Per riattivare gli altari – P. Coppo, L. Pisani

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Per riattivare gli altari – P. Coppo, L. Pisani
PER RIATTIVARE GLI ALTARI.
UNA RICERCA-AZIONE TRA SALUTE
MENTALE E MEDICINA TRADIZIONALE
IN MALI
di Piero Coppo e Lelia Pisani
D
a anni è attivo nella Provincia di Bandiagara (Mali) il Centro Ricerche
Medicine Tradizionali (CRMT) frutto di un Programma della Cooperazione Tecnica italiana. Questa struttura è impegnata nello studio dei sistemi tradizionali di cura, nel loro sostegno e organizzazione nei vari campi
della salute umana, e in particolare in quello che i medici chiamano dei
«disturbi psichici». I risultati delle ricerche e degli interventi effettuati sono
stati in parte pubblicati in Italia e all’estero.
Il presente articolo vuole rendere conto di una ricerca-azione effettuata negli anni 2002-2004 dai due Autori, anche per conto di alcuni soggetti
collettivi locali e italiani.
IL CONTESTO DELLA RICERCA-AZIONE
Una delle attività del CRMT è il sostegno e l’organizzazione delle reti
tradizionali di cura attraverso la promozione di dinamiche associative. Le
nuove forme aggregative quali Associazioni locali di terapeuti tradizionali (AT) e la Federazione delle Associazioni Terapeuti Tradizionali di
Bandiagara (FATTB) sono sempre più praticate perché consentono ai singoli terapeuti, costituendosi come soggetto collettivo legalmente riconosciuto, da un lato di aumentare il proprio potere negoziale nei confronti
del sistema convenzionale della Sanità, delle istituzioni tecniche, amministrative e politiche, di eventuali soggetti esterni desiderosi di entrare in
contatto o partenariato con il sistema tradizionale e dall’altro di contrastare la crisi che travaglia il mondo tradizionale della cura e il suo progressivo indebolimento.
«I
FOGLI DI ORISS»,
n. 24, 2005, pp. 9 – 30
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I terapeuti tradizionali della zona, in prevalenza dogon, sono sottoposti
infatti a una triplice pressione. La prima, è quella modernista che investe
tutte le attività e i saperi tradizionali, svalorizzati dalla penetrazione delle
nuove merci materiali e immateriali (ideologie, stereotipi). La seconda è
specifica: i sistemi tradizionali di cura affondano le loro radici nelle cosmovisioni animiste e nelle pratiche relative, radici che le religioni monoteiste
(in questo contesto la più rappresentata è l’Islam) soprattutto nelle loro
declinazioni fondamentaliste impongono di recidere. La terza, quella più
irresistibile, è strutturale ed economica. Il sistema tradizionale di cura si
fonda sulla continuità trans-generazionale e sulla partecipazione delle popolazioni alla gestione dei luoghi di cura, spesso veri e propri santuari, sia
attraverso offerte in natura (in particolare animali da sacrificare e cereali) sia
attraverso la partecipazione collettiva alle grandi feste stagionali, soprattutto quelle di ringraziamento. Negli ultimi anni la continuità trans-generazionale è stata messa in profonda crisi1 da fattori economici (vista la sempre
maggiore necessità di denaro, i giovani preferiscono andare, o sono inviati,
in situazioni dove possono produrre maggiore reddito: a lavorare in città, a
contatto coi turisti, eccetera) e culturali (veloci e profonde trasformazioni
fanno sì che i giovani non riconoscano il valore del saper-fare dei vecchi e
non siano disposti a sottoporsi alla lunga relazione di sottomissione e dipendenza richiesta dalle formazioni-iniziazioni). Ne consegue che i vecchi
sono soli e progressivamente impotenti. Un anziano guaritore commentava
le difficoltà domandando: «Chi acchiapperà il pollo per il sacrificio, se il
figlio non è al fianco del vecchio padre?». Le offerte ai santuari si fanno rare
e cambiano di natura: un numero sempre maggiore di persone rifiuta di contribuire con animali ai sacrifici necessari al mantenimento di altari2 che le
religioni considerano diabolici.
In questa situazione, i centri di cura per ciò che i medici chiamano
«malattie psichiche», malattie che più delle altre sono legate alla cosmo1
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Si veda per esempio Coppo 2004.
Adottiamo la traduzione proposta da M. Kervran (1993) del temine òmbòlò, che
significa nello stesso tempo l’oggetto che viene usato come mediatore verso gli invisibili, gli interdetti che gli sono collegati e la disgrazia che può colpire una persona se
infrange tali interdetti. La traduzione comune è fétiche. Tale termine che deriva dal
portoghese feitiço, è stato coniato dagli esploratori e mercanti di schiavi portoghesi e
ha un senso spregiativo (cfr. Latour 1996). Ambaeré André Tembely, catechista e collaboratore di M. Kervran e altri intellettuali dogon propongono «altare ricettacolo» sottolineando l’aspetto che più lo rende simile all’altare delle chiese cattoliche.
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visione e al contatto con le dimensioni spirituali e invisibili, stanno perdendo forza e disattivandosi, in parte per le ragioni sovracitate, in parte
per la difficoltà stessa delle cure e la responsabilità che esse comportano.
Oggi un guaritore da solo non può ospitare nella sua casa un malato
grave che richieda continua sorveglianza come era uso fino a pochi anni
or sono. Racconta A. S., «guaritore di follia» vicino a Bandiagara, che
alcuni mesi fa stava curando un malato che aveva ospitato nella sua casa.
Quando quest’ultimo aveva iniziato a star meglio aveva allentato la sorveglianza e il paziente era fuggito. Arrivato in città aveva rubato una
motocicletta e poco dopo l’aveva sfasciata in un incidente. Il giudice ha
allora convocato il guaritore chiedendogli di pagare i danni: il malato era
affidato a lui, e avrebbe dovuto avere un guardiano per impedirgli di fuggire. Questa idea è nuova; fino a qualche anno fa la responsabilità degli
atti del malato era della famiglia, non del guaritore. Stando così le cose,
molti terapeuti tradizionali pensano che i benefici delle cure intensive a
gravi «malati psichici» ospitati nei loro «santuari» non compensino la
fatica e i rischi e che addirittura questa attività stia diventando impossibile per la mancanza di aiutanti e coterapeuti al loro fianco; e la abbandonano. Poiché nessun servizio di Salute Mentale è attivo nella regione,
e neppure è previsto, ciò significa che i «folli» sono abbandonati a loro
stessi e alle loro famiglie. Il numero dei vagabondi psicotici che vivono
nei pressi dei mercati aumenta infatti ogni anno, come il numero degli
incatenati nei recessi delle case di famiglia.
