4.1. Gli aggregati
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4.1. Gli aggregati
i Università Politecnica delle Marche Scuola di Dottorato di Ricerca in Scienze dell’Ingegneria Curriculum in Ingegneria Civile, Edile ed Archiettura Pavimentazioni con leganti polimerici per impalcati di ponte in calcestruzzo Pavement with polimeric binders for concrete bridge decks Tesi di Dottorato di: Giovanni Giacomello Tutor: Prof. Francesco Canestrari Co-Tutor: Prof. Marco Pasetto Coordinatore del Curriculum: Prof. Maurizio Brocchini XIII ciclo - nuova serie Università Politecnica delle Marche Scuola di Dottorato di Ricerca in Scienze dell’Ingegneria Curriculum in Ingegneria Civile, Edile ed Archiettura Pavimentazioni con leganti polimerici per impalcati di ponte in calcestruzzo Pavement with polimeric binders for concrete bridge decks Tesi di Dottorato di: Giovanni Giacomello Tutor: Prof. Francesco Canestrari Co-Tutor: Prof. Marco Pasetto Coordinatore del Curriculum: Prof. Maurizio Brocchini XIII ciclo - nuova serie Università Politecnica delle Marche Scuola di Dottorato di Ricerca in Scienze dell’Ingegneria Facoltà di Ingegneria Via Brecce Bianche – 60131 Ancona (AN), Italy Hic primus labor incohare sulcos et rescindere limites et alto egestu penitus cavare terras; moxhaustas aliter replere fossas et summo gremium parare dorso, ne nutent sola, ne maligna sedes etpressis dubium cubile saxis; tunc umbonibus hinc et hinc coactis et crebris iter alligare gonphis. Qui la prima fatica fu tracciare i solchi e distruggere i confini, e con un esteso scasso scavare in profondità la terra; poi riempire in modo diverso le fosse vuote e preparare la base per lo strato superiore, in modo che il suolo non cedesse e un fondo malsicuro non desse una base malferma alle pietre sovrapposte; poi con pietre allineate da un lato e dall’altro e con fitti perni stringere la carreggiata. Silvae IV, 3, 40-55. Publio Papinio Stazio (Napoli, 40 - 96 d.C.) Abstract I ponti sono manufatti che consentono il superamento di depressioni e discontinuità della superficie terrestre (fiumi, colline, ecc.). A causa della peculiarità della loro struttura rispetto all’usuale corpo stradale, essi necessitano di una finitura carrabile specifica. In-fatti l’impalcato del ponte è costituito solitamente da una soletta in calcestruzzo che possiede una rigidezza molto elevata rispetto ad un normale sottofondo realizzato in terra, le cui caratteristiche portanti sono molto inferiori. Le pavimentazioni sugli impalcati dei ponti, di solito, sono costituite da: una membrana bituminosa (o altro materiale sintetico), che impermeabilizza la superficie di appoggio; uno strato di malta bituminosa (di 1 o 2 centimetri di spessore) per garantire una buona adesione; uno strato di collegamento e uno strato di usura in conglomerato bituminoso. Questo tipo di pavimentazione, però, presenta non pochi problemi, a causa dei danni che può subire la sovrastruttura a causa dell’esercizio veicolare; danni che possono cagionare degradi all’impalcato del ponte (e che successivamente divengono maggiori ammaloramenti per la pavimentazione). I danni maggiori si riscontrano principalmente a causa di azioni derivanti da: traffico, clima e agenti chimici, che possono determinare un eccessivo affaticamento dei materiali, un accumulo di deformazioni permanenti, una scarsa adesione tra la soletta del ponte e la pavimentazione, un degrado fisico-chimico dei materiali dovuto alla presenza di sali disgelanti con contemporanea azione di cicli di ge-lo/disgelo, ecc. Questo elaborato presenta lo studio di pavimentazioni per impalcati di ponte confezionate con leganti di tipo sintetico ed inerte, che possiedono la capacità di rendere la sovrastruttura direttamente carrabile e al tempo stesso impermeabile. Sono stati studiati tre metodi di stesa, in modo da poterne confrontare le caratteristiche prestazionali con quelle di una tradizionale pavimentazione in conglomerato bituminoso. Sono state indagate inoltre le proprietà superficiali (macrotessitura, resistenza allo scivolamento e permeabilità) e le caratteristiche meccaniche (resistenza a fatica, resistenza alle deformazioni permanenti, resistenza allo strappo, dilatazione termica dei materiali, ecc.). I risultati hanno dimostrato che le soluzioni proposte, a seconda del metodo di stesa, han-no buone caratteristiche superficiali e buone proprietà meccaniche, ix resistendo in modo soddisfacente anche all’azione di agenti chimici e di cicli di gelo/disgelo. x Abstract The bridges are structures that allow to cross discontinuities and irregularities of the earth’s surface (rivers, hills, etc.). This structures require a specific pavement, different from that usually built on the soil subgrade. In fact, the bridge deck is made up with a concrete slab which has a very high stiffness, if compared with a normal soil, the mechanical properties of which are much lower. The pavements on the bridge decks usually consist of a bituminous sheet (or another syn-thetic material), which waterproofs the deck, a layer of bituminous mortar (1 or 2 centimeters thick) to ensure a good adhesion, an asphalt concrete base course and a wearing course. However, this type of pavement presents many problems due to the damage due to their use; moreover, the damage of the underlying structure (bridge deck) can be the origin of ruptures and deformations in the pavement. Degradations are mainly due to: traffic, weather and chemical agents. They determine fatigue of material, an accumulation of permanent deformation, poor adhesion between the slab of the bridge and the pavement, a chemical-physical degradation due to the presence of deicing salts with simultaneous action of cycles of freeze/thaw, etc. This work of thesis presents a study of pavements for bridge decks made with synthetic binders and aggregate; unlike traditional asphalt concrete road pavements, they possess the ability to make the structure trafficable and, at the same time, waterproofing. Three synthetic pavement types were studied in order to compare their performance cha-racteristics with those of traditional asphalt concrete road pavementa. Furthermore, the surface properties (macrotexture, skid resistance and permeability) and mechanical characteristics (fatigue strength, resistance to permanent deformation, pull-off strength, thermal expansion, etc.) of the coatings were studied. The results demonstrated that these polymeric pavements, depending on the coating me-thod, have good surface characteristics and good mechanical properties, resisting in a satisfactory way to the simultaneous action of chemical agents and cycles of freeze/thaw. xi Indice 1. Introduzione 2. I ponti stradali 2.1. Le tipologie di ponte . . . . . . . . . . . . 2.2. Le tipologie di impalcato . . . . . . . . . . 2.2.1. L’impalcato a graticcio o a travate 2.2.2. L’impalcato a cassoni . . . . . . . 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 9 13 14 14 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti 3.1. I requisiti delle pavimentazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2. Le tipologie di pavimentazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2.1. Le pavimentazioni rigide . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2.2. Le pavimentazioni semi-rigide . . . . . . . . . . . . . . . 3.2.3. Le pavimentazioni flessibili . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3. Le tipologie di impermeabilizzazione delle solette da ponte . . . 3.3.1. I rivestimenti polimerici sottili . . . . . . . . . . . . . . 3.3.2. Gli asfalti colati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.3. Le membrane di matrice bituminosa preformata o impermeabilizzazioni polimeriche spruzzate in opera . . . . . 3.3.4. I calcestruzzi armati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.5. Il calcestruzzo non armato modificato con polimeri . . . 3.3.6. I calcestruzzi diversi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.7. I catrami con resine e aggregati . . . . . . . . . . . . . . 3.3.8. Le resine epossidiche, di poliestere, di metacrilato e aggregati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4. I rivestimenti polimerici sottili . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.1. Premiscelato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.2. Multistrato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.3. Slurry . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 18 19 20 23 24 27 28 28 4. I materiali 4.1. Gli aggregati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1.1. Il calcare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1.2. La scoria di acciaieria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 35 40 42 28 29 29 29 29 30 30 30 31 32 xiii Indice 4.2. 4.3. 4.4. 4.5. 4.6. 4.7. 4.1.3. La sabbia di quarzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1.4. Il materiale da costruzione & demolizione . . . . . . . . 4.1.5. La bauxite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I leganti: il cemento Portland . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.1. Idratazione del cemento Portland . . . . . . . . . . . . . 4.2.2. Presa e indurimento del cemento Portland . . . . . . . . 4.2.3. Struttura della pasta di cemento Portland . . . . . . . . 4.2.4. Durabilità della pasta di cemento . . . . . . . . . . . . . 4.2.5. I cementi di miscela . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I leganti: il bitume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3.1. La chimica del bitume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3.2. Il bitume modificato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3.3. Le caratteristiche meccaniche e reologiche del bitume . . I leganti: i materiali polimerici . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.1. Le proprietà generali dei polimeri ad alto peso molecolare 4.4.2. Il peso molecolare dei polimeri ad alto peso molecolare . 4.4.3. Reologia e proprietà meccaniche dei polimeri ad alto peso molecolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.4. Stabilità termica dei polimeri ad alto peso molecolare . 4.4.5. La sintesi di macromolecole . . . . . . . . . . . . . . . . I polimeri utilizzati per le impermeabilizzazioni sui ponti stradali 4.5.1. Il polietilene . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.5.2. Il polimetilmetacrilato e altre resine acriliche . . . . . . 4.5.3. Le resine poliestere e le resine alchidiche . . . . . . . . . 4.5.4. Le resine epossidiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.5.5. I poliuretani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il conglomerato bituminoso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il calcestruzzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5. Meccanismi di danneggiamento 5.1. Il degrado subito dalla pavimentazione . . . . 5.1.1. Accumulo di deformazioni permanenti 5.1.2. Fatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.1.3. Temperatura e cicli termici . . . . . . 5.1.4. Altre tipologie di ammaloramento . . 5.2. Il degrado degli impalcati da ponte . . . . . . 5.2.1. Sollecitazioni esterne . . . . . . . . . . 5.2.2. Processi di trasporto nel calcestruzzo . 5.2.3. La corrosione dell’acciaio . . . . . . . 5.2.4. I sali disgelanti . . . . . . . . . . . . . 5.2.5. I cicli termici nel calcestruzzo . . . . . xiv . . . . . . . . . . . 46 48 50 52 53 55 55 57 58 60 62 62 63 64 68 72 73 80 81 82 82 85 88 90 92 94 96 99 . . . . . . . . . 100 . . . . . . . . . 101 . . . . . . . . . 103 . . . . . . . . . 105 . . . . . . . . . 106 . . . . . . . . . 108 . . . . . . . . . 108 . . . . . . . . . 109 . . . . . . . . . 110 . . . . . . . . . 111 . . . . . . . . . 112 Indice 5.2.6. Altri tipi di ammaloramento . . . . . . . . . . . . . . . 112 6. Stato dell’arte 115 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 6.1.1. Rivestimenti sottili in conglomerato polimerico: l’esperienza in Virginia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 6.1.2. L’esperienza di Stenko e Chawalwala . . . . . . . . . . . 119 6.1.3. Le esperienze italiane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 123 6.1.4. L’esperienza americana . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126 6.2. Sali disgelanti e cicli di gelo e disgelo . . . . . . . . . . . . . . . 131 6.2.1. L’esperienza in Connecticut . . . . . . . . . . . . . . . . 131 6.2.2. L’esperienza svedese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133 6.2.3. L’esperienza in Pennsylvania . . . . . . . . . . . . . . . 135 6.3. Le variazioni di temperatura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137 6.3.1. Le variazioni termiche nei rivestimenti polimerici . . . . 137 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 6.4.1. L’esperienza in Virginia . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 6.4.2. L’esperienza in Iowa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149 6.4.3. L’esperienza in Tennessee . . . . . . . . . . . . . . . . . 154 7. Programma sperimentale 7.1. I leganti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1.1. Il bitume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1.2. La membrana bituminosa preformata . . . . . . . . . 7.1.3. La resina di tipo A . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1.4. Il primer di tipo A . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1.5. La resina di tipo B . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2. Gli aggregati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.1. Calcare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.2. Sabbia di quarzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.3. Scoria di acciaieria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.4. Materiale da costruzione & demolizione . . . . . . . . 7.2.5. Bauxite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.3. Le miscele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.3.1. I fusi granulometrici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.3.2. Progettazione delle miscele . . . . . . . . . . . . . . . 7.4. Il confezionamento dei provini . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.4.1. I supporti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.4.2. I campioni stesi con metodo premiscelato e multistrato 7.4.3. I campioni stesi con metodo "slurry" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161 163 163 163 164 165 166 167 169 173 176 179 182 185 185 185 195 195 198 201 xv Indice 7.4.4. I campioni in conglomerato bituminoso . . . . . . . . . 7.5. Le prove di laboratorio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 204 8. Normativa e protocolli di prova 8.1. La caratterizzazione degli aggregati . . . . . . . . . . . . . . . . 8.1.1. Analisi granulometrica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.1.2. L’indice di appiattimento degli aggregati . . . . . . . . . 8.1.3. L’indice di forma degli aggregati . . . . . . . . . . . . . 8.1.4. Prova dell’equivalente in sabbia . . . . . . . . . . . . . . 8.1.5. Il coefficiente Los Angeles . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.1.6. Massa volumica in mucchio dei granuli . . . . . . . . . . 8.1.7. Massa volumica dei granuli . . . . . . . . . . . . . . . . 8.1.8. Massa volumica del filler . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.2. Le caratteristiche superficiali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.2.1. La prova di altezza in sabbia . . . . . . . . . . . . . . . 8.2.2. La prova di resistenza allo scivolamento . . . . . . . . . 8.2.3. La prova di drenabilità orizzontale . . . . . . . . . . . . 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche . . . . . . . . . . . . . . . . 8.3.1. Le carattristiche meccaniche delle miscele polimeriche premiscelate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.3.2. La prova di resistenza a fatica su 4 punti . . . . . . . . 8.3.3. La prova con ultrasuoni . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.3.4. La prova di resistenza all’ormaiamento . . . . . . . . . . 8.3.5. La prova di resistenza allo strappo . . . . . . . . . . . . 8.3.6. La prova per la determinazione dei coeffcienti di dilatazione temica dei materiali . . . . . . . . . . . . . . . . . 209 209 210 212 214 216 217 218 219 220 221 221 225 229 232 9. Dati e analisi dei risultati 9.1. La caratterizzazione superficiale . . . . . . . . . . . . 9.1.1. La macrorugosità . . . . . . . . . . . . . . . . 9.1.2. La resistenza a slittamento . . . . . . . . . . 9.1.3. La drenabilità orizzontale . . . . . . . . . . . 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica . . . . . . . . . 9.2.1. Le caratteristiche fisico-mecaniche delle malte 9.2.2. La fatica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.2.3. Le prove agli ultrasuoni . . . . . . . . . . . . 9.2.4. Le deformazioni permanenti . . . . . . . . . . 9.2.5. La resistenza allo strappo . . . . . . . . . . . 9.2.6. I coefficienti di dilatazione termica . . . . . . 10.Conclusioni xvi 233 236 242 243 246 249 255 . . . . . . 255 . . . . . . 255 . . . . . . 258 . . . . . . 260 . . . . . . 262 polimeriche 262 . . . . . . 263 . . . . . . 266 . . . . . . 268 . . . . . . 270 . . . . . . 276 283 Indice A. I rivestimenti studiati 289 B. Valori delle deformazioni permanenti 293 Bibliografia 299 xvii Elenco delle figure 2.1. Nomenclatura delle parti di un ponte. Sezione trasversale e sezione longitudinale di un ponte a doppia travata. . . . . . . . 2.2. Esempi di ponti costruiti con vari tipi di materiali e varie tipologie costruttive. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3. Sezione trasversale di un ponte con impalcato a graticcio. . . . 2.4. Sezione trasversale di un ponte con impalcato a cassone. . . . . 11 14 15 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 3.5. 3.6. 3.7. 20 22 24 26 31 32 33 Esempio di pavimentazione rigida . . . . . . . . . . . . . . Categorie di pavimentazione rigida . . . . . . . . . . . . . La pavimentazione flessibile: stesa e compattazione. . . . Esempio di pavimentazione flessibile . . . . . . . . . . . . Esempio di rivestimento con metodo di stesa premiscelato. Esempio di rivestimento con metodo di stesa multistrato. Esempio di rivestimento con metodo di stesa slurry. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1. Scoria di acciaieria prodotta con forno ad arco elettrico (EAF steel slags). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2. Composizione dei cementi, come indicato nella normativa UNI EN 197-1:2007 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.3. Comportamento dei bitumi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4. Classificazione dei bitumi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.5. Macromolecole lineare (a), ramificata (b) e reticolata (c). . . . 4.6. Regioni cristalline e regioni amorfe in un polimero. . . . . . . . 4.7. Diagramma volume specifico - temperatur. . . . . . . . . . . . . 4.8. Diagrammi del modulo elastico E in funzione della temperatura in un polimero amorfo (lineare o reticolato) e in un polimero cristallino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.9. Diagramma di τ in funzione di γ per polimeri ad alto peso molecolare fusi o in soluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.10. Diagramma della viscosità in funzione di γ per polimeri ad alto peso molecolare fusi o in soluzione. . . . . . . . . . . . . . . . . 4.11. Diagramma sforzo (S) - allungamento (∆l/l) di polimeri amorfi (temperature crescenti da 1 a 9). . . . . . . . . . . . . . . . . . 8 43 61 63 64 66 67 69 71 74 74 76 xix Elenco delle figure 4.12. Diagramma sforzo (S) - allungamento (∆l/l) di polimeri cristallini: 1 rottura fragile, 2 rottura duttile. . . . . . . . . . . . . . . 4.13. Contrazione (−∆l/l) per sforzo di compressione costante e di breve durata di diversi tipi di polimeri ad alto peso molecolare in funzione della temperatura. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.14. Modello meccanico di Maxwell-Voigt. . . . . . . . . . . . . . . . 4.15. Diagramma sforzo-tempo nel modello meccanico di Maxwell-Voigt. 4.16. Diagramma sforzo-allugamento di polietileni. . . . . . . . . . . 78 79 79 85 5.1. Il meccanismo di "bottom-up". . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 6.1. Andamento delle tensioni assiali σx lungo la trave. . . . . . . . 6.2. Andamento delle tensioni normali σy agenti all’interfaccia e delle tensioni di taglio τxy agenti all’interfaccia lungo la trave. . . . . 6.3. Andamento delle tensioni di taglio τxy sullo spessore. . . . . . . 6.4. La tensione di taglio τxy agente all’interfaccia al variare del rapporto "m" tra gli spessori degli strati. . . . . . . . . . . . . . 6.5. La tensione normale σy agente all’interfaccia al variare del rapporto "m" tra gli spessori degli strati. . . . . . . . . . . . . . . . 6.6. La tensione di taglio τxy agente all’interfaccia al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza degli strati. . . . 6.7. La tensione normale σy agente all’interfaccia al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza degli strati. . . . . . 6.8. La tensione assiale σx nel conglomerato polimerico al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza e al variare del rapporto "m" tra gli spessori dei materiali. . . . . . . . . . . . . 6.9. La tensione di taglio τxy agente all’interfaccia al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza e al variare del rapporto "m" tra gli spessori dei materiali. . . . . . . . . . . . . 6.10. La tensione normale σy agente all’interfaccia al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza e al variare del rapporto "m" tra gli spessori dei materiali. . . . . . . . . . . . . . . 6.11. Stima dell’uso dei tipi di rivestimento sui ponti in Tennessee. . 139 7.1. Metodo di stesa "slurry". . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2. Esempio di applicazione della guaina bituminosa preformata in cantiere. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.3. Le tre pezzature dell’aggregato calcareo: filler, 0/5 mm e 5/10 mm. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.4. Curve granulometriche del calcare per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 2. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . xx 77 140 141 141 142 143 143 144 145 145 159 162 164 170 171 Elenco delle figure 7.5. Curve granulometriche del calcare per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e di tipo "multistrato". . . . . . . . 172 7.7. Curve granulometriche della sabbia di quarzo: frazione 1 per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e frazione 2 per miscele di tipo "multistrato". . . . . . . . . . . . . . . . . 175 7.8. La scoria di acciaieria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177 7.9. Curve granulometriche della scoria di acciaieria per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 2. . . . . . . . . . . . . 178 7.10. Curve granulometriche della scoria di acciaieria per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e miscele di tipo "multistrato". . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 178 7.11. Il materiale da C&D. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180 7.12. Curva granulometrica del materiale da C&D per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e di tipo "multistrato". . . 181 7.13. La bauxite. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183 7.14. Curva granulometrica della bauxite. . . . . . . . . . . . . . . . 184 7.15. Fuso e curve granulometriche miscele di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 192 7.16. Fuso e curve granulometriche miscele di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 2. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193 7.17. Fuso e curve granulometriche miscele di tipo "multistrato" e di tipo "slurry". . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 194 7.18. Lastra in calcestruzzo a simulare l’impalcato del ponte per le prove di laboratorio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196 7.19. Fibre di rinforzo usate nel calcestruzzo (a sinistra) e "travetto" in calcestruzzo a simulare l’impalcato del ponte per le prove di laboratorio (fatica). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 196 7.20. Esempio della preparazione della superficie in calcestruzzo in laboratorio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 7.21. Camicie in acciaio per il confezionamento dei travetti (a sinistra) in malta polimerica (a destra). . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 7.22. Camicie in legno rivestite con carta di giornale o pellicola di nylon per il confezionamento dei campioni. . . . . . . . . . . . . 199 7.23. La stesa con metodo "premiscelato". . . . . . . . . . . . . . . . 200 7.24. Metodologia "multistrato": semina dell’aggregato fino a saturazione della superificie del campione. . . . . . . . . . . . . . . . 200 7.25. La stesa con metodologia "slurry". . . . . . . . . . . . . . . . . 202 7.26. Spessore del rivestimento steso con metodologia "slurry". . . . . 202 7.27. Il rivestimento in conglomerato bituminoso. . . . . . . . . . . . 203 7.28. La prova di "creep". . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 206 xxi Elenco delle figure 8.6. 8.7. 8.8. 8.9. Strumentazione per la misurazione della macrotessitura. . . . . 222 Esempio di misurazione della macrotessitura. . . . . . . . . . . 223 La misurazione dell’altezza in sabbia. . . . . . . . . . . . . . . . 224 Strumentazione per la misura della resistenza allo slittamento di una superficie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 226 8.11. Regolazione del pendolo utilizzando il regolo . . . . . . . . . . . 227 8.12. Pattino e gommino dello strumento per la misura dela resistenza allo slittamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 228 8.14. Strumentazione per la misura della drenabilità orizzontale di una superficie. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 231 8.15. Strumentazioni e campioni di malta polimerica per determinazione di: resistenza a flessione, resistenza a compressione e modulo elastico secante. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235 8.16. Schemi statici e strumentazione utilizzata per la determinazione della resistenza a fatica dei rivestimenti. . . . . . . . . . . . . . 238 8.17. Attuatore e trasduttore dell’apparecchiatura a flessione su quattro punti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 240 8.18. Movimento del morsetto che garantisce la libera traslazione del provino in corrispondenza degli appoggi esterni. . . . . . . . . . 241 8.19. Movimento del morsetto che garantisce la libera rotazione del provino in corrispondenza degli appoggi. . . . . . . . . . . . . . 241 8.20. Particolare del morsetto del provino (le foto mostrano la fase di abbassamento dei morsetti). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 8.21. Apparecchiatura per la misurazione del tempo di passaggio degli ultrasuoni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243 8.22. L’attrezzatura per la misura della resistenza all’ormaiamento. . 244 8.23. La ruota di carico della strumentazione per misurare le deformazioni permanenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 245 8.24. Preparazione dei campioni per le prove di resistenza allo strappo. 247 8.25. L’attrezzatura per la prova di resistenza allo strappo. . . . . . . 247 8.26. La strumentazione per la misurazione del coefficiente di dilatazione termica λ. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 252 9.1. Istogramma dei valori di altezza in sabbia dei rivestimenti. . . . 9.2. Istogramma dei valori di resistenza allo slittamento dei rivestimenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.3. Istogramma dei valori di permeabilità dei rivestimenti. . . . . . 9.4. Confronto tra i moduli elastici di rigidezza dopo 100 cicli e dopo 150.000 cicli delle diverse tipologie di rivestimento. . . . . . . . 9.5. Esempi di fessurazioni e delaminazioni sui travetti a seguito delle prove di resistenza a fatica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . xxii 257 258 261 265 266 Elenco delle figure 9.6. WTSAIR a 20℃ e a 60℃ per ciascuna tipologia di rivestimento. 269 9.7. WTSAIR a 0℃, 20℃, 40℃ e a 60℃ per alcune tipologie di rivestimento. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271 9.8. Esempi di rivestimenti dopo le prove di resistenza a deformzioni permanenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 272 9.9. Risultati della prova di resistenza allo strappo. . . . . . . . . . 274 9.10. Risultati sperimentali e retta di interpolazione lineare ottenuti per la miscela PR-2-C (50%). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 277 9.11. Risultati sperimentali e retta di interpolazione lineare ottenuti per la miscela PR-2-C. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 278 9.12. Risultati sperimentali e retta di interpolazione ottenuti per la miscela PR-1-SQ. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 278 9.13. Risultati sperimentali e retta di interpolazione ottenuti per la miscela PR-1-SA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 279 9.14. Risultati sperimentali e retta di interpolazione ottenuti per la miscela CB-2-C. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 280 9.15. Risultati sperimentali e retta di interpolazione ottenuti per il calcestruzzo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 280 A.1. Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con sabbia di quarzo (PR-1-SQ). . . . . . . . . . . . . . . . . A.2. Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con sabbia di quarzo e con un quantitativo di legante dimezzato (PR-1-SQ-50%). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.3. Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con scoria di acciaieria (PR-1-SA). . . . . . . . . . . . . . . . A.4. Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con materiale da C&D (PR-1-CD). . . . . . . . . . . . . . . . A.5. Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 2 con calcare (PR-2-C). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.6. Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 2 con scoria di acciaieria (PR-2-SA). . . . . . . . . . . . . . . . A.7. Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con calcare e con un quantitativo di legante dimezzato (PR-2C-50%). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.8. Immagine del rivestimento "multistrato" con sabbia di quarzo (ML-SQ). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.9. Immagine del rivestimento "multistrato" con scoria di acciaieria (ML-SA). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.10.Immagine del rivestimento "multistrato" con materiale da C&D (ML-CD). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 289 290 290 290 290 291 291 291 291 292 xxiii Elenco delle figure A.11.Immagine del rivestimento "slurry" con bauxite (SL-B). . . . . A.12.Immagine del rivestimento in conglomerato bituminoso con scheletro di tipo 2 con calcare (CB-2-C). . . . . . . . . . . . . . . . A.13.Immagine del rivestimento in conglomerato bituminoso con scheletro di tipo 2 con scoria di acciaieria (CB-2-SA). . . . . . . . . xxiv 292 292 292 Elenco delle tabelle 4.1. Composti chimici e loro percentuali presenti nelle scorie d’acciaieria. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2. Confronto tra i valori di frammentazione (indice Los Angeles L.A.) e di levigatura accelerata (C.L.A.) di aggregati duri. . . . 4.3. Proprietà dell’etilene. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4. Proprietà del polietilene. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.5. Proprietà del metacrilato di metile. . . . . . . . . . . . . . . . . 43 44 83 84 86 6.1. 6.2. 6.3. 6.4. Resistenza allo slittamento per i rivestimenti con resine A e B. 117 Proprietà delle resine a trazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 Proprietà della resina espossidica a base di polisulfide. . . . . . 119 Proprietà del sistema di rivestimento con resina espossidica a base di polisulfide. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 6.5. Proprietà del sistema di rivestimento polimerico su supporto in acciaio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 6.6. Proprietà del sistema di rivestimento polimerico su supporto in calcestruzzo rinforzato con fibre di plastica. . . . . . . . . . . . 122 6.7. Fusi granulometrici tipici per i metodi di posa "multistrato", "slurry" e "premiscelato". . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 6.8. Quantià e percentuali di legante/aggregato per i metodi di posa "multistrato", "slurry" e "premiscelato". . . . . . . . . . . . . . . 130 6.9. Costi dei sistemi di rivestimento per impalcati in calcestruzzo di ponti [$/m2 ]. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 6.10. Numero di installazioni di rivestimenti polimerici negli Stati Uniti.148 6.11. valori del SR perle sezioni di prova sulla US-30 in Iowa. . . . . 151 6.12. valori del SR per le sezioni di prova sulla US-69 in Iowa. . . . . 153 6.13. Vita utile e costo medio dei tipi di rivestimento. . . . . . . . . . 158 7.1. 7.2. 7.3. 7.4. 7.5. 7.6. Proprietà Proprietà Proprietà Proprietà Proprietà Proprietà fisico-meccaniche fisico-meccaniche fisico-meccaniche fisico-meccaniche fisico-meccaniche fisico-meccaniche del bitume. . . . . . . . . della guaina bituminosa. della resina di tipo A. . . del primer di tipo A. . . del primer di tipo B. . . della resina di tipo B1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164 164 165 166 167 168 xxv Elenco delle tabelle 7.7. Proprietà fisico-meccaniche della resina di tipo B2 . . . . . . . . 7.8. Proprietà fisico-meccaniche della resina di tipo B3 . . . . . . . . 7.9. Curve granulometriche del calcare per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 2. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.10. Curve granulometriche del calcare per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e di tipo "multistrato". . . . . . . . 7.11. Proprietà fisico-meccaniche del calcare. . . . . . . . . . . . . . . 7.12. Curva granulometrica della frazione 1 della sabbia di quarzo. . 7.13. Curva granulometrica della frazione 2 della sabbia di quarzo. . 7.14. Proprietà fisico-meccaniche della sabbia di quarzo. . . . . . . . 7.15. Curve granulometriche della scoria di acciaieria per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro 2. . . . . . . . . . . . . . . . . 7.16. Curva granulometrica della scoria di acciaieria per misceledi tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e miscele di tipo "multistrato". . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.17. Proprietà fisico-meccaniche della scoria di acciaieria. . . . . . . 7.18. Curva granulometrica del materiale da C&D per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e di tipo "multistrato". . . 7.19. Proprietà fisico-meccaniche del materiale da C&D. . . . . . . . 7.20. Curva granulometrica della bauxite. . . . . . . . . . . . . . . . 7.21. Proprietà fisico-meccaniche della bauxite. . . . . . . . . . . . . 7.22. Fuso granulometrico miscele di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.23. Fuso granulometrico miscele di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 2. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.24. Fuso granulometrico miscele di tipo "multistrato". . . . . . . . . 7.25. Composizione delle miscele. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.26. Curva granulometrica miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 2 con calcare (PR-2-C & CB-2-C). . . . . . . . 7.27. Curva granulometrica per miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 2 con scoria di acciaieria (PR-2-SA & CB-2-SA). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.28. Curva granulometrica miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1 con sabbia di quarzo (PR-1-SQ). . . . . . . . 7.29. Curva granulometrica per miscela di tipo "multistrato" con sabbia di quarzo (ML-SQ). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.30. Curva granulometrica miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1 con scoria di acciaieria (PR-1-SA). . . . . . . 7.31. Curva granulometrica per miscela di tipo "multistrato" con scoria di acciaieria (ML-SA). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . xxvi 168 168 170 171 173 174 174 176 177 177 179 180 182 183 184 186 186 186 188 188 189 189 189 190 190 Elenco delle tabelle 7.32. Curva granulometrica per miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1 con materiale da C&D (PR-1-CD). . . 190 7.33. Curva granulometrica per miscela di tipo "multistrato" con materiale da C&D (ML-CD). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191 7.34. Curva granulometrica per miscela di tipo "slurry" con bauxite (SL-B). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 191 8.1. Tipologie di prove effettuate e relativa normativa. . . . . . . . . 8.2. Classificazione della macrorugosità superficiale del manto stradale in riferimento al valore di altezza in sabbia. . . . . . . . . 8.3. Correzione del valore PTV in funzione della temperatura ambientale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.4. Classificazione del tipo di manto in riferimento al valore PTV. 210 223 229 229 9.1. Misurazioni dei diametri formati dalla prova di "altezza in sabbia" sulle superfici dei rivestimenti. . . . . . . . . . . . . . . . . 256 9.2. Misurazioni della macrorugosità delle superfici dei rivestimenti. 256 9.3. Misurazioni della resistenza allo slittamento delle superfici dei rivestimenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 259 9.4. Misurazioni dei tempi d’efflusso dell’acqua nella prova di drenabilità orizzontale sulle superfici dei rivestimenti. . . . . . . . . . 260 9.5. Valutazione delle caratteristiche meccaniche delle malte polimeriche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 264 9.6. Risultati delle prove a felssione su quattro punti a fatica. . . . . 265 9.7. Risultati delle prove ultrasuoni su supporto nuovo o preparato con sistemi irruvidenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 9.8. Risultati delle prove ultrasuoni su supporto umido o mal preparato.267 9.9. Valori del parametro WTSAIR a 20℃ e 60℃. . . . . . . . . . . . 268 9.10. Valori del parametro WTSAIR a 0℃, 20℃, 40℃ e 60℃. . . . . . 268 9.11. Valori della tensione a trazione e tipo di rottura per ciascun tipo di rivestimento in diverse condizioni. . . . . . . . . . . . . . . . 273 9.12. Valori della tensione a trazione e tipo di rottura per ciascun tipo di rivestimento con i vari tipi di supporto. . . . . . . . . . . . . 275 9.13. Valori di dilatazione termica dei materiali. . . . . . . . . . . . . 279 B.1. Valori delle deformazioni permanenti dei rivestimenti "premiscelato" con scheletro di tipo 1: PR-1-SQ, PR-1-SA e PR-1-CD. . B.2. Valori delle deformazioni permanenti dei rivestimenti "premiscelato" con scheletro di tipo 2: PR-2-C, PR-2-SA, CB-2-C e CB-2-SA. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 294 295 xxvii Elenco delle tabelle B.3. Valori delle deformazioni permanenti dei rivestimenti "premiscelato" con un quantitativo di legante dimezzato: PR-1-SQ (50%) e PR-2-C (50%). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . B.4. Valori delle deformazioni permanenti dei rivestimenti "multistrato" e "slurry": ML-SQ, ML-SA, ML-CD e SL-B. . . . . . . . . . xxviii 296 297 Capitolo 1. Introduzione I ponti sono strutture atte a eliminare le interferenze reciproche tra infrastrutture di trasporto e a risolvere problemi di continuità delle infrastrutture dovuti alla conformazione del territorio. Esistono molte tipologie di ponti sia per la geometria di costruzione (a travata, ad arco, strallati, sospesi, ecc.) che per i materiali impiegati (muratura, acciaio, calcestruzzo, calcestruzzo precompresso, ecc.). Lo studio dei ponti e, in particolare, delle pavimentazioni per gli impalcati dei ponti, è molto importante in Italia poiché i ponti stradali risalgono per lo più al decennio sucessivo alla seconda guerra mondiale e agli anni settanta. L’età di queste strutture e i danni che hanno subito in questi anni (per l’aumento del traffico, per la presenza di agenti chimici aggressivi, per l’affaticamento dei materiali nel tempo, ecc.) ha comportato un aumento dell’attenzione degli studiosi riguardo il problema della durabilità di queste strutture e della possibilità di trovare nuovi sistemi costruttivi. Con questa tesi si è studiato il problema della pavimentazioni su impalcato di ponte in calcestruzzo. La pavimentazione viene stesa solitamente su di una soletta che costituisce l’impalcato del ponte. La soletta è posta al di sopra della travatura principale e può essere costruita con diversi materiali (muratura, acciaio, calcestruzzo, ecc.). La pavimentazione avrà spessori diversi da una pavimentazione qualsiasi a causa delle rigidezze più elevate che possiede il materiale di cui è composto il ponte rispetto alle rigidezze che possiede un qualsiasi terreno. L’impalcato e la pavimentazione sono sollecitati diversamente dalle condizioni esterne. I principali fattori che influenzano il comportamento della pavimentazione e dell’impalacato del ponte sono: il clima, il traffico e gli agenti chimici. E’ necessario tenere in conto anche che l’impalcato e la pavimentazione si trasmettono reciprocamente le sollecitazioni esterne (traffico, vento, terremoto, ecc.). Il clima influenza il comportamento dei materiali a causa delle variazioni termiche durante la giornata e durante l’anno. Ad esempio, nei climi più rigidi, soprattutto nel periodo invernale, i cicli di gelo e di disgelo comportano 1 Capitolo 1. Introduzione l’aumento del volume dell’acqua contenuta nei pori del calcestruzzo o dell’acqua che è permeata nelle fessure (della pavimentazione e del calcestruzzo). Nel caso di travature in acciaio, l’acqua può comportare un aumento del volume del materiale a causa della formazione di ruggine. Fenomeni di formazione della ruggine si possono avere anche nel calcestruzzo, che fessuratosi, permette all’acqua di permeare fino a farla entrare in contatto con l’acciaio. L’acciaio delle armature può a questo punto aumentare di volume per la formazione di ruggine determinando tensioni interne di trazione che possono portare a rotture superficiali e alla formazione di fessurazioni nel calcestruzzo (e questo poi si rilfette sulla pavimentazione). Il traffico è uno dei parametri più importanti. Ciò che provoca spostamenti non uniformi e tensioni nella pavimentazione sono i carichi del traffico stradale, soprattutto quelli dei veicoli pesanti, unitamente agli agenti atmosferici e all’invecchimento del materiale. Il degrado della pavimentazione è un processo di accumulo del danno, che dipende sia dalle caratteristiche del materiale utilizzato per la sovrastruttura, sia dalla geometria della piastra ortotropa del ponte. I carichi agenti sulla pavimentazione sono i principali colpevoli dell’affaticamento dei materiali che compongono la pavimentazione e l’impalcato. Esempi di danni riscontrabili su impalcati da ponte sono: deformazioni permanenti, affatticamento dei materiali, perdita di aderenza superficiale della pavimentazione, "trasudazione" del legante, ecc. Gli agenti chimici comportano una modifica della struttura molecolare dei materiali che costituiscono la pavimentazione e l’impalcato. Ad esempio, i sali disgelanti a contatto con il calcestruzzo comportano il degrado della pasta cementizia e lo sgretolamento del materiale: la presenza di cloro, di acqua e di ossigeno, infatti, provoca la formazione di un ambiente con pH elevato che neutralizza l’equilibrio chimico tra acciaio e calcestruzzo e causa l’ossidazione dell’acciaio. Esistono diverse tipologie di pavimentazioni applicate alle solette dei ponti in calcestruzzo, principalmente flessibili o rigide. Le pavimentazioni di tipo flessibile solitamente sono costituite da una guaina bituminosa applicata direttamente alla soletta del ponte (per aumentare l’adesione tra soletta e pavimentazione), da uno o più strati di conglomerato bituminoso per uno spessore totale di 25 - 30 centimetri. Le pavimentazioni rigide invece sono costituite da uno strato di calcestruzzo (armato o non armato) posto al di sopra della soletta di spessore variabile con i carichi (all’incirca 10-15 centimetri). Esistono anche pavimentazioni semi-rigide: esse prevedono la stesa di una lastra di calcestruzzo e di uno strato di conglomerato bituminoso al di sopra della lastra. 2 Tra le pavimentazioni di tipo flessibile possono essere annoverate anche le pavimentazioni con leganti sintetici. Queste sono l’oggetto di studio di questa tesi di dottorato. In tutti i casi le rigidezze sono studiate in modo tale che il carico si distribuisca in modo adeguato alla soletta. Uno dei principali problemi che si constatano essere presenti sui ponti è l’accoppiamento di due materiali. Questo può produrre tensioni all’interfaccia tra i due materiali, comportando danni per la soletta e/o per la pavimentazione. Il legame tra pavimentazione e superficie del ponte è dovuto principalmente alle forze di aderenza che si sviluppano all’interfaccia tra i materiali: le tensioni di taglio che si generano tra membrana e piattaforma consentono alla pavimentazione di trasmettere i carichi alla struttura. Una volta compromesso tale legame, la vita utile della pavimentazione diventa molto breve: possono così formarsi ormaie sulla pavimentazione e fessurazioni da fatica sull’estradosso del ponte e sulla pavimentazione stessa. Di qui la necessità di studiare in modo approfondito i meccanismi che si sviluppano all’interfaccia tra i materiali, simulandone il reale comportamento, in maniera tale da ridurre gli effetti di danneggiamento delle strutture e della pavimentazione. L’obiettivo di questa tesi è lo studio di pavimentazioni di piccolo spessore, che producano una impermeabilizzazione direttamente carrabile. Nel lavoro qui presentato sono state studiate diverse tipologie di pavimentazioni per poterne confrontare i vantaggi e gli svantaggi e le prestazioni in opera simulate con opportuni protocolli in laboratorio. Si è studiato inoltre un rimedio alla presenza dei giunti: questi infatti comportano la necessità di una manutenzione con cadenza molto alta e di costi per la società di gestione dell’infrastruttura. Si è studiata infatti una pavimentazione che necessita di manutenzione con cadenza non elevata e che, se necessario intervenire, abbia la possibilità di essere riparata in modo veloce e con costi contenuti. Le pavimentazioni di ponti e viadotti devono possedere infatti alcune caratteristiche fondamentali: antisdrucciolevozza, assenza di irregolarità, buon confort di marcia, adeguata capacità di smaltimento delle acque, impermeabilità, adeguata rumorosità, resistenza meccanica, resistenza ad attacchi chimici, resistenza ai cicli di gelo e disgelo, durabilità, peso limitato, rapidità di posa, veloce transitabilità e facile manutenibilità. Un problema che accumuna tutti i ponti e i viadotti è quello della impermeabilizzazione dell’impalcato, sia che si tratti di una soletta in calcestruzzo, che di una struttura in acciaio. A tal fine, in passato si faceva uso di asfalti colati (ad elevato contenuto di bitume), che garantivano buona resistenza all’acqua, alla fatica e all’ossidazione, ma erano problematici per quanto riguarda la suscettibilità termica e il rischio di ormaiamento. 3 Capitolo 1. Introduzione L’orientamento attuale è quello di usare membrane di matrice bituminosa preformate (guaine) o meno e impermeabilizzazioni polimeriche in opera, che danno omogeneità e continuità della funzione protettiva in ogni singolo punto; adesione al supporto ed alla sovrastante pavimentazione; sufficiente elasticità; resistenza alle aggressioni tipiche dell’ambiente; imperforabilità a seguito di stress di natura termo-meccanica indotti dalla stesa della pavimentazione; veloce transitabilità. Richiedono però una sovrastante pavimentazione. In alternativa si propongono: calcestruzzi armati (con spessori e peso più elevati ma apportano protezione, rinforzo strutturale e impermeabilizzazione), calcestruzzi non armati modificati con polimeri (3/4 centimetri e migliorano la resistenza a trazione, a flessione e ai cicli di gelo e disgelo) e calcestruzzi diversi (additivazioni fumo di silice). Questo lavoro presenta lo studio di impermeabilizzazioni direttamente trafficabili, da applicare sulla soletta dell’impalcato, le quali assommino i requisiti delle impermeabilizzazioni tradizionali alla rapidità di posa in opera e il limitato peso. I metodi di stesa impiegati per i rivestimenti polimerici sottili sono: "multistrato", "premiscelato" e "slurry". La ricerca è stata focalizzata su: • porre a confronto tecniche diverse (rivestimenti sottili, multistrato e miscele premiscelate in particolare); • analizzare il comportamento delle impermeabilizzazioni su supporti in calcestruzzo in diverse condizioni; • variare la tipologia di legante (resina) , destinato a impermeabilizzare e conferire proprietà resistenti; • utilizzare cariche minerali e aggregati non convenzionali, anche artificiali e di riciclo; • studiare la durabilità dei rivestimenti, con riguardo particolare alle condizioni dell’interfaccia soletta-impermeabilizzazione-manto, alla resistenza a fatica e all’ormaiamento, oltre che alle caratteristiche di micro e macrotessitura e regolarità. Lo studio ha comportato l’individuazione di appositi protocolli di prova, idonei a riprodurre in laboratorio il comportamento su scala reale dell’impermeabilizzazione trafficabile. Questa tesi è stata suddivisa in 10 capitoli. Il capitolo 2 le diverse tipologie di ponti presenti nel panorama strutturale. Nel capitolo 3 sono stati descritte le pavimentazioni costruite sugli impalcati di ponte: le principali tipologie, i vantaggi e gli svantaggi, ecc. Nel capitolo 4 vengono riportate le caratteristiche e le proprietà dei materiali utilizzati in questa sperimentazione. Nel capitolo 5 4 sono stati affrontati i meccanismi di danneggiamento della pavimentazione e dell’impalcato, descrivendone le cause e gli effetti sui materiali. Il capitolo 6 comprende la parte bibliografica del presente lavoro: sono state descritte le esperienze pregresse di numerosi studiosi e sono state presentate le loro conclusioni. Dai lavori presenti in letteratura sono stati reperiti le modalità operative: protocolli di prova, materiali, mix design, tipologie di prove, ecc. Il capitolo 7 contiene il programma sperimentale del presente lavoro di tesi. Nel capitolo 8 sono state inserite le normative a cui si è fatto riferimento per lo sviluppo delle prove e i protocolli di prova che sono stati decisi in modo autonomo in questo lavoro ispirandosi anche a prove eseguite da altri studiosi. Il capitolo 9 comprende i dati ottenuti dalla sperimentazione e l’analisi dei risultati. Infine il capitolo 10 contiene le conclusioni del lavoro1 . Le appendici A contiene le immagini dei campioni di laboratorio delle varie tipologie di rivestimenti confezionati. L’appendice B, invece, contiene le tabelle con i dati ottenuti dalle prove di ormaiamento per ciascun tipo di rivestimento testato. 1 Desidero ringraziare quanti hanno reso possibile questo lavoro, coloro che mi hanno concesso di poter continuare a studiare, coloro che mi hanno aiutato e coloro che mi sono stati vicini durante i tre anni di dottorato. Ancona, gennaio 2015 Giovanni Giacomello 5 Capitolo 2. I ponti stradali I ponti sono strutture concepite per realizzare il percorso dell’infrastruttura rispettando i parametri progettuali fondamentali (raggi minimi di curvatura, pendenze massime, ecc.) non diversamente conseguibili in relazione all’orografia dei terreni attraversati. Con la parola "ponte" si intende un manufatto tramite il quale una via di comunicazione può superare un corso d’acqua, una vallata, una via preesistente [1]. In genere, i ponti sono costituiti da una serie di elementi portanti (Figura 2.1) il cui compito è quello di trasmettere le sollecitazioni (le azioni verticali ed orizzontali) che gravano sulla struttura al piano d’appoggio. Gli elementi presenti in un generico ponte (come riportato in Figura 2.1) sono quindi: • soletta; • travi; • traversi; • appoggi; • pila e pulvino; • spalle. Come ogni struttura, i ponti risentono degli effetti aggressivi degli agenti atmosferici e delle solecitazioni esterne, che, insieme, provocano danni alle strutture portanti. I danni che possono subire i ponti sono imputabili al degrado e all’affaticamento dei materiali. Il degrado può avvenire in forma chimica, per la variazione che possono far avvenire alcune sostanze (sali disgelanti, solfati, cloruri, ecc.) nei materiali che compongono la struttura del ponte, o in forma fisica, cioè con la rottura di parti della struttura stessa (fessurazioni, delaminazione, ecc.). Il degrado può quindi comportare la perdita di coesione tra gli elementi del ponte o nel materiale stesso. 7 Capitolo 2. I ponti stradali Figura 2.1.: Nomenclatura delle parti di un ponte. Sezione trasversale e sezione longitudinale di un ponte a doppia travata. La fatica invece è un fenomeno che si verifica quando una struttura o una parte di essa, sollecitata per lungo tempo, arriva al limite della sua resistenza. La resistenza infatti decade rapidamente in caso di rottura fragile, o decade nel tempo nel caso di rottura duttile. Il pericolo di rotture per fatica è uno dei problemi principali: nel caso di ponti in calcestruzzo (precompresso e non) la fatica viene considerata una concausa del danneggiamento progressivo di alcuni elementi degli impalcati che richiedono periodicamente interventi di ispezione e di ripristino nell’ambito della gestione della rete stradale. Mentre nel caso di ponti di acciaio la rottura per fatica è nota perchè la letteratura del settore contiene esempi di rotture catastrofiche [2]. Il problema della manutenzione e del relativo costo e il probelma della durabilità1 di queste opere, assieme allo studio delle cause del degrado dei materiali, ha da sempre posto l’attenzione di numerosi studiosi, che hanno elaborato teorie per la previsione del degrado [3], per l’analisi a fatica [2] e per il calcolo dell’affidabilità residua a fatica [4]. Il fattore importante che impone uno studio delle modalità di accumulo dei danni a fatica e delle cause del degrado è dovuto al fatto che i ponti stradali e ferroviari in Italia sono strutture che sono state costrutite (o ricostruite) dopo la seconda guerra mondiale, nei decenni 1950 e 1960 (gli anni della costruzione della rete autostradale, della ricostruzione delle opere ferroviarie, ecc.). Molti 1 La durabilità di un materiale o di un manufatto è la capacità di conservare nel tempo le prestazioni iniziali in relazione all’ambiente in cui si trova. 8 2.1. Le tipologie di ponte ponti sono stati anche ricostruiti negli ultimi anni (1990 - 2000), soprattutto a causa dell’allargamento delle infrastratture autostradali e ferroviarie. Tuttavia la maggior parte dei ponti italiani possiedono ancora la vecchia struttura e il vecchio impalcato. Il numero elevato di ponti e la difficoltà di reperire fondi per la manutenzione straordinaria di tutte le strutture, ha indotto i ricercatori a studiare nuove tecnologie per la manutenzione e la riparazione dei vecchi ponti. Negli ultimi anni si sono infatti resi necessari interventi di ripristino e riparazione, dal momento che le opere manifestavano uno stato di degrado di sorprendente entità. Il degrado naturale dei materiali, come viene illustrato nel capitolo 5, è dovuto a processi di danneggiamento della struttura causati principalmente da agenti esterni di tipo fisico-meccanico (cicli termici, traffico, ecc.) e di tipo chimico (corrosione delle armatura, attacco solfatico, reazione alcali-aggregato, carbonatazione, sali disge-lanti, ecc.). Questi fenomeni hanno infatti una influenza negativa sulla durabilità di queste opere, che, di conseguenza, non riescono a conservare le caratteristiche meccaniche volte a garantire adeguati livelli prestazionali e di sicurezza per l’utente. Altri fattori da considerare sono l’aumento del traffico nel corso degli anni e l’aumento dei costi per mantenere in vita un numero così elevato di ponti, come è quello presente in Italia. 2.1. Le tipologie di ponte Esistono differenti tipologie di ponti e diverse calssificazioni. In questo paragrafo si riportano le principali classifiche e vengono definite le diverse tipologie. I ponti possono essere classificati in base alla tipologia di ostacolo da superare: • ponti; • viadotti; • cavalcavia; • strade sopraelevate. I ponti sono opere stradali necessarie al superamento di ostacoli di natura idraulica quali fiumi, canali, torrenti, bracci di mare; i viadotti sono opere stradali rese necessarie dalla morfologia del terreno che impedisce alla strada di seguire l’orografia stessa per lunghi tratti; i cavalcavia sono opere stradali utili al superamento di altre strade o ferrovie; e, infine, le strade sopraelevate sono opere stradali usate per scavalcare aree urbane che presentano costruzioni preesistenti, o di particolare importanza ai fini del traffico, dell’interesse urbanistico o archeologico. 9 Capitolo 2. I ponti stradali I ponti ancora possono essere classificati in base alla via servita o alla destinazione d’uso, ponendo attenzione al tipo di carichi che transiteranno sull’opera: • ponti stradali di prima categoria; • ponti stradali di seconda categoria; • ponti ferroviari; • ponti stradali-ferroviari; • passerelle pedonali; • ponti canale. I ponti stradali di prima categoria sono opere costruite per il transito dei carichi accidentali più severi previsti dalla normativa (come, ad esempio, i carichi dei veicoli militari); i ponti stradali di seconda categoria sono opere a servizio di strade secondarie su cui non è previsto il transito di determinati veicoli pesanti; i ponti ferroviari sono opere a servizio di reti ferroviarie, suddivisi anch’essi in diverse categorie a seconda dell’importanza della linea; i ponti stradali-ferroviari sono opere adibite al traffico promiscuo (sia veicolare che ferroviario); le passerelle pedonali sono opere adibite al transito di soli pedoni; i ponti canale sono opere che sorreggono tubazioni oppure costituiscono esse stesse la via d’acqua. Altra classificazione è basata sul tipo di materiale impiegato per la costruzione: • legno; • pietra; • calcestruzzo; • acciaio; • materiale misto (generalmente acciaio e calcestruzzo); • alluminio. Il legno è un materiale che veniva frequentemente utilizzato in passato ed ora viene usato per opere provvisorie; la pietra (Figura 2.2a) è un materiale che non possiede una resistenza elevata a trazione e quindi è adatto solo per schemi strutturali ad arco; il calcestruzzo (armato o non armato e precompresso) è il materiale più diffuso in tutto il territorio italiano (Figure 2.2c e 2.2d); l’acciaio è un materiale molto resistente a trazione e impiegato per grandi luci (Figura 2.2b); i ponti in materiale misto (acciaio e calcestruzzo); l’alluminio è 10 2.1. Le tipologie di ponte (a) Ponte ad arco "Ponte Pietra" a Verona (Italia) [5]. (b) Il "Golden Gate Bridge" - ponte sospeso in acciaio presso San Francisco (USA) [6]. (c) Ponte collaborante arco-trave in calcestruzzo "Wilde Gera" (Germania) [7]. (d) Ponte a travata a conci a Stralsund (Germania) [8]. Figura 2.2.: Esempi di ponti costruiti con vari tipi di materiali e varie tipologie costruttive. 