P. JANNI, Il mare degli Antichi
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P. JANNI, Il mare degli Antichi
SEZIONE II Storie dalle acque © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale IL MARE DEGLI ANTICHI: TECNICHE E STRUMENTI DI NAVIGAZIONE Sulle nostre carte geografiche la superficie dei mari offre un’immagine quanto mai omogenea e regolare (a parte, eventualmente, i diversi blù delle diverse profondità, e le sottili linee delle isobate). Se non abbiamo riflettuto troppo sull’argomento, ci sembrerà che ogni spostamento su questa superficie debba obbedire a semplici leggi geometriche, in pratica solo al principio della linea retta che è la più breve tra due punti, almeno finché ci si tiene lontani dalla costa con le sue irregolarità. In realtà, è facile rendersi conto che le cose non stanno affatto così: uno spazio perfettamente omogeneo esiste solo come astrazione mentale, mentre ogni spazio concreto è sempre articolato e reso disomogeneo da una quantità di fattori, da quelli fisici fino a quelli psicologici. La scienza moderna ci ha insegnato che neppure lo spazio cosmico è un mezzo omogeneo. Sullo spazio in cui viviamo inteso come ‘campo di forze’, fisiche o di altro genere, esistono ormai molte riflessioni anche sottili e mature, applicate ai casi più diversi, che qui non sarà il caso di richiamare (1). Qui interessa solo ricordare che lo spazio marino, lo spazio della nautica, è in realtà articolato da molti fattori, è uno spazio non meno ‘vivo’ e complesso di ogni altro: contro l’apparenza immediata, la superficie del mare, di ogni mare, non è affatto piatta e regolare; se potessimo tradurla in un’immagine ‘virtuale’, come usa adesso, la vedremmo piena di salite e discese, di vie aperte e di ostacoli. Stiamo parlando di spazio ‘vissuto’, e dobbiamo ricordare che tutto ciò vale solo in relazione al nostro modo di vivere lo spazio marino. Ogni sua immagine che possiamo concepire, e che rivelerebbe tante irregolarità, sarebbe valida solo per noi uomini, più precisamente per noi uomini nella nostra condizione storica, e sarebbe completamente diversa per un pesce, per un cetaceo, per un uccello marino – e diversa anche per un uomo che vivesse e praticasse in un modo diverso lo spazio marino, vale a dire, nel caso che qui interessa, un uomo che disponesse di diversi mezzi tecnici per muoversi sulla superficie del (1) A rappresentare una bibliografia diventata vastissima citiamo qui solo YI-FU TUAN 1977; LÉVY, SEGAUD 1983. 449 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale mare (e lasciamo da parte la navigazione sotto di essa, che ha aperto prospettive ancora diverse in tempi che alla scala storica sono recentissimi). Il progresso dei mezzi tecnici ha avuto l’effetto di attenuare quell’inomogeneità dello spazio marino, di rendere (per dirla un po’ paradossalmente) più piatta la superficie del mare, e meglio percorribile in ogni senso, obbedendo alla pura convenienza delle distanze. Questo è stato il risultato di ogni progresso della nautica, prima col perfezionamento della vela, poi soprattutto col passaggio alla navigazione a motore, con mezzi di propulsione sempre più efficienti, e coll’aumento della sicurezza e dell’autonomia. Facciamo un esempio storico illustre, anzi il più illustre di tutti. Cristoforo Colombo ebbe uno straordinario tratto di genio (o una straordinaria fortuna, dipende se diamo ascolto ai suoi ammiratori o ai suoi detrattori): intuì come erano disposte nell’Atlantico quelle ‘discese’ e quelle ‘salite’ che rendono tutt’altro che ‘piatta’ la superficie di ogni mare; così scelse la rotta giusta sia per arrivare in America sia per tornare: latitudini basse all’andata per farsi portare dagli alisei, latitudini alte al ritorno per trovare i prevalenti venti occidentali (com’è noto, di vento ne trovò anche troppo). In pari misura, fu aiutato dalle correnti: quella delle Canarie e l’equatoriale all’andata, il Gulf Stream al ritorno. Per tutta l’età della vela, la rotta praticata rimase in sostanza quella che Colombo aveva aperto nel primo viaggio! (A sud finché non si scioglie il burro, dicevano i marinai inglesi, poi ‘due West’). L’avvento della propulsione meccanica (per tornare a quello che dicevamo prima) cambiò tutto questo: ora si va in America e si torna seguendo sempre la stessa rotta, che sale molto a nord, descrivendo sulle carte geografiche un apparente arco, cosa che qualche volta meraviglia chi non sa di rotte ‘lossodromiche’ e ‘ortodromiche’! O un altro esempio, quasi altrettanto illustre: i Portoghesi del XV secolo avevano imparato che per tornare in patria lungo la costa occidentale dell’Africa, dalle latitudini equatoriali, non conveniva tenersi stretti alla terra, come all’andata; questo avrebbe significato un percorso di oltre ottocento miglia contro il vento e la corrente (della Guinea). Bisognava invece allargarsi nell’Oceano, tirando dei bordi verso nord-ovest, e risalire così a latitudini abbastanza alte da trovare un vento occidentale per tornare in patria: la cosiddetta volta do mar, che divenne pratica normale. Insomma, i Portoghesi avevano capito che lungo la costa la strada da sud a nord era tutta in ‘salita’, mentre superando una salita relativamente breve verso nord-ovest si veniva poi ricompensati da una lunga ‘discesa’. Per il navigante a vela, queste discese e salite, come abbiamo chiamato i tratti con vento favorevole o contrario, sono ricercate o temute come dai ciclisti. Bisogna però tener presente che la somma algebrica di salite e discese, per il navigante che va e torna poi a casa, non è necessariamente pari a zero come per il ciclista: se ha abilità e fortuna può essere favorevole; in 450 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale teoria il percorso potrebbe essere tutto in discesa, come in certi disegni irreali di Maurits Escher. Ogni progresso della nautica, abbiamo detto, ha l’effetto di diminuire queste irregolarità, di rendere il mare ‘più piatto’. Restando nell’ambito della navigazione a vela, questo è avvenuto coi perfezionamenti dell’attrezzatura velica, che hanno prima di tutto accresciuto la capacità di stringere il vento e di bordeggiare, quindi hanno diminuito la temibilità del vento contrario. La carta di Mercatore rappresenta lo strumento che si confà a una nautica arrivata a un grado di sicurezza relativamente avanzato, ne è quasi l’espressione visuale. Nonostante il suo carattere apparentemente primitivo e la gravissima alterazione che essa induce nelle dimensioni delle terre in funzione della latitudine, essa ha un prezioso vantaggio per il navigante: ogni linea retta tracciata su di essa rappresenta una rotta che il timoniere può seguire mantenendo sempre lo stesso angolo di prora, senza ulteriori calcoli e correzioni (rotta lossodromica). Una situazione che è pienamente raggiunta quando non si devono fare più i conti col possibile vento contrario e coi bordi che complicano terribilmente le cose (2); una situazione che si realizzerà coll’avvento della navigazione meccanizzata, col vapore e coi successivi mezzi di propulsione. Ma non corriamo troppo, e restiamo al mondo antico e alla sua nautica. Domandiamoci: a che punto dell’evoluzione dobbiamo collocare la capacità, per gli uomini dell’Antichità greca e romana, di recarsi senza troppe complicazioni da un punto all’altro del loro mare? In altre parole, quanto era irregolare questo loro mare, quante salite e ostacoli esso conteneva? La risposta è senza dubbio che il loro mare era molto irregolare, perché il vento contrario era molto temuto; la differenza fra salite e discese era molto sensibile e più che mai determinante per i tempi di un viaggio, o addirittura per la sua fattibilità. Ci domanderemo a questo punto quanto le letterature greca e latina ci informino sulla navigazione antica da questo punto di vista, dal punto di vista delle rotte normalmente percorse nel Mediterraneo. Intendo soprattutto le rotte commerciali, quelle che più interessano l’archeologo subacqueo, per un motivo che dovrebbe essere ben noto: i relitti scoperti e riportati alla luce dall’Antichità sono quasi senza eccezione relitti di imbarcazioni commerciali. Questo a causa del diverso tipo di costruzione, molto più deperibile nel caso delle navi da guerra, che per il modo antico di combattere dovevano soprattutto essere veloci e maneggevoli, quindi leggere; le navi da carico, invece, dovevano avere un minimo di consistenza e di solidità. Stavolta dobbiamo rispondere che gli scrittori antichi non danno molte (2) Nel Medioevo si inventò per questo il sistema di tabelle detto ‘tavola di martelojo’. 