Questa situazione impone la ricerca di soluzioni adattate e sostenibili,
ed è in questa prospettiva che è stata eseguita la presente ricerca-azione.
RIATTIVARE GLI ALTARI: IL QUADRO ISTITUZIONALE
Uno dei santuari di cura per disturbi psichici si trova a circa tre ore di pista
da Bandiagara, nel villaggio di Dono Ban, Comune di Ondugu (Fig. 1), in
area culturale Tommo, una tra le meno studiate (lingua locale Tommo-sò3).
E’ uno dei quattro più importanti luoghi di cura della Provincia, ma la
sua operatività è da molto tempo ridotta al minimo. Oggi, dicono i guari3
Adottiamo in questo articolo la grafia in uso in Mali nei corsi di alfabetizzazione
funzionale, semplificata. In particolare «ò» si legge come una «o» aperta, «e» indica
una «e» aperta, «g» va sempre letto «gh» e «h» corrisponde a un suono nasale «ng».
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Fig. 1 – Mappa dell’Altopiano di Bandiagara
tori, le cure che si trovano a Dono Ban possono migliorare il disturbo, ma
non guarirlo. Il responsabile del santuario, Ambaindé Tembiné, è un vecchio di circa 80 anni, presidente della locale Associazione di Terapeuti
Tradizionali che aggrega una quindicina di guaritori di varie specialità.
Nel corso di una riunione della Associazione alla quale nel 2002 abbiamo
partecipato, il Presidente della FATTB si è fatto portavoce, a nome della
Federazione, di una richiesta all’Associazione italiana di cui facciamo
parte (Organizzazione Interdisciplinare Sviluppo e Salute, ORISS): aiutare Ambaindé a riattivare gli altari del santuario in modo da restituire al
luogo la piena operatività nella cura della follia.
Nel corso di due incontri successivi abbiamo discusso con Ambaindé e
Ambakanee Tembiné, alla presenza dei loro «fratelli minori» e del Presidente della FATTB, le modalità pratiche della collaborazione che avrebbe
portato alla riattivazione degli altari.
La richiesta a noi in quanto rappresentanti di ORISS era dunque partita dal presidente della FATTB e fatta propria dalla ATT di Ondugou. Nel
corso delle riunioni della ATT era stato concordato che avremmo portato
in Italia la richiesta, e Ambakanee aveva aggiunto che avrebbe voluto che,
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insieme agli altari di Dono Ban, fosse riattivato anche il suo, una piccola
chiesa in rovina, della quale era il solo guardiano (del gruppo iniziale di
quaranta cattolici era rimasto solo lui). Ci eravamo impegnati allora a definire con loro le modalità pratiche del lavoro in modo da portare in Italia un
progetto dettagliato.
I due incontri di concertazione si sono svolti nella casa di Ambaindé a
Dono Ban. ORISS avrebbe dovuto coprire alcuni costi, proprio quelli che
avevano impedito al gruppo locale di riattivare gli altari, e che ammontavano a circa 490 Euro. Servivano per comprare gli animali da sacrificare:
quattordici capre ben nutrite (otto femmine che avessero partorito almeno
una volta, e sei maschi); due quintali di sorgo, quattro di riso. Inoltre coprivano i costi dei viaggi del logista di ORISS in Mali da Bandiagara a Ondugu per seguire i preparativi e partecipare alla cerimonia. Il denaro necessario per la cerimonia doveva arrivare per tempo: bisognava mettere a
mollo il cereale per la birra, farlo germinare per circa dieci giorni e poi
pestarlo nei mortai; quindi almeno un mese prima della data fissata occorreva che la somma fosse disponibile in loco.
I terapeuti avrebbero contribuito con quattro tra galline e galli per ogni
altare, sesamo, olio, miele, biscotti, foglie di cipolla, spezie per la salsa,
peperoncino e sale. Poi ci sarebbero stati altre galline e galli, offerti dai
famigliari, il cui numero era impossibile precisare.
«Non so se tutti quelli della mia famiglia paterna contribuiranno con
polli, perché alcuni sono entrati nella religione musulmana. Dobbiamo
invitarli, e se rifiutano sono loro ad assumersi la responsabilità del
rifiuto. Altri, contribuiranno dando denaro». (AT, 05.02.04)
Visto la formalità e la peculiarità della richiesta del Presidente della
FATTB abbiamo portato la discussione sul fatto che il nostro sostegno non
poteva che essere per l’Associazione locale dei terapeuti e che se il progetto di riattivazione degli altari era davvero da loro considerata una priorità potevamo farci portavoce di questa esigenza. Il Presidente della
FATTB sollecitandoci di non dimenticare l’altare di Ambakanee ci ha
offerto l’occasione di attivare un confronto sui rapporti tra guaritori animisti, musulmani e cristiani. Il progetto doveva dunque includere anche un
contributo per il restauro della chiesetta per farne uno spazio di incontro e
discussione tra le diverse religioni in modo da favorire la convivenza paci13
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fica in un contesto multireligioso4. Abbiamo infine chiesto di poter partecipare e documentare la cerimonia, se possibile, anche in video e foto. Non
ci sono stati problemi da parte loro, anche se alcuni momenti e luoghi
sarebbero stati vietati. Per chiudere la concertazione, restava solo, per noi,
da definire almeno approssimativamente l’epoca in cui sarebbe avvenuto
il rito. La data venne allora fissata: il primo dicembre 2004.
Dopo una prima valutazione la richiesta è stata portata al Direttivo di
ORISS che ha ritenuto l’azione interessante perché avrebbe permesso di
raccogliere informazioni sul funzionamento, la dismissione e la riattivazione dei luoghi di cura della «malattie mentali», elementi preziosi per la
prevista formulazione, da parte di ORISS, di un Progetto Provinciale di
Salute Mentale in collaborazione con la FATTB, il CRMT e il Servizio
Nazionale di Salute Mentale.
Se l’avvio della dinamica è stato quindi opera di due soggetti collettivi
(FATTB e ORISS) attraverso i loro rappresentanti, essa è poi stata concordata e precisata con l’Associazione locale dei Terapeuti Tradizionali, con
il responsabile stesso del santuario, Ambaindé, e il suo aiutante principale, Ambakanee.
In questo articolo intendiamo presentare gli elementi raccolti nel corso
della fase preparatoria la riattivazione degli altari.