11 Capitolo 2. I ponti stradali un materiale impiegato per la costruzione di manufatti speciali, leggeri e facilmente trasportabili (spesso realizzati in leghe d’alluminio e utilizzati a scopo militare). Solitamente vengono costruiti in calcestruzzo viadotti o ponti di dimensioni contenute; in calcestruzzo fino ad una certa dimensione e poi in calcestruzzo precompresso. Sono realizzati in acciaio i ponti che devono avere travature molto resistenti e su cui è previsto transitino carichi molto elevati. In materiale misto (acciaio e calcestruzzo) sono costruiti i ponti con dimensioni e forme inconsuete (ponte su tracciato in curva o con spalle/pile molto distanti tra loro). I ponti possono essere classificati anche in base dello schema strutturale adottato: • ponti a travata; • ponti ad arco; • ponti a telaio; • ponti strallati; • ponti sospesi; • ponti collaboranti arco-trave. Questa classifica è la più complessa, in quanto alcuni schemi possono rientrare in categorie diverse o possono combinarsi tra loro per dare origine a tipologie miste. I ponti a travata sono costituiti da una struttura principale composta da travi, ovvero elementi adatti a lavorare principalmente a flessione e a taglio. Le travi possono essere a parete piena o reticolari e per entrambe le tipologie, a seconda dello schema longitudinale, si possono distingure: travate semplicemente appoggiate (isostatiche), travate tipo Gerber (isostatiche), travate continue (iperstatiche) e travate appoggiate con solette di continuità. La struttura principale dei ponti ad arco è l’arco stesso (Figura 2.2a), un elemento ad asse curvilineo adatto a lavorare principalmente con sforzi assiali. Si possono avere archi a due cerniere, a tre cerniere, a spinta eliminata e incastrati. I ponti ad arco per millenni sono stati gli unici costruiti dall’uomo. Sono divenuti obsoleti quelli in calcestruzzo armato per le difficoltà di realizzazione, mentre tale schema strutturale rimane molto utilizzato per quelli in acciaio. Il funzionamento dei ponti a telaio si pone in posizione intermedia tra lo schema strutturale a travata e ad arco. Recentemente questo tipologia strutturale è stata molto impiegata in quanto si presta bene alla costruzione con elementi prefabbricati per conci successivi (Figura 2.2d. 12 2.2. Le tipologie di impalcato I ponti strallati sono opere costituite da una trave sostenuta da un numero limitato di funi pressoché rettilinee. Le funi, rinviate da un pilone o antenna, possono essere ancorate al suolo o all’impalcato stesso. La struttura principale dei ponti sospesi è costituita da funi disposte secondo una configurazione curvilinea (in genere parabolica, come in Figura 2.2b). Contrariamente ai ponti strallati, quelli sospesi potrebbero esistere senza travata. Tuttavia, la travata viene inserita per limitare la deformabilità delle funi alle quali viene collegata con un sistema molto fitto di sospensioni. I carichi sono quindi portati in parte dalle funi e in parte dalla trave irrigidente. I ponti collaboranti arco-trave (come in Figura 2.2c) sono frutto di accoppiamento di due strutture diverse che, collegate opportunamente tra loro, collaborano nel portare i carichi esterni. Un’ulteriore classificazione si basa sulla luce che caratterizza le campate: • tombino: opere in cui le luci raggiungono al massimo i 2,5 metri; • ponticello: opere in cui le luci raggiungono al massimo i 10 metri; • ponte: opere in cui le luci superano i 10 metri. 2.2. Le tipologie di impalcato L’elemento del ponte sul quale si posa la pavimentazione è l’impalcato: esso è la struttura orizzontale che sorregge il piano viabile. Possono esserci differenti tipologie di impalcato a seconda dei materiali (acciaio, calcestruzzo armato, calcestruzzo armato precompresso, misto acciaio-calcestruzzo, muratura, legno) e degli schemi costruttivi adottati (a graticcio o travata, a cassone, struttura reticolare, a piastra ortotropa, ecc.). A volte, con il solo termine impalcato si intende anche l’insieme di tutte le strutture di sostegno orizzontale del piano stradale di un ponte: le travi principali (o longheroni) in acciaio o calcestruzzo armato parallele all’asse stradale (costituenti il vero impalcato) appoggiate ai sostegni verticali (pile), collegate tra loro da travi secondarie trasversali (traversi) e superiormente da una soletta in calcestruzzo armato o da una lamiera grecata in acciaio che rappresentano il piano di appoggio della sovrastruttura stradale. La tendenza attuale è quella di realizzare impalcati di materiale composto acciaio-calcestruzzo sia per la disponibilità di nuovi materiali performanti (acciai e calcestruzzi ad alta resistenza), per i progressi raggiunti nelle tecniche di costruzione e montaggio (saldatura in opera, precompressione esterna, ecc.) e per gli affinamenti raggiunti nelle analisi strutturali attraverso programmi di calcolo numerico. L’evoluzione tecnologica ha contribuito ad una forte accelerazione nella competitività delle soluzioni composte rispetto alle altre riportandola ad essere preferibile dai progettisti di ponti. 13 Capitolo 2. I ponti stradali Figura 2.3.: Sezione trasversale di un ponte con impalcato a graticcio [9]. 2.2.1. L’impalcato a graticcio o a travate L’impalcato a graticcio o a travata (Figura 2.3) è formato da un numero variabile di elementi longitudinali rettilinei (travi), collegati tra loro dalla soletta e da elementi trasversali irrigidenti (traversi). Le travi longitudinali possono essere sia isostatiche (travi in semplice appoggio e travi di tipo Gerber) o iperstatiche (travi continue). Le sollecitazioni presenti nelle travi sono generalmente a flessione e di taglio. Questa tipologia di impalcato ha avuto rapidissima diffusione negli ultimi trenta anni grazie alla precompressione che, in alcuni casi, può essere effettuata in maniera totale; per questo motivo i ponti a travata hanno sostituito i ponti ad arco che richiedono costose opere provvisionali per la loro realizzazione. Il campo di impiego dei ponti a graticcio è quello delle piccole e medie luci (40-50 metri), preferendo, per luci di entità superiore, altre tipologie di impalcato. Lo schema statico maggiormente adottato negli impalcati a travata è quello della trave semplicemente appoggiata poiché necessita di semplici operazioni di montaggio soprattutto nel caso di prefabbricazione. Dal punto di vista del comportamento strutturale, gli impalcati a graticcio si differenziano da quelli a cassone per la ridotta rigidezza torsionale delle travi che li compongono. 2.2.2. L’impalcato a cassoni L’impalcato a cassone (Figura 2.4) è costituito da piastre piane collegate tra loro in modo da formare una o più sezioni scatolari chiuse; le pareti inferiori e laterali sono realizzate in acciaio o calcestruzzo mentre la chiusura superiore è garantita dalla soletta in calcestruzzo che funge da piattaforma stradale. Solitamente lo spessore delle piastre è piccolo rispetto alle dimensioni della sezione trasversale. Gli impalcati a cassone sono caratterizzati da un’elevata rigidezza torsionale che li rende adatti ad essere usati per tracciati curvi. Questa tipologia di impalcato risulta essere di semplice manutenzione (soprattutto nel caso di 14 2.2. Le tipologie di impalcato Figura 2.4.: Sezione trasversale di un ponte con impalcato a cassone [9]. ponti in acciaio) in quanto l’interno del cassone è facilmente raggiungibile senza necessità di utilizzo di ponteggi o mezzi provvisionali; inoltre risulta essere idoneo ad ospitare eventuali sottoservizi (tubazioni, cavi, ecc.). Negli impalcati a cassone si può avere un ridotto rapporto altezza/luce che consente una migliore distribuzione dei carichi accidentali. A questi vantaggi si contrappone, generalmente, una superiore difficoltà di esecuzione utilizzando calcestruzzo armato e calcestruzzo armato precompresso. Infatti, qualora l’impalcato sia realizzato tramite un getto in opera si ha l’onere di recuperare la cassaforma interna mentre, nel caso della prefabbricazione, gli elementi da manovrare risultano essere molto pesanti. Tuttavia la tecnica di costruzione per conci successivi prima, e più recentemente, la possibilità di prefabbricare e varare intere campate del peso di diverse centinaia di tonnellate, hanno contribuito a diffondere questa tipologia di impalcato nei ponti di una certa importanza. Nei ponti a cassone è opportuno disporre, quando possibile, dei setti intermedi di irrigidimento che hanno lo scopo di mantenere inalterata la forma della sezione trasversale nella deformata provocata dai carichi accidentali. 15 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti Le pavimentazioni stradali sono strutture atte a garantire un piano regolare per la marcia dei veicoli e a trasmettere i carichi al piano sottostante (al sottofondo, se la pavimentazione è posta su terreno, alla struttura del ponte se su impalcato). La sovrastruttura stradale (pavimentazione) è una struttura idonea a garantire la transitabilità del traffico veicolare secondo le previsioni progettuali [10]. La moderna tendenza è quella di costruire una struttura che contemporaneamente serva a distribuire i carichi e a filtrare eventuali fenomeni vibrazionali trasmessi dai veicoli all’ambiente esterno. Oltre al campo stradale, esistono pavimentazioni in campo aeroportuale e ferroviario, che, seppur sottoposte a carichi di entità maggiore, servono allo stesso scopo. In questa trattazione si studieranno solamente le pavimentazioni ad uso stradale impiegate su impalcati da ponte in calcestruzzo. Queste hanno una diversa composizione a causa della differente trasmissione dei carichi: infatti le solette dei ponti sono delle strutture in calcestruzzo (armato o non armato) poste sulla travatura del ponte (che a sua volta può essere in acciaio o in calcestruzzo). La tipologia di materiale impiegato (acciaio, calcestruzzo precompresso, calcestruzzo o struttura mista in acciaio e calcestruzzo) dipende da numerosi fattori. Lo spessore della pavimentazione stradale dipende dalla differente rigidezza dei materiali: quella della soletta risulta essere molto elevata rispetto a quella di un terreno qualsiasi. L’esperienza maturata in Italia negli ultimi ventanni ha dimostrato inoltre che i ponti interessati da un elevato traffico veicolare, da climi rigidi e da un ambiente aggressivo devono essere opportunamente dimensionati e protetti attraverso efficaci sistemi di impermeabilizzazione. In linea generale, il costo aggiuntivo di un sistema impermeabilizzante incide approssimativamente per il 5% sul costo totale del ponte. La maggiore spesa iniziale ha dimostrato, nel corso degli anni, di essere ampiamente giustificata dal fatto che la rimessa in efficienza degli impalcati degradati in esercizio senza alcun sistema di protezione è pari a quella di una nuova costruzione. In aggiunta, si hanno benefici 17 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti in termine di riduzione dei periodi di inattività dell’opera dovuti a lavori di ripristino che causano, soprattutto per le grandi arterie stradali, problemi agli utenti. Lo studio delle pavimentazioni stradali per impalcato da ponte riveste quindi un carattere di importanza per la durabilità dei ponti, per i costi in gioco. Le pavimentazioni infatti permettono da un lato di distribuire i carichi sull’impalcato e di filtrare le vibrazioni trasmesse dai veicoli e costituiscono dall’altro una prima impermeabilizzazione dell’impalcato. Infine le pavimentazioni giocano anche un ruolo fondamentale per la vita a fatica dei ponti. 3.1. I requisiti delle pavimentazioni I requisiti che le pavimentazioni per ponti e viadotti devono esprimere sono: • antisdrucciolevolezza (è la capacità della pavimentazione di mantenere una certa aderenza con lo pneumatico del veicolo); • assenza di irregolarità (è la caratteristica che la pavimentazione esprime non avendo differenze di altezza); • buon confort di marcia (permette al conducente del veicolo di mantenere una buona guida e di non subire scossoni o di avere problemi alla guida per improvvise irregolarità della pavimentazione); • adeguata capacità di smaltimento delle acque (la pavimentazione di un ponte deve essere priva di accumuli di acqua piovana per evitare problemmi di sdrucciolevolezza della pavimentazione; il veicolo che incontrasse un accumulo d’acqua su di un ponte potrebbe essere portato a uscire di strada con il pericolo della morte degli occupanti il veicolo); • impermeabilità (l’acqua che cade sulla pavimentazione non deve entare in contatto con la soletta del ponte per non dare luogo a fenomeni di degrado, qauli la formazione di ruggine per l’acciaio e la formazione di composti chimici espansivi per il calcestruzzo); • adeguata rumorosità (la pavimentazione non deve dare luogo a un livello di rumore più elevato al contatto con gli pneumatici dei veicoli); • resistenza meccanica (la pavimentazione deve avere una resistenza molto elevata e deve riuscire a trasmettere i carichi in modo adeguato alla soletta senza rovinarsi e fessurarsi); • resistenza ad attacchi chimici (la pavimentazione deve essere resistente al contatto con gli agenti chimici più comuni che possono trovarsi su strada, 18 3.2. Le tipologie di pavimentazioni quali i sali disgelanti usati per scioglere la neve o i ghiaccio nei mesi invernali); • reistenza ai cicli di gelo e disgelo (la pavimentazione deve essere capace di resistere ai cicli di gelo e disgelo); • durabilità; • rapidità di posa in opera; • veloce transitabilità; • facile manutenibilità (deve essere possibile effetttuare una veloce manutenzione della pavimentazione). 3.2. Le tipologie di pavimentazioni Tradizionalmente si dividono le pavimentazioni stradali (o sovrastrutture) in flessibili e rigide; la differenza essenziale fra i due tipi consiste nel modo in cui esse distribuiscono il carico sul piano di posa [10]. Le pavimentazioni rigide (Figura 3.1) sono costituite da calcestruzzo (armato o non armato), il quale possiede un elevato modulo di rigidezza, conferendo alla lastra (che costituisce la pavimentazione) la capacità di sopportare direttamente le sollecitazioni di carico. In questo caso piccole variazioni della portanza del piano di posa influenzano in modo limitato il comportamento strutturale e lo stato di sollecitazione. Le pavimentazioni rigide sono costituite in genere da piastre delimitate da giunti. Questo tipo di pavimentazione si è diffuso con lo sviuppo autostradale e del traffico autmobilistico Una pavimentazione flessibile (Figura 3.4) al contrario, è costituita in genere da un serie di strati di qualità via via crescente verso lo strato superficiale. Attraverso questo sistema stratificato, la pavimentazione assicura la distribuzione del carico al piano di posa. Esistono anche pavimentazioni di tipo semi-rigide, le quali abbiano l’elevata rigidezza della lastra di calcestruzzo (nella parte inferiore) all’elasticità della pavimentazione flessibile (nella parte superiore). Generalmente, si costruiscono uno strato di fondazione sul quale si posa la lastra di calcestruzzo; al di sopra della lastra si pongono alcuni strati di conglomerato bituminoso (strato di collegamento e strato di usura). Esitono anche pavimentazioni "ad elementi", che sono costituite da elementi di pietra naturale o manufatti artificiali (in laterizio, in calcestruzzo, in materiale sintetico, ecc.) poggiati su un letto di sabbia o di malta cementizia, uno strato di base e uno di fondazione. Questa tipologia di pavimentazione però non viene usata per la viabilità ordinaria, ma solo quando ricorrono certi 19 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti Figura 3.1.: Esempio di pavimentazione rigida [11]. presupposti: viabilità in centro città dove sono presenti edifici di pregio, necessità di avere una superficie più permeabile alle acque meteoriche, velocità dei veicoli molto basse. In questo elaborato non verranno trattate queste tipologie di pavimentazione. Le pavimentazioni stradali su impalcato da ponte possono essere costruite in tre modi principalmente: la pavimentazione stradale, poggiando sulla soletta in calcestruzzo o in acciaio, può essere una lastra di calcestruzzo (se di tipo rigido), una serie di strati di spessore ridotto nel caso di una pavimentazione flessibile (rispetto ad una normale pavimentazione), o, ancora, una o più serie di strati di polimeri e aggregati/malta polimerica (detta anche "conglomerato polimerico"). 3.2.1. Le pavimentazioni rigide Le pavimentazioni rigide [12] (Figura 3.1), caratterizzate da una rigidezza molto elevata, sono costituite solitamente da una lastra di calcestruzzo singola o a doppio strato posta su uno o più strati di fondazione di inerte granulare (con o senza leganti). L’ultimo strato è posto direttamente sul terreno di sottofondo (se questo è in grado di garantire un’adeguata capacità portante). Le pavimentazioni stradali in calcestruzzo possono essere realizzate a singolo o doppio strato in funzione delle modalità di stesa, per formare la lastra dello spessore finale richiesto. La tecnica a doppio strato consente un risparmio di aggregato duro e tenace, costoso e non sempre facilmente reperibile, che viene impiegato solo nello strato superiore, permettendo, nel contempo, anche la possibilità di utilizzare aggregati/ calcestruzzo riciclati nello strato inferiore. Nelle tipologie a doppio strato il secondo strato di calcestruzzo viene steso sopra al primo strato quando questo è ancora fresco. Attualmente in Italia si contano solo qualche centinaio di chilometri di strade con pavimentazione rigida, quasi esclusivamente lungo la rete autostradale 20 3.2. Le tipologie di pavimentazioni ove il 3% è di tipo composito polifunzionale1 . In Italia è stato costruito un tronco pilota sull’Autostrada Piacenza-Brescia che però ha portato alla scelta, già ampiamente radicata, dell’utilizzo delle pavimentazioni di tipo flessibile: i costi di costruzione e di manutenzione sono molto più elevati rispetto ad una pavimentazione di tipo flessibile, seppure la pavimentazione di tipo rigido offre una maggiore vita utile a parità di traffico. A differenza di quanto accaduto in Italia, nel resto del mondo e soprattutto in alcuni paesi del Nord Europa come Germania, Austria e Belgio la tecnologia delle pavimentazioni in calcestruzzo si è diffusa ed è tuttora impiegata sia per le strade a grande traffico che per le strade minori. In campo aeroportuale, l’incompatibilità dei conglomerati bituminosi con i combustibili e i solventi per la pulizia degli aeromobili, anche in Italia si è registrato un consistente impiego di pavimentazioni in calcestruzzo. Le pavimentazioni rigide presentano ottime caratteristiche meccaniche per l’elevata resistenza al taglio abbinata ad una discreta resistenza a flessione; per questo motivo questo tipo di pavimentazioni vengono adottate su strade sottoposte ad elevata intensità di traffico. In genere si possono distinguere quattro differenti categorie di pavimentazioni rigide: lastre non armate, lastre armate, pavimentazioni ad armatura continua e lastre precompresse. Lastre non armate : caratterizzate dalla presenza di giunti trasversali relativamente frequenti. Il loro interasse è dell’ordine di 4.5-5 m, nel caso in cui non siano previste barre di compartecipazione, incrementabile fino a circa 7,5 metri quando invece siano previste le barre (Figura 3.2a). Lastre armate : di lunghezza variabile da 10 metri a 20 metri, dotate di una leggera armatura distribuita in senso longitudinale e trasversale. La funzione di tale armatura è quella di tenere chiuse le lesioni generate dalle variazioni termiche all’interno delle lastre di calcestruzzo, perciò è disposta nella porzione superiore dello spessore della lastra (Figura 3.2b). Pavimentazioni ad armatura continua : caratterizzate dall’assenza di giunti trasversali ad eccezione di quelli di costruzione, e dalla presenza di un’armatura longitudinale di acciaio relativamente pesante che ha il compito di tenere chiuse le lesioni che si formano nella lastra per effetti igrotermici (anche in questo caso l’armatura è disposta nella porzione superiore dello spessore della lastra, Figura 3.2c). 1 La pavimentazione composita polifunzionale è una pavimentazione che ha le seguenti caratteristiche: una fondazione composta da due strati (uno in misto granulare con spessore pari a 20 centimetri e uno in misto cementato con spessore pari a 20 centimetri), una lastra in calcestruzzo ad armatura continua di spessore paria 22 centimetri, uno strato di conglomerato bituminoso drenante con spessore pari a 4 centimetri. I vantaggi di tale struttura sono: pavimentazione drenante e fonoassorbente, elevata resistenza strutturale, caratteristiche superficiali (aderenza, regolarità) di ottimo livello. 21 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti Figura 3.2.: Categorie di pavimentazione rigida [10]. Lastre precompresse : realizzate con il sistema Freyssinet2 per primo o simili, munite di spalle di ancoraggio, in cui la precompressione viene assicurata con martinetti piatti oppure con barre o cavi post-tesi (Figura 3.2d). I giunti delle pavimentazioni in calcestruzzo possono essere classificati in due categorie: giunti trasversali e giunti longitudinali, in funzione della disposizione rispetto al senso di marcia veicolare. All’interno di queste due categorie si distinguono, a seconda della loro funzione e conformazione, in: contrazione, costruzione, dilatazione o rotazione. I giunti di contrazione possono essere trasversali e longitudinali e costituiscono una discontinuità nello strato superiore del calcestruzzo. Il loro scopo è: permettere la contrazione termica ed il ritiro del calcestruzzo, controllare la fessurazione delle lastre e consentire anche la dilatazione, fino all’originaria lunghezza della lastra. Strutturalmente, i giunti di contrazione costituiscono delle sezioni di minor resistenza: essi infatti non interessano tutto lo spessore della pavimentazione, ma vengono tagliati nel calcestruzzo per una larghezza di 2 - 4 millimetri con profondità di circa 1/3 - 1/4 dello spessore della lastra. Per questo motivo vengono anche denominati “falsi giunti”. Il taglio del calcestruzzo per la formazione del giunto può avvenire mediante fresatura del conglomerato 2 Ingegnere francese che per primo ideò i concetti che stanno alla base della moderna teoria della precompressione del calcestruzzo. Freyssinet nel 1928 brevettò il sistema di precompressione da lui inventato. 22 3.2. Le tipologie di pavimentazioni appena indurito oppure mediante coltelli vibranti/inserti di plastica quando il calcestruzzo è ancora fresco. La compartecipazione fra le lastre attraverso il giunto di contrazione può essere assicurata mediante il mutuo incastro fra gli aggregati delle superfici a contatto delle lastre che formano il giunto oppure, quando i carichi di traffico sono elevati, mediante dispositivi di trasferimento del carico quali barre lisce di acciaio (barre di compartecipazione) generalmente di grande diametro (D = 30 millimetri) lunghe 50-70 centimetri poste a cavallo del giunto. I giunti di costruzione possono essere trasversali, ortogonali alla superficie di rotolamento, e longitudinali. Quelli trasversali devono generalmente essere armati con barre di compartecipazione mentre quelli longitudinali devono essere armati con ferri di legatura. Quelli trasversali vengono realizzati al termine della giornata di lavoro, quando la lavorazione del calcestruzzo viene interrotta per almeno 2 ore per motivi logistici o meteorologici o nel caso di transizione da una pavimentazione rigida ad una flessibile. In questo caso si deve disporre un’apposita cassaforma piana o sagomata per formare un giunto a tutto spessore ed eventualmente predisporre il passaggio delle armature. I giunti di dilatazione interessano tutto lo spessore della lastra, hanno una larghezza variabile in funzione del materiale di riempimento disposto nella scanalatura inferiore; la scanalatura superiore, di apertura maggiore, ha una profondità di almeno 20 millimetri. Tali giunti devono consentire l’espansione delle lastre durante i periodi più caldi e fungere anche da giunti di contrazione. Sono generalmente previsti in corrispondenza delle opere d’arte, nelle intersezioni con altre carreggiate o in caso di variazione del piano di posa. Data la loro ampiezza e la totale assenza di azioni di mutuo incastro, i giunti di dilatazione sono sempre dotati di barre di compartecipazione alloggiate in appositi manicotti per consentirne i movimenti. I giunti di rotazione vengono realizzati in caso di pavimentazioni in adiacenza a bordi o strutture di ogni tipo, come ad esempio i cordoli dei marciapiedi. La configurazione strutturale è simile a quella dei giunti di dilatazione, ad eccezione del fatto che questi giunti non devono mai essere vincolati o armati. 3.2.2. Le pavimentazioni semi-rigide Quando il numero e il peso dei veicoli commerciali diventa rilevante, bisogna prevedere materiali legati che sviluppino sufficienti resistenze a trazione. Le pavimentazioni semi-rigide costituiscono un compromesso tra l’elevata rigidezza di una pavimentazione rigida e l’elasticità di una pavimentazione flessibile. La parte superiore della pavimentazione presenta una successione di strati in conglomerato bituminoso, mentre la parte inferiore a contatto con il sottofondo presenta uno strato legato a cemento (detto "misto cementato"). In pratica 23 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti (a) Stesa del conglomerato bituminoso [14]. (b) La compattazione del conglomerato bituminoso [15]. Figura 3.3.: La pavimentazione flessibile: stesa e compattazione. gli strati legati a bitume sono posti sopra ad una lastra in calcestruzzo o su uno strato legato a cemento interposto tra la fondazione e lo strato di base. Questa scelta costruttiva consente di diminuire la deformabilità per flessione della pavimentazione, conferendo un beneficio in termini di resistenza a fatica, di deformazioni permanenti ("ormaie") e quindi consente di incrementare la vita utile della pavimentazione. In questo tipo di pavimentazione, a volte, sullo strato in misto cementato, è presente anche lo strato di base legato a bitume quando si ritiene che lo spessore degli strati in conglomerato bituminoso (usura e binder) sia troppo piccolo per impedire il fenomeno del richiamo in superficie delle lesioni che si generano nella miscela cementizia per ritiro igrometrico. Il problema del richiamo delle lesioni viene anche risolto con la posa in opera di una rete metallica, di una geogriglia o di un geotessile3 sul misto cementato allo scopo di tenere chiuse le lesioni. Lo strato di fondazione, se gli strati sovrastanti sono stati ben dimensionati, risente soltanto di azioni verticali di compressione ed ha solo la funzione di distribuire queste azioni su un’area sufficientemente estesa in modo da trasmetterle al sottofondo con un’entità compatibile con la sua capacità portante. 3.2.3. Le pavimentazioni flessibili Le pavimentazioni di tipo flessibile (Figura 3.3) sono diffuse in tutto il mondo e sono attualmente le sovrastrutture più adoperate in ambito stradale e aeroportuale. Solitamente la pavimentazione è posta su un sottofondo (terreno). A seconda della tipologia del terreno che compone il sottofondo (granulare, argilloso, ecc.) 3 In letteratura si trovano molti studi riguardo i sistemi di rinforzo mediante geogriglie e geotessuti [13]. 24 3.2. Le tipologie di pavimentazioni si procede alla costruzione di uno strato di fondazione con inerte di pezzatura medio-grossa. Su questo primo strato, viene poi posato un secondo, detto strato di base, il quale è formato da materiale avente migliori caratteristiche di resistenza di quello sottostante. Per lo strato superficiale si adotta un conglomerato bituminoso, le cui caratteristiche si differenziano tra lo strato più profondo (strato di collegamento) e lo strato più superficiale (strato di usura). Le pavimentazioni flessibili (Figura 3.4) sono caratterizzate da un comportamento meccanico di tipo visco-elasto-plastico. La risposta meccanica della pavimentazione alle sollecitazioni indotte dal passaggio del traffico veicolare è di tipo flessionale: la parte superiore della pavimentazione lavora a compressione e la parte inferiore a trazione. La pavimentazione tende a deformarsi distribuendo gli sforzi al piano di posa sottostante. Grazie alle sua proprietà di variare la consistenza con la temperatura, la pavimentazione di tipo flessibile consente l’apertura di una pavimentazione al traffico in breve tempo rispetto ad una pavimentazione rigida. Inoltre non è necessario ricorrere al taglio dei giunti per il comportamento visco-elastoplastico del conglomerato bituminoso. Per contro questo comportamento può portare ad ammaloramenti per ormaiamento. Le variazioni termiche e i continui carichi che sollecitano gli strati a compressione/trazione inducono nelle pavimentazioni in generale un regime di deformazione che produce uno stato tensionale variabile lentamente nel tempo. La termosuscettibilità del materiale è infatti causa di fessurazioni per variazioni termiche rapide e perdita di contatto, ma anche di deformazioni permanenti che compromettono la regolarità del piano di rotolamento. Lo strato di usura (spessore variabile tra 4 e 6 centimetri) ha principalmente il compito di garantire le caratteristiche di aderenza e di sopportare le azioni tangenziali esercitate dai veicoli. Viene perciò realizzato con un conglomerato bituminoso di buona qualità, che garantisca nel tempo valori elevati e costanti di resistenza al taglio e una adeguata macro-tessitura. Lo strato di collegamento (o binder, con spessore variabile tra 6 e 8 centimetri) risente, in maniera minore rispetto all’usura, delle azioni tangenziali prodotte dal traffico, e non deve soddisfare l’esigenza dell’aderenza: il conglomerato bituminoso confezionato per lo strato di binder può offrire quindi una resistenza al taglio inferiore a quella dello strato di usura essendo confezionato con aggregati meno duri e percentuali di bitume leggermente inferiori. Questo strato ha la funzione di collegamento tra lo strato di usura e quello di base. Lo strato di base (con spessore variabile tra 10 e 20 centimetri) risente invece solo di sollecitazioni di compressione e flessione dovute al peso dei veicoli che transitano sulla strada. Le sollecitazioni di flessione si traducono, nella par25 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti Figura 3.4.: Esempio di pavimentazione flessibile [10]. te inferiore dello strato, in tensioni di trazione la cui entità varia in funzione del tipo di traffico. Per tale motivo il materiale dello strato di base può essere composto da misto granulare non legato solo nei casi di traffico pesante nullo o scarso. Quando il numero e il peso dei veicoli commerciali diventa rilevante, bisogna prevedere materiali legati che sviluppino sufficienti resistenze a trazione. Lo strato di fondazione (di spessore variabile tra 20 e 35 centimetri) può essere costituito da un misto granulare o da materiali stabilizzati con legante idraulico o bituminoso nei casi di sottofondi particolarmente scadenti. La sua funzione è quella di ripartizione e diffusione dei carichi provenienti dagli strati sovrastanti sul terreno di posa; costituisce anche un filtro tra il sottofondo e i materiali più pregiati dal resto del pacchetto stradale, ostacolando la risalita capillare dell’acqua. Le pavimentazioni flessibili sono adatte a qualsiasi tipo di strada o di aeroporto. Sussistono alcune limitazioni d’uso in campo aeroportuale, poiché il kerosene e gli oli lubrificanti leggeri sono sostanze solventi per il bitume, e in alcuni aeroporti militari, nei quali il getto caldo dei motori può provocare seri danni al conglomerato bituminoso. Per questo motivo vengono adottate pavimentazioni in calcestruzzo o si utilizzano trattamenti antikerosene per il conglomerato bituminoso in tutte le zone soggette a: perdite di carburante (le aree in cui l’aereo fa rifornimento e dove viene effettuata la pulizia dei serbatoi), uso di solventi per la pulizia dei motori e dei meccanismi idraulici, rifornimento di olio lubrificante. Dopo gli ultimi gravi incidenti con incendio in galleria, altre limitazioni d’uso sono attualmente state imposte dalle normative di alcuni Paesi che vietano, in galleria, la realizzazione della superficie stradale a base di idrocarburi, perché vulnerabile al fuoco e prescrivono la realizzazione di pavimentazioni in conglomerato cementizio. 26 3.3. Le tipologie di impermeabilizzazione delle solette da ponte 3.3. Le tipologie di impermeabilizzazione delle solette da ponte La soletta del ponte deve essere resa impermeabile per evitare l’intrusione di sostanze che possono corrodere o degradare i materiali che compongono la struttura del ponte e della soletta stessa. La pavimentazione può assolvere anche a questa funzione, però non sempre il metodo utilizzato garantisce una completa impermeabilizzazione. Una pavimentazione in conglomerato bituminoso, ad esempio, non assolve all’impermeabilizzazione come una pavimentazione in materiale sintetico. Tra le proprietà più importanti che però una pavimentazione per impalcato da ponte è chiamata a svolgere vi è l’impermeabilizzazione. Ll’impermeabilizzazione dell’impalcato del ponte, che può essere svolta da prodotti diversi (pavimentazioni, membrane, calcestruzzi, ecc., come indicato nelle pagine successive), deve possederee alcune importanti caratteristiche: impermeabilità all’acqua, garantire funzionalità e sicurezza all’intera sovrastruttura, adesione tra i materiali, conferire continuità e omogeneità all’impermeabiizzazione, imperforabilità, resistenza meccanica, resistenza alle varaizioni termiche e agli stress termici, elasticità per assorbire gli sforzi indotti dal traffico veicolare (sforzi verticali e orizzontali) e dalle variaizoni termiche, facilità di posa. L’impermeabilizzazione può essere effettuata mediate l’utilizzo di: • asfalti colati; • membrane di matrice bituminosa preformate (guaine) o impermeabilizzazioni polimeriche spruzzate in opera; • calcestruzzi armati; • calcestruzzo non armato modificato con polimeri (legante sintetico e inerte); • calcestruzzi diversi; • catrami con resine e aggregati (anni ’50); • resine epossidiche, di poliestere, di metacrilato e aggregati (anni ’60); • rivestimenti polimerici sottili. Nei paragrafi successivi vengono presentate le diverse tipologie di impermeabilizzazioni fino ad oggi utilizzate. 27 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti 3.3.1. I rivestimenti polimerici sottili I rivestimenti polimerici sottili sono costituiti da un conglomerato ottenuto miscelando un legante polimerico con degli aggregati opportunamente scelti secondo precise prescrizione (quali sono capitolati speciali d’appalto e/o normative) e secondo precisi fusi granulometrici (descritti nel Capitolo 7). I rivestimenti polierici sottili sono le soluzioni che è stato deciso di studiare in questo lavoro di tesi. Pertanto questi verranno presentati nel successivo paragrafo. 3.3.2. Gli asfalti colati Gli asfalti colati sono conglomerati ad elevato contenuto di bitume, che possiedono una buona resistenza all’acqua, alla fatica e all’ossidazione. Altre caratteristiche di queste miscele colabili sono: elevata percentuale di filler, granulometria chiusa, rapporto aggregato grosso-fino pari a 1,5 - 2 e indice dei vuoti nullo. I problemi maggiormente riscontrati in questa tipologia di pavimentazione sono la suscettibilità termica e il rischio di ormaiamento. Gli asfalti colati però costituiscono già una pavimentazione a sè stante. 3.3.3. Le membrane di matrice bituminosa preformata o impermeabilizzazioni polimeriche spruzzate in opera Le membrane di matreice bituminosa preformate o le impermeabilizzazioni polimeriche spruzzate in opera consentono di ottenere una buona omogeneità e una buona continuità della funzione protettiva in ogni singolo punto. Garantiscono inoltre una adeguata adesione al supporto ed alla sovrastrante pavimentazione, sono sufficientemente elasticiche, resistono alle aggressioni tipiche dell’ambiente. Sono inoltre imperforabili a seguito di stress di natura termo-meccanica indotti dalla stesa della pavimentazione e possono essere rese transitabili in tempi molto brevi. Queste tipologie di impermeabilizzazioni però richiedono sopra di esse una pavimentazione. Le mebrane sono prodotti industriali prefabbricati in bitume sintetico o in bitume modificato con elastomeri termoplastici SBS ("stirene-butadiene-stirene") con un grado di concentrazione in miscela che differisce a seconda della destinazione d’uso. Le membrane possono essere rinforzate con armature in tessuto non tessuto di fibra poliestere. Le caratteristiche e le prestazioni delle membrane bituminose armate per l’impermeabilizzazione di impalcati stradali, di ponti e viadotti e tutte le altre superfici di calcestruzzo soggette a traffico sono specificate nella normativa UNI EN 14695 del 2010. 28 3.3. Le tipologie di impermeabilizzazione delle solette da ponte 3.3.4. I calcestruzzi armati L’impermeabilizzazione in calcestruzzo armato solitamente viene prodotta costruendo una lastra con uno spessore di 10 centimetri. La lastra viene confezionata con un rapporto tra acqua e cemento molto basso al fine di rendere più denso e quindi meno permeabile il materiale cementizio. Questa tipologia di calcestruzzi conferisce: protezione all’impalcato, runforzo strutturale e impermeabilizzazione. I problemi principali di questa tecnologia sono i lunghi tempi di apertura all’esercizio e il peso che grava sulla struttura del ponte. I calcestruzzi armati vanno a costituire però la pavimentazione finale dell’impalcato del ponte. 3.3.5. Il calcestruzzo non armato modificato con polimeri La soluzione in calcestruzzo non armato modificato con polimeri può raggiungere uno spessore di 3 o 4 centimetri. In sostituzione di parte dell’acqua di impasto, viene aggiunto un lattice, oppure si impregnano i pori del calcestruzzo indurito con un monomero che poi polimerizza (e riempie saldamente i pori). Questa tipologia di pavimentazione conferisce una buona resistenza a trazione, a flessione e ai cicli di gele e dis-gelo. L’utilizzo di questo materiale comporta un netto miglioramento della resistenza alle più comuni sostanze aggressive e una riduzione della permeabilità. La posa del calcestruzzo modificato con polimeri costituisce già una pavimentazione stradale finita, ma si devono aspettare tempi più lunghi per l’apertura al traffico rispetto ad altre tecnologie, e il peso del materiale è un problema non da poco. 3.3.6. I calcestruzzi diversi Con l’etichetta "calcestruzzi diversi" si intendono quei calcestruzzi che sono additivati con fumo di silice, microsilice reattiva e che possiedono un basso valore di slump. Costituiscon anch’essi una pavimentazione finita e carrabile e conferiscono una impermeabilizzazione per l’impalcato. La soluzione, come i calcestruzzi non armati modificati con polimeri, apporta un certo peso che grava sull’intera struttura, maggiore rispetto ad una soluzione in conglomerato bituminoso, ma minore rispetto ad un calcestruzzo armato. 3.3.7. I catrami con resine e aggregati Nel decenno 1950 - 1960 l’impermeabilizzazione della soletta del ponte veniva creata per mezzo di catrami4 additivati con resine e aggregati che però avevano 4 Il catrame è il prodotto della distillazione distruttiva dei combustibili fossili dotati di capacità legante; possiede caratteristiche reologiche inferiori a quelle del bitume. 29 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti scarsi risultati poitivi: erano infatti permeabili, poco resistenti alle azioni chimiche e esprimevano una resistenza meccanica iinsufficiente (soprattutto sotto l’azioen di un traffico pesante). 3.3.8. Le resine epossidiche, di poliestere, di metacrilato e aggregati Successivamente, nel decennio 1960 - 1970, sono state implementate nuove tecnologie basate sull’utilizzo di resine epossidiche, di poliestere e di metilmetacrilato mescolate con aggregatri per creare una nuova tipologia di pavimentazione. I costruttori di ponti, vista la discreta resistenza e i problemi di incompatibilità termica con il calcestruzzo dell’impalcato, hanno però optato per diverse tipologie di pavimentazioni. E’ stato notato che nel tempo (decenni 1970 - 1980) il modulo di rigidezza diminuiva ma la reistenza aumentava. 3.4. I rivestimenti polimerici sottili Questa tipologia di impermeabilizazione costituisce già da sè una pavimentazione finita. In questa tipologia di rivestimenti, il legante si ottiene per polimerizzazione di monomeri o con la reazione di particolari resine con induritori (catalizzatori). Il polimero ha la funzione di vincolare gli aggregati creando una struttura e di trasmettere tutte le sue caratteristiche al conglomerato che ne risulta. Il conglomerato viene applicato in spessori millimetrici direttamente sulla superficie dell’impalcato permettendone la totale impermeabilizzazione e la transitabilità. Queste tipologie di impermeabilizzazioni consentono di colmare alcune lacune tipiche dei materiali tradizionali, quali: la scarsa adesione ai supporti caratterizzati da un alto grado di umidità (condizione facilmente riscontrabile in cantiere), la discontinuità dell’azione protettiva e la scarsa resistenza a carichi elevati (problematica esistente in zone maggiormente interessate dal traffico stradale pesante). Inoltre, i prodotti polimerici quando stesi in opera richiedono un minor tempo di posa rispetto agli analoghi prodotti a matrice bituminosa (ad esempio, le membrane bituminose preformate necessitano di calore per la posa) e induriscono a temperatura ambiente per mezzo di semplici agenti catalizzatori. 3.4.1. Premiscelato Il metodo prevede la posa in opera del conglomerato polimerico: una miscela di legante polimerico e aggregati in opportune quantità e secondo certi criteri 30 3.4. I rivestimenti polimerici sottili (a) Altezza del rivestimento. (b) Superficie del rivestimento. Figura 3.5.: Esempio di rivestimento con metodo di stesa premiscelato. (che sono descritti nei Capitoli 6 e 7). L’unione di legante e aggregati può essere fatta a mano o con appositi macchinari: generalmente la prima soluzione è preferibile per applicazioni su piccole superfici, mentre la seconda per quelle più estese. La miscela deve essere idonea a garantire le caratteristiche richieste per una pavimentazione stradale. La superficie dell’impalcato deve essere preventivamente pulita mediante spazzole o pallinatura e successivamente deve essere steso sull’intera superficie da rivestire un primer per aumentare l’adesione della malta polimerica [16]. Nella Figura 3.5 sono rappresentate la superficie di un rivestimento ottenuto con la tecnica premisclato: si possono notare l’altezza del rivestimento e le dimensioni degli inerti sulla superficie della pavimentazione. La posa viene fatta avendo cura di assegnare uno spessore costante compreso tra 15 millimetri e 20 millimetri su tutta la superficie. Questa tecnica è più veloce da realizzare e risulta quindi idonea qualora il fattore tempo sia determinante (necessità di riaprire al traffico in tempi brevi). Rispetto alle altre tecniche sono necessari operai specializzati e macchinari idonei con conseguenti aumenti del costo di realizzazione. Gli inerti vengono scelti in base ad un preciso fuso che può essere reperito su manuali di buona pratica (aziende, enti pubblici, ecc.) o su capitolati speciali d’appalto. 3.4.2. Multistrato Questa tecnica di posa, consiste nella stesura di una serie di strati (da tre a cinque) di legante polimerico intervallati da aggregato. Dopo aver opportunamente trattato il supporto sul quale viene applicato il rivestimento (pulitura mediante spazzole o pallinatura e stersura del primer per aumentare l’adesione del rivestimento), si procede alla produzione del legante polimerico il quale viene steso, in spessori costanti, attraverso l’utilizzo di rulli, oppure con un 31 Capitolo 3. Le pavimentazioni per ponti e viadotti Figura 3.6.: Esempio di rivestimento con metodo di stesa multistrato. getto omogeneo a coprire l’intera superficie. Si stende il legante facendo in modo che ogni strato sovrapposto contenga lo stesso quantitativo di materiale, in modo che il rivestimento finale risulti uniforme, sia geometricamente che meccanicamente, su tutta la superficie. Sul legante, prima che esso indurisca, viene versato mediante un apposito macchinario, l’aggregato: questo viene fatto cadere verticalmente dalla minima altezza possibile, per cercare di ridurre l’eventuale inclusione di aria, ed in quantitativo superiore rispetto a quello strettamente necessario. In seguito all’asciugatura del legante, l’aggregato in eccesso (quello che non risulta inglobato nel legante), viene rimosso per via meccanica, manuale o tramite aspiratori. Questo procedimento viene quindi ripetuto, con le modalità sopra esposte, fino ad ottenere il rivestimento definitivo. Per avere un risultato finale omogeneo del rivestimento ogni strato viene posato definendo determinate quantità di resina e di aggregato per la superficie coperta. Gli spessori complessivi che si ottengono con questo metodo variano dai 5 millimetri ai 10 millimetri [16]. Nella Figura 3.6 è mostrata la foto della superficie di un rivestimento steso con il metodo multistrato: si possono notare che gli aggregati sono più in rilievo rispetto al metodo "premiscelato". Questa tecnica di posa non richiede l’utilizzo di operai specializzati ed è quindi tecnicamente vantaggiosa; le tempistiche per realizzare queste pavimentazioni sono però molto lunghe rispetto alle altre tecniche. Questo può portare ad incompatibilità di carattere organizzativo, come la necessità di riaprire la viabilità al traffico nel minor tempo possibile. 3.4.3. Slurry Il metodo slurry consiste nell’applicazione, sul supporto adeguatamente preparato (pulitura mediante spazzole o pallinatura e stersura del primer per aumentare l’adesione del rivestimento), di uno strato di legante, sul quale viene poi steso uno strato di malta sintetica (ottenuta dalla miscelazione di resina e 32 3.4. I rivestimenti polimerici sottili (a) Altezza del rivestimento. (b) Superficie del rivestimento. Figura 3.7.: Esempio di rivestimento con metodo di stesa slurry. aggregato fine). Successivamente sul rivestimento così composto, viene steso, prima dell’altro aggregato (per conferire una migliore micro/macro tessitura alla pavimentazione) e poi un ulteriore strato di resina isolante. Rispetto alla tecnica multistrato, la tecnica slurry è più veloce; il contenuto di resina impiegato risulta praticamente identico: circa 25% del peso complessivo del rivestimento. Lo spessore dei rivestimenti ottenuti con questa metodologia è compreso tra 5 millimetri e 10 millimetri e le resine normalmente utilizzate sono quelle metacriliche (preferite in questo caso a quelle epossidiche) [16]. Nella Figura 3.7 sono riportate le immagini che mostrano l’altezza e la tipologia di superficie che viene prodotta utilizzando il metodo di stesa slurry. 33 Capitolo 4. I materiali Questo capitolo riguarda la descrizione dei materiali che saranno utilizzati in questo studio. Verranno descritte in modo teorico le caratteristiche principali di: aggregati, leganti e conglomerati prodotti dall’unione dei primi due. 4.1. Gli aggregati Gli inerti, o aggregati, sono sostanze minerali e/o artificali, frantumate e/o non frantumate con particelle di dimensioni e forme adatte allo scopo per cui sono impiegate (calcestruzzo, conglomerato bituminoso, ecc.). Nel caso del calcestruzzo il termine "aggregati" è da preferirsi al termine "inerti" perchè questi materiali, anche se non partecipano ai processi chimico-fisici che portano alla presa ed all’indurimento del calcestruzzo, in casi particolari possono reagire con la matrice cementizia (reazione alcali-aggregato). Gli aggregati hanno il principale scopo di costituire lo scheletro che contrasta le sollecitazioni esterne. I leganti (cemento, bitume e/o polimeri) costituiscono invece la "colla" che tiene unita la struttura litica. Gli aggregati hanno inoltre un costo inferiore a quello del legante e quindi si tende a introdurre maggiori quantità di aggregati piuttosto che di legante. La durabilità dei conglomerati aumenta con la quantità di inerti introdotta nella miscela, perchè essi hanno sicuramente una durabilità maggiore di quella del cemento o del bitume. Infine le proprietà (modulo elastico, resistenza meccanica, ecc.) del materiale in opera (calcestruzzo, conglomerato bituminoso, ecc.) dipendono in gran parte dal tipo e dalle caratteristiche dell’aggregato. Nel calcestruzzo gli aggregati occupano una percentuale in volume compresa tra il 65% e l’80%, mentre nel conglomerato bituminoso si arriva ad una percentuale in volume molto più elevata (80% - 90%). Gli aggregati naturali, estratti dalle cave, possono derivare da rocce eruttive (graniti), sedimentarie (calcari, tufi, ecc.) e metamorfiche (scisti, quarziti, ecc.). Gli aggregati artificiali sono costituiti da diverse tipologie: scarti industriali (scorie di acciaieria, ceneri volanti, ecc.), riciclo di materiale (vetro, materiale 35 Capitolo 4. I materiali da costruzione e demolizione, ceneri da incenerimento di rifiuti solidi urbani, ecc.), prodotti di orgine industriale (scisti o argille espanse), ecc. Le proprietà principali degli aggregati sono: dimensioni, caratteristiche della superficie, porosità e caratteristiche meccaniche. Nel capitolo 7 sono descritti gli aggregati utilizzati in questo studio, mentre nel Capitolo 8 sono indicati e riportati i protocolli delle prove utilizzate per caratterizzare gli aggregati. Con il progredire della tecnica e della ricerca e il progressivo aumento della produzione di rifiuti degli ultimi anni, cui è corrisposta una notevole perdita di risorse naturali non rinnovabili, sono state ricercate nuove soluzioni tra i quali il recupero ed il successivo riutilizzo di materiali “marginali” in sostituzione di quelli tradizionali di cava. Diversi studi recenti hanno dimostrato che i materiali succedanei non convenzionali possano costituire soluzione ingegneristicamente affidabile in una logica di sviluppo sostenibile. Questi materiali provengono da altre attività umane, nelle quali hanno esaurito la loro vita utile: le scorie provenienti dalla produzione siderurgica (loppe d’altoforno e scorie d’acciaieria), il granulato di gomma, le sabbie di fonderia, l’aggregato proveniente dalle costruzioni e/o dalle demolizioni e le ceneri volati. Il loro utilizzo ha l’obiettivo di ridurre l’apporto in discarica, da una parte, e di ridurre l’uso dei materiali vergini, dall’altra. Dal punto di vista della sostenibilità ambientale, tali aggregati riescono a garantire prestazioni soddisfacenti, fornire un contributo assai significativo in termini di resistenza, durata, antisdrucciolevolezza, nonché sotto il profilo dell’impatto ambientale, riducendo sensibilmente vibrazioni e rumori. In alcuni casi possono presentare delle prestazioni uguali, se non superiori agli aggregati tradizionali. Con l’uso di questi "rifiuti" si devono però garantire l’idoneità tecnica, la convenienza economica rispetto al materiale naturale e la compatibilità tossicologica. Infatti, per poter utilizzare dei materiali di riciclo nel settore stradale si deve agire nel rispetto di leggi, al fine di poter operare in perfetta sicurezza e nel rispetto dell’ambiente. La legislazione attualmente vigente in Italia per ciò che concerne il recupero dei rifiuti comprende: • Decreto Legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (“Decreto Ronchi”) [17]; • Decreto Ministeriale 5 febbraio 1998 [18]”. Il primo decreto legislativo rappresenta un punto di riferimento per tutto ciò che riguarda la gestione1 dei rifiuti. Le finalità del decreto sono rappresentate dall’assicurare un’elevata protezione dell’ambiente eseguendo controlli efficaci, tenendo conto della specificità dei rifiuti pericolosi. I rifiuti devono essere recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che potrebbero recare pregiudizio all’ambiente. 1 Per gestione dei rifiuti si intende la loro classificazione, la valutazione della loro pericolosità e la loro possibilità di impiego. 36 4.1. Gli aggregati La gestione dei rifiuti si conforma ai principi di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui si originano i rifiuti nel rispetto dei principi dell’ordinamento nazionale e comunitario. In particolare il recupero dei rifiuti rappresenta un aspetto molto importante per questo decreto, il quale specifica che, ai fini di una corretta gestione dei rifiuti, le autorità competenti devono favorire la riduzione dello smaltimento finale dei rifiuti attraverso: • il reimpiego ed il riciclaggio; • altre forme di recupero per ottenere materia prima dai rifiuti; • adozione di misure economiche e la determinazione di condizioni di appalto che prevedano l’impiego dei materiali recuperati dai rifiuti al fine di favorire il mercato dei materiali medesimi. Ampio spazio viene dato altresì all’aspetto riguardante il loro smaltimento, disponendo che deve essere effettuato in condizioni di sicurezza e che costituisce la fase residuale della gestione dei rifiuti. I rifiuti sono classificati secondo l’origine in: urbani e speciali. Sono inoltre classificati secondo le proprie caratteristiche di pericolosità, in: pericolosi e non pericolosi. Per catalogare i rifiuti in base alla loro natura ed origine, il decreto introduce un codice di identificazione del rifiuto (codice C.E.R. - Catalogo Europeo dei Rifiuti), formato da sei cifre, delle quali le prime due definiscono l’attività di origine del rifiuto, le due successive entrano nel dettaglio dell’attività stessa e le ultime due identificano il rifiuto vero e proprio. Analizzando tale classificazione dei rifiuti, riportata in allegato al decreto stesso, si è stabilito che i materiali esaminati in questo lavoro di tesi non costituiscono dei rifiuti speciali pericolosi. Nel secondo decreto legislativo, aggiornato in alcune delle sue parti dai decreti 8 maggio 2003 n. 203 [19] e 5 aprile 2006 n.186 [20], sono definiti diversi tipi di attività che possono essere intraprese per rivalutare tali rifiuti, in base alla loro origine, composizione e qualità: • recupero di materia: le attività, i procedimenti e i metodi di riciclaggio e di recupero di materia devono garantire l’ottenimento di prodotti o di materie con caratteristiche merceologiche conformi alla normativa tecnica di settore; i prodotti e le materie ottenuti dal riciclaggio e dal recupero dei rifiuti non devono presentare caratteristiche di pericolo superiori a quelle dei prodotti e delle materie ottenuti dalla lavorazione di materie prime vergini; • recupero energetico: le attività di recupero energetico devono garantire la produzione di una quota minima di trasformazione del potere calorifico del rifiuto in energia termica su base annua oppure la produzione di 37 Capitolo 4. I materiali una quota minima percentuale di trasformazione del potere calorifico dei rifiuti in energia elettrica, determinata sempre su base annua; • recupero ambientale: le attività di recupero ambientale consistono nella restituzione di aree degradate ad usi produttivi o sociali attraverso rimodellamenti morfologici; • messa in riserva: stoccaggio dei rifiuti in maniera separata dalle materie prime eventualmente presenti nell’impianto e in modo che non vegano a contatto rifiuti tra loro incompatibili; • quantità: le quantità massime di rifiuti sono determinate dalla potenzialità annua dell’impianto in cui si effettua l’attività al netto della materia prima eventualmente impiegata; • campionamento e analisi: il campionamento dei rifiuti ai fini della loro caratterizzazione chimico fisica deve essere fatto in modo tale da ottenere un campione rappresentativo;le analisi, devono essere effettuate almeno ad ogni inizio di attività e successivamente ogni due anni e comunque ogni volta che intervengano delle modifiche sostanziali nel processo di recupero dei rifiuti; • test di cessione: devono essere eseguiti su un campione ottenuto nella stessa forma fisica prevista nelle condizioni finali d’uso. Il decreto descrive dettagliatamente le modalità di esecuzione delle prove di cessione e l’interpretazione dei risultati, mediante determinazione dei componenti eluiti e il confronto con le concentrazioni limite stabilite dalla legge. Il riutilizzo del rifiuto analizzato sarà quindi consentito solo previo soddisfacimento di queste prove. Il Decreto Ministeriale 8 maggio 2003 n. 203 individua le regole e le definizioni destinate agli enti pubblici e alle società a capitale prevalente pubblico affinché essi realizzino manufatti utilizzando almeno un 30% di materiali riciclati previsti dal Decreto Ronchi [19]. Il Decreto Ministeriale 5 aprile 2006 n. 186 (dal titolo “Regolamento recante modifiche al decreto ministeriale 5 febbraio 1998: Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero, ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22") [20] introduce: le quantità massime di rifiuti, per tipologia, che possono essere oggetto di recupero, le tipologie di rifiuto, le modalità di recuper e, le materie prime secondarie ottenute. Questa legge apporta rilevanti modifiche anche alle modalità ed ai tempi per l’esecuzione del campionamento, dell’analisi dei rifiuti e del test di cessione. Relativamente alle analisi di caratterizzazione chimicofisica, finalizzate a individuare con certezza la tipologia e le caratteristiche del 38 4.1. Gli aggregati rifiuto, si segnala che, secondo le nuove disposizioni di legge sopra richiamate, il campionamento deve essere fatto sul rifiuto “tal quale” ed in modo da ottenere un campione rappresentativo, in linea con i parametri indicati dalla normativa UNI 10802 [21]. L’obbligo dell’esecuzione delle analisi non incombe più sul recuperatore dei rifiuti bensì sul produttore degli stessi. La caratterizzazione è richiesta per singola tipologia di rifiuto, come definita negli allegati 1 e 2 del D.M. 5 febbraio 1998 e successive modifiche (quindi non per ogni codice C.E.R. compreso in una determinata tipologia). Solo nel caso in cui il rifiuto sia soggetto a particolare contaminazione con agenti inquinanti, dovrà essere effettuata l’analisi per singolo codice C.E.R. all’interno della medesima tipologia. Il test di cessione consiste sostanzialmente in una simulazione di dilavamento operata dagli agenti atmosferici sul rifiuto ed è mirato a verificare che l’eluato così prodotto non contenga contaminanti in concentrazioni superiori a quelle consentite. L’eluizione dei componenti viene effettuata tramite immersione del campione in acqua deionizzata per un totale di durata della prova di 24 ore. Il campione da sottoporre ad analisi deve essere nella stessa forma fisica in cui se ne prevede l’impiego e deve essere rappresentativo della totalità del materiale da esaminare. Il test va condotto ad una temperatura di 20 ± 5℃. Il campione deve essere immerso completamente e la parte superiore del campione deve essere almeno 2 centimetri al di sotto della superficie dell’acqua. Si deve analizzare i campioni acidificati prima possibile, ma tutti in un’unica sequenza analitica secondo una procedura standardizzata ricercando i parametri significatavi e rappresentativi del campione in esame. Il confronto con i valori limite andrà effettuato con un valore risultante dalla concentrazione riscontrata nelle soluzioni ottenute. All’interno dello stesso Decreto Ministeriale vengono descritte, oltre alle modalità di prova, anche le concentrazioni limite per i parametri. É noto dalla letteratura del settore che i materiali provenienti da riciclaggio sono difficilmente caratterizzabili con le procedure convenzionali di analisi normalizzate per i materiali stradali tradizionali essendo questo tipo di approccio non esaustivo ai fini della previsione del comportamento del materiale una volta messo in opera. Le prove per la caratterizzaione devono seguire un protocollo comune e oggettivo e le prove stesse devono essere si tipo prestazionale e non prescrittivo. L’A.I.P.C.R. (Association Internationale Permanente des Congres de la Route)2 definisce i materiali marginali o alternativi o non tradizionali, come: “qual2 creata nel 1909, l’A.I.P.C.R. ha assunto recentemente il nome di "Associazione Mondiale della Strada e annovera tra i suoi membri 120 Governi Nazionali. L’associazione si occupa di ingegneria stradale, di politica stradale e di gestione delle reti stradali ed ha lo scopo di favorire il progresso in campo stradale in tutti i suoi aspetti, con l’obbiettivo di promuovere lo sviluppo delle reti stradali, e di studiare i problemi della sicurezza stradale 39 Capitolo 4. I materiali siasi materiale non completamente conforme alle prescrizioni in vigore in un paese o in una regione per i materiali stradali normali: ma che può essere usato con successo in relazione a particolari condizioni climatiche o grazie ai progressi tecnici, ovvero dopo aver subito idoneo trattamento”. L’A.I.P.C.R. stessa sottolinea che il concetto di marginalità è legato ad una certa epoca o luogo o modalità di impiego. Infatti, 40 o 50 anni fa, quando si usava il "macadam"3 con fondazione in pietrame, un misto granulare poteva essere considerato un materiale non tradizionale, così i materiali attualmente in corso di sperimentazione potranno passare da marginali/alternativi che sono a materiali tradizionali e di uso codificato (quando siano state comprese appieno le loro possibilità di impiego e le specifiche necessità di messa in opera). Analoghe considerazioni possono essere applicate al campo delle strutture, dell’edilizia, della prefabbricazione, ecc. [24]. 