451 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale informazioni di questo genere, per varie ragioni che qui non possiamo discutere troppo a lungo. Un’osservazione però sarà opportuna. La storiografia antica, almeno da Tucidide in poi, è proprio storiografia di quel tipo che le ultime generazioni hanno imparato a deprecare, fatta principalmente, o esclusivamente, di guerre o al massimo di vicende politiche ‘al più alto livello’, mentre la vita della gente qualunque in tempo di pace non vi trova alcun posto. In essa trova quindi accoglienza ogni possibile flotta di trieri e affini, strumenti di guerra che si muovono obbedendo alle speciali esigenze della strategia, e soprattutto lo fanno (o almeno lo possono fare) a remi, quindi in parziale indifferenza all’andamento dei venti; ben di rado, o piuttosto mai, la storia antica si degna di descrivere con qualche particolare i pacifici traffici di passeggeri e merci che pure collegavano regolarmente le rive del Mediterraneo, magari con conseguenze più rilevanti per le future generazioni che non tante battaglie o trattati di pace. Tutto quello che sappiamo dei caratteri delle letterature antiche ci fa credere che non troveremmo niente di simile neppure se possedessimo integralmente tutti gli autori greci e latini, dei quali leggiamo invece una ben modesta parte. Non dà molto neppure la poesia; l’Antichità, che ha inventato la poesia didascalica e ha messo in versi tante cose, dall’agricoltura al calendario e al cielo stellato, e addirittura ai rimedi per i morsi degli animali velenosi, non ha fatto niente di simile per la nautica (3). I testi antichi che trattano con qualche sistematicità di cose marinare sono ben poca cosa: poche decine di versi di Esiodo (figuriamoci!) (4), i peripli (che mostrano per così dire la scena vuota, i luoghi della navigazione senza le navi e i marinai), e qualche pagina del lessicografo Polluce (5), che raccoglie un po’ di termini tecnici della nautica senza spiegarli in modo esauriente (cosa che probabilmente non avrebbe saputo fare). Basta un’occhiata a un qualsiasi libro sulla nautica antica per accorgersi che le ‘fonti’, diciamo così, sono nella quasi totalità frammenti, cioè notazioni casuali cadute dalla penna di uno storico o di un poeta (e in questo secondo caso molto spesso in forma di similitudini); gli ‘indici dei luoghi citati’ sono un elenco di quasi tutti gli scrittori antichi, anche dei più impensati. Trattandosi di notazioni casuali, esse non partono mai da zero, bensì da un patrimonio di nozioni che si poteva legittimamente attribuire a tutti; esse risultavano chiare per i lettori originari che già sapevano, ma oggi sono poco chiare o addirittura enigmatiche per noi che non sappiamo. Non c’è da illudersi: la nostra ricostruzione della nautica antica è come un grande puzzle, (3) Altre considerazioni sulle nostre fonti in JANNI 1996, p. 27. (4) Le opere e i giorni, vv. 618-694. (5) I 80 sgg. 452 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale messo insieme con pezzi ritrovati casualmente fra i resti di una grande distruzione, in cui se ne sono perduti molti. Eppure (questo è ciò che più indispettisce chi si occupa di queste cose), la storiografia antica non disdegnò affatto di scendere alle minuzie tecniche in altri casi, anzi spesso lo fece con particolare predilezione. Polibio descrive assai chiaramente il sistema di telegrafo ottico usato dall’esercito romano, e soprattutto i famosi castra, la mirabile fortificazione in cui la legione si chiudeva la sera quando era in campagna di guerra (6). ‘Perché, perché non ha fatto altrettanto (si chiede deluso e quasi irato il lettore interessato alla storia della marineria), perché Polibio non ha fatto altrettanto con la classica quinquireme delle guerre puniche?’ In poche pagine poteva dissipare gli enigmi che ci sono costati sforzi secolari e in sostanza vani. Ma torniamo al nostro precipuo argomento, che oggi dovrebbe essere la navigazione in atto, e soprattutto la navigazione commerciale, con le sue rotte e i suoi metodi. Se le notizie sulla marina antica che troviamo nelle nostre fonti sono di regola frammentarie e casuali, ciò vale tanto più per la descrizione di viaggi per mare. Racconti in qualche misura completi, ‘diari di bordo’ con un minimo di attendibilità storica, sia pure rudimentali, ce ne sono arrivati estremamente pochi, e si trovano un po’ per caso, anche dove meno ce lo aspetteremmo. I primi che vengono in mente sono probabilmente tre, e la lista non andrebbe molto avanti, neppure se ci si contentasse di poco. (Troveremmo qualcosa nei romanzieri, primo fra tutti Petronio.) In ordine cronologico sono: il viaggio di S. Paolo da Cesarea a Roma, interrotto dal naufragio a Malta (raccontato nel cap. 27 degli Atti degli Apostoli); il viaggio del mercantile Isis da Alessandria al Pireo (raccontato nel proemio del Navigium di Luciano); il viaggio di Sinesio da Alessandria a Cirene (raccontato dal protagonista stesso nella sua quinta lettera, molto letteraria e rielaborata). Se volessimo uscire dal Mediterraneo e dalla marineria mercantile, troveremmo naturalmente il viaggio di Nearco dalla foce dell’Indo al Golfo Persico, raccontato nella seconda parte dell’Indiké di Arriano, ma questo sarebbe un altro discorso, che interesserebbe meno in questa sede. Il semplice accostamento di questi tre pezzi di letteratura suggerisce varie considerazioni, cioè ci fa osservare delle coincidenze significative. Intanto, sono tutt’e tre in greco; tutt’e tre sono opera di passeggeri o di osservatori esterni e non certo di uomini di mare; tutt’e tre, infine, hanno per teatro il Mediterraneo orientale e le sue immediate adiacenze. Tutto ciò non è un caso. Per prima cosa queste coincidenze ci ricordano in generale quanto più ‘marinara’ fosse la cultura greca di quella latina, e (6) Storie, X, 45-47; VI, 26-32. 453 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale questo non ha certo bisogno di conferme. A questo proposito c’è da osservare che anche la presenza di un ampio e ricco racconto di mare negli Atti degli Apostoli è significativa in questo senso, anche se in questo caso può sembrare che di greco ci sia solo la lingua. In realtà non è così: questo libro del Nuovo Testamento è opera dell’evangelista Luca, che dei quattro è il più grecamente colto. Infatti, la critica ha rilevato da molto tempo quanto questo famoso capitolo sia debitore alle forme della letteratura greca, precisamente alla letteratura romanzesca, che nei racconti di mare, di tempeste e naufragi aveva uno dei suoi temi più sfruttati. La critica più corrosiva è arrivata anzi a diffidare della storicità del racconto, rilevando in esso la presenza di certi topoi ben noti ai lettori dei vari Achille Tazio e Senofonte Efesio. La soluzione più equilibrata sarà quella di chi riconosce al racconto un solido fondamento storico, attestato da tutta la struttura e dal tono, che è convincente in questo senso; di convenzionale c’è una certa stilizzazione delle forme, che non meraviglia di certo chi abbia una minima familiarità con le letterature antiche. La storia della Isis in Luciano, la navigazione fortunosa dell’enorme nave granaria diretta da Alessandria a Roma che il maltempo dirotta al Pireo, fra gravi pericoli, disagi e ritardi, non si presenta come necessariamente storica, ma ha tutta l’aria di derivare da un fatto storico, o almeno di essere costruita su una base solidamente storica. Essa è finita al suo posto un po’ casualmente, servendo solo da introduzione, da ‘stuzzichino’, per i lettori di un saggio che ha tutt’altro argomento, contiene delle considerazioni morali – e anche questo è caratteristico, come abbiamo detto. Il racconto di Sinesio, nella lunga e ricca lettera indirizzata al fratello, è una cosa letteratissima, con citazioni omeriche, reminiscenze mitologiche e di altro genere. Essa appartiene a un genere letterario (o sotto-genere) popolare in ogni tempo, quello del ‘viaggio tragicomico narrato in prima persona’ (veramente qui tutto sommato più tragico che comico, perché si tratta di un viaggio disastroso). È quasi simbolico che i due più notevoli esempi del genere arrivatici dall’Antichità, questo e la satira odeporica di Orazio (il viaggio da Roma a Brindisi) (7), siano uno in greco e uno in latino, e rispettivamente raccontino un viaggio per mare e un viaggio per terra. Sarebbe uno strano caso se fosse accaduto il contrario! Naturalmente si devono fare i conti con la casualità della conservazione, nel naufragio delle letterature antiche (l’immagine sarà a proposito). Eppure tutto dice che le cose stavano davvero così, e che non si rischia di peccare contro il buon metodo se si afferma che i rapporti delle due letterature classiche col mare furono molto diversi. Ma vediamo i fatti più specificamente tecnici ricavabili dall’accostamento di queste tre pagine di letteratura. (7) Satire, I, 5. 