Azione - Settimanale di Migros Ticino Quattro stelle per Isabelle

Transcript

Azione - Settimanale di Migros Ticino Quattro stelle per Isabelle
Quattro stelle per Isabelle
Una straordinaria Huppert nel capolavoro di Verhoeven, e il ritorno dell’autore di
L’albero degli zoccoli
/ 13.02.2017
di Fabio Fumagalli
**** Elle, di Paul Verhoeven, con Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Consigny, Charles Berling,
Virginie Efira (Francia-Olanda 2016)
L’ultimo film dell’autore di Basic Instict è uno dei più straordinari della stagione grazie a due
energie mostruose: quella nota da sempre di Paul Verhoeven, sommata alla personalità
incredibilmente versatile di Isabelle Huppert, un’attrice che ha ormai pochi confronti al mondo.
Proprio per questo incontro ai vertici dell’intuizione creativa, Elle rappresenta un oggetto misterioso
e affascinante: un thriller da soprassalto, al tempo stesso commedia esilarante, riflessione sociale
infine. Tratto dal romanzo di Philippe Djian, il film ne è una derivazione delirante, ma sempre
significativa nei suoi paradossi: il capolavoro del cineasta olandese, perfettamente in equilibrio fra
un grande mestiere perfezionato alla scuola hollywoodiana e una voglia proverbiale di
destabilizzazione tutta europea.
«Non si è mai demoni per sole ventiquattr’ore»: su quella traccia, Verhoeven si affida per il nostro
diletto ai fantasmi di Hitchcock e Chabrol, Cronenberg e Haneke. Ma per approdare in un universo
poetico nel quale ogni logica (psicologica, veristica, drammaturgica) viene costantemente
contraddetta e resa addirittura improbabile: una festa di fantasia, provocazione e humour di
magistrale facilità.
Quello di Elle è un intrigo al quale è giocoforza aderire: ma mai più di tanto. Michèle dirige infatti
una società di videogame con la medesima freddezza con la quale gestisce i propri affari amorosi.
Alcuni ci verranno subito illustrati: in una aggressione sessuale sotto gli occhi indifferenti del gatto
di casa, che il film riproporrà più volte. Una violenza forzatamente traumatica, ma paradossale:
affrontata come in una partita a scacchi, non tanto strategica, ma tutta interiorizzata. A cominciare
dal fatto che la vittima non sembra assolutamente intenzionata a denunciare il fatto; continuando a
frequentare la propria vita privata e professionale come niente fosse.
Più di un thriller, più dell’identità criminale dell’intruso in tuta di latex, che è subito chiaro non
importa più di tanto a nessuno, Elle si scompone allora come un puzzle. Per ricostruirsi, sul rigore di
uno sguardo dall’impressionante virtuosismo capace di prendersi gioco delle proprie regole, in una
lucida e grottesca analisi. Dei diversi fantasmi che abitano il desiderio sessuale, certo; ma quando
messi in continua relazione con le ambiguità della morale borghese.
*** Torneranno i prati, di Ermanno Olmi, con Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco
Formichetti ( Italia 2014)
Una delle cose più significative dell’ultimo film di Ermanno Olmi è il suo titolo. La guerra, ci dice, è
una delle piaghe che sembrano accompagnare l’umanità da sempre; ma con un aspetto che sembra
sommarsi all’ineluttabilità della tragedia: l’ipocrisia che l’avvolge. Quella che, non appena
ricomparsa la pace, dimentica ogni orrore e ingiustizia, cancella l’imposizione dei tanti valori fasulli.
Mentre l’erba ritorna sui prati.
Nella trincea della Prima Guerra Mondiale scavata sotto metri di neve, nell’avamposto che il caso ha
situato a pochi metri da quello austriaco, sono ovviamente i poveracci – ormai rassegnati al suicidio
annunciato da ordini lontani e assurdi – le vittime predestinate di un concetto di patriottismo che
l’autore de L’albero degli zoccoli ha generosamente definito «un malinteso». Ma se l’ultimo dei
grandi anziani del cinema italiano traduce l’infamia della trappola in un lento, sontuoso kammerspiel
girato fra i meandri sgocciolanti di un buco sepolto sotto il biancore abbagliante dell’altopiano di
Asiago, è in un’altra dimensione del dramma che Torneranno i prati lascia l’impronta.
Non tanto, nel generoso antibellicismo degli aneddoti; gli stessi che il cinema, dal Kubrick di
Orizzonti di gloria al Malick di La sottile linea rossa ha magnificato da sempre. Non solo, l’intreccio
degli sguardi persi nella disperazione, i mormorii incessanti, l’ipnotica follia dei soliloqui colti ai
confini dell’accademismo. Ma anche un martirio che, assieme a quello degli uomini, è assunto dalla
natura; annientata assieme agli alberi circostanti che garantivano una parvenza di serenità ai
reclusi; al mondo animale che, malgrado la devastazione delle bombe, proseguiva nel proprio eterno
rituale.
La fine della montagna, tanto amata da Ermanno Olmi dopo l’abbandono della pianura padana che lo
aveva reso celebre, diventa allora la scomparsa di un ordine morale. In un processo di astrazione,
altrettanto significativo di ogni realtà, che ricorda quello creato nel 1995 da Aleksej Sokurov
all’interno delle trincee in Tadjikistan nell’indimenticabile La voce dell’anima.