chiara e lineare. Innanzitutto dei centri dove accogliere i migranti irregolari non appena
arrivano nel territorio italiano e in seguito, una volta manifestata o meno la
loro intenzione di presentare domanda
di protezione internazionale, il passaggio in un luogo deputato all’accoglienza dei richiedenti asilo o invece in un
centro dove i migranti irregolari non richiedenti asilo vengono trattenuti per il
tempo necessario per procedere alla loro identificazione e al loro allontanamento dall’Italia.
I discorsi confusi e spesso sbagliati
sui centri mediante i quali vengono ge-
stiti gli arrivi e le permanenze delle persone che per tutto il 2013 sono approdate sulle coste italiane (circa 35.000 a metà ottobre, ultimo dato aggiornato) sono almeno in parte riconducibili al fatto
che il quadro non è così ben definito come può apparire a prima vista. Distinguiamo quindi le diverse strutture.
Tre per l’accoglienza
CPSA (Centri di primo soccorso e accoglienza). Pur non essendo nemmeno
citati come tali in modo distinto nel sito
del Ministero dell’interno, sono di fatto i luoghi di primissima accoglienza,
pensati come strutture destinate all’accoglienza dei migranti per il tempo occorrente al loro trasferimento presso altri centri (indicativamente 24/48 ore).
Sono stati istituiti attraverso un Decreto
interministeriale del 16 febbraio 2006
che ha modificato la denominazione di
alcuni dei CDA in CPSA. Il luogo che
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da anni è maggiormente sotto i riflettori, ovvero il centro di Contrada Imbriacola a Lampedusa, è per l’appunto un
CPSA.2 Gli ultimi dati ufficiali disponibili (2010, forniti per la ricerca «Il diritto alla protezione») sulla capienza complessiva dei CPSA parlavano di 775 posti, comprensivi dei 381 di Lampedusa,
dei 220 di Cagliari-Elmas e dei 174 di
Ragusa-Pozzallo.
CDA (Centri di accoglienza). Sono i
centri più «antichi» per denominazione e natura, dal momento che sono stati previsti dalla Legge n. 563 del 1995,
la cosiddetta «Legge Puglia» allo scopo
di far fronte agli arrivi via mare dall’Adriatico nei primi anni Novanta. La
portata temporale di quella legge era limitata agli anni 1995, 1996 e 1997, ma
di fatto continua a costituire il principale riferimento normativo in materia di
prima accoglienza. I migranti dovrebbero soggiornare in questi centri per il
tempo «strettamente necessario» alla
prima assistenza e alla definizione della loro situazione giuridica. La capienza complessiva dei CDA è praticamente impossibile da dedurre dal momento
che nella totalità dei casi coesistono con
dei CARA e i dati sulle capienze – così come quelli sulle presenze – non sono
scorporabili.
CARA (Centri di accoglienza per richiedenti asilo). Nella loro forma attuale sono normati dal Decreto legislativo
n. 25 del 2008 e sono destinati ad accogliere una particolare fattispecie di richiedenti asilo (non la loro totalità), ovvero coloro per i quali è necessario verificare o determinare l’identità oppure coloro che abbiano eluso o tentato di
eludere i controlli di frontiera.3 Per gli
altri richiedenti protezione internazionale il dovere di accoglienza in capo allo stato italiano (come previsto dalla Direttiva 2003/9/CE, attuata dal D.lgs.
140/2005) dovrebbe sostanziarsi in altro modo, ad esempio attraverso i progetti del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Il
tempo di soggiorno nei CARA non dovrebbe comunque superare per legge i
35 giorni, al termine dei quali i richiedenti asilo dovrebbero ricevere un permesso di soggiorno e vedersi protratta
l’accoglienza in luoghi idonei.