454 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Due di questi tre viaggi ci mostrano due navi alle prese con il problema che era forse il più frequente nella navigazione antica al tempo dell’impero romano: andare dal Mediterraneo del sud-est, dove erano alcuni fra i maggiori centri del mondo ellenistico, a Roma, vale a dire ai porti italiani del Tirreno, tenendo una rotta che nel suo insieme era per nord-ovest. Ora, è ben noto che in ogni stagione ma soprattutto in estate, quando navigavano gli antichi, il regime dei venti nel Mediterraneo vede prevalere nettamente quelli di nordovest: la strada era dunque ‘in salita’ (Fig. 1). Capiamo ora il perché di questa coincidenza, che non è casuale: i viaggi nel senso opposto, da Roma ad Alessandria o alla costa siriana o palestinese, erano molto più facili, più spesso ‘non avevano storia’, ed era meno probabile che qualcuno li raccontasse. Nel caso della nave di S. Paolo, vediamo qual era un modo di affrontare il problema: si risaliva dall’Egitto o dalla Palestina verso nord fino alla costa anatolica meridionale, con venti al traverso o al massimo di bolina larga, poi si avanzava verso ovest approfittando probabilmente delle brezze diurne costiere, e delle correnti favorevoli; poi si poteva sperare negli etesii dell’Egeo, con cui arrivare sino a doppiare i capi meridionali della Grecia, poi – qualche santo o qualche dio avrebbe provveduto. Il racconto non ci accompagna sino alla fine: si interrompe drammaticamente col naufragio a Malta, facendo solo un accenno al seguito, che vide il viaggio proseguire fino a Pozzuoli. Qui si dice espressamente che la nave passò «sotto» l’isola di Cipro (intendi: ‘sottovento’, a est) per evitare i venti contrari, e che avanzò «faticosamente» lungo la costa anatolica fino all’altezza di Cnido. Poi le cose si complicano per il maltempo, dato che si era affrontato incautamente il mare autunnale. È molto caratteristico che negli stessi Atti degli Apostoli (21,3) si racconti assai brevemente un altro viaggio di S. Paolo, da Patara, sulla costa sudoccidentale dell’Anatolia, a Tiro: non si parla di scali e si nota espressamente che Cipro fu lasciata sulla sinistra. Insomma, una traversata in mare aperto di oltre 350 miglia marine, ma stavolta col favore del vento, perciò sbrigata in poche righe. È interessante confrontare questa breve notizia con un’altra che si legge in Filone di Alessandria: l’imperatore Caligola, dovendo recarsi per mare ad Alessandria, non scelse il percorso in mare aperto (pelaégei), che era il più comune per le navi da carico, bensì seguì le coste dell’Asia (cioè dell’Anatolia) e della Siria, ciò che consentiva di fare frequenti tappe, assicurando all’imperatore la dignità e anche il comfort che si confacevano al suo grado (8). (Una pagina breve ma rilevante per l’atteggiamento degli antichi, o almeno dei Romani, verso la navigazione in genere). L’Isis sembra partita con più ottimismo; oltre a essere eccezionalmente (8) Legatio ad Gaium, §§ 250-252. 455 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 1 – Correnti, regime estivo dei venti e rotte principali nel Mediterraneo (da PRYOR 1988). grande aveva forse un’attrezzatura velica più efficiente. Confidando in una maggiore capacità di stringere il vento contrario, si contava (stando alle parole di Luciano) di lasciarsi Creta sulla dritta, ciò che significa tagliare in mare aperto, cosa audace non perché si avesse paura di allontanarsi da terra, ma perché così si affrontava direttamente il prevalente vento contrario. (‘In the teeth of the wind’, dice con espressione pittoresca ed efficace la lingua inglese). In realtà le cose non andarono così: la prima terra avvistata dopo la partenza da Faro non fu un promontorio di Creta, ma di Cipro. L’Isis è costretta insomma a seguire una rotta molto simile a quella della nave di S. Paolo, finendo nelle acque di Sidone, che rispetto a Cipro sta a sud-est: i venti di nord-ovest esercitano un duro potere! Facciamo un lungo passo indietro, come più tardi ne faremo uno avanti. In Omero si parla di andare dalla Grecia in Egitto come di cosa tutt’altro che inaudita, anche se non facile (9); può capitare di finirci anche involontariamente, come capiterà a Menelao, nel suo fortunoso ritorno da Troia. Sorpresa dalla tempesta al passaggio del temutissimo capo Malea, la sua flotta viene spinta fino a Creta, dove una parte delle navi si fracassano sugli scogli, (9) Odissea, IV, 480 sgg. 456 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale tranne cinque che finiscono proprio in Egitto (10), spinte «dal vento e dall’acqua», cioè dall’andamento delle onde. Per tornare, le cose stavano in modo alquanto diverso; non sarà un caso che Menelao, finito in Egitto nel suo fortunoso ritorno da Troia (una piccola ‘odissea’) dovette ricorrere addirittura a un sacrificio umano, ai danni di due malcapitati ragazzi egiziani, per ottenere il vento favorevole (11). La nautica non aveva ancora conoscenze molto precise sulle rotte transmarine più convenienti, e ci si arrangiava come si poteva. E ci sarebbe da raccontarne ancora. Ci sono almeno un paio di altri luoghi nelle letterature classiche in cui l’Egitto appare come situato ‘in fondo a una discesa’: è relativamente facile arrivarci, e ci si arriva anche involontariamente, ma è difficile e faticoso ripartirne. In Erodoto, il leggendario re d’Egitto Proteo parla degli stranieri che arrivano nel suo paese «afferrati dai venti» (12). Ancora in Erodoto (13) leggiamo che le navi mercantili straniere erano esonerate dall’obbligo di lasciare immediatamente i porti egiziani, ad esse vietati, in caso di venti contrari che rendevano non difficile ma impossibile la partenza – il caso doveva verificarsi spesso. Il viaggio di Sinesio da Alessandria a Cirene è anch’esso un viaggio ‘con molta storia’, ancora un viaggio ‘in salita’, contro i venti predominanti e anche contro la corrente: qui concordano il regime dei venti (prevalentemente da ovest), e l’andamento delle correnti, che nel Mediterraneo seguono grosso modo una rotazione in senso anti-orario (Fig. 1). Non si può tacere che questo è con ogni probabilità il racconto più spiritoso e divertente di un viaggio per mare che ci abbia lasciato l’Antichità, un tesoro di umorismo che meriterebbe di essere ben altrimenti conosciuto, oltre che un documento raro e prezioso, ricchissimo di informazioni. Per chi va in cerca di notizie del genere che interessa noi, il racconto di Sinesio è molto stimolante, non nel senso banale che si dà spesso a questo aggettivo, ma in un senso più vero: stimola a indagare, al di là delle parole del testimone, che cosa sia davvero successo in questa fortunosa navigazione, e come dobbiamo giudicare la competenza e la capacità di quelli che ne furono responsabili. Sinesio è infatti un testimone decisamente parziale. Per cominciare, l’equipaggio della sua nave, compreso il kybernétes, la figura che più si avvicina a quella di un nostro capitano, era costituito in maggioranza da Ebrei, come apprendiamo con qualche meraviglia fin dalla prima pagina (gli Ebrei furono uno dei popoli meno marinai dell’Antichità, e (10) (11) (12) (13) Ibid. III, 286 sgg. ERODOTO, Storie II, 119, 3. |Up’ a\neémwn a\polamfqeéntev, ibid. II, 115, 4 Ibid., II 179. 457 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale la Bibbia è un terreno ben poco redditizio per chi cerca notizie sulla nautica antica). La cosa non suscita le simpatie di Sinesio, che farà bersaglio delle sue ironie il fatto che il timoniere nel momento del maggior pericolo si metta a leggere la Torah, e che si decida a rompere il riposo del sabato e a provvedere alla nave solo quando si è persuaso che la situazione di pericolo mortale lo autorizza a farlo, incoraggiato in questa decisione dalla minaccia di morte per decapitazione fattagli da uno dei soldati (arabi), che viaggiano sulla nave in pericolo. In tutto questo ci saranno delle frange, aggiunte da Sinesio che vuole fare un pezzo di colore; inoltre (ciò che più interessa qui) l’autore è ignorante di nautica, come gli altri passeggeri, e si tradisce ingenuamente quando giudica incaute delle decisioni che a un occhio appena competente appaiono del tutto sensate. Queste pagine ci insegnano in piccolo qualcosa di molto importante sulla marineria antica: il fatto che a bordo di una nave mancasse affatto il senso moderno, rigidissimo e perfino spietato, della gerarchia e della responsabilità professionale. Era sconosciuta la figura del capitano, ‘secondo solo dopo Dio’, carico di tutto il potere e di tutta la responsabilità; era sconosciuta, più generalmente, quella che noi chiamiamo ‘etica marinara’, con un’espressione che evoca un mondo severissimo di doveri e di valori. È noto che in molti luoghi delle letterature antiche, vediamo le decisioni a bordo, anche nel momento del pericolo, prese