A me mi pare Un puntino bianco. I pesanti ed
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A me mi pare Un puntino bianco. I pesanti ed
A me mi pare Un puntino bianco. I pesanti ed estenuanti scambi di vedute sul mio futuro ebbero inizio con un puntino bianco. Con un puntino bianco… e un filmino superotto di cui accidentalmente entrai a far parte – a mo’ di sfondo - nel giorno del matrimonio di mia zia Adelaide, la sorella di mio padre. Il tutto potrebbe apparire bizzarro se non si tenesse conto della mia espressione facciale nel medesimo istante in cui questo puntino bianco si materializzò. Vi dirò, il fotogramma incriminato non mi ritrae in primo piano e quindi, per poter comprendere l’arcano, bisogna subito sgombrare il campo dalle ipotesi balorde: non si trattava di un chicco di riso. Si, ok, avrebbe potuto esserlo, ma vi assicuro che non lo era affatto… e questo soprattutto perché altrimenti non si spiegherebbe il totale disallineamento assiale, tra la mascella e la mandibola, ben evidente in quel fermo-immagine, e la simultanea compresenza nell’etere di un premolare destro inferiore. Fu quello il fortunato giorno in cui mio il paparone – quel grazioso brontosauro pieno di peli – mi iniziò alle pratiche dell’orientamento scolastico “fai-da-te”. Oggi non ho dubbi: la sincerità nei confronti dei genitori va sempre accuratamente evitata, se non altro per risparmiarsi una lussazione in piena domenica, giusto un’ora prima di un luculliano pranzo nuziale. Quel giorno, infatti, quella sottospecie di “cosa” con le zampe, tenendomi teneramente per mano – guardando sognante mia zia allontanarsi verso una carrozza addobbata come un bordello ambulante, ma rigorosamente in bianco – mi chiese: “…e tu, Luigia, cosa farai da grande?” La domanda, vi assicuro, mi colse di sorpresa anche perché quel giorno ero tutta concentrata sul rosa del vestitino in organza che mammà mi aveva comprato, fregandosene altamente dei miei piagnistei isterici per quella bomboniera con le maniche che avevo dovuto indossare. Fu per questo motivo che, fissandolo dal basso verso l’alto, risposi candidamente: “voglio fare la ragioniera” E lui di rimando, mostrando un profondo odio per le donne emancipate, sbottò: “ragioniera? E di cosa vuoi ragionare, cazzo? Devi trovarti un marito qualsiasi e fare figli. Questo devi fare!!!” “Come ha fatto la zia Adelaide?” Suggerii prontamente. “No, come quella puttana di tua madre!” Ventilò subitaneamente, appoggiando delicatamente la sua irsuta mano sulle mie gote spolverate da un velo di cipria rosa petunia. Ora, se è vero che i dolori ci insegnano qualcosa, io quel giorno imparai almeno un paio di cosette veramente importanti. La prima è che i denti volano, la seconda è che gli uomini – i maschi – hanno un sinistro strepitoso, la terza è che “chi fa da sé, fa per tre”, ma che io sarei stata capace anche di far per quattro. Dal quel giorno, infatti, quasi fossi stata sfiorata da un soffio di onnipotenza, realizzai che volere e potere… Il giorno dopo invece, tornando sui miei passi, compresi che il primo passo da compiere era chiedere a me stessa “cosa vuoi fare da grande?” Come è ovvio, evitai di rispondere “la ragioniera” anche perché – dopo approfondite analisi epistemologiche - scoprii di aver maldestramente confuso libri contabili e dichiarazione dei redditi con Cogito ergo sum. Poco male, pensai, ci sono sempre le Charlie’s Angels. Ecco, quello che mi sarebbe piaciuto fare nella vita era diventare una poliziotta e sconfiggere tutti i cattivi della terra. In realtà, dopo aver visto strani esseri con le codine, otto chili di adipe fuoriuscire dalle loro orrende divise, compresi che ciò che volevo fare da grande era solo e soltanto essere Farrah Fawcett. E cosa ci voleva? Bastava aspettare di avere diciott’anni, avere un fisico strepitoso, una massa informe di capelli con le mèches… e il gioco era fatto. Per il resto, avevo visto