LA STORIA DEL SANTUARIO
Le informazioni circa la storia del santuario sono state raccolte attraverso interviste al Presidente della FATTB Alusseini Baba Yalcouyé, al
responsabile attuale del santuario, Ambaindé, al suo aiutante Ambakanee,
ad alcuni membri della famiglia trasferitisi a Bandiagara (Amadu Tembiné,
terapeuta e guardiano della sede della FATTB e Seydu Tembiné, terapeuta).
Il santuario di Dono Ban era nel pieno della sua forza e conosciuto in
tutta la zona quando il responsabile era Jon Wanama (jon = colui che cura).
Il padre di Jon Wanama, Ambaba, curava, ma il suo sapere era limitato:
trattava la lebbra e alcune malattie minori. Jon Wanama ha ereditato il
sapere del padre e l’altare relativo; ma è su di lui che è venuta la «cono4 Questo aspetto del progetto altrettanto ricco e interessante sarà oggetto di una
successiva elaborazione.
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scenza grande», quella che ha dato rinomanza a Dono Ban. Jon Wanama
era il nonno dell’attuale responsabile, Ambaindé.
Grazie alla «forza» di Jon Wanama, Dono Ban era celebre nel paese
dogon, come testimonia il Presidente della FATTB.
«Quando sono nato, verso il 1959, questa era una casa di cura (jon
gine), tutti ne parlavano. Mio nonno veniva qui per contribuire ai sacrifici sugli altari (òmbòlò nò mò di: per dare da bere agli altari).
All’epoca posti come questo erano numerosi nel territorio dogon, oggi
molti sono stati abbandonati. Gli altari di Dono Ban erano celebri per
la cura della follia, ma se a qualcuno era stato somministrato il dugo
(veleno, stregoneria) veniva qui dove con opportuni rimedi lo vomitava. Se una donna moriva in gravidanza, erano gli uomini di questa
famiglia che venivano chiamati per raccogliere gli effetti (genu) delle
donne morte e purificare le loro case. Qui ci sono quattro altari diversi. In più, c’è l’altare dege bála (“oggetti raccogliere”) per poter manifestare il binu5. I benjine dei dintorni venivano qui per partecipare alla
cerimonia che aveva luogo ogni anno». (ABY, 10.11.04)
E’ Ambaindé Tembiné a raccontare la storia della famiglia.
«Ambaba (il bisnonno) conosceva la cura della lebbra, ma la vera
conoscenza è venuta su Wanama. Il sapere è venuto col binu, Wanama
era un benjine. Il binu è sceso (sugòde) su di lui all’improvviso, mentre era seduto (dannya), improvvisamente si è messo a dissotterrare gli
oggetti, li raccoglieva qua e là. Tutti gli altari sono stati trovati da
Wanama (òmbòlò wo belade: altari a lui trovare) ed è attraverso di lui
che il sapere è entrato nella famiglia.
E’ stato un altro benjine a fissare Wanama (won dandu). Quando il
binu viene sulla persona, bisogna distinguerlo dalla follia (yeme –
yeme). La persona raccoglie ogni tipo di oggetti: veleni (dugo) e rimedi (jon). Se tiene i dugo, impazzisce; fino al momento in cui le cose non
vengono separate il rischio è di impazzire. E non è la persona stessa
che può fare la separazione, sono gli altri che vengono e dividono: questo è dugo, bisogna sbarazzarsene, questo è jon e si può tenere.
5 Il binu è «lo spirito totemico protettore» (M. Kevran 1993: 54). Il benjine (in lingua tommo sò) è il responsabile dell’altare del binu e corrispondente dell’antenato mitico di cui incarna lo «spirito». A questo proposito si vedano, per esempio, Dieterlein
1938 e 1941, De Ganay 1942.
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Quando la persona comincia a raccogliere gli oggetti, sono gli altri
benjine che vengono a distinguerli e a fissare la persona. Quelli che
hanno posato Wanama sono morti. I benjine oggi sono diminuiti.»
(AT, 10.11.04)
Così Ambakanee e descrive la crisi che ha aperto a Wanama la
via del binu.
«Un giorno, nel corso di una festa dove la gente danzava, Wanama è salito su una roccia per sedersi. D’improvviso, mentre era tranquillamente
seduto, qualcosa è venuto sulla sua testa. Allora le sue gambe sono divenute pesanti e ha cominciato a piangere. Allora si è arrovesciato ed è
caduto, mentre il binu saliva sulla sua testa6». (AMB, 10.12.04)
Secondo Amadou Timbiné, che è stato da giovane assistente del benjine,
«Quasi tutte le persone che manifestavano il binu sono morte. Il binu
viene sotto forma di malattia, di follia. Quando una persona è colpita
da follia o da malattia o da febbre (wobu) metti in opera tutti i rimedi
che conosci. Se non funzionano chiami gli indovini (ku ma wein “quelli che vedono la testa” degli altri, ciò che è sulla persona). Sono gli
indovini o gli altri binu che possono dire se si tratta di follia, malattia,
o binu e in quest’ultimo caso come fare per fissarlo, posarlo. Una volta
che è chiaro che si tratta del binu bisogna prima di tutto purificare la
testa con la scorza di pelù (Khaya senegalensis) poi si passa alla purificazione del corpo (godu jalama). Si impongono anche degli interdetti: non deve fare questo, non deve fare quello.
La persona che ha il binu, fugge nella boscaglia. Una volta che è andata nella boscaglia, può entrare nell’acqua, nelle grotte, può fare qualsiasi cosa: è fuori della società, è fuori di sé. Al ritorno dalla boscaglia,
quello che lo aspetta per “posarlo” ha un pezzo di pelù: la persona arriva, colui che lo aspetta gli fa un giro attorno poi stacca coi denti tre pezzetti di corteccia di pelù e li sputa mormorando incantesimi. Così il
binu comincia a discendere (binu sugòde).
6 Kide mi dagu danna mo ule wò onone anemone gilem kane. Mi dagu piede ga
similia mi sua ne binu ku mo ne u le. Letteralmente: «Cosa seduta testa a lui salita dopo
di ciò le sue gambe pesanti ha fatto. Essendo seduto aveva intenzione di piangere arrovesciato, contorcersi disceso; così il binu sulla testa è salito».
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Quando il binu lascia la persona è tranquilla; ogni tanto il binu torna
su di lei.