4.1.1. Il calcare Il calcare [25] è una tra le rocce più diffuse ed è essenzialmente costituita da carbonato di calcio (CaCO3 ). Il carbonato di calcio non è quasi mai l’unico costituente la roccia calcarea, ad eccezione della creta e del calcare saccaroide, che sono calcari quasi puri. Nella roccia calcarea ci sono generalmente: argilla, silice, ossidi di ferro, carbonato di magnesio, sostanze carboniose, bituminose, ecc. Questi componenti sono presenti in quantità molto variabili e ne modificano la struttura e la colorazione. Il calcare si forma nel mare (in minor parte per rapida deposizione di acque di laghi, fiumi, sorgenti, ecc.) dove le acque son ricche di calcare. Nella quasi totalità il calcare è di origine organogena, cioè derivante dalla decomposizione di animali e di piante. Vi sono tuttavia calcari di origine chimica (come, ad esempio, l’alabastro e il travertino). Il più comune tipo di calcare è quello compatto (la cui struttura appare compatta sebbene composta da una grana cristallina) e, quando è puro, presenta frattura scagliosa o concoidale e non contiene più del 1% - 3% di sostanze estranee. Uno dei calcari compatti è la pietra di Solenhofen e Pappenheim in Baviera, che si presenta in strati assai regolari, di color giallognolo, quasi puro, a grana uniforme. I calcari compatti spesso sono variamente colorati da sostanze estranee, e siccome sono suscettibili di poter essere ben pulite e levigate vengono impropriamente detti marmi. Uno speciale contenuto in sostanze estranee serve a distinguerli: e rappresentare il punto focale di interscambio delle tecnologie stradali nel mondo [22]. macadam è una pavimentazione stradale costituita da una massicciata di pietrisco, ideata dall’ingegnere scozzese John Loudon McAdam nel 1820; oggi è usata soltanto per strade di scarsa importanza [23]. 3 Il 40 4.1. Gli aggregati • "calcari asfaltiferio bituminosi": sono calcari impregnati di bitume; si trovano in Sicilia (Ragusa) e in Abruzzo; • "calcari arenacei": calcari che contengono sensibile quantità di sabbia; • "calcari siliciferi": calcari che contengono silice organogena; • "calcari glauconitici": calcari che contengono glauconite; • "calcari argillosi": calcari contenenti sostanze argillose; • "calcari marnosi": calcari in cui le argille sono nella proporzione del 12% - 15%; • "marna": calcare ed argilla sono circa nella stessa proporzione. I calcari cristallini, che hanno una grana molto più grossa dei calcari compatti, sono detti "calcari saccaroidi" per il fatto che la grana somiglia allo zucchero; essi di solito sono bianchi, bianco-lattei, bianco-grigi, a vene, a chiazze e a zone di tono diverso. Questi calcari sono detti "marmi". Un’esempio di tipologia di calcare saccaroide è il "marmo statuario" (presente in Italia nelle Alpi Apuane): esso è di color bianco-latteo, bianco-perla, translucido e purissimo. I calcari saccaroidi sono presenti principalmente negli strati geologici più antichi e sono intercalati da gneiss e da scisti cristallini o in vicinanza di masse di rocce eruttive. I calcari oolitici sono formati di granuli sferoidali od ovoidali, piccolissimi (ooliti), sparsi più o meno fittamente in una massa calcarea cementante di natura calcitica. La struttura è di tipo fibroso-raggiata oppure microgranulare. É probabile che questo tipo di calcari sia derivato da depositi organogeni, dovuti ad alghe codiacee. Esempio di questo tipo di calcare ne è la pietra di Caen (Francia): essa è bianca o leggermente giallognola e tenera. I differenti tipi di fossili (alghe, conchiglie, coralli, ecc.), di cui certi calcari sono più o meno interamente costituiti, servono a dare il nome ad una infinita varietà di calcari, i quali quando sono compatti e suscettibili di poter essere ben pulite e levigate, vengono adoperati come pietre ornamentali. Calcari grossolani, calcari teneri e calcari terrosi sono rocce porose, leggere, tenere, per lo più di color bianco-giallognolo, costituite di granuli calcarei provenienti in gran parte dal disfacimento di conchiglie e di coralli, ma non sono sabbiosi. I calcari tufacei (detti anche tufi4 calcarei) sono dei calcari grossolani, teneri, per lo più di color bianco-gialliccio, formati dall’accumulo di minutissimi detriti organici e granelli di sabbia, rilegati da un cemento calcareo e in parte argilloso 4 La parola tufo è ambigua, perché in senso petrografico serve a designare una roccia piroclastica. 41 Capitolo 4. I materiali (sono presenti in Italia meridionale e in Sicilia). Questi calcari si formarono intorno alle spiagge, dove il mare sminuzza le conchiglie e deposita la sabbia. Le varietà più resistenti sono largamente adoperate per costruzione. I calcari di orgine chimica sono quelli formatisi per deposito di acque calcarifere degli alabastri calcarei od orientali o come i travertini. Queste rocce si sono orginate da fenomeni d’incrostazione operati da acque calcarifere, sia sulle rive delle cascate che sul fondo di bacini alimentati da tali acque. I travertini formano talora grandi masse non veramente stratificate, porose, cavernose e ricche d’impronte vegetali. In questo studio è stato usato calcare proveniente da cave presenti su antichi alvei dei fiumi della pianura Veneta (Capitolo 7). 4.1.2. La scoria di acciaieria A seconda del processo produttivo le scorie possono essere di due tipi: "basic oxygen furnace steel slags" (BOF steel slags) o "electric arc furrnace steel slags" (EAF steel slags). Le scorie di tipo BOF sono lo scarto della produzione dell’acciaio e della ghisa tramite processo con forno con lancia ad ossigeno. Sono costituite, oltre che dall’acciaio contenuto nel minerale fuso nella fornace, anche dalle ceneri contenute nel calcare e nel carbone coke. Le scorie BOF hanno una composizione chimica simile a quelle delle rocce naturali e ne vengono prodotte circa 290 chilogrammi per ogni tonnellata di acciaio. La caratteristica più evidente delle scorie BOF è l’elevata porosità derivante dal processo di produzione. Le scorie di tipo EAF invece derivano dal processo di produzione dell’acciaio tramite forno ad arco elettrico: l’acciaio presente in queste fonderie contiene scarti ferrosi, rottami e altri materiali che danno alle scorie una composizione chimica varia. Le scorie prodotte con questo metodo sono circa 110 - 120 chilogrammi per tonnellata prodotta. I principali elementi chimici che costituiscono le scorie sono l’ossido di calcio (CaO) e il biossido di silicio (SiO2 ). Questi composti presenti anche negli aggregati naturali e la composizione chimica delle scorie è quindi simile a quella delle rocce sedimentarie e al cemento Portland. L’ossido di calcio è solubile in acqua ed è possibile rimuoverlo a 1200℃ (e a temperature superiori) e non contiene sostanze organiche. La produzione di acciaio utilizza come materia prima il rottame di ferro che viene caricato nel forno, assieme a ghisa, additivi formatori e carbone. La fusione della carica viene provocata dall’energia elettrica fornita agli elettrodi o dall’energia chimica prodotta dall’insufflazione intensa di ossigeno e dalla presenza di carbone e metano. È in questa fase che si forma la scoria di acciaieria. 42 4.1. Gli aggregati (a) Scoria d’acciaieria appena prodotta. (b) Scoria d’acciariera in stagionatura. Figura 4.1.: Scoria di acciaieria prodotta con forno ad arco elettrico (EAF steel slags). Tabella 4.1.: Composti chimici e loro percentuali presenti nelle scorie d’acciaieria. Composto chimico F eO CaO SiO2 F e2 O3 Al2 O3 M gO Altri ossidi Percentuale [%] 30 - 40 20 - 35 5 - 12 6-9 5-7 4 - 12 0-3 La scoria del forno viene colata nell’apposita fossa dove viene prelevata e depositata nell’area di raffreddamento (Figura 4.1a). La solidificazione in blocchi avviene all’aria aperta e viene accelerata spruzzando acqua. La scoria raffreddata viene prelevata con mezzi meccanici e trasportata nell’impianto di trasformazione dove viene sottoposta ad una completa stabilizzazione o stagionatura, di circa sei mesi, che si realizza naturalmente con la carbonatazione e l’idratazione delle frazioni di ossido di calcio e magnesio non legati (Figura 4.1b). Terminato il periodo di stagionatura, si effettuano delle analisi chimiche del prodotto verificando le percentuali di alluminio, ferro, calcio, magnesio e silicio (Tabella 4.1). Il materiale viene caricato all’interno di una tramoggia dotata di griglia (dimesioni di circa 30 centimetri) che consente la separazione delle parti più grosse. Attraverso un nastro trasportatore si accompagna il materiale ad un separatore magnetico in cui avviene la prima separazione. La parte non trattenuta viene sottoposta ad una prima vagliatura con maglie da 50 millimetri a 5 millimetri. Il passante al vaglio di dimensioni pari a 5 millimetri viene espulso e clas43 Capitolo 4. I materiali Tabella 4.2.: Confronto tra i valori di frammentazione (indice Los Angeles L.A.) e di levigatura accelerata (C.L.A.) di aggregati duri. Materiale C.L.A. [%] Basalto Andesite Diabase Porfido Scorie EAF 0,42 - 0,45 0,46 - 0,50 0,45 - 0,49 0,44 - 0,48 > 0,60 L.A. [%] 14 18 15 16 13 - 17 20 18 20 14 sificato come granella (pezzatura compresa tra 0 millimetri e 4 millimetri). Il trattenuto tra i 5 millimetri e i 50 millimetri viene convogliato al frantoio a cono a campana corta, mentre il materiale più grossolano viene trasportato al frantoio a mascelle. Si effettua nuovamente la separazione magnetica ed la vagliatura; il materiale con dimensioni maggiori inizia nuovamente il ciclo, mentre la granella con pezzature intermedie viene convogliata ad un frantoio a campana, mentre quella di pezzatura più fine è indirizzata verso il vaglio finitore. Le pezzature che si ottengono sono diverse a seconda dell’uso per cui sono state progetatte. In questo studio sono state usate pezzature da 4/8 millimetri e da 0/4 millimetri. Le pezzature indicate costituiscono un materiale adatto al confezionamento di manti in conglomerato bituminoso speciale ad elevate prestazioni. Infatti ha caratteristiche fisiche e meccaniche migliori rispetto agli inerti di origine effusiva, quali basalto e porfido, normalmente impiegati per il confezionamento di conglomerati bituminosi speciali ad alte prestazioni (Tabella 4.2). Dal 1 giugno 2004 questi aggregati devono essere certificati e dotati di marchio CE, in conformità alla direttiva 89/106/EEC e secondo la norma UNI EN 13043. Attualmente in Europa vengono prodotte ogni anno circa 12 milioni di tonnellate di scorie d’acciaieria e il 65% è utilizzato come aggregati per la costruzione delle strade. Dalla letteratura di settore è evidente che il loro utilizzo principale debba essere indirizzato verso tutte quelle applicazioni nelle quali è necessario migliorare la micro e macro rugosità della pavimentazione. Pertanto i tipi di conglomerati per i quali sarebbe opportuno prevedere l’uso della scoria, dei quali sono state eseguite lavorazioni su scala industriale e dei quali è stata verificata sperimentalmente l’efficienza tramite campi prova su strade soggette alle più diverse tipologie di traffico, sono: • conglomerati bituminosi drenanti: molto efficaci dal punto di vista della sicurezza della circolazione soprattutto in condizioni di pioggia e che presentano in condizioni normali con scoria un coefficiente di aderenza meggiore a quello di un’analoga pavimentazione chiusa; 44 4.1. Gli aggregati • conglomerati bituminosi antisdrucciolo: il miglioramento della macro rugosità con l’uso della scoria può mantenere nel tempo l’efficacia delle prestazioni, anche in condizioni di sollecitazioni di taglio molto forti; • conglomerati bituminosi chiusi macrorugosi tipo "splittmastix": l’uso della scoria fornisce incrementi di prestazioni sufficienti; • microtappeti a freddo tipo slurry seal: analogamente a quanto descritto per i conglomerati antisdrucciolo l’uso della scoria produce valori di aderenza di grande efficacia in tutte le condizioni. Esperienze negli Stati Uniti, Belgio, Giappone, Olanda e Germania hanno mostrato che la scoria d’acciaieria, se opportunamente selezionata, stagionata e testata, può essere impiegata come un materiale granulare per strati bituminosi di pavimentazioni stradali. Gli aggregati prodotti dalle scorie mostrano diversi fattori positivi nel loro utilizzo in ambito stradale, tra cui un’alta stabilità e una buona riduzione del rumore. Prima di poter utilizzare la scoria, è necessario attuare dei controlli di qualità sui materiali, al fine di verificare che non vi sia la presenza di elementi con percentuali elevate di calce non reattiva; in Olanda e Belgio la normativa ha definito un limite massimo al contenuto di calce libera pari al 4,5% e la scoria può essere utilizzata solo dopo un periodo di stagionatura all’aria pari ad un anno, al fine di limitare l’instabilità del volume. Recenti studi hanno suggerito che le scorie devono essere lavate prima della messa in opera, in modo che contengano meno del 3% sulla massa di materiali non ferrosi, meno dell’0,1% di legno e che non contengano agglomerati di calce. L’associazione AASHTO "American Association of State Highway and Transportation Officials"5 , insieme a diversi centri di ricerca, ha sviluppato una serie di normative e parametri che le scorie di acciaieria devono superare prima di essere utilizzate. Tali parametri sono: • granulometria: definita attraverso la norma AASHTO M 147; • peso specifico: dato che le scorie di acciaieria presentano un peso specifico maggiore rispetto agli altri materiali, le miscele bituminose prodotte avranno una maggiore massa volumica; • stabilità: le scorie hanno un angolo interno di frizione compreso tra 40° e 45°, che permette una maggiore stabilità e un valore di CBR (Californa Bearing Ratio) superiore a 300%; 5 L’AASHTO è nata nel 1914 come "American Association of State Highway Officials" (AASHO), poi ha cambiato nome nel 1973. L’associazione è un oganismo che pubblica le specifiche tecniche, protocolli di prova e linee guida per la progettazione e la costruzione di autostrade negli Stati Uniti. Nonostante il suo nome, l’associazione pubblica linee guida anche sui trasporti aerei, ferroviari, vie d’acqua e sui mezzi di trasporto pubblico. 45 Capitolo 4. I materiali • durabilità: le scorie mostrano una buona durabilità, con resistenza alle intemperie e all’erosione; • corrosività: il valore del pH delle scorie è compreso tra 8 e 10. Tuttavia, in alcuni casi si è avuto un pH di 11, che può essere corrosivo per i tubi di acciaio galvanizzato o di alluminio, posti sotto la strada; • caratteristiche di drenaggio: le scorie consentono il passaggio dell’acqua e non sono suscettibili al gelo; • instabilità volumetrica: la scorie hanno una naturale espansione; il volume cambia del 10%, o anche di più, a seguito dell’idratazione dell’ossido di calcio e dell’ossido di magnesio. La curva granulometrica per progettare una miscela contenente questo materiale viene definita in base ai requisiti fisici imposti dalle normative AASHTO M147 e ASTM D2940. Inoltre è consigliato effettuare la prova di espansione secondo la normativa ASTM D4792. Le miscele devono essere progettate in modo che non vi siano dilavamenti che interessino le scorie contenute in uno strato della pavimentazione per minimizzare il rilascio di eluato e di calce libera da parte della scoria. In questo studio è stata usata scoria di acciaieria di tipo EAF (Capitolo 7). 4.1.3. La sabbia di quarzo Il quarzo [26] è un minerale tra i più diffusi e importanti ed è costituito da biossido di silicio (SiO2 ). Il quarzo è presente come componente di molte rocce e di molti aggregati: è uno dei componenti essenziali di rocce eruttive (quarziti, porfidi, ecc.), metamorfiche (gneiss, micascisti, ecc.) e sedimentarie (arenarie quarzose, ecc.). Il quarzo si presenta anche nella forma di cristalli prismatici: in "cristallizzazioni", anche di grandi dimensioni, che tapezzano cavità o in cristalli isolati (le dimensioni dei cristalli sono molto variabili). Il cristallo di quarzo assume una forma spesso trapezoedrica trigonale, ma altre volte assume la forma di un prisma esagonale, a seconda del tipo di processo termodinamico a cui è stato sottoposto. La struttura reticolare dei cristalli di quarzo è formata da atomi di silicio circondati da quattro atomi di ossigeno in corrispondenza ai vertici di un tetraedro e ogni atomo di ossigeno appartiene a due tetraedri diversi. Il quarzo si può originare per lenta cristallizzazione da idrogelisilieci a conveniente temperatura e pressione. Ciò avviene evidentemente in natura ed è anche stato ottenuto artificialmente. Il peso specifico del quarzo puro è 2,65 g/cm3 . Il quarzo ha una durezza pari a 7 secondo la scala Mohs. La resistenza all’abrasione offerta dalle facce 46 4.1. Gli aggregati del prisma è molto elevata. Le condizioni di simmetria dei cristalli di quarzo permettono in essi fenomeni piro- e piezo-elettrici. In generale infatti il quarzo possiede ottime proprietà elettriche, piezoelettriche e meccaniche (grande filabilità in fili sottilissimi, grande elasticità di torsione, ecc.), elevata trasparenza e una notevole birifrangenza. A 575℃ si ha anche un debole ma brusco abbassamento del valore degli indici di rifrazione e il quarzo passa alla modificazione esagonale. Un ulteriore e prolungato riscaldamento a 870℃, o poco più, provoca un’altra trasformazione e si ottiene la "tridimite"; la quale poi, portata oltre i 1470℃, dà luogo a una nuova modificazione: la "cristobalite". Oltre ai cristalli ialini, cioè incolori e trasparentissimi, si hanno cristalli trasparenti ma colorati, come l’"ametista" (color viola), il "falso topazio" (giallo) il "rubino di Boemia" (rosa). Il colore di queste varietà è dovuto a tracce di ossidi di Manganese (Mn), ferro (Fe), titanio (Ti), ecc., in soluzione solida. Nel "quarzo affumicato" (nerastro), come ad esempio quello del Gottardo, la trasparenza è assai minore e il colore sembra dovuto a sostanze carboniose. È assai frequente il caso di cristalli contenenti inclusioni solide; sono anche frequenti nei cristalli di quarzo inclusioni liquide microscopiche. Il quarzo è anche componente di molte rocce eruttive come graniti, porfidi quarziferi, ecc.; forma anche numerose vene in massa cristallina, la quale è talvolta matrice di importanti minerali metalliferi. È il costituente principale delle "sabbie silicee" e delle "quarziti". I diaspri sono masse compatte e variamente colorate di silice riferibile al quarzo; il calcedonio è formato di silice finamente fibrosa, che forse rappresenta una varietà del quarzo. Ne sono sottovarietà la corniola, l’onice, l’agata, il crisoprasio, che sono ricercate per oggetti ornamentali. Nella composizione più pura, incolore e trasparente, il quarzo viene usato per produrre vasi e altri oggetti di lusso; nell’ottica si utilizza per la costruzione di prismi e lenti (utilizzando la proprietà del quarzo di essere notevolmente trasparente ai raggi ultravioletti); i quarzi colorati, quando sono limpidi, vengono utilizzati come pietre semipreziose. Essendo un componente delle rocce eruttive, nonché dei prodotti della loro decomposizione (pietre arenarie e sabbie quarzose), il quarzo trova largo impiego nelle industrie del vetro, delle ceramiche, dei materiali refrattari, ecc. Ad altissima temperatura (1713℃), il quarzo può essere fuso e poi sottoraffreddato senza formazioni cristalline, dando luogo alla sostanza vitrea detta quarzo fuso o silice fusa o, non correttamente, "vetro di quarzo"6 . Vi sono vari procedimenti per produrre articoli di quarzo fuso opaco o translucido. Nell’industria chimica è usato nella fabbricazione di recipienti per la preparazione di forti acidi, per reazioni ad alte temperature, per preriscaldare miscele ammo6 Il vetro è per definizione massa amorfa, il quarzo è, invece, silice pura cristallizzata. 47 Capitolo 4. I materiali niacali nei processi di ossidazione dell’ammoniaca e per la purificazione dei gas. Nell’industria ottica è adoperato per: tubi da lampade a vapori di mercurio e di metalli; apparecchi per sterilizzare a raggi ultravioletti; tubi spettrali; specchi astronomici; prismi e lenti. Nell’industria elettrica è adoperato per: tubi protettori di coppie termoelettriche; lampade ad arco voltaico; corpi a irradiazione calorica; condensatori a piccole perdite dielettriche; materiale isolante. Nell’industria del gas, infine, è adoperata per: forni a tubo e a muffola; tubi d’assaggio; sfere e cilindri per luce a gas incandescente. In questo studio è stata usata la sabbia di quarzo presentata nel Capitolo 7. 4.1.4. Il materiale da costruzione & demolizione Per "materiali riciclati da costruzione e demolizione (Materiale da "C& D" o, semplicemente "C&D") si intendono i materiali, quali il calcestruzzo, la muratura e tutti gli altri materiali provenienti principalmente dalla demolizione di edifici e/o strutture con esclusione di quelli metallici, lignei e in plastica. Questi ultimi materiali e i materiali organici compresi all’interno del materiale da C& D devono essere allontanati mediante magneti (per gli elementi in metallo) o tramite tecniche di cernita/soffiaggio. Gli inerti da C&D [24] possono essere così suddivisi in due principali sottoclassi: calcestruzzo : • calcestruzzi armati e non; • scarti dell’industria dei manufatti in cemento; • scarti della prefabbricazione civile. macerie : • inerti di risulta delle demolizioni (laterizi, piastrelle, ecc.); • scarti dell’industria delle ceramiche e dei laterizi; • elementi di calcestruzzo armato non selzionati per il "calcestruzzo"; • frammenti di pavimentazioni stradali; • sfridi di materiali lapidei provenienti da scavi. Il primo tipo di aggregato, previa eliminazione delle barre di armatura acciaiosa, può essere considerato di qualità più elevata, perché costituito dalla malta cementizia e dagli inerti di cava originariamente selezionati per la composizione del calcestruzzo. Le macerie invece risultano costituite da elementi eterogenei, cioè di natura molto diversa; in pratica, possono essere considerate come il risultato finale di una demolizione non selettiva. 48 4.1. Gli aggregati Per essere convenientemente avviato al reimpiego, il materiale deve essere sottoposto ad un “trattamento”, una serie di operazioni che possono essere sinteticamente intese come processi successivi di selezione, frantumazione, deferrizzazione, asportazione di materiali leggeri, omogeneizzazione del prodotto finale. Poiché notevoli sono i rischi di cattiva esecuzione delle diverse fasi di riqualificazione del materiale, si deve far ricorso ad una tecnologia evoluta, possibilmente controllata in modo automatico. É pertanto necessario che, per garantire un riutilizzo privo di problemi, l’“inerte” provenga da appositi impianti di frantumazione e trattamento, grazie ai quali è possibile eliminare le sostanze estranee od inquinanti, come i metalli, la plastica, la carta, il legno e tutti gli altri elementi non idonei. Condizioni prioritarie per esprimere valutazioni attendibili sul comportamento in esercizio sono inoltre l’omogeneità statistica e la costanza della composizione e della curva granulometrica. Infatti, la variazione della composizione granulometrica dopo la messa in opera è il difetto principale di questo materiale (già noto in letteratura [27]). Allo stato dell’arte, gli impianti, in particolare quelli fissi, sono in grado di realizzare una apprezzabile costanza di composizione del prodotto. Ad essa si può tendere mediante l’adozione di speciali procedure di estrazione dai cumuli, che permettono di ottenere una certa qual “miscelazione” di apporti differenziati, ricercandosi in sostanza la massima “eterogeneità” di costituzione mineralogica e petrografica, a garanzia dell’auspicata “costanza” del comportamento prestazionale. É possibile però che, a causa di conferimenti consistenti di materiale della stessa provenienza, concentrati in poco tempo, il prodotto finale si presenti molto “omogeneo” dal punto di vista costitutivo (ad esempio tutto tufo o tutto laterizio), scostandosi così da quella che potrebbe essere una media di riferimento. L’inconveniente può verificarsi quando la frantumazione viene effettuata, come di norma avviene negli impianti mobili, senza adottare le necessarie precauzioni nel prelievo dai cumuli, rivolte ad ottenere una miscelazione preventiva. Poichè i materiali conferiti agli impianti di riciclaggio sono molto diversi si verificano anche sostanziali differenze tra le granulometrie di materiali prelevati dallo stesso impianto ma appartenenti a stoccaggi realizzati in tempi diversi. In precedenti studi si è notato l’impossibilità di stabilire con sufficiente attendibilità un campo di valori caratteristico da attribuire a questa tipologia di materiali nella determinazione del coefficiente di abrasione "Los Angeles"7 , effettuate su aggregati provenienti dal riciclaggio di macerie di demolizioni edilizie. Altri studi precedenti sono riusciti a determinare un intervallo entro cui ricadono i 7 per la procedura e il calcolo del coefficiente Los Angeles (L.A.) si veda il Capitolo 8. 49 Capitolo 4. I materiali coefficienti Los Angeles di questi aggregati (compreso tra il 30% ed il 50%), riscontrando una notevole variabilità dei risultati. Se dal punto visivo non si notano differenze tra gli aggregati del materiale da C& D, tali variazioni invece sono correlate alla presenza di diverse percentuali di pietrisco naturale, laterizi, calcestruzzo, malte, che sono caratterizzate da valori diversi di resistenza all’abrasione. La vulnerabilità nel tempo della curva granulometrica, che dipende principalmente dalla tipologia e dalla regolazione dell’impianto di frantumazione, può essere verificata mediante prelievi a scadenze regolari integrate da controlli casuali. Al riciclaggio di questo tipo di rifiuto viene in genere riconosciuto un duplice vantaggio: la possibilità di conservare le risorse non rinnovabili diminuendo la richiesta di materiali di origine naturale e la riduzione di danni ambientali connessa alla minimizzazione delle quantità da conferire alle discariche. I risultati delle prove C.B.R condotte sui materiale da demolizioni edili hanno evidenziato valori dell’indice C.B.R. in ogni caso superiori al valore del 30% (valore limite per l’accettazione degli aggregati di origine naturale da impiegare in strati di fondazione). Con riferimento ai requisiti di accettazione previsti per aggregati naturali da impiegare in strati non legati di fondazione e di base, si richiede un coefficiente L.A. non inferiore a 40, e quindi il materiale è utilizzabile esclusivamente per strade con livelli di traffico classificati "leggero" o "medio". Uno dei campi più interessanti per il loro reimpiego è quello delle costruzioni stradali, attraverso la loro conversione in aggregati utilizzabili per la formazione di pavimentazioni stradali. L’uso di materiale da C& D in letterarura per l’impiego in strati legati a bitume ha permesso di verificare un aumento dell’assorbimento di legante da parte dell’aggregato [28]. In questo studio, il materiale da costruzione & demolizione utilizzato sarà descritto nel Capitolo 7. 4.1.5. La bauxite Il nome "bauxite" deriva dal nome della località di "Baux" (Provenza, Francia), dove si hanno importanti giacimenti di questo minerale. La bauxite è un minerale amorfo che si presenta in masse compatte, concrezionate, pisolitiche, oolitiche, granulari e terrose con apparenza argillosa. il colore della bauxite è vario (bianco, grigio, giallo, giallo-rossastro, rosso, rosso-bruno e bruno-azzurro) e il peso specifico medio è pari a circa 2,55 g/cm3 . La bauxite è costituita da idrossido di alluminio di composizione molto variabile rispetto al tenore in acqua, oscillando fra la composizione del diasporo (Al2 O3 + H2 O) e quella dell’idrargillite (Al2 O3 + 3H2 O) (le diverse varietà 50 4.1. Gli aggregati vengono ripartite in questi due gruppi a seconda che siano povere o ricche in acqua). Il minerale viene fuso e si ottiene un materiale a tinta chiara, che prende la colorazione azzurra per aggiunta di nitrato di cobalto sul carbone. La bauxite è insolubile negli acidi ma viene decomposta dal bisolfato potassico e dagli alcali durante la fusione. Teoricamente la bauxite è da considerarsi puramente formata da un alunogeno, ma generalmente contiene quantità variabili e talvolta anche grandi di impurezze e specialmente di: limonite, ematite ocracea, quarzo, opale, idrargillite, diasporo, argilla, pirolusite e sostanze organiche (le concentrazioni variano a seconda del luogo dove è estratto il minerale). la presenza del biossido di titanio è quasi costante. I limiti generali entro cui variano le proporzioni dei principali componenti delle bauxiti sono: l’allumina oscilla fra un minimo del 31% (bauxite di Bakers Hill) ed un massimo del 72% (wocheinite di Wochein); l’acqua oscilla fra minimo di 8,5% (wocheinite8 ) e un massimo del 28% (bauxite di Wermetshausen, Vosgi); il sesquiossido di ferro oscilla fra minimo di 1,5% (bauxite di Christianburg) e un massimo del 35,5% (bauxite di Bakers Hill); la silice oscilla fra minimo di 2,3% (bauxite dei Vosgi) e un massimo del 27% (bauxite di Antrim). La bauxite si trova nei suoi giacimenti in due differenti aspetti: in calcari argillosi sotto forma di riempimenti di cavità oppure in masse a contatto con rocce eruttive come graniti, sieniti, diabasi, basalti, ecc. (come, ad esempio, la wocheinite). La formazione del minerale non è ancora univoca, ma esistono diverse scuole di pensiero: per alcuni [29] si tratterebbe di fenomeni fontigenici (simili alle emissioni geyseriane), altri [30] [31] suppongono che si tratti di depositi di origine marina contemporanei a quelli dei calcari includenti e dovuti a reazioni di soluzioni acide ferro-alluminiche le quali agendo sui calcari, avrebbero dato origine agl’idrossidi di alluminio che spesso si hanno nelle bauxiti; altri ancora [32] suppongono che si tratti di formazioni dovute ad acque discendenti dalla superficie e quindi ricche d’ossigeno, le quali, giungendo a contatto con scisti alluminiferi e piritiferi sottostanti ai calcari, avrebbero agito su di essi dando dapprima origine ad acido solforico, per ossidazione delle piriti, e in seguito, per opera di detto acido sugli scisti alluminiferi, a soluzioni di solfati che per reazioni posteriori avrebbero messo in libertà i due idrossidi. La bauxite è un minerale molto diffuso; anche se per le sue giaciture è da considerarsi piuttosto come una vera roccia. Fra i giacimenti più importanti sono da ricordare quello di Baux in Provenza, quelli del Varo e dei Vosgi in Francia, di Wochein nella Carniola, di Bakers Hill in Australia, della Guiana inglese, di Madagascar, della Nuova Galles del Sud, dell’Alabama, dell’Arkansas e della Georgia negli Stati Uniti. Degni di speciale nota per noi sono quelli 8 La "Wocheinite" è una varietà di tinta grigia, con aspetto simile all’argilla, molto povera di acqua. 51 Capitolo 4. I materiali che si trovano lungo le due sponde dell’Adriatico nella catena appenninica, in Istria e in Dalmazia, giacimenti che per i loro caratteri si rassomigliano tutti, essendo inclusi in calcari cretacei sotto forma di banchi, lenti ed arcuati, di vario tipo. La scoperta della bauxite in Italia è dovuta a Meissonnier che ne trovò alcuni esemplari in Abruzzo nel 1857; in seguito se ne occupò per primo Cassetti e poi altri autori italiani. Nell’Appennino centrale i giacimenti di bauxite si trovano distribuiti nel Matese, nella Marsica, nella Valle del Liri e a Monte Velino; i principali affioramenti sono quelli di Dragone e Cusano di Mutre (Matese), di Lecce dei Marsi e di Pescosolido (Monti Marsicani) e di Rocca di Mezzo, di Monte Morrone e di Monte di Ocre nel massiccio del Velino. I caratteri generali di queste bauxiti sono piuttosto vari ma in generale hanno colore rosso e rosso-bruno, un aspetto litoide e sono ricche di allumina, sebbene tale carattere varii assai da giacimento a giacimento. I giacimenti della Dalmazia e dell’Istria sono di tipo analogo ai precedenti; in essi però abbonda il tipo di ammassi occupanti cavità limitate nei calcari. I principali giacimenti dell’Istria sono quelli di Albona, di Veglia, di Pago e di Cherso; in Dalmazia sono quelli di Obrovazzo, di Dernis e di Bua; qui però la bauxite apparisce molto diffusa. Anche in essi la composizione chimica varia molto. La bauxite viene per la massima parte impiegata per la produzione dell’alluminio; in parte serve anche per la preparazione di molti sali di alluminio d’importanza industriale, come ad esempio il solfato di alluminio e gli allumi, ed anche per la fabbricazione di materiali refrattari. In questo studio, la bauxite utilizzata sarà descritta nel Capitolo 7. 4.2. I leganti: il cemento Portland Il cemento Portland9 è un legante idraulico; è una polvere che mescolata con acqua produce una pasta modellabile e che, nel giro di qualche giorno, si indurisce, perdendo la plasticità iniziale e assumendo consistenza e rigidità tali da resistere a sollecitazioni meccaniche. Il cemento Portland viene fabbricato mediante cottura (a temperature comprese tra 1300℃ e 1350℃ denominata temperatura di "clinkerizzazione") della polvere ottenuta dalla macinazione di una miscela di rocce (calcare, che fornisce ossido di calcio, ed argille, che foniscono silice, allumina e ossido di ferro). Il prodotto cotto viene poi raffreddato, macinato e additivato con gesso. La maggior parte delle caratteristiche del cemento derivano da un appropriato processo si cottura. Le reazioni principali che avvengono durante il processo di fabbricazione del cemento sono: disidratazione, dissociazione del carbonato di calcio, decomposizione dell’argilla disidratata, formazione degli alluminati, dei ferroalluminati e dei silicati di calcio. La presenza di Al2 O3 , F e2 O3 , M gO 9 Parte 52 di questo capitolo è stata tratta da [33]. 4.2. I leganti: il cemento Portland e alcali ha un effetto mineralizzante sulla formazione dei silicati di calcio: tali ossidi infatti durante la cottura portano alla formazione della fase liquida del clinker che consente la formazione di silicati a temperature più basse di quelle che sarebbero necessarie in fase solida, e in tempi più brevi, ma permette anche l’adesione delle particelle solide tra loro rendendo possile la diffusione delle specie ioniche più rapidamente di quanto sia possibile allo stato solido. I silicati di calcio sono i responsabili delle proprietà leganti del cemento. La struttura cristallina dei componenti del cemento presentano molte imperfezioni strutturali ed è proprio alla irregolarità strutturale che va attribuita la reattività degli idrauliti nei confronti dell’acqua. Nel clincker sono prensenti due silicati di calcio (in tenori di circa l’80% in peso) e due alluminati di calcio (in tenori di circa il 20% in peso). Gli alluminati di calcio contrinuiscono, per reazione con l’acqua, al fenomeno della presa, mentre i silicati di calcio sono determinati per l’indurimento. Se il cemento contiene della calce non combinata ("calce libera") si ha la formazione di botaccioli10 durante la successiva idratazione del cemento. Esistono diversi tipi di cemento: cemento ferrico (o Ferrari), il cemento bianco e il cemento Portland. Il cemento ferrico presenta quantità trascurabili di C3 A (l’allumina si trova combinata quasi esclusivamente sotto forma di C4 AF ) ed è particolarmente indicato per la costruzione di grandi manufatti in calcestruzzo (con modesto rapporto superficie/volume) e, quindi, con necessità di un basso calore d’idratazione per evitare la formazione di gradienti termici. Il cemento bianco è un cemento Portland privo di ferro e maganese (responsabile della colorazione grigia del cemento) che viene macinato più finemente per aumentare la reattività delle particelle e, quindi, la velocità di indurimento e il grado di idratazione finale. 4.2.1. Idratazione del cemento Portland Il cemento a contatto con acqua comincia a reagire e entro alcune ore inizia il fenomeno dell’indurimento (sviluppo della resistenza meccanica). Per una idratazione completa il cemento avrebbe bisogno di un quantitativo di acqua pari al 25% del suo peso, ma per avere una pasta lavorabile si arriva anche al 30% - 35% del peso. Se all’impasto vengono aggiunti sabbia e aggregati grossi la quantità di acqua aumenta ancora. Il rapporto tra acqua e cemento può raggiungere valori pari a circa 0,40 - 0,50 per le malte e fino al 0,80 per il calcestruzzo. I componenti anidri sciogliendosi nell’acqua di impasto precipitano nella forma idrata cristallina e l’indurimento avviene per l’intrecciarsi dei cristallli precipitati. Contemporaneamente a contatto con l’acqua i granuli del cemento 10 Si definiscono botacciolli, o calcinaroli, i granuli di calce molto densa (perché ben sinterizzata), che si idratano quindi molto lentamente con notevole aumento di volume. 53 Capitolo 4. I materiali rigonfiano dando forma ad una massa gelatinosa amorfa (gel colloidali) che poi asciugandosi si rinsaldano producendo una massa compatta e resistente. La velocità di idratazione diminuisce continuamente nel tempo pertanto anche dopo lunghi periodi una parte del cemento è ancora anidra. La resistenza meccanica di un cemento Portland aumenta con il contenuto di C3 S soprattutto alle brevi stagionature. La reazione del C3 A con l’acqua è immediata, in assenza di gesso, e si possono avere vari tipi di alluminati, tra cui il C3 AH6 è la forma più stabile. Tutti gli alluminati producono una drastica diminuzione della plasticità dell’impasto. La rapida formazione di alluminati idrati, che non contribuiscono allo sviluppo della resistenza meccanica, fa perdere troppo rapidamente la lavorabilità all’impasto e ne provoca un rapido indurimento ("presa rapida"). Per rallentare l’idratazione del C3 A si aggiunge del gesso biidrato (circa il 3%), che funziona come regolatore di presa, durante la macinazione del clinker. Nell’idratazione del C3 A in presenza di gesso si formano piccoli cristalli prismatici di ettringite: C3 A + 3CaSO4 .2H2 O + 26H2 O C3 A.3CaSO4 .32H2 O A causa della pellicola di ettringite che avvolge i singoli grani, l’idratazione del C3 A è fortermente ridotta: condizioni che permettono all’impasto di rimanere lavorabile per un tempo più lungo. La forma biidrata del gesso potrebbe subire una parziale disidratazione per il riscaldamento durante la macinazione: in questo caso il gesso emidrato, reagendo con l’acqua, indurisce dando luogo ad una "falsa presa". La "presa rapida" è un fenomeno irreversibile, mentre la "falsa presa" può essere rimossa. Quando tutto il gesso è stato consumato dopo circa un giorno, l’ettringite instabile in assenza di gesso, inizia trasformarsi in monosolfoalluminato (C3 A.CaSO4 .12H2 O) per reazione con gli alluminati idrati (CAH) formatisi per idratazione del residuo alluminato tricalcico in presenza di acqua e calce. In una pasta di cemento quindi la presenza di ettringite è soltanto transitoria. Il gesso in definitiva si comporta come moderatore di presa. L’idratazione del calcestruzzo è sempre accompagnata da un sensibile sviluppo di calore in quanto le reazioni degli idrualiti sono tutte esoteremiche. Questo calore varia da cemento a cemento in funzione della sua composizione mineralogica e della finezza di macinazione. Il calcestruzzo ha un modesta conducibilità termica per cui il calore prodotto viene dissipato lentamente nell’ambiente esterno. Se però il calore viene prodotto rapidamente si potrebbe avere un aumento di temperatura del manufatto: un aumento ineguale di temperatura causa tensioni interne, che se superano la resistenza a trazione, provocano fessurazioni e rotture. Minore è la finezza del cemento più è lento è lo sviluppo di calore. 54 4.2. I leganti: il cemento Portland 4.2.2. Presa e indurimento del cemento Portland A pochi minuti dall’unione di acqua e cemento si forma sulle particelle di cemento uno strato sottilissimo di ettringite. Dopo qualche ora la pellicola, che rallenta l’idratazione, diventa permeabile all’acqua e permette la formazione di CSH e degli altri prodotti di idratazione (sia sulla superficie che nella zona più interna del granulo di cemento). Alla formazione di ettringite segue quella di cristalli di tipo laminare dei vari alluminati idrati, precipitano quindi i cristalli esagonali di idrato di calcio e i piccoli cristalli di aspetto fibroso di CSH. Tutti i prodotti di idratazione presentano un volume maggiore di quello del cemento da cui provengono e quindi occupano lo spazio tra le particelle inizialmente occupato dall’acqua: si ha quindi una diminuzione continua della porosità del sistema. Si realizza in questo modo il progressivo consolidamento del sistema attraverso la presa (dopo qualche ora) e l’indurimento (dopo un giorno). 4.2.3. Struttura della pasta di cemento Portland La pasta cementizia è formata principalmente da: CSH : composto di idratazione dei silicati di calcio; Ca(OH)2 : portlandite (idrossido di calcio); CAH : composti di idratazione del C3 A e del C4 AF . Il CSH, chiamato "gelo" per le sue dimensioni molto piccole e la bassa cristallinità, occupa circa il 50% - 60% del volume dei solidi della pasta di cemento ed è il responsabile delle proprietà della pasta del cemento. Presenta un struttura a strati molto simile a quella dei minerali delle argille. L’azione legante del "gelo" dipende dallo sviluppo superficiale e dall’elevata energia superficiale; ha un grande capacità di ritenere l’acqua ed è ritenuto il principale responsabile dell’espansione/ritiro. Il Ca(OH)2 costituisce circa il 20% - 25% del volume dei solidi della pasta di cemento e forma grossi cristalli esagonali. L’idrossido di calcio influenza la resistenza meccanica per le forze di Van der Waals anche se in misura molto bassa per la limitata area superficiale. Il CAH occupa circa il 15% - 20% del volume dei solidi della pasta di cemento e influenza in modo molto meno significativo la proprietà della pasta stessa. La pasta di cemento idratata presenta una struttura porosa con tre tipi di pori: pori del gelo spazi interstratici nella struttura del CSH (qualche decina di nanometri); 55 Capitolo 4. I materiali pori capillari spazi non riempiti dai componenti solidi della pasta di cemento idratata (dimensioni tra 0,01 micrometri e circa 5 - 6 micrometri); vuoti d’aria microbolle (50 - 500 micrometri) e cavità (2 - 4 millimetri). La resistenza meccanica della pasta cementizia non è influenzata dai pori del gelo ma dai pori capillari e dai vuoti d’aria. Il volume dei pori capillari è determinato dalla distanza originale fra le particelle di cemento anidro nella pasta di cemento fresco (cioè dal rapporto tra acqua e cemento, dal grdo di idratazione e dalla frazione di cemento idratato). L’aria presente nei vuoti porta ad una diminuzione delle resistenza meccanica a compressione. In funzione dell’umidità dell’ambiente e della sua porosità, la pasta di cemento è in grado di trattenere una grande quantità di acqua. In realtà si è in presenza di una soluzione alcalina contenente principalmente N AOH e KOH. La soluzione contenuta nei vuoti d’aria, nelle microbolle e nei pori capillari di diametro maggiore di 50 nanometri è considerata "acqua libera", in quanto non è trattenuta da forze attrattive alla superfcie solida; la sua rimozione non determina variazioni di volume. L’acqua contenuta nei pori di diametro inferiore a 50 nanometri è legata alla superficie dei pori da forze di tensione superficiale; la perdita di quast’acqua può causare contrazione del sistema. Bisogna considerare anche la presenza di "acqua adsorbita" che viene trattenuta sulla superficie dei solidi da forze attrattive; la perdita di questa acqua provoca il ritiro della pasta indurita per essicazione. L’acqua presente negli interstrati del gel viene rimossa per essicazione, ma non provoca ritiro. L’acqua combinata chimicamente viene liberata solo nella decomposizione dell’intera struttura per riscaldamento ad alta temperatura (incendio). La pasta di cemento ha forte influenza sulla resistenza meccanica, sulla stabilità dimensionale e sulla durabilità del calcestruzzo. La presenza di CSH infatti, per la sua enorme area superficiale e tramite le forze di Van der Waals, sviluppa una grande capacità di adesione non solo tra particelle dello stesso tipo ma anche con altri solidi. La resistenza meccanica dell’impasto cementizio si sviluppa rapidamente all’inizio e sempre più lentamente nei tempi successivi perché il CSH depositandosi sui granuli di cemento impedisce all’acqua di penetrare nel nucleo ancora anidro. Dopo 3 giorni la resistenza meccanica è circa il 30% di quella caratteristica a 28 giorni; dopo 7 giorni corrisponde a circa il 60% della stessa, nell’anno successivo aumenta di circa il 20% - 40%. La resistenza meccanica del cemento dipende anche da: 1. finezza del cemento; 2. temperatura; 56 4.2. I leganti: il cemento Portland 3. additivi acceleranti o ritardanti; 4. rapporto tra acqua e cemento. Il parametro più importante è il rapporto tra acqua e cemento perchè determina la porosità capillare. Il volume dei pori capillari aumenta all’aumentare del rapporto tra acqua e cemento. Con la variazione dell’umidità relativa la pasta cementizia non è dimensionalmente stabile. Quando l’umidità relativa scende al di sotto del 100%, l’acqua libera presente nei pori capillari di dimensioni maggiori di 50 nanometri si trasferisce all’ambiente. Se l’umidità relativa rimane interna all’intervallo 100% - 95% non si ha nessuna contrazione della pasta cementizia. Ma se l’umidità relativa scende al di sotto del 95% evapora sia l’acqua adsorbita che quella contenuta nei pori capillari più piccoli (dimensioni compresa tra 10 nanometri e 50 nanometri) e si verifica una contrazione del sistema. Solo se l’umidità relativa scende al di sotto del 10% viene eliminata l’acqua contenuta negli interstrati del CSH. Si può ottenere una diminuzione del ritiro per essicamento della pasta di cemento solo tramite: • una riduzione del volume dei pori capillari (riduzione del rapporto tra acqua e cemento e un aumento del grado di idratazione); • diminuendo il volume della pasta a vantaggio degli aggregati. In presenza di carichi prolungati nel tempo la pasta indurita subisce una lenta deformazione ("scorrimento viscoso," o "creep"), che si aggiunge alla deformazione elastica iniziale. I fenomeni che provocano il ritiro da essicamento sono gli stessi che determinano la deformazione sotto carico permanente. L’applicazione di una sollecitazione di compressione provoca un aumento di pressione sul film d’acqua adsorbita e uno spostamento dell’acqua dai punti sottoposti alla sollecitazione verso i pori capillari che non sono completamente pieni d’acqua o verso l’esterno. Si verifica quindi una contrazione della pasta cementizia, che non si verifica istantaneamente perchè l’acqua necessita di un certo tempo per spostarsi. 4.2.4. Durabilità della pasta di cemento La durabilità del calcestruzzo dipende principalmente dalla capacità di durare nel tempo e cioè di resistere agli attacchi fisici e chimici dell’ambiente della pasta di cemento indurita. Le trasformazione fisiche sono l’evaporazione dell’acqua che porta al ritiro e la formazione di ghiaccio. Le reazioni chimiche che provocano il degrado della pasta cementizia sono invece: la carbonatazione, 57 Capitolo 4. I materiali l’azione dilavante del’acqua e delle soluzini acide, le reazioni espansive dello ione solfato e l’attacco dei cloruri. L’impermeabilità della pasta di cemento, e quindi del calcestruzzo, è il fattore primario per assicurare la durata dei manufati in calcestruzzo. L’impermeabilità di una pasta di cemento diminuisce esponenzialmente con l’aumento della porosità capillare e quindi dipende dal rapporto tra acqua e cemento e dal grado di idratazione. Quando la porosità capillare scende a valori così bassi che i pori capillari non sono più connessi tra loro, la penetrazione di acqua nella pasta cementizia potrebbe avvenire solo sotto l’azione di una pressione molto elevata (maggiore di 0,7 MPa) difficilmente riscontrabile in pratica. Questa situazione di discontinuità dei pori è assunta come condizione di impermeabilità: essa viene realizzata con rapporto tra acqua e cemento minore di 0,55 ed assicurando una stagionatura di almeno 28 giorni per aumentare il grado di idratazione. 4.2.5. I cementi di miscela I cementi di miscela sono leganti ottenuti miscelando clinker Portland, gesso e un materiale inorganico che partecipa alle reazioni di idratazione e contribuisce alle caratterisriche fisico-mecaniche della pasta. Questi cementi hanno un duplice scopo perchè riducono il consumo energetico (si ritilizzano sottoprodotti di altri processi idrustriali invece del calcare) e migliorano le proprietà del calcastruzzo (durabilità, resistenza meccanica e vi è un minore sviluppo di calore). I matriali principalmente utilizzati sono: loppe basiche d’altoforno e materiali pozzolanici (naturali ed artificiali). Esistono pozzolane naturali e artificiali. Le prime sono terre piroclastiche di orgine vulcanica composte principalmente da ossidi (SiO2 48% - 71%, Al2 O3 16% - 22%, F e2 O3 3% - 10%, CaO 2% - 10%, alcali 4% - 8%, M gO 0,5% 4%). La microstruttura è vetrosa e la macrostruttura è porosa (ad alta superficie specifica); il materiale è termodinamicamente instabile, presenta un carattere acido (per l’elevato tenore di silice) e reagisce facilmente con la calce idrata in ambiente acquoso. Tutti i materiali a comportamento pozzolanico sono di tipo siliconico o silicoalluminoso. In presenza di acqua si combinano chimicamente con l’idrato di calcio a temperatura ambiente per formare composti con proprietà cementanti. Le pozzolane artificiali sono materiali di origine non vulcanica e presentano attività pozzolanica quando il loro contenuto di SiO2 è in grado di reagire con la calce. Alcune pozzolane artificiali sono scorie vetrose derivanti dalla produzione di leghe metalliche non ferrose. Le ceneri di carbone (dette "fly ash") sono ricavate dalla combusione del carbone nelle centrali elettriche: il materiale viene bruciato ad alte temperature dove fonde e viene poi portato in zone a più bassa temperatura dove solidifica 58 4.2. I leganti: il cemento Portland in forma di microscopiche sfere vetrose (5 micrometri - 90 micrometri). Queste particelle sono poi trasportate dai gas della combustione e vengono rimosse con precipitatori elettrostatici. In Italia esistono ceneri volanti di tipo silicico provenienti dalla combustione di carboni bituminosi. In alcuni carboni (ligniti) la parte inorganica è costituita anche da calcare. Questi composti rendono la cenere volante idraulicamente attiva ma ne abbassano la pozzolanicità. La microsilice, detta anche fumo di silice, è un materiale pozzolanico impiegato per produrre calcestruzzi a bassa porosità con elevate caratteristiche meccaniche e ottima durabilità. La microsilice è un sottoprodotto dell’industria di produzione del silicio e delle leghe ferro-silicio a forno elettrico. La microsilice si presenta in forma di microsfere di dimensioni inferiori a 0,1 micrometri costituite da silice amorfa. Questo materiale è quindi in grado di collocarsi negli interstizi tra i granuli di cemento (1 micrometro - 50 micrometri). L’elevata finezza di questo materiale non ne consente un uso massivo e la percentuale di impiego di solito non è mai maggiore del 10%. La microsilice, quasi sempre abbinata ad un superfluidificante, per copensare l’eccessiva richiesta di acqua, viene impiegata per lo più come additivo in polvere per calcestruzzi speciali impermeabili e ad alta resistenza a compressione. Le loppe basiche d’altoforno derivano dal processo che porta alla produzioen della ghisa. La scoria si forma a 1400℃ - 1500℃e ha una composizione non molto diversa da quella del clinker Portland. La scoria presenta caratteristiche idrauliche solo se all’uscita dall’altoforno viene raffreddata bruscamente e trasformata in granuli porosi a struttura vetrosa, e se il suo contenuto in ossido di calcio rispetto alla silice è in quantità tale da rendere il materiale basico. La loppa non richiede idrato di calcio per formare prodotti cementanti, ma la velocità di formazione di questi prodotti è insufficiente per l’applicazione del materiale a scopi strutturali. Le caratteristiche della loppa infatti si manifestano solo in presenza di attivatori (come gli idrossidi di calcio, di sodio, di potassio o il solfato di calcio). Altri materiali che vengono aggiunti al clinker Portland per ottenere cementi di miscela sono: lo scisto calcinato (residuo della torrefazione di scisti argillosi impregnati di bitume) e il calcare (di orgine naturale, non ha caratteristiche pozzolaniche ed è un ottimo rimpitivo). Il cemento alluminoso è un particolare tipo di cemento prodotto fondendo (a circa 1500℃ - 1600℃) una miscela di calcare e di bauxite (fonte di allumina). Il clinker prodotto è costituito da vari alluminati di calcio (il principale è l’alluminato monocalcico - CaO.Al2 O3 ). Le caratteristiche di presa sono analoghe a quelle del cemento Portland ma diversa è la velocità di indurimento alle brevi stagionature: infatti essa è molto elevata a causa dell’alta reattività del cemento alluminoso. L’idratazione del cemento alluminoso può portare ad un aumento della porosità del calcestruzzo (fenomeno che si verifica specialmente 59 Capitolo 4. I materiali nei climi caldi). Questo materiale non è adatto per confezionare calcestruzzi per applicazioni strutturali a causa della perdita graduale di resistenza e dei problemi di corrosione delle armature che insorgono quando si verifica un aumento di porosità. Il cemento alluminoso viene usato per le riparazioni di strutture degradate come malta a rapido indurimento. La reazione pozzolanica è una reazione lenta che consuma idrossido di calcio e produce prodotti (in particolare CSH) simili a quelli che si ottengono per idratazione del cemento Portland. CementoPortland + H2 O CSH + CAH(primari) + Ca(OH)2 PozzolanaoLoppa + Ca(OH)2 + H2 O CSH + CAH(secondari) La microstruttura della pasta cementizia indurita risulta compatta, molto meno permeabile della pasta cementizia di un cemento Portland (maggiore resistenza alle acque pure dilavanti, alle acque solfatiche e alla penetrazione dei cloruri). Nei climi freddi i cementi di miscela raggiungono una resistenza meccanica minore rispetto al cemento Portland perché la reazione è lenta e ha bisogno di maggiore tempo di maturazione. Nei climi caldi però i cementi di miscela sono da preferire al cemento Portland, soprattutto per le strutture di grande mole. Hanno ottime caratteristiche di durabilità (cementi di altoforno e pozzolanici) per la loro struttura più compatta e per la trasformazione dell’idrato di calcio in prodotti con proprietà cementanti. La normativa UNI EN 197 parte 1 del 2007 [34] stabilisce che ogni tipo di cemento sia individuato da una sigla "CEM" seguita da: un numero romano (che indica il tipo di cemento), da lettere (che individuano il sottotipo), ed un numero. Questo numero indica la soglia minima di resistenza meccanica compressione, in MPa, misurata a 28 giorni (come indicato nella normativa UNI EN 196 parte 1 del 2005 [35]), su provini di malta confezionati con metodologia standard. Il rapporto tra acqua e cemento deve essere pari a 0,5 e il rapporto tra sabbia e cemento deve essere pari a 3 (Figura 4.2). Esistono tre classi di resistenza: 32,5, 42,5 e 52,5, ciascuna divisa in due sottoclassi per distinguere i cementi normali da quelli a rapido idurimento (R = rapido indurimento). 4.3. I leganti: il bitume Il bitume è una miscela di idrocarburi ad elevato peso molecolare completamente solubile in solfuro di carbonio (CS2 ). Nella normativa UNI EN 12597 del 2002 [36] il bitume viene definito come un "materiale praticamente non volatile, adesivo e impermeabile derivato dal petrolio greggio, oppure presente 60 4.3. I leganti: il bitume Figura 4.2.: Composizione dei cementi, come indicato nella normativa UNI EN 197-1:2007 [34]. nell’asfalto naturale, che è completamente o quasi completamente solubile in toluene e molto viscoso o quasi solido a temperatura ambiente”. I bitumi sono di origine naturale, cioè si sono formati a seguito di fenomeni geologici naturali, o di orgine industriale, cioè ottenuti per raffinazione dei greggi petroliferi. Con l’area geografica di provenienza del greggio petrolifero variano, ovviamente, la quantità di bitume estraibile e la qualità del bitume (variano cioè le caratteristiche reologiche, le caratteristiche fisiche e quelle chimiche). Il bitume viene tradizionalmente ottenuto come ultimo prodotto della torre di distillazione sotto vuoto, preposta alla lavorazione del residuo di una prima distillazione a pressione atmosferica. Infatti il bitume è costituito dalle frazioni a più elevato punto di ebollizione del petrolio. Le caratteristiche del bitume variano a seconda del petrolio estratto. Quando necessario, il residuo di distillazione viene inoltre sottoposto a processi di ossidazione, estrazione con solventi e/o miscelazione con altri bitumi che variano notevolmente a seconda dello schema di produzione di ciascuna raffineria e che hanno il comune scopo di modificarne opportunamente le caratteristiche chimiche e reologiche. Il materiale così ottenuto può essere direttamente impiegato, previa classificazione, per diverse applicazioni nell’ingegneria civile e in quella edile: realizzazione di guaine di impermeabilizzazione, produzione di miscele per sovrastrutture stradali, ecc. 61 Capitolo 4. I materiali 4.3.1. La chimica del bitume Dal punto di vista chimico, i bitumi sono miscele complesse di idrocarburi e di altri composti organici, soprattutto zolfo, ossigeno e azoto, ad elevato peso molecolare. Attraverso procedimenti di frazionamento sempre più accurati è possibile individuare nel bitume alcune frazioni più omogenee, ognuna con caratteristiche peculiari, alle quali si è soliti ricondurre determinate proprietà dei bitumi: asfalteni: sono resine formate da macromolecole ad alto peso molecolare e sono responsabili della consistenza ed alta viscosità dei bitumi, sono la fase dispersa nel corpo oleoso del bitume e quindi ne regolano la stabilità e le proprietà elastiche; malteni: sono oli suddivisi in composti di natura aromatica o saturi e sono responsabili della capacità del bitume di fluire e bagnare le superfici da rivestire. Il bitume viene tradizionalmente considerato come un sistema colloidale costituito da molecole ad alto peso molecolare (asfalteni) disperse in una fase oleosa di peso molecolare inferiore (malteni). A seconda delle condizioni termo-meccaniche, queste componenti sono in grado di formare strutture diverse all’interno del bitume, che sono all’origine di complicazioni nelle proprietà reologiche dei bitume, che varia da un comportamento del tutto viscoso al comportamento puramente elastico. Il bitume utilizzato come legante nelle pavimentazioni flessibili e, oggigiorno, quasi esclusivamente originato dalla raffinazione del greggio di petrolio e ne rappresenta circa il 95% dalla produzione mondiale annuale; il restante 5% e utilizzato per applicazioni industriali, per l’impermeabilizzazione dei tetti e per altri impieghi minori. 4.3.2. Il bitume modificato Negli ultimi anni, per quanto riguarda gli usi stradali, vengono sempre più usati bitumi modificati con polimeri ad alto peso molecolare (elastomeri termoplastici o termoindurenti in quantità raramente superiore al 50% del peso totale della miscela). Si tratta di leganti ottenuti da basi bituminose accuratamente selezionate, le cui proprietà reologiche sono "modificate" al fine di incrementarne le prestazioni tramite lavorazione in apposito impianto, con l’aggiunta d’idonei polimeri. La modifica si ottiene mescolando bitumi e polimeri (EVA, SBS, ecc.) a 180℃. In questo modo si ottiene un composto nel quale è impossibile distinguere il polimero dal bitume. I bitumi modificati, a parità di valore di penetrazione, hanno, rispetto a un bitume tradizionale, un intervallo di elastoplasticita mediamente più elevato (tra 15℃ e 20℃). 