talmente tante di quelle puntate da essere capace anche io di fare grandi e generosi sorrisi, mimare un paio di improbabili mosse di judo, e usare una pistola con la stessa destrezza con cui un giovane chirurgo si appresta ad effettuare il suo primo trapianto di cervello. Questo lavoro, oltre ad eminenti vantaggi di tipo economico, presentava un set di opportunità sociali, del tipo: apparire sui calendari, essere premiata quale migliore investigatrice dell’anno e ricevere tanti abiti nuovi ad ogni nuova puntata. C’era solo un problema, giusto un’inezia, che mi spinse a riconsiderare la prospettiva – sapete io ci ragiono sulle cose. Crescendo – tanto per cominciare - mi accorsi che questa storia delle tre ragazze carine e tanto brave che lavorano in un’accademia di polizia e che fanno lavori rischiosi (come rispondere al telefono, infiltrarsi come modelle nel mondo della malavita, o far attraversare i boyscout sulle strisce pedonali) cominciava a puzzarmi di molto vaga presa per il culo. C’era poi la questione di Charlie: un datore di lavoro che non si faceva mai vedere, ma che riscuoteva puntualmente una percentuale sui successi delle “sue” ragazze. Insomma, va bene tutto, ma farsi spacciare per una battona con la pistola, e che per giunta prende ordini da un dittafono non era proprio nelle mie corde. Oltretutto, non ero neppure bionda… per non parlare del fatto che in una città come Palermo mi avrebbero fatta fuori entro i primi cinque minuti del primo incarico. Che poi, voglio dire, i boyscout si sono estinti al volgere del nuovo millennio. Cotti e mangiati. Ricaduta in amletiche diatribe interiori in cui non sapevo più che pesci pigliare, mi abbandonai a una serie di sogni ad occhi aperti, primo fra tutti quello di diventare veramente una ragioniera. Insomma, cosa poteva esserci di così tremendo nello starsene, otto ore su otto, a far quadrare i conti del titolare, sgambettare suadentemente ai suoi occhi, e a servirgli una tazza di bollente caffè condito da una spremutina di latte direttamente dalla tetta sinistra? Non c’era nulla di male, ma io sentivo di non esserci tagliata. Crescendo, e maturando intellettualmente, giunsi finalmente ai quindici anni. All’inizio dei festeggiamenti per il mio compleanno, a mia madre venne la folgorante idea di ripropormi l’annosa questione con domande velatamente illogiche del tipo: “Luigia, hai quindici anni, stai diventando grande. Ormai hai il seno di una signorinella e l’assorbente che porti nella borsetta non è più un segreto per nessuno. Detto questo, cosa di piacerebbe diventare da grande?” Sarò sincera, ancor’oggi mi chiedo cosa cazzo c’entrasse quella pappardella di premessa col contenuto della domanda, e comunque, glissando sui contenuti di verità, cercai una risposta più diplomatica che non comportasse un’allegra improvvisata al reparto traumatologico della clinica Quisisana. Dopo dieci minuti di macchinosi ragionamenti – e con l’acquolina in bocca per i tre piani di Saint-Honoré che mi attendevano - elaborai quanto segue: “cara mamma, potrei fare la ragioniera, ma ho deciso che farò la donna bionica. Ecco!” A questa risposta mia madre non diede seguito, ma capii che non aveva gradito un gran che la mia scelta professionale… e questo soprattutto perché continuava a starsene seduta sulla sedia con uno sguardo fisso nel vuoto, come se si stesse concentrando per ricongiungersi con lo spirito di chissà quale divinità egizia. Dopo qualche minuto di analitica osservazione del suo stato di trance, mi accorsi che un leggero tremolio stava iniziando propagarsi dall’occhio destro fino al corrispondente braccio. Quale momento migliore - pensai – per verificare subito le mie potenzialità sovrannaturali di fuga alla velocità della luce. Non ebbi nemmeno il tempo di concludere la diagnosi che mamma mi stese con un gancio. I giorni che seguirono, rimasi in lieta attesa che mi togliessero il gesso dal lobo