collettivamente, secondo un principio di maggioranza che a noi appare molto fuori posto. Ma non si deve neppure tacere che questo stato di cose, in una forma o nell’altra, continua anche nel Medioevo e in molti casi anche nella prima età moderna. La gerarchia rigidamente piramidale nella marina, sia militare sia mercantile, si è costituita in tempi relativamente recenti. Noi studiosi dell’Antichità rischiamo a volte di essere un po’ ingenui, quando attribuiamo agli antichi, come loro specialità, delle cose ben note al medievalista e in genere allo studioso di altre culture. Un esempio ne abbiamo subito qui, quando i cinquanta passeggeri (fra cui un terzo sono donne) costringono i tredici uomini dell’equipaggio, col kybernétes in testa, a rinunciare a una rotta che appare troppo audace. Più avanti, Sinesio si vanta di essere intervenuto personalmente nella discussione (!) sulla rotta da tenere e di avere apostrofato il kybernétes, cioè il capitano (!), per mettere in dubbio la saggezza della sua scelta. Sia pure tra qualche confusione, ricaviamo che il tanto bistrattato comandante aveva fatto una scelta perfettamente logica, e che i fatti gli diedero ragione. Il vento che girò improvvisamente a nord avrebbe rischiato di sbattere sulla costa la nave, se essa non avesse preso il largo e si fosse invece tenuta alla ‘giusta’ distanza da terra, come volevano Sinesio e gli altri incompetenti. «Come si fa a condurre una nave con voi, che avete paura della terra come del mare?», esclama il povero Amaranto; in realtà i rumorosi passeggeri appaiono ignari del fatto che per chi naviga la terra è spesso molto più 458 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale pericolosa del mare. Ma Sinesio non se ne dà per inteso e lo ricopre di ironie. Il calunniato Amaranto ha trovato un difensore solo ai nostri giorni, in compenso un difensore molto autorevole, cioè l’autore di quello che oggi è considerato il più importante manuale sulla marineria antica: Lionel Casson, che dedica alla causa un’appendice di due pagine del suo Ships and Seamanship in the Ancient World (14). Casson non manca di punzecchiare lo storico inglese A.H.M. Jones che dedica mezza pagina a riassumere il viaggio di Sinesio, compatendolo per la sua sfortuna nella scelta della nave (15). «Simpatia merita piuttosto lo skipper, un uomo competente diventato bersaglio di malignità per aver fatto il proprio dovere nella maniera giusta – e con successo», replica Casson. A questo autore, oltre alla difesa di Amaranto, sta a cuore anche un’altra causa, quella di dimostrare che la nave di Sinesio aveva un’attrezzatura a vela latina. Il titolo dell’appendice citata è appunto una domanda, «Did Synesius sail on a lateener?», cui nel seguito si dà una risposta positiva. Qui è difficile seguirlo: il passo della lettera su cui Casson si fonda è veramente troppo poco. Stavolta c’è davvero il rischio metodico in cui tanti sono caduti: quello di voler spremere delle cose di per sé non molto probabili dalle parole di un testimone cui noi stessi abbiamo tolto credibilità. In parole più semplici: non si può dimostrare prima (e con successo) che Sinesio non capiva nulla di manovre nautiche, per poi trarre da una sua paroletta una conclusione così audace come quella di attribuire a una nave mediterranea nei primi anni del quinto secolo una vela latina. Questa precoce adozione della vela latina (così dobbiamo pensare se seguiamo l’eminente storico della marineria) avrebbe lasciato poche tracce o nessuna nell’iconografia, in una maniera che è poco credibile. D’altra parte, chi conosce la produzione di Casson sa che fra le sue idee predilette c’è proprio questa, la presunta familiarità degli antichi con questo tipo di velatura, che secondo la dottrina storica comunemente accettata sarebbe comparsa invece solo nell’alto Medioevo, proveniente dal Vicino Oriente. Ma ogni studioso ha le sue marottes; questa è probabilmente una, e non gliene faremo troppo carico (16). In realtà è molto più probabile che qui assistiamo, attraverso le parole di un narratore incompetente (ma acuto osservatore), alla lotta impari di un tipico mercantile antico a vele quadre contro dei venti incostanti e prevalentemente sfavorevoli, lungo una costa difficile: proprio la situazione a cui dobbiamo gran parte del nostro patrimonio di relitti. Un’ulteriore considerazione, altrettanto importante, che ci viene sug(14) CASSON 1971, pp. 268-269. (15) JONES 1964, II pp. 842-843. (16) Casson aveva già esposto le sue osservazioni in un articolo apposito: CASSON 1952, pp. 294-296. 459 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale gerita dall’accostamento di questi tre passi è la seguente: da nessuna parte si dice nulla sui metodi e sugli eventuali strumenti di navigazione. Si parla solo di avvistamenti, che hanno come oggetto sia aspetti del paesaggio marino sia opere umane, costruzioni situate in posizione caratteristica; in senso lato anche questo fa parte dei metodi di navigazione, ma a un livello elementare, diverso da quello cui pensiamo per prima cosa noi, che abbiamo alle spalle l’esperienza delle navigazioni transoceaniche. C’è anche un possibile accenno all’osservazione delle stelle, nel racconto di Luca (17), che non ci sorprenderebbe, dato che un orientarsi in mare con le stelle è attestato addirittura sin dall’Odissea (18), anche se in forma evidentemente rudimentale, e anche se il caso rimane poi abbastanza isolato. Nell’Odissea l’accenno è breve ma chiaro: Ulisse naviga osservando le stelle; sembra che gli sia ben noto il metodo più ovvio, più universale e più sicuro di trovare la propria strada in mare, quello di guardare il cielo. Gli antichi lo sapevano tanto bene, che Virgilio, nelle Georgiche, attribuisce proprio al marinaio, non a qualche altra specie di osservatore del cielo, l’atto di stabilire e battezzare le costellazioni (19). Questo metodo, peraltro, non risulta che fosse portato a grande raffinamento nella marineria antica; probabilmente non fece mai molti progressi rispetto all’applicazione primitiva che appare nel nostro luogo dell’Odissea (20). Ulisse bada semplicemente ad avere l’Orsa Maggiore a sinistra, ciò che gli assicura una rotta molto approssimativamente per est, con un’oscillazione intorno all’est esatto di molti gradi verso nord o verso sud, la misura di cui distano dal polo celeste le stelle più settentrionali della costellazione (o meglio distavano a quel tempo, quando per la verità erano più vicine al polo). Questo è tutto. Quanto agli altri astri nominati nel contesto, essi rappresentano con ogni probabilità un ampliamento poetico che non ha niente a che fare con la navigazione astronomica, come suggerisce il fatto che questo gruppo di versi ricompaia tal quale nell’Iliade, a tutt’altro proposito (21). Inoltre, stelle così lontane dal polo come quelle di Orione, Boote, o le Pleiadi, potrebbero servire a orientarsi in mare con qualche sicurezza solo con metodi relativamente sofisticati di cui non c’è traccia neppure nell’Antichità più matura. Il poeta ha voluto indugiare sul cielo stellato perché non si contenta(17) Versetto 20. (18) Odissea, V, 272-275. (19) Georgiche, I, 137: «navita tum stellis numeros et nomina fecit». (20) Un filosofo del II secolo d.C., Sesto Empirico, colloca la kubernhtikhé, cioè l’arte nautica, fra le tecniche in cui si «tira a indovinare» (stocastikaié, Adversus mathematicos, I 72) e che dipendono dalla sorte. Davanti alla nostra navigazione astronomica e matematica ogni Greco avrebbe detto tutt’altro, e anche davanti a una forma meno perfezionata di essa. (21) Iliade, XVIII, 483 sgg. 460 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale va di un accenno troppo asciutto. Al più, avrà ricordato come tutte le stelle possano servire a tenere la rotta, per chi sta al timone e le prende volta a volta come punto di riferimento, come sa bene chiunque abbia guidato di notte la più modesta imbarcazione. Né i Greci né i Romani ebbero mai il concetto di ‘stella polare’, sebbene a Ursae minoris fosse ben visibile per loro come per noi. Ma per la precessione degli equinozi (scoperta dal greco Ipparco!) essa si trovava allora molto più lontana dal polo celeste di quel che non sia oggi, sicché non richiamò mai l’attenzione al fine dell’orientamento. Al massimo i Fenici, più attenti dei Greci, si valsero della costellazione dell’Orsa minore, meno cospicua ma più precisa come indicatore del nord (22). È da notare, a questo proposito, che in epoca omerica le stelle b e g dell’Orsa Minore (le cosiddette ‘guardie’) furono molto più vicine al polo celeste che non a (Fig. 2), e più vicine rimasero per tutta l’Antichità (Fig. 3). Si tratta di due stelle brillanti, sicché anche questa concorrenza impediva che nascesse il concetto di ‘stella polare’ (23). Tutti