62 4.3. I leganti: il bitume Figura 4.3.: Comportamento dei bitumi [10]. Il polimero conferisce al bitume coesione, bassa suscettività termica, ottime resistenze all’invecchiamento e alla deformazione e ne riduce la fragilità alle basse temperature, migliorando inoltre le caratteristiche reologiche. La presenza del polimero consente, in un conglomerato, un miglior assorbimento delle sollecitazioni cicliche indotte dal traffico veicolare e questo si traduce in una maggiore resistenza alla fatica. La componente elastica del bitume modificato determina una spiccata reversibilità alle deformazioni sotto l’azione del traffico e quindi limita la formazione di deformazioni residue (ormaie). La modifica delle proprietà del bitume può essere ottenuta, non solo utilizzando un polimero, ma inserendo nel bitume anche del polverino di gomma. Il polverino di gomma si ricava dalla triturazione della parte in gomma vulcanizzata che fa parte dello penumatico di auto e veicoli pesanti. Il processo di modifica del bitume non deve essere confuso con l’impiego degli additivi che riguarda i conglomerati e che avviene tipicamente durante la miscelazione. 4.3.3. Le caratteristiche meccaniche e reologiche del bitume Il bitume è un materiale viscoelastico il cui comportamento meccanico è molto sensibile alla temperatura ed alla velocità di applicazione dei carichi: a temperatura ambiente la consistenza del bitume è quella di un (semi)solido, a temperature elevate si ha un progressivo rammollimento e, infine, a temperatura basse si ha una fragilizzazione. 63 Capitolo 4. I materiali Figura 4.4.: Classificazione dei bitumi [10]. Nella Figura 4.3 è riportato lo schema del comportamento del bitume (allo stato reale, ideale e modificato) e gli intervalli di temperatura di interesse nella tecnica stradale. Questi intervalli sono: l’intervallo di temperatura di esercizio (compreso tra − 15℃ e + 60℃) e l’intervallo della temperatura di lavorazione (confezionamento e posa in opera delle miscele bituminose, compreso tra + 140℃ e + 180℃). La viscosità nell’ambito dell’intervallo d’esercizio dovrebbe mantenersi sensibilmente costante e molto elevata. Nell’intervallo di lavorazione invece la viscosità dovrebbe essere molto bassa e praticamente vicina a quella dell’acqua allo scopo di consentire le varie fasi di posa in opera delle miscele bituminose. Tempi prolungati di carico, corrispondenti a carichi statici ovvero a basse velocità dei veicoli su strada, determinano deformazioni per buona parte irreversibili. Nella Figura 4.4 sono riportate le classificazioni dei bitumi a seconda del loro uso, come riportato nella normativa UNI EN 12591 del 2009 [37]. 4.4. I leganti: i materiali polimerici I leganti11 utilizzati per confezionare i rivestimenti polimerici sottili rientrano nella gruppo delle "materie plastiche". Al di sotto di tale nome rientrano "vaste classi di materiali, generalmente sintetici, o derivati di prodotti naturali, quale la cellulosa, che presentano, come carattere fondamentale, quello di essere costituiti da molecole organiche di elevato peso molecolare, cioè da macromolecole [38]. Il termine materie plastiche è sinonimo del termine resine sintetiche, perché tra i primi prodotti sintetici ottenuti per condensazione di sostanze organiche alcuni risultarono di caratteristiche analoghe alle resine naturali, cioè ad alcuni prodotti di origine generalmente vegetale per incisione del tronco di varie piante. 11 Parte 64 di questo paragrafo è stata tratta da [38] 4.4. I leganti: i materiali polimerici Ai fini di questa trattazione, tra le materie plastiche possono essere individuate due gruppi principali: • i pastomeri propriamente detti, cioé quei polimeri organici ad alto peso molecolare che presentano stabilità di forma a temperatura ordinaria e sotto modeste sollecitazioni ma diventano plastici sotto temperature e pressioni sufficientemente elevate 12 ; • gli elastomeri, cioé quei polimeri organici ad alto peso molecolare, tra cui la gomma o caucciù naturale e le gomme sintetiche, i quali per la natura propria delle molecole costituenti e per particolari loro modificazioni di natura chimica, acquistano elevate caratteristiche di elasticità. I polimeri che costituiscono le materie plastiche sono formati da grosse molecole, con pesi molecolari, relativi all’idrogeno preso come unità (o, più esattamente, al carbonio posto uguale a 12), che rientrano generalmente nell’ordine di grandezza da 10.000 a oltre 1.000.000. Tali molecole sono formate da sequenze di atomi, quasi sempre di carbonio ma talvolta anche da ossigeno, da azoto e da silicio, uniti l’uno all’altro da legami covalenti, in modo da costituire catene più o meno lunghe generalmente lineari; ciascun atomo di carbonio, avendo generalemente due sole valenze impegnate mediante legami semplici con i due atomi di carbonio adiacenti, è pure legato lateralmente, per mezzo delle altre sue due valenze residue, con altri atomi di idrogeno o di ossigeno o di azoto, o di cloro o altri alogeni, o con altri gruppi atomici contenenti carbonio e alcuni di questi stessi elementi. Le catene possono essere (Figura 4.5), oltre che di forma lineare, anche di forma ramificata, e comunque più o meno mobili le une rispetto alle altre, oppure più rigidamente legate tra loro da altri legami covalenti trasversali, dando luogo cioè a una struttura reticolata che viene a costituire una molecola gigante tridimensionale. In generale un polimero sintetico viene spesso ottenuto, attraverso polierizzazione per addizione, da una sostanza a basso peso molecolare, detta monomero, contenente almeno un doppio legame. Attraverso l’apertura di quest’ultimo e la successiva addizione alla prima molecola così attivata, di altre successive molecole uguali, si ottiene un polimero che viene perciò considerato come costituito da sequenze di unità monomeriche o ripetitive. La polimerizzazione per condensazione, o policondensazione, avviene quando, invece, i polimeri si formano da uno solo o da due o più monomeri, ciascuno dei quali possegga almeno due gruppi funzionali capaci di reagire tra loro, in modo da formare nuovi legami covalenti. In questi casi non tutti gli atomi che costituiscono i composti che partecipano alla condensazione vengono a far parte della macromolecola, perché alcuni di essi vengono eliminati sotto forma di composti a basso peso molecolare (generalmente acqua). 12 Per i plastomeri termoindurenti ciò si verifica soltanto prima dell’indurimento. 65 Capitolo 4. I materiali Figura 4.5.: Macromolecole lineare (a), ramificata (b) e reticolata (c) [38]. Se almeno uno dei composti partecipanti alla reazione possiede più di due gruppi funzionali, esiste la possibilità di formazione di legami trasversali tra macromolecole vicine per ulteriore reazione tra i gruppi funzionali rimasti liberi; esiste cioè la possibilità, di formazione, oltre che di polimeri ramificati, anche di polimeri reticolati; questi ultimi non sono più a struttura lineare ma tridimensionale. Questi sono generalmente prodotti duri, meccanicamente resistenti, infusibili e insolubili in tutti i reagenti e che presentano quindi un vasto campo di applicazioni, pur dovendo, a causa delle caratteristiche di cui sopra, essere foggiati nella forma definitiva prima o contemporaneamente al raggiungimento della loro struttura finale. Siccome la reticolazione viene generalmente realizzata a caldo, essi vanno sotto il nome di resine termoindurenti; appunto in quest’ultima fase di lavorazione si realizza la reazione tra gruppi funzionali residui di molecole diverse, dando luogo ad una ulteriore crescita del peso molecolare, con formazione di molecole più complesse ed indurimento definitivo del prodotto. Viceversa, i prodotti a catena lineare, ramificata o meno, possono essere formati a caldo, in modo da sfruttare la loro maggiore plasticità alle alte temperature, senza che questa operazione comporti alcuna ulteriore modificazione della struttura molecolare; essi sono perciò indicati come resine termoplastiche e, al contrario delle resine termoindurenti, la loro forma è reversibile, cioè possono nuovamente rammolliti per riscaldamento e nuovamente formati. 66 4.4. I leganti: i materiali polimerici Figura 4.6.: Regioni cristalline e regioni amorfe in un polimero [38]. Strutture reticolate si possono ottenere anche attraverso la polimerizzazione per addizione, nel caso che il monomero presenti almeno due doppi legami nella sua molecola. Si vengono a formare, come nella vulcanizzazione delle gomme, dei legami covalenti trasversali o ponti; con ciò vengono impediti nel prodotto scorrimenti troppo estesi tra le molecole, pur senza conferirgli la rigidità delle resine termoindurenti, per cui esso viene ad acquistare la caratteristica di un elastomero vulcanizzato, cioè di un materiale dotato di elevata elasticità. Si possono ottenere polimeri per poliaddizione anche da miscele di due o più monomeri diversi, anzichè da un solo monomero; tali prodotti, che vanno sotto il nome di copolimeri, se ottenuti da miscele di due monomeri, e di terpolimeri, se ottenuti da miscele di tre monomeri, hanno anzi assunto grande importanza nelle applicazioni. I prodotti ottenuti da un solo monomero invece prendono il nome di omopolimeri. Nei copolimeri, dato che le diverse unità monomeriche corrispondenti ai vari monomeri di partenza possono succedersi lungo la catena in ordine diverso, non si può più definire una sola unità monomerica come costituente elementare della catena. Molti polimeri, specialmente quelli a struttura molecolare più regolare, e in determinate condizioni, tendono allo stato cristallino caratterizzato, come nei composti di basso peso molecolare, da una disposizione geometricamente determinata dagli atomi costituenti l’uno rispetto all’altro entro la cella elementare, la quale si ripete con le sue caratteristiche di simmetria geometrica nelle tre dimensioni dello spazio fino a formare il reticolo cristallino che definisce l’intero cristallo (Figura 4.6). La differenza tra la cristallinità dei composti a basso peso molecolare e quella relativa ai composti ad alto peso molecolare consiste essenzialmente nel fatto che, mentre nei primi la cella elementare comprende generalmente più molecole o più ioni o più atomi, nei polimeri una stessa molecola comprende più celle elementari e talvolta addirittura più cristalli. Siccome la cristallinità dei polimeri non mai completa ma parziale, e quindi le regioni cristalline si alternano con zone amorfe, generalmente la stessa molecola comprende sia parti cristalline 67 Capitolo 4. I materiali sia parti amorfe, in più tratti successivi. 4.4.1. Le proprietà generali dei polimeri ad alto peso molecolare La particolare e complessa struttura di un polimero ad alto peso molecolare comporta che le loro proprietà siano molto diverse da quelle dei composti corrispondenti a basso peso molecolare. I polimeri a basso peso molecolare, infatti, sono costituiti da molecole tutte uguali l’una all’altra e pertanto il loro comportamento sia chimico che fisico è univocamente determinato. Ad una sostanza a basso peso molecolare corrispondono perciò caratteristiche fisiche fisse. Un polimero ad alto peso molecolare, pur preparato dallo stesso monomero, è costituito da una infinita varietà di individui macromolecolari, in generale l’uno diverso dall’altro, non solo per il numero di unità monomeriche che lo compongono (cioè per il diverso peso molecolare), ma anche per il modo come le diverse unità monomeriche si succedono nella catena, per la possibilità di ramificazioni di questa, di legami trasversali, di diversi tipi di concatenamento. Le forze intermolecolari o di valenza secondaria (sia quelle di Van del Waals, sia quelle di natura polare sia quelle dovute ai legami idrogeno) che intercedono tra le diverse molecole, mentre in un composto a basso peso molecolare corrispondono a energie di legame molto minori rispetto a quelle di valenza primaria che legano tra di loro i diversi atomi nella molecola, nelle macromolecole lineari possono essere enormemente esaltate per effetto della loro lunghezza proporzionalmente al peso molecolare. L’incremento delle forze di interazione tra molecola e molecola è naturalmente di entità molto diversa, a parità di composizione e di peso molecolare, a seconda delle stato nel quale si trova il composto macromolecolare, cioè se allo stato solido, cristallino o amorfo, o allo stato fuso o ancora alla stato di soluzione più o meno concentrata. Qualsiasi molecola, che si trovi in soluzione, è animata da un rapido continuo movimento (detto browniano 13 ), indipendentemente da cause esterne come i movimenti convettivi del liquido; nel caso di una macromolecola si può distinguere un moto macrobrowniano, che riguarda tutta la molecola nel suoi insieme, ed un moto microbrowniano, che può riguardare invece tratti più o meno limitati della catena o i gruppi laterali. Nelle soluzioni di polimeri ad alto peso molecolare l’effetto delle forze intermolecolari che tendono a legare tra loro le macromolecole è evidentemente contrastato soprattutto dall’esistenza del moto macrobrowniano, che è tanto più intenso quanto più diluita è la soluzione e quanto più alta è la tempe13 Dal 68 botanico R. Brown che nel 1827 lo ha osservato per primo in dispersioni colloidali. 4.4. I leganti: i materiali polimerici Figura 4.7.: Diagramma volume specifico - temperatura [38]. ratura. Sorgono inoltre forti interazioni tra molecole di soluto e molecole di solvente. Il risultato delle diverse influenze sulla resistenza reciproca al movimento dei diversi strati contigui di molecole determina il valore della viscosità, che è infatti una caratteristica della più grande importanza sia per lo studio delle macromolecole in soluzione, sia per quanto riguarda la determinazione dei pesi molecolari e della formza delle macromolecole in soluzione sia per lo studio appunto delle forze intermolecolari. Nel caso di polimeri ad alto peso molecolare fusi i moti macrobrowniani son fortemente limitati per effetto della reciproca vicinanza delle macromolecole. I vari fattori accennati, che pure dipendono dalla temperatura, determinano le caratteristiche di scorrimento viscoso del fluido, che è la proprietà fondamentale che caratterizza i vari prodotti nei riguardi delle diverse operazioni tecnologiche di lavorazione e di formatura. Lo studio dello scorrimento viscoso fa parte della reologia, cioè della scienza che studia la deformazione e lo scorrimento della materia e comprende quindi anche l’elasticità e la viscoelasticità. Quest’ultima descrive appunto il comportamento rispetto agli sforzi esterni dei polimeri ad alto peso molecolare solidi allo stato amorfo che possono essere considerati, come i vetri, dei liquidi sottoraffreddati, partecipando essi sia delle proprietà di scorrimento viscoso sia di quelle di elasticità. Nello stato solido, anche se amorfo, sono praticamente assenti i moti macrobrowniani, mentre permangono i moti microbrowniani che interessano tratti più o meno estesi della catena o di gruppi laterali. Sul comportamento meccanico e reologico hanno inoltre grande influenza le forze intermolecolari di varia natura, specie se esaltate da fenomeni di orientazione reciproca delle macromolecole, talvolta favoriti dagli stati di tensione meccanica, la presenza di cristalliti, e, 69 Capitolo 4. I materiali nelle macromolecole di forma raggomitolata o ramificata, di interlacciamenti o imbrigliature, quando non si abbiano addirittura legami trasversali di tipo covalente tra molecole adiacenti, come nei prodotti reticolati. Questi fattori influenzano, nei due sensi opposti, quella che si chiama la flessibilità della catena, che può intendersi come la sua attitudine ad assumere, per effetto di sollecitazioni meccaniche o termiche, conformazioni diverse da quelle termodinamicamente più probabile in assenza di sforzi applicati. La caratteristica opposta della flessibilità è la rigidità. Sul comportamento viscoleastico dei polimeri amorfi ad alto peso molecolare ha grande influenza la temperatura. Se questa è relativamente bassa i moti termici microbrowniani tendono a "congelarsi", cioè a scomparire, e la sostanza assume le caratteristiche meccaniche di un vetro, diventando rigida e spesso anche fragile e perdendo ogni carattere di plasticità. Tale stato è perciò indicato come vetroso. Viceversa la plasticità compare quando la temperatura sale e la macromolecola acquista in flessibilità, entrando in quello che i definisce come stato plastico o gommoso. La temperatura alla quale si verifica l’inizio del passaggio dallo stato vetroso allo stato gommoso, solitamente indicata con Tg , è detta temperatura di transizione dallo stato vetroso o temperatura di transizione del secondo ordine ed è un dato abbastanza caratteristico dei diversi polimeri, praticamente indipendente dal peso molecolare al di sopra di un certo valore di quest’ultimo, e molto importante dal punto di vista pratico. La seconda denominazione deriva dal fatto che in corrispondenza di tale temperatura si hanno delle variazioni della derivata prima delle diverse proprietà fisiche rispetto alla temperatura. Per conseguenza, nei diagrammi che indicano l’andamento delle diverse proprietà fisiche del polimero in funzione della temperatura (la densità, oppure il suo inverso cioè il volume specifico, e il modulo di elasticità), andamento che appare essenzialmente lineare per intervalli di temperatura non troppo estesi, Tg è individuata da un brusco cambiamento di pendenza della rispettiva curva, cioè appunto della derivata prima della funzione che esprime la loro variazione in funzione della temperatura. Non si tratta di una trasizione di fase, quale la fusione o un cambiamento di struttura cristallina del solido, bensì di una transizione isofasica. Nella Figura 4.7 e nella Figura 4.8 sono riportati in funzione della temperatura i diagrammi rispettivamente del volume specifico e del modulo di elasticità; quest’ultimo nei tre casi di un polimero amorfo, lineare o reticolato, e di un polimero altamente cristallino. In quest’ultimo caso la discontinuità delle rispettive curve in corrispondenza di Tg manca o è appena accennata, in quanto dovuta alle piccole percentuali di amorfo presenti, mentre nel caso del polimero amorfo, essa è ben visibile e netta. A temperatura più alta il polimero cristallino accusa una netta caduta 70 4.4. I leganti: i materiali polimerici Figura 4.8.: Diagrammi del modulo elastico E in funzione della temperatura in un polimero amorfo (lineare o reticolato) e in un polimero cristallino [38]. del valore del modulo elastico, che tende rapidamente allo zero per effetto della fusione dei cristalliti che si verifica appunto alla temperatura di fusione Tm abbastanza ben determinata e che corrisponde ad una transizione del primo ordine o di fase, giacchè in corrispondenza ad essa si ha la variazione della stessa grandezza fisica; il polimero amorfo invece, a temperatura alta, subisce una graduale diminuzione del modulo elastico, che corrisponde ad un graduale rammollimento del materiale; è difficile in questo caso determinare una temperatura caratteristica Ts per il passaggio dallo stato amorfo plastico o gommoso allo stato liquido viscoso, ma si osserva un intervallo di rammollimento. Se il polimero è reticolato viceversa si ha che, a temperatura sufficientemente elevata, il modulo elastico cresce linearmente con l’aumentare della temperatura, fino alla decomposizione; tale è il comportamento delle gomme vulcanizzate. Da notare che per i polimeri ad alto peso molecolare la temperatura di fusione Tm non è un punto termodinamicamente determinato ma è soggetto a fenomeni di isteresi, perché dipende dalle dimensioni dei cristalliti e quindi, entro certi limiti, dalla storia termica e meccanica del polimero. Il valore della tamperatura Tg dipende dal grado di cristallinità e dalla storia termica e meccanica del polimero. L’effetto della transizione del secondo ordine sulla variazione delle caratteristiche fisiche è tanto meno sensibile quanto più alto è il grado di cristallinità del campione. Le transizioni devono essere considerate come l’effetto della eccitazione, a causa della temperatura crescente, di moti vibrazionali o rotazionali degli atomi, dei gruppi atomici e dei segmenti di catena. La fusione del polimero cristallino si verifica quando i moti vibrazionali dei segmenti di molecola nella 71 Capitolo 4. I materiali cella cristallina intorno alle loro posizioni medie raggiungono tale ampiezza da superare le forse coesive esistenti nel cristallite: questo si trasforma allora in un liquido più o meno viscoso nel quale le macromolecole possono spostarsi, ruotare e vibrare ed anche assumere o oscillare tra infinite conformazioni diverse. Nel caso del passaggio di un polimero amorfo dallo stato vetroso a quello plastico o gommoso i segmenti di molecola, prima situati in posizioni fisse o con limitate possibilità di movimento, alla temperatura Tg cominciano ad acquistare maggiore mobilità traslazionale e rotazione e man mano che la temperatura sale, il movimento diventa cooperativo, cioè si estende a tutta la catena raggiungendo energia sufficiente a rompere i legami intermolecolari. Oltre alle transizioni di primo e di secondo ordine alcuni polimeri mostrano altri tipi di transizioni che comportano tuttavia variazioni meno sensibili delle loro caratteristiche. Queste sono chiamate transizioni secondarie e sono generalmente dovute a moti di particolari gruppi laterali o di limitati tratti di catena; data la modesta energia che tali movimenti richiedono, si verificano generalmente a temperature molto basse, e quindi spesso fuori del campo di impiego pratico. Un altro tipo di transizione secondaria, detta di ordine-disordine, analoga a quella che si verifica talvolta nei metalli, corrisponde ad una parziale variazione della struttura cristallina, che può determinare una diversa mobilità di certi atomi e gruppi atomici. 4.4.2. Il peso molecolare dei polimeri ad alto peso molecolare Il peso molecolare, contrariamente al caso dei composti a basso peso molecolare, non è lo stesso per le singole molecole che costituiscono il prodotto. Ciò vale soprattutto per i polimeri sintetici, mentre per i polimeri naturali, quali la cellulosa, l’amido e specialmente le proteine biologiche, si ha una certa uniformità delle macromolecole, almeno dal punto di vista della loro grandezza. Tuttavia, in ogni caso, non esiste un polimero ad alto peso molecolare che possa considerarsi rigorosamente, dal punto di vista del peso molecolare, come monodisperso, ma ogni polimero ad alto peso molecolare è invece più o meno polidisperso. Da un polimero altamente polidisperso possono ottenersi prodotti che si avvicinano più o meno alla condizione di monodispersione, mediante il cosiddetto frazionamento, cioè mediante separazione con mezzi fisici, quali per esempio la dissoluzione o la precipitazione frazionata per mezzo di adatti solventi o nonsolventi, di frazioni aventi pesi molecolari più omogenei che non il prodotto originale. Ciò è dovuto al fatto che la solubilità in determinati solventi, per lo stesso polimero, cresce con il diminuire del peso molecolare. É possibile caratterizzare un polimero ad alto peso molecolare in base al suo peso molecolare o in base al grado di polimerizzazione, riferendosi in que- 72 4.4. I leganti: i materiali polimerici sto secondo caso al numero di unità monomeriche o di unità ripetitive che costituiscono la molecola media. Tutte le proprietà dei polimeri solidi sono fortemente influenzate dal grado di cristallinità e questa, a sua volta, è influenzata, a parità di altre condizioni, dal peso molecolare. Più elevato è quest’ultimo minore è la tendenza delle macromolecole alla cristallizzazione; quanto più sviluppata è la macromolecola, tanto più difficoltoso è il suo inserimento in un cristallite. Tavolta è il valore del peso molecolare medio che determina i campi di applicazioen di uno stesso polimero: così il poliisobutadiene a basso peso molecolare (circa 5.000) trova impiego come lubrificante, mentre quello a peso molecolare superiore a 100.000 è la base dellìimportante elastomero detto gomma butile. 4.4.3. Reologia e proprietà meccaniche dei polimeri ad alto peso molecolare Reologia Un liquido a basso peso molecolare è detto newtoniano perché la sua viscosità η è generalmente indipendente dalle condizioni di flusso e dipende solo dalla natura particolare del liquido e dalla temperatura (Formula (4.1)); essa risulta come coefficiente di proporzionalità tra lo sforzo di taglio τ o di trascinamento che si desta tra due superfici di area unitaria situate alla distanza dx tra loro e la differenza di velocità dv della quale sono dotate, cioè: τ =η dv dx (4.1) Il rapporto dv/dx = γ è il gradiente di velocità: ha le dimensioni di un tempo reciproco e si esprime in genere sec−1 , mentre la viscosità è espressa in P a · s. La viscosità dei polimeri ad alto peso molecolare, sia fusi, sia in soluzione risulta invece dipendere dalle condizioni di flusso, cioè η è funzione sia di γ sia di τ . Nella Figura 4.9 si può notare che per bassi valori del gradiente la curva della viscosità ha un andamento lineare, cioè presenta il valore costante τ /γ = η0 (comportamento newtoniano), per più alti valori di γ, si ha una inflessione della curva con valori della viscosità apparente ηa più bassi; per altissimi valori di γ infine si ha di nuovo un andamento all’incirca rettilineo, con valori di τ /γ = η∞ praticamente costanti, ma con η∞ < η0 . Il comportamento non newtoniano può anche essere messo in evidenza dalla corrispondente Figura ??, nella quale i valori η sono riportati in funzione di γ. In realtà l’andamento dell’ultimo tratto delle curve delle due figure si osserva solo nelle soluzioni di polimeri e manca nei polimeri fusi. In questo caso si ha sempre un decremento più o meno marcato dei valori di ηa con il crescere di γ. Tale comportamento, detto psudeoplastico, viene attribuito al carattere 73 Capitolo 4. I materiali Figura 4.9.: Diagramma di τ in funzione di γ per polimeri ad alto peso molecolare fusi o in soluzione [38]. Figura 4.10.: Diagramma della viscosità in funzione di γ per polimeri ad alto peso molecolare fusi o in soluzione [38]. 74 4.4. I leganti: i materiali polimerici asimmetrico delle molecole dei polimeri lineari, alla loro flessibilità e alla conseguente possibilità di formazione di allacciamenti tra molecole adiacenti, che sarebbe gradualmente disturbato e impedito dagli alti valori del gradiente di velocità. Per quanto riguarda l’influenza del peso molecolare sulla viscosità, con il crescere del peso molecolare, aumenta il carattere pseudoplastico del materiale, tanto che, per valori di γ molto elevati, le differenze tra le viscosità di prodotti di peso molecolare diverso si attenuano notevolemente. In base alla legge di Arrhenius, la viscosità apparente diminuirebbe esponenzialmente con la temperatura; per i polimeri fusi ηa risulta più precisamente una funzione di T nella quale compare il valore della temperatura di transizione vetrosa Tg , cioè: é è − ηa = ηg · e 40·(T −Tg ) 52+T −Tg (4.2) essendo ηg il valore dela viscosità alla temperatura Tg . In effetti, i polimeri fusi forniscono valori della viscosità molto variabili in vicinanza di Tg , come vuole la Formula (4.2), e variazioni minori a temperatura più elevata. Al crescere della temperatura diminuisce il carattere pseudoplastico e, per temperature sufficientemente elevate, il polimero fuso si comporta come un liquido newtoniano anche per rilevanti valori del gradiente di velocità. La conoscenza dei valori di viscosità apparente a temperature differenti è di fondamentale importanza per la condotta delle operazioni di formatura delle materie plastiche attraverso stampaggio, iniezione, calandratura, ecc. Proprietà meccaniche e temperatura Le proprietà meccaniche dei polimeri ad alto peso molecolare sono fortemente influenzate dalla temperatura. Al di sotto della temperatura di transizione vetrosa, sia i polimeri cristallini sia quelli amorfi, per il primo tratto della curva sforzo-allungamento, sembrano obbedire alla legge di Hooke di proporzionalità tra sforzo e deformazione, con valore costante del modulo di Young. In effetti, il valore del modulo varia con al velocità dell’allungamento, poichè al comportamento elastico si sovrappone, anche in queste condizioni, una componente viscosa. Solo per temperature molto basse (curve 1 e 2 nella Figura 4.11) si può trascurare l’effetto della velocità della deformazione e si hanno praticamente delle linee rette fino al punto di rottura (rottura fragile). Per temperature superiori, ma pur sempre inferiori alla temperatura di transizione dallo stato vetroso, si hanno, per polimeri amorfi, le curve dei tipi 3 e 4 (Figura 4.11), caratterizzate dalla presenza di un massimo che corriponde ad un comportamento duttile del provino, il quale ad un certo punto è soggetto ad uno strozzamento della sezione della sezione, con aumento dello sforzo riferito 75 Capitolo 4. I materiali Figura 4.11.: Diagramma sforzo (S) - allungamento (∆l/l) di polimeri amorfi (temperature crescenti da 1 a 9) [38]. alla unità di superficie resistente e successivo abbassamento di questo per effetto della deformazione viscosa che si manifesta; il tratto successivo della curva 4, è praticamente parallelo all’asse degli allungamenti e più o meno prolungato fino alla rottura (rottura duttile). Per temperature superiori a Tg si hanno invece le curve 5, 6 e 7 (Figura 4.11), nelle quali scompare, nelle ultime due, il massimo nello sforzo e si manifestano allungamenti molto vistosi che in gran parte si annullano al crescere dello sforzo (stato gommoso); inoltre a causa della crescente flessibilità delle molecole alle temperature relativamente elevate, si ha un tratto ascendente finale che si manifesta dopo che, essendo stata quasi raggiunta la massima estensibilità delle molecole, lo sforzo necessario per produrre un ulteriore allungamento aumenta più rapidamente, finchè si raggiunge il punto di rottura; nella curva 9 (Figura 4.11), relativa alla temperatura più elevata, si ha la massima estensione tipica dello stato gommoso. Per quanto riguarda i polimeri cristallini (Figura 4.12), a temperature inferiori alla transizione dallo stato vetroso della parte amorfa, le curve sforzoallungamento (curva 1) sono analoghe a quelle mostrate, nelle stesse condizioni, dai polimeri amorfi. A temperature superiori (curva 2) si hanno forti allungamenti, praticamente irreversibili, dovuti all’orientamento per stiro delle catene polimeriche e dei cristalliti; su questo fenomeno si basa l’ottenimento di fibre da monofilamenti. La differenza di comportamento meccanico a diverse temperature tra polimeri amorfi e cristallini è meglio illustrato dalle curve termomeccaniche della Figura 4.13, nelle quali in ascisse sono riportate le temperature centigrade e in ordinate le contrazioni subite da provini di diversi materiali soggetti a com- 76 4.4. I leganti: i materiali polimerici Figura 4.12.: Diagramma sforzo (S) - allungamento (∆l/l) di polimeri cristallini: 1 rottura fragile, 2 rottura duttile [38]. pressione da uno sforzo costante per un determinato periodo di tempo sufficientemente breve (in modo da ridurre gli scorrimenti viscosi) e con velocità di incremento della temperatura costante. La curva 1 corrisponde al comportamento di un elastomero, a bassa temperatura di transizione vetrosa, indicata dal primo gomito della curva (circa 70 ℃ nella Figura 4.13 ) che presenta stato gommoso (tratto orizzontale) in un vasto intervallo di temperatura, con relativamente basso modulo di elasticità e alta deformazione; la curva 2 corrisponde ad un plastomero non cristallizzabile, con temperatura di transizione vetrosa di poco inferiore a 100 ℃, che assume lo stato gommoso a temperatura più elevata; la curva 3 corrisponde ad un polimero altamente cristallino (nel quale quindi non si distingue la posizione di Tg ) con un punto di fusione di circa 130 ℃, in corrispondenza del quale la deformazione aumenta bruscamente; la curva 4 rappresenta il comportamento di un polimero parzialmente cristallino, ma con la differenza che in quest’ultimo caso esiste un intervallo tra la temperatura Tm di fusione dei cristalliti e quella Ts di rammollimento dell’amorfo (essendo Tm < Ts ) nel quale il materiale, oramai amorfo, assume lo stato gommoso, in un breve intervallo di temperatura. Un andamento più complesso è indicato dalla curva 5, relativa ad un polimero avente tendenza alla cristallizzazione, ma ridotto allo stato vetroso per brusco raffreddamento del fuso; esso, riscaldato gradualmente, mostra una temperatura di transizione vetrosa, al di sopra della quale assume lo stato gommoso, al quale fa seguito, poco oltre lo 0 ℃, una brusca contrazione dovuta alla cristallizzazione, dato il minore volume specifico del prodotto cristallino; a temperatura ancora più elevata si ha la fusione dei cristalliti e il polimero ritorna allo stato gommoso, con un comportamento simile a quello del provino di cui alla curva 4. 77 Capitolo 4. I materiali Figura 4.13.: Contrazione (−∆l/l) per sforzo di compressione costante e di breve durata di diversi tipi di polimeri ad alto peso molecolare in funzione della temperatura [38]. Viscoelasticità Il comportamento di un polimero amorfo presenta, oltre ad una componente puramente hookeiana, cioè con deformazione istantanea proporzionale allo sforzo e con annullamento pure istantaneo della deformazione al cessare dello sforzo, una componente puramente viscosa e infine una componente viscoelastica, con deformazione ritardata. Questo complesso comportamento può essere schematizzato in un modello, detto di Maxwell-Voigt (Figura 4.14), che è costituito da una molla puramente elastica di modulo E1 , disposta in serie con un elemento visco-elastico formato da una molla elastica di modulo E2 e da un pistone a comportamento viscoso di viscosità η2 disposti in parallelo, e da un altro pistone di viscosità η3 disposto in serie con la prima molla, entrambi a comportamento newtoniano. Quando, all’istante t1 , al modello è applicato lo sforzo di trazione costante s (Figura 4.15), si ha istantaneamente un allungamento elastico s/E1 e, nella stessa direzione, dopo un tempo t2 - t1 , un ulteriore allungamento viscoelastico s/E2 e uno scorrimento viscoso della velocità (s/η3 ) · (t2 − t1 ); se al tempo t2 lo sforzo s si annulla, si ha immediato annullamento dell’allungamento elastico s/E1 , graduale diminuzione dell’allungamento visco-elastico s/E2 , mentre rimane per sempre lo scorrimento viscoso dato da (s/η3 ) · (t2 − t1 ). Molto importante è la differenza di comportamento, da questo punto di vista, tra i polimeri lineari, anche se ramificati, e quelli tridimensionali costituenti gli elastomeri vulcanizzati; nei primi le curve della deformazione sotto carico in funzione del tempo sono sempre crescenti, mentre nel secondo caso tendono ad un valore ben determinato; analogamente, al crescere dello sforzo, negli 78 4.4. I leganti: i materiali polimerici Figura 4.14.: Modello meccanico di Maxwell-Voigt [38]. Figura 4.15.: Diagramma sforzo-tempo nel modello meccanico di MaxwellVoigt [38]. 79 Capitolo 4. I materiali elastomeri vulcanizzati la deformazione ritorna praticamente e rapidamente a zero, mentre nei polimeri lineari una parte di essa permette indefinitamente per effetto della presenza degli scorrimenti viscosi. 4.4.4. Stabilità termica dei polimeri ad alto peso molecolare Le materie plastiche e gli elastomeri sopportano temperature massime di impiego che, rispetto a quella di altri materiali, sono relativamente basse. Ciò è dovuto in primo luogo al fatto che molti di essi, come le resine termoplastiche, già a temperature non molto elevate, rammolliscono o fondono, con rapido crollo delle loro proprietà meccaniche; ma anche i prodotti infusibili, come le resine termoindurenti e gli elastomeri vulcanizzati, sono soggetti col riscaldamento ad alterarsi e a decomporsi fino alla carbonizzazione. L’alterazione della composizione chimica può consistere in una depolimerizzazione oppure, più frequentemente, in una degradazione. Nel primo caso i prodotti mantengono invariata la loro composizione chimica, ma il peso molecolare medio va gradualmente diminuendo e può ridursi addirittura a quello del monomero; nel secondo caso i prodotti, anche reagendo eventualmente con l’ambiente circostante e soprattutto con l’ossigeno dell’aria, si decompongono dando luogo a composti diversi, in generale di basso peso molecolare, sotto forma di gas (anidride carbonica, azoto, ammoniaca, idrogeno, anidride solforosa), spesso senza lasciare residuo. Spesso i due processi avvengono contemporaneamente. In effetti se la temperatura supera quella limite di polimerizzazione, quest’ultima reazione diventa termodinamicamente impossibile, mentre diventa possibile la reazione inversa di depolimerizzazione; questa si verifica più o meno rapidamente, venendo anche accelerata dagli stessi eventuali residui di catalizzatore impiegati nella polimerizzazione o da impurezze contenute nel monomero di partenza e può essere pure accompagnata da reazioni di carattere pirolitico o, in presenza di aria, ossidativo, pure accelerate dall’aumento di temperatura. Se la temperatura limite di polimerizzazione è relativamente bassa, i polimeri scaldati a temperature non troppo elevate e fuori dal contatto dall’aria subiscono prevalentemente la depolimerizzazione con formazione di forti quantità di monomero e minori quantità di oligomeri (dimero, trimero, tetramero); così avviene, ad esempio, per il polistirolo, il poliisobutilene, il polimetilmetacrilato. In altri casi avvengono reazioni più complesse, che coinvolgono modificazioni e scissioni delle unità concatenate e degli eventuali gruppi laterali; così il polivinilcloruro e il polivinilacetato che, riscaldati fuori del contatto dell’aria, svolgono rispettivamente acido cloridrico ed acido acetico. Nel primo caso la rottura della catena avviene con un processo simile, ma ovviamente inverso, a quello della propagazione, per cui la catena stessa si smaglia e in alcuni casi 80 4.4. I leganti: i materiali polimerici è possibile, fino ad un certo limite, impedire il processo di depolimerizzazione, eliminando per reazione chimica con un adatto reagente alcuni gruppi terminali o alcune anomalie di struttura della catena che sono più vulnerabili, come nel caso della stabilizzazione della poliformaldeide mediante acetilazione. Tra i fattori che determinano la stabilità termica dei polimeri vi sono il valore dell’energia di dissociazione dei legami chimici che tengono tra loro uniti gli atomi nella macromolecola, la presenza di legami trasversali, la natura dei legami intermolecolari del secondo ordine, la cristallinità e infine la rigidità intrinseca della macromolecola. Il valore delle energie di dissociazione dei legami chimici presenti nella unità monomerica è determinante per la resistenza del polimero alla degradazione. La presenza di intense forze intermolecolari e soprattutto di legami idrogeno e la cristallinità innalzano pure la rigidità delle macromolecole ed il punto di fusione o quello di rammollimento, mentre i legami trasversali covalenti sopprimono addirittura la fusibilità, ossia il materiale acquista la proprietà di decomporsi prima di fondere. Tuttavia le massime temperature di impiego prolungato restano modeste e sono leggermente inferiori a quella dell’inizio della transizione vetrosa per i polimeri lineari amorfi, mentre per i polimeri cristallini trovano un limite nell’azione dell’aria sul manufatto. Le temperature di lavorazione per le resine termoplastiche e per quelle termoindurenti allo stato non reticolato possono essere più elevate (e sono naturalmente più alte di quelle di fusione), anche per la durata limitata dell’operazione; in molti casi infatti la degradazione attraversa in principio un periodo di induzione, cioè si svolge per un certo tempo con velocità ridotta, che aumenta solo in un secondo tempo. 4.4.5. La sintesi di macromolecole La policondensazione La policondensazione si può avere anche a partire da un solo monomero che porti nella sua molecola almeno due gruppi funzionali capaci di reagire tra loro. Più frequentemente la policondensazione avviene tra due monomeri diversi, ciascuno portante nella sua molecola almeno due gruppi funzionali di un tipo o dell’altro. Esistono la policondensazione a più di due gruppi funzionali e la policondensazione bifunzionale. La poliaddizione Nella poliaddizione una molecola di monomero viene attivata e come tale capace di addizionare successive molecole, mediante una reazione a catena. L’attivazione può avvenire tramite la formazione di un radicale libero, caratterizzato dalla presenza di un elettrone spaiato, e ne risulta una polimerizzazio81 Capitolo 4. I materiali ne radicalica; oppure, per azione di una coppia di ioni, uno dei quali, il catione o l’anione, attacca una molecola di monomero, attivandola; quest’ultima diventa così capace di addizionare altre molecole, dando luogo ad una polimerizzazione ionica, a seconda del caso cationica o anionica. La copolimerizzazione La copolimerizzazione, cioè la polimerizzazione contemporanea di due o più monomeri diversi, presenta grande interesse pratico perchè i prodotti che si ottengono, detti copolimeri, presentano spesso migliori caratteristiche di quelle degli omopolimeri corrispondenti, specialmente dal punto di vista delle proprietà meccaniche. Tuttavia le proprietà dei copolimeri variano molto a seconda del modo come le unità monomeriche sono distribuite lungo le molecole e in corrispondenza variano anche le applicazioni. 4.5. I polimeri utilizzati per le impermeabilizzazioni sui ponti stradali 4.5.1. Il polietilene Il polietielene (PE) è un polimero termoplastico ottenuto per polimerizzazione dell’etilene con processi diversi, caratterizzati da pressioni molto differenti. Il monomero L’etilene è un gas prodotto con procedimenti di cracking non catalitico ad alta temperatura di frazioni di petrolio liquide o di idrocarburi gassosi (propano, butani) o per deidrogenazione dell’etano. Le properità dell’etilene sono riportate nella Tabella 4.3. La separazione dell’etilene dai gas di cracking di idrocarburi viene eseguita per distillazione frazionata sotto pressione. Dopo la separazione il monomero viene sottoposto a procedimenti di purificazione, dato che le impurezze (in particolare ossigeno, ossido di carbonio, acetilene ed acqua) possono influenzare negativamente il decorso della polimerizzazione e le proprietà del prodotto finale (resistenza all’invecchiamento e proprietà dielettriche). L’etilene viene conservato e trasportato preferibilmente allo stato liquido in serbatoi coibentati, sotto pressione. La polimerizzazione Il PE è disponibile sul mercato in una serie numerosa di tipi adatti per diverse applicazioni,che possono essere raggruppati in tre classi principali, differenziate 82 4.5. I polimeri utilizzati per le impermeabilizzazioni sui ponti stradali Tabella 4.3.: Proprietà dell’etilene. Proprietà Temperatura di ebollizione [℃, a 760 mmHg] Punto triplo [℃] Temperatura critica [℃] Pressione critica [atm] Densità critica [g/cm3 ] Valore −103,71 −169,15 9,90 50,5 0,227 tra di loro in base alla densità: a bassa densità (fino a 0,925 g/cm3 ), a media densità 0,926 - 0,940 g/cm3 ), ad alta densità (0,941 - 0,965 g/cm3 ). Il primo di questi tipi e noto anche come PE convenzionale. I processi impiegati per la polimerizzazione dell’etilene di importanza industriale si possono classificare praticamente in tre categorie: 1. polimerizzazione ad alta pressione, radicalica; 2. polimerizzazione a media pressione con catalizzatori a base di ossidi di metalli di transizione (processo Standard Oil e Phillips); 3. polimerizzazione a bassa o media pressione in presenza di catalizzatori costituiti da alogenuri di metalli di transizione e composti alluminio-alchilici (processo Ziegler). Le caratteristiche e le proprietà Il PE è un polimero termoplastico, cristallino, incolore, inodore, insapore, non polare. Mostra notevole resistenza agli acidi forti, agli alcali ad alle soluzioni saline. É praticamente insolubile in tutti i solventi a temperatura ambiente ma rigonfia o si scioglie in alcuni (ad esempio idrocarburi aromatici) a temperatura elevata. Dalle soluzioni precipita di solito sotto forma di gelo. Il PE, grazie alla regolarità strutturale delle macromolecole, cristallizza molto facilmente dando luogo a cristalli con cella elementare ortorombica. Cristallizzato dal fuso dà luogo a a superstrutture sferulitiche. Il grado di cristallinità e il punto di fusione sono strettamente dipendenti dal numero di ramificazioni per catena e dalla loro lunghezza: i prodotti ottenuti con i processi a bassa pressione, praticamente privi di ramificazioni, presentano cristallinità dell’ordine del 90% e fondono abbastanza nettamente a 132 ℃ -135 ℃; i polimeri ottenuti con i processi ad alta pressione (fortemente ramificati) fondono invece a temperatura più bassa (circa 112 ℃) e meno nettamente. Nella Tabella 4.4 vengono riportate le proprietà meccaniche, termiche ed elettriche dei tre tipi fondamentali di PE. 83 Capitolo 4. I materiali Tabella 4.4.: Proprietà del polietilene. Proprietà Bassa densità Media densità Alta densità Carico di snervamento [MPa] Carico di rottura [MPa] Allungamento a rottura [%] Modulo di Young [MPa] Carico di rottura a flessione [MPa] Resistenza all’urto (Izod) [N/m] Durezza [Shore, Scala D] Conduttività elettrica [W/m ℃] Calore specifico [J kg-1 ℃-1 ] Coefficiente di dilatazione [℃-1 ] Temperatura di distorsione [℃] Temperatura di rammollimento [℃] Resistività di volume [ohm cm] Rigidità dielettrica [kV mm-1 ] Costante dielettrica [60 Hz] Costante dielettrica [106 Hz] Fattore di dissipazione [60 Hz] Fattore di dissipazione [106 Hz] Resistenza all’arco [sec] 7,8 - 11,7 7,6 - 15,7 90 - 650 117,7 - 235,3 – 7,8 40 - 45 2,6·10−10 2302,3 16 - 23·10−5 40 - 50 – 1016 18 - 28 2,25 - 2,35 2,25 - 2,35 0,0005 0,0005 135 - 160 9,8 - 17,6 9,8 - 24,5 50 - 500 166,7 - 372,7 323,6 - 480,5 0,2 - 3,9 50 - 70 – 2302,3 – 50 - 65 60 - 75 1016 20 - 28 2,25 - 2,35 2,25 - 2,35 0,0005 0,0005 200 - 235 21,6 - 29,4 21,6 - 37,2 10 - 100 539,4 - 1029,7 98,1 - 117,7 0,7 - 6,4 60 - 70 3,6 - 4·10−10 2302,3 11 - 13·10−5 60 - 80 70 - 85 1015 - 1016 20 - 40 2,25 - 2,35 2,25 - 2,35 0,0005 0,0005 – Come si nota dalla Tabella 4.4, molte proprietà, in particolare quelle meccaniche, sono largamente influenzate dalla cristallinità, cosicchè è possibile ottenere, attraverso un controllo della densità, prodotti con caratteristiche meccaniche ampiamente variabili da relativamente duri e rigidi a flessibili e tenaci (Figura 4.16). Facendo variare i tre parametri fondamentali (densità, grado e distribuzione dei pesi molecolari) si hanno profonde variazioni soprattutto nelle proprietà meccaniche. Il PE, con il tempo, mostra segni di invecchiamento e di infragilimento dovuti a degradazione, reticolazione e modificazione della struttura chimica della catena principale e delle ramificazioni, che si traducono anche in un peggioramento delle caratteristiche elettriche. La degradazione viene considerevolmente accelerata dalle radiazioni solari (raggi ultravioletti). Per limitare i danni di cui sopra vengono aggiunti stabilizzanti, tra i quali particolarmente efficace è il nerofumo. Le lavorazioni e gli impieghi Tutti i vari tipi di PE (sia a bassa che a media e ad alta densità) possono essere stampati od estrusi in un grande varietà di prodotti di largo consumo. Tale ampiezza di applicazioni è dovuta principalmente alle proprietà fisiche e chimiche del polimero, alla sua facilità di lavorazione, alla possibilità illimitata di colorabilità (con pigmenti) ad al suo prezzo relativamente basso. Il PE non è compatibile con plastificanti, ma le sue proprietà possono essere fortemente modificate per miscelazione con vari altri polimeri (polipropilene, gomma bu84 4.5. I polimeri utilizzati per le impermeabilizzazioni sui ponti stradali Figura 4.16.: Diagramma sforzo-allugamento di polietileni [38]. tile, gomme termoplastiche stirolo-butadiene-stirolo, copolimeri etilene-acetato di vinile). Tra le varie tipologie di applicazioni (film per imballaggi, isolante per cavi coassiali, rivestimento per cavi, adesivi, svariati impieghi nell’industria chimica, fibre), il PE è largamente impiegato nell’ingegneria civile per pavimentazioni e per la impermeabilizzazione di terrazze e di laghi artificiali. Il PE viene utilizzato anche per produrre contenitori e tubi per l’acqua fredda. I tubi in PE presentano una perfetta resistenza alla corrosione, non subiscono rotture per il gelo, sono facili da installare e possono essere avvolti per il trasporto. 4.5.2. Il polimetilmetacrilato e altre resine acriliche Il polimetilmetacrilato (PMMA) è un polimero termoplastico ottenuto mediante la polimerizzazione del metacrilato di metile. Il monomero Il metacrilato di metile è un liquido incolore, trasparente, di odore penetrante, solubile in molti solventi organici, leggermente solubile in acqua, infiammabile, moderatamente tossico. Deve essere conservato in presenza di inibitori a meno che non debba trovare impiego immediato, oppure va mantenuto a temeprature inferiori a 10 ℃; usualmente viene inibito con idrochinone o con l’etere metilico dell’idrochinone. Si conserva e si trasporta anidro in recipienti di acciaio al carbonio. Le principali caratteristiche del metracrilato di metile sono riportate nella Tabella 4.5. 85 Capitolo 4. I materiali Tabella 4.5.: Proprietà del metacrilato di metile. Proprietà Valore Temperatura di ebollizione [℃, a 760 mmHg] Densità (a 25 ℃) [g/cm3 ] Indice di rifrazione (a 25 ℃) [℃] Limiti di esplosività con aria [% in volume] 100 - 101 0,939 1,41 2 - 12 Il metacrilato di metile può essere preparato fondamentalmente attraverso due vie: dalla acetoncianidrina e per ossidazione dell’isobutilene. Il primo processo si basa sulla disidratazione e successiva saponificazione ed esterificazione del prodotto di partenza, attraverso le seguenti reazioni: CH3 CH3 CN −H2 O C OH C CN saponificazione CH2 CH3 CH3 C CH3 COOH +CH3 OH CH2 C COOCH3 CH2 Il secondo processo si svolge secondo le reazioni: CH3 CH2 C ossidazione CH3 CH2 CH3 C COOCH CH3 +CH3 OH C COOCH3 CH2 La polimerizzazione Il PMMA può essere ottenuto mediante processi radicalici o anionici, ma i processi industrialmente importanti sono quelli radicalici. La polimerizzazione 86 4.5. I polimeri utilizzati per le impermeabilizzazioni sui ponti stradali può essere condotta in fase omogenea (in blocco o in soluzione) oppure in mezzo eterogeneo (sospensione, emulsione) in presenza di iniziatori costituiti da perossidi o idroperossidi. La polimerizzazione in massa è particolarmente impotante per l’ottenimento di polimeri in forma di lastre o di fogli. Nella polimerizzazione in soluzione si ottengono polimeri di basso peso molecolare adatti per rivestimenti, lacche, adesivi. Nei processi in sospensione il polimero in perle viene separato dalla fase acquosa per filtrazione, lavorato assieme a vari additivi e quindi macinato; si ottengono così polveri da stampaggio. I polimeri in emulsione vengono preparati in presenza di quantità relativamente grandi (1% - 5 %) di tensioattivi nonionici o anionici. Le caratteristiche e le proprietà Il polimero è amorfo, relativamente duro, con temperatura di transizione dallo stato vetroso di circa 100 ℃. Le sue proprietà, per bassi pesi molecolari, sono fortemente influenzate dal peso molecolare: in particolare, la temperatura di transizione vetrosa, quella di infragilimento, il punto di rammollimento e la durezza crescono rapidamente quando si passa da pesi molecolari molto bassi fino a un grado di polimerizzazione attorno a 100, mentre rimangono praticamente costanti quando si supera tale valore. Il PMMA resiste abbastanza bene a molti reagenti inorganici in soluzione acquosa, compresi gli alcali e gli acidi diluiti. Le proprietà peculiari di questo polimero sono l’elevata trasparenza e la mancanza di colore; tali proprietà, assieme ad una buona resistenza agli agenti atmosferici e alla stabilità alla luce ed al colore, lo collocano in una posizione di rilievo tra i polimeri sintetici. La resistenza a trazione è abbastanza buona (attorno a 700 kg/cm2 ), la resilienza è confrontabile con quella dei copolimeri dello stirolo e nei film può essere notevolemente migliorata, assieme all’allungamento percentuale a rottura, mediante stiro biassiale a caldo. Le proprietà dielettriche del PMMA sono buone: elevata resistività di superficie, elevata resistenza all’arco ed un fattore di dissipazione che decresce con l’aumentare della frequenza. Tali caratteristiche, assieme all’ottimo comportamento nei confronti degli agenti atmosferici, rendono il polimero adatto per applicazioni elettriche per esterni. Dato il carattere polare delle macromolecole, la costante dielettrica del PMMA a 60 Hz è relativamente alta, ma decresce sensibilimente con l’aumentare della frequenza. Alcune proprietà non decisamente favorevoli del PMMA, quali la durezza superficiale, la resistenza alla scalfittura e all’abrasione, possono essere migliorate mediante opportune copolimerizzazioni oppure mediante deposizione di un polimero reticolato su lastre di PMMA, ma ne escludono alcune applicazioni in sostituzione del vetro o del cristallo. 87 Capitolo 4. I materiali La lavorazione e gli impieghi Il PMMA può essere lavorato con tutte le tecniche impiegate con i termoplastici. Le diverse tipologie vengono differenziate sulla base della diversa temperatura di distorsione: il tipo più duro è praticamente PMMA puro, mentre quelli più soffici possono contenere piccole quantità di vari monomeri acrilici sotto forma di copolimeri. Il PMMA trova impiego in tutti i settori (pubblicità, articoli casalinghi, medicina e chirurgia, ecc.). Nel campo dell’ingegneria civile si trovano soprattutto lastre piane (tettoie, pavimenti, pannelli decorativi, ecc.). Altri polimeri della serie acrilica Oltre al PMMA vi sono molti altri polimeri della serie acrilica che rivestono importanza notevole. Tra questi vi sono i poliacrilati di metile, di etile e di butile ed i polimeri degli acidi acrilico e metacrilico. Quasi tutti trovano impiego, per le loro caratteristiche, nell’industria della carta e delle vernici o della lavorazione del cuoio e delle pelli. 4.5.3. Le resine poliestere e le resine alchidiche Le resine poliestere sono prodotti ottenuti per policondensazione di acidi polibasici e alcoli polivalenti. Essi si possono suddividere in poliesteri e poliesteri insaturi. Poliesteri saturi Si ottengono generalmente per reazione di un alcole bivalente (alifatico o aromatico) con un acido bicarbossilico (alifatico o aromatico). Si tratta di polimeri termoplastici che mostrano di solito la tendenza a cristallizzare e, grazie alla presenza di numerosi gruppi polari, si prestano all’ottenimento di film e di fibre dotate di elevata tenacità. Tra i prodotti più importanti appartenenti a questa categoria è il "polietilentereftalato" (PETF), ottenuto dalla reazione di gliocle etilenico con acido tereftalico, che è la materia base per la preparazione di importantissime fibre sintetiche. Poliesteri insaturi Si preparano facendo reagire un alcole bivalente con un acido bicarbossilico insaturo; dalla reazione si ottengono polimeri lineari (resina primari), contenenti doppi legami nella catena principale. La resian primaria, generalmente liquida a temperatura ambiente, può essere trasformata in un polimero solido tridimensionalmente facendola reagire 88 4.5. I polimeri utilizzati per le impermeabilizzazioni sui ponti stradali con monomeri vinilici per riscaldamento oppuer a temperatura ambient eper aggiunta di un catalizzatore. L’indurimento avviene con sviluppo di calore, ma senza svolgimento di prodotti secondari. Per evitare reticolazioni troppofitte è necessario mantenere distanziati i doppi legamipresenti nelle catene lineari della resina primaria (ciò viene ottenuto impiegando un alcole a lunga catena oppure sostituendo parte dell’acido insaturo con acidi carbossilici saturi). Le sostanze di partenza comunemente adoperate sono: anidride maleica, acido fumarico, acido ftalico, acido adipico, glicoli etilenico, glicoli propilenico, stirolo, metacrilato di metile, acrilato di etile, ecc. Gli acidi e gli alcoli vengono miscelati in una vasca di polimerizzazione e fatti reagire a 160℃ - 200℃, in atmosfera di gas inerte fino ad ottenere un prodotto a peso molecolare compreso tra 1000 e 5000, cui corrispondono appunto materiali liquidi a temperatura ambiente. Dopo il raffreddamento si aggiunge il monomero di reticolazione, si aggiusta opportunamente la viscosità a valori adatti alla colata e si procede alla formatura del pezzo. L’indurimento viene iniziato per aggiunta di catalizzatori (generalmente perossidi) e viene controllato mediante l’aggiunta di acceleranti o di ritardanti. Caratteristiche, proprietà ed impieghi Le resine poliestere, una volta indurite, sono insolubili e infusibili. Dato l’elevato grado di reticolazione non presentano cristallinità. Le loro proprietà variano a seconda del tipo e del modo in cuii sono state indurite, tuttavia possono essere riassunte: buona trasparenza, elevato indice di rifrazione, alta stabilità dimensionale, caratteristiche meccaniche variabili entro limiti molto ampi in relazione con la natura dei reagenti impiegati (i glicoli aromatici, ad esempio, aumentano la durezza e la rigidità), buona resistenza agli acidi ed ai reagenti chimici (largamente influenzate dalla natura chimica dei reagenti), buona resistenza al calore (caratteristica che dipende essenzialmente dalla parte vinilica del polimero), ottima resistenza agli idrocarburi, agli oli minerali e agli oli vegetali. Molto importanti sono le resine poliestere rinforzate con fibre di vetro che vengono usate per imbarcazioni, autovetture, carrozzerie di autoveicoli, sedie, articoli sportivi, adesivi strutturali, ecc. La bassa viscosità della resna primaria, esaltata dalla solubilità nella medesima del monomero di reticolazione, consente una facile miscelazione con svariate cariche, rinforzanti, additivi polimerici e modificanti vari. Resine alchidiche Le resine alchidiche sono prodotti per condensazione di acidi polibasici con alcoli poliossidrilici dei quali almeno uno (l’acido o l’alcole) ha un numero di 89 Capitolo 4. I materiali gruppi reattivi (carbossili od ossidrili) maggiore di due; il prodotto di reazione assume perciò struttura reticolata. Le resine alchidiche sono fragili, insolibili, infusibili, poco compatibili con altri plastomeri e, per questa ragione, trovano impiego limitato. Molto importanti sono le resine alchidiche modificate: la modificazioen consiste nella sostituzione di una parte di equivalenti di acido policarbossilico con una eguale parte equivalente di un acido grasso superiore saturo o insaturo o con colofonia. Questi polimeri sono solubili e compatibili con varie sostanze filmogene. 4.5.4. Le resine epossidiche Le resine epossidiche, dette anche etossiliniche, sono fondamentalmente dei polieteri, ma vengono designate con tale nome in base alla natura delle sostanze di partenza e alla presenza di gruppi epossidici prima dell’indurimento. La preparazione La preparazione di queste resine si svolge attraverso due fasi: nella prima si ottengono polimeri lineari (resine primarie), i quali poi si trasformano, al momento dell’impiego, in resine a reticolo tridimensionale infusibili per aggiunta di catalizzatori o di opportuni indurenti. Le più importanti resine epossidiche in commercio vengono preparate per reazione del bisfenolo A con alfa-epicloridrina in eccesso. Questi vengono fatti reagire in ambiente alcalino, a temperatura moderatamente elevata, per dare prodotti di peso molecolare piuttosto basso (900 - 3000), i quali, avendo impiegato un eccesso di epicloridrina, mostrano gruppi funzionali epossidici all’estremità delle catene, come quelli rafigurati qui di seguito: O CH2 CH Per la preparazione dell’alfa-epicloridrina si parte dal propilene. Questo viene sottoposto a clorurazione in fase vapore ad alta temperatura per dare cloruro di allile, il quale, per trattamento con acido ipocloroso viene convertito in una miscela di dicloridrine. Le dicloridrine per saponificazione danno epicloridrina, che può essere convertita nella forma alfa per trattamento con acqua. CH2 CHCH3 + Cl2 CH2 CHCH2 Cl + HClO CH2 2CH2 OHCHClCH2 Cl + Ca(OH)2 90 CHCH2 Cl + HCl CH2 OHCHClCH2 Cl 4.5. I polimeri utilizzati per le impermeabilizzazioni sui ponti stradali O CH2 CH CH2 Cl + CaCl2 . 