Ma il binu resta binu, a condizione che non si mescoli (waanieliyo7)
con gli interdetti chiamati ta, perché in questo caso diviene normale
follia. Oggi, pochi vogliono diventare benjine: per le religioni, chiunque segua la via del binu è kafiri, infedele, è fuori dalla religione ed è
dannato. Nel mondo di oggi, se qualcuno manifesta i segni del binu
invece della via del binu (binu odu: “binu sentiero, via, cammino”) gli
si danno medicine e così diventa follia che non potrà mai guarire. Oggi
non c’è quasi più nessuno che possa diagnosticare il binu; è per questo
che è finito». (AMT, 12.11.04)
Ambaindé ritiene che Jon Wanama abbia potuto costituire il santuario
grazie alla speciale conoscenza datagli dal binu.
«Wanama ha installato quattro altari per la cura delle malattie ed è
diventato Jon Wanama (Wanama il guaritore). Uno, quello per la cura
della lebbra lo ha ereditato dal padre, gli altri li ha trovati col binu.
Yapilin (“donna bianca”) era qui ben prima di lui, era qui con i primi
antenati che hanno abitato il luogo. Poi quando c’è stata la grande siccità (ganda yamai: “mondo guastato”) e se ne sono andati, prima di
partire hanno sbarrato l’altare. Quando Wanama ha manifestato il binu,
sapeva dove trovare l’altare e l’ha dissotterrato.
Gli antenati erano venuti dal Mandé e avevano portato insieme Na e
Yapilin. Il nome Yapilin è incompleto; solo dicendo Na (madre) tutto è
completo. Yapilin da solo non ha molta forza; sono i benjine che hanno
aggiunto Na. Na, significa che tutti gli oggetti (genu), tutti i materiali
sono completi. Na è conservato nelle grotte, non sta all’aperto e deve
restare fuori dalla vista. La differenza tra Yapilin e Na è che una donna
che muore dopo aver partorito senza che il sacco sia uscito, è per Yapilin. Mentre Na, è per una donna morta senza aver potuto partorire. Per
una donna che muore in stato di gravidanza, il genu è diverso da quello di una donna che muore avendo partorito: òmbòlò den den (i due
altari sono diversi).
Wanama è nato a Ondugu, ha ereditato dal padre Melegen Die (“Melegen grande”), l’altare per la cura della lebbra, poi quando ha ricevuto il
7
Waanieliyo significa mescolare, confondere e si usa soprattutto in riferimento a
pratiche relative agli altari. Se si mescolano, si confondono, si diviene purò, impuri. In
altri contesti, come le attività che si svolgono in cucina, mescolare si dice sane.
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binu ha dissoterrato gli altri tre altari; Dege, Melegen dagi (“Melegen
piccolo”) e Na.
Dege è come la radio: il guaritore mette le dege e i morti vengono e
parlano; ad esempio se una persona perde una persona cara e ha bisogno di parlarle viene e le parla, dege trasmette il messaggio come la
radio. Melegen e Yapilin curano la follia (wede), altre malattie, e gli
spiriti. Melegen Die cura la lebbra (dumbu).
Wanama ha trasmesso il suo sapere al figlio Anjelu; quando è morto,
Anjelu avrebbe dovuto sostituirlo ma si è confuso (lighidyiai) con i
genu e ne è morto8.
All’epoca ero in esodo, quando sono tornato non sapevo come gestire
tutto ciò. Quando ero partito per l’esodo, i fratelli erano qui ma non
potevano sostituirmi. Dovevo tornare per prendere il posto del padre.
Ero a Niono; ero partito nel ’58. Ero partito che c’erano il padre e il
nonno, e non ho visto i loro cadaveri, sono morti mentre ero via. Quando sono tornato, ho preso a fare quello che sapevo. Ma i fratelli paterni che erano qui non hanno voluto aiutarmi a sostenere gli altari perché
erano entrati nella religione. Non ho voluto lasciare e ho continuato a
fare quello che potevo, quello che mi avevano insegnato il padre e il
nonno, ma senza poter riattivare gli altari.
Il padre si era confuso, non so come, ma quando si assumono certe
responsabilità, ci sono cose che non si devono fare; se le si fanno, è
pericoloso per chi le fa. Ci sono degli interdetti che vanno rispettati; se
non li rispetti, gli yimen, gli antenati, sono pronti a colpire e a portarsi
via la persona. Ci sono cose che non puoi mangiare, non devi salutare
una donna mestruata, ci sono animali che se li uccidi non puoi toccarli. Di tutti i fratelli sono l’unico che continua. Qui a Dono Ban ci sono
i fratelli minori e gli amici. Sono il più vecchio, il solo a rappresentare
tutti gli altari. Gli altri sono entrati nella religione e hanno paura perché
gli altari possono uccidere. Ci sono degli interdetti che anche loro, i
fratelli, devono rispettare. Sono nella religione ma qui non pregano e
mandano le loro donne nella casa delle mestruazioni. Hanno paura di
morire». (AT, 10.11.04)
L’assistente di Jon Wanama è Ambakanee, l’unico «cristiano» di Ondugu, custode di una piccola cappella in rovina. Già musulmano (un altro suo
8 Anjelu, cioè, ha sbagliato le procedure e il non rispetto delle procedure del rito ha
causato la sua morte.
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nome è Mussa) si dichiara cristiano per «fede» (kinde: cuore, fegato, sede
dei sentimenti) ma non è battezzato e da anni non ha contatti con la missione cattolica di Bandiagara. Il suo nome cristiano è Moïse. Secondo lui, il
binu è venuto su Wanama al tempo della guerra di Kasa (1913).
Ambakanee è figlio di Pamo, una delle otto figlie di Wanama. Quando
la nonna di Ambakanee era incinta di Pamo, il binu aveva appena cominciato a manifestarsi su Wanama. Tre anni più tardi, lo stesso giorno, è stato
celebrato il battesimo di Pamo e la fissazione del binu. Il nome Pamo
significa: «affido al binu questo bambino». Nello stesso giorno, hanno
rasato la testa al padre e alla figlia9.
Ambakanee è un guaritore ma non ha ereditato il saper-fare terapeutico nel villaggio paterno (suo padre è di Ondugu, si chiamava Yama Odu e
non era un terapeuta) ma da parte materna. Così la sua conoscenza è limitata: conosce le piante e i rimedi, le parole sacre e come mantenere gli altari ma non può esserne il responsabile.
Alla morte di Anjelu a Dono Ban c’era solo il figlio minore Seydu, che
allora era molto piccolo. La gente, forse anche a causa della disgrazia che
aveva colpito la famiglia con le due morti dei responsabili degli altari a
pochissima distanza, ha detto che il santuario era finito ma Ambakanee ha
detto: no! le cose continueranno.