i successivi accenni alla navigazione astronomica, nelle letterature classiche, non mostrano grandi progressi. Gli spazi relativamente limitati in cui si svolgeva la navigazione antica non stimolavano a fare molti passi avanti in questo campo. Nell’Egeo, che fu la prima scuola di navigazione per i Greci, l’abbondanza di isole e alti promontori visibili a grande distanza consentiva di guidarsi con avvistamenti successivi. E anche nel resto del Mediterraneo le traversate in alto mare erano poche, non tali da richiedere metodi di orientamento molto raffinati o da favorire lo sviluppo di una vera cartografia nautica (che con ogni probabilità non ci fu mai) (24). (22) Il contrasto fra la maniera greca di orientarsi (con l’Orsa maggiore) e quello Fenicio (con l’Orsa minore) era un vero luogo comune, anche per la poesia. Arato di Soli: «E l’una chiamano Cinosura, l’altra Elice. Con l’Elice gli Achei deducono dove guidare le loro navi; i Fenici invece si affidano all’altra quando devono traversare il mare. L’una, Elice, è brillante, facile a riconoscere, ben visibile fin dall’inizio della notte; l’altra è piccola, ma migliore per i marinai, perché si aggira in un minor circolo. Grazie ad essa i Sidonii vanno sicurissimi in mare». (Phaenomena 36-44) – Cose simili in Valerio Flacco, Argonautica, I, 17 sgg.; OVIDIO, Fasti III 107 sg.; FILOSTRATO, Eroico, 1,3. (23) Il concetto era già familiare al tempo di Dante: per far immaginare due girandole di anime nel paradiso, scrive: «Imagini, che bene intender cupe/ … / imagini quel carro a cu’ il seno/basta del nostro cielo e notte e giorno/sí ch’al volger del temo non vien meno;/imagini la bocca di quel corno/che si comincia in punta dello stelo/a cui la prima rota va dintorno …» (Par. XIII 1-12). Per Stella Polare e bussola, v. Par. XII, Ibid., cfr. p. 12, 28-30: «Del cor dell’una delle luci nove/si mosse voce che l’ago alla stella/parer mi fece in volgermi in suo dove». Ma il concetto di ‘stella polare’ è documentato da autori anche più antichi. (24) Sulla probabile assenza di una cartografia nautica nell’Antichità v. JANNI 1984. Per le possibilità navigatorie di una marineria senza carte, v. PATRICK GAUTIER DALCHÉ in AA.VV. 1992, pp. 285 sgg., che porta esempi dal Mediterraneo. Una Astronomia nautica, attribuita da qualcuno nientemeno che a Talete, sarà stata di un autore molto più tardo, come supponevano già gli antichi (v. DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, I, 23). L’attribuzione è purtroppo ripetuta acriticamente da HÖCKMANN 1985, p. 161. 461 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 2 – I dintorni del polo celeste in età omerica (750 a.C.): a Ursae Minoris, l’odierna Polare, si trovava allora alla declinazione di 74° 9', distava cioè dal polo di quasi sedici gradi; molto più vicine ad esso erano le stelle b e g della stessa costellazione, le due ‘ruote posteriori’ del Piccolo Carro. Per questo le fonti antiche parlano di orientarsi con la costellazione, non con una precisa stella. 462 Fig. 3 – La stessa zona del cielo in età classica (404 a.C.). © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale La più estesa trattazione di navigazione astronomica, se così si può dire, si trova in un’opera poetica, la Farsalia di Lucano (25). Qui un gubernator tiene a Pompeo una completa lezioncina sull’aspetto del cielo stellato nelle varie regioni frequentate dalla navigazione, dal Mar Nero all’Egitto. Il passo merita un esame, per il suo carattere di quasi-unicità; e anche il più breve esame rivela che si tratta di un discorso in gran parte teorico, da tavolino: … rectoremque ratis de cunctis consulit astris, unde notet terras, quae sit mensura secandi aequoris in caelo, Syriam quo sidere seruet, aut quotus in Plaustro Libyam bene dirigat ignis. Doctus ad haec fatur taciti seruator Olympi: «Signifero quaecumque fluunt labentia caelo numquam stante polo miseros fallentia nautas, sidera non sequimur; sed qui non mergitur undis axis inocciduus gemina clarissimus arcto, ille regit puppes. Hic cum mihi semper in altum surget et instabit summis minor Vrsa ceruchis, Bosporon et Scythiae curuantem litora Pontum, spectamus. Quicquid descendet ab arbore summa Arctophylax propiorque mari Cynosura feretur, in Syriae portus tendet ratis. Inde Canopos excipit australi caelo contenta uagari, stella timens borean; illa quoque perge sinistra trans Pharon, in medio tanget ratis aequore Syrtim» 170 175 180 (26) (Interroga [Pompeo] il reggitore della nave su tutte le stelle: di quali si serva per riconoscere le terre, quale sia in cielo il riferimento per solcare il mare, quale stella gli sia utile per tenere la rotta verso la Siria, e quale fra le stelle del Carro diriga con sicurezza alla volta della Libia. Gli risponde quell’esperto osservatore del cielo: «Tutti gli astri che scorrono nel cielo stellato e che ingannano i poveri naviganti sulla volta che mai sta ferma, a quelli non badiamo; invece, quell’asse che non tramonta e non si immerge nelle onde, cospicuo grazie alle due Orse, esso insegna la via alle navi (27). Finché esso si (25) VIII, 172 sgg. (26) Seguono delle notazioni molto interessanti sulla manovra nautica intrapresa dal gubernator per indicazione di Pompeo, che vuole solo stare lontano dall’Emazia e dall’Esperia. È forse la descrizione più chiara in assoluto, in tutte le letterature antiche, di un’andatura a vela non in poppa né di gran lasco. (27) Traduttori e commentatori di Lucano si sono spesso dimenticati della precessione degli equinozi, cadendo in errore. J.D. Duff (nella collezione Loeb, 1928) rende «axis» con un anacronistico «pole-star»; R. Badalì (Utet) ugualmente con «stella polare»; Bourgery e Ponchont (Belles Lettres, 1930) traducono più opportunamente con «axe», ma fanno di peggio nella nota, parlando espressamente di «Etoile Polaire, la plus voisine du pôle». 463 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale eleverà costantemente nell’alto del cielo, e l’Orsa minore starà sulla cima del mio albero, saranno visibili il Bosforo e il Ponto che dà forma curva alla costa della Scizia. Ma quando l’Artofilace scenderà dal sommo dell’albero e la Cinosura si porterà più vicino al mare, la nave allora si avvicinerà ai porti della Siria. Poscia, ci accoglierà Canopo, la stella che teme Borea e che si limita a errare nel cielo australe; procedi oltre il Faro, tenendola a sinistra, e la nave andrà a toccare la Sirte, tra i flutti»). Notiamo per prima cosa, a v. 173, una franca confessione di incapacità, che sembra peraltro smentita da quel che segue negli ultimi due versi: qui sembra che anche una stella così meridionale come Canopo possa servire all’orientamento, non solo le circumpolari Orse. C’è poi la solita esagerazione, o ‘estrapolazione’ come l’ho chiamata una volta (28), che fa parlare del Bosforo e delle coste settentrionali del Mar Nero come se fossero a dir poco lo Skagerrak e le coste del Baltico: l’Orsa Minore allo zenith o quasi, mentre le relative latitudini sono di circa 41° (quella di Istambul, fra Napoli e Bari) e 46° 28' (quella di Odessa, un po’ più a sud di Bolzano); ecco a che cosa si riduce la terribile nordicità di questi luoghi. In realtà, l’Orsa Minore restava sempre ben lontana dallo zenith. Topoi di questo genere si trovano poi in tutta la poesia antica: Virgilio parla una volta di «medium Rhodope porrecta sub axem» (29). Il monte Rodope, nominato insieme al Danubio, alla Meotide e alla Scizia in genere, sta fra Tracia e Macedonia, ha quindi la latitudine dell’Italia meridionale! Poi, tornando a Lucano, Boote è nominato d’un fiato con l’Orsa Minore, come se fosse estremamente settentrionale, e infine viene il consiglio di lasciarsi a sinistra Canopo per andare da Alessandria alla Sirte, un’indicazione imprecisa e inutile, perché per quella rotta si seguiva ovviamente la costa senza bisogno di guardare le stelle. Il gubernator ragiona come se le Orse, a 32° o 33° N, non fossero più visibili (estrapolazione!), e ora bisognasse orientarsi su Canopo, che invece non è sempre visibile (30) – in compenso era per gli antichi il simbolo dei cieli meridionali, perché diventava visibile solo a sud di Creta e di Rodi. Solo a questo essa deve la sua presenza qui. Insomma, il pilota di Pompeo non rilevava certamente la latitudine servendosi delle stelle, cosa del tutto superflua per lui almeno finché si muoveva nel Mediterraneo, e senza dubbio molto al di là delle sue possibilità. Misurare l’altezza di un astro con qualche precisione è relativamente facile a terra, con strumenti di grandi dimensioni e ben installati. Lo faceva certamente (28) JANNI 1994, pp. 97-124, versione riveduta della pubblicazione in «S.C.O» 28 (1978), pp. 87-115. (29) Georgiche, III, 351. (30) All’epoca, stava sopra l’orizzonte non più di cinque ore e un quarto, e culminava a soli 5° (alla latitudine di Alessandria). 