2H2 O Le resine epossidiche primarie (che possono essere liquide oppure solide a seconda del peso molecolare) tramite i gruppi epossidici possono reagire con diammine, anidridi di acidi ciclici, acidi bicarbossilici, isocianati; mediante i gruppi ossidrilici reagiscono invece con le resine fenoliche, ureiche, melamminiche, ancora ai primi stadi della polimerizzazione, quando posseggono ancora gruppi metilolici reattivi. Da tutte queste reazioni si originano strutture reticolate, per cui le resine primarie, termoplatiche o liquide, vengono trasformate in prodotti insolubili e infusibili. La reticolazione può essere prodotta anche mediante aggiunta di catalizzatori (ammine, diammine terziarie, idrossidi alcalini fluoruro di bor, acidi solfonici, acido fosforico), che hanno il potere di attivare, tramite la formazione di composti ionici intermedi, i gruppi epossidici terminali, che reagiscono poi tra di loro o con i gruppi ossidrilici. In pratica si possono usare varie formulazioni: alcune ad un solo componente possono contenere un agente di cura latente e si possono conservare per periodi relativamente lunghi a temperatura ambiente, oppure agenti di cura energici per cui vanno conservate a bassa temperatura; oltre a due o più componenti, che venogno miscelati al momento dell’uso. Per certe applicazioni, le formulazioni sono molto complesse e contengono fino a 6 componenti. Le caratteristiche e gli impieghi Le resine epossidiche sono caratterizzate da un’elevata resistenza all’acqua, ai vari solventi, agli acidi, agli alcali e amolti reattivi chimici. La presenza di legami trasversali, assieme alla particolare struttura chimica, asicura resistenza al calore, mentre l’elevata distanza tra i gruppi reattivi conferisce al materiale una certa flessibilità, buona resistenza agli sbalzi termici ed infine la presenza di numerosi gruppi polari lungo la catena favorisce l’adesione. Quest’ultima caratteristica, vantaggiosa in numerose applicazioni, crea problemi nell’estrazione dalle forme. Un’altra proprietà vantaggiosa dal punto di vista tecnologico è che durante l’indurimento di queste resine non si liberano prodotti secondari; inoltre il ritiro è molto modesto. Le resine epossidiche vengono usate principalmente come materiali per rivestimenti superficiali protettivi, in quanto presentano elevata tenacità, flessibilità, adesione e resistenza chimica. La loro applicazione, tuttavia, richiede operazioni molto delicate, talvolta con l’impiego di riempitivi di rinforzo molto sofisticati, che devono essere generalmente compiute da personale specializzato. Le stesse resine possono essere impiegate come prodotti da stampaggio o 91 Capitolo 4. I materiali da laminazione, eventualmente rinforzati con fibre di vetro; tali prodotti sono superiori rispetto a quelli ottenuti con resine poliestere, resine fenoliche o siliconiche, ma vengono raramente impiegati dato il costo eccessivo. Le ottime proprietà elettriche delle resine epossidiche (soprattutto elevata resistenza di isolamento, bassa perdita dielettrica ed alta resistenza all’arco) ne consigliano l’uso per applicazioni su elementi usati per trasmettere la corrente elettrica, come isolanti. Ma il campo di impiego più importante delle resine epossidiche è quello degli adesivi; gli adesivi preparati con queste resine resistono infatti al calore, agli agenti chimici, alle intemperie, alle sollecitazioni meccaniche (statiche e dinamiche), alla fatica, all’invecchiamento e possono servire tra l’altro per giunzioni metalliche, addirittura in sostituzione delle chiodature in costruzioni di ferro o in leghe leggere anche di grosse proporzioni (ad esempio le costruzioni aeronautiche). Le resine epossidiche sono scarsamente infiammabili o addirittura autoestinguenti; possono inoltre essere rese incombustibili facendo uso di agenti di reticolazione alogenati. 4.5.5. I poliuretani I pliuretani sono composti macromolecolari ottenuti per poliaddizione di isocianati polifunzionali con composti vari contenenti nella loro molecola atomi di idrogeno reattivi. I prodotti di importanza industriale si ottengono generalmente dalla reazione tra isocianati polifunzionali ed alcoli polivalenti, oppure con idrossicomposti di- o polifunzionali, come pliesteri e polieteri che presentino gruppi terminali ossidrilici. La struttura di un poliuretano che si forma da un composto biidrossilico (HO-R-OH) con un diisocianato (OCN-R’-NCO) corrisponde alla formula: è é ′ R O C NH R NH C O n O O La numerosa famiglia dei poliuretani può essere suddivisa in due classi nettamente distinte, l’una comprendente i polimeri lineari, l’altra comprendente, invece, quelli a struttura reticolata. Nei poliuretani a catena lineare è dunque preiodicamente presente il gruppo è é C NH O che caratterizza anche l’importante categoria di materie plastiche delle resine poliammidiche, con le quali i poliuretani lineari hanno in comune molte 92 4.5. I polimeri utilizzati per le impermeabilizzazioni sui ponti stradali caratteristiche fisiche e tra l’altro la proprietà di poter essere trasformati in fibre sintetiche mediante filatura allo stato fuso. Tra i vari poliuretani a struttura reticolata mostrano particolare importanza, oltre a quelli ottenuti per reazione di un isocianato polifunzionale con un alcole polossidrilico, quelli ottenuti per reazione di un di- o poliisocianato ( o una loro miscela) con polieteri, poliesteri e resine alchidiche contenenti un numero più o meno grande di ossidrili residui. A parità di tipo di isocianato impiegato, il grado di reticolazione, e quindi la rigidità della resina finale, dipende dal numero di gruppi ossidrilici presenti impiegando resine alchidiche si ottengono poliuretani con reticolazioni piuttosto distanziate e quindi meno rigidi. La preparazione La preparazione delle varie resine poliuretaniche a struttura reticolata dipende dalla natura delle sostanze di partenza: alcune si ottengono per reazione a freddo, altre ad alta temperatura e altre ancora tramite l’impiego di catalizzatori. I poliuretani a catena lineare, che sono termoplastici, vengono venduti sottoforma di granuli di resina principalmente per lo stampaggio; i poliuretani a struttura reticolata (di natura termoindurente) si preparano all’atto dell’utilizzo, per reazione di un isocianato polifunzionale con il prodotto complementare desiderato. Le caratteristiche e le proprietà Le proprietà fisiche e le caratteristiche tecnologiche dei vari tipi di poliuretano dipendono dalla natura dell’isocianato e del prodotto complementare utilizzato. In generale, i poliuretani a catena lineare rammolliscono per riscaldamento e fondono in modo reversibile; mostrano bassa igroscopicità, buone caratteristiche meccaniche e ottime proprietà dielettriche e termiche. I poliuretani a struttura reticolata sono resine termoindurenti, ma si differenziano da queste perché il loro processo di formazione, mediante poliaddizione, non si può arrestare ad uno stadio intermedio ma prosegue direttamente, una volta iniziato, fino a completamento della reazione. Le caratteristiche sono: ottime proprietà elettriche, meccaniche e termiche, superiori a quelle delle resine fenoliche, ureiche e melamminiche (resine termoindurenti tradizionali). Esistono i poliuretani di tipo spugnoso (dette schiume poliuretaniche (a struttura reticolata) che possono avere consistenza rigida o elastica, a seconda della natura del prodotto di partenza. Con i poliuretani si possono, infine, ottenere anche prodotti speciali che mostrano caratteristiche in tutto simili a quelle della gomma elastica, ma che, 93 Capitolo 4. I materiali rispetto quest’ultima, posseggono superiore resistenza all’abrasione, all’invecchiamento, ai solventi ed al calore. La lavorazione e gli impieghi I poliuretani a struttura lineare si prestano a tutti i processi di lavorazione per le resine termoplastiche; mentre quelli a strutura reticolata vengono prodotti per miscelazione dei reagenti assieme ai vari ingredienti e fatti reagire nello stampo fino ad ottenimento del pesso desiderato. Bisogna tenere presente che, data la tossicità degli isocianati, la manipolazione dei poliuretani deve essere attuata con adatte misure precauzionali. I diversi tipi di poliuretani trovano applicazioni vastissime in tutti i settori interessati alla utilizzazione dei polimeri ad alto peso molecolare, non solo come materie plastiche vere e proprie, ma come colle, mastici, vernici, elastomeri e fibre sintetiche. 4.6. Il conglomerato bituminoso Il conglomerato bituminoso14 è costituito da una miscela di aggregati di diversa granulometria e dal bitume (il legante). L’unione di bitume e della parte più fine dell’aggreato diventa un mastice, che lega assieme gli aggregati più grossi. Il conglomerato bituminoso acquista la sue proprietà principali dal legante, il bitume, e quindi è un materiale visco-elasto-plastico. Gli aggregati sono chiamati a dare il loro contributo con la loro durezza e tenacità creando uno scheletro litico che sostenga e sopporti le sollecitazioni sulla pavimentazione. I fattori che influenzano le proprietà del conglomerato bituminoso sono molteplici. La quantità di legante è una dei principali fattori: questa deve risultare tale da poter avvolgere tutti i grani litici con una pellicola di legante di opportuno spessore. Per gli strati superficiali si richiede un’ossatura litica più compatta, cioè ad elevata densità, e impermebile. Nel caso in cui si ottenga una miscela a bassa densità è necessario ricorrere ad una quantità maggiore di legante rispetto a quella strettamente necessaria per rivestire i granuli con pellicole sottili. Aumentando, però, lo spessore delle pellicole di legante si riduce la resistenza meccanica alla deformazione per trazione o per compressione e, di conseguenza, si riducono le proprietà elasto-plastiche del conglomerato. Se la granulometria degli inerti è studiata correttamente, il volume dei vuoti residui, dopo idoneo costipamento, può essere inferiore al 4% - 5% del volume 14 Parte 94 di questo paragrafo è stata tratta da [10]. 4.6. Il conglomerato bituminoso del conglomerato (porosità). Questo fattore determina la flessibilità e l’elasticità del manto stradale. Infatti, dopo i costipamento, il conglomerato non deve presentare molti vuoti, altrimenti, a causa del traffico, si avrebbero, fra i vari elementi, movimenti relativi che potrebbero, alla fine, condurre a condizioni di instabilità pregiudizievoli. Soltanto nei conglomerati ricchi di filler (maggiore del 6%) si arriva a percentuali dei vuoti del 2% - 3%. Partendo dal presupposto che in un conglomerato bituminoso il legante deve essere sufficiente almeno da avvolgere con una sottile pellicola tutte le superfici del supporto litico, è logico che la percentuale di bitume deve risultare funzione della granulometria degli inerti. Inoltre, più le pellicole sono sottili più il conglomerato risulta rigido e resistente meccanicamente, ma se si vuole dare al materiale una certa elasticità è necessario mantenere lo spessore delle pellicole al di sopra di un certo limite. Secondo alcuni enti la percentuale di bitume da adottare deve essere scelta in funzione della percentuale di vuoti residui relativa alla miscela di soli inerti (dopo costipamento). Altro criterio consiste nell’assegnare la quantità di bitume in rapporto alla superficie degli inerti (per dato volume apparente) che compongono la miscela. Alcuni studiosi hanno messo in evidenza che lo spessore della pellicola di legante varia in funzione delle dimensioni del grano medio di inerte e quindi della superficie specifica. In base alla superficie specifica di una miscela di inerti si calcola il dosaggio di legante (a seconda del tipo di conglomerato che si desidera ottenere. La percentuale di legante che si ottiene, di solito è riferita in peso, rispetto al materiale litico (filler compreso), considerato pari a 100. Le caratteristiche del conglomeraot bituminoso, come già accennato, dipendono dal tipo di legante utilizzato e dal tip di inerte inserito nella miscela. Le principali caratteristiche che un conglomerato bituminoso possiede sono: l’elasticità, la compattezza, la resistenza a deformazioni permanenti, la pemeabilità, l’aderenza (coefficiente di aderenza) e la resistenza a fatica. L’elasticità, misurata tramite il modulo di rigidezza, consente di comprendere quali siano le prestazioni in opera del materiale. Il modulo di rigidezza dipende dalla temperatura e dalla frequenza con cui è applicato il carico, oltre che dall’entità del carico applicato. La compattezza dei conglomerati è funzione delle modalità seguite per la compattazione, in relazione alle quali varia il grado di addensamento. La compattezza si determina attraverso la misura della percentuale dei vuoti, cioè del rapporto tra il volume intergranulare non occupato dal bitume (vuoti residui) ed il volume totale del provino. Tale percentuale si chiama anche porosità del conglomerato. Ulteiriore parametro di interesse è l’indice dei vuoti, che rap- 95 Capitolo 4. I materiali presenta il rapporto percentuale tra il volume dei vuoti residui ed il volume dei soli inerti. La resistenza a deformazioni permanenti dipende dalle caratteristiche reologiche della miscela. Le elevate temperature superficiali raggiungibili nei mesi estivi (45 ℃ - 60 ℃) esaltano le deformazioni viscose dei manti stradali per cui, se la miscela non è stata studiata in modo opportuno (esubero di legante o bitume molto molle), il passaggio di carichi pesanti determina sulla pavimentazione le caratteristiche ormaie (Capitolo 5). La permeabilità delle miscele bituminose è rappresentata dall’attitudine di queste ad essere attraversate dall’acqua. Poichè il bitume è impermeabile e le pellicole di legante dovrebbero avvolgere completamente tutti gli aggregati lapidei, si può ritenere che un conglomerato di tipo aperto sia anch’esso impermeabile. Infatti, pur se il materiale presenta nella sua massa dei vuoti, questi saranno difficilmente in comunicazione tra loro. L’aderenza che offre la superficie della pavimentazione in conglomerato bituminoso deve essere sempre elevata. Poichè questa, come l’attrito, dipende dallo stato e dalla natura delle superfici a contatto è maggiore per le superfici regolari anzichè per quelle con scabrezza macroscopica. In particolare, essa è funzione della scabrezza specifica, cioè del numero di asperità per unità di superficie. In sostanza ciò che conferisce elevata aderenza alla pavimentazione è la resistenza all’usura dell’inerte, anche se di dimensioni molto piccole. Per questo motivo per i conglomerati bituminosi per strato di usura si richiedono inerti di elevata qualità (coefficiente L.A. ≤ 25). La resistenza a fatica è una caratteristica molto importante per i conglomerati bituminosi (soprattutto per quelli per strati superficiali). Le sollecitazioni cicliche solitamente vengono studiate impostando una frequenza di carico pari a 10 Hz e sottoponendo il campione a milioni di cicli di fatica. La resistenza a fatica è influenzata dalla quantità di bitume e dalla tipologia di inerte presente nel conglomerato. Esistono infine conglomerati bituminosi ad alte prestazioni in cui viene impiegato bitume di tipo modificato. In alternativa si usano additivi per modificare le caratteristiche e la performance del conglomerato bituminoso. L’impiego degli additivi infatti riguarda i conglomerati e non il bitume. I materiali utilizzati per le additivazioni sono: fillers inorganici, polverino di gomma vulcanizzata o additivi chimici. 4.7. Il calcestruzzo Il calcestruzzo15 è un conglomerato formato da cemento, acqua e aggrega15 Parte 96 di questo paragrafo è stata tratta da [12] e da [33] 4.7. Il calcestruzzo ti (ghiaia, pietrisco e sabbia). Il prodotto è un materiale monolitico, durro, mecanicamente durevole e durevole. Questo materiale, grazie al basso costo, alle sue ottime prestazioni, alla facilità di lavorazione e alla buona resistenza in condizioni ambientali aggressive, è uno dei più usati al mondo. In moltissime applicazioni il calcestruzzo viene rinforzato con armature in acciaio. In altri casi si utilizza il calcestruzzo armato precompresso: i ferri dell’armatura sono pre-tesi o post-tesi in modo tale che per effetto dell’aderenza che si sviluppa tra l’acciaio e il sistema cementizio si stabilisca uno stato di coazione consistente in una sollecitazione di trazione nell’armatura metallica e di compressione nel conglomerato cementizio. Gli aggregati utilizzati per il calcestruzzo, come nel caso del conglomerato bituminoso, vengono inizialmente suddivisi per classi granulometriche mediate setacciatura e quindi viene costruita la curva granulometrica della miscela che si vuole stendere. La granulometria degli aggregati infatti influenza la reistenza meccanica del conglomerato: la reistenza di un calcestruzzo prodotto con inerte ben assortito, a parità di lavorabilità e di dosaggio di cemento, è più alta di quella di un conglomerato prodotto con inerte scarsamente assortito, cioè formato da granuli di dimensioni pressochè eguali, poichè nel primo caso gli elementi più piccoli vanno a riempire i vuoti che si creano tra gli elementi più grossi. Per mantenere il più possibile costante l’assortimento granulometrico è preferibile, molte volte, combinare due o più inerti. Poichè nel calcestruzzo la pasta di cemento, come il bitume nel conglomeato bituminoso, va a riempire gli inerrstizi tra i granuli dell’inerte, per realizzare la massima compattezza del conglomerato con il minimo dosaggio di cemento occorre scegliere un aggregato che consenta di ottenere la minima presenza di vuoti interstiziali tra i suoi granuli. Altro elemento fondamentale per il calcestruzzo è l’acqua. L’acqua interviene in vari stadi della vita del calcestruzzo: assicura l’idratazione del cemento, conferisce al calcestruzzo frescouna lavorabilità e una plasticità tale da poter essere messo in opera. Tramite il rapporto tra acqua e cemento, determina le caratteristiche della pasta di cemento e quindi del calcestruzzo. La composizione dell’acqua infine è molto importante: le sostanze che si trovano in sospensione e i sali discolti (solfuri, cloruri e bicarbonato) intervengono nella presa del cemento, nella reologia del calcestruzzo fresco e possono inoltre provocare efflorescenze sul getto finito. Le sostanze argillose o le particelle di orgine organica possono interferire con il processo d’indurimento del calcestruzzo. Ulteriori elementi che possono essere inseriti nel calcestruzzo sono gli additivi. Essi vengono aggiunti per migliorare le proprietà del calcestruzzo. Gli additivi sono classificati in: acceleranti (fanno aumentare la velocità d’idratazione del cemento nel periodo della presa e di indurimento),ritardanti (riducono 97 Capitolo 4. I materiali la velocità di idratazione e aumentano i tempi di presa), fluidificanti (aumentano la lavorabilità a parità di rapporto tra acqua e cemento, oppure consento di ridurre l’acqua di impasto a parità di lavorabilità), superfluidificanti (come i fluidificanti agisce in modo da disperdere i granuli di cemento, che si trovano circondati dall’acqua, riducendo di più però il rapporto tra acqua e cemento) e aeranti (conferiscono al calcestruzzo resistenza ai cicli di gelo-disgelo). Parametro fondamentale per il calcestruzzo è la lavorabilità, che dipende da densità del calcestruzzo (vuoti), dal tipo di additivi aggiunti e dalla granulometria dell’aggregato. In alcuni casi il calcestruzzo fresco tende a segregare, cioè a separare i suoi costituenti:gli aggregati più grossi (oppure quelli a più alto peso specifico) tendono a portarsi sul fondo. In altri casi può accadere che in superficie affiori l’acqua (bleeding o essudazione. Durante la stagionatura si svolge il processo di idratazione che è inflienzato da: umidità e temperatura. Una volta indurito il calcestruzzo, il parametro fondamentale diventa la resistenza meccanica, che è influenzata da: rapporto traa acqua e cemento, tempo di stagionatura, tipo di cemento, tipo di inerte (la pasta cementizia aderisce meglio ad un aggregato spigoloso piuttosto che ad un aggregato tondo), compattazione del calcestruzzo, temperatura, umidità dell’aria. Il modulo elastico invece determina il legame tra la deformazione e la sollecitazione secondo la legge di Hooke. Il calcestruzzo, essendo un materiale eterogeneo, ha un modulo elastico che dipende dalle caratteristiche: degli aggregati, della pasta cementizia, della zona di transizione. Poichè l’inerte ha un modulo elastico maggiore di quello della pasta di cemento, il modulo elastico del calcestruzzo auimenta con il rapporto tra inerte e pasta di cemento. D’altra parte, un aggregato più rigido e una pasta di cemento più compatta, per il minore rapporto tra acqua e cemento, provocano un aumento del modulo elastico del calcestruzzo a parità di rapporto tra inerte e pasta di cemento. Infine il calcestruzzo può deformarsi lentamente e dulteriormente per l’applicazione di un carico costante (deformazione viscosa) o per una variazione dell’umidità relativa dell’ambiente (ritiro igrometrico). Il ritiro è tanto maggiore quanto più è porosa la pasta di cemento e quanto maggiore è il volume di pasta all’interno del conglomerato. La deformazion viscosa (scorrimento o creep o fluage) consiste nell’aumento di contrazione nel tempo, subito dopo la deformazione elastica, per l’applicazione al calcestruzzo di una sollecitazione di compressione costante nel tempo. 98 Capitolo 5. Meccanismi di danneggiamento Il problema principale che richiede lo studio dei meccanismi di danneggiamento delle pavimentazioni su impalcato da ponte è l’elevato numero di ponti sulla rete stradale. La necessità di garantire l’efficienza di tali strutture nel futuro è importante ed è necessario farlo compatibilmente con i criteri imposti dalle leggi e dai criteri dettati dall’esperienza e dalle politiche economiche ed aziendali. La sicurezza per gli utenti e l’efficienza sono conservate ottemperando ad una manutenzione costante nel tempo, tenendo conto dei vincoli (strutturali, economici, di interferenza con il traffico, ecc.) [3]. Questa manutenzione si basa però sullo studio della previsione del degrado, che in questa trattazione sarà ristretta ai soli impalcati da ponte e alle pavimentazioni. L’ambiente, a prescindere dall’attività umana, comporta naturalmente un’azione tendente a trasformare nel corso del tempo la struttura, la morfologia e la composizione chimica dei materiali. Con il termine "progettare", infatti, non si stabiliscono solo quali siano le caratteristiche meccaniche e funzionali che debba possedere una struttura, o i materiali che la compongono, ma anche la durata nel tempo e la sua manutenibilità. La durabilità di una struttura o di un materiale è definita dal D.M. 14/01/2008 come “conservazione delle caratteristiche fisiche e meccaniche dei materiali e delle strutture, proprietà essenziale affinché i livelli di sicurezza vengano mantenuti durante la vita dell’opera” [39]. La vita utile di un manufatto è il periodo temporale durante il quale la struttura è in grado di mantenere livelli prestazionali superiori o uguali ai limiti di accettazione definiti in sede di progetto, se utilizzata per gli scopi previsti, e se sottoposta ad una manutenzione di carattere ordinario. La durabilità di un’opera può essere intaccata dall’insorgere di fenomeni di degrado dei materiali che la compongono. Il degrado è un processo di modifica dei materiali costruttivi che comporta un peggioramento delle caratteristiche individuali; è uno stato patologico di tipo irreversibile ed è dovuto principalmente a fenomeni fisici e chimici. Per degrado fisico si intende un deterioramento del materiale causato da fattori esterni responsabili di esercitare sulle loro strutture un’azione di indebolimento per stress meccanico; per degrado chimico si intende un deterioramento del 99 Capitolo 5. Meccanismi di danneggiamento materiale causato da fattori esterni responsabili di alterarne negativamente la composizione. Per questi motivi, particolare attenzione riveste la scelta dei materiali da adottare nelle costruzioni, non solo per le resistenze meccaniche che possono offrire ma anche per la capacità di resistere all’attacco degli agenti ambientali aggressivi. Il degrado di un’opera può essere accentuato da una mancanza di corretta progettazione dell’intera struttura, di uno o più suoi elementi e della loro unione, dall’esecuzione dei lavori di costruzione che non ricalcano lo stato dell’arte e da una manutenzione scadente o inefficace. Sebbene le cause che portano al degrado dei materiali non siano molto numerose, la diagnosi del fenomeno può presentarsi molto complessa e di difficile soluzione poichè il deterioramento può essere imputabile ad un concorso di cause manifestatesi in tempi differenti. Infatti, alcune cause contribuiscono solo a promuovere il fenomeno (come ad esempio i carichi esterni o le dilatazioni termiche che inducono la formazione di fessure nel materiale), altre concorrono all’aggravamento in una fase successiva (come ad esempio la penetrazione di sali attraverso le fessure). 5.1. Il degrado subito dalla pavimentazione Lo studio dei meccanismi di danneggiamento dei ponti e delle pavimentazioni in primis [40] non può prescindere dalla conoscenza degli stati tensionali che si manifestano all’interno della pavimentazione a seguito dei carichi prodotti dal passaggio dei veicoli. Infatti la sovrastruttura stradale può essere schematizzata come una lastra orizzontale, poggiante sull’impalcato da ponte, sottoposta ad azioni verticali e orizzontali. I carichi verticali sono principalmente il peso dei veicoli in transito o in sosta sulla pavimentazione, mentre quelli orizzontali sono gli sforzi tangenziali trasmessi dalle ruote dei veicoli durante il movimento. La sovrastruttura stradale ha il compito di distribuire gli sforzi sul piano di posa sottostante: lo spessore della pavimentazione deve essere tale per cui le azioni trasmesse all’impalcato del ponte siano sufficientemente ridotte. Il peso scaricato dallo pneumatico sulla pavimentazione può essere schematizzato come una forza concentrata agente in direzione verticale e con orientamento verso il piano di posa. Le tensioni tangenziali si creano invece all’interfaccia tra gli strati. Per un fissato istante di rotolamento della ruota del veicolo, la pavimentazione può essere equiparata ad una trave doppiamente incastrata e le sollecitazioni sono possono essere equiparate ad un carico concentrato. In generale, al passaggio dei veicoli, gli strati superiori sono messi in trazione e quelli inferiori sono compressi. La pavimentazione è quindi sottoposta a tensione di trazione, compressione e di flessione. Questa distribuzione tensionale rappresenta solamente lo stato istantaneo indotto dal passaggio di uno singolo pneumatico supposto transitante ad una velocità costante. Le reali condizioni 100 5.1. Il degrado subito dalla pavimentazione sono notevolmente più complesse, in quanto concorrono a modificare lo stato tensionale diversi altri fattori: tensioni tangenziali trasmesse dalle accelerazioni e dalle decelerazioni dei veicoli, cicli di carico e scarico variabili con le velocità e con l’area occupata dal veicolo, l’azione della temperatura (variabile nel tempo), la disomogeneità del manto superficiale e del piano di posa, il differente tipo di materiale utilizzato per l’impalcato da ponte (l’acciaio infatti è maggiormente deformabile rispetto al calcestruzzo che è più rigido). I fenomeni fisici che portano al degrado di una pavimentazione stradale sono spesso dovuti a carenze meccanico-strutturale del pacchetto stradale e/o del piano di posa (come ad esempio lo spessore ridotto per gli strati che devono sopportare i carichi esterni o la scelta di aggregati per lo strato di usura che non presentano sufficiente resistenza all’abrasione). Parallelamente vi sono anche fenomeni chimici legati principalmente all’ambiente nel quale la pavimentazione si trova ad operare (come ad esempio il rammollimento del bitume ad alte temperature o l’invecchiamento del bitume a causa di un errato stoccaggio del materiale che rimane a contatto troppo a lungo con l’ossigeno). Le caratteristiche reologiche dei materiali costituenti la pavimentazione e l’azione continuata del passaggio dei veicoli fanno in modo che le deformazioni indotte dai carichi si accumulino e che la capacità della sovrastruttura di resistere nel tempo alle sollecitazioni si riduca fino al raggiungimento dei limiti di resistenza dei materiali stessi. La presenza contemporanea di più fenomeni su di una pavimentazione amplifica il degrado, rendendo difficile anche comprendere quanto influisca l’interazione dei fenomeni sull’amplificazione degli effetti. Il degrado delle pavimentazioni stradali si manifesta attraverso l’insorgere di fessure, avvallamenti, ormaie, buche e sgranamenti superficiali che determinano una perdita delle caratteristiche meccaniche e di funzionalità dell’opera. Nel seguito si riportano i principali fenomeni di degrado per una pavimentazione stradale. 5.1.1. Accumulo di deformazioni permanenti L’accumulo di deformazioni permanenti non recuperabili provoca un ammaloramento caratterizzato dalla formazione di ormaie. Le ormaie sono depressioni longitudinali sul piano viabile (visibili anche a occhio nudo) accompagnate da sollevamento ai lati di materiale. Le principali cause del fenomeno sono: • alta temperatura; • traffico (passaggio ripetuto soprattutto di veicoli). L’effetto che si verifica sulle strade interessate da questo fenomeno è principalmente la diminuzione della sicurezza per irregolarità della superficie e perché diventa luogo di accumulo di acqua (fenomeno dell’acquaplaning). 101 Capitolo 5. Meccanismi di danneggiamento L’ormaiamento è un fenomeno estramente pericoloso e irreversibile: è il risultato dell’accumulo di deformazioni permanenti a seguito del passaggio ripetuto dei mezzi pesanti con l’addensamento del materiale direttamente al di sotto e il refluimento di parte di esso ai lati del carico. Il fenomeno dell’ormaiamento può essere suddiviso in due fasi: Fase 1 : all’inizio delle vita di una strada il traffico produce un primo addensamento della miscela (chiusura dei vuoti tra gli inerti); Fase 2 : la deformazione verticale agendo sul mastice (l’unione di filler e bitume che tiene uniti gli inerti nel conglomerato bituminoso), che ad alte temperature rammollisce e non riesce a tenere uniti gli inerti, produce uno scorrimento del materiale all’interno degli strati (variazione di forma e non di volume). Tra le cause principali che possono dare luogo al fenomeno si annoverano: 1. deformazioni permanenti accumulate negli strati non legati a causa di tensioni ripetute troppo elevate negli strati superiori; • problema strutturale piuttosto che di qualità del conglomerato bituminoso (lo strato di conglomerato bituminoso è troppo sottile e quindi non sufficiente per ridurre le tensioni negli strati inferiori); • scarsa portanza del sottofondo con problemi di punzonamento (cedimenti del sottofondo). 2. deformazioni permanenti accumulate negli strati di conglomerato bituminoso: è un problema di qualità del conglomerato bituminoso perchè la miscela possiede una scarsa resistenza al taglio specialmente alle alte temperature (durante i mesi estivi). La resistenza al taglio delle miscele bituminose si può esprimere mediante l’equazione (5.1): τ = c + σ · tan ϕ (5.1) dove, τ è la tensione di taglio e dipende dai componenti della miscela bituminosa, c è la coesione e dipende dal bitume (poichè in questo caso è fornita principalmente dal bitume), ϕ è l’angolo di attrito interno e dipende dall’aggregato (Variando la scabrezza dei grani si alza o si abbassa ϕ). Le possibili precauzioni attuabili agendo sul legante sono: • utilizzare un bitume duro con valori di penetrazione molto bassi (20 - 30 0,1/mm) e alti valori di temperatura di rammollimento; • utilizzare bitumi con alte quantità di filler per "gelificare" il bitume; 102 5.1. Il degrado subito dalla pavimentazione • utilizzare bitumi modificati con polimeri, come ad esempio lo stirenebutadiene-stirene (SBS). Per incrementare la resistenza si interviene sull’aggregato, modificando la granulometria della miscela bituminosa, si può: • modificare la tessitura superficiale dell’inerte, utilizzando aggregati con superfici scabre perchè il bitume si "aggrappi" in modo migliore; • scegliere una diversa spigolosità e diverse caratteristiche di forma (aggregati spigolosi e poliedrici permettono al bitume di aderire meglio ai grani di inerte); • evitare di inserire nella miscela tanta parte fina e tanta parte grossa. Le prove per lo studio del fenomeno sono molte (prova Marshall, prova di creep statico, ecc.) e quelle utilizzate in questa sperimentazione verranno descritte nel Capitolo 8. 5.1.2. Fatica La fatica è un fenomeno di deterioramento del materiale composto da: • una variazione delle caratteristiche del materiale nel tempo; • l’azione del traffico; • condizioni ambientali (temperatura, gelo, ecc.). La fatica consiste nella rottura del materiale per sollecitazioni continue (soprattutto a causa del traffico) in un range di temperature da 20 ℃ a 0 ℃. Oltre la temperatura di 0 ℃ si ha il fenomeno del cracking. Il processo inizia con microfratture (della lunghezza di un capello) che per carichi continui e ripetuti si uniscono (fenomeno chiamato coalescenza) e si formano macrofratture. Le microfratture della pavimnetazione riducono la sezione reagente della pavimentazione, le sollecitazioni si concentrano e si innesca la frattura. A causa del continuo passsaggio dei veicoli la frattura si estende e si propaga, finché si fessura tutto il pacchetto. La rottura per affaticamento dei materiali è la principale causa del degrado delle pavimentazioni su impalcato di ponte e influenza anche la durabilità dell’impalcato in calcestruzzo (o in accciaio) del ponte [41]. La stesa di un nuovo strato di conglomerato bituminoso al di sopra della pavimentazione fessurata non è consigliato poiché le fessure si propagheranno al nuovo strato. Le soluzoni al problema sono due: scarificare il vecchio pacchetto costituiente la pavimentazione fessurata e stendere nuovamente una nuova pavimentazione; scarificare parte della vecchia pavimentazione fessurata, mettere 103 Capitolo 5. Meccanismi di danneggiamento Figura 5.1.: Il meccanismo di "bottom-up". una rete che impedisca ai conci fessurati di muoversi e quindi stendere gli strati rimanenti di conglomerato bituminoso al di sopra della rete. Il bitume si deteriora e invecchia a causa di: raggi ultravioletti, aria, gradienti termici, azione del gelo, agenti atmosferici, ecc. Esistono due meccanismi di fessurazione: "bottom-up" (Figura 5.1) e "topdown". Nella realtà si verificano entrambi i meccanismi e si ha una loro sovrapposizione. Il meccanismo denominato "bottom-up" (Figura 5.1) è basato sulla propagazione delle fessure dagli strati inferiori agli strati superiori. Lo schema di carico è costituito da una lastra infinitamente lunga su infiniti appoggi e il carico è costituito da una ruota appoggiata sullo strato superiore. Il carico comporta che negli strati superiori (strato di usura e di collegamento) ci siano tensioni di compressione, mentre negli strati inferiori (strato di base e di fondazione) ci siano tensioni di trazione. Il bitume si oppone alla tensione di trazione, ma dopo un certo numero di passaggi lo strato sottoposto a trazione si rompe e si innescano le fessure. Tali fessure si propagano poi agli strati superiori. Il meccanismo "top-down"interessa gi strati superficiali (lo strato di usura e di collegamento, cioé la superficie di rotolamento). Per le ipotesi alla base del continuo, comprimendo un concio si ottiene sui conci laterali una tensione di trazione. Ai lati del sentiero di rotolamento della ruota si verifica una rottura per trazione. La propagazione della fessura si ha dall’alto verso il basso (con un lento sviluppo). Le prove per lo studio della fatica sono molte (prova ciclica a flessione su due punti, prova ciclica a trazione indiretta, ecc.) e quelle utilizzate in questa sperimentazione verranno descritte nel Capitolo 8. Sulla pavimentazione, il risultato del danneggiamento per fatica sono la formazione di fessure "a ragnatela", che si presentano infatti nelle zone soggette ai carichi di traffico ripetuti. Queste fessure si originano sul fondo degli strati di conglomerato bituminoso (o della base), dove lo stato tenso-deformativo di trazione indotto dalle sollecitazioni è maggiore. Le fessure si propagano in superficie all’inizio parallele e longitudinali, poi interconnesse a formare aree 104 5.1. Il degrado subito dalla pavimentazione poliedriche ad angoli acuti. 5.1.3. Temperatura e cicli termici La temperatura influenza la risposta meccanica dei materiali utilizzati per la costruzione delle pavimentazioni stradali. Infatti la risposta del bitume, e quindi del conglomerato bituminoso, è dipendente dalla temperatura: alle alte temperature rammollisce e alle basse temperature si irrigidisce. Lo stress subito dal conglomerato durante le variazioni di temperatura e i cicli termici si concentra nei punti deboli della sua struttura portando la pavimentazione a fessurarsi. Il conglomerato bituminoso viene confezionato e prodotto in modo tale che il suo comportamento sia influenzato il meno possibile dall’escursione della temperatura durante la vita utile dell’opera. Si cerca infatti di utilizzare un bitume duro (con bassa classe di penetrazione) in climi caldi e viceversa nei climi freddi in modo da diminuire la dipendenza dalla temperatura. I conglomerati polimerici hanno, a seconda del tipo di polimero usato come legante, dei comportamenti diversi: uno è simile a quello del bitume, l’altro è di tipo "termoindurente", ovvero più la temperatura aumenta più il polimero usato come legante attiva la reticolazione interna che lo rende più rigido e resistente. Per i polimeri utilizzati in ambito stradale non è ancora chiaro quali siano i coefficienti di dilatazione termica che caratterizzano i leganti utilizzati. In questo studio sono stati determinati i coefficienti e sono stati confrontati con quelli del calcestruzzo per verificare un eventuale interferenza tra pavimentazione polimerica e soletta in calcestruzzo del ponte. Un differente coefficiente di dilatazione termica tra pavimentazione e soletta in calcestruzzo produce infatti delle tensioni di tipo tangenziale che portano alla fessurazione, nella maggior parte dei casi, della pavimentazione: i due materiali tendono a scorrere l’uno sull’altro e a "trascinarsi" dietro l’atro materiale. I cicli termici sollecitano ciclicamente la pavimentazione suscitando forze alternativamente opposte nel materiale e riducendo la resistenza della pavimentazione. Alle alte temperature, ad esempio, si può presentare il fenomeno dell’essudazione del bitume. Il fenomeno è causato dal surriscaldamento della superficie per irraggiamento solare: lo stato termico aumenta le caratteristiche viscose del materiale, favorendo dislocazioni interne. Nelle miscele con eccessivo contenuto di bitume o con scarsa presenza di vuoti, il bitume riempie i vuoti durante il periodo caldo espandendosi poi in superficie: il fenomeno è perciò irreversibile e progressivo nel tempo. Si forma quindi uno strato liscio e scivoloso. I cicli di gelo e disgelo possono invece favorire l’origine di rigonfiamenti e di fessurazioni di bordo. 105 Capitolo 5. Meccanismi di danneggiamento I rigonfiamenti sono caratterizzati da un graduale innalzamento della superficie stradale. Il fenomeno è causato dall’azione del gelo nel sottofondo; spesso si presenta con formazione di fessure: fessurazioni a blocchi e fessurazioni longitudinali e trasversali. Le prime, le fessure a blocchi, dividono la superficie della pavimentazione in forme approssimativamente rettangolari. Sono causate dal ritiro del conglomerato bituminoso dovuto alla variazione ciclica di temperatura. Manifestano un eccessivo indurimento del materiale superficiale e possono presentarsi anche su porzioni non trafficate. Le fessure longitudinali e trasversali sono causate da difetti di costruzione, da escursioni termiche giornaliere e dal ritiro del conglomerato bituminoso per le basse temperature. le fessurazioni possono presentarsi anche solo sul bordo della carreggiata, interessando la striscia della pavimentazione adiacente al ciglio. Queste sono causate da fenomeni di gelo nel sottofondo o nella fondazione vicino al bordo della pavimentazione. La propagazione della fessurazione di bordo è accelerata dal carico del traffico. 5.1.4. Altre tipologie di ammaloramento Fessurazioni da richiamo Le fessurazione di richiamo si presentano quando viene steso una nuova pavimentazione sopra ad una pavimentazione esistente fessurata oppure quando la pavimentazione viene stesa su una lastra in calcestruzzo. Queste fessure possono essere causate dai movimenti di apertura e chiusura dei giunti provocati dal ritiro termico delle lastre e dalla fessurazione del calcestruzzo o del conglomerato bituminoso presente nella parte inferiore della pavimentazione. Le variazioni termiche stagionali, generando dei movimenti ciclici di apertura e chiusura delle lesioni e dei giunti della lastra in calcestruzzo, provocano delle sollecitazioni di trazione negli strati bituminosi . I carichi di traffico inducono sollecitazioni di taglio in direzione verticale influenzando la diffusione orizzontale delle lesioni e conseguentemente provocando il distacco degli strati bituminosi da quello sottostante; tale distacco aumenta di conseguenza la velocità di risalita verticale delle fessure. Gli spostamenti laterali provocati da instabilità o da spinte trasversali alla direzione della stesa provocano sollecitazioni di taglio in direzione orizzontale che favoriscono la propagazione di queste fessure. Errata stesa della pavimentazione Durante la stesa e la compattazione della pavimentazione possono verificarsi errori o mancanze da parte della ditta esecutrice che portano a danneggiamen106 5.1. Il degrado subito dalla pavimentazione ti della pavimentazione dopo pochi mesi dall’apertura a traffico della strada aperta al traffico dopo i lavori. I principali danni possono essere: ondulazioni : sono una successione di avvallamenti e di innalzamenti lungo la superficie stradale ad intervalli regolari, perpendicolari alla direzione del traffico; depressioni : sono porzioni di pavimentazioni a quota leggermente più bassa rispetto a quelle circostanti che possono essere causate da un errato procedimento di costruzione; risalti e sacche : sono piccoli e localizzati innalzamenti della superficie che sono causati dall’instabilità della pavimentazione, dalla formazione di lenti di ghiaccio, dall’infiltrazione e crescita di materiale all’interno di fessure; scalinamento tra corsia e banchina : si presenta con uno sfalsamento altimetrico tra la quota della pavimentazione e la quota della banchina; il fenomeno è causato ad irregolari modalità di posa in opera dello strato superficiale; rappezzi : è una porzione di superficie che è stata rimossa e ricollocata con del nuovo materiale per riparare la pavimentazione esistente; viene considerato un difetto, non importante se ben collocato, perché la superficie rinnovata e quella originaria ad essa adiacente non recuperano le caratteristiche tecnico-funzionali di primo impianto. Problemi all’interfaccia tra gli strati della pavimentazione All’interfaccia tra gli strati della pavimentazione si possono avere numerosi problemi, poichè in questa zona si concentrano le tensioni tangenziali. Quindi si possono avere distacchi e scorrimenti di uno strato rispetto all’altro. Inoltre l’adesione tra due o più strati di conglomerato bituminoso in una pavimentazione può venire a mancare a causa di errata stesa o di infiltrazioni di materiali estranei (umidità o materiale presente sullo strato sottostante al momento della stesa dello strato superiore, ecc.). Si possono formare quindi buche, cioè depressioni della superficie stradale, che in genere hanno bordi netti e spigolosi. La formazione di buche è accelerata dalla presenza d’acqua che può ristagnare al loro interno. Questo tipo di danno si può formare quando, a causa del traffico veicolare, vengono asportate piccole porzioni di pavimentazione. uno strato o più della pavimentazione vengono asportati a causa della scarsa adesione. Una volta innescato il processo di formazione della buca, il continuo passaggio di veicoli (soprattutto pesanti) e il dilavamento provocano un continuo degrado della pavimentazione a causa 107 Capitolo 5. Meccanismi di danneggiamento dell’insufficiente protezione del manto stradale o a causa della presenza di punti deboli negli strati sottostanti o a causa di un eccessivo progredire di fessure a ragnatela. Si possono formare anche fessure da scorrimento che sono causate dallo scivolamento o dalle deformazioni tra due o più strati della pavimentazione a causa della scarsa adesione o di tensioni tangenziali elevate (che superano la resistenza prodotta all’interfaccia dagli strati). Di solito sono localizzate in punti singolrari di un tracciato stradale: in una curva stretta, in salita o in corrispondenza delle intersezioni. Lo slittamento si manifesta più facilmente anche in presenza di uno strato di usura sottile e scarsamente resistente alle azioni tangenziali. Altri tipi di danno Possono verificarsi altri tipi di ammaloramento in una pavimentazione stradale. Ad esempo, l’aggregato usato nel conglomerato bituminoso può non essere abbastanza duro e tenace da resistere all’abrasione dovuta dal passaggio delle ruote dei veicoli. in questo caso di verifica una levigatura dell’aggregato che rende l’aggregato liscio in superficie, diminuendo l’aderenza con gli pneumatici. Può anche accadere che, in seguito all’usura della superficie del manto stradale, gli aggregati si stacchino dalla pavimentazione. Questo fenomeno (scagliatura della superficie) indica una scarsa qualità della miscela e un indurimento della stessa. 5.2. Il degrado degli impalcati da ponte Nel presente paragrafo vengono presentati i possibili fenomeni che comportano il degrado delle solette dei ponti stradali. Le cause possono essere di tipo fisico (sollecitazioni meccaniche, forze trasmesse dal suolo, ecc.) oppure di tipo chimico (presenza di sali disgelanti, acque piovane ricche di sostanze chimicamente aggressive, ecc.). 5.2.1. Sollecitazioni esterne Le sollecitazioni esterne che insistono sull’impalcato dei ponti possono essere: quelle che vengono trasmesse dalla pavimentazione per effetto del passaggio del traffico stradale, quelle che vengono trasmesse dal terreno (e quindi dalle pile e dalle spalle all’impalcato, come ad esempio la forza a seguito di un terremoto), quelle che vengono trasmesse dalla sollecitazione proveniente dal vento e le sollecitazioni termiche (in misura minore quelle provenienti dal resto della struttura del ponte e in misura maggiore quelle provenienti dalla pavimentazione soprastante). 108 5.2. Il degrado degli impalcati da ponte Queste sollecitazioni hanno sull’impalcato lo stesso effetto fisico che hanno sulla pavimentazione stradale: in larga parte, la produzione di fessurazioni e, in secondo luogo, la perdita di adesione agli altri elementi della struttura. 5.2.2. Processi di trasporto nel calcestruzzo Il calcestruzzo è un materiale poroso costituito da un sistema di pori di varie dimensioni, tra loro connessi e comunicanti con la superficie. I pori sono pieni di aria, quando il materiale è asciutto, o di acqua, quando il materiale è bagnato. A causa della sua conformazione chimico-fisica il calcestruzzo subisce quindi un attacco da parte degli agenti aggressivi che può arrivare anche in profondità. Questi agenti tramite processi di diffusione, di permeazione, di assorbimento capillare e di trasporto penetrano in profondità nel materiale. Questi agenti chimici penetrando nel cacestruzzo producono reazioni chimiche con la pasta cementizia o con gli aggregati, spesso con aumento del volume occupato, e provocano fessurazioni, distacchi di parte del materiale di bordo e rigonfiamenti. L’attacco da parte dei cloruri L’attacco dei cloruri (sia di sodio che di calcio) contribuisce alla corrosione delle barre di armatura di acciaio e al danneggiamento del calcestruzzo. In particolare l’attacco del cloruro di calcio consiste in una reazione alcaliaggregati con aumento del volume e la conseguente formazione di fessure “a ragnatela” che conducono alla rottura definitiva in poco tempo. Generalmente si verifica quando si utilizzano inerti reattivi (come ad esempio la silice) che reagiscono con gli alcali, i quali sono sempre presenti nella pasta cementizia. L’attacco del cloruro di calcio coinvolge invece solo la pasta cementizia, disgregandola, e portando a fessurazione il calcestruzzo. L’attacco da parte dei solfati L’azione dei solfati, presenti nelle acque e nei terreni, provoca un consistente degrado della matrice cementizia del calcestruzzo. I solfati penetrando nel calcestruzzo possono reagire con i costituenti della matrice cementizia formando prodotti espansivi: ettringite e thaumasite. I rigonfiamenti da essi provocati partendo dagli spigoli delle strutture si propagano provocando fessurazioni, disgregazione e distacchi. La thamasite, favorita da condizioni termoigrometriche particolari (0 ℃ 10 ℃ e umidità relativa > 95%), provoca l’attacco più severo della matrice cementizia perché distrugge il CSH che costituisce l’elemento legante più significativo. 109 Capitolo 5. Meccanismi di danneggiamento Per opporsi all’attacco solfatico è necessario adottare un rapporto tra acqua e cemento tanto più basso quanto maggiore è il grado di aggressione, una bassa permeabilità della matrice cementizia rappresenta la migliore difesa contro questo tipo di attacco. L’attaco da parte dell’anidride carbonica L’attacco dell’anidride carbonica (CO2 ) può avvenire secondo due tipologie: il dilavamento e la carbonatazione. Il dilavamento si presenta in seguito al passaggio di acqua come una rimozione parziale della pasta cementizia superficiale. Il fenomeno è rilevante quando il calcestruzzo di trova a contatto con acque caratterizzate da bassa durezza o in caso di clima umido a contatto con l’atmosfera. Le acque provenienti da precipitazioni meteoriche o le acque ottenute da condensazione di nebbia o di vapore acqueo sono generalmente pure e non contengono, se non in misura ridotta, sali di calcio. A contatto con il calcestruzzo esse tendono a disciogliere la calce e i composti a base di calcio. Il fenomeno del dilavamento è fortemente influenzato dalla rapidità con cui si muove l’acqua sulla superficie, dalla tipologia di miscela del calcestruzzo e dalla porosità di quest’ultimo. La carbonatazione è un fenomeno dovuto alla diffusione dell’anidride carbonica attraverso i pori e le fessure presenti nel calcestruzzo ed è fortemente accentuato in zone ad alto inquinamento atmosferico. Le conseguenze a livello chimico della penetrazione dell’anidride carbonica sono la formazione di carbonato di calcio (CaCO3 ), il quale neutralizza la calce presente nel calcestruzzo abbassandone il pH a valori inferiori a 9 (solitamente il pH del calcestruzzo possiede valori interni al range 12,5-13,5). L’abbassamento del pH della pasta cementizia elimina le condizioni di passività delle barre di armatura di acciaio con conseguente possibilità di innesco dei fenomeni di corrosione secondo le modalità descritte in modo più esaustivo nel paragrafo successivo. 5.2.3. La corrosione dell’acciaio Nelle strutture in acciaio il processo di corrosione indica una lenta ma progressiva consumazione del materiale che ha come conseguenza la riduzione della sezione resistente e quindi un peggioramento delle caratteristiche meccaniche. Affinché venga innescato un processo corrosivo devono essere presenti contemporaneamente tre elementi: ferro, ossigeno e acqua. È evidente che la condizione peggiore per l’innesco e la propagazione della corrosione è quando la struttura è soggetta ad una situazione caratterizzata da asciutto-bagnato (o ad alti tenori di umidità) poichè favorisce, seppur in tempi diversi, sia l’ingresso dell’acqua che dell’ossigeno. 110 5.2. Il degrado degli impalcati da ponte La protezione dell’acciaio, al fine di evitarne la corrosione, può essere effettuata rivestendo l’acciaio stesso con uno strato di materiale non corrodibile. È il caso della verniciatura (o della zincatura). Tuttavia l’azione protettiva svanisce quando il film viene asportato (a causa di cicli termici, di urti, ecc.). In alternativa si realizzano degli acciai in cui viene aggiunto nella lega un elemento passivante come il cromo (in tenori superiori al 10,5%). Questi sono chiamati acciai Nichel-Cromo o, utilizzando una denominazione più comune, acciai "inox". La caratteristica di buona resistenza alla corrosione degli acciai è dovuta alla proprietà di queste leghe di passivarsi in un ambiente sufficientemente ossidante (per esempio l’aria) attraverso la modifica del loro strato superficiale. In queste condizioni l’acciaio risulta essere passivo1 . Nelle strutture in calcestruzzo armato il calcestruzzo risulta essere l’ambiente ideale per proteggere le barre d’armatura in acciaio dai fenomeni di corrosione non solo dal punto di vista fisico ma anche, e soprattutto, dal punto di vista chimico. Infatti, in seguito all’idratazione del cemento, la soluzione acquosa nei pori del calcestruzzo ha un carattere alcalino e il pH della soluzione dei pori non scende mai al di sotto di 13. A contatto con questa soluzione, l’acciaio genera una pellicola protettiva costituita da un film sottilissimo di ossido diventando passivo nei confronti della corrosione. Tuttavia il calcestruzzo può perdere nel tempo le sue caratteristiche protettive in quanto, essendo un materiale poroso, può trasportare agenti aggressivi verso gli strati più interni fino a giungere in prossimità delle barre d’armatura in acciaio. In questo modo il film di ossido che protegge l’acciaio viene distrutto e si creano le condizioni per l’innesco della corrosione. In linea generale queste condizioni possono verificarsi successivamente alla carbonatazione (l’anidride carbonica reagisce con i composti alcalini del calcestruzzo) o all’attacco da parte dei cloruri. Dopo che si siano verificate queste sondizioni possono seguire le due fasi di innesco e propagazione della corrosione dove devono essere presenti contemporaneamente ferro, ossigeno e acqua. La principale conseguenza strutturale della corrosione nelle strutture in calcestruzzo armato è la riduzione della sezione resistente delle barre di armatura d’acciaio con conseguente riduzione della resistenza complessiva della struttura. Altre conseguenze, non meno importanti sono: riduzione di aderenza tra armature e calcestruzzo fino ad arrivare alla perdita di ancoraggio, fessurazione del copriferro con distacchi della pasta cementizia e cedimenti improvvisi per corrosione sotto sforzo. 5.2.4. I sali disgelanti I sali disgelanti comunemente adottati per lo scioglimento del ghiaccio o 1 Un materiale metallico è passivo quando, pur essendo in grado termodinamicamente di corrodersi, la velocità di corrosione è talmente bassa da rendere trascurabili gli effetti della corrosione stessa. 111 Capitolo 5. Meccanismi di danneggiamento della neve sulla pavimentazione stradale (prevalentemente cloruro di sodio e di calcio) possono avere effetti anche sulla pasta cementizia e sull’acciaio. Per quanto riguarda la pasta cementizia, il contatto dei sali con il calcestruzzo comporta un repentino raffreddamento della pasta cementizia che provoca forti contrazioni e danneggiamenti del materiale, il quale si distacca a scaglie. Per quanto riguarda l’acciaio, invece, il contatto con i sali comporta un’azione di accelerazione del fenomeno di corrosione (ammesso che ci sia già un processo corrosivo in atto). 5.2.5. I cicli termici nel calcestruzzo I cicli termici hanno effetti negativi anche sul calcestruzzo. Infatti il congelamento dell’acqua che permea nel calcestruzzo comporta un aumento di volume che provoca la fessurazione e la rottura del calcestruzzo: per temperature inferiori a 0 ℃ il congelamento dell’acqua avviene con un incremento volumetrico di circa il 10%. Poiché il ghiaccio si forma in modo progressivo dalla superficie verso l’interno del calcestruzzo, l’acqua viene spinta dalle zone congelate verso le zone non congelate dove, se non sono presenti cavità in grado di assorbire l’espansione, si genera una pressione idraulica. La pressione è in grado di danneggiare la pasta cementizia disgregandola in modo progressivo. Fattori significativi di questo fenomeno risultano essere il numero di cicli termici a cui è sottoposta la struttura e la temperatura minima raggiunta. Il continuo ripetersi di cicli di gelo e disgelo può portare alla formazione di fessure lineari o reticolari, fino alla rottura completa della lastra di calcestruzzo (presenza di fessure sottili che tendono ad allargarsi con passo regolare, con maggiore frequenza in prossimità dei giunti), tramite la scagliatura della superficie (formazione di fessure capillari a ragnatela. 5.2.6. Altri tipi di ammaloramento Danni ai giunti I giunti nelle costruzioni in calcestruzzo sono la parte più debole. Infatti essi sono costruiti per concentrare la forze di dilatazione e contrazione del calcestruzzo. Si può avere il cedimento di giunti trasversali e una conseguente fessurazione del calcestruzzo a causa di cedimenti del piano di posa, di fenomeni di erosione sotto la lastra o della deformazione della lastra per variazioni termiche o di umidità. Il cedimento si manifesta con una differenza di quota tra i bordi della fessura o del giunto. Nel caso in cui, invece si verifichi un degrado della sigillatura del giunto, si può determinare l’infiltrazione di materiale estraneo incomprimibile o di acqua. La 112 5.2. Il degrado degli impalcati da ponte presenza di materiale può impedire il libero movimento del giunto per variazioni termiche e quindi può portare alla frantumazione dei bordi del giunto; l’acqua invece può penetrare e, se seguita da fenomeni di gelo e disgelo, può portare a coazioni interne e, successivamente alla scheggiatura dei giunti e degli angoli del giunto stesso. Ritiro Il ritiro del calcestruzzo può comportare fessurazioni che si formano durante la maturazione del calcestruzzo in condizioni di stagionatura non protetta. Queste fessure però non si estendono lungo l’intera lastra e non interessano tutto lo spessore. Punzonamento In presenza di punzonamento, sulla lastra si forma una superficie racchiusa da due fessure oblique, prossime tra loro ed una fessura longitudinale più corta. Il fenomeno si localizza generalmente al bordo della lastra in prossimità di un giunto longitudinale. Questo tipo di difetto è causato dai carichi pesanti ripetuti, da uno spessore inadeguato della lastra, dalla perdita di appoggio o da difetti costruttivi localizzati. Il punzonamento porta alla frantumazione della lastra. Pompaggio Il pompaggio è provocato dalla risalita dell’acqua attraverso una fessura o un giunto causata dalla deflessione della lastra al passaggio dei carichi. L’acqua può provenire da infiltrazioni, ma anche dal fondo della pavimentazione. Caratteristica peculiare del pompaggio è la presenza di materiale fino, depositato sulla superficie della lastra, proveniente dagli strati inferiori. Il gradiente di pressione provoca un violento spostamento dell’acqua che porta con sé la frazione fine. Il fenomeno del pompaggio è indice di perdita di contatto tra la lastra e il piano di posa. Nel caso di manifestazione vicino al giunto manifesta la scarsa qualità del sigillante. Ulteriori tipologie di danno Oltre ai danni sopra riportati si possono avere i "pop-outs", ovvero frammenti della pavimentazione staccati dalla superficie con formazione di crateri di diametro compreso tra 25 e 100 mm e profondità compresa tra 13 e 50 mm. Il fenomeno è causato dai cicli di gelo e disgelo. La struttura interessata infatti è a livello dei pori capillari nei quali l’acqua aumenta di volume per l’abbassarsi delle temperature. 