Come già anticipato, è difficile quantificare la reale capienza dei CARA. Secondo i dati del 2010, c’erano 7 centri
«misti» CDA-CARA con una capienza
complessiva di 3.500 posti (Ancona, Bari, Brindisi, Caltanisetta, Crotone, Foggia, Roma-Castelnuovo di Porto) e 2
CARA «puri» per complessivi 560 posti (Gorizia e Trapani). La permanenza
media in questi centri, indistintamente
CDA o CARA, oscillava da un minimo
di 30 a un massimo di 180 giorni, ma si
può affermare senza timore di smentita che nella maggior parte dei casi i richiedenti rimanevano nei centri per diversi mesi.
Una per gli irregolari
CIE (Centri di identificazione ed
espulsione). Strutture destinate al trattenimento, convalidato dal giudice di
pace, degli stranieri extracomunitari irregolari e destinati all’espulsione.
Sono stati inizialmente introdotti nel
1998 attraverso la legge Turco-Napolitano (D.lgs. 286/1998) con il termine di Centri di permanenza temporanea (CPT), che verrà successivamente modificato nel termine CIE. Previsti dall’art. 14 del Testo Unico sull’immigrazione 286/1998, come modificato dall’art. 12 della legge 189/2002, tali centri si propongono di evitare la dispersione degli immigrati irregolari sul
territorio e di consentire la materiale
esecuzione, da parte delle forze dell’ordine, dei provvedimenti di espulsione
emessi nei confronti degli irregolari.
Il Decreto-legge n. 89 del 23 giugno
2011, convertito in Legge n. 129/2011,
proroga il termine massimo di permanenza degli stranieri in tali centri dai 180 giorni (previsti dalla Legge
n. 94/2009) a 18 mesi complessivi. La
possibilità (non l’obbligo) del prolungamento del periodo di detenzione amministrativa fino al termine di 18 mesi (il
massimo possibile) è stata decisa a livello europeo attraverso la «Direttiva rimpatri» (115/2008), che l’Italia ha applicato solo nel 2010 a seguito di una sentenza della Corte di giustizia dell’UE
(caso El Dridi), in cui l’Italia veniva condannata per alcune procedure giuridiche4 che si trovavano in contrasto con
la direttiva stessa.
I dati relativi al 2010 parlano di una
capienza complessiva di 1.800 posti
all’interno di 13 strutture, di circa 3.500
persone rimpatriate a fronte di più di
8.500 trattenute nel corso dell’anno. I
dati relativi al 2013 parlano di 13 strut-
ture con una capienza complessiva di
circa 1901 posti. Cinque su 13 CIE sono però attualmente chiusi per lavori di
manutenzione delle strutture a seguito delle rivolte messe in atto dai detenuti (spesso attraverso incendi), oppure per problemi di carattere economico
riscontrati dalle società che avevano in
gestione i centri.
Ricordiamo che i CIE costano come minimo 55 milioni di euro all’anno.
Oggi, in seguito ai tagli della spending
review 2011, il costo giornaliero pro
capite è stato abbassato a 30 euro più
IVA, il che ha contribuito a peggiorare
le condizioni di vita delle persone lì trattenute. Soprattutto, i CIE sono ben lungi dall’aver raggiunto gli obiettivi per
cui erano stati istituiti: su 169.071 persone transitate nei centri tra il 1998 e il
2012, quelle effettivamente rimpatriate
sono state soltanto 78.045, il 46,2% del
totale,5 una frazione minima dell’insieme degli immigrati in condizione irregolare (nello stesso periodo ne sono state regolarizzate più di un milione).6 Anche la funzione di deterrenza implicitamente loro affidata non sembra sortire
grandi effetti.
Lacune nel sistema
L’attuale sistema dei centri presenta
diverse lacune, che qui richiamiamo per
sommi capi.
Lacune giuridiche. Vi è una scarsa
chiarezza nella disciplina giuridica che
norma l’istituzione e la gestione dei diversi centri. Spesso disposizioni con una
limitata portata temporale (per es. Legge Puglia) diventano riferimento normativo per anni. In altri casi (cf. sotto) queste lacune lasciano spazio alla comparsa
di centri e/o tendopoli che sorgono extra
legem.