464 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Fig. 4 – Al tempo di Colombo (1492 d. C.). Fig. 5 – La situazione odierna: la Polare segna il polo celeste con buona precisione, che si accrescerà ancora per qualche decennio, prima che la precessione degli equinozi torni ad allontanarla. 465 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Ipparco, come lo farà Tycho Brahe nel XVI secolo, coi suoi quadranti dal diametro di parecchi metri – ma su una nave? Resterà difficile fino all’età moderna: Bartolomeu Diaz misurerà la latitudine del Capo di Buona Speranza in -42°, mentre essa non arriva a -35° (31). Per capire l’entità dell’errore, ricordiamo che 7° sono pari a circa quattordici diametri medi della luna; in altre parole, se valutiamo il divario in termini di posizione di un astro, diremo che fra la posizione vera e quella misurata erroneamente entravano quattordici lune piene messe in fila! In realtà, nel passo di Lucano non abbiamo affatto un marinaio che fa il punto-nave, neanche approssimativo, guardando le stelle; abbiamo piuttosto un erudito, un dilettante di scienza che parla per bocca di un marinaio, e che osserva compiaciuto la conferma di ciò che la cosmologia insegna, grazie all’esperienza della navigazione; insomma, il contrario. Considerevole importanza doveva avere, come strumento di navigazione, lo scandaglio, in maniera analoga a ciò che si è fatto nell’età moderna. Un passo di Erodoto è rivelatore: il navigante che si avvicina alla costa egiziana sa di stare a una giornata dall’arrivo quando il suo scandaglio «riporta su», dalla profondità di undici braccia, del fango (32). È esattamente il genere di rilevamento che si farà fino ai nostri giorni con gli scandagli concavi e unti di sego, che riportano in superficie dei campioni del fondo, utili a una forma rudimentale di punto-nave. Per il resto, abbiamo l’impressione di una marineria che va molto ‘a lume di naso’. L’espressione non deve essere presa in senso troppo negativo. Il ‘naso’ del marinaio è qualcosa di molto importante e rispettabile, in tutte le epoche della marineria: è quell’istinto indefinibile che mette insieme tante cose piccole e grandi, l’andamento delle onde, una nuvola all’orizzonte, il volo di un uccello, tutto ciò che compone l’elemento marino, un mondo familiare per chi ci è nato e vissuto, e sempre sa dove sta, e dove deve andare. Quel che più colpisce è l’assenza del minimo accenno a qualunque forma di cartografia. Oggi, ci sembra che fra cartografia e nautica esista per così dire un matrimonio indissolubile, per motivi assai evidenti. Per secoli, abbiamo pensato che la geografia sia naturale debitrice ai naviganti di un grande tesoro di informazioni; per contro, il navigante non può fare a meno di chiedere lumi al geografo, soprattutto nella forma dell’indispensabile carta nautica. Insomma, uno scambio circolare di informazioni, un sapere comune cui le due parti contribuiscono ciascuna a modo suo. Non troppo di rado, le due cose si sono trovate unite nella stessa persona: l’anno colombiano ci ha ricordato che i due fratelli Cristoforo e Bartolomeo Colombo furono anche cartografi; Cristoforo si mostrò poi sempre tale anche nel corso dei suoi (31) Con ogni probabilità misurò l’altezza del sole, servendosi delle ‘Tavole Alfonsine’. (32) Storie, II, 5,2. 466 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale viaggi, lasciandoci degli schizzi cartografici che mostrano un occhio molto sicuro. Oggi, l’epoca della navigazione di scoperta è finita da un pezzo, e la cartografia procede con ben altri mezzi; per quest’aspetto, la situazione è mutata profondamente, mentre invariato è rimasto il necessario ricorso che la nautica deve fare alla cartografia, sia che si tratti di navigazione di piacere lungo le coste di casa, sia di traversate degli oceani. Oggi, insomma, continuiamo a trovarci in una situazione tecnica (e prima ancora intellettuale) in cui si considera normale che l’attività pratica del navigare sia preceduta e guidata da un determinato modo di elaborare, ordinare e trasmettere i dati di un sapere empirico sul mondo in cui quest’attività si svolge. È il modo della carta, rappresentazione omologa della superficie terrestre, secondo un codice molto preciso di corrispondenze, ormai tanto radicato nelle nostre abitudini mentali da sembrarci quasi l’unico possibile, e da farci dimenticare gli elementi di convenzione e di relatività che in esso pur si trovano. Eppure, sappiamo bene che non è stato sempre così. Oggi ammettiamo generalmente che l’umanità antica non facesse ricorso alla carta, nella pratica della navigazione, bensì alla descrizione verbale, cioè a quello che gli Antichi chiamavano ‘periplo’ e che noi chiamiamo ‘portolano’, che è fondato su principi totalmente diversi. Il portolano, il periplo, la descrizione verbale, trasmettono le informazioni secondo una modalità che può essere perfettamente affidabile fin dai primi passi dello sviluppo intellettuale umano, vale a dire secondo categorie che la mente umana ha padroneggiato fin da quando ha potuto chiamarsi così. Sono informazioni che si succedono linearmente nel tempo dell’esposizione e che corrispondono a momenti successivi nel referente, momenti che si succedono nello spazio con la stessa linearità, unidimensionale. Questo è un modo di comunicazione perfettamente posseduto da ogni mente umana. Nel caso della carta, le informazioni sono trasmesse in un linguaggio completamente diverso, attraverso un’immagine chiamata a significare un complesso di fatti spaziali che a loro volta non sono colti con un solo atto percettivo. C’è quindi un tradurre e ritradurre, in una lingua nuova e straniera, ciò che costituisce un’operazione di tutt’altro ordine, molto più complessa, anzi qualitativamente diversa. Qui possiamo fondarci su studi condotti con grande ampiezza e competenza da specialisti di varie discipline. Oggi sappiamo che la memorizzazione di informazioni relative a un percorso unidimensionale, anche complesso, è cosa cui arrivano anche gli animali da esperimento, nonché gli esseri umani nella prima infanzia, mentre il concetto di rappresentazione simbolica di un vasto complesso spaziale è un traguardo infinitamente più lontano e difficile. Certo, non si vuole negare che l’umanità antica ci fosse largamente arrivata; ma il cammino per giungere all’applicazione pratica era ancora molto lungo, come ci dicono molte testimonianze e considerazioni. 467 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Il problema di una possibile esistenza di carte nautiche nell’Antichità greca e romana si è affacciato diverse volte, e ha avuto non poche e non poco autorevoli risposte positive. I nomi da ricordare comincerebbero alla fine del secolo scorso con quello di A. E. Nordenskiöld, per proseguire con quello di John L. Myres. Nel nostro secolo l’assertore più famoso è stato probabilmente il tedesco Richard Uhden (1935); ma anche uno storico della cartografia come Lloyd A. Brown (1951) introduce di testa sua un accenno a carte nautiche riferendo un passo di Strabone, in una maniera che certo avrà ingannato più d’un lettore disarmato (33). Oggi sembra che si sia diventati più cauti. Gli studiosi non particolarmente interessati al problema si limitano a constatare che manca qualsiasi testimonianza in proposito. La più recente sintesi sulla cartografia antica, quella di O.A.W. Dilke, parla di nautica quasi solo in un capitolo intitolato ‘Periploi’ e non lascia dubbi che per peripli intende delle istruzioni scritte, non disegnate. Due volte nota asciuttamente che nessuna testimonianza permette di attribuire agli antichi l’uso di carte nautiche (34). In maniera molto simile si comporta lo storico oggi più autorevole della marina antica, il già citato Lionel Casson: «There is no evidence for the use of charts» (35). Una trattazione più succinta della nautica antica, quella di Olaf Höckmann, è più possibilista. Tratta di questo possibile uso di carte marine nell’Antichità in un breve capitolo, il penultimo, un po’ come appendice, e non porta alcun sostegno all’ipotesi se non il noto passo di Erodoto, III 136, che ha ben scarso peso. Varie asserzioni imprecise dimostrano che queste pagine sono proprio le meno critiche di tutto il libro (36). Credo però che non sia inutile tornare sul problema ancora una volta in maniera un po’ più ampia. L’esperienza insegna che dove mancano testimonianze esplicite, dove c’è un vuoto nella nostra informazione, si ripresenteranno certamente prima o poi ipotesi avventurose. Penso perciò che non sia inutile formarci un’opinione più fondata, e confido che la discussione possa essere in ogni caso fruttuosa. Metodicamente, la considerazione principale è questa: la carta (soprattutto quella nautica) è uno strumento, che serve a immagazzinare e a trasmettere informazioni. Perché questo strumento entri nell’uso, bisogna che si ab(33) NORDENSKIÖLD 1897; MYRES 1896, pp. 605-631; UHDEN 1935, pp. 1 ss.; BROWN 1951. (34) DILKE 1985, pp. 21 e 133. (35) CASSON 1971, pp. 283 n. 51 e 297 sgg. (36) HÖCKMANN 1985, p. 163: «Vielleicht ist sogar schon früh kartiert worden»; anche R. BÖKER, Windrosen 1958, col. 2351, parla di carte nautiche un po’ troppo disinvoltamente: il rodio Timostene, ‘ammiraglio’ di Tolomeo Filadelfo, sarebbe stato il primo a stabilire una regolare rosa dei venti, divisa in dodici; «ein nautisch brauchbares Instrument», che ebbe grande diffusione e che egli avrebbe impiegato insieme colla carta di Dicearco. 