113 Capitolo 6. Stato dell’arte 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti 6.1.1. Rivestimenti sottili in conglomerato polimerico: l’esperienza in Virginia L’articolo scritto da Sprinkel intende descrivere il successo ottenuto tra il 1980 e il 1984 con l’utilizzo di rivestimenti sottili in conglomerato polimerico sull’impalcato di ponti in Virginia [42]. Il rivestimento consiste in quattro strati di resina e di sabbia di silice (pulita, asciutta e con grani spigolosi) al di sopra dell’impalcato di calcestruzzo del ponte per uno spessore pari a 1,27 centimetri a formare uno strato di usura relativamente impermeabile e resistente allo slittamento. Solitamente, la resina viene spruzzata uniformemente al di sopra della soletta e, dopo la sua solidificazione (che avviene in 10 - 20 minuti), viene coperta per eccesso da aggregati fini. In un ora, tipicamente, lo strato si indurisce permettendo di togliere l’aggregato in eccesso così da preparare la superficie per la stesa del successivo strato. In Virginia servono circa dodici ore per stendere un rivestimento su una corsia di un ponte lungo 106,7 metri: dalle cinque alle otto ore per sabbiare e pulire la soletta del ponte e dalle cinque alle sei ore per applicare quattro strati di polimero (un ora per ciascuno strato, più un ora per l’indurimento prima dell’apertura della corsia al traffico). L’applicazione del rivestimento su sei ponti in Virginia tra il 1981 e il 1982 e su un settimo ponte in Tennesse nel 1983, ha dimostrato di avere delle buone caratteristiche fisiche (bassa permeabilità, alta resistenza allo slittamento ed eccellente adesione alla soletta), buona applicabilità, una minima intereferenza con il traffico e costi ragionevoli. Le caratteristiche delle resine di poliestere insaturo sono: trasparenti, a bassa viscosità, multiuso, altamente resilienti, resistenti all’usura e ai forti urti. Sono 115 Capitolo 6. Stato dell’arte stati usati inoltre due promotori per l’indurimento della resina. L’autore ha valutato la resistenza a taglio all’interfaccia tra lo strato di conglomerato polimerico e lo strato di calcestruzzo a 2 settimane (nel 1982) e a 47 settimane dall’applicazione del rivestimento (nel 1983) di due tipi di resine (A e B). Per entrambe le resine è stata notata una diminuzione nella resistenza nel 1983: la prima resina (A) ha subito un calo nella resistenza pari al 56% rispetto al valore ottenuto nel 1982, mentre la seconda resina (B) ha avuto una diminuzione pari al 25%. La perdita di resistenza a taglio dei rivestimenti è, secondo Sprinkel, da attribuire al "creep" e alle tensioni indotte dalle variazioni termiche che si verificano durante gli anni di servizio. Grazie all’ausilio di alcuni campioni costruiti in laboratorio e ad alcune prove eseguite nello stesso, l’autore ha analizzato il fenomeno appena descritto giungendo alle seguenti conclusioni: la resistenza a taglio all’interfaccia tra i due materiali diminuisce con l’aumentare del numero di cicli termici, un calcestruzzo più poroso sviluppa un adesione migliore con il rivestimento perché assorbe maggior quantità di resina, con un eccesso di aggregato sul rivestimento si ha una migliore performance dei campioni a resistenza a taglio perché le tensioni per variazioni termiche e per ritiro sono minori. In laboratoiro la resina B ha dimostrato di essere superiore per durata alla resina A. Sono state eseguite prove di trazione per testare l’adesione del rivestimento alla soletta in calcestruzzo, anche in questo caso, nel 1982, prima, e nel 1983, dopo. I campioni con resina A hanno avuto una diminuzione in media del 28% durante il primo anno di servizio, mentre quelli con la resina B non hanno evidenziato variazioni. Le prove sulla delaminazione dei rivestimenti hanno indicato alcuni problemi per quelli confezionati con la resina A e l’ottimo comportamento per quelli con la resina B. Un’ispezione ha portato a concludere che nelle aree in cui si era verificata una delaminazione vi era una porzione insufficiente di aggregato: un basso contenuto di aggregato comporta un incremento nel ritiro e nelle tensioni causate dalle variazioni termiche. Infatti le delaminazioni si sono avute in seguito al basso contenuto di aggregato durante il primo inverno del rivestimento con resina A. La resistività elettrica è stata testata dopo 2, 24 e 47 settimane dopo la stesa dei rivestimenti. Entrambe le resine avevano un eccellente resistività dopo 2 settimane. La resina A ha però avuto una diminuzione del valore di resistività dopo 24 e dopo 47 settimane, mentre la resina B ha mantenuto una buona reistività dopo 47 settimane. Un buon valore di resistività indica che non sono presenti fessure, mentre, al contrario, una bassa resitività presuppone la presenza di fessure nel rivestimento. La resina B è più flessibile della A, perciò è un materiale che meno si predispone ad essere fessurato a causa delle tensioni per creep, fessure di riflesso, variazioni di temepratura e ritiro. 116 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti Tabella 6.1.: Resistenza allo slittamento per i rivestimenti con resine A e B. Data 15/04/1982 03/06/1982 02/08/1982 19/0471983 Età (sett.) -3a 4 13 50 Battistrada ruvido Battistrada liscio Resina A Resina B Resina A Resina B 52 44b 53 58 51 57 55 56 39 36b 47 49 36 51 49 45 Misure effettuate tre settimane prima di applicare il rivestimento al calcestruzzo. b Misure effettuate sul conglomerato bituminoso steso sul ponte. a L’autore suggerisce che la resina A fessuri in misura maggiore della resina B a causa dell’alto ritiro di cui soffre. Campioni di resina senza aggregato hanno un ritiro pari a circa il 2%, mentre gli stessi campioni con aggregati (in rapporto ad un quantitativo unitario di resina gli aggregati sono quattro) hanno dimostrato di subire un ritiro pari a circa lo 0,2%. É evidente che la principale contromisura al ritiro sia inserire un quantitativo in eccesso di aggregato nella resina. Siccome la resina A non ha avuto un ritiro molto più elevato di quello avuto dalle altre resine, l’autore conclude che le fessure siano indotte dalle tensioni causate da ritiro poiché il materiale in questione è meno flessibile e quindi meno capace di deformarsi a seguito di tensioni. Sono state eseguite anche misurazioni delle ormaie e della resistenza a slittamento. L’autore ha valutato che le ormaie presenti sui ponti in analisi dopo un anno sono trascurabili. La resistenza allo slittamento è stata analizzata a 3 settimane prima della stesa dei rivestimenti e a 4, 13 e 50 settimane dopo l’applicazione dei rivestimenti. I risultati sono ripotati in Tabella 6.1. Il calcestruzzo dimostra un’alta resistenza a slittamento rispetto ai rivestimenti prima della loro posa. I rivestimenti con resina A hanno inizialmente un valore più basso di resistenza rispetto alla resina B, ma dopo 50 settimane il valore per entrambe le resine è molto simile, sia con battistrada in perfette condizioni che con battistrada liscio. L’autore ha eseguito inoltre alcune prove per misurare le proprietà a trazione delle resine (Tabella 6.2) secondo quanto riportato nella normativa ASTM D 638-80. É evidente che la resina A ha la più alta resistenza a trazione e il modulo di elasticità più alto, ma ha anche l’allungamento più basso. Poiché la resina A si allunga solo del 8,3 % è molto più predisposta alla fessurazione quando soggetta a ritiro, fessure di riflesso o tensioni dovute alle variazioni termiche, piuttosto che la resina B. La resina B invece ha un buon allungamento e fornisce perciò un rivestimento molto resistente e con bassa permeabilità. Le resine A e C sembano essere meno predisposte per la fessurazione rispetto 117 Capitolo 6. Stato dell’arte Tabella 6.2.: Proprietà delle resine a trazione. Resine A B C De Ef Fg RT [MPa]a All. [%]b E [MPa]c Media DSd Media DSd Media DSd 35,1 19,6 19,7 9,8 33,1 33,2 13,3 2,6 2,1 3,6 4,3 1,8 8,0 49,2 23,3 2,3 12,5 6,7 3,8 11,4 8,1 0,4 1,2 0,0 538,5 242,7 323,4 433,7 455,1 495,7 62,7 14,5 68,2 95,8 107,6 40,0 RT = Resistenza a trazione. All. = Allungamento a trazione. c E = Modulo di elasticità (calcolato a 0,05 micronstrain, tranne per al resina D). d DS = Deviazione Standard. e Resina di metil-metacrilato (MMA), composta da: 63% MMA e 37% PMMA. f Resina epossidica g Resina di metil-metacrilato (MMA). a b alle resine A, D, E ed F (si sono avute estese fessurazioni estese con le resine A e D). L’autore conclude che per minimizzare la formazione di fessure sul rivestimento, le resine devono avere un allungamento minimo pari al 20%. Le specifiche tecniche infatti richiedono un allungamento compreso tra il 20% e il 40%. Quando due materiali con differenti proprietà sono uniti tra loro e si verifica una variazione di temperatura nascono delle tensioni di taglio. L’entità di queste tensioni è funzione della variazione di temperatura, del coefficiente di espansione termica e del modulo elastico del materiale. Ci si aspetta che nascano fessure a taglio in prossimità dell’interfaccia se le tensioni a taglio eccedono la resistenza di entrambi i materiali. Il valore del modulo elastico per un rivestimento in resina poliestere senza aggregati (secondo il protocollo indicato nella normativa ASTM C 215-60) è 2757,9 MPa, mentre con aggregati levigati all’eccesso è 6894,7 MPa. Con la stessa quantità di aggregato applicata, valori del coefficiente di espansione termica per una resina poliestere sono 56 · 10−6 ℃-1 e 16 · 10−6 ℃-1 , rispettivamente. Il calcestruzzo Portland tipicamente usato in Virginia possiede un modulo di elasticità di circa 28957,9 MPa e un coefficiente di espansione termica di 5, 7 · 10−6 ℃-1 . Quando viene sparsa una piccola quantità di aggregato sul rivestimento (o non viene sparso nessun aggregato), la tensione di taglio supera la resistenza opposta sia dal legame all’interfaccia che dal calcestruzzo. Mentre, quando l’aggregato è posto in opera in misura eccedente, la tensione di taglio è circa 118 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti Tabella 6.3.: Proprietà della resina espossidica a base di polisulfide. Proprietà Viscosità [MPa · s] Densità (media) [g/mL] Pot life (a 21 ℃) [min] Contenuto solido [%] Resistenza alla trazione [MPa] Resistenza allo strappo ( su calcestruzzo) [MPa] Allungamento a trazione [%] Valore Norma utilizzata 1200 - 1600 1,1 15 - 30 100 12 - 18 > 1,7 Viscosimetro Brookfield ASTM C 905-96 AASHTO T 237 ASTM D 1644 ASTM D 638 ACI 503R-80 (A) 45 - 60 ASTM D 638 uguale alla resistenza del legame all’interfaccia ed è minore rispetto alla resistenza offerta dal calcestruzzo. La resistenza a taglio del legame all’interfaccia, inoltre, diminuisce con l’aumentare del numero di cicli termici. 6.1.2. L’esperienza di Stenko e Chawalwala In questo articolo [43] gli autori utilizzano un rivestimento epossidico a base di polisulfide (il cui costo è diventato competitivo con altre soluzioni) come protezione di impalcati in acciaio e in calcestruzzo di ponti per le sue caratteristiche fisico-meccaniche (Tabella 6.3): modulo elastico basso, eccellente adesione, basso valore del ritiro e di veloce applicazione/stagionatura. Questo materiale inoltre esprime una buona adesione con svariati materiali: acciaio, calcestruzzo, fibre da rinforzo in plastica e legno. Il prodotto indicato è una resina bicomponente di tipo epossidica a base di polisulfide. Come filler è stata usata una sabbia e altri aggregati fini (non specificati) e come aggregato è stato usato del basalto (in due pezzature). La preparazione della superficie è, come ripetuto da altri autori, la parte più importante per l’applicazione di qualsiasi rivestimento polimerico che funga da strato di usura. In questo lavoro tutte le superfici sono state infatti sabbiate e pulite per rimuovere polveri o rimasugli della sabbiatura o altri contaminanti che potrebbero interferire con l’adesione del rivestimento. L’applicazione del rivestimento in resina epossidica è stata effettuata utilizzando due metodi: il metodo "broom-and-seed" e il metodo "slurry". Gli autori raccomandano, durante la fase di applicazione, una temperatura ambientale e una temperatura dell’impalcato che sia interna all’intervallo 10℃ - 38℃. Il metodo di stesa "broom-and-seed" ha previsto l’applicazione del rivestimento in due strati: sono stati stesi alternativamente uno strato di resina e uno strato di aggregati (spargendo questi sulla resina fresca). Per ciascuno strato, dopo l’indurimento della resina stessa, gli aggregati che non si erano attacccati sono stati tolti meccanicamente o a mano. 119 Capitolo 6. Stato dell’arte Il metodo di stesa "slurry" è più veloce e meno impegnativo dal punto di vista lavorativo, specialmente per le grandi opere. Si applica inizialmente uno strato di resina epossidica a base di polisulfide come primer all’impalcato preparato con apposite sabbiatrici. Successivamente si stende uno strato di malta ("slurry" in inglese) costituita da resina epossidica miscelata con uno specifico filler. Lo spessore dello strato di malta si definisce di volta in volta a seconda dei casi (solitamente in base al traffico e al tipo di impalcato). Infine si sparge l’aggregato basaltico a mano o per mezzo di appositi macchinari sulla malta ancora frresca. Dopo l’indurimento della malta, si tolgono i grani di aggregato che non hanno fatto presa, come nel metodo precedentemente descritto. Le prove per determinare le caratteristiche fisiche e meccanche del materiale sono state condotte utilizzando le procedure descritte dall’"American Society for Testing and Materils" (ASTM) e dall’"American Concrete Institute" (ACI). I campioni sono stati stagionati in laboratorio all’aria. Le temperature delle prova in laboratorio sono state interne all’intervallo 21℃ - 25℃. Sono stati prodotti campioni in acciaio e in calcestruzzo rinforzato con fibre di plastica e su ognuno è stato steso il rivestimento polimerico. I campioni sono stati testati a flessione su tre punti per valutare il modulo di rigidezza a flessione, la resistenza a flessione e la modalità di rottura del campione. Sono state condotte inoltre prove per determinare la resistenza a compressione e la resistenza allo strappo dei rivestimenti polimerici dopo 7 giorni di stagionatura. Infine gli autori hanno eseguito dei cicli di gelo e disgelo per valutare l’effetto della variazione ciclica dele temperature sulle caratteristiche di adesione dei campioni (supporto con rivestimento polimerico): 8 ore a 60℃ in forno e 8 ore a -12℃ in cella climatica. I campioni sono stati testati dopo 7, 14, 21 e 30 giorni. Nella Tabella 6.4 sono riportate le proprietà fisiche e meccaniche del sistema di rivestimento con resina espossidica a base di polisulfide. Nella Tabella 6.5 e nella Tabella 6.6 sono rappresentate i risultati delle prove per testare le caratteristiche fisico-meccaniche dei campioni con supporto in acciaio e in calcestruzzo rinforzato con fibre in plastica, rispettivamente. Sia i campioni con supporto in acciaio che quelli con supporto in calcestruzzo rinforzato con fibre in plastica hanno dimostrato di avere un valore di allungamento a trazione elevato e un’eccellente adesione. La presenza di fessure nel calcestruzzo dopo la prova a flessione su tre punti indica l’alta resistenza del legame tra supporto e rivestimento. Il supporto in acciaio, invece, non si è fessurato, indicando la forte adesione esistente tra il rivestimento e il supprto. Gli autori presentano anche due casi di studio. Il primo è un ponte in Missouri costruito con impalcato in acciaio a lastra ortotropa su cui transitano mediamente ogni giorno circa 120.000 veicoli. Il ponte, lungo circa 660 metri, ha quattro corsie per ogni direzione ed è stato costruito nel 1967 con una pa120 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti Tabella 6.4.: Proprietà del sistema di rivestimento con resina espossidica a base di polisulfide. Proprietà Unità di misura Valore Norma utilizzata [MPa] 38 - 48 ASTM C 109 [MPa] 12 - 14 ASTM D 790 [MPa] 12 - 14 ASTM C 307 [GPa] 2,75 ASTM D 790 [-] Nessuna variazione ASTM C 666 [-] 40 - 55 ASTM E 274 Resistenza a compressione Resistenza a flessione Resistenza a trazione Modulo di elasticità a flessione (medio) Resistenza a cicli di gelo e disgelo Resistenza allo slittamento (superficie bagnata) Tabella 6.5.: Proprietà del sistema di rivestimento polimerico su supporto in acciaio. Proprietà Unità di misura Valore Norma utilizzata Resistenza a flessione Resistenza allo strappo Modulo di elasticità a flessione Resistenza a cicli di gelo e disgelo [-] ASTM D 790 [MPa] Piegamento senza delaminazione 2,4 - 2,7 [-] 2,75 [-] Nessuna variazione ACI 503R-80 (A) ASTM D 790 ASTM C 666 121 Capitolo 6. Stato dell’arte Tabella 6.6.: Proprietà del sistema di rivestimento polimerico su supporto in calcestruzzo rinforzato con fibre di plastica. Proprietà Unità di misura Valore Norma utilizzata Resistenza a flessione Resistenza allo strappo Modulo di elasticità a flessione Resistenza a cicli di gelo e disgelo [-] Fessure nel calcestruzzo 3,1 - 3,7 ASTM D 790 [MPa] [-] [-] Fessure nel calcestruzzo Nessuna variazione ACI 503R-80 (A) ASTM D 790 ASTM C 666 vimentazione in conglomerato bituminoso. Lo stesso rivestimento è poi stato riapplicato nel 1986, ma nel 1992, vista l’inccettabile situazione in cui versava la pavimentazione (alto numero di ormaie) è stato steso un rivestimento con resina epossidica a base di polisulfide utilizzando il metodo di stesa "slurry". Dopo otto anni di servizio, mediante analisi visiva, la pavimentazione sembra in buone condizioni. Le fessure presenti e i fenomeni di delaminazione visibili erano pochi: infatti gli ammaloramenti occupavano un area minore di 93 m2 (meno dello 0,5 % della superficie totale). Molte di queste aree erano vicine ai giunti saldati dell’impalcato in acciaio e gli autori suggeriscono che la causa degli ammaloramenti sia la tensione accumulata in questi giunti e poi trasmessa alla pavimentazione. Dal punto di vista delle caratteristiche superficiali, la pavimentazione è sembrata in buono stato e possedere un buon valore della resistenza a slittamento (sebbene la superficie fosse usurata a causa del traffico e degli spazzaneve. Le parti danneggiate sono state tagliate e tolte e la pavimentazione è stata ricostruita con la stessa tecnica. Il secondo caso è relativo ad un ponte in Maryland nel quale l’orginale impalcato in legno è stato sostituito con uno in calcestruzzo rinforzato in fibre di plastica. La soletta è stata irruvidita e quindi ricoperta con un primer (resina epossidica a base di polisulfide). Sul primer è stata posta la malta polimerica (resine mescolata a basalto) in uno spessore pari a 9,5 millimetri. I giunti sono stati costruiti con la medesima resine epossidica a base di polisufide. Gli autori hanno effettuato un controllo dopo 6 mesi dalla messa in opera: il rivestimento ha dimostrato una buona adesione con il calcestruzzo, non sono state osservate fessure o delaminazioni sulla superficie. Nelle conclusioni gli autori indicano che i rivestimenti epossidici a basi di polisulfide hanno un buon successo come materiali per pavimentazioni per impalcati in acciaio e in calestruzzo di ponti stradali. L’applicazione di questa resina estende inoltre la vita utile delle solette dei ponti, senza creare un ul- 122 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti teriore peso significativo per l’opera. Le prove in laboratorio hanno indicato che il rivestimento, applicato sia su acciaio che su calcestruzzo, ha un elevato allungamento a trazione e un eccellente adesione. I test condotti in situ hanno evidenziato che il rivestimento fornisce una superficie durabile per il traffico e, inoltre, riduce i costi di manutenzione a lungo termine. 6.1.3. Le esperienze italiane Irruvidimenti superficiali L’impiego di materiali sintetici (inerti e resine) per la costruzione di pavimentazioni stradali in Italia è iniziato parecchi anni fa. Alla fine del XX secolo è stato studiato infatti un sistema di irruvidimento superficiale con inerti e resine [44]: un rivestimento ultra sottile realizzato mediante resina epossidica (legante idrocarburico) e aggregato sintetico che possiede ottime caratteristiche di aderenza e di drenaggio superficiale. Questo trattamento, mediante la resina spruzzata, assicura una decisa adesione dello strato sulla superficie sottostante, garantendo la continuità della sovrastruttura; l’inerte sintetico, applicato a saturazione, grazie alle elevate caratteristiche fisico-meccaniche, consente di ottimizzare le prestazioni funzionali (regolarità e aderenza) della pavimentazione sul medio-lungo periodo (almeno dieci anni). La resina epossidica possiede una buona adattabilità ad ogni tipo di supporto e una elevata adesione. L’inerte sintetico mantiene la propria funzionalità anche sotto l’azione del traffico molto intenso, possedendo: alta resistenza all’abrasione, basso indice di frantumazione e forma dei granuli cubica e spigolosa. Gli autori hanno messo a punto un sistema di calcolo delle quantità di legante e inerte per costruire questi irruvidimenti superficiali. Lo spessore medio della pellicola di resina applicata alla pavimentazione è di 0,9 millimetri, la dimensione dell’inerte è di 3-4 millimetri e affonda nel legante per un terzo della sua altezza. L’inerte in eccesso viene spazzato via. Le prestazioni del sistema garantisce: aderenza, drenaggio superficiale, protezione degli idrocarburi, protezione del ferro d’armatura delle pavimentazioni in calcestruzzo, riduzione del rumore da rotolamento. L’aderenza è stata misurata mediante rugosimetro portatile a pendolo: il campione è stato prima inserito in uno strumento che ciclicamentene abradeva la superficie e successivamente è stata misurato l’attrito radente. I campioni irruviditi raggiungono un valore di BPN compreso tra 65 e 70. I campioni non irruviditi continuano a diminuiri i valori di resistenza allo scivolamento ciclo dopo ciclo. 123 Capitolo 6. Stato dell’arte La macrorugosità, misurata mediante prova dell’altezza in sabbia, è risultata comparabile con quella delle superfici a tessitura aperta e rimaneva (fino ad almeno dopo 8 anni) sopra il millimetro. La capacità drenante del sistema è risultata essere 4 - 8 volte superiore a quella di superfici bituminose tradizionali. La tessitura aperta inoltre permette all’acqua di abbandonare la sede stradale evitando problemi di ghiaccio nella stagione invernale. La forma appuntita dell’inerte infine, che generalmente non cambia nel tempo, e la sua struttura contribuiscono all’abbattimento del fenomeno chiamato "air pumping" e, globalmente, al livello sonoro prodotto dal traffico veicolare. Pavimentazioni per impalcato di ponte Un altro studio, affrontato in Italia da alcuni ricercatori dell’Università di Padova [45], ha come obbiettivo studiare delle impermeabilizzazioni per ponti e viadotti che conferiscano contemporaneamente buona adesione, continuità della funzione prottetiva, impermeabilità e veloce transitabilità. A questo scopo gli autori hanno testato due tipologie: una membrana sintetica (di tipo polimerico, caratterizzata da una buona tenacità ed elasticità) di spessore pari a 3 - 3,5 millimetri e una malta polimerica di spessore pari a circa 10 millimetri (caratterizzata da un basso modulo elastico). Gli autori hanno preferito queste due soluzioni a quelle tradizionali. Il legante polimerico utilizzato nella ricerca è costituito da un copolimero epossi-poliuretanico in cui si unisce, per inerzia chimica, un terzo polimero elastomerico (polibutadiene liquido) e si additiva, per contenere i costi, un particolare catrame derivante dalla distillazione di idrocarburi. Come inerte è stato impiegato quarzo con una specifica curva granulometrica che possiede un numero di vuoti molto basso e una elevata resistenza chimico-fisica. Il sistema (legante e quarzo) è trafficabile a 10 ore dalla stesa con temperature ambientali di 20 ℃. Le prove effettuate dai ricercatori hanno inteso studiare il contributo dell’impermeabilizzazione alla durabilità delle strutture, al confort e alla sicurezza di circolazione. Sono state realizzate e monitorate alcune applicazioni del materiale in pavimentazioni su viadotti su lastra ortotropa. Parallelamente sono state effettuate indagini sperimentali in laboratorio per studiare il comportamento a fatica delle solette di ponti in calcestruzzo rivestiti con malta sintetica (nel caso sia di supporto integro che di supporto prefussarato) mediante analisi visive, analisi miscrosismiche con metodologia ultrasonica, anilisi dinamiche di oscillazione libera e prove di adesione (normativa ASTM D 4541). L’analisi sperimentale è stata basata su travetti di prova in calcestruzzo (classe di resistenza pari a 30 MPa e acciaio per armature di tipo Fe 44K) delle dimensioni pari a 150 millimetri di larghezza, 200 millimetri di altezza e 800 millimetri di lunghezza. Le prove sono state eseguite con carico monotonica124 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti mente crescente fino al raggiungimento di prefissate ampiezze di fessurazione (gli autori hanno preso come riferimento quelle indicate nella norme tecniche che prescrivevano ampiezze di fessura massime pari a 0,1 - 0,2 - 0,3 millimetri in funzione delle condizioni ambientali). Altre prove di fatica sono state eseguite in presenza di ampiezze corrispondenti alle condizioni di esercizio più gravose. Per verificare le capacità prestazionali dell’impermeabilizzazione direttamente trafficabile (steso in un spessore di circa 2 centimetri) le prove sono state effettuate in varie configurazioni, anche prefessurando i travetti prima della stesa del materiale polimerico. I campioni, su cui è stata stesa la malta polimerica, sono stati poi testati a fatica con carico, ad onda sinusoidale, variabile tra 26 kN e 2,6 kN per 106 cicli, alla temperatura di 20°C (temperatura ambiente). Come frequenza di applicazione del carico, sono state usate quelle che esaltavano maggiormente la velocità di applicazione del carico (10 Hz) e il tempo di permanenza della medesima sollecitazione (5Hz). Il sistema di impermeabilizzazione è stato applicato secondo la seguente modalità: 1. sabbiatura della superificie di applicazione; 2. applicazione del primer; 3. posa del sistema sintetico. Lo spessore finale della malta era pari a 20 millimetri; questo valore è stato imposto dalla particolare esigenza di eseguire un controllo microsismico tramite ultrasuoni, al fine di accertare con la massima attendibilità la possibile integrità del prodotto. Le prove e le analisi pre- e post-fatica hanno dimostrato che il rivestimento rimane integro e che l’applicazione su travetti già fessurati rappresenti una sorta di consolidamento per quest’ultimo, dovuto all’aumento di rigidità e alla diminuzione dello smorzamento (il materiale sintetico comporta infatti un effetto "continuità" che "chiude" le fessure). Il risultato del lavoro suggerisce che la resina epossidica bicomponente possiede una superiore capacità di adesione al supporto, anche se umido (sia cementizio che in acciaio, con o senza preventiva applicazione di primer di adesione), ha elevate caratteristiche chimico-fisiche, resistenza alle sollecitazioni e si presenta inerte di fronte alle più svariate tipologie di agenti aggressivi e inalterabile per fenomeni gelivi. Ulteriori vantaggi sono quelli di un discreto abbattimento del rumore da rotolamento e l’assenza di fenomeni di acquaplaning. Il sistema di impermeabilizzazione può quindi essere considerato una vera propria pavimentazione perché il legante sintetico può essere saturato con inerti aventi caratteristiche fisico-meccaniche idonee a fornire al piano viabile ottime proprietà di antisdrucciolevolezza. 125 Capitolo 6. Stato dell’arte 6.1.4. L’esperienza americana All’interno del vasto programma di ricerca nazionale degli Stati Uniti d’America ("National Cooperative Highway Research Program" - NCHRP) sono state studiate anche le pavimentazioni polimeriche per impalcato di ponte in calcestruzzo [16]. Questa guida affronta molti temi: dalla letteratura di settore alle specifiche tecniche riguardanti i materiali e le curve granulometriche, dalle prestazioni dei rivestimenti in opera alle pratiche già comprovate da utilizzare per la progettazione e la stesa di miscele polimeriche, per arrivare fino alla descrizione dei metodi di manutenzione delle pavimentazioni in conglomerato polimerico. Secondo gli autori della guida in un conglomerato polimerico l’aggregato svolge diverse funzioni: limita il ritiro della malta polimerica durante l’indurimento, migliora la resistenza al fuocoe conferisce caratteristiche superficiali adeguate agli standard richiesti per una pavimentazione stradale. Relativamente ai materiali, sono impiegabili: sabbie silicee, basalti e quarzi. Gli aggregati, ovviamente, devono rispondere a determinati requisiti, quali elevata densità, pulizia, assenza di umidità, resistenza alla frantumazione e al consumo per attrito, elevata spigolosità e buona tessitura superficiale. L’umidità dovrebbe essere inferiore allo 0,2% e un incremento della stessa pari a 1% può significativamente ridurre le prestazioni del conglomerato. Diverse esperienze sul campo hanno dimostrato inoltre come l’uso di aggregati contenenti alte percentuali di ossido di alluminio offrano le migliori performance per quanto riguarda la resistenza allo slittamento. Come descritto nel Capitolo 3, relativamente alla distribuzione granulometrica degli aggregati, la guida propone alcuni fusi granulometrici, a seconda della resina utilizzata e del metodo di posa. I metodi di posa indicati sono tre: "multistrato", "slurry" e "premiscelato". Quando la posa in opera del rivestimento avviene con il metodo multistrato, gli aggregati devono essere duri, non fragili, possibilmente di frantumazione. Tipicamente la dimensione degli aggregati è unica, oppure la distribuzione granulometrica è discontinua. Tra i materiali ammessi si può trovare: il basalto (contenente almeno il 10% di ossido d’alluminio), la bauxite calcinata e alcuni graniti naturali. Il metodo di posa "premiscelato" prevede invece una parte di aggregati di dimensione ridotta, che permettono costruire uno scheletro litico monolitico insieme gli aggregati di dimensione maggiore, i quali servono a ottenere una buona e durevole rugosità superficiale. La distribuzione granulometrica in questo caso tende quindi ad essere continua, includendo anche sabbie calcaree, oltre agli aggregati citati nel metodo "multistrato". Infine il metodo di posa "slurry" necessita di una distribuzione granulometrica simile a quella del metodo "premiscelato", ma spostata verso le dimensioni 126 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti Tabella 6.7.: Fusi granulometrici tipici per i metodi di posa "multistrato", "slurry" e "premiscelato" [16] [46]. Setacci [mm] 13,5 9,51 4,76 2,38 1,19 0,841 0,525 0,420 0,297 0,149 0,105 0,075 0,053 0,044 "Multistrato" [%] − − 100 30-75 0-5 − 0-1 − − − − − − − "Slurry" [%] Aggregati Filler − − − − 100 90-100 60-80 5-15 0-5 − − − − − − − − − − − − − − − 100 98-100 96-100 93-99 "Premiscelato" [%] 100 83-100 62-82 45-64 27-50 − 12-35 − 6-20 0-7 − 0-3 − − inferiori. Serve infatti in questo caso anche una certa quantità di filler che blocchi lo scorrimento degli aggregati di dimensione maggiore e che aiuti ad aumentare la viscosità della miscela. Nella Tabella 6.7 sono riportate alcune curve per la costruzione delle distribuzioni granulometriche tipiche per i metodi di posa sopra descritti (sono indicati i passanti in percentuale per ciscun setaccio) [46]. Per quanto riguarda la realizzazione di queste pavimetazioni, la guida segnalat che il conglomerato polimerico viene realizzato in opera e, al tempo stesso, steso (se non in momenti estremamente vicini tra loro). Il calcestruzzo, invce, viene realizzato nelle centrali di betonaggio e successivamente trasportato nel cantiere di posa in opera: serve infatti un numero maggiore di manodopera e di attrezzature per miscalre e stendere il calcestruzzo rispetto ad un conglomerato polimerico. Per i conglomerati polimerici, però, la fase della posa deve essere preceduta da una serie di operazioni che, a seconda del tipo e delle condizioni dell’impalcato, permettono di rendere la superficie idonea alla stesa del rivestimento. L’obiettivo di queste operazioni è essenzialmente quello di migliorare il legame tra il rivestimento e l’impalcato. Gli autori dela guida suggeriscono di avere una superficie: pulita, asciutta, in ottime condizioni strutturali, priva di qualsiasi sostanza e con sufficiente rugosità. Tutto questo per consentire la creazione di un migliore legame fisico (e chimico) tra i due elementi (calcestruzzo e malta 127 Capitolo 6. Stato dell’arte polimerica). Secondo gli autori, nel caso di impalcati in calcestruzzo, le operazioni per la preparazione della superficie devono iniziare con un’analisi preliminare dello stato di conservazione del materiale. Se l’impalcato è di nuova costruzione, per esempio, devono passare 28 giorni dalla sua realizzazione affinché il materiale sia asciutto e quindi idoneo ad essere rivestito. Nel caso di impalcati già esistenti, invece, vanno fatte opportune verifiche di omogeneità e resistenza. Va accuratamente analizzata la presenza di fessure e rotture più o meno estese che consentono all’acqua e alle altre sostanze di penetrare nell’impalcato. Nel caso l’ammaloramento non abbia ancora avuto inizio, le fessure possono essere impermeabilizzate con diversi metodi; in caso contrario il calcestruzzo ammalorato va rimosso e l’acciaio corroso sostituito. A questo punto la guida richiama le indicazioni dell’American Concrete Institute: si consiglia quindii di riparare tutte le fessure con ampiezza superiore ad 1 mm e di sostituire il calcestruzzo e l’acciaio quando il contenuto di cloruri nella pasta cementizia è superiore a 0,77 kg/m3 all’altezza del ferro d’armatura (come prescritto dalla norma ASTM D570). Si testa anche la resistenza a trazione dell’impalcato in calcestruzzo tramite un’apparecchiatura a strappo (un disco di acciaio viene incollato sulla superficie e sottoposto a trazione). Se la rottura avviene per una tensione inferiore a 1 MPa e a una profondità inferiore a 6,4 mm, il calcestruzzo va sostituito con uno che garantisca maggior resistenza; se la rottura avviene per una tensione compresa tra 1 e 1,7 MPa, spetta ai tecnici decidere se la preparazione della superficie può procedere con le fasi successive ed il rivestimento può essere posato, o se sono necessarie riparazioni. Se invece la rottura avviene per tensioni superiori a 1,7 MPa la superficie è idonea. Nella guida si sottolinea inoltre come il piano di posa debba risultare scabro e possibilmente livellato: non deve essere il conglomerato polimerico a colmare eventuali avvallamenti e per questo ad avere uno spessore variabile. Una superficie molto irregolare potrebbe infatti portare il rivestimento ad avere uno spessore eccessivamente ridotto in alcuni punti, che risulterebbero essere i primi a mostrare segni di degrado. Lo stesso si può dire per le pendenze di progetto. Pur essendo possibile infatti ottenerle con la stesa del conglomerato polimerico, sarebbe consigliabile (anche a causa del costo di quest’ultimo) che le pendenze venissero realizzate con materiali di minor pregio (a questo scopo sono utilizzabili calcestruzzi additivati con polimeri), in modo che il rivestimento possa essere applicato con uno spessore costante. Una volta stabilita la resistenza strutturale ed arrestati eventuali processi di degrado in atto, la superficie può essere preparata con diverse metodologie, quali, ad esempio: la pallinatura, la sabbiatura, l’idroscarifica, la scarifica, ecc.). 128 6.1. Le tipologie di impermeabilizzazione e di pavimentazione su ponti e viadotti Per pallinatura o "shotblasting" si intende una procedura di irruvidimento e di rimozione di tutti i contaminanti su di una superficie, realizzata con l’ausilio di un macchinario che "spara" ad alta velocità particelle metalliche abrasive sulla superficie stessa. La sabbiatura o "gritblasting" è un procedimento analogo che utilizza sabbia al posto delle particelle metalliche e che ha, però, il difetto di non riuscire a rimuovere precedenti strati di isolante, ma ha il pregio di permettere di trattare alcune zone che la pallinatura non riesce a raggiungere. L’idroscarifica utilizza invece getti d’acqua ad elevatissima pressione: l’uso di questa metodologia implica che la successiva stesa del conglomerato debba avvenire dopo un tempo sufficiente a permettere alla superficie di asciugarsi. Infine la scarifica consiste nella fresatura della superficie che deve, successivamente al trattamento, essere opportunamente pulita. Gli autori della guida hanno definito in apposite tabelle gli intervalli della quantità di resina e della quantità di aggregato a seconda del tipo di posa. Per il metodo di posa "multistrato", sono state definite le quantità per il primo strato (1,1 kg/m2 di resina e 5,4 kg/m2 di aggregato) e per il secondo strato (2,2 kg/m2 di resina e 7,6 kg/m2 di aggregato). Per gli strati successivi si possono ripetere le quantità inidicate per il secondo o si può differire a seconda delle applicazioni. Il contenuto complessivo di resina in peso sul totale dell’aggregato è circa 24% mentre lo spessore complessivo del rivestimento è circa pari a 6 mm - 6,5 mm. Le resine più indicate per il metodo di posa "multistrato" sono quelle epossidiche. Per il metodo di posa "slurry", il primer viene steso con un dosaggio di 0,4 kg/m2 , mentre la malta polimerica può essere costituita da 2,6 kg/m2 di resina, da 3,8 kg/m2 di sabbia silicea e da 2,8 kg/m2 di silice molto fine (che funge da filler). L’ultimo strato, che funge da rivestimento isolante, è una resina distribuita in quantità pari a circa 0,7 kg/m2 . Il contenuto di resina sul peso complessivo degli aggregati è mediamente del 25% e lo spessore totale del rivestimento è di circa 8 mm. Le resine più indicate sono quelle metacriliche o più raramente quelle epossidiche e, a seconda di questo, variano le quantità e le tipologie di aggregato e la quantità di resina stessa. Nel caso del metodo "premiscelato" si distinguono la posa e la finitura a mano (per applicazioni modeste) e la posa e la finitura con macchinari (per applicazioni più estese). Il primer viene steso in una quatità pari a 0,4 kg/m2 , mentre la malta polimerica è costituita da 5,3 kg/m2 di resina e da 38,5 kg/m2 di aggregato. Il contenuto di legante in peso sull’aggregato è pari al 17% circa e lo spessore complessivo è compreso tra i 15 mm e i 20 mm. Le resine più indicate sono quelle poliestere o epossidiche. Le quantità di aggregato e di legante, le percentuali del legante in peso rispetto agli aggregati a seconda del metodo di stesa sono riportati nella nella 129 Capitolo 6. Stato dell’arte Tabella 6.8.: Quantià e percentuali di legante/aggregato per i metodi di posa "multistrato", "slurry" e "premiscelato" [16] [46]. Rivestimento Spessore [mm] Legante (primer) [kg/m2 ] Legante (strato 1) [kg/m2 ] Aggregato (strato 1) [kg/m2 ] Legante (strato 2) [kg/m2 ] Aggregato (strato 2) [kg/m2 ] Legante (strato isol.) [kg/m2 ] legante [%] "Multistrato" epossidico "Slurry" epossidico "Slurry" metacrilico "Premiscelato" poliestere 6,5 − 7,5 1,1 - 1,2 7,6 0,3 - 0,5 19 0,3 - 0,5 1 - 1,1 5,5 - 6,5 2,5 - 2,9 5 - 5,5 5-6 6-7 6-7 38 - 39 2,1 - 2,3 − − − 7-8 − 7,3 - 7,8 − − − 0,5 - 0,8 − 24 25 24 17 Tabella 6.8. Le esperienze accumulate e i lavori descritti nella letteratura di settore hanno dimostrato che il metodo di stesa "multistrato" è il più adatto a impalcati con irregolarità poco pronunciate, dato che il manto impermeabilizzante tende a seguirne l’andamento. Gli altri due metodi invece ("premiscelato" e "slurry") sono impiegabili anche in presenza di difetti superficiali (comunque non eccessivi). A conferma di questo si può notare nella Tabella 6.8 che gli spessori ottenibili sono superiori con i metodi di stesa "slurry" e "premiscelato" piuttosto che con il metodo di stesa "multistrato". Nella guida sono contemplati anche i costi dei rivestimenti in materiale polimerico. Il costo è funzione dei materiali utilizzati, delle procedure di preparazione della superficie, della manodopera, dei macchinari e del controllo del traffico. Esistono pochi studi specifici sul costo effettivo dei rivestimenti polimerici sottili rispetto ai rivestimenti tradizionali. Nel 1995 sono state effettuate delle indagini in Virginia che hanno dimostrato come il costo dei rivestimenti polimerici sottili con legante di natura epossidica sia inferiore rispetto ai metodi di impermeabilizzazione e pavimentazione tradizionali. Ne è risultato un costo iniziale del 25% inferiore rispetto a quello di un rivestimento in calcestruzzo, che diminuisce ulteriormente fino al 36% se si considera una vita utile di 15 anni 130 6.2. Sali disgelanti e cicli di gelo e disgelo per il rivestimento polimerico e di 30 anni per il rivestimento in calcestruzzo. La convenienza è ancora più evidente quando si fa riferimento ad una maggiore vita utile per questi rivestimenti, che può essere ragionevolmente quantificata in 20 - 25 anni. A titolo d’emepio la guida riporta che, tra il 2001 e il 2008, il Dipartimento dei Trasporti in Kansas ha certificato un costo relativo alla preparazione della superficie e alla posa mediamente del 20% inferiore rispetto a quello necessario per la realizzazione dei rivestimenti in calcestruzzo additivato con fumo di silice. Oltre a questo, lo studio ha anche permesso di quantificare la minore influenza sul traffico e sulle necessità di interromperlo/deviarlo durante i lavori. Il costo di realizzazione di un rivestimento polimerico con tutte le operazioni necessarie, secondo gli autori si aggira intorno ai 66 $/m2 (circa 51 €/m2 ), con un minimo di 60 $/m2 (circa 46 €/m2 ) e un massimo di 114 $/m2 (circa 88 €/m2 ), verificatisi rispettivamente in Virginia ed in Alaska1 . Numerose sono le applicazioni di rivestimenti polimerici sottili per impalcati da ponte, e non solo, che nel tempo sono state realizzate nel Nord America. L’indagine del Transportation Research Board (TRB) ha interessato 40 stati degli USA e diverse province del Canada, quantificando in ben 2400 il numero di queste applicazioni. 6.2. Sali disgelanti e cicli di gelo e disgelo 6.2.1. L’esperienza in Connecticut La ricerca svolta da Li ed altri autori [47] in Connecticut ha come tema principale lo studio del deterioramento dell’adesione causato dai sali disgelanti e dai cicli di gelo-disgelo. Questo tipo di danneggiamento è uno dei maggiori problemi che affligge le pavimentazioni, le riparazioni dei manti stradali e gli impalcati dei ponti. In questa ricerca sono state svolte prove di resistenza allo strappo per esaminare come l’uso dei sali disgelanti combinati con cicli di gelo e disgelo influenzi l’adesione tra il calcestruzzo e dei materiali utilizzati per riparare velocemente il manto stradale. Nello studio è stato monitorato il deterioramento della superficie stradale al variare delle condizioni di indurimento, dell’età e dell’applicazione dei sali combinata con i cicli di gelo e disgelo. La ricerca intende investigare sulla durabilità dell’adesione di nuovi materiali utilizzati per una rapida manutenzione delle pavimentazioni stradali esposti ai sali disgelanti e a cicli di gelo e disgelo. Il metodo di prova è stato sviluppato dagli autori della ricerca e consiste in uno strumento che esercita una forza di trazione su dei provini (carotati 1 Il corrispettivo in euro è stato calcolato considerando il cambio Dollaro - Euro al 30 dicembre 2011 pari a 1,2939, facendo riferimento all’anno in cui è stata pubblicata la guida del Transportation Research Board (TRB). 131 Capitolo 6. Stato dell’arte direttamente sulla pavimentazione in opera o su provini in laboratorio). Lo strumento misura questa forza ed è possibile sapere la tensione in MPa esercitata per "strappare" il provino dalla sua sede, sapendo l’area occupata dal provino stesso. Gli autori hanno usato il valore medio della resistenza allo strappo, calcolata sui valori otttenuti da tre campioni. Solitamente il coefficiente di variazione che ne è risultato è pari al 15%. La procedura generale della prova per testare la resistenza allo strappo è: • preparare la superficie del calcestruzzo già in opera; • stendere e aspettare l’indurimento del materiale usato per riparare la superficie stradale; • attaccare il supporto per la prova di strappo; • forare con una punta a tazza fino al calcestruzzo già in opera il campione attorno al supporto; • determinare la massima forza di resistenza allo strappo applicata al supporto e al campione; • registrare la forza di strappo e la modalità di rottura. Secondo gli autori di questo lavoro, la prova di resistenza allo strappo applicata a campioni composti da due strati dà una vera stima della minima forza di adesione tra i due strati. Gli autori hanno previsto anche che: se la rottura avviene all’interfaccia tra i due strati, la forza di strappo è pari alla forza di adesione; mentre se la rottura avviene nel calcestruzzo, la forza di adesione è come minimo tanto alta quanto la resistenza allo strappo registrata. La superfcie del supporto in calcestruzzo è stata preparata con una sabbiatura leggera producendo delle asperità per aumentare l’adesione tra pavimentazione e celcastruzzo. I campioni dopo la stesa della nuova pavimentazione sono stati lasciati asciugare all’aria (in laboratorio) o in una soluzione satura di acqua e calce. I cicli di gelo e disgelo sono stati combinati con una soluzione di acqua e sali disgelanti, come indicato nella norma ASTM C 672. I campioni sono stati sottoposti a cicli di gelo e disgelo e poi, alla fine di ogni ciclo, sono stati immersi nella soluzione salina. Tutto ciò è durato 14 giorni per alcuni campioni e 28 giorni per altri: la norma ASTM C 672 infatti richiedeva un intervallo di tempo compreso tra 14 e 28 giorni. Nella stessa norma sono riportati inoltre le tipologie di valutazioni da eseguire circa il deterioramento della superficie: "0" significa "nessun deterioramento", mentre "5" significa "deterioramento" elevato con gli aggregati visibili nell’intero campione. Gli autori hanno studiato due materiali diversi per la riparazione di pavimentazioni stradali: il materiale A e il materiale B. 132 6.2. Sali disgelanti e cicli di gelo e disgelo I campioni di materiale A sono stati sottoposti a cicli di gelo e disgelo e alla presenza di sali disgelanti in modo diverso. I primi sei campioni sono quelli utilizzati come campioni di controllo: tre campioni son stati testati dopo 14 giorni (7 giorni in acqua e 7 giorni in laboratorio all’aria), tre campioni sono stati testati dopo 49 giorni (7 giorni in acqua e 42 giorni in laboratorio all’aria). Tre campioni sono stati sottoposti a 25 cicli (gelo e disgelo e sali disgelanti) dopo 14 giorni (7 giorni in acqua e 7 giorni in laboratorio all’aria). Altri tre campioni sono stati sottoposti a 25 cicli (gelo e disgelo e sali disgelanti) dopo 14 giorni di esposizione all’aria. I campioni di materiale B sono stati sottoposti a un periodo di riposo solo all’aria in laboratorio. Una serie di campioni sono stati tenuti 14 giorni all’aria e successivamente sottoposti a 25 o 50 cicli (gelo e disgelo e sali disgelanti). Un’altra serie di campioni sono stati tenuti solo 14 giorni o 84 giorni all’aria (queste durate corriposndono a 0 cicli e a 50 cicli della precedente serie di provini). Sapendo che gli autori hanno testato due materiali di tipo cementizio per riparare le pavimentazioni stradali, ai fini del lavoro presentato in questa tesi è importante il protocollo seguito per i cicli di gelo e disgelo, il modo di sottoporre i campioni alla presenza di sali disgelenti e le modalità utilizzate per condurre la prova di resistenza allo strappo. Tra i risultati dello studio è interessante notare che la prova di resistenza allo strappo si è dimostrata essere un valido metodo di derterminazione della durabilità dell’adesione tra il sottostrato in calcestruzzo e il materiale usato per la riparazione della pavimentazione stradale, con o senza cicli di gelo e disgelo e presenza di sali disgelanti. 6.2.2. L’esperienza svedese La ricerca svolta dai ricercatori dell’Università di Stoccolma [48] è dedicata allo studio della durabilità dei rivestimenti per impalcati da ponte. Nel loro articolo gli autori spiegano che un gran numero di ponti in Svezia necessita di essere riparato o di essere ricostruito, a causa dei danni che svariati fenomeni comportano: l’azione dei cloruri, la carbonatazione, i sali disgelanti, le reazioni negli aggregati tra gli alcali e la silice, l’affaticamento dei materiali a causa dei carichi del traffico, ecc. Per dare alla struttura riparata una sufficiente vita utile, il rivestimento (che funge da pavimentazione e da impermeabilizzazione) richiede: 1. un’adesione stabile e duratura con la struttura del ponte (questa richiesta è essenziale per le successive e lo studio dell’adesione riveste il maggior interesse riguardo la determinazione della vita utile delle strutture in calcestruzzo); 133 Capitolo 6. Stato dell’arte 2. sufficiente resistenza all’usura co riferimento al traffico veicolare (soprattutto nelle aree in cui sono presenti gomme chiodate, anche a causa dell’elevato costo di riparazione della pavimentazione per l’eccessiva usura, raffrontato con il termine utile della pavimentazione e la necessaria riparazione); 3. sufficiente resistenza ai sali e ai cicli di gelo e disgelo per sopportare i relativi "carichi" ambientali (lo scalinamento e la delaminazione del calcestruzzo riducono infatti fortemente la vita utile dell’opera, soprattutto nel caso questi danni si presentino nell’area usurata dal traffico); 4. protezione dei rinforzi dall’azione dei cloruri e dalla carbonatazione che danno inizio alla corrosione (la corrosione infatti mina l’integrità dell’impalcato del ponte e può portare alla perdita di adesione del rivestimento). In Svezia, gli strati che compongono un tradizionale impalcato da ponte sono: lo strato di usura, uno strato di protezione in calcestruzzo, una guaina bituminosa di impermeabilizzazione e la soletta di calcestruzzo del ponte. Per la riparazione totale della pavimentazione, si effettua una rimozione del pacchetto mediante mezzi meccanici e si rimuove parte del calcestruzzo costituente la soletta del ponte con getti d’acqua ad alta pressione (per evitare che particelle libere rimangano sull’impalcato). Prima di posare la nuova pavimentazione si pulisce nuovamente la superficie. Si pone del calcestruzzo magro sull’impalcato, successivamente del calcestruzzo rinforzato con fibre d’acciaio (Steel Fiber Reinforced concrete - SFRC) e quindi si pone il rivestimento, si compatta e si attende la stagionatura. In tal modo il calcestruzzo diventa lo strato di usura. Una buona stagionatura è importante in questa fase poiché previene il ritiro e la formazione di fessure. La stagionatura influenza anche la resistenza all’usura, l’ingresso di ioni di cloro, il passaggio dell’umidità, specialmente nella parte superiore del rivestimento. Gli autori ritengono sia difficile trovare una procedura unica di stagionatura del materile, a causa dei differenti materiali esistenti e delle diverse condizioni al contorno che caratterizzano i diversi luoghi. Gli autori si soffermano quindi sulla composizione della miscela di calcestruzzo più adeguata allo scopo, descrivendo quali siano le variazioni nelle caratteristiche del materiale a seconda dell’introduzione nella miscela di diversi additivi: fumo di silice, additivo superfluidifcante, fibre di acciaio, ecc. Nell’articolo viene quindi presentato l’intervento su un ponti costruito in Svezia, confrontando la riparazione effettuata nel 1986 e presentando la situazione al 1995. Il ponte è parte della strada nazionale e ha una traffico giornaliero medio pari a 7600 veicoli. Ha una larghezza di 12 metri e ha due corsie. Il ponte è stato costruito nel 1942 e la pavimentazione in conglomerato bituminoso è stata rifatta nel 1958. Nel 1986 la pavimentazione viene sostituita come 134 6.2. Sali disgelanti e cicli di gelo e disgelo descritto sopra, inserendo al posto del conglomerato bituminoso una lastra di calcestruzzo. Di interesse per questo studio è la resistenza del rivestimento ai sali disgelanti e ai cicli di gelo e disgelo. La normativa svedeei (SS 13 72 44) prevede infatti l’uso del 3% di NaCl contemporaneamente ai cicli di gelo e disgelo e che vengano testate la resistenza del materiale dopo 56 e 112 cicli. Gi autori concludono il loro articolo spiegando che dopo 9 anni di servizio, la vita utile residua, rispetto a 5 importanti fattori, è: 1. resistenza all’usura per pneumatici chiodati - almeno 15 anni; 2. resistenza a compressione - almeno 50 anni, ma probabilmente anche di più poichè non si notano degenerazioni di tipo fisico; 3. adesione al supporto - l’adesione è aumentata dopo 9 anni di servizio e non sono stati notati danni e gli autori stimano che l’adesione sarà buona ancora per almeno 20 anni (la vita utile residua è limitata solo dalla resistenza a fatica del vecchio calcestruzzo); 4. resistenza al sale e ai cicli di gelo e disgelo - almeno 15 anni (gli autori hanno notato una limitata degenerazione dopo 65 cicli di gelo-disgelo nella realtà e dopo 112 cicli gelo-disgelo in laboratorio); 5. l’ingresso di ioni cloro - più di 100 anni nel caso di SFRC non fessurato, più di 50 anni nel caso di SFRC fessurato. Gli autori, infine, indicano che il metodo di riparazione utilizzato è veloce, affidabile e attuabile con costi contenuti. 6.2.3. L’esperienza in Pennsylvania Il lavoro eseguito in Pennsylvania da un gruppo di ricercatori dell’Università [49] ha testato la durabilità e la compatibilità di campioni di materiale composito mediante prove eseguite dopo aver sottoposto i campioni a cicli di gelo e disgelo. Sul supporto in clcestruzzo (la soletta del ponte) sono stati stesi diversi tipi di calcestruzzo, candidati ad essere utilizzati come rivestimento e/o pavimentazione di ponti a seguito della riparazione dell’impalcato. I materiali utilizzati sono: un calcestruzzo modificato con lattice, un calcestruzzo con basso valore dello "slump test" e un calcestruzzo con polimeri. É stata testata una buona durabilità e una buona compatibilità dei tre tipi di rivestimento utilizzando il metil metacrilato come trattamento impregnante per il calcestruzzo dell’impalcato. La durabilità, secondo gli autori, è l’abilità del rivestimento/pavimentazione e del trattamento della soletta, individualmente o insieme, a resistere alle intemperie e al processo associato di deterioramento nell’"ambiente" dell’impalcato del ponte. 135 Capitolo 6. Stato dell’arte La compatibilità si riferisce invece al deterioramento dell’interfaccia tra soletta e rivestimento/pavimentazione ed è funzione del rispettivo materiale usato. La normativa utilizzata dagli autori riguardante le prove di gelo e disgelo è l’ASTM C 666 - metodo A. La durabilità è stata valutata mediante la perdita di peso e l’osservazione del campione. La compatibilità è stata valutata invece sulla base della velocità degli impulsi in direzione perpendicolare rispetto all’interfaccia soletta/rivestimento e mediante l’ossrvazione di eventuali distacchi tra i due materiali. I campioni per questo studio sono stati confezionati in tre fasi. Per prima cosa sono stati confezionati dei travetti di calcestruzzo che simulano la soletta del ponte. Successivamente sono state implementate le procedure di impregnazione del calcestruzzo dei travetti: metilmetacrilato inserito a pressione nel calcestruzzo, metilmetacrilato applicato mediante bagnatura della superficie, resina epossidica (sono state usate due temperature - 125℃ e 175℃ - per creare una diversa reticolazione del polimero), silano (un composto chimico SiH4 ), senza trattamento della superficie del calcestruzzo. La terza fase del confezionamento ha previsto la stesa di una "pittura" protettiva: una miscela di polimetilmetacrilato e di un attivante della polimerizzazione. La procedura utlizzata ha previsto dei cicli di gelo e disgelo tra 4,4 e 17,8 ℃ per una durata totale del ciclo di 2,5 ore. Il numero toale di cicli di gelo e disgelo sono stati 500. Per ogni periodo di prova, sono stati misurati per ogni campione il peso, la velocità di propagazione degli impulsi ed è stata fatta una osservazione globale del campione. Partendo da una serie di quattro rilievi in diverse parti del campione, sono state localizzate perdite di adesione perchè la velocità degli impulasi è diminuita. Per quanto riguarda la durabilità, la soletta impregnata con il metilmetacrilato (entrambe le tecniche di applicazione) e con la resina epossidica (sia a 125℃ che 175℃) ha dimostrato una eccezionale resistenza a cicli di gelo e disgelo. Il trattamento mediante silano non ha dato un adeguata protezione e il calcestruzzo si è deteriorato completamente. La compatibilità si riferisce al mantenimento dell’integrità dell’adesione tra substrato e rivestimento sotto l’azione dei cicli di gelo e disgelo. La compatibilità è stata valutata mediante osservazioni visive e misurazione della velocità degli impulsi. Gli autori hanno concluso il loro lavoro indicando che la durabilità è un parametro che riflette la situazione e che facilità la comparazione tra i vari rivestimenti utilizzati. Poichè la valutazione della durabilità usata nell’articolo (la perdita di peso in percentuale) incrementa con l’aumento del deterioramento, 136 6.3. Le variazioni di temperatura è più approprieto usare l’inverso di questo parametro (vedasi Formula (6.1)): 1 = durabilità 1 % perdita peso numero di cicli di gelo e disgelo (6.1) Gli autori fanno notare che l’incremento dei valori di questo parametro significa un miglioramento nella durabilità. In base a questo, il trattamento che dimostra una buona durabilità e una buona compatibilità con il substrato è il metilmatacrilato (con entrambi i metodi di stesa). La resina epossidica si dimostra avere un comportamento simile o addirittura inferiore a quello del campione non sottoposto a trattamento. 