Ambakanee racconta la sua opposizione alla fatalità e come ha agito
per far si che le cose continuassero. Il cugino Ambaindé era a Niono e
Seydu, il minore tra i cugini, era molto piccolo. Nondimeno ha cercato di
spingerlo spiegandogli come fare, per lunghi anni aveva assistito Wanama
nel suo lavoro, conosceva i gesti, le parole e le piante. Seydu ha rifiutato
il suo aiuto sostenendo che lui era il figlio del guaritore, Ambakanee non
era della stessa famiglia e quindi non poteva pretendere di insegnargli
niente. Ambakanee ribatteva che avevano lo stesso nonno, che era lui che
lo assisteva, che raccoglieva le piante, che curava la follia. Lui era l’unico,
tra quelli rimasti, a sapere come fare. La sola cosa che non poteva, ciò che
gli era vietato, era prendere gli altari e portarli nel suo villaggio paterno,
non gli appartenevano, erano del padre di Seydu, era Seydu che li aveva
ereditati. Lui conosceva solo le piante e gli incantesimi da utilizzare. Ma
prendere il posto del figlio di Anjelu, sarebbe stato per lui un disonore
(gire ahi: «vergogna degli occhi»).
9 I riti di passaggio fondamentali nella vita di una persona: battesimo, circoncisione, iniziazioni ecc. comportano la rasatura della testa.
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PIERO COPPO - LELIA PISANI
Poi, come a voler sottolineare che comunque i poteri passano anche per
via materna, ricorda un episodio che riguarda la madre. Wanama doveva
partecipare a una festa di cacciatori del Wazuba. Lui non poteva andare e
aveva inviato la figlia con la sua lancia, perché lo rappresentasse alla festa.
Tutti i villaggi che partecipavano all’organizzazione avevano contribuito
con birra e cibo. Quando è stato il momento di iniziare, sono stati citati i
nomi di tutti i partecipanti ma non quello di Wanama e del suo villaggio.
Allora Pamo, grazie a un potere che aveva, ha sigillato tutti i recipienti di
cibo, nessuno riusciva ad aprirli.
Il capo delegazione sorpreso che nessuno mangiasse o bevesse ha detto:
vi abbiamo dato il benvenuto, avete da mangiare e da bere, ma tutti i piatti
sono chiusi. Che cosa aspettate? Non ci sono uomini tra voi per iniziare?
Ma nessuno riusciva a sollevare i coperchi, impossibile mangiare e
bere. A un certo punto uno tra i presenti ha detto: ecco, avete trascurato la
donna che è seduta laggiù; non le avete dato la parola, non l’avete onorata
né accolta, e adesso siamo in questa situazione.
La delegazione ha capito, sono andati a pregare Pamo, ma lei ha detto
che non ne sapeva nulla. Gli uomini hanno insistito e le hanno chiesto
scusa, allora Pamo ha detto che li perdonava e che andassero pure. Quando sono tornati al luogo della cerimonia i piatti erano aperti.
Ambakanee con orgoglio sostiene che la storia è conosciuta in tutti i
villaggi della zona Tommo. E conclude: «Tutto quello che so l’ho imparato qui, qui sono nato, cresciuto, qui sono stato circonciso, qui mi sono sposato». A Bandiagara, Amadu Tembiné ci conferma la storia.
Quanto all’errore cerimoniale che ha causato la morte di Anjelu poco
dopo quella di Jon Wanama (quest’ultimo era deceduto con le prime piogge; Anjelu prima della raccolta), sembra sia legata a un sacrificio di sangue
che non avrebbe dovuto aver luogo.
«Dopo la morte del vecchio, è stato ucciso un animale su un altare e
questo ha portato la disgrazia. Hanno portato qui un malato di follia
(wede – wede); per lui hanno sacrificato un animale al contrario (dulò)
e per questo il padre di Ambaindé è morto. All’epoca Ambaindé era a
Niono e qui c’era suo padre, Anjelu. Poiché i Meleken curano ogni tipo
di follia, gli hanno detto di sacrificare una capra, perché se non lo faceva non si poteva curare. Il proprietario dell’altare (Wanama) non c’era,
era morto, e loro hanno ucciso una capra, e per questo l’òmbòlò ha col20
PER RIATTIVARE GLI ALTARI
pito il padre di Ambaindé uccidendolo. Da quando è morto Anjelu è
stato tutto abbandonato, tutto è stato sbarrato. Non potevamo sopportare tutti gli interdetti e così abbiamo lasciato. Tutti i guaritori si sono
riuniti qui, è stata fatta la birra e hanno bevuto, hanno riunito tutti gli
oggetti del binu e li hanno portati in un luogo che è stato sbarrato; poi
hanno giurato maledicendo a morte colui che tra loro sarebbe tornato
sul posto o avesse parlato. Nessuno di loro tornerà a prendere gli oggetti o dirà dove sono nascosti. Chi li troverà è perché il binu sarà montato sulla sua testa». (AMB, 04.02.04)
GLI ALTARI
Dono Ban è un piccolo borgo: i suoi 53 abitanti abitano una quindicina di case in pietra e argilla poste su una piccola collina rocciosa a qualche
chilometro da Ondugu. Alla base della collina, all’ingresso del paesino e
in una grotta poco distante sono disposti gli altari (Fig. 2).
Fig. 2 – Mappa di Dono Ban con la collocazione dei diversi altari
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PIERO COPPO - LELIA PISANI
Melegen Die cura la lebbra e la tosse; Melegen dagi cura la follia
(wede) così pure Yapilin; Na protegge il lignaggio dalle calamità e custodisce i resti delle donne morte di parto o in gravidanza e i loro «bagagli»
(genu). Dege è il più forte, è lui che sostiene il lavoro di tutti gli altri; è
come se tutti i rimedi sgorgassero da dege.
«La differenza tra Yapilin e Wewe è che per Yapilin sono le Madri (Na)
che salgono sulla persona provocando la follia. Delle Madri puoi sentire il rumore e le loro parole; se le vedi sei finito. Yapilin si manifesta
come Wewe, ma in quel caso è Na che sale sulla persona che manifesta
Yapilin. Na e Yapilin sono la stessa cosa. Si può fare la differenza con
la divinazione, ma anche chi cura vede la differenza. Per curare Yapilin, bisogna offrire una capra femmina e una gallina; Melegen vuole un
capro e un gallo. Che si tratti di Yapilin o Wewe, i malati portano una
capra e viene loro rasata la testa. Gli altari proibiti alle donne sono Na
e Dege, degli animali sacrificati a Dege le donne possono mangiare la
carne rossa (nama banu), ma assolutamente non le interiora (fegato,
cuore, intestini).