468 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale biano le informazioni da metterci, da una parte, e dall’altra la necessità e la capacità di servirsene. In questa ricerca, bisogna essere molto concreti, e non staccare mai le conquiste intellettuali e teoriche dai fatti pratici. Altrimenti, rischiamo di fare la figura di chi attribuisse l’invenzione dell’automobile a una civiltà che non conoscesse alcuna forma di strada adeguata, o il possesso di macchine calcolatrici a una di quelle la cui aritmetica non va oltre il numero dieci. Questo lo fanno gli autori di certi best-seller da stazione ferroviaria, quando inventano storie mirabolanti sulle civiltà antiche che conoscevano già certi procedimenti della chimica moderna, e cose simili. Probabilmente, molti che hanno scritto su quest’argomento hanno peccato in questo senso: non hanno collegato la questione dell’uso o non-uso della carta nautica al modo di navigare degli antichi, e non hanno tenuto abbastanza d’occhio quello che sappiamo sull’uso della carta nautica nel Medioevo e nell’età moderna in relazione ai progressi della navigazione. Diamo prima di tutto un’occhiata all’Antichità. Ho detto (semplificando) che la navigazione degli antichi era una navigazione unidimensionale, cioè lungo la linea segnata dalla costa, cui si addiceva lo strumento del periplo. Con questo, non volevo dire che essi rifuggissero totalmente dalla traversata in alto mare, e che perdere di vista la terra fosse per loro motivo di invincibile terrore. Se lo facessi, cadrei in uno dei vari pregiudizi volgati sulla nautica antica. In realtà, l’impressione sensoriale e psicologica del vero e proprio alto mare è espressa addirittura già nell’Odissea, che non rappresenta certo una nautica molto avanzata, neanche secondo il metro degli antichi: a\ll \ o$te deè Krhéthn meèu e’leiépomen, ou\deé tiv a"llh Jaiéneto gaiaéwn, a\ll &ou\ranoèv h\deè qaélssa ... (x 301-2) «Ma quando avemmo lasciata Creta, né si vedeva altra terra, ma solo cielo e mare …» Traversate in alto mare se ne facevano: quello che importa è come si facevano. Esse costituivano un limitato numero di rotte, seguite molto strettamente; costituivano i necessari raccordi fra i percorsi lungo costa, non rappresentavano un muoversi liberamente su una superficie. Schematizzando e semplificando ancora una volta, si può dire che la navigazione antica aveva fatto di uno spazio bidimensionale una somma di linee unidimensionali, lungo le quali basta come guida il periplo; e che essa non aveva ancora imparato a pensare in termini di spazio bidimensionale, cui in termini di rappresentazione corrisponde la carta (37). (37) Nella carta di Tolomeo l’Africa del nord presenta una successione di golfi, tutti ‘spianati’ su una costa che corre quasi in linea retta. È proprio il modo di rappresentarsi una costa quando se ne segue semplicemente la linea, senza curarsi di orientamento e tanto meno di latitudine. 469 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Quindi, il bisogno di una carta non poteva essere molto sentito, né si possedeva la capacità di produrne di abbastanza perfezionate da imporsi per utilità e affidabilità. E credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che nella storia dei progressi umani le conquiste scientifiche e tecniche non nascono a caso come fiori che sbocciano da un seme portato capricciosamente dal vento. Piuttosto, sono come frutti che cadono quando sono maturi, per un concorrere di circostanze ben precise e ben regolate. Fuori di metafora, i passi avanti della tecnica compaiono quando sono maturate le condizioni tanto intellettuali che pratiche, che vanno di pari passo. L’uomo non intraprende dei compiti quando non è arrivato il momento giusto, quando egli non è ancora in grado di padroneggiarne ogni aspetto, quello intellettuale e quello tecnico-pratico. Stavolta voglio prevenire la critica di eccessiva ‘polarizzazione’, cioè il rimprovero di contrapporre troppo rigidamente la mente antica a quella moderna, sottolineando io per primo che le cose sono più sfumate di quanto potrebbe sembrare da questa prima enunciazione. Volgiamoci un attimo ai concreti fatti storici. Le prime vere carte nautiche che conosciamo risalgono al XIII secolo e vanno sotto il nome (improprio) di carte-portolano. Rappresentano il Mediterraneo con straordinaria esattezza, e contrastano incredibilmente con le contemporanee raffigurazioni delle terre, che hanno altri intenti e tutt’altro carattere. Secondo il parere concorde degli esperti, la loro comparsa è legata strettamente all’invenzione della bussola, che ne rendeva possibile da una parte il tracciamento, dall’altra l’utilizzazione (38). Nel XIII secolo, che dovette vedere se non propriamente l’invenzione, almeno la diffusione della bussola, si avvertono vari segni di novità, oltre alle carte: a quest’epoca risale quella specie di grande portolano del Mediterraneo che va sotto il nome di Compasso da navigare, e che è una summa aggiornata di molte esperienze più antiche. Il suo editore moderno, Bacchisio R. Motzo (39), ne ha rilevato un carattere che lo «stacca nettamente dai peripli dei Greci e dagli itinerari marittimi dei Romani»: questo carattere è la «costante indicazione delle distanze in miglia, congiunte inseparabilmente colla direzione delle coste, la posizione relativa dei luoghi e la rotta da dare alla nave indicate secondo il sistema italiano della rosa». Nella stessa pagina introduttiva il Motzo cita lo storico della geografia antica Richard Uhden (già nominato) che cercò vanamente nell’Antichità le origini di questo sistema di indicazioni, riuscendo solo a dimostrare, meglio di chiunque altro, che non (38) L’enorme superiorità delle carte-portolano in confronto con Tolomeo è tanto più significativa in quanto raggiunta in un’epoca che tecnicamente non era affatto superiore all’età ellenistica e del primo Impero, anzi per molti aspetti inferiore. Certamente, nell’Alto Medioevo nessuno avrebbe saputo scoprire la precessione degli equinozi! (39) MOTZO 1947. 470 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale esistevano (40). Cito ancora il Motzo: «Non basta che l’Uhden rintracci faticosamente nelle letterature classiche una dozzina di esempi (cinque di Plinio, due di Strabone, uno di Agatemero, cinque di Marino in Tolomeo) in cui dei geografi indicano la distanza di due isole o di due luoghi in miglia o in stadi, e la loro posizione relativa secondo i venti, per dimostrare che dunque sono esistiti dei peripli che questo metodo usavano sistematicamente, e che sarebbero i predecessori e i modelli dei portolani italiani del Medioevo. Dei peripli greci abbiamo non scarsi avanzi e tale sistema non vi è seguito, come l’Uhden stesso deve riconoscere» (p. XL). In conclusione, il Motzo ammette per l’Antichità l’esistenza di «rozzi disegni» (così più o meno si esprime, cfr. p. CIII sg.) di origine empirica, dei quali i marinai si sarebbero serviti per comunicarsi un’immagine a grandi linee, approssimativa, delle posizioni rispettive di porti e isole. Questi schizzi cartografici, secondo le sua parole, potevano essere «non inutili», ma certo non sono paragonabili a «una vera carta nautica» (p. CIV). La semplice verità è che «non vi è, alle attuali conoscenze del mondo antico, alcuna testimonianza che ci permetta di affermare che il corso delle navi fosse retto in base alle Carte» (ibid.). Parole scritte nel 1947, che mezzo secolo dopo restano esattamente vere. Ho lasciato parlare il Motzo perché si tratta di un autore competente che parla sulla base di una ricerca di prima mano, e poi perché non ha alcuna tesi speciale da dimostrare circa la nautica antica. Il suo appoggio ha quindi tanto più valore. (A contrasto coi marinai europei del Mediterraneo, gli Arabi si comportavano più o meno come gli Antichi, p. XLI.) Questo contrasto parla una lingua chiarissima, mi sembra, dopo le brevi riflessioni che abbiamo fatto. Non ci meravigliamo a questo punto se l’uso della carta è testimoniato espressamente da qualche fonte proprio in questo secolo XIII nel quale sembrano addensarsi le prime indicazioni di novità. Il cronista Guglielmo di Naugis racconta come il re Luigi IX viaggiava su una nave genovese alla volta di Tunisi, per la sua famosa crociata. Il maltempo disperse le navi, e il re inquieto volle sapere dove ci si trovava. Allora i nocchieri, ascoltiamo bene, «allata mappa mundi, regi situm terrae … ostenderunt» (41). Ora, so benissimo che l’argumentum ex silentio non è sempre un buon argomento; tuttavia non so trattenermi dall’invitare gli assertori della carta nautica greca e romana a trovare qualcosa di lontanamente simile in tutte le letterature antiche. Eppure le occasioni non mancavano, perché se dall’Antichità sono arrivati pochissimi racconti di navigazione ricchi di particolari, gli accenni parziali e i racconti limitati sono molti. So bene che per noi, lettori di letterature antiche, è difficile immaginare (40) UHDEN 1935, pp. 1-19. (41) GUILLAUME DE NANGIS, Gesta Sancti Ludovici, «Recueil des Historiens des Gaules et de la France», t. XX, Paris 1840, p. 444. 