6.3. Le variazioni di temperatura 6.3.1. Le variazioni termiche nei rivestimenti polimerici Uno studio sperimentale per la valutazione della compatibilità termica tra rivestimento carrabile in materiale polimerico e l’impalcato da ponte in calcestruzzo è stato condotto da alcuni ricercatori dell’American Concrete Institute (ACI) [50]. La diversa natura del rivestimento polimerico, caratterizzato da coefficienti di dilatazione termica superiori a quello dei conglomerati cementizi, porta alla formazione di tensioni interne, le quali si traducono con il tempo in distacchi del rivestimento dal supporto e ad altre problematiche ad esso correlate. Gli autori descrivono il procedimento utilizzato per quantificare lo stress termico di pavimentazioni in conglomerato polimerico con particolare riferimento all’entità e alla distribuzione e illustrano le principali variabili che lo influenzano: • il rapporto tra gli spessori dei due strati (quello del conglomerato polimerico per la pavimentazione e quello del calcestruzzo Portland per l’impalcato da ponte); • il rapporto tra i moduli di rigidezza dei materiali; • i diversi coefficienti di dilatazione termica (coefficiente di dilatazione del conglomerato polimerico pari a circa il doppio di quello del calcestruzzo); • la temperatura. La pavimentazione e l’impalcato del ponte stradale vengono schematizzati con un travetto a doppio strato realizzato in materiale composito (il conglomerato polimerico poggia su una base di calcestruzzo Portland), inizialmente studiato in condizioni di stato piano di tensione. Lo studio si avvale di una 137 Capitolo 6. Stato dell’arte teoria matematica, già sviluppata da altri ricercatori [51], con la quale sono state determinate delle equazioni differenziali per uno stato piano di tensione: con esse si posson determinare le tensioni interne alle quali è soggetta una trave composita, isostatica e sottoposta a variazione di temperatura. Secondo il metodo descritto in [51] risulta indispensabile introdurre un terzo strato, di spessore estremamente ridotto, per simulare l’accoppiamento tra i due materiali: il conglomerato polimerico e il calcestruzzo. Le ipotesi per l’analisi delle tensioni del sistema sono: • il legame costitutivo dei materiali è elastico lineare; • l’effetto dello strato adesivo risulta trascurabile; • la variazione di temperatura nei due materiali è uniforme; • il valore dei coefficienti di dilatazione termica è costante. I parametri considerati nell’elaborazione dei risultati ottenuti dalla sperimentazione sono: E1 è il modulo di elasticità del rivestimento (considerato variabile); E2 è il modulo di elasticità del calcestruzzo (considerato costante); h1 è lo spessore del rivestimento (considerato variabile); h2 è lo spessore del calcestruzzo (considerato costante); n è il rapporto tra i moduli di rigidezza elastica (n = E1 /E2 ); m è il rapporto tra gli spessori degli strati (m = h1 /h2 ). Il sistema di riferimento adottato risulta in direzione x parallelo alle superfici sovrapposte e in direzione y perpendicolare a queste. Lo studio è stato impostato al variare di n ed m, partendo da una temperatura di circa 55,6℃ e scendendo progressivamente. Le analisi per ottenere la distribuzione delle tensioni a causa di una variazione di temperatura sono state condotte ipotizzando uno spessore dello strato di materiale polimerico minore rispetto a quello di calcestruzzo (ipotesi che si conferma reale nella maggior parte delle applicazioni di questa tipologia di rivestimento). La variazione di temperatura comporta nel sistema una risposta uguale in termini generali (al diminuire della temperatura l’intero sistema si contrae), ma diversificata in termini di intensità in funzione dello strato considerato e della posizione della fibra considerata all’interno di uno stesso strato. In aggiunta, 138 6.3. Le variazioni di temperatura Figura 6.1.: Andamento delle tensioni assiali σx lungo la trave [50]. la diversa natura dei materiali e il conseguente diverso coefficiente di dilatazione termica che li caratterizza, rende infatti gli strati suscettibili in maniera differente alle variazioni di temperatura. Il conglomerato polimerico, essendo caratterizzato da un coefficiente di dilatazione maggiore di quello del calcestruzzo, in seguito alla diminuzione di temperatura, vorrà contrarsi maggiormente rispetto al calcestruzzo. Dal momento che si è supposto che i due materiali non possano scorrere l’uno sull’altro per motivi di aderenza, la trave composita sarà soggetta ad una forza assiale e ad un momento flettente. I risultati delle analisi sono stati ottenuti studiando solo metà trave della trave per motivi legati alla simmetria geometrica. Le tensioni assiali σx rimangono costanti per gran parte della campata, ma diminuiscono fino ad annullarsi in prossimità degli estremi della trave (Figura 6.1). Nel tratto iniziale, infatti, per una lunghezza pari a circa l’altezza complessiva h della trave composta (h = h1 + h2 ), si ha una variazione della tensione assiale: σx ha valore nullo per x = 0, poi aumenta progressivamente fino ad x = h, per poi assestarsi in misura costante per il resto di lunghezza della trave (x > h). Le tensioni normali al piano nella zona di interfaccia σy e le tensioni di taglio all’interfaccia τxy sono presenti solo in prossimità delle estremità della trave (Figura 6.2). Sebbene le tensioni normali σy non sono massime nella zona di interfaccia, sono quelle che assumono maggiore importanza per l’analisi che si vuole eseguire. Le tensioni normali all’interfaccia si sviluppano per una distanza (dal bordo della trave) pari approssimativamente all’altezza della trave. Il massimo valore delle tensioni normali all’interfaccia si raggiunge alle estremità della trave ed è un valore positivo. Appena prima del bordo, invece, si ha un 139 Capitolo 6. Stato dell’arte Figura 6.2.: Andamento delle tensioni normali σy agenti all’interfaccia e delle tensioni di taglio τxy agenti all’interfaccia lungo la trave [50]. picco negativo. Le tensioni di taglio all’interfaccia τxy si sviluppano per una distanza (dal bordo della trave) pari a quella delle tensioni normali al piano, ovvero pari approssimativamente all’altezza della trave. Inizialmente le tensioni di taglio aumentano lentamente ma spostandosi verso la fine della trave iniziano ad aumentare velocemente. Il massimo valore di tensione di taglio all’interfaccia si raggiunge in un punto molto prossimo alla fine della trave per poi decrescere rapidamente a zero. L’andamento delle tensioni lungo lo spessore della lastra dimostra come l’interfaccia tra i due strati sia soggetta alla maggiore sollecitazione di taglio (Figura 6.3). Le analisi per ottenere la distribuzione delle tensioni causate da una variazione di temperatura sono state condotte ipotizzando uno spessore dello strato di materiale polimerico minore rispetto a quello del calcestruzzo. Lo spessore del conglomerato polimerico è stato fatto variare e assunto, di volta in volta, pari a: 0,30 centimetri, 1,22 centimetri e 1,83 centimetri. A questi corrisponde un rapporto m tra gli spessori pari a 0,015 [cm/cm], 0,06 [cm/cm] e 0,09 [cm/cm], rispettivamente. Con riferimento alla Figura 6.4 e alla Figura 6.5, i risultati delle analisi evidenziano che le tensioni normali all’interfaccia σy e le tensioni di taglio all’interfaccia τxy diminuiscono al diminuire dello spessore dello strato di conglomerato polimerico, nell’ipotesi di mantenere invariati i valori dei moduli di rigidezza dei materiali, assicurando un rapporto n tra loro pari a 0,5 [MPa/MPa]. 140 6.3. Le variazioni di temperatura Figura 6.3.: Andamento delle tensioni di taglio τxy sullo spessore [50]. Figura 6.4.: La tensione di taglio τxy agente all’interfaccia al variare del rapporto "m" tra gli spessori degli strati [50]. 141 Capitolo 6. Stato dell’arte Figura 6.5.: La tensione normale σy agente all’interfaccia al variare del rapporto "m" tra gli spessori degli strati [50]. Sperimentazioni analoghe sono state condotte al variare del modulo elastico di rigidezza dello strato in conglomerato polimerico E1 , nell’ipotesi di mantenere costante il rapporto tra gli spessori m pari a 0,06 [cm/cm]. Il modulo elastico di rigidezza del materiale polimerico è stato assunto, di volta in volta, pari a: 13780 MPa, 6890 MPa e 689 MPa. A questi, corrisponde un rapporto n tra i moduli elastici di rigidezza pari a 0,5 [MPa/MPa], 0,25 [MPa/MPa] e 0,025 [MPa/MPa], rispettivamente. Con riferimento alla Figura 6.6 e alla Figura 6.7, i risultati delle analisi evidenziano che le tensioni normali all’interfaccia σy e le tensioni di taglio all’interfaccia τxy diminuiscono al diminuire del modulo elastico di rigidezza del conglomerato polimerico. La trave composita, è stata studiata attribuendo di volta in volta differenti valori del modulo elastico di rigidezza e dello spessore dello strato di rivestimento. Dai risultati ottenuti è stato possibile concludere che le tensioni σy e le tensioni τxy si riducono, a parità del modulo del rivestimento, riducendo m, ovvero riducendo il rapporto tra lo spessore del rivestimento e quello del substrato. Analogamente a parità di spessore del rivestimento, le tensioni σy e τxy si riducono al diminuire di n, ovvero al diminuire del rapporto tra il modulo del rivestimento e quello del substrato. Con riferimento alla Figura 6.8, si può notare come la tensione assiale σx cresca al diminuire dello spessore del rivestimento a parità di valore del modulo elastico di rigidezza. In aggiunta, diminuendo il modulo elastico di rigidezza del rivestimento, a parità di spessore, la tensione assiale σx diminuisce. La for142 6.3. Le variazioni di temperatura Figura 6.6.: La tensione di taglio τxy agente all’interfaccia al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza degli strati [50]. Figura 6.7.: La tensione normale σy agente all’interfaccia al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza degli strati [50]. 143 Capitolo 6. Stato dell’arte Figura 6.8.: La tensione assiale σx nel conglomerato polimerico al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza e al variare del rapporto "m" tra gli spessori dei materiali [50]. mazione delle tensioni è dovuta all’interazione che si instaura tra rivestimento e substrato. L’adesione che si ha tra i due strati, in seguito a variazioni della temperatura, genera un vincolo al libero movimento. Il vincolo, che esplica delle tensioni assiali σx , risulta più accentuato se lo spessore del rivestimento è piccolo. Con riferimento alla Figura 6.9, l’andamento delle tensioni tangenziali all’interfaccia τxy , al variare di m ed n, mostra la tendenza a ridursi, considerando moduli elastici di rigidezza e spessori del rivestimento sempre più piccoli. In Figura 6.10, le tensioni assiali all’interfaccia σy , variando m e n, hanno un andamento diverso a seconda che n, il rapporto tra lo spessore del rivestimento e del substrato, sia inferiore o superiore a 0,3. Quando è inferiore, la sollecitazione diminuisce al diminuire del rapporto stesso e del modulo elastico di rigidezza; quando, invece, è superiore, tutto è funzione del modulo elastico. I risultati a cui Choi e altri ricercatori sono giunti sono: • quando un trave composita è soggetta ad una variazione di temperatura si sviluppano tensioni interne causate da un diverso coefficiente di dilatazione termica dei materiali. Le tensioni indotte nascono all’interfaccia tra i due materiali e risultano essere maggiormente concentrate in prossimità della fine della trave; • le tensioni assiali σx rimangono costanti per gran parte della campata della trave e sono pari a zero in prossimità della fine della trave; 144 6.3. Le variazioni di temperatura Figura 6.9.: La tensione di taglio τxy agente all’interfaccia al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza e al variare del rapporto "m" tra gli spessori dei materiali [50]. Figura 6.10.: La tensione normale σy agente all’interfaccia al variare del rapporto "n" tra i moduli elastici di rigidezza e al variare del rapporto "m" tra gli spessori dei materiali [50]. 145 Capitolo 6. Stato dell’arte la lunghezza nella quale la tensione assiale σx va rapidamente a zero è approssimativamente uguale all’altezza totale della trave; • la massima tensione di taglio τxy viene raggiunta in prossimità della fine della trave; la massima tensione di taglio lungo l’altezza della trave si raggiunge all’interfaccia; • la massima tensione normale σy all’interfaccia è raggiunta alla fine della trave; la tensione normale all’interfaccia è tipicamente minore di quella che si sviluppa sotto l’interfaccia per una trave composita avente lo spessore di conglomerato polimerico più sottile del sottofondo in calcestruzzo Portland; • il rapporto tra gli spessori m e il rapporto tra i moduli elastici di rigidezza n influenzano lo sviluppo delle tensioni all’interfaccia durante le variazioni di temperatura; • le tensioni di taglio τxy diminuiscono al diminuire dello spessore della pavimentazione (ipotesi del modulo elastico di rigidezza costante); le tensioni di taglio τxy diminuiscono al diminuire del modulo elastico di rigidezza del conglomerato polimerico (ipotesi di spessore costante). I risultati analitici ottenuti sono stati poi supportati da sperimentazioni di laboratorio che hanno confermato quanto visto in linea teorica. In conclusione gli autori suggeriscono che sia più opportuno utilizzare pavimentazioni di piccolo spessore e a basso modulo elastico in quanto nascono stati tensionali più lievi. 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti 6.4.1. L’esperienza in Virginia Michael Sprinkel [52] in un altro suo lavoro individua e studia vari sistemi per effettuare la manutenzione dei ponti in calcestruzzo. Secondo l’autore la principale causa del deterioramento dei ponti in calcestruzzo è la corrosione causata dagli ioni di cloro. I rimedi per impedire agli ioni di cloro di entrare in contatto con il calcestruzzo sono: • togliere annualmente i detriti e il cloro dall’impalcato e dalle pile • riparare e sigillare i giunti; • sigillare le fessure; 146 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti Tabella 6.9.: Costi dei sistemi di rivestimento per impalcati in calcestruzzo di ponti [$/m2 ]. Variabile Tipo 1a Tipo 2b Tipo 3c Tipo 4d Trattamento Altro Traffico Totale Vita (anni) Manutenzione 29 0 9 38 15 56 78 28 9 115 30 115 73 28 9 110 30 110 73 28 55 156 30 156 Rivestimento Rivestimento c Rivestimento d Rivestimento a b di in in in tipo epossidico. calcestruzzo modificato con lattice con bassa resistenza. calcestruzzo modificato con lattice con alta resistenza. calcestruzzo modificato con lattice/fumo di silice. • rattoppare le buche per evitare incidenti e prevenire un accelerato deterioramento dell’impalcato; • risistemare la membrana se si ricostruisce la pavimentazione in conglomerato bituminoso; • installare rivestimenti con bassa permeabilità per ridurre l’infiltrazione degli ioni cloro. Nell’articolo sono descritti i metodi e i materiali per: riparare e sigillare i giunti, sigillare le fessure (come ad esempio la resina metacrilica ad alto peso molecolare, la resina epossidica, le resina epossi-uretanica o la resina uretanica), rattoppare le buche (come ad esempio il conglomerato bituminoso). L’autore si sofferma sull’uso di rivestimenti a bassa permeabilità, che devono comunque fornire uno strato di usura con buona resistenza allo slittamento e un sistema protettivo per l’impalcato del ponte. Questi rivestimenti possono essere costruiti con: resina epossidica, poliestere-stirene non saturo, o metacrilato. Questi tipi di leganti poi sono mescolati con idonei aggregati (utilizzando un opportuno fuso granulometrico). L’AASHTO indica delle specifiche tecniche di ordine generale da usare per costruire rivestimenti polimerici multistrato, "slurry" e premiscelato. Sono indicati inoltre i costi sostenuti in 79 progetti di rivestimenti in Virginia durante l’anno 1995 (Tabella (6.9)). I rivestimenti polimerici consentono di risparmiare gran parte dei costi per il controllo del traffico e quindi possono essere installati ad un terzo del costo di una pavimentazione rigida in calcestruzzo modificato con polimeri o in calcestruzzo con fumo di silice. L’autore mostra che negli Stati Uniti i rivestimenti polimerici sono molto utilizzati perché hanno costi minori di altre soluzioni (Tabella (6.10)). 147 Tabella 6.10.: Numero di installazioni di rivestimenti polimerici negli Stati Uniti. 90 91 92 93 94 95 961 97 98 99 Ante SHRP Linea guida Totale Dal 1990 Resine Epossidica 1 Epossidica 2 Epossidica 3 Epossidica 4 Epossidica 5 Poliestere Metacrilicato 0 19 6 9 10 12 1 13 8 – 2 69 80 78 3 15 5 17 9 12 6 4 1 – 8 44 75 67 3 4 6 7 8 5 3 14 7 9 56 10 125 69 4 6 4 0 4 1 3 2 1 – 22 7 45 25 2 0 4 1 0 3 17 4 5 6 12 4 40 28 3 6 6 9 22 7 1 17 10 24 23 0 144 121 1 8 4 3 7 4 32 0 0 0 16 1 44 28 Totale 16 58 35 46 60 44 54 32 39 139 135 555 416 148 Capitolo 6. Stato dell’arte Anno 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti Come in altre ricerche, l’autore indica che la fase più importante per l’installazione di un rivestimento polimerico è quella della della rimozione della precedente pavimetazione e la sabbiatura del calcestruzzo della soletta per aumentare l’adesione della malta polimerica al supporto. Il rivestimento con resina epossidica di tipo "multistrato" consiste in due strati di resina epossidica e aggregati: una miscela di resina epossidica viene spruzzata sull’impalcato (in cui le fessure sono state sigillate) e successivamente l’aggregato (basalto o silice) viene sparso al di sopra. Il metodo "slurry" consiste in una malta di legante metilmetacrilato e di aggregati che viene applicata sulla superifcie sabbiata dopo del primer metilmetacrilato (steso almeno un’ora prima della malta. La stesa avviene con un mezzo che stende uno strato dello spessore pari a 5 millimetri. Il metodo "premiscelato" consiste in un conglomerato polimerico confezionato con resina poliestere-stirene che viene stesa con appositi macchinari. Lo spessore finale della pavimentazione è solitamente interno all’intervallo 6 - 25 millimetri. 6.4.2. L’esperienza in Iowa Alcuni ricercatori del Dipartimento di Trasporti dell’"Iowa State University" [53] hanno deciso, insieme all’"Iowa Highway Research Board" di testare direttamente in situ dei trattamenti manutentivi superficiali sottili ("Thin Maintenance Surface Treatments" - "TMS"). Questi rivestimenti forniscono, secondo gli autori, un economico metodo per estendere la vita di una pavimentazione in conglomerato bituminoso o in conglomerato cementizio. La ricerca ha previsto lo studio delle miscele, la costruzione e il monitoraggio delle sezioni di prova. Come metodo di confronto sono stati calcolati due parametri: l’indice di condizione della pavimentazione ("pavement condition index" - "PCI"), con range compreso tra 100 (pavimentazione perfetta) e 0 (pavimentazione completamente distrutta), e la resistenza allo slittamento ("skid resistance" - "SR"), utilizzando il protocollo indicato nella normativa ASTM E 501 A. Gli obbiettivi della ricerca erano capire se gli aggregati locali fossero idonei per l’impiego nei TMS e capire se fossero migliori le performance dei TMS con aggregati di dimensioni minori o con una granulometria di aggregati con più parte fine. Per effettuare una comparazione sono state scelte diverse tipologie di rivestimenti che sono stati stesi principalmente in due strade in Iowa: la Us-30 e la Us-69. Nella prima strada (US-30) sono state costruite due sezioni di controllo e sono state utilizzate le seguenti tipologie di rivestimenti: • "microsurfacing" (aggregato: quarzo; legante: bitume CSS-1H modificato con polimeri) [54]; 149 Capitolo 6. Stato dell’arte • "slurry seal" (aggregato:calcare; legante: bitume CSS-1H) [55]; • "cape seal" (uno strato dello spessore di 12,7 millimetri di "chip seal" con calcare al di sotto e uno strato di "slurry seal" al di sopra); • "single chip seal" (SCS) (aggregato: calcare di 12,7 millimetri di dimensioni; legante: bitume CRS-2P) [56]; • "chip seal with fog seal" (CS/fog) (aggregato: calcare di 12,7 millimetri di dimensioni; legante: bitume CRS-2P) [56]; • "double chip seal" (DCS) (bitume steso in due strati su cui viene sparso calcare in due diverse dimensioni: 12,7 millimetri per lo strato in basso e 9,53 millimetri per lo strato in alto) [56]; • "thin-lift ACC overlay" (rivestimento: sottile strato superficiale denso di spessore pari a 38,1 millimetri ; aggregati: dimensioni pari a 12,7 millimetri)2 . Prima della costruzione delle sezioni di prova (nel 1997) il valore del PCI variava tra 55 e 83. Dopo la costruzione, il valore del PCI variava inizialmente tra 80 (per il rivestimento "chip seal") e 94 (per il rivstimento "microsurfacing"). Il rivestimento "microsurfacing" si è deteriorato velocemente a causa della perdita di coesione del materiale. Tutte le soluzioni testate in un anno hanno subito una diminuzione del valore del PCI, tranne il "thin-lift ACC overlay", anche se il deterioramento delle caratteristiche è stato lo stesso per tutte le tipologie di rivestimento e per la sezione di controllo. Il valore di SR prima della costruzione delle sezioni di prova (1997) era variabile tra 41 e 43. Nella Tabella 6.11 sono riportati i valori prima e dopo la costruzione delle sezioni di prova. Il rivestimento "microsurfacing" con il quarzo ha avuto un aumento del valore di SR: 18,50 punti in più nel luglio del 2000 rispetto a prima della costruzione. Questo è dovuto al beneficio che riceve questo tipo di rivestimento dalla scagliatura della superficie (fenomeno noto con il termine inglese "raveling". L’altro tipo di rivestiento il cui valore di SR aumenta nel periodo di osservazione è il sottile rivestimento di calcestruzzo (9,75 punti più). I valori di SR diminuiscono, dopo un iniziale aumento, in tutte le sezioni di prova. Nella seconda strada (US-69) si sono avute delle ottime condizioni meteo durante la costruzione dei rivestimenti che hanno contribuito ad avere dei risultati migliori rispetto alla US-30. Nella US-69, oltre ad una sezione di controllo, i rivestimenti utilizzati nelle sezioni di prova sono stati: 2 ACC 150 significa "Asphalt Cement Concrete". 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti Tabella 6.11.: valori del SR perle sezioni di prova sulla US-30 in Iowa. Sezione Contollo 2 Microsurfacing Sottile rivestimento chip seal e fog seal chip seal cape seal Controllo 1 Resistenza allo slittamento (SR)a Prima della costruzione Ottobre 1997 Luglio 2000 – 42,50 42,50 41,00 43,00 41,00 – 49,25 51,00 55,75 52,50 54,00 64,00 51,00 47,75 61,00 52,25 37,50 37,75 38,00 45,50 Differenzab -1,50 +18,50 +9,75 -3,50 -5,25 -3,00 -5,50 Media di due misurazioni separate: una effettuata sulla corsia lato est e una sulla corsia ovest. b Tra luglio 2000 e la più recente misura del valore di SR: il valore prima della costruzione o quello dell’ottobre 1997, in funzione della sezione di prova. a • "microsurfacing" (aggregato: quarzo, con gradazione dalla parte grossa del fuso consentito; legante: bitume CSS-1H modificato con polimeri) [54]; • DCS n. 4 (corsia sud) e n. 8 (corsia nord) (aggregato: calcare locale di 12,7 millimetri per lo strato in basso e quarzo di 9,53 millimetri per lo strato in alto [l’aggregato per la miscela n. 4 era più pulito di quello per la miscela n. 8]; legante: bitume CRS-2P) [56]; • SCS n. 4 (corsia sud) e n. 8 (corsia nord) (aggregato:quarzo di 9,53 millimetri per lo strato in alto [l’aggregato per la miscela n. 4 era più pulito di quello per la miscela n. 8]; legante: bitume CRS-2P) [56]; • SCS con bitume CRS-2P (aggregato: calcare locale di dimensioni pari a 6,35 millimetri) [56]; • DCS con bitume CRS-2P (aggregato: calcare locale di dimensioni pari a 12,7 millimetri per lo strato inferiore e calcare locale di dimensioni pari a 6,35 millimetri per lo strato superiore; legante: bitume HFRS-2P per lo strato inferiore e bitume CRS-2P per lo strato superiore) [56]; • DCS con bitume HFRS-2P (aggregato: calcare locale di dimensioni pari a 12,7 millimetri per lo strato inferiore e calcare locale di dimensioni pari a 6,35 millimetri per lo strato superiore; legante: bitume HFRS-2P per entrambi gli strati) [56]; 151 Capitolo 6. Stato dell’arte • SCS con bitume HFRS-2P (aggregato: calcare locale di dimensioni pari a 6,35 millimetri; legante: bitume HFRS-2P) [56]; • "thin-lift overlay": – corsia nord: "hot sand mix" (aggregato: miscela costituita per l’80% da quarzo e per il 20% da locale sabbia di mattoni; legante: bitume modificato con polimeri); – corsia sud: prodotto commerciale NC (aggregato: miscela aperta di calcare locale e quarzo con massima dimensione di 12,7 millimetri). Le ultime due tipologie di rivestimento "thin-lift overlay" non erano mai state impiegate in Iowa. É stato usato un polimero modificato con polimeri per il rivestimento "hot sand mix" per incrementare la stabilità alle alte temperature e ridurre la fessurazione a basse temperature. il rivestimento "hot sand mix" è stato steso usando una procedura simile a quella usata per un tradizionale "Hot Mix Apshalt" (HMA). I valori del PCI, prima della costruzione nel 1998 delle sezioni, variavano tra 61 e 78. Tutti i rivestimenti dopo la loro costruzione possedevano un indice maggiore di 95 che è diminuito dopo il primo inverno tra 80 e 90. La maggior parte degli ammaoramenti era costituita da fessure, scagliature e risalita del legante in superficie. Alla lunga i valori di PCI sono diminuiti di molto perché le fessure longitudinali, prima, e quelle trasversali, dopo, presenti nella vecchia pavimentazione, si sono riflesse sui TMS. Il rivestimento "chip seal" con quarzo e il rivestimento SCS con calcare e legante CRS-2P si sono deteriorati in modo più veloce durante l’inverno 1999-2000 a causa del passaggio degli spazzaneve. In termini di PCI, le sezioni che si sono comportate meglio sono state quelle con i rivestimenti NC e DCS n. 4 e n. 8, che hanno avuto un miglioramento del PCI di 14 punti. I valori medi di SR prima dela costruzione erano pari a 50 (per la corsia sud) e a 55 (per quella nord): i ricercatori hanno quidi deciso di utilizzare il valore medio di SR in totale per tutte le sezioni di prova, ovvero 52,5. I valori di SR sono riportati nella Tabella 6.12. Come si può notare, i valori di SR dei rivestimenti "hot sand mix"e SCS con quarzo sono aumentati di 2,2 punti e 4,5 punti, rispetto ai valori presenti prima della costruzione delle sezioni di prova. Secondo i ricercatori i danni sui rivestimenti "microsurfacing" possono essere causati dalle scagliature e dagli spazzaneve. Le strade con rivestimenti "microsurfacing" costruiti negli anni prima con aggregati con granulometria molto fine sono molto lisce e hanno dimostrato di subire meno danni a causa degli spazzaneve. Gli autori concludono il loro lavoro suggerendo che i rivestimenti sottili a caldo si comportano molto bene: sebbene i costi iniziali di questi rivestimenti siano alti rispetto agli stessi dei rivestimenti sottili superficiali, la differenza 152 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti Tabella 6.12.: valori del SR per le sezioni di prova sulla US-69 in Iowa. Sezione NC Hot Sand Mix SCS HFRS-2P DCS HFRS-2P DCS CRS-2P SCS CRS-2P SCS n. 4 SCS n. 8 DCS n. 4 DCS n. 8 Controllo Microsurfacing Resistenza allo slittamento (SR)a Differenza luglio 1995 Luglio 1995 Ottobre 1999 Luglio 2000 Ottobre 1999 Luglio 2000 52,50 52,50 52,50 52,50 52,50 52,50 52,50 52,50 52,50 52,50 52,50 52,50 45,00b 53,00c 49,00 50,50 51,50 51,50 55,00b 57,00c 53,00b 54,00c 47,50 53,00 49,00b 57,00c 53,15 53,50 53,35 53,65 57,00b 55,30c 54,70b 55,00c 46,80 55,20 -7,50 +0,50 -3,50 -2,00 -1,00 -1,00 +2,50 +4,50 +0,50 +1,50 -5,00 +0,50 -3,50 +4,50 +0,65 +1,00 +0,85 +1,15 +4,50 +2,80 +2,20 +2,50 -5,70 +2,70 Media di due misurazioni separat, una per la corsia lato sud e una per la corsia nord, dove applicabile. b Valore misurato solo sulla corsia sud. c Valore misurato solo sulla corsia nord. a può essere recuperata per il fatto che i rivestimenti sottili a caldo durano per un lasso temporale maggiore. Il problema dell’essudazione di legante sulla pavimentazione deve essere risolto, secondo gli autori, con un’apposita progettazione della miscela. Una parziale soluzione può essere probabilmente l’uso di un bitume modificato che con la sua alta rigidezza non rammolisca ad alte temperature. I rivestimenti "chip seal" hanno avuto delle buone prestazioni, soprattutto quelli con il quarzo. Il costo di questa tipologia di rivestimenti dipende dal tipo di materiale impiegato. Utilizzando una granulometria aperta si produce un buon rivestimento, durevole e duro (si riducono anche i danni dovuti agli spazzaneve), mentre con aggregati troppo piccoli si ha un rivestimento che ha buone proprietà solo nel breve periodo, anche se vi è una riduzione dei costi e minore richiesta di materiale da impiegare nel rivestimento. In letteratura si trova che aggregati di un solo diametro legano meglio con la superficie stradale perché c’è più spazio vuoto per il legante. Inoltre generalmente la letteratura suggerisce che i rivestimenti "chip seal" costruiti con aggregati di piccola pezzatura si usurerà molto più velocemente rispetto a quelli di grande pezzatura, speciamente sotto traffico pesante. Gli autori però non hanno avuto risultati che consentissero loro di confermare o meno questa affermazione. I rivestimenti con quarzo dimostrano di avere il migliore valore di SR. Ma 153 Capitolo 6. Stato dell’arte anche questo tipo di aggregato nello studio condotto viene danneggiato dagli spazzaneve. Eppure gli autori conoscono altre strade in cui è stato utilizzato il quarzo e in quei casi non si sono avuti danni a causa degli spazzaneve. Alcuni motivi dei danni avuti in questo caso possono essere addotti a: idrofilia degli aggregati (gli aggregati non hanno una buona adesione al legante), mancanza nella granulometria di progetto della parte fine (le particelle più grandi rimanendo in superficie sono più esposte di altre alla lama dello spazzaneve) e durezza delle particelle di aggregato (che vengono tolte dalla superficie anzichè essere recise dalla lama dello spazzaneve). Gli autori suggeriscono al personale della manutenzione delle strade in Iowa di utilizzare delle "scarpe" per le lame degli spazzaneve e di abbassare la pressione delle lame sulla pavimentazione. In ultima analisi i TMS sono una tecnologia idonea per la manutenzione, il miglioramento e la costruzione delle strade e autostrade. Questi rivestimenti possono essere usati quando forniscono un beneficio economico e quando la loro implementazione incrementi la sicurezza degli utenti della strada. 6.4.3. L’esperienza in Tennessee Alcuni ricercatori dell’Università di Nashville in Tennessee hanno effettuato un studio sulle tecniche di rivestimento come misura preventiva per aumentare la durabilità degli impalcati dei ponti [57]. Infatti queste tecniche, secondo gli autori, abbassano la probabilità che si verifichino degli ammaloramenti dell’impalcato del ponte, proteggono la soletta dagli sostanze aggressive presenti nell’ambiente (che tendono a iniziare o ad aumentare il degrado del ponte). I rivestimenti dell’impalcato del ponte è uno strato che fornisce una protezione all’impalcato stesso dalle condizioni che ne promuovono il deterioramento fisico e chimico. Lo strato di rivestimento viene applicato al di sopra della soletta del ponte e solitamente resiste alla penetrazione dell acqua o delle sostanze chimiche (due delle più frequenti cause di danno dell’impalcato del ponte). Sui ponti in Tennessee, nel 2004 (alla data dell’articolo), erano impiegate quattro tipologie di rivestimenti impiegate come tecniche di manutenzione preventiva: conglomerato bituminoso, calcestruzzo rinforzato ("reinforced portland cement concrete" - "PCC"), calcestruzzo modificato con polimeri e non rinforzato ("nonrinforced polymer-modified concrete" - "PMC"), e rivestimenti sottili legati. L’uso di uno o dell’altro tipo dipende da molti fattori, perché ogni tipo di rivestimento è idoneo per diverse applicazioni, fonisce diversi benefici e a volte l’uso è limitato dalla conformazione della struttura. I rivestimenti in conglomearo bituminoso sono due: un rivestimento tradizionale e un rivestimento a strati ("sandwich seal"). Entrambe le soluzioni sono una combinazione di conglomerato bituminoso e sigillante/mano d’attacco per 154 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti soletta da ponte (gomma, fibre di vetro, bitume, membrana di poliestere). Il conglomerato bituminoso confezionato secondo le specifiche tecniche è costituito da: 94% in peso circa di inerte e 6% in peso circa di bitume. Entrambi i rivestimenti sono tipicamente stesi con uno spessore totale di 8,26 centimetri, ma lo spessore puà variare in base ai requisisti di ciascuno specifico progetto. Il rivestimento "sandwich seal" consiste in tre strati di conglomerato bituminoso con il sigillante/mano d’attacco posta tra i primi due strati di conglomeato bituminoso. Il rivestimento tradizionale consiste in tre strati di conglomerato bituminoso con il sigillante/mano d’attacco posto tra l’impalcato da ponte e il primo strato di conglomerato bituminoso. Entrambi i sistemi di rivestimento forniscono una protezione all’impalcato del ponte attraverso la combinazione di strati di conglomerato bituminoso e di sigillanti/mano d’attacco sull’impalcato stesso. Questo permette di proteggere la soletta del ponte dai materiali che danneggiano l’impalcato del ponte, come acqua e cloro. Il rivestimento in PCC consiste in uno strato unico di calcestruzzo con uno strato longitudinale e trasversale di rinforzo in acciaio. Questo tipo di rivestimento è steso tipicamente con uno spessore minimo di 11,43 centimetri, sebbene possono essere richiesti differenti spessori per dimensionamenti ad hoc. Il calcestruzzo impiegato in Tennessee permette di ottenere una resistenza a compressione pari a 27,56 MPa dopo 28 giorni di stagionatura, con un rapporto acqua/cemento di 0,43. Questo tipo di rivestimento protegge l’impalcato per il suo spessore e la sua bassa permeabilità e fornisce anche una reistenza strutturale addizionale. Esso è usato generalmente in tre casi: 1. quando è richiesta la costruzione di uno strato addizionale (riabilitazione, allargamento, o miglioramento della sicurezza); 2. quando è necessaria la riparazione dell’impalcato del ponte (solitamente quando è danneggiato circa il 50% o più della soletta); 3. quando si tratta di dover appllicare questo rivestimento a vecchi ponti (nei quali lo spessore dell’impalcato è piccolo e l’opera non è adeguata agli standard costruttivi recenti, come ad esempio l’assenza della pellicola protettiva applicata alle barre d’armatura). Il rivestimento in PMC è una miscela di calcestruzzo e di un polimero, il quale migliora le proprietà del calcestruzzo nelle applicazioni come rivestimento. Queste proprietà possono includere una più alta resistenza a compressione, migliorano l’adesione al calcestruzzo esistente e alle barre d’armatura, migliorano la resistenza all’acqua, alle soluzioni contenenti cloro e ai cicli di gelo e disgelo. Questo tipo di miscela (confezionata secondo le specifiche tecniche del Tennessee) fonisce una rapida posa e riduce il tempo richiesto per la stagionatura e quindi per la chiusura della strada. Questo rivestimento viene steso tipicamente formando uno strato sottile di spessore pari a 3,81 centimetri applicato al di 155 Capitolo 6. Stato dell’arte sopra dell’impalcato del ponte (che ovviamente viene prima preparato in modo adeguato). Attraverso lo spessore del rivestimento e le caratteristiche fisicomeccaniche, il rivestimento fornisce una buona protezione per l’impalcato del ponte. Esso è utilizzando in diverse situazioni, come ad esempio, quando si vuole evitare di aggiungere alto peso sull’impalcato (rispetto al rivestimento in PCC o a quello in conglomerato bituminoso), o quando è necessario che il rivestimento sia completato in un breve lasso di tempo. I rivestimenti sottili legati possono essere costituiti da due tipi di materiali: malta cementizia modificata con polimeri e malta epossidica modificata con polimeri. Entrambi i materiali vengono stesi in un sottile strato applicato direttamente sull’impalcato precedetemente preparato e in molti casi (a seconda del tipo di materiale) si sparge sulla malta dell’aggregato fine per irruvidire la superficie del rivestimento. Lo spessore dello strato solitamente è pari a circa 6,35 millimetri. Per la bassa permeabilità, la resistenza ai cicli di gelo e disgelo e la resistenza ai danni dovuti a sostenze chimiche dei materiali modificati con polimeri, questi rivestimenti forniscono uno strato protettivo per l’impalcato del ponte. Essi forniscono inoltre ulteriore resistenza allo slittamento. Questo rivestimento è adatto quando è necessario aumentare la resistenza a slittamento della pavimentazione, quando le considerazioni geometriche indicano necessariamente un rivestimento sottile e quandoè necessario evitare di aggiungere altro peso sull’impalcato. Per stendere uno dei rivestimenti fin’ora descritto bisogna prima preparare l’impalcato del ponte. Gli autori dell’articolo indicano che per prima cosa è necessario ispezionare la soletta. Se presenti, i danni subiti dal calcestruzzo o dall barre d’armatura vanno rimossi e riparati. A seconda del tipo di rivestimento che verrà posato sull’impalcato si possono avere, secondo gli autori diverse esigenze: • per applicare i conglomerati bituminosi si applica una mano d’attacco direttamente sul calcestruzzo della soletta prima di stendere il materiale; • il rivestimento in PCC può essere applicato sopra alla soletta esistente oppure, se danneggiato, può essere steso insieme ad uno strato di rinforzo che va a sotituire quello scarificato dall’esistente (la superficie del rivestimento viene poi irruvidita mediante macchine scarificatrici o mediante idrodemolitori fino ad una profondità di circa 2,54 centimetri); • per l’applicazione del rivestimento in PMC si può procedere come nel caso precedente, scarificando però per una profondità di almeno 1,9 centimetri (l’idrodemolizione è preferita alla scarifica perché produce una superficie più irregolare che fornisce una maggiore adesione tra rivestimento in PMC e l’impalcato esistente); 156 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti • i rivestimenti sottili legati richiedono che l’impalcato subisca una procedura di abrasione particolare (che rimuove solo un sottile strato dell’impalcato) prima dell’applicazione per promuovere una migliore adesione tra rivestimento e soletta del ponte. In tutti i casi la superficie dove viene steso il rivestimento deve essere pulita e libera da residui che possono ridurre l’adesioen tra rivestimento e impalcato del ponte. Gli autori fanno una breve descrizione dei metodi di stesa dei vari tipi di rivestimento. Il conglomerato bituminoso viene steso mediante la tradizionale procedura di asfaltatura. Il rivestimento "sandwich seal" viene steso secondo un ben preciso ordine: inannzittutto viene stesa una mano d’attacco sull’impalcato del ponte (per aumentare l’adesione tra rivestimento e soletta), poi viene steso il primo strato di conglomerato bituminoso, vengono quindi stese una membrana e, al di sopra, i due strati rimanenti di conglomerato bituminoso (i bordi della membrana sono piegate per assicurare la copertura e per evitare aperture). Il rivestimento tradizionale in conglomerato bituminoso, a differenza del precedente, prevede la stesa della sola membrana (e non della mano d’attacco) tra rivestimento e soletta del ponte. Il rivestimento in PCC rinforzato viene steso direttamente sull’impalcato, dopo aver posto le barre di rinforzo, mediante pompe e autobetoniere; dopo l’indurimento il calcestruzzo viene irruvidito meccanicamente. Il rivestimento in PMC non rifonforzato ha problemi di ritiro e di fessurazione se sottoposto ad alte temperature durante la stesa: per evitare un eccessivo riscaldamento quinidi il rivestimento viene posto in opera (nello stesso modo del precedente) durante le ore notturne o durante la prima mattina; sul calcestruzzo fresco vengono stesi dei teli umidi per evitare il surriscaldamento successivo alla stesa; dopo l’indurimento il calcestruzzo viene irruvidito meccanicamente come nel precedente caso. Nel caso dei rivestimenti sottili legati, viene spruzzata/stesa prima il legante e poi viene sparso sulla superficie ancora fresca l’aggregato; a seconda del tipo di rivestimento che si vuole ottenere questi due fasi possono essere ripetute alcune volte. Quest’ultima tipologia di rivestimento esprime le migliori caratteristiche con temperature medio-basse che favoriscono l’adesione al supporto durante l’indurimento. Per gli autori due fattori molto importanti per capire quale rivestimento impiegare sono il costo e la vita utile. La vita utile varia a seconda di alcuni parametri: tipo di rivestimento, condizioni in situ (di tipo ambientale e a causa del traffico) a cui deve far fronte il rivestimento, condizioni del ponte e qualità del rivestimento finito. Nella Tabella 6.13 sono riportati una stima della vita utile e il costo medio per ogni rivestimento. La vita utile stimata varia da un minimo di 15 anni (conglomerato bituminoso) fino ad un massimo di 30 anni (rivestimento in PCC rinforzato). Il costo medio è influenzato invece 157 Capitolo 6. Stato dell’arte Tabella 6.13.: Vita utile e costo medio dei tipi di rivestimento. Tipo di rivestimento Conglomerato bituminoso (entrambi i tipi) PCC rinforzato PMC non rinforzato Sottile legato (entrambi i tipi) Vita utile (anni) Costo medio [$/yd2 ] 15 - 20 30 e più 25 - 30 20 - 30 30 - 40 70 - 80 55 - 65 70 - 110 da: materiale utilizzato, costo del lavoro, fattori specifici del sito dove deve essere costruito il rivestimento (com ad esempio il traffico e la dimensione del progetto) e la quantità della manutenzione richiesta dopo la costruzione del rivestimento. I costi medi indicati nella Tabella 6.13 si riferiscono solo al costo del solo rivestimento (senza far riferimento alla scarifica del precedente rivestimento, alla preparazione dell’impalcato e alla successiva manutenzione). Come si può notare dai valori riportati nella Tabella 6.13, il rivestimento in conglomerato bituminoso è il più economico, mentre il rivestimento sottile legato è quello più costoso. Gli autori infine hanno effettuato una classificazioine dei metodi più utilizzati in Tennessee: sono stati considerati 58 ponti sui quali è stato applicato un rivestimento nel periodo di quattro anni (1999-2002) durante il quale è stato effettuato questo studio. I ponti sono stati classificati in base al rivestimento usato. Il risultato dello studio è rappresentato in Figura 6.11 e indica che il rivestimento in conglomerato bituminoso è il più frequente, mentre quello meno frequente è il rivestimento sottile legato. Gli autori si soffermano ad indicare che la classificazione non include tutte le tipologie di rivestimento utilizzate in quegli anni in Tennessee, ma vuole essere una rappresentazione dela frequenza con cui si utilizzano i rivestimenti presentati nel loro studio. 158 6.4. La manutenzione delle impermeabilizzazioni e delle pavimentazioni su ponti e viadotti PMC non rinforzato PCC rinforrzato 26% 24% 2%"Thin bonded" 48% Conglomerato bituminoso Figura 6.11.: Stima dell’uso dei tipi di rivestimento sui ponti in Tennessee. 159 Capitolo 7. Programma sperimentale Dall’ampia rassegna bibliografica precedente emerge come i rivestimenti polimerici sottili confezionati con resine sintetiche siano stati impiegati negli ultimi anni in numerose applicazioni con risultati, nella maggior parte dei casi, più che soddisfacenti. La gran parte dei fallimenti o dei risultati non conformi alle aspettative sono stati imputabili non a carenze dei materiali quanto piuttosto al loro non corretto utilizzo. Risulta tuttavia evidente come questa tecnologia sia nettamente più diffusa nel Nord America piuttosto che in Europa o in Italia, dove le applicazioni di questo tipo sono in numero nettamente inferiore e sostanzialmente trascurabile rispetto a quelle di tipo tradizionale. L’obiettivo della sperimentazione è quello di realizzare un confronto esauriente tra le prestazioni di sistemi tradizionali in conglomerato bituminoso per l’impermeabilizzazione e la pavimentazione degli impalcati da ponte e quelle di alcune tipologie di rivestimenti polimerici sottili. Un ulteriore obiettivo è quello di capire quale tra i metodi di posa dei rivestimenti polimerici sottili abbia le prestazioni migliori nello svolgere le previste funzioni di impermeabilizzazione e pavimentazione. Infine sono state utilizzate diverse tipologie di aggregato per determnare quale di queste comporti le migliori prestazioni in abbinamento a questi sistemi di rivestimento e impermeabilizzazione. Al fine di raggiungere questi obiettivi, la sperimentazione si compone di una fase preliminare che consiste nella scelta e nella caratterizzazione dei materiali utilizzati. Il programma sperimentale prevede: • lo studio delle proprietà degli aggregati; • lo studio dei conglomerati polimerici dal punto di vista meccanico (modulo elastico secante, resistenza a flessione e resistenza a compressione); • la caratterizzazione funzionale/superficiale dei conglomerati stesi con vari metodi (macrotessitura, resistenza allo slittamento e permeabilità); 161 Capitolo 7. Programma sperimentale Figura 7.1.: Metodo di stesa "slurry". • la caratterizzazione meccanico/strutturale degli stessi conglomerati stesi con vari metodi (resistenza a fatica, resistenza a deformazioni permanenti, adesione al supporto - prima e dopo cicli di gelo-digelo e azione dei sali disgelati in combinazione con gelo e disgelo -, dilatazione termica). I metodi di posa sono: "premiscelato" (PR), "multistrato" (ML) e "slurry" (SL). Come indicato nel Capitolo 3, la miscela stesa con metodo "premiscelato" (PR) è una miscela di legante e aggregato, stesa in un’unica soluzione sull’impalcato di calcestruzzo. Il metodo di posa "multistrato" (ML) prevede, invece, che la stesa venga completata in fasi successive: inizialmente si applica il legante sull’impalcato del ponte; su di esso viene spolverato succesivamente uno strato di aggregato; dopo l’indurimento, l’aggregato in eccesso (che, cioè, non si è attaccato alla resina) viene rimosso (per mezzo di aria compressa, con maccchine aspiratrici o spazzolatrici); viene quindi steso un secondo strato di legante, su cui viene successivamente spolverato un altro strato di aggregato. Il procedimento può essere ripetuto più volte (come descritto in letteratura da [52] e da [58]) a seconda dello spessore finale che si vuole dare al rivestimento. In questo studio è stato deciso di eseguire due volte il procedimento in modo tale da ottenere una pavimentazione dello spessore compreso tra 5 millimetri e 10 millimetri. Nel caso della stesa di tipo "slurry" (SL) si posano vari strati di resine diverse per incrementare l’impermeabilizzazione e uno strato di aggregato (Figura 7.1). I conglomerati polimerici stesi per ottenere un rivestimento sottile carrabile ed impermeabilizzante e testati in questo lavoro sono: metodo di stesa "premiscelato" : scheletro litico di tipo 1 : 1. resina A e sabbia di quarzo (PR-1-SQ); 2. resina A (50%) e sabbia di quarzo (PR-1-SQ (50%)); 162 7.1. I leganti 3. resina A e scoria di acciaieria (PR-1-SA); 4. resina A e materiale C&D (PR-1-CD); scheletro litico di tipo 2 : 1. resina A e calcare (PR-2-C); 2. resina A e scoria di acciaieria (PR-2-SA); 3. resina A (50%) e calcare (PR-2-C (50%)); metodo di stesa "multistrato" : 1. resina A e sabbia di quarzo (ML-SQ); 2. resina A e scoria di acciaieria (ML-SA); 3. resina A e materiale C&D (ML-CD); metodo di stesa "slurry" : 1. resina B e bauxite (SL-B). Sono state inoltre prodotte due soluzioni tradizionali in conglomerato bituminoso con guaina bituminosa interposta tra supporto in calcestruzzo e pavimentazione e con scheletro litico di tipo 2: • calcare (CB-2-C); • scoria di acciaieria (CB-2-SA). Le immagini delle pavimentazioni indicate nell’elenco soprastante sono riportate nell’appendice A. 7.1. I leganti 7.1.1. Il bitume Per la produzione dei conglomerati bituminosi è stato scelto un bitume tradizionalmente impiegato in Italia con penetrazione nominale 50/70 0,1/mm. Questo bitume è classificato come intermedio tra quelli estremamente duri e quelli molli. Le caratteristiche del bitume sono riassunte nella Tabella 7.1. 7.1.2. La membrana bituminosa preformata Per aumentare l’adesione tra supporto in calcestruzzo e pavimentazione in conglomerato bituminoso e per migliorare l’impermeabilizzazione dell’impalcato di calcestruzzo, si usa solitamente una guaina bituminosa preformata (Figura 7.2). 163 Capitolo 7. Programma sperimentale Tabella 7.1.: Proprietà fisico-meccaniche del bitume. Caratteristiche Penetrazione a 25℃ [0,1/mm] Temperatura di rammollimento [℃] Punto di rottura Fraas [℃] Viscosità dinamica a 60℃ [Pa · s] Duttilità a 25℃ [mm] Norma di riferimento Valori UNI EN 1426 UNI EN 1427 UNI EN 12593 UNI EN 12596 ASTM D 113 65 45 ≤−8 ≥ 145 ≥ 800 Tabella 7.2.: Proprietà fisico-meccaniche della guaina bituminosa. Caratteristiche Spessore [mm] Allungamento [%] Resistenza a trazione [MPa] Resistenza allo strappo [MPa] Modulo elastico a trazione [MPa] Norma di riferimento Valori − ASTM D 638 ASTM D 638 UNI EN 1542 ASTM D 638 4 > 105 > 2,5 2,5 >9 Questa guaina è stata impiegata in questo studio interponendola tra il supporto in calcestruzzo e il conglomerato bituminoso; essa è costituita da poliestere ricoperto di bitume e di graniglia. Nella Tabella 7.2 sono riportate le principali caratteristiche della guaina. 7.1.3. La resina di tipo A La resina di tipo A è un formulato sintetico, il cui legante di base è di natura epossipoliuretanica, additivata con bitumi ed elastomeri compatibili. É un materiale bicomponente formato da una base e da un induritore. Dopo l’indurimento, che avviene per reticolazione chimica e con processo esotermico, la (a) Stesa della guaina in cantiere. (b) Guaina bituminosa stesa su impalcato di ponte. Figura 7.2.: Esempio di applicazione della guaina bituminosa preformata in cantiere. 164 7.1. I leganti Tabella 7.3.: Proprietà fisico-meccaniche della resina di tipo A. Caratteristiche Densità relativa [kg/dm3 ] Durezza superficiale [Shore A] Carico di rottura per trazione [MPa] Allungamento a rottura per trazione [%] Deformazione residua a trazione [%] Adesione al calcestruzzo [MPa] Norma di riferimento Valori ASTM D 792 ASTM D 2240 ASTM D 638 ASTM D 638 1,15 ± 0,05 60 ± 5 ≥2 ≥ 100 UNI 8202 ASTM D 4541 ≤3 ≥ 1,85 resina assume caratteristiche di elasticità, di tenacità, di impermeabilizzazione, di inerzia chimica e ottima adesione ai supporti cementizi e metallici, offre elevata dielettricità. Le caratteristiche tecniche del materiale sono riportate nella Tabella 7.3 Le modalità di impiego prevedono la preparazione preventiva del supporto per l’ottimale adesione al supporto della resina. Le superfici in calcestruzzo devono essere esenti da elementi distaccanti, quali prodotti disarmanti superficiali, latte di cemento, grassi, ecc. Le superfici devono essere inoltre trattate con il primer di tipo A e la stesa della resina deve essere effettuata "fresco su fresco". Per aumentare l’adesione è preferibile addottare la sabbiatura o la granigliatura sia per le superfici in acciaio che per quelle in calcestruzzo. La resina di tipo A, una volta uniti base e induritore, ha un tempo di impiego pari a 20 minuti ad una temperatura di circa 20℃. La resina catalizza già a temperatura ambiente, ma un incremento di temperatura accelera la maturazione. La temperatura minima di applicazione è pari a 5℃ (a tale temperatura ovviamewnte la reattività del prodotto è minore. La resina di tipo A può essere stesa da sola a formare una membrana impermeabile (con spessori compresi tra i 600 micrometri e un millimetro). 7.1.4. Il primer di tipo A Il primer di tipo A è un materiale che viene utilizzato nella sperimentazione in coppia con la resina di tipo A per aumentare l’adesione tra il supporto in calcestruzzo e la resina di tipo A (metodo "multistrato") o la malta polimerica prodotta con la resina di tipo A (metodo "premiscelato"). Il primer in questione è un materiale sintetico di natura epossidica a due componenti che indurisce a temperatura ambiente. Il materiale, una volta indurito, presenta alta resistenza meccanica, ottimo potere adesivo, resistenza all’acqua, alle soluzioni saline, agli oli minerali, alla benzina. Possiede inoltre ottime caratteristiche dielettriche. La caratteristiche tecniche del primer di tipo A sono riassunte nella Tabella 7.4. 165 Capitolo 7. Programma sperimentale Tabella 7.4.: Proprietà fisico-meccaniche del primer di tipo A. Caratteristiche Norma di riferimento Valori Massa volumica [kg/dm3 ] Vita utile (per 60 g. di miscela a 23℃) [min] Viscosità a 22℃[cps] Resistenza al taglio cls/cls [MPa] Carico unitario di rottura per compressione [MPa] Modulo elastico a compressione [MPa] Carico unitario di rottura per flessotrazione [MPa] Misura dell’adesione mediante prova di trazione (pull-off-test) [MPa] Resistività volumica [Ωcm]a Resistività superficiale [Ω] UNI EN ISO 1183-1 ASTM C 881 1,1 ± 0,1 45 ASTM D 2393 UNI EN 12615 ASTM D 695 500 ± 50 ≥ 12 ≥ 60 ASTM D 695 ASTM D 695 ≥ 2950 ≥ 30 UNI EN 1542 ≥5 UNI 4288 UNI 4288 3 · 1015 1016 a Valori indicativi da prove di laboratorio, eseguite a 20℃ circa, dopo 10 giorni di maturazione dei provini a 20℃ circa. Il primer di tipo A può essere impiegato su supporti in calcestruzzo, in conglomerato bituminoso, in acciaio, in legno, e in marmo. Lo spessore che il produttore consiglia di utilizzare come promotore di adesione è compreso tra circa 200 µm e circa 100 µm. La malta polimerica va stesa sul primer mentre questo è ancora umido. Operazione importante per lo scopo del primer è la preparazione del supporto. Infatti le superfici di natura cementizia devono essere esenti da elementi distaccanti, quali disarmanti superficiali, latte di cemento, grassi, ecc. Il tempo di impiego del primer è pari a circa 10 minuti a temperatura ambiente di circa 20℃. Il primer di tipo A catalizza già a temperatura ambiente e un incremento di temperatura accelera la maturazione. La temperatura minima consigliata di applicazione è di 5℃(a questa temperatura ovviamente la reattività del prodotto è minore). 7.1.5. La resina di tipo B La resina di tipo B è un legante metacrilico, modificato con un’alta concentrazione di elastomeri. Questo tipo di resina è adatta per realizzare una pavimentazione direttamente carrabile e impermeabilizzante in sostituzione dei tradizionali manti bituminosi su superfici sia cementizie che metalliche di ponti e di viadotti. La resina è applicabile a spruzzo a freddo o manualmente. É previsto l’uso di specifici tipi di inerti per il confezionamento delle impermeabilizzazioni con questa resina; è richiesto un aggregato di specifica granulometria 166 7.2. Gli aggregati Tabella 7.5.: Proprietà fisico-meccaniche del primer di tipo B. Proprietà Viscosità (a 25℃) [mPas] Densità (a 25℃) [g/ml] Pot life (a 20℃) [min] Tempo di indurimento (a 20℃) [min] Valore Normativa 100 - 130 0,99 15 circa 30 circa DIN 53018 ISO 2811 – – e di elevata durezza, quali la bauxite o il basalto. Nella resina sono stati già premiscelati un filler di tipo B, come riempitivo, e ossidi di alluminio. Le caratteristiche della resina sono: alta resistenza meccanica, all’usura e chimica, elasticità, durabilità anche a temperature molto basse. Questa resina ha tempi di indurimento molto veloci, anche a temperature molto basse ed in presenza di umidità. La superficie infatti può essere utilizzata anche a poche ore dall’applicazione della resina. Questa resina si presta ad essere applicata secondo il metodo "slurry". Prima della stesa della resina sull’impalcato si stende il primer di tipo B per migliorare l’adesione tra resina e superficie sottostante. Le caratteristiche del primer sono riportate nella Tabella 7.5. La stesa del materiale per costruire la pavimentazione avviene secondo un ben preciso schema: • si pulisce la superficie sulla quale si stenderà la pavimentazione (manualmente mediante spazzole in ferro in laboratorio, con mezzi meccanici con getti d’aria o mediante "pallinatura" in opera); • si stende una mano di primer (Tabella 7.5) sulla superficie; • dopo circa 5 - 10 minuti, si stende un primo strato con resina di tipo B1 (Tabella 7.6); • su di essa si stende poi uno strato di resina di tipo B2 unita preventivamente con il filler di tipo B (Tabella 7.7); • si spolvera l’aggregato sulla resina B2 ; • si stende uno strato della resina di tipo B3 (Tabella 7.8). 7.2. Gli aggregati In questo paragrafo sono presentate le caratteristiche fisico-meccaniche degli aggergati. Gli aggregati, calcare e scoria di acciaieria, sono stati vagliati mediante due tipologie di serie di crivelli/setacci. Il motivo di ciò è il seguente: 167 Capitolo 7. Programma sperimentale Tabella 7.6.: Proprietà fisico-meccaniche della resina di tipo B1 . Proprietà Viscosità (a 25℃) [mPas] Densità (a 25℃) [g/ml] Tempo di lavorabilità (a 20℃) [min] Tempo di indurimento in profondità (a 20℃) [min] Valore Normativa 650 - 1000 1,23 15 circa 60 circa DIN 53018 ISO 2811 – – Tabella 7.7.: Proprietà fisico-meccaniche della resina di tipo B2 . Proprietà Viscosità (a 25℃) [mPas] Densità (a 25℃) [g/ml] Tempo di lavorabilità (a 20℃) [min] Tempo di indurimento in profondità (a 20℃) [min] Valore Normativa 160 - 200 0,99 18 circa 60 - 120 circa DIN 53018 ISO 2811 – – Tabella 7.8.: Proprietà fisico-meccaniche della resina di tipo B3 . Proprietà Viscosità (a 25℃) [mPas] Densità (a 25℃) [g/ml] Pot life (a 20℃) [min] Tempo di indurimento (a 25℃) [min] Ricoprimento (a 25℃) [min] 168 Valore Normativa 190 - 270 1,1 15 circa 60 circa 90 circa DIN 53018 ISO 2811 – – – 7.2. Gli aggregati per miscele progettate con fuso granulometrico del SITEB [59] è stata usata una serie di crivelli e setacci (25,0 mm - 15;0 mm - 10,0 mm - 5,0 mm - 2,0 mm - 0,4 mm - 0,18 mm - 0,075 mm), mentre per altre miscele progettate con i fusi utilizzati per miscele polimeriche (premiscelate e multistrato) è stata usata un’altra serie di soli setacci (16,0 mm - 8,0 mm - 4,0 mm - 2,0 mm - 1,0 mm 0,5 mm - 0,25 mm - 0,125 mm - 0,063 mm). La sabbia di quarzo e la bauxite sono aggregati molto simili: possiedono una bassa quantità di fini e un peso specifico intermedio tra le scorie d’acciaieria e il materiale da costruzione e demolizione (C&D). Per il calcare e il materiale da costruzione e demolizione (C&D) sono state usate due frazioni granulometriche: un 0/5 mm e un 5/10 mm. Anche per la scoria di acciaieria sono state impiegate due frazioni granulometriche: un 0/4 mm e un 4/8 mm. Le scorie di acciaieria sono il materiale con più elevato peso specifico, hanno un basso tenore di fini e una elevata resistenza all’abrasione e all’urto (basso valore del coefficiente Los Angeles). Un basso valore dell’indice di appiattimento e di forma, come nel caso del calcare e della scoria di acciaieria, indica una bassa presenza di aggregati di forma lenticolare e allungata: qualità molto richieste per ottenere un buon conglomerato bituminoso per strato di usura. Il materiale da costruzione e demolizione (C&D) ha proprietà i cui valori sono tra i più elevati: bassa resistenza all’urto e all’abrasione e forma degli aggregati più allungata rispetto agli altri materiali utilizzati. 7.2.1. Calcare L’inerte calcareo (indicato nelle sigle con la lettera "C") è stato utilizzato in tre pezzature (Figura 7.3): filler1 , 0/5 millimetri e 5/10 millimetri. I tre materiali sono stati setacciati con le due serie di vagli, a seconda della miscela confezionata ("premiscelato" o "multistrato"). Nella Tabella 7.9 sono riportate le curve granulometriche del calcare di pezzatura 5/10 millimetri, del calcare di pezzatura 0/5 millimetri e del filler calcareo usati per confezionare miscele "premiscelato" con scheletro di tipo 2. Nella Figura 7.4 sono riportate le curve granulometriche del filler calcareo, del calcare di pezzatura 0/5 millimetri e del calcare di pezzatura 5/10 millimetri per miscele "premiscelato" con scheletro di tipo 2. Per le miscele multistrato è stato usato solo il calcare con pezzatura 0/5 millimetri. Poichè per tali miscele è stato un fuso granulometrico diverso, il calcare con pezzatura 0/5 millimetri è stato rivagliato con un’altra serie di setacci (Tabella 7.10 e Figura 7.5). 1 Per filler si intende il materiale che risulta passante al 100% al setaccio di dimensioni da 2 millimetri, tra l’85% e il 100% al setaccio da 0,125 millimetri e tra il 70% e il 100% al setaccio da 0,063 millimetri, come riportato nella norma UNI EN 13043 del 2013 [60]. 169 Capitolo 7. Programma sperimentale (a) Filler calcareo. (b) Calcare 0/5 mm. (c) Calcare 5/10 mm. Figura 7.3.: Le tre pezzature dell’aggregato calcareo: filler, 0/5 mm e 5/10 mm. Tabella 7.9.: Curve granulometriche del calcare per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 2. Crivelli/Setacci [mm] 25,0 15,0 10,0 5,0 2,0 0,4 0,18 0,075 170 Passante [%] Calcare 5/10 mm Calcare 0/5 mm Filler 100,0 100,0 84,1 0,9 0,8 0,8 0,5 0,3 100,0 100,0 99,5 66,4 35,4 10,3 4,4 1,1 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 96,0 67,1 7.2. Gli aggregati 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 100 10−1 101 102 Crivelli/Setacci [mm] Filler calcareo Calcare 0/5 mm Calcare 5/10 mm Figura 7.4.: Curve granulometriche del calcare per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 2. Tabella 7.10.: Curve granulometriche del calcare per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e di tipo "multistrato". Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] Calcare 5/10 mm Calcare 0/5 mm Filler 100,0 60,4 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,8 0,5 100,0 100,0 89,3 63,8 43,1 30,7 20,0 10,8 4,7 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 93,0 64,8 171 Capitolo 7. Programma sperimentale 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 10−1 100 101 102 Setacci [mm] Filler calcareo Calcare 0/5 mm Calcare 5/10 mm Figura 7.5.: Curve granulometriche del calcare per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e di tipo "multistrato". 172 7.2. Gli aggregati Tabella 7.11.: Proprietà fisico-meccaniche del calcare. Prova Indice di forma [%] indice di appiattimento [%] Coefficiente L.A. [%] Coefficiente E.S.[%] Massa volumica volumica in mucchio dei granuli [Mg/m3 ] Massa volumica delle particelle [Mg/m3 ] Massa volumica del filler [Mg/m3 ] Calcare 0/5 mm Calcare 5/10 mm – – – 70 1,48 5 8 16,0 – 1,36 2,55 2,76 2,64 2,72 Visivamente il calcare, nelle varie pezzature (0/5 mm , denominato "sabbia", e 5/10 mm, denominato "pietrisco"), si presenta con pezzatura tendenzialmente più grossa rispetto agli altri aggregati utilizzanti in questo studio. Il calcare 0/5 mm si presenta con curva granulometrice continua e può essere impiegato da solo per confezionare conglomerati polimerici sottili, mentre il calcare 5/10 mm ha una curva granulometrica discontinua e deve essere impiegato con altre pezzature per produrre una miscela idonea per rivestimenti con spessore più elevato del precedente. La grossa pezzatura del calcare 5/10 mm ne consiglia l’impiego in miscele da stendere con metodo premiscelato. 