temporale, sperando che qualche astuto chirurgo avesse nel frattempo sostituito l’orecchio sinistro con un manufatto di nanotecnologia acustica. Purtroppo, con mia somma delusione, non solo constatai che mi ero persa un centinaio di decibel, ma che con molta probabilità per diventare bionica avrei dovuto farmi spezzare prima un braccio, poi una gamba e alla fine avrei dovuto farmi infilzare l’occhio destro con un ferro da calza. Oppure, in alternativa, avrei dovuto gettarmi sotto un treno per raggiungere lo stesso risultato in un colpo solo, sperando che il puzzle non risultasse troppo astruso. Dopo aver elaborato un complesso diagramma costi/benefici che mi vedeva in una sedia a rotelle per il resto della mia vita, cominciai a riconsiderare attentamente la prospettiva di salvare il mondo grazie alle mie doti fisiche eccezionali, ipotizzando strade meno pericolose e di certo più consone a una ragazzina delle mia età. Quello stesso anno, temendo altre fratture e conseguenti forzati allontanamenti dai banchi di scuola e dalle torte di compleanno, cominciai una profonda riflessione su me stessa e sui mille modi di dare risposte senza per questo candidarmi a un letto di ospedale. Il primo risultato che raggiunsi fu l’antipatica sensazione di navigare un esteso mare di merda fumante frammisto a dubbi di ogni sorta sul mio futuro di donna in carriera. Ma la cosa che più mi irritava – a parte l’ovvio fetore dei rigurgiti esofagei prodotti da quei miasmi infernali – era il fatto che le mie compagne di scuola parevano aver già compreso appieno le strade da seguire… e il tutto senza la benché minima fatica. Io invece, chissà perché, continuavo ad arrovellarmi sulle mille implicazioni di una scelta dotata di senso. Insomma, scegliere quel che si vuol fare non è mica una cosa facile! E se dopo aver intrapreso una carriera – continuavo a domandarmi- mi accorgo che non mi piace? E se dopo anni di studi mi accorgo di aver sbagliato tutto? No, ne ero sicura, la scelta andava ponderata attentamente. La cosa bella di frequentare il liceo classico è che alla fine del corso di studi – dicono tutti – ti si può aprire qualunque possibilità… insomma, si ha la giusta base culturale per intraprendere qualsiasi professione. “Magnifico!” – pensai – “il che corrisponde a dare una patente di indecisa cronica a una che come minimo si è già laureata nella materia.” Il giorno della maturità, complici gli alti voti ottenuti in tutte le materie, la presidentessa della commissione – un barilotto in gonnella con la permanente e un paio di baffi a manubrio, di nome Carolina Quartodivacca - prima di regalarmi la lode, mi chiese a sorpresa: “Signorina Del Piràn – questo è il mio cognome - … e ci dica, cosa vuol fare da grande? “Cazzo, noooooo!!!” esclamai a denti stretti a bordo di un sorriso finto-disinvolto. Meditai per abbondanti 45 minuti, poi, in preda ad uno stato confusionale senza precedenti – e dopo essermi assicurata di essere a sufficiente distanza di sicurezza - risposi placidamente: “vorrei sposarmi, partorire 3 o 4 pargoli, occuparmi della famiglia e della casa.” Intervallo scientifico. In natura esistono i cosiddetti “Tre regni”: il regno minerale, il regno vegetale e il regno animale. Fatto salvo per il regno minerale che sta lì senza fare un cazzo, gli altri due hanno forti implicazioni nel processo di vita degli esseri umani. Ora, le piante – che stanno anch’esse lì a non fare un pisello (a parte le piante carnivore) – germogliano, profumano, decorano le tavole e i funerali, ci indicano la strada, diventano fogli di giornale o carta igienica, quindi deperiscono… magari attaccate a una flebo, e poi, alla fine, muoiono. Per quanto riguarda il regno animale, esso è suddiviso in tre categorie: gli animali, gli esseri umani e gli ibridi insostenibili. Gli animali solitamente sono quelli che oltre a fare la pipì sul tappeto, producono la lana, il cibo in scatola e le