Il Dege rifornisce (obòda) tutti gli altri altari. Si direbbe che tutte le
cure escano dal corpo del Dege.» (AT, 05.02.04).
Dege è all’ingresso del villaggio. Ai piedi della roccia, un piccolo tempio a base circolare con la porta in legno chiusa nasconde
l’altare. È l’altare più antico. Seguendo sulla sinistra la base della
collina, in un anfratto in parte nascosto da un muretto di pietra, si
intravedono ossa, parti di animali seccate, parti di vegetali; dietro il
muretto c’è l’altare Meleken Dagi che cura la follia. Poco più in là
salendo sulla collina, una pianta nasconde l’altare del Binu sbarrato (te-tehedi: impastoiare, impedire, ostacolare). Dall’altro lato
della collina, in un anfratto, sotto la casa di Anjelu, si trova l’altare
Melegen Die.
Dall’altra parte della valle, sulla collina di fronte, nascosto tra i
cespugli, dietro un albero si trova l’accesso alla grotta dell’altare
Yapilin e Na. Questi sono gli altari che curano, ma nel villaggio ve
ne sono altri: a sud in un anfratto della roccia c’è Anadugo, l’altare
che chiama le piogge e nella boscaglia a pochi minuti di cammino
un albero di tamarindo e uno di selepili (Boscia angustifolia) servo22
PER RIATTIVARE GLI ALTARI
no per la fissazione delle malattie e un cespuglio di guzopili (Combretum glutinosum) nato su un termitaio nasconde un piccolo altare. Per terra sono depositati le offerte: cauri e sangue rappreso, a
qualche metro moltissime piume di pollo. Ci è stato indicato come
l’altare contro gli attacchi di stregoneria. Poi, fuori da Dono Ban,
c’è l’altare dama ke inje ombolo: «tutti i villaggi appartengono a
lui»: a quell’altare fanno riferimento gli undici quartieri che costituiscono Ondugu.
«Melegen Die è l’altare lasciato dai padri. Gli altri sono stati trovati da
Jon Wanama. Quando faceva i sacrifici, il primo altare su cui sacrificava era quello dei Melegen Die; poi, sui suoi personali. Prima si saluta
l’altare del padre, poi quelli personali. All’altare del padre non bisogna
offrire molto» (AT, 05.02.04).
EREDITARE GLI ALTARI DEL PADRE
Quando un uomo anziano muore, soprattutto se si tratta di una persona importante, vi sono vari riti da compiere. Innanzitutto va eseguito il
gem (dagni in donno so), il rito che libera il morto, aprendogli la via che
lo trasformerà in antenato. Si prepara la birra, si convoca la gente, ci
sono danze, e poi va fatto il sobo gundo (letteralmente: infila il coltello e
toglilo) sacrificando lo stesso tipo e numero di animali che il padre
aveva sacrificato alla morte del suo. Dopo aver fatto questo rito, il figlio
può entrare nella casa di famiglia, prendere i campi, ereditarne i beni,
altari compresi. Ma prima di divenire responsabile degli altari, deve fare
un’altra cerimonia simile. La prima era servita per liberare il padre, la
seconda serve per installare il figlio. Tra l’una e l’altra può passare anche
molto tempo: il figlio deve trovare le risorse necessarie (sembe, la forza)
per eseguire la seconda cerimonia. Quando è il momento, avendo riunito birra, animali da sacrificare dello stesso numero e qualità di quelli che
il padre sacrificava i giorni dell’Age10 (tra i montoni, spesso sono indicati quelli bel kenne, nati con un testicolo solo), il figlio fa la grande
festa col subo gundo relativo. Solo in seguito a questa seconda cerimonia, il figlio può operare come faceva il padre e utilizzare gli altari.
10
Age è un momento del calendario dogon: vedi più avanti.
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PIERO COPPO - LELIA PISANI
Per quello che riguarda Dono Ban, la parte di Jon Wanama è stata eseguita (gemu, dannyi). Ora occorre eseguire il secondo sobo gundo, ed è
per questo che hanno chiesto il nostro aiuto: Ambaindé, abbandonato dai
fratelli, non ha potuto fino ad ora raccogliere le risorse necessarie per
effettuare il rito. Occorre prima di tutto sacrificare una piccola capra (ene)
nel luogo dove sono collocati gli altari. E’ il magine (una sorta di cuginoalleato della famiglia, una delle figure dell’organizzazione sociale dogon,
che non è attaccabile dagli òmbòlò della famiglia Tembiné) che deve
compiere il sacrificio che ha come scopo la purificazione del luogo: uccide la capra non sugli altari, ma vicino ad essi. Poi trascina via il corpo
pronunciando le formule si rito: tutto ciò che di contaminato, mescolato,
confuso si trova sugli altari verrà in questo modo trascinato via. Il posto
per il nuovo arrivato è purificato, pulito: jalu gondu (letteralmente: spazzare e togliere). Poi c’è il rito di segeremo, «l’accoglienza»: vengono
uccisi gli animali del secondo subo gundo, e il nuovo venuto si installa
nel posto purificato. A questo punto sarà possibile per il nuovo venuto
utilizzare gli altari; e ogni anno, il giorno di Age, verrà ripetuta la cerimonia di installazione, così come il padre faceva, sacrificando sugli altari gli animali portati dai malati, come ringraziamento per le cure ricevute.
E Amadu sottolinea:
«Tra i Dogon, quando qualcuno muore, dopo aver fatto i funerali si
possono riattivare gli altari di cui era responsabile. Quello che è successo, è che Ambaindé e gli altri hanno potuto fare i funerali ma dopo
non hanno avuto la forza di riattivare gli altari e per questo li hanno
abbandonati. Quando Ambaindé era a Niono, Seydu era nel suo villaggio di Donno Ban. Quando il padre è morto, Ambaindé è tornato
da Niono, e Seydu ha fatto i bagagli ed è partito per Bandiagara.