Sottodimensionamento delle strutture
di accoglienza. Tutti i dati, anche quelli
degli anni meno «caldi» (come il 2010 e
il 2012), mostrano che l’attuale sistema è
del tutto inadeguato sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo
a far fronte agli arrivi di migranti e rifugiati da paesi extra UE. Difatti fenomeni che si ripetono ciclicamente a seconda
delle stagioni e delle condizioni del mare
continuano a essere definiti e trattati come «emergenze». Particolarmente gravi
appaiono sia la scarsità di strutture formali e controllate dedicate alla primissima accoglienza (CPSA), sia la caren-
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za di posti per i richiedenti protezione
internazionale. Diverse stime mostrano
che tra il 30 e il 50% dei richiedenti asilo non riesce a vedersi garantito il diritto a un’effettiva accoglienza durante tutto il corso della procedura.
Moltiplicazione delle strutture informali o eccezionali. In questo quadro non
stupisce che a seconda delle annate e
delle «emergenze» si renda necessario
provvedere all’accoglienza delle persone
arrivate predisponendo strutture transitorie, improvvisate o comunque non sostenute da una chiara regolamentazione giuridica. Nel 2011 per esempio, prima della gestione della Protezione civile
e della cosiddetta Emergenza Nord Africa (esempio di per sé di un sistema d’accoglienza parallelo ed eccezionale), erano sorti centri provvisori di diverso genere a Mineo, Manduria, Trapani, Caltanisetta, Potenza, Santa Maria Capua
Vetere. Di questi solo il Residence degli Aranci di Mineo (ex villaggio residenziale connesso a una base statunitense) è
diventato un vero e proprio CARA, con
l’eccezionale capienza di diverse migliaia di persone.
Quest’anno, anche se più in sordina, si è ripetuta la stessa situazione: solo
a titolo di esempio, si segnala l’utilizzo
di una struttura sportiva dell’Università
di Messina, il Palanebiolo, dove le persone (tra cui dei minori) sono state prima accolte in una camerata approntata
dentro un campo da basket al chiuso e
poi in una tendopoli montata nel campo da baseball (esposta dunque a pioggia, freddo e, soprattutto, fango); oppure il Centro Umberto I a Siracusa, gestito da una cooperativa di pulizie e adibito a Centro di prima accoglienza attraverso un accordo informale con la
Prefettura.
Anche il CIE di Milo (Trapani) è
stato costruito nel 2011 a seguito della situazione «emergenziale» nonostante nella città di Trapani esistesse già un
CIE. La struttura del CIE di Milo si presenta completamente inadeguata alla sua funzione, infatti è il Centro in cui
avvengono più fughe in assoluto (una
media di circa 6 fughe al giorno). Nonostante ciò continua a essere utilizzato.
Non va dimenticato che la concentrazione di strutture di questo tipo in aree
economicamente depresse può risultare
funzionale all’attrazione e distribuzione
di risorse pubbliche.
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Strutture inadeguate
Inadeguatezza qualitativa delle strutture di accoglienza. Le critiche alle condizioni di vita, di igiene, di rispetto dei
diritti fondamentali all’interno dei diversi centri arrivano ormai non solo da
ONG, enti di tutela, agenzie nazionali e internazionali, gruppi e associazioni
di migranti ma anche dai massimi vertici europei, come nel caso delle reazioni
dopo lo scandalo del video di Rai 2 sulla
«disinfestazione» a Lampedusa. A monte si può dire che un sistema pensato su
grandi centri, localizzati principalmente
in prossimità dei luoghi degli sbarchi, si
mostra da anni inadeguato sotto diversi
aspetti.