471 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale un poeta greco o latino che parla di carte nautiche; eppure ci sono degli esempi da altre epoche che ci mostrano come la cosa non sia impensabile. Di una carta nautica si può parlare anche in versi, senza scendere a un tono troppo prosaico. Ludovico Ariosto lo fa nel descrivere una navigazione in mezzo alla tempesta, nel canto XIX dell’Orlando furioso. La nave è smarrita, e tutti cercano di orientarsi e di ritrovare la rotta perduta: «Chi sta col capo chino in una cassa Su la carta appuntando il suo sentiero ...» Di carte su questa nave ce ne sono addirittura parecchie (dovremmo essere al tempo di Carlo Magno, e questo è certamente anacronistico!). Poco più avanti si tiene consiglio, e ognuno dice la sua: «Indi ciascun con la sua carta fuora A meza nave il suo parer risolve (42)». Per rendere il confronto più frappant, siamo in pieno Mediterraneo orientale, proprio come nei romanzi greci o negli Atti degli Apostoli, e i pareri sulla situazione della nave oscillano fra Cipro, l’Anatolia e la Siria … Di carte nautiche può parlare anche un poeta didascalico, facendone anzi un pretesto per eleganze di stile e di erudizione. L’urbinate Bernardino Baldi compì nel 1585 la sua Nautica, dove delle carte e del loro uso si parla almeno tre volte. Naturalmente, non pretenderemo che gli antichi dovessero fare per forza quello che hanno fatto i moderni. Vorremmo solo riflettere per una volta su quello che si potrebbe trovare nelle letterature antiche e che invece non vi troviamo; può darsi che qualche volta sia una riflessione non inutile. Lo stesso Motzo cita un documento del 1244 dove si elencano, nell’inventario dei beni sequestrati a bordo di una nave messinese, ben tre oggetti chiamati mappamundum, accanto a due calamite, «una cum apparatibus suis» (p. XLIX.) Con queste testimonianze, siamo nell’ambito della marina mediterranea; ma è altrettanto ben testimoniato che nella marineria nordica e oceanica le cose stavano alquanto diversamente. L’inglese William Bourne pubblicò a Londra nel 1574 il suo Regiment for the sea, che è il primo manuale di navigazione scritto in lingua inglese. Qui leggiamo queste parole: «Sono già vent’anni, lo so, che anche vecchi lupi di mare deridono e sbeffeggiano chi si è impossessato di carte e quadrante per navigare … e dicono costoro che a loro non importa nulla delle pergamene, perché le navi si governano meglio restando sul ponte di comando». (Apro una parentesi per osservare che que(42) Ottave 44 e 45. 472 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale sta diffidenza beffarda dell’uomo d’azione verso la carta vista come inutile giocattolo scientifico non giunge nuova al lettore degli scrittori greci: Plutarco racconta che Filopemene, da comandante militare, non voleva saperne di carte, taèv tw%n pinakiéwn diagrafaév, anzi le mandava a quel paese, e\w%n caiérein. Il capitano serio, secondo lui, andava a ispezionare il terreno coi propri occhi) (43). Ma sentiamo che cosa ne dice uno dei migliori storici di questa materia, l’inglese John H. Parry: «Nel nord la carta nautica rimase invece totalmente sconosciuta fino alla metà del Cinquecento, e una tradizione attendibile ne attribuisce l’introduzione in Inghilterra a Sebastiano Caboto. Nell’area del Mediterraneo l’uso della carta nautica risaliva al Duecento e la sua evoluzione indica uno stretto parallelismo cogli sviluppi delle tavole e delle direzioni di rotta. Queste tre cose infatti conseguono dalla bussola. La parola compasso indicava non solo il manuale del pilota, ma anche le carte nautiche, basate su una serie di rilevamenti alla bussola» (44). Abbiamo visto così, con rapidissimi esempi, che la creazione e l’impiego della carta nautica sono il frutto di un insieme di circostanze che mancano assolutamente nell’Antichità classica, e che invece vediamo formarsi (o almeno intravediamo) in un’epoca molto più recente, che è il Medioevo avanzato. Fattori di vario ordine ci spingono tutti alla stessa conclusione: la carta nautica è a dir poco sostanzialmente ignota agli Antichi; quelli che ne hanno postulato l’esistenza e l’impiego hanno trattato l’ombre come cosa salda. C’è un passo di Strabone che parla una lingua abbastanza chiara, e che non ha ricevuto, per quanto mi consta, la meritata attenzione in questo contesto: «Chi naviga in mare aperto, o viaggia in regioni pianeggianti, si guida con regole empiriche e non tecniche (koinai%v tisi fantasiéaiv a"getai) così come fanno l’incolto (a\paiédeutov) o un semplice cittadino, ignari di cose astronomiche (a"peirov w!n tw%n ou\raniéwn)» (II 5,1, C109). Si poteva dire una cosa così recisa, se davvero si usava la carta nautica o in genere qualche metodo paragonabile lontanamente ai nostri? Eppure c’è stato chi ha voluto riconoscere uno strumento per la navigazione astronomica nel famoso strumento di Anticitera, ripescato in mare! (45). Per concludere, io credo che sia metodicamente importante non cadere in un pericoloso ‘egocentrismo’, quando si fa storia della tecnica. L’errore è (43) PLUTARCO, Vita Philopoemenis 4,9. (44) PARRY 1991, p. 126. Cfr. anche PARRY 1984, pp. 45 e 47. (45) Subito dopo il ritrovamento, ci fu chi ci volle vedere un astrolabio (SVORONOS 1903, tav. X). DILKE 1987, p. 44, preferisce pensare a un calendario astronomico, ricordando che si è ipotizzato anche «an ancient Greek computer»: D. DE SOLLA PRICE, Gears from the Greeks, The Antikythera Mechanism – A Calendar Computer from ca. 80 b.C., New York 1975. 473 © 1998 Edizioni all’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale stato già denunciato, e consiste nel credere che le esigenze avvertite dagli uomini, e anche il tipo di risposta a quelle esigenze, debbano essere identici o quasi in diverse culture. Il mondo antico, diciamo così, non fu un tentativo mal riuscito di produrre qualcosa di simile al nostro mondo. Lo storico dell’economia e della tecnica Carlo M. Cipolla ha scritto invece, a conclusione di un suo piccolo e interessante libro sugli orologi, che una specifica cultura condiziona in una data maniera sia la percezione di un’esigenza sia la risposta che le si dà (46). È vero che arrivare alla meta il più sicuramente possibile, quando si va per mare, è un’esigenza materiale avvertita ugualmente da tutti, ma non è detto che a questa esigenza si diano risposte simili, che si distinguano solo per il maggiore o minore avanzamento, come se la strada dovesse essere necessariamente la stessa per tutti. La carta geografica è solo un modo fra tanti di rappresentare e trasmettere le forme della superficie terrestre, e altrettanto vale in particolare per la carta nautica. Oggi siamo arrivati, attraverso gli sforzi e i progressi compiuti in vari campi, da storici, osservatori di varia specie e psicologi, a concepire anche altri generi di possibile risposta a questa esigenza. In passato si è attribuito agli antichi l’uso delle carte nautiche in maniera aprioristica, come se l’onus probandi toccasse non già a chi afferma quell’uso, ma a chi lo nega. Oggi, speriamo di aver mostrato che il problema merita qualche riflessione più cauta. PIETRO JANNI Bibliografia AA.VV., 1992, L’uomo e il mare nella civiltà occidentale: da Ulisse a Cristoforo Colombo, Genova. R. BÖKER, 1958, ‘Windrosen’, «RE», II 16 Halbb. (VIII A2), coll. 2325-2381. A.L. BROWN, 1951, The Story of Maps, London. L. CASSON, 1950, The Isis and her Voyage, «TAPhA», 81, pp. 43-56. L. CASSON, 1952, Bishop Synesius’ Voyage to Cyrene, «The American Neptune», 12, pp. 294-296. L. CASSON, 1956, Fore and Aft Sails in the Ancient World, «The Mariner’s Mirror», 42, pp. 3-5. L. 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