Ambaindé allora è restato solo e non ha trovato la forza per riattivare gli altari. Curano grazie al sapere che hanno ereditato da Wanama,
è con questo che Seydu guadagna il suo cibo a Bandiagara e
Ambaindé a Dono Ban. Ora possono col vostro aiuto riattivare gli
altari per curare la follia, ma nessuno può riattivare il binu, che
appartiene solo a chi l’ha. Quando Jon Wanama è morto, dopo aver
fatto le cerimonie rituali, il binu è stato nascosto (banye: “non possono prendere e sollevare”) in una grotta. Il binu è molto diverso dagli
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PER RIATTIVARE GLI ALTARI
altari che curano. Possono passare decine di generazioni, e i discendenti non hanno idea di dove si trovi il binu11 e poi un giorno lui può
manifestarsi su una persona che lo trova in una grotta. Non è quindi
possibile riattivare un binu. E’ qualcosa che può tornare nella famiglia, qualcuno che non è ancora nato un giorno manifesta il binu e lo
trova. Ma una volta che avranno riattivato i loro altari, potranno curare bene, come prima. Quando Wanama è morto, due persone che
erano presenti hanno giurato sul latte della madre, e sulla cintura dei
pantaloni del padre12, nel nome di Dio e dell’altare che può uccidere,
che non diranno a nessuno dove si trova il binu. Seydu e un altro di
Ondo-da sono usciti la notte per nasconderlo. Sarà quello su cui tornerà il binu a trovarlo» (AMT, 12.11.04).
L’ATTIVITÀ ATTUALE DI CURA
Le sorgenti del potere terapeutico si trovano dunque negli altari di
Dono Ban.
«E’ Ambaindé che cura, e quando gli altari saranno riattivati (òmbòlò
denyiede: altare alzato, sollevato) il solo che potrà curare davvero
sarà Ambaindé. Gli altri possono distribuire rimedi in polvere a Bandiagara ma le vere cure si fanno qui. Anche se c’è chi improvvisa le
cure dicendo ho i rimedi, le vere cure sono qui, perché sono gli altari
che possono guarire. Girovagando per la boscaglia si possono trovare rimedi ma le cure sono qui. Un tempo i malati arrivavano portando
una capra che veniva sacrificata sugli altari prima che iniziassero le
cure: alcuni erano curati dai Melegen, altri da Yapilin, perché ci sono
due tipi di malattie e quindi anche due altari. A volte sono i Seytan
che salgono sulla persona e provocano la follia, ma c’è anche la follia inviata dalle persone. Ma anche se fosse inviata da Dio è l’òmbòlò
che può combatterla.
Oggi, se un malato viene, lo curiamo come al solito, con i rimedi
che conosciamo. Ma non possiamo sacrificare sugli altari» (AMB,
14.12.04).
11 Amadu si riferisce qui agli oggetti rituali, in particolare alla collana di ferro e
pietra che ogni benjine indossa dopo averla per tre volte trovata nella boscaglia dove
era stata nascosta dagli altri benjine e che è il segno dell’avvenuta consacrazione.
12 La cintura di cui il padre ha dovuto sfare il nodo per generarli.
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PIERO COPPO - LELIA PISANI
Chiediamo quanti pazienti sono venuti negli ultimi sei mesi. Ambaindé
ci dice che alcuni avevano detto che sarebbero venuti per le cure, ma poi
non l’hanno fatto, e d’altronde lui era molto occupato dal lavoro nei campi.
L’ultimo malato di follia che hanno curato è un uomo di Ondugu emigrato
in Costa d’Avorio; è stato qui per due anni e se ne è andato due mesi fa.
In passato curavano anche l’epilessia (kili-kili) ma le cure per questa
malattia non sono molto efficaci, solo a volte ci riescono. Ricordano un
caso di molti anni fa in cui era stato fatto il sacrificio Yeleen Amba, e poi
le scarificazioni asciugando il sangue con una tartaruga che liberano
nell’acqua, e poi hanno iniziato la cura. Il malato era già caduto nel fuoco
e si era bruciato una mano; ma poi è guarito, è andato a Bamako, si è sposato e ha avuto figli. E’ morto poco tempo fa.
Curano say (itterizia) ma solo agli esordi: «quando la persona è molto
presa è difficile». La tosse, invece, è il loro lavoro, e la curano col Melegen
Die, l’altare dei padri.
Qui possono curare gamma13, la tosse, la follia, gli avvelenamenti
dovuti a stregoneria, yeme–yeme: una malattia che assomiglia alla follia
ma non lo è. Tutti i rimedi provengono dal nonno e dal padre di Ambaindé,
per ognuno c’è un luogo dove andare a «pregare».
A Dono Ban si trova anche la necropoli; in due grotte separate ma
vicine sono sepolti i «morti alla rovescia»: sana kumo è la grotta che raccoglie i corpi dei morti colpiti dal fulmine e Na kumo, quella delle donne
morte in gravidanza o di parto. Sembra che fin dalla creazione di Ondugu
gli abitanti di Dono Ban avessero il «diritto» di occuparsi dei riti funerari di questi morti; e anche oggi che, dalla morte di Jon Wanama, gli altari
sono dormienti, sdraiati, sono i soli a poterlo fare. D’altronde, per Yapilin,
se un malato viene non si deve sacrificare sull’altare, ma le benedizioni
vengono chieste a distanza.
A Ondugu vi è un altro altare Yapilin ma accoglie le donne che muoiono durante il periodo puerperale (35-40 giorni) e a Ningari recentemente
è stato risvegliato l’altare alle Madri, ma da sempre i malati di Ningari
vengono qui, e mai l’inverso.
Ambaindé dice che le donne della zona regolarmente vengono a Dono
Ban per affidarsi all’òmbòlò di Yapilin. Lo fanno di nascosto perché sem13 Gamma, categoria nosologica dogon nel linguaggio comune tradotta come reumatismo, è stata descritta in Coppo et al. 1990.
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PER RIATTIVARE GLI ALTARI
pre più la gente si allontana dalla tradizione, è per questo che vengono di
notte all’altare, come delle clandestine, vestite come se andassero a fare
legna, con i polli per il sacrificio nascosti nei teli. Sono entrate nella religione, ma non hanno abbandonato la tradizione, vengono a pregare il buon
dio di far loro del bene. Vengono di nascosto perché la religione proibisce
i tòro (altari, in lingua fulfulde); prima vanno a fare la divinazione e quando l’indovino ricorda loro che i padri e i nonni erano legati a Yapilin, e che
nessun altro può proteggerli o risolvere i loro problemi, allora vengono
con il sacrificio. Anche ieri una donna è venuta portando due polli legati e
nascosti in un sacco. Vengono e chiedono a Ambaindé di comunicare agli
antenati che non li hanno dimenticati, che anche se i mariti sono entrati
nella religione e non le lasciano fare quello che vogliono, loro sono sempre con gli altari, lo erano ieri, lo sono oggi e lo saranno domani.