Innanzitutto si tratta in molti casi di
luoghi che offrono soluzioni alloggiative
collettive per grandi numeri di persone:
il CDA/CARA Sant’Anna in provincia
di Crotone, per esempio, ha una capienza di quasi 1.500 persone; il CDA/CARA di Bari quasi 1.000, così come quello di Foggia. In queste strutture le persone sono spesso accolte in container o
comunque in grandi camerate. L’affollamento dei campi rende necessario un
trattamento per lo più collettivo e comunitario di diversi spazi e servizi, facendo
proliferare le situazioni «da megafono»
e rendendo difficile (per non dire impossibile) l’emersione e l’adeguata presa in
carico di situazioni di vulnerabilità fisica
o psicologica. Inoltre la vicinanza – che
in alcuni casi si manifesta in una stretta
coabitazione – con i CIE riverbera anche sui CARA lo stretto regime di sorveglianza e controllo che vige all’interno
di quei centri: basti pensare al CARA di
Gradisca d’Isonzo che si trova dietro lo
stesso alto muro che cinge il CIE, all’interno dell’ex Caserma Polonio.
Un altro aspetto fondamentale riguarda l’isolamento fisico di questi luoghi, che si trovano spesso lontani dai
centri abitati, lungo strade trafficate e
pericolose, all’interno di ex basi militari, ex basi aeroportuali (CDA/CARA
Sant’Anna) o ex caserme. L’isolamento non è ovviamente un tratto casuale
di questi centri: rende difficile l’incontro tra ospiti e comunità locali, che spesso guardano con sospetto – quando non
aperto timore – a questi luoghi affollati alle porte delle loro città e che si sentono rassicurate dalla segregazione delle
persone al loro interno. Infatti anche se
gli ospiti possono uscire dai CARA nel-
le ore diurne, è chiaro che la lontananza fisica da qualsiasi paese, dai rapporti
sociali e dai servizi che lì potrebbero essere reperiti, costringe di fatto le persone
a trascorrere il proprio tempo all’interno
dei centri.
A questo dato si aggiunge la gestione
il più possibile «autarchica» della maggior parte dei CARA, che si configurano come luoghi all’interno dei quali i richiedenti asilo devono trovare risposta
(più o meno adeguata) a tutti i loro bisogni, rendendo di fatto superflua – per
non dire pesantemente disincentivata –
ogni loro uscita nel territorio: all’interno dei centri trovano il servizio di mensa, di barberia, di lavanderia, oltre a dei
piccoli spacci che rappresentano i soli
luoghi in cui possono spendere il pocket
money di 2,50 € al giorno che viene loro consegnato (in una sorta di «chiavetta» che non permette altro uso all’esterno dei centri).
Il bando per 16.000 posti per il Sistema di protezione per richiedenti asilo e
rifugiati (SPRAR) per il triennio a venire lascia aperta qualche speranza di un
mutamento almeno parziale degli indirizzi politici rispetto all’accoglienza dei
richiedenti protezione internazionale.
Maurizio Ambrosini,
Chiara Marchetti *
* Università di Milano, Dipartimento di Scienze sociali e politiche.
1
Cf. Ministero del lavoro e delle politiche sociali, III Rapporto annuale. Gli immigrati nel mercato del lavoro in Italia, Roma 2013. Disponibile on line sul sito web www.lavoro.gov.it.
2 Originariamente il centro aveva una capienza di 850 persone; oggi sono ufficialmente
250. Negli ultimi mesi – come già accaduto nel
2011 – è sovente accaduto che le presenze effettive sforassero di diverse centinaia la presenze previste.
3 È assai dubbio applicare tale fattispecie alle persone arrivate via mare o via terra attraverso viaggi pericolosi e gestiti da passatori, poiché le
modalità e la rotta del viaggio è decisa dall’organizzazione responsabile del viaggio e pertanto la
stessa elusione dei controlli di frontiera non è una
scelta soggettiva dei richiedenti.
4 In particolare per quel che riguarda l’ex art.
14.5-ter e quater del Testo Unico sull’immigrazione, che prevedeva un periodo di detenzione penale per coloro che una volta ottenuto il foglio di
via non avevano lasciato il territorio italiano nei
termini e tempi stabiliti (reato di inottemperanza
all’ordine del questore).
5 Questi dati provengono dal sito dell’associazione di promozione sociale Lunaria (www.lunaria.org).
6 Cf. M. Ambrosini, Immigrazione irregolare
e welfare invisibile. Il lavoro di cura attraverso le
frontiere, Il Mulino, Bologna 2013.
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