malattie trasmissibili. Gli esseri umani sono, invece, quelli che nascono, crescono, si riproducono, rompono i coglioni, e trapassano. Le zitelle, ovviamente, saltano un passaggio e rompono i coglioni fino a che schiattano. Alla categoria degli ibridi appartengono tutti gli animali o gli esseri viventi che, a seconda delle opportunità, trasmigrano attitudinalmente gli uni negli altri, onde per cui non di rado qualche stupido barboncino viene pettinato come un’attrice di Hollywood e, viceversa – ma con maggiore frequenza – qualche attrice recita come una cagna. Fine dell’Intervallo scientifico Ora, sebbene abbia avuto sempre la strana ambizione di voler appartenere al regno animale, e specificatamente agli esseri umani, tra il giugno e il settembre di quell’anno mi trovai a sperimentare eccitanti incursioni in quello vegetale, ritrovandomi, senza motivo apparente, in un centro di rianimazione coatta a opera di un ibrido raccapricciante tra una presidentessa di commissione femminista e un rinoceronte a digiuno di pestaggi da oltre due anni. Dai racconti che mi fecero i parenti e gli amici tutti già pronti per il classico necrologio - che avrebbe descritto la mia come una prematura dipartita - venni conoscenza che anche i medici trovarono un po’ inusuale l’improvviso appiattimento orizzontale di tutte le mie ossa e il simultaneo logorio degli zoccoli della signorina Quartodivacca. Ristabilitami totalmente - fatta eccezione per una forma di psicosomatica idiosincrasia alla domanda “cosa vuoi fare da grande?” che al solo sentirla pronunziare ancor’oggi mi causa conati di vomito seguiti da imprecazioni colorite in pieno stile Linda Blair ne “L’esorcista” – decisi di affrontare la questione, ritirandomi in beata solitudine in quel di Antiochia dove presi a noleggio un sasso stretto e lungo, mi ci sedetti sopra, e divenni stilita. Dopo mesi di muta contemplazione del paesaggio, di tutte le creature che lo popolano e di strabiche esplorazioni interiori sui miei desideri più profondi inerenti il senso della vita, decisi di tornare a casa e di affrontare definitivamente la questione di partenza, non senza prendermi le mie dovute soddisfazioni personali. Sarò sincera, avevo ancora qualche dubbio – più sul “come” che sul “cosa” – ma il fortuito incontro con una vecchia conoscente di nome Ada me li sciolse tutti. Deambulavo distrattamente persa nel vuoto per le vie del centro, quando una mano mi bloccò da dietro al suono di “Luigia, tesoro, quanto tempo!!!” Quando mi voltai, dopo aver fissato a lungo quella mano ancora così pensatemene adagiata sulla mia abbronzatura tropicale, la riconobbi subito: era l’amica del cuore… di mia madre. Tacqui con composta freddezza – certe facce, pensai, era meglio dimenticarle - ma lei, tutta felice per lo scoop che avrebbe realizzato da lì a poco, mi incalzò con una domanda a dir poco “alternativa”: “dove sei stata in tutto questo tempo? Cos’hai fatto di bello?” “Ho fatto la stilita!” risposi con tono di sfida. “Ma è stupendo tesoro!” esclamò lei tutta ringalluzzita - “Lo sapevo che eri una ragazza creativa… e dimmi con chi hai lavorato? Versace, Cavalli… Dolce e Gabbana?” La fissai dritta negli occhi, mi guardai le unghia, poi sorrisi dolcemente, ma alla fine - senza darle il tempo di reagire – compiendo un prodigioso doppio salto mortale con sospensione a mezz’aria, le scaricai una doppietta di calci volanti direttamente sulle gengive. “Stilita, cretina, non stilista!!!” Non c’è che dire: dà una certa soddisfazione lasciare mezza morta una deficiente sull’asfalto a raccogliere i suoi puntini bianchi, ma la cosa più bella - pensai – era che finalmente avevo compreso cosa sarei diventata da grande: una che non si fa mettere i piedi sopra. Il resto è tutta una sega mentale. D’altronde la verità – questa è la mia idea - è una questione di interpretazione. Cosi è (se vi pare)… diceva mio nonno… e a me, francamente, mi pare!