Ambakanee conferma, lui è arrivato proprio mentre la donna stava
tirando fuori i polli dal sacco. Ambaindé e Ambakanee si aspettano un
forte aumento nelle richieste di cura dopo la riattivazione degli altari;
considerano una vera fortuna il fatto di avere finalmente l’opportunità di
farlo. Interpretano una serie di segni (canto della tortora, il passaggio di
un geco; una nascita gemellare avvenuta mentre eravamo presenti nel villaggio ecc.) come buoni auspici.
DIMENSIONI DEL TEMPO: INTESE E FRAINTENDIMENTI
In un primo momento, avevamo insieme convenuto come data per la
festa di riattivazione il 1 Dicembre 2004. Ma arrivato quel giorno e visto che
non accadeva niente abbiamo capito che la data non poteva essere decisa
dalla famiglia e da noi autonomamente, ma che la cerimonia si inseriva nel
complesso insieme dei riti calendariali della comunità. Sono così iniziate
interminabili discussioni che hanno richiesto un vero e proprio lavoro per
dipanare una matassa che a ogni passaggio diventava sempre più intricata.
I Dogon contano il tempo per serie di cinque giorni, ognuno legato al
mercato in uno dei villaggi della zona (in questo caso: Ningari, Ondugu,
Tèh, Kaoli, Moley). La cosiddetta «settimana dogon», sulla quale si è
sovrapposta la settimana di «importazione», regola il calendario delle cerimonie tradizionali che si articola con le grandi scansioni stagionali legate
alle attività agricole.
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PIERO COPPO - LELIA PISANI
Alusseini Baba Yalcuyé afferma perentorio che «i giorni dei Dogon non
cambiano; sono quelli dei bianchi che ogni anno cambiano» e continua:
«Per i Dogon, i giorni non cambiano. Si comincia trasportando il concime nei campi (bilintuia). Quando piove, si semina (tow: seminare).
Dopo, c’è la prima cultura (guduwol) e poi la seconda cultura (momo).
Poi ci si riposa (wal dagni). Il lavoro riprende e si toglie il miglio che
non è cresciuto bene, quello germogliato dai semi caduti a terra l’anno
prima (yu do gondo) e dopo c’è bile nom, quando i più anziani mangiano le nuove foglie dei fagioli e poi arriva la raccolta (gie). A volte le
famiglie finiscono i vecchi cereali ma è solo quando il bile nom arriva
che si possono consumare i cerali del nuovo raccolto. Prima che il capo
famiglia abbia gustato il bile nom, non si possono mettere i nuovi
cereali in bocca. Dopo la raccolta c’è Amba ba goundo: che Dio ci
mostri il nuovo anno. Poi si va nella boscaglia a raccogliere legna (yan
tinu san) e dopo viene Agen. Il giorno di Age Tommo (quest’anno il 14
dicembre) i vecchi delle famiglie sacrificano sui loro altari, e quel giorno che viene comunicato il giorno di Age. Quest’anno è sei mercati di
Ningari dopo quello appena passato, e cade il 7 gennaio. Ma l’anno
prossimo potrà cambiare. Dopo Age c’è ogo yanda, quando si saluta
l’uomo più vecchio; poi tala, la caccia collettiva; poi ondo mbiri, e
quando è passato ondo mbiri, inizia la stagione delle piogge; e alla
prima pioggia grande, si può seminare». (ABY, 13.12.04).
Fino al 12 Dicembre, non siamo stati in grado di sapere la data della
cerimonia, nonostante interminabili discussioni collettive tentassero di
situare almeno il mese. Ogni volta si arrivava a conclusioni diverse e contraddittorie. Finalmente, il 13 Dicembre «il giorno è uscito», i vecchi lo
hanno gridato sul mercato di Ondugu. Solo allora abbiamo capito che tutti
lo sapevano ma nessuno poteva dirlo.
«Sono giovane, ma conosco il nostro totem. Non puoi parlare fino a
che il più vecchio del villaggio non ha fatto uscire la sua parola. Ondo
ha 11 villaggi e il giorno che devono prendere la decisione di Age
Tommo, Aba Kadana, il più vecchio, prima di tutto prepara la birra, e
sarà il giorno del mercato di Ondogu e ci sarà folla nel mercato; e quelli che vengono dai vari villaggi si riuniscono attorno a questa birra e la
bevono. E quando bevono, il giorno di Age Tommo (“prendere e avvi28
PER RIATTIVARE GLI ALTARI
luppare Age”), quando il messaggio viene diffuso ovunque, prendono
una decisione, e danno una data: ibe nai (quattro mercati). E l’Aba
Kadana dice: tra quattro mercati sarà Age, e già ha dato una parola.
Ora, quelli che sono attorno a lui diranno: scusaci, è troppo presto,
prendiamo altro tempo; e poiché lo pregano l’Aba Kadana dice allora
tra cinque mercati potrete mangiare Age (Age gné bedo). E ancora gli
altri gli dicono: ancora il tempo che ci dai è troppo poco, daccene di
più. E allora l’Aba Kadana prende la decisione definitiva, e dice a tutti
quelli che sono venuti per il mercato: questa è la decisione dalla quale
non posso uscire, quella del sesto mercato. E allora tutti cominciano a
comprare i polli, le capre, e tutto quello che vorranno mangiare. Ecco:
al Binu dell’Aba Kadana vengono offerti i sacrifici, è il più grande
Binu di Ondogu, si chiama Nembe, ed è l’Aba Kadana che ne è il
responsabile. Oggi, il Binu Nembe è stato preso dalla religione, l’hanno
messo in una grotta e murato col cemento. E’ stato affidato a tre persone e quando il giorno viene, sono informati e vanno là a fare i rituali;
aprono e richiudono. Ecco, il giorno è domani, il giorno non cambia,
niente cambia. Anno dopo anno, è sempre Age Tommo, per Ningari,
Ondugu, Moley. Con la religione la gente sta abbandonando tutto:
lasciano i gesti, ma non i giorni». (ABY, 12.12.04)
Il 13 Dicembre, giorno dell’Age Tommo, la data dell’Age è stata «gridata» dall’Aba Kadana al mercato di Ondugu. Il giorno del sesto mercato
successivo di Ondugu, è quello della festa del paese ed è lo stesso giorno
in cui verrà eseguita la cerimonia di riattivazione degli altari. Fatti i conti,
quel giorno corrisponde al 7 Gennaio 200514.
14 In un prossimo scritto e in un documento video descriveremo la parte della cerimonia che abbiamo potuto osservare.
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PIERO COPPO - LELIA PISANI
BIBLIOGRAFIA
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