7.2.2. Sabbia di quarzo La sabbia di quarzo (indicata nelle sigle con l’acronimo "SQ") è un aggregato fine (Figura 7.6), avente caratteristiche di pregio, che risulta idoneo ad essere utilizzato per un manto d’usura. Tale aggregato viene attualmente impiegato insieme con un legante di natura epossidica, andando a costituire una malta sintetica utilizzata come riempimento dei giunti di dilatazione. Questo aggregato risulta inoltre essere tra quelli maggiormente impiegati in America per il confezionamento di pavimentazioni sottili a base polimerica. In questo studio sono state usate due frazioni diverse della medesima sabbia di quarzo: la 1 per le miscele "premiscelato" con scheletro di tipo 1 (Tabella 7.12) e la 2 per le miscele "multistrato" (Tabella 7.13). Il materiale in esame presenta in entrambi i casi grani di dimensioni sempre inferiori a 4 millimetri e una granulometria continua, come indicato nella Figura 7.7. Le caratteristiche fisico-meccaniche delle due tipologie di sabbia di quarzo, che sono le medesime per entrambe le due frazioni (tranne che per la curva granulometrica), sono riportate nella Tabella 7.14. 173 Capitolo 7. Programma sperimentale Figura 7.6.: Sabbia di quarzo. Tabella 7.12.: Curva granulometrica della frazione 1 della sabbia di quarzo. Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] 100,0 100,0 100,0 65,9 37,7 22,9 14,8 0,0 0,0 Tabella 7.13.: Curva granulometrica della frazione 2 della sabbia di quarzo. Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 174 Passante [%] 100,0 100,0 100,0 65,9 17,3 8,0 4,7 0,0 0,0 7.2. Gli aggregati 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 10−1 100 101 102 Setacci [mm] Frazione 1 Frazione 2 Figura 7.7.: Curve granulometriche della sabbia di quarzo: frazione 1 per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e frazione 2 per miscele di tipo "multistrato". 175 Capitolo 7. Programma sperimentale Tabella 7.14.: Proprietà fisico-meccaniche della sabbia di quarzo. Prova Indice di forma [%] indice di appiattimento [%] Coefficiente L.A. [%] Coefficiente E.S.[%] Massa volumica volumica in mucchio dei granuli [Mg/m3 ] Massa volumica delle particelle [Mg/m3 ] Massa volumica del filler [Mg/m3 ] Sabbia di quarzo – – – 95 1,48 2,57 2,78 La sabbia di quarzo si presenta, anche dopo un’analisi visiva, come un aggregato fine, relativamente pulito e di colore chiaro. Le dimensioni dei grani di aggregato non consentono di effettuare alcune prove: indice di forma, indice di appiattimento, perdita in peso per abrasione ed attrito (Los Angeles). Tutte queste prove richiedono infatti campioni di aggregato di dimensioni superiori. Per quanto riguarda le altre prove, è stato possibile determinare la massa volumica apparente, la massa volumica apparente non addensata, la massa volumica reale. Da questi ultimi valori si può notare che il materiale presenta pochissimi pori interni nei grani e possiede caratteristiche nel complesso in linea con le tipiche sabbie tradizionali. Il materiale possiede un elevato valore di equivalente in sabbia. 7.2.3. Scoria di acciaieria La scoria di acciaieria di tipo EAF utilizzata in questo studio (indicata nelle sigle con l’acronimo "SA") presenta due pezzature (Figura 7.8: 0/4 millimetri e 4/8 millimetri. Nella Tabella 7.15 sono riportate le curve granulometriche della scoria EAF di pezzatura 4/8 millimetri e della scoria EAF di pezzatura 0/4 millimetri usate per confezionare miscele premiscelate coon scheletro 2. Nella Figura 7.9 sono riportate le medesime curve granulometriche. Per le miscele premiscelato con scheeltro 1 e multistrato, utilizzando un altro fuso granulometrico, le scorie sono state vagliate nuovamente con un’altra serie di setacci. Le curve granulometriche della scoria di acciaieria EAF con pezzatura 0/4 mm e con pezzatura 4/8 mm sono riportate nella Tabella 7.16 e nella Figura 7.10. Il materiale si dimostra essere relativamente pulito (meno delle sabbia di quarzo), sufficientemente poliedrico, molto spigoloso e scabro (anche dopo un’a176 7.2. Gli aggregati (a) Scoria 0/4 mm. (b) Scoria 4/8 mm. Figura 7.8.: La scoria di acciaieria. Tabella 7.15.: Curve granulometriche della scoria di acciaieria per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro 2. Crivelli/Setacci [mm] 25,0 15,0 10,0 5,0 2,0 0,4 0,18 0,075 Passante [%] Scoria 4/8 mm Scoria 0/4 mm 100,0 100,0 100,0 3,5 0,5 0,5 0,5 0,4 100,0 100,0 100,0 71,0 29,8 9,2 4,4 2,1 Tabella 7.16.: Curva granulometrica della scoria di acciaieria per misceledi tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e miscele di tipo "multistrato". Crivelli/Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] Scoria 4/8 mm Scoria 0/4 mm 100,0 97,5 3,3 1,2 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 100,0 99,5 64,3 39,7 21,6 10,7 4,3 1,4 0,0 177 Capitolo 7. Programma sperimentale 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 100 10−1 101 102 Crivelli/Setacci [mm] Scoria 0/4 mm Scoria 4/8 mm Figura 7.9.: Curve granulometriche della scoria di acciaieria per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 2. 100 Scoria 0/4 mm Scoria 4/8 mm Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 10−1 100 101 102 Setacci [mm] Figura 7.10.: Curve granulometriche della scoria di acciaieria per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e miscele di tipo "multistrato". 178 7.2. Gli aggregati Tabella 7.17.: Proprietà fisico-meccaniche della scoria di acciaieria. Prova Indice di forma [%] indice di appiattimento [%] Coefficiente L.A. [%] Coefficiente E.S.[%] Massa volumica volumica in mucchio dei granuli [Mg/m3 ] Massa volumica delle particelle [Mg/m3 ] Massa volumica del filler [Mg/m3 ] Scoria 0/4 mm Scoria 4/8 mm 19 29 – 87 2,10 15 8 11,5 – 2,13 3,90 3,90 3,87 3,92 nalisi visiva e tattile) e molto pesante (la massa volumica è una delle più alte tra quelle degli aggregati utilizzati in questo studio), come si può notare dai dati riportati nella Tabella 7.17. Dalla prova Los Angeles, la quale a causa delle restrizioni imposte dal protocollo di prova è stata effettuata solo per la pezzatura 4/8, si è ottenuto un valore pari a 11,5%: tale valore risulta decisamente basso e quindi indice di una elevata resistenza del materiale al consumo per abrasione e agli urti. Dall’analisi granulometrica è possibile riscontrare per la pezzatura 0/4 un andamento della curva di tipo continuo; tale caratteristica risulta essere essenziale se il materiale viene utilizzato per manti d’usura stesi con il metodo premiscelato. Al contrario la pezzatura 4/8 presenta un andamento fortemente discontinuo (come si piuò notare nelle Figure 7.9 e 7.10). A causa di questo, nelle miscele stese con il metodo premiscelato si può usare la scoria con pezzatura 4/8 mm solo in combinazione con la scoria con pezzatura 0/4 mm, mentre la scoria con pezzatura 0/4 mm può essere utilizzata singolarmente per le miscele stese sia con metodo premiscelato che con metodo multistrato. La tecnica premiscelato infatti richiede inerti e/o miscele con curva continua e tale esigenza risulta soddisfatta dalla scoria con pezzatura 0/4 mm, ma non dalla scoria con pezzatura 4/8 mm, se non impiegata in combinazione con altri inerti con pezzature idonee. 7.2.4. Materiale da costruzione & demolizione Sono state usate due pezzature anche per il materiale da costruzione & demolizione (indicato nel seguito come "materiale da C&D" o con l’acronimo "C&D"): pezzatura 0/5 millimetri e pezzatura 5/10 millimetri (Figura 7.11). Le curve granulometriche del materiale da C&D con pezzatura 0/5 millimetri e con pezzatura 5/10 millimetri, adatto al confezionamento di miscele "premi- 179 Capitolo 7. Programma sperimentale (a) Materiale da C&D 0/5 mm. (b) Materiale da C&D 5/10 mm. Figura 7.11.: Il materiale da C&D. Tabella 7.18.: Curva granulometrica del materiale da C&D per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e di tipo "multistrato". Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 180 Passante [%] Materiale C&D 5/10 mm Materiale C&D 0/5 mm 100,0 85,8 8,4 1,8 0,8 0,7 0,5 0,3 0,2 100,0 100,0 83,3 29,8 6,7 4,5 0,0 0,0 0,0 7.2. Gli aggregati 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 10−1 100 101 102 Setacci [mm] C&D 0/5 mm C&D 5/10 mm Figura 7.12.: Curva granulometrica del materiale da C&D per miscele di tipo "premiscelato" con scheletro di tipo 1 e di tipo "multistrato". 181 Capitolo 7. Programma sperimentale Tabella 7.19.: Proprietà fisico-meccaniche del materiale da C&D. Prova Indice di forma [%] indice di appiattimento [%] Coefficiente L.A. [%] Coefficiente E.S.[%] Massa volumica volumica in mucchio dei granuli [Mg/m3 ] Massa volumica delle particelle [Mg/m3 ] Massa volumica del filler [Mg/m3 ] C&D 0/5 mm C&D 5/10 mm 15 16 – 98 1,30 22 32 23,6 – 1,32 2,50 2,60 2,48 2,64 scelato" con scheltro di tipo 1 e "multistrato", sono riportate nella Tabella 7.18 e nella Figura 7.12. Il materiale da C&D presenta un vasto asssortimento di tipologie di aggregati al suo interno: vetro, materiali organici, frammenti ceramici, residui di demolizione di edifici, ecc. (Figura 7.11). I materiali organici (cartone, carta, ecc.) e le armature di ferro interne al calcestruzzo devono però essere allontanate prima di utilizzare il materiale per confezionare conglomerati per pavimentazioni stradali. La distribuzione granulometrica della pezzatura 0/5 millimetri è continua, rendendo l’inerte idoneo al metodo di posa multistrato. Queste tipologie di aggregati, visivamente abbastanza spigolosi, hanno le proprietà indicate nella Tabella 7.19. L’indice di forma e quello di appiattimento sono molto elevati rispetto a quelli degli altri aggregati. Il coefficiente L.A. è anch’esso molto elevato dimostrando l’attitudine del materialea degradarsi. L’equivalente in sabbia ha mostrato un valore medio pari a 98. Si tratta quindi di un materiale pulito, costituito da grani poliedrici e spigolosi, per lo più appiattiti, con discreta resistenza alla perdita in peso per attrito (se confrontato con gli altri aggregati). Le prove per la misurazione della massa volumica hanno indicato che il materiale da C&D analizzato è piuttosto leggero (se non simile) rispetto agli altri aggregati considerati. 7.2.5. Bauxite La bauxite (Figura 7.13) viene usata in questo studio in abbinamento alla resina di tipo B (la bauxite viene indentificata nelle sigle con l’scronimo "B"). La curva granulometrica (Tabella 7.20 e Figura 7.14) indica che si è in presenza di un materiale a granulometria continua, il che consente potenzialmente la stesa del materiale con entrambi i metodi (multistrato e premiscelato). 182 7.2. Gli aggregati Figura 7.13.: La bauxite. Tabella 7.20.: Curva granulometrica della bauxite. Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] 100,0 100,0 100,0 100,0 2,1 0,4 0,4 0,4 0,0 183 Capitolo 7. Programma sperimentale 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 10−1 100 101 102 Setacci [mm] Bauxite Figura 7.14.: Curva granulometrica della bauxite. Le proprietà della bauxite, riassunte in Tabella 7.21, mostrano un materiale pulito (coefficiente E.S. elevato), con una bassa masssa volumica. L’indice di forma, l’indice di appiattimento e il coefficiente L.A. non sono stati calcolcati a causa della limitata dimansione dei granuli di questo aggregato. Le piccole dimensioni dei grani della bauxite indicano che questo materiale può essere ben impiegato nelle pavimentazioni con metodo di stesa multistrato. Tabella 7.21.: Proprietà fisico-meccaniche della bauxite. Prova Indice di forma [%] indice di appiattimento [%] Coefficiente L.A. [%] Coefficiente E.S.[%] Massa volumica volumica in mucchio dei granuli [Mg/m3 ] Massa volumica delle particelle [Mg/m3 ] Massa volumica del filler [Mg/m3 ] 184 Bauxite – – – 98 1,52 2,55 2,81 7.3. Le miscele 7.3. Le miscele Le miscele confezionate sono: • miscele con scheletro litico di tipo 1 stese con metodo "premiscelato"; • miscele con scheletro litico di tipo 2 stese con metodo "premiscelato"; • miscele stese con metodo "multistrato"; • miscela stesa con metodo "slurry". La differenza tra scheletro litico di tipo 1 e di tipo 2 è essenzialmente dovuta al fatto che con lo scheletro litico di tipo 1 si sono confezionate solo miscele di conglomerato polimerico, mentre con lo scheletro litico di tipo 2 si sono confezionate anche conglomerati bituminosi. Lo scheletro litico di tipo 2 è infatti un tentativo di studiare miscele polimeriche e bituminose utilizzando la stessa struttura litica. 7.3.1. I fusi granulometrici Le miscele per questo studio sono state progettate sulla base di fusi granulometrici ricavati dalla letteratura di settore o da capitolati. Per lo scheletro litico di tipo 1 è stato usato il fuso riportato in Tabella 7.22, per lo scheletro litico di tipo 2 invece è stato usato il fuso indicato dal SITEB [59] per strato di usura (riportato in Tabella 7.23). Il fuso granulometrico della miscela è riportato invece in Tabella 7.24. Il conglomerato bituminoso prodotto con il fuso del SITEB è una miscela chiusa composta da inerti di frantumazione e filler, miscelata con bitume a caldo. Il fuso granuometrico della miscela premiscelato con scheletro litico di tipo 1 e il fuso granulometrico della miscela multistrato sono stati ricavanti dalla letteratura del settore [46] [16] e opportunamente modificati [58] [61]. Partendo dai fusi indicati da Sprinkel (si veda il Capitolo 6) sono stati studiati dei fusi granulometrici mediate l’uso dei setacci prescritti dalla normativa europea (si veda il Capitolo 8 e le norme UNI EN 933 parte 1 del 2012 [62] e UNI EN 933 parte 2 del 1997 [63]). 7.3.2. Progettazione delle miscele Partendo dalle curve granulometriche dei materiali, dalle loro proprietà fisicomeccaniche e dai fusi granulometrici sono state definite le curve granulometriche delle miscele. La Tabella 7.25 riporta la composizione delle diverse miscele confezionate. Le miscele confezionate utilizzando il metodo di stesa "premiscelato" sono: 185 Capitolo 7. Programma sperimentale Tabella 7.22.: Fuso granulometrico miscele di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1 [46]. Setacci [mm] Fuso inferiore 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Fuso superiore 100,0 80,0 60,0 40,0 25,0 10,0 5,0 0,0 0,0 100,0 100,0 80,0 65,0 48,0 30,0 17,0 7,0 3,0 Tabella 7.23.: Fuso granulometrico miscele di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 2 [59]. Crivelli/Setacci [mm] 25,0 15,0 10,0 5,0 2,0 0,4 0,18 0,075 Fuso inferiore 100,0 100,0 70,0 43,0 25,0 12,0 7,0 6,0 Fuso superiore 100,0 100,0 100,0 67,0 45,0 24,0 15,0 11,0 Tabella 7.24.: Fuso granulometrico miscele di tipo "multistrato" [46]. Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 186 Fuso inferiore 100,0 100,0 85,0 25,0 0,0 0,0 0,0 0,0 0,0 Fuso superiore 100,0 100,0 100,0 70,0 10,0 1,0 0,0 0,0 0,0 7.3. Le miscele scheletro litico 1 : • conglomerato polimerico con sabbia di quarzo (PR-1-SQ) (Tabella 7.28 e Figura 7.15); • conglomerato polimerico con scoria di acciaieria EAF (PR-1-SA) (Tabella 7.30 e Figura 7.15); • conglomerato polimerico con materiale da C&D (PR-1-CD) (Tabella 7.32 e Figura 7.15). scheletro litico 2 : • conglomerato bituminoso con calcare (CB-2-C) (Tabella 7.26 e Figura 7.16); • conglomerato bituminoso con scoria di acciaieria EAF (CB-2-SA) (Tabella 7.27 e Figura 7.16); • conglomerato polimerico con calcare (PR-2-C) (Tabella 7.26 e Figura 7.16); • conglomerato polimerico con scoria di acciaieria EAF (PR-2-SA) (Tabella 7.27 e Figura 7.16); Le miscele confezionate utilizzando il metodo di stesa "multistrato" sono: • resina polimerica con sabbia di quarzo (ML-SQ) (Tabella 7.29 e Figura 7.17); • resina polimerica con scoria di acciaieria EAF (ML-SA) (Tabella 7.31 e Figura 7.17); • resina polimerica con materiale da C&D (ML-CD) (Tabella 7.33 e Figura 7.17). Una sola miscela è stata stesa con procedimento slurry (Tabella 7.34 e Figura 7.17): resina polimerica con bauxite (SL-B). Per questo tipo di stesa è stata usata la resina di tipo B, che, come indicato all’inizio di questo Capitolo, essendo composta da differenti tipi di resine sintetiche che vanno stese in diversi strati, permette di creare un rivestimento "slurry" (come indicato nel Capitolo 3). Per le miscele con metodi di stesa premiscelato e multistrato è stata usata invece la resina di tipo A (le cui caratteristiche sono state riportate all’inizio di questo Capitolo). 187 Capitolo 7. Programma sperimentale Tabella 7.25.: Composizione delle miscele. Tipo e frazione [mm] Calcare Calcare Scoria Scoria C&D C&D SQ SQ Bauxite Filler a 0/5 5/10 0/4 4/8 0/5 5/10 1 2 − − Quantità [%] CBPR2-C CBPR-2SA PR1SQ PR1SA PR1CD 48 45 − − − − − − − 7 − − 70 20 − − − − − 8 − − − − − − 100 − − − − − 100 − − − − − − − 40 − − − 45 15 − − − − ML- ML- ML- SLSQ SA CD B − − − − − − − 100 − − − − − − 100a − − − − 100 − − − − − − − − − − La miscela ML-SA è stata confezionata con il 100% di scoria EAF 0/4 mm a cui è stato tolto il trattenuto di tutti i setacci compreso quello da 2 millimetri di diametro. Tabella 7.26.: Curva granulometrica miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 2 con calcare (PR-2-C & CB-2-C). Setacci [mm] 25,0 15,0 10,0 5,0 2,0 0,4 0,18 0,075 188 − − − − − − − − 100 − Passante [%] 100,0 100,0 96,8 51,7 36,8 19,6 13,8 6,7 7.3. Le miscele Tabella 7.27.: Curva granulometrica per miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 2 con scoria di acciaieria (PR-2-SA & CB-2-SA). Setacci [mm] 25,0 15,0 10,0 5,0 2,0 0,4 0,18 0,075 Passante [%] 100,0 100,0 100,0 58,5 28,9 14,5 10,8 6,9 Tabella 7.28.: Curva granulometrica miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1 con sabbia di quarzo (PR-1-SQ). Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] 100,0 100,0 100,0 65,9 37,7 22,9 14,8 0,0 0,0 Tabella 7.29.: Curva granulometrica per miscela di tipo "multistrato" con sabbia di quarzo (ML-SQ). Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] 100,0 100,0 100,0 65,9 17,3 8,0 4,7 0,0 0,0 189 Capitolo 7. Programma sperimentale Tabella 7.30.: Curva granulometrica miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1 con scoria di acciaieria (PR-1-SA). Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] 100,0 99,5 64,3 39,7 21,6 10,7 4,3 1,4 0,0 Tabella 7.31.: Curva granulometrica per miscela di tipo "multistrato" con scoria di acciaieria (ML-SA). Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] 100,0 100,0 100,0 100,0 29,8 9,2 4,4 0,0 0,0 Tabella 7.32.: Curva granulometrica per miscela di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1 con materiale da C&D (PR-1-CD). Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 190 Passante [%] 100,0 99,1 75,9 35,4 14,3 8,1 0,8 0,0 0,0 7.3. Le miscele Tabella 7.33.: Curva granulometrica per miscela di tipo "multistrato" con materiale da C&D (ML-CD). Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] 100,0 100,0 83,3 29,8 6,7 4,5 0,0 0,0 0,0 Tabella 7.34.: Curva granulometrica per miscela di tipo "slurry" con bauxite (SL-B). Setacci [mm] 16,0 8,0 4,0 2,0 1,0 0,5 0,25 0,125 0,063 Passante [%] 100,0 100,0 100,0 100,0 2,1 0,4 0,4 0,4 0,0 191 Capitolo 7. Programma sperimentale 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 10−1 100 101 Setacci [mm] Fuso inferiore Fuso superiore PR-1-SQ PR-1-SA PR-1-CD Figura 7.15.: Fuso e curve granulometriche miscele di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1. 192 7.3. Le miscele 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 10−1 100 101 102 Setacci [mm] Fuso inferiore Fuso superiore CB-2-C & PR-2-C CB-2-SA & PR-2-SA Figura 7.16.: Fuso e curve granulometriche miscele di tipo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 2. 193 Capitolo 7. Programma sperimentale 100 Passante [%] 80 60 40 20 0 10−2 10−1 100 101 102 Setacci [mm] Fuso inferiore Fuso superiore ML-SQ ML-SA ML-CD SL-B Figura 7.17.: Fuso e curve granulometriche miscele di tipo "multistrato" e di tipo "slurry". 194 7.4. Il confezionamento dei provini 7.4. Il confezionamento dei provini Lo studio di rivestimenti in conglomerato polimerico ha richiesto la produzione di campioni che permettano di studiarne le caratteristiche, come indicato all’inizio del presente Capitolo. Non esistendo un protocollo definito da normative o da linee giuda, si è fatto affidamento alla letteratura di settore (come riportata nel Capitolo 6) e quindi si sono definiti apposite procedure per il confezionamento, la conduzione delle prove e l’analisi dei dati. I campioni e le prove sono state definite unendo i concetti raccolti dalla letteratura di settore e le procedure e i protocolli indicati dalle normative europee riguardanti il conglomerato bituminoso. Se non erano presenti normative europee, snon state utilizzate normative statunitensi. L’obbiettivo perseguito nella fase di definizione delle procedure e dei procotolli di prova è stato strutturare delle modalità rappresentative della situazione reale che si sta studiando. Le difficoltà maggiori consistono nel riprodurre la realtà da studiare in scala ridotta per poterla analizzare utilizzando la tecnologia a disposizione, cercando però di valorizzare e, allo stesso tempo, di non alterare le relazioni tra gli elementi e le relative risposte del campione di mateiale. Nella sperimentazione sono stati confezionati tre tipologie di campioni: • campioni prismatici composti da sola malta polimerica, impiegati per lo studio delle malte stesse (Figura 7.21b); • campioni prismatici ("travetti"), impiegati per lo studio dei rivestimenti (Figura 7.23c); • "lastre", impiegate per lo studio dei rivestimenti (Figura 7.25d). I campioni utilizzati per lo studio dei rivestimenti sono stati posati su appositi supporti a simulare l’impalcato in calcestruzzo del ponte. Per i campioni prismatici denominati "travetti" e per le lastre si è stesa la malta polimerica (con metodo "premiscelato" o "multistrato") sopra al supporto costruendo provini a più strati: malta polimerica sopra e supporto in calcestruzzo sotto. 7.4.1. I supporti Sono stati impiegati due tipologie di supporti in calcestruzzo, a seconda del tipo di campione ("travetto" o lastra). Per le lastre i supporti in calcestruzzo (Figura 7.18) hanno le seguenti dimensioni: lunghezza pari a 300 millimetri, larghezza pari a 400 millimetri e spessore pari a 30 millimetri. Per la costruzione dei campioni a forma prismatica, sono stati confezionati dei "travetti" in calcestruzzo fibrorinforzato (Figura 7.19) delle seguenti dimensioni: 195 Capitolo 7. Programma sperimentale Figura 7.18.: Lastra in calcestruzzo a simulare l’impalcato del ponte per le prove di laboratorio. Figura 7.19.: Fibre di rinforzo usate nel calcestruzzo (a sinistra) e "travetto" in calcestruzzo a simulare l’impalcato del ponte per le prove di laboratorio (fatica). lunghezza pari a 400 millimetri, larghezza pari a 40 millimetri, altezza pari a 60 millimetri. Questi supporti sono stati prodotti con calcestruzzo di classe di resistenza pari a 30 MPa utilizzando un cemento 32,5 R con rapporto tra acqua e cemento pari a 0,45. Gli aggregati impiegati sono una sabbia calcarea naturale di pezzatura 0/4 millimetri e un ghiaino calcareo naturale di pezzatura 4/8 millimetri. Le fibre di rinforzo (dosaggio pari a 40 kg/m3 ) sono elementi in acciaio, uncinati alle estremità, di lunghezza pari a 50 millimetri e di diametro pari a 1,05 millimetri (Figura 7.19). I supporti, prima della posa dei primer e dei rivestimenti nelle varie metodologie di posa, sono stati adeguatamente preparati: la superficie è stata pulita da polvere e da impurezze2 (residui anche di additivi3 usati per togliere i campioni dalle casseforme) mediante un getto di aria compressa ed è stata irruvidita mediante il passaggio di una spazzola con setole d’acciaio, per simu2 Residui 3 Noto 196 e polveri possono compromettere una buona adesione del rivestimento al supporto. nel linguaggio tecnico come "disarmante". 7.4. Il confezionamento dei provini Figura 7.20.: Esempio della preparazione della superficie in calcestruzzo in laboratorio. lare la procedura di sabbiatura e palliatura che sarebbe stata effettuata nella realtà sull’impalcato del ponte (Figura 7.20). La pulitura e l’irruvidimento sono necessari anche per eliminare le asperità più precarie. I "travetti" in calcestruzzo sono stati usati per la caratterizzazione a fatica dei comglomerati polimerici su impalcati da ponte mediante un’apposita strumentazione (descritta nel Capitolo 8) che può essere utilizzata solo con provini di questa forma e con le seguenti dimensioni massime: lunghezza pari a 400 millimetri, larghezza pari a 50 millimetri e spessore 60 millimetri. Le lastre infine sono state preparate per poter caratterizzare i rivestimenti mediante prove di: altezza in sabbia, resistenza allo slittamento, drenabilità orizzontale, ormaiamento e resistenza allo strappo. Queste prove non richiedono particolari tipologie di campione. Infatti le prime tre sono prove che necessitano di una superficie piana rappresentativa della tessitura della pavimentazione, mentre le ultime due prove necessitano, oltre di una superficie piana, di una rappresentazione della stratificazione che riproduca l’impalcato, l’interfaccia e il manto d’usura. La scelta di una lastra come campione è quindi giustificata dal fatto che si vuole riprodurre la superficie della pavimentazione e la sua stratificazione reale. Le dimensioni della lastra (300 millimetri per 400 millimetri) sono richieste anche per esigenze dettate dalla macchina ormaiola utilizzata in questo studio (Figura 8.22). 197 Capitolo 7. Programma sperimentale (a) Camicie in acciaio. (b) Travetti di malta polimerica. Figura 7.21.: Camicie in acciaio per il confezionamento dei travetti (a sinistra) in malta polimerica (a destra). 7.4.2. I campioni stesi con metodo premiscelato e multistrato I campioni prismatici in malta polimerica (Figura 7.21) sono stati utilizzati per lo studio delle caratteristiche meccaniche della malta stessa: modulo elastico secante, resistenza a flessione e resistenza a compressione. Dopo aver mescolato la resina sintetica di tipo A con gli aggregati, sono stati infatti confezionati dei campioni di malta polimerica a forma prismatica (mediante apposite camicie, come in Figura 7.21a), aventi dimensioni: lunghezza pari a 160 millimetri, larghezza pari a 40 millimetri e spessore pari a 40 millimetri. Per la realizzazione di questi campioni si è fatto riferimento alla normativa UNI EN 196 parte 1 del 2005 [35]. I campioni sono stati confezionati seguendo la stessa procedura che si sarebbe usata in situ. Preliminarmente alla miscelazione delle resine e dei primer, sono state preparate le camicie in legno per poter stendere le miscele sui supporti in calcestruzzo (travetti e lastre). Per entrambi le tipologie di campioni sono state costruite delle camicie al fine di confinare le malte polimeriche sul supporto in calcestruzzo (Figura 7.22a). Le camicie in legno sono state costruite in modo che la differenza di quota tra la superficie del bordo della camicia e la superficie del supporto fosse pari a circa 2 centimetri. Le camicie sono state poi ricoperte con carta di giornale o pellicola di nylon (Figura 7.22) per consentire un migliore distacco tra il rivestimento una volta asciutto e la camicia stessa. Successivamente, per entrambe le metodolodie di posa (premiscelato e multistrato), sono stati miscelati i due componenti (monomero e catalizzatore) del primer nelle opportune proporzioni mediante una spatola. Il primer è stato quindi steso in strato sottile e uniforme mediante un pennello sulla superficie. Le miscele stese con metodo "premiscelato" sono state confezionate mescolando, inizialmente, il legante con un adeguato quantitativo di catalizzatore e, successivamente, con l’aggregato. Il quantitativo di legante usato è stato pari a 198 7.4. Il confezionamento dei provini (a) Camicie in legno. (b) Camicie in legno con lastra di calcestruzzo. Figura 7.22.: Camicie in legno rivestite con carta di giornale o pellicola di nylon per il confezionamento dei campioni. 17% rispetto al peso dell’aggregato. Il conglomerato polimerico è stato quindi steso sul supporto in calcestruzzo ("travetto" o lastra) ed è stato poi lasciato per un giorno a riposo per consentirne l’indurimento (Figura 7.23). Nel caso di miscele con metodo "multistrato", il procedimento è stato: • miscelazione del legante e del catalizzatore (nelle opportune dosi); • stesa di un sottile strato di resina (spessore massimo circa 2 millimetri); • semina, prima dell’indurimento del legante, dell’aggregato fino alla saturazione della superficie del campione; • rimozione dell’aggregato in eccesso (mediante getto d’aria compressa) a presa avvenuta (cioè un giorno dopo la stesa); • miscelazione del legante e del catalizzatore (nelle opportune dosi); • posa di un secondo strato di legante sugli aggregati dello strato inferiore; • semina di aggregato fino a saturazione della superficie (Figura 7.24); • rimozione dell’aggregato in eccesso (mediante getto d’aria compressa) a presa avvenuta (cioè un giorno dopo la stesa). Il quantitativo di legante per il metodo "multistrato" è stato maggiore rispetto a quello del metodo "premiscelato": è stato utilizzato infatti circa il 24% rispetto al peso degli aggregati. A prima vista si potrebbe pensare che il quantitativo di legante debba essere minore rispetto al metodo premiscelato. Il motivo dell’aumento del quantitativo in percentuale di legante è dovuto al fatto che, seppure il legante diminuisce in quantità rispetto al metodo premiscelato, il quantitativo di aggregato diminuisce comportando un aumento del quantitativo percentuale di legante in peso. 199 Capitolo 7. Programma sperimentale (a) Stesa del conglomerato con metodo "premiscelato". (b) Esempio di lastra con conglomerato "premiscelato". (c) Esempio di "travetto" con conglomerato "premiscelato". (d) Particolare di "travetto" con conglomerato "premiscelato". Figura 7.23.: La stesa con metodo "premiscelato". Figura 7.24.: Metodologia "multistrato": semina dell’aggregato saturazione della superificie del campione. 200 fino a 7.4. Il confezionamento dei provini Lo spessore finale del campione varia però a seconda del tipo di rivestimento: nel caso "multistrato" si può arrivare ad uno spessore pari a 15 millimetri, mentre nel caso "premscelato" si possono raggiungere spessori pari a 20 millimetri circa (cioè uno spessore confrontabile con quello di una pavimentazione in conglomerato bituminoso). 7.4.3. I campioni stesi con metodo "slurry" I campioni posati con metodo "slurry" hanno seguito un procedimento molto particolare. In questo caso sono stati prodotti solo campioni su lastre in calcestruzzo. Non sono stati confezionati, infatti, campioni su supporto a forma di "travetto" a causa del sottile spessore del rivestimento che non permetteva di svolgere la prova con la strumentazione utilizzata. Una volta preparata la lastra, come già indicato precedentemente, il rivestimento4 è stato posto in opera come di seguito descritto: • uno strato di primer su cui è stata spolverata della sabbia di quarzo con funzione impermeabilizzante (Figura 7.25a); • uno strato di resina (dopo la miscelazione della medesima con un catalizzatore) con funzione di membrana; • uno strato di legante (dopo la miscelzione di quest’ultimo con un filler e con un catalizzatore); • uno strato di bauxite per conferire una tessitura superficiale al rivestimento (la bauxite viene sparsa sopra al legante ancora fresco, come si può notare in Figura 7.25b); • uno strato di legante trasparente (ottenuto dalla miscelazione del medesimo con un catalizzatore) che diventa lo strato di finitura (Figura 7.25c). Il quantitativo di legante utilizzato per la stesa con metodo "slurry" è stato pari al 22% rispetto al peso degli aggregati. Per quanto riguarda gli aggregati, nella miscela vengono inseriti una quantità di filler pari a 0,42% e una quantità di bauxite pari a 0,58%. I rivestimenti confezionati con questo metodo possono arrivare ad avere spessori massimi pari a 5 millimetri (Figura 7.26). 4 Nelle foto che seguono la lastra in calcestruzzo è stata preliminarmente tagliata per consentire una più agevole movimentazione. 201 Capitolo 7. Programma sperimentale (a) Strato di primer e quarzo. (c) Stesa dello strato di finitura. (b) Strato di bauxite. (d) Rivestimento SL-B finito. Figura 7.25.: La stesa con metodologia "slurry". Figura 7.26.: Spessore del rivestimento steso con metodologia "slurry". 202 7.4. Il confezionamento dei provini (a) Posa della guaina impermeabile. (c) Lastra con rivestimento in conglomerato bituminoso. (b) Miscelazione del conglomerato bituminoso. (d) "Travetto" con rivestimento in conglomerato bituminoso. Figura 7.27.: Il rivestimento in conglomerato bituminoso. 7.4.4. I campioni in conglomerato bituminoso Per il confezionamento dei campioni in conglomerato bituminoso, data l’alta temperatura a cui si produce e si stende il materiale (circa 160℃), si è deciso di utilizzare una camicia in acciaio. Sulla lastra in calcestruzzo, una volta prodotta e pulita come nel caso delle miscele polimeriche, viene posta una membrana impermeabile: una guaina bituminosa. La guaina per essere stesa deve essere riscaldata mediante fiamma viva (Figura 7.27a), perché sull’intradosso è impregnata di bitume, che, scaldato, si scioglie e permette alla guaina di aderire al calcestruzzo. La funzione di impermeabilizzazione è quindi assicurata dalla guaina bituminosa stesa direttamente sulla superficie in calcestruzzo. Una volta che la guaina ha fatto presa sul calcestruzzo, la lastra viene inserita nella camicia in acciaio in modo tale che tra il bordo di quest’ultima e la superficie della lastra ci siano almeno 2 centimetri. Si miscelano quindi il bitume e gli aggregati preriscaldati assieme al filler (Figura 7.27b) fino ad ottenere una miscela omogenea e, successivamente, si versa il conglomerato ancora caldo sulla guaina impermeabilizzante. La pavimentazione stesa in questa maniera ha, una volta compattata, uno spessore uniforme 203 Capitolo 7. Programma sperimentale di circa 2 centimetri. La percentuale di bitume utilizzata nella miscela è pari al 5% rispetto al peso degli aggregati. Il campione in conglomerato bituminoso una volta tolto dalla camicia si presenta come nella Figura 7.27c e il rivestimneto ha uno spessore compreso tra 20 e 25 millimetri. Solo nel caso dei conglomerati bituminosi, i campioni a forma di "travetto" sono stati ottenuti per taglio di una lastra mediante lama al diamante (Figura 7.27d). 7.5. Le prove di laboratorio Per tenere conto delle reali condizioni in cui viene posto un rivestimento su impalcati di ponte, si è deciso di riprodurre in laboratorio diverse tipologie di superfici in calcestruzzo per simulare differenti situazioni che si presentano sull’estradosso dell’impalcato del ponte. Le prove eseguite in laboratorio sono state: • prove per la caratterizzazione superficiale: – macrotessitura (altezza in sabbia); – resistenza allo scivolamento (Pendulum test); – drenabilità orizzontale (permeabilità); • prove per la caratterizzazione fisico-meccanica: – prestazioni delle malte polimeriche (modulo secante, resistenza a flessione e resistenza a compressione); – resistenza a fatica (prova a flessione su quattro punti); – integrità strutturale del supporto mediante prova ad ultrasuoni; – resistenza a deformazioni permamenti (macchina ormaiola); – resistenza allo strappo (prova di adesione al supporto); – coefficiente di dilatazione termica. Le prove per la caratterizzazione superficiale Le prime prove effettuate sui campioni sono state le misurazioni delle caratteristiche superficiali. Esse rivestono infatti un importanza elevata per le pavimentazioni su ponti con impalcato in calcestruzzo, che devono tendere ad offrire migliori condizioni di aderenza tra pneumatico e superficie. Sono state quindi misurate la macrotessitura (mediante prova dell’altezza in sabbia, UNI EN 13036-1:2010 [64]), la resistenza allo slittamento (mediantel PendulumTest, indice PTV - Pendulum Test Value, UNI EN 13036-4:2011 [65]), e la permeabilità (UNI EN 13036-3:2006 [66]). 204 7.5. Le prove di laboratorio La misurazione della macrotessitura, della resistenza a slittamento e della permeabilità della pavimentazione sono state effettuate seguendo il protocollo indicato dalle relative normative. Le prove per la caratterizzazione fisico-meccanica Poichè le miscele polimeriche stese con il metodo "premiscelato" danno origine a dei conglomerati che possono essere classificati a tutti gli effetti come "malte", si può fare riferimento alla normativa UNI EN 196 parte 1 del 2007 [35] per la determinazione della resistenza a flessione e a compressione e alla normativa UNI 6556 del 1976 [67] per la determinazione del modulo elastico secante a compressione. In queste prove vengono impiegati i campioni prismatici di malta polimerica aventi dimensioni pari a: lunghezza di 160 millimetri, larghezza e spessore di 40 millimetri. Le prove di fatica sono state eseguite con un’apparecchiatura conforme alla norma europea UNI EN 12697 parte 24 del 2012 [68] e il valore del modulo di rigidezza è stato calcolato conformemente alla norma europea UNI EN 12697 parte 26 del 2012 [69]. Seppure le norme siano specifiche per i conglomerati bituminosi, per caratterizzare a fatica i rivestimenti polimerici è stato mantenuto un approccio simile a quello indicato nelle norme sopracitate. Le prove sono state condotte in controllo di deformazione (150 micronstrain), con una forma della curva di carico di tipo semisinusoidale5 , con frequenza pari a 10 Hz, ad una temperatura di 20℃ per un totale di 1, 5 · 105 cicli. Durante la prova vengono misurati il valore iniziale del modulo elastico di rigidezza dopo 100 cicli e il valore del modulo elastico di rigidezza alla fine della prova (1, 5 · 105 cicli). Prima e dopo le prove di fatica sono state condotte inoltre delle prove mediante ultrasuoni, già adottate in altri studi con ottimi risultati [45], per verificare l’integrità del supporto in calcestruzzo. Misurato il tempo di passaggio degli ultrasuoni prima e dopo la prova, la presenza di fessure, anche non visibili a occhio nudo, provoca un allungamento del tempo di passaggio degli ultrasuoni. I campioni sono stati sottoposti anche a prove di ormaiamento (UNI EN 12697-22:2007 [70]). Il protocollo per i conglomerati bituminosi richiede di eseguire le prove ad una temperatura di 60℃, ma sono state comunque eseguite prove ad altre temperature (0℃, 20℃e 40℃) per comprendere il comportamento termoindurente delle resine. In questa sperimentazione non sono state eseguite prove di "creep" (Figura 7.28) poichè sarebbe statto più laborioso costruire dei campioni cilindrici 5 la traduzione letterale del termine inglese "haversine" sarebbe "emisenoverso", che significa "metà della curva della funzione seno". 205 Capitolo 7. Programma sperimentale Figura 7.28.: La prova di "creep". per la sperimentazione (mentre la forma delle lastre è utile sia per la misurazione delle caratteristiche superficiali che per la determinazione della resistenza a deformazioni permanenti). Inoltre la prova effettuata tramite macchina ormaiola consente di riprodurre il fenomeno dell’ormaiamento in modo più reale rispetto alla prova di "creep". In tutti i casi è stata testata l’adesione del rivestimento al supporto in calcestruzzo: le prove sono state condotte secondo la normativa UNI EN 1542 del 2000 [71] sui campioni in diversi momenti: con campione in condizioni climatiche normali (T = 20℃), in seguito a cicli di gelo e disgelo e in seguito a contatto con sali disgelanti contemporaneamente a cicli di gelo e disgelo. Per la valutazione del coefficiente di dilatazione termica lineare è stato impiegato un protocollo studiato "ad hoc", basandosi su procedimenti indicati su normative che prescrivono tali prove per altri materiali. Non esiste infatti una normativa e un protocollo inerente la misurazione del coefficiente di dilatazione termica lineare per materiali polimerici. Per questa prova sono stati impiegati i provini prismatici bistrato (malta polimerica applicata con metodo premiscelato sul supporto in calcestruzzo. Le miscele che è stato possibile testare sono state quindi: PR-2-C (50%), PR-2-C, PR-1-SQ, PR-1-SA, CB-2-C e il supporto in calestruzzo. Non è stato possibile misurare il coefficiente sugli altri campioni a causa della elevata scabrezza superficiale che impediva al trasduttore di leggere in modo corretto la dilatazione. Infatti le asperità, agganciando il trasduttore, non consentivano una adeguata misurazione. 206 7.5. Le prove di laboratorio Le temperature durante la prova sono state fatte variare mediante una cella termostatica tra una minima, variabile tra −10℃ e 0℃, e una massima di 35℃. 207 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova In questo capitolo sono descritti e spiegati i protocolli di prova e la modalità con cui viene eseguito un determinato test in laboratorio per la caratterizzazione di un materiale o di una pavimnetazione. La prima parte del capitolo è destinata alle prove per la caratterizzazione degli inerti utilizzati in questa tesi. La seconda parte è destinata invece alla caratterizzazione delle impermeabilizzazioni direttamente carrabili. Tale caratterizzazione avviene tramite la valutazione di: micro e macro tessitura superficiale (determinazione della resistenza allo slittamento e misurazione dell’altezza in sabbia), la drenabilità orizzontale (permeabilità), le proprietà della malta (modulo, resistenza a flessione a a compressione), la resistenza alle deformazioni permanenti (tramite "wheel tracking machine"), la resistenza a fatica (tramite la prova a flessione su quattro punti), l’adesione tra pavimentazione e soletta in calcestruzzo (prove di "pull off ") e il coefficiente di dilatazione termica lineare. Ogni prova è stata quindi descritta individuando la normativa e il conseguente protocollo (Tabella 8.1), giustificando, qualora fosse necessario, eventuali semplificazioni e/o modifiche al protocollo adottate durante la sperimentazione. 8.1. La caratterizzazione degli aggregati La caratterizzazione degli aggregati è avvenuta attraverso le prove di seguito riportate con la relativa norma di riferimento: • Analisi granulometrica per setacciatura (UNI EN 933-1:201299); • Stacci di controllo, dimensioni nominali delle aperture (UNI EN 9332:1997); • Indice di appiattimento (UNI EN 933-3:2012); • Indice di forma (UNI EN 933-4:2008); • Qualità dei fini - Prova dell’equivalente in sabbia (UNI EN 933-8:2012); 209 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Tabella 8.1.: Tipologie di prove effettuate e relativa normativa. Tipo di prova Normativa Altezza in sabbia Resistenza allo slittamento Permeabilità o drenabilità orizzontale Modulo elastico secante (malte) Resistenza a flessione (malte) Resistenza a compressione (malte) Deformazioni permanenti Resistenza a fatica Adesione Dilatazione termica UNI EN 13036-1:2010 UNI EN 13036-4:2011 UNI EN 13036-3:2006 UNI EN 196-1:2007 UNI 6556:1976 UNI 6556:1976 UNI EN 12697-22:2007 UNI EN 12697-24:2012 UNI EN 1542-2:2000 & ASTM D 4541 UNI EN 1770:2000, ASTM E 831, UNI EN ISO 10545-8:2000, ISO 11359-1:2014 • Resistenza alla frammentazione dell’aggregato grosso (UNI EN 1097-2:2010); • Massa volumica in mucchio dei granuli (UNI EN 1097-3:1999); • Massa volumica delle particelle (UNI EN 1097-6:2013); • Massa volumica del filler (UNI EN 1097-7:2008). 8.1.1. Analisi granulometrica Le norme UNI EN 933 parte 1 del 2012 [62] e UNI EN 933 parte 2 del 1997 [63] stabiliscono il metodo per la determinazione della distribuzione granulometrica degli aggregati mediante setacciatura. Tale metodo di prova si applica agli aggregati di origine naturale o artificiale, inclusi gli aggregati leggeri, fino ad una dimensione nominale di 90 millimetri, esclusi i fillers. La prova consiste nel dividere, per mezzo di una serie di setacci (Figura 8.1), un materiale in numerose classi granulometriche di dimensioni decrescenti. Le dimensioni delle maglie e il numero di setacci sono scelti in base alla natura del campione e alla precisione richiesta. Il procedimento adottato è il lavaggio degli aggregati seguito da setacciatura a secco. Quando il lavaggio può alterare le proprietà fisiche di un aggregato leggero, deve essere utilizzata la setacciatura per via secca. 210 8.1. La caratterizzazione degli aggregati Figura 8.1.: Esempio di crivelli (sopra) e di setacci (sotto) per l’analisi granulometrica degli aggregati. Il materiale lavato e asciutto viene posto in una colonna di setacci. La colonna di setacci comprende una ben preciso numero di setacci ordinati con la dimensione delle maglie in ordine decrescente, partendo dall’alto e andando verso il basso. I vagli che si possono impiegare per l’analisi granulometrica sono di due tipi (Figura 8.1): i "crivelli", che possiedono maglia tonda, e i "setacci", che possiedono maglia quadrata. Quando si esegue una distribuzione granulometrica, la norma UNI EN 933 parte 2 del 1997 indica dei setacci con dimensioni (dal basso verso l’alto) pari a: 0,063 mm - 0,125 mm - 0,250 mm - 0,500 mm - 1 mm - 2 mm - 4 mm - 8 mm - 16 mm - 31,5 mm - 63 mm - 125 mm. Una volta inserito il materiale nella colonna, i setacci devono essere agitati manualmente o meccanicamente. Si rimuovono quindi uno a uno i vari setacci, partendo da quello più alto. Ogni setaccio deve essere agitato da solo per verificare che non cada altro materiale attraverso le aperture sul fondo del setaccio. Il materiate trattenuto ad ogni setaccio deve quindi essere pesato con una bilancia. Per ogni setaccio si determina il trattenuto (detto anche "trattenuto parziale") rispetto al peso totale del campione sottoposto a vagliatura, ovvero con la Formula (8.1): Pi Ti = qN i=1 Pi · 100 (8.1) 211 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova dove: Ti è il trattenuto al setaccio i-esimo, in percentuale; Pi è il passante al setaccio i-esimo, in grammi. Si calcola poi il trattenuto cumulativo per ciascun setaccio relativo a tutta la quantità di materiale trattenuta nel setaccio i-esimo ed in quelli sovrastranti (j = 1 → i), espresso percentuale rispetto al peso totale del campione, ovvero tramite la Formula (8.2): qi j=1 T Ci = qN Pj i=1 Pi dove: · 100 (8.2) T Ci è il trattenuto cumulativo al setaccio i-esimo, in percentuale; Pj ePi sono, rispettivamente, il passante al setaccio j-esimo e il passante al setaccio i-esimo, in grammi. Ad esempio, il trattenuto cumulativo al terzo setaccio (dall’alto verso il basso) rappresenta la somma delle quantità )in peso) di aggregato trattenuto nel primo, nel secondo e nel terzo setaccio diviso il peso totale di campione sottoposto a vagliatura. Si calcola poi il passante cumulativo per il setaccio i-esimo calcolato come il complemento a 100 del trattenuto cumulativo al setaccio i-esimo, espresso in percentuale rispetto al peso totale del campione, ovvero con la Formula (8.3): P Ci = 100 − T Ci (8.3) dove: P Ci è il passante cumulativo al setaccio i-esimo, in percentuale; T Ci è il trattenuto cumulativo al setaccio i-esimo, in percentuale. Le percentuali cumulative del passante attraverso ciascun setaccio sono registrate sotto forma numerica e possono essere rappresentate mediante un grafico (a titolo di esempio si vedano le curve granulometriche degli aggregati rappresentate nel Capitolo 7). 8.1.2. L’indice di appiattimento degli aggregati Il protocollo per la misurazione dell’indice di appiattimento degli aggregati è riportato nella normativa UNI EN 933 parte 3 de 2012 [72]. 212 8.1. La caratterizzazione degli aggregati Figura 8.2.: Esempio di setaccio a griglie parallele per misurare l’indice di appiattimento. La norma descrive il procedimento per la determinazione dell’indice di appiattimento degli aggregati e si applica ad aggregati di origine naturale o artificiale, inclusi gli aggregati leggeri. Il procedimento descritto non è applicabile a granulometrie minori di 4 millimetri o maggiori di 80 millimetri. La prova consiste in due operazioni di setacciatura. Dapprima, usando setacci di prova (paragrafo precedente), il campione viene separato in varie classi granulometriche secondo un prospetto specifico riportato nella normativa. Ogni classe granulometrica viene quindi vagliata usando griglie che hanno aperture parallele di larghezza pari a Di /2 (Figura 8.2). Il coefficiente di appiattimento globale viene calcolato considerando la massa totale dei granuli che passano attraverso le aperture delle griglie, espressa come percentuale della massa totale secca dei granuli esaminati. L’indice di appiattimento globale (IAg )si può calcolare tramite la formula (8.4): IAg = M2 · 100 M1 (8.4) dove: M2 è la somma di tutte le masse delle particelle di ogni classe granulometrica di /Di , in grammi; M1 è la somma di tutte le masse delle particelle di ogni classe granulometrica di /Di passanti la griglia con larghezza pari a Di /2, in grammi. Se necessario, l’indice di appiattimento di ogni classe granulometrica di /Di , si calcola considerando la massa dei granuli passanti attraverso al griglia corrispondente, espressa come percentuale della massa di quella classe granulometrica. 213 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Figura 8.3.: Strumentazione per la misura dell’indice di forma degli aggregati. L’indice di appiattimento per la classe granulometrica i (IAi )si può calcolare tramite la formula (8.5): IAi = mi · 100 Ri (8.5) dove: mi è la massa delle particelle della classe granulometrica di /Di , in grammi; Ri è la massa delle particelle della classe granulometrica di /Di passanti la griglia con larghezza pari a Di /2, in grammi. 8.1.3. L’indice di forma degli aggregati L’indice di forma degli aggregati si può calcolare mediante il protocollo descritto nella normativa UNI EN 933 parte 4 del 2008 [73]. La norma stabilisce il metodo per la determinazione dell’indice di forma degli aggregati grossi di origine naturale o artificiale, compresi gli aggregati leggeri. Il metodo di prova specificato è applicabile alla frazione granulometrica di /Di dove Di < 63 millimetri e di > 4 millimetri. Il protocollo specifica che i singoli granuli contenuti in un campione di aggregato grosso sono classificati in base al rapporto esistente tra la loro lunghezza L e lo spessore E, mediante l’impiego di un calibro a cursore (Figura 8.3). La prova deve essere eseguita su ciascuna frazione granulometrica di /Di , dove Di ≤ 2di . Le porzioni di prova ottenute da campioni in cui D > 2d, nel corso del procedimento di prova devono essere separate in frazioni granulometriche di /Di , dove Di ≤ 2di . 214 8.1. La caratterizzazione degli aggregati Nel caso in cui D ≤ 2d, si esegue la setacciatura per dividere la porzione di prova in classi granulometriche di /Di . Si scartano tutti i granuli con diametro minore di di e maggiore di Di . Si registra la frazione granulometrica di /Di che deve essere sottoposta a prova e si registra la massa della frazione granulometrica di /Di come M1 . Si misura la lunghezza L e lo spessore E di ciascun granulo utilizzando il calibro a cursore e si separano i granuli con un rapporto dimensionale L/E > 3. Questi granuli sono classificati come non cubici. Nel caso in cui D > 2d, si esegue la setacciatura per dividere la porzione di prova in classi granulometriche di /Di , dove Di ≤ 2di . I setacci da usare in questa fase sono: 4 mm - 5,6 mm - 8 mm - 10 mm - 11,2 mm - 12,5 mm - 16 mm - 22,4 mm - 31,5 mm - 45 mm - 63 mm. Si registra la massa di tutte le frazioni granulometriche (Mi ), e quindi si calcola e si registra come Vi la percentuale in massa di ogni frazione granulometrica di /Di , rispetto alla massa della porzione di prova (M0 ). Si registra la massa dei granuli da sottoporre a prova in ogni frazione granulometrica restante di /Di come M1i . Si misura la lunghezza L e lo spessore E di ciascun granulo utilizzando il calibro a cursore e si separano i granuli con un rapporto dimensionale L/E > 3 (questi granuli sono classificati come non cubici). Si registra la massa dei granuli non cubici in ciascuna di /Di come M2i . L’indice di forma IF nel caso in cui D ≤ 2d si calcola mediante la formula (8.6): IF = M2 · 100 M1 (8.6) dove: M1 è la massa della porzione di prova, in grammi; M2 è la massa dei granuli non cubici, in grammi. L’indice di forma IF nel caso in cui D > 2d si calcola mediante la formula (8.7): q M2i IF = q · 100 (8.7) M1i dove: q M1i è la somma delle masse delle frazioni granulometriche sottoposte a prova, in grammi; q M2i è la somma delle masse dei granuli non cubici contenuti in ognuna delle frazioni granulometriche sottoposte a prova, in grammi. L’indice di forma si registra sempre arrotondandolo al numero intero più vicino. 215 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Figura 8.4.: Strumentazione per misurare l’indice "Equivalente in Sabbia". 8.1.4. Prova dell’equivalente in sabbia Il protocollo indicato dalla norma UNI EN 933 parte 8 del 2012 [74] specifica il metodo per la determinazione del valore di equivalenza in sabbia della classe granulometrica 0/2 millimetri negli aggregati fini e negli aggregati misti. Il principio della prova consiste nel versare in cilindro graduato una porzione di prova di sabbia e una piccola quantità di soluzione flocculante. Il cilindro (Figura 8.4) viene successivamente agitato per rimuovere il rivestimento argilloso dalle particelle di sabbia nella porzione di prova. La sabbia viene quindi “irrigata” utilizzando ulteriore soluzione flocculante che forzi le particelle fini in sospensione sulla sabbia. La soluzione flocculante è costituita da alcuni elementi uniti in parti fissate dalla norma: cloruro di calcio anidro, glicerica, formaldeide e acqua distillata. La soluzione appena creata viene messa nel cilindro graduato riempiendolo fino alla prima tacca. Si versa il campione di aggregato vagliato nel cilindro, che viene tappato e agitato. Si lascia poi il cilindro in posizione verticale per 10 minuti. Dopo 10 minuti si fissa il cilindro ad un macchinario che agita il contenuto e il cilindro stesso per 30 secondi in posizione verticale. Tolto il cilindro dal macchinario e il tappo, si inserisce una lancia nel cilindro che "irriga" con la soluzione flocculante il materiale all’interno del cilindro. La soluzione flocculante viene immesa nel cilindro fino a che raggiunge la seconda tacca. Si lascia a riposo la soluzione e il materiale all’interno del cilindro per 20 minuti. 216 8.1. La caratterizzazione degli aggregati Figura 8.5.: Strumentazione per effettuare la prova Los Angeles. Dopo 20 minuti, si rileva l’altezza del sedimento pesante sul fondo del cilindro (h2 ) e l’altezza del materiale fino in sospensione nella soluzione flocculante (h1 ), partendo per entrambe dal fondo del cilindro. Il valore dell’ equivalente in sabbia (ES) viene calcolato come l’altezza del sedimento pesante espressa come percentuale dell’altezza complessiva del materiale flocculato nel cilindro (Figura 8.4), ovvero mediante la formula (8.8): ES = h2 · 100 h1 (8.8) dove: h1 è l’altezza del materiale fino in sospensione, in millimetri; h2 è l’altezza del materiale pesante in fondo al cilindro, in millimetri. La prova va ripetuta almeno due volte e i risultati mediati per avere un singolo valore per un tipo di aggregato. 8.1.5. Il coefficiente Los Angeles La norma UNI EN 1097 parte 2 del 2010 [75] descrive il metodo per la determinazione del coefficiente Los Angeles (LA), utilizzato per misurare la resistenza alla frammentazione degli aggregati grossi. La norma si applica agli aggregati naturali, artificiali o riciclati impiegati per l’ingegneria edile e civile. Un campione di aggregsato da almeno 15 chilogrammi con granulometria compresa fra 10 millimetri e 14 millimetri. Nel caso in cui il campione abbia una granulometria non compresa tra 10 millimetri e 14 millimetri, la norma indica altre 4 classi granulometriche ristrette per misurare il coefficiente Los Angeles (per questo si veda la norma [75]). Il coefficiente L.A. calcolato sulla base della prova effettuata con una classe granulometrica ristretta non può essere equiparato a quello calcolcato sulla base della classe granulometrica compresa tra 10 millimetri e 14 millimetri. 217 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Il campione di aggregato (di peso pari a 5000 grammi) viene fatto rotolare insieme alle sfere di acciaio (11 sfere aventi ciascuna un diametro compreso tra 45 mm e 49 mm e una massa compresa tra 400 g e 445 g) all’interno di un cilindro rotante (Figura 8.5). La macchina deve compiere 500 giri a velocità costante compresa tra 31 giri al minuto e 33 giri al minuto. Al completamento della rotazione, si calcola la quantità di materiale trattenuta su un setaccio di 1,6 millimetri (m). Il coefficiente LA si calcola come (formula (8.9)): LA = (M − m) · 100 M (8.9) dove: M è la massa totale del campione inserito nel macchinario (pari a 5000 grammi), in grammi; m è la massa trattenuta al setaccio di 1,6 millimetri, in grammi. 8.1.6. Massa volumica in mucchio dei granuli La massa volumica in mucchio dei granuli di un aggregato è la massa di un volume unitario del materiale solido, inclusi i pori interni ai granuli non saturabili con acqua. La normativa UNI EN 1097 parte 3 del 1999 [76] descrive e indica la procedura per la misurazione di questo parametro. Si sceglie il recipiente i base alla granulometria massima dell’aggregato: fino a 4 mm il recipiente deve avere una capacità di 1 litro, fino a 16 mm deve aveere una capacità di 5 litri, fino a 31,5 mm deve avere una capacità di 10 litri e fino a 63 mm deve avere una capacità di 20 litri. Una volta scelto il recipiente si pesa vuoto e asciutto (m1 ). Una volta essicato il materiale in forno a 110℃, si inserisce nel recipiente scelto. Riempito il cilindro, si rimuove con attenzione il materiale in eccesso e si livella la superficie. Si pesa il recipiente pieno come m2 . Per ciascun provino si calcola la massa volumica in mucchio ρb mediante la formula (8.10): ρb = (m2 − m1 ) V dove: ρb è la massa volumica in mucchio, in megagrammi al metro cubo; m2 è la massa del recipiente e del campione, in kilogrammi; m1 è la massa del recipiente vuoto, in kilogrammi; 218 (8.10) 8.1. La caratterizzazione degli aggregati V è la capacità del recipiente, in litri. La prova va ripetuta tre volte per ottenere almeno un valore di massa volumica in mucchio per un singolo tipo di aggregato. 8.1.7. Massa volumica dei granuli La norma UNI EN 1097 parte 6 del 2013 [77] indica come effettuare la misurazione della massa volumica apparente di un aggregato non addensato, ovvero la massa di un volume unitario del materiale, inclusi i vuoti intergranulari e i pori. La densità delle particelle viene calcolata rapportando la massa al volume occupato. La massa viene determinata pesando il campione di prova in condizioni di saturazione con acqua, di saturazione con aria prima della prova e di saturzione con aria dopo aver asciugato il campione in forno. Il voluem viene determinato dalla massa dell’acqua tramite li metodo con il cestello o il metodo con il picnometro. La procedura di prova si differenzia nel protocollo di esecuzione a seconda che l’aggregato abbia una certa distribuzione granulometrica: aggregati passanti al setaccio di diametro 63 mm e trattenuti al setaccio da 31,5 mm, aggregati passanti al setaccio di diametro 31,5 mm e trattenuti al setaccio da 4 mm, e aggregati passanti al setaccio di diametro 4 mm e trattenuti al setaccio di diametro 0,063 mm. La procedura di prova consiste nel ridurre l’aggregato in un adeguata porzione di prova e di inserirlo in un recipiente pieno d’acqua distillata (la temperatura dell’acqua deve essere nota per poter conoscere la densità dell’acqua). Per gli aggregati con diametro delle particelle comprese tra 63 mm e 31,5 mm, il campione viene inserito in un cestello forato che viene immerso in un recipiente aperto pieno d’acqua distillata. Si devono quindi pesare: la massa del campione di aggregato asciutto prima della prova (M1 ), la massa apparente nell’acqua del cestello forato contenente il campione saturo d’acqua (M2 ), la massa apparente nell’acqua del cestello vuoto (M3 ) e, infine, la massa del campione asciugato in forno (M4 ). Tutte le misurazioni devono essere eseguite in grammi. Per ciascun campione si calcola la massa volumica dei granuli ρa mediante la formula (8.11): ρa = ρw · M4 M4 − (M2 − M3 ) (8.11) dove: ρa è la densità dell’acqua alla temperatura durante la quale viene misurata la massa M2 , in megagrammi per metro cubo. 219 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Per gli aggregati con diametro delle particelle comprese tra 31,5 mm e 4 mm e per quelli con diametro delle particelle comprese tra 4 mm e 0,063 mm, il campione viene inserito insieme ad acqua distillata in un picnometro. La procedura di prova richiede che si pesi: il campione di aggregato asciutto prima della prova (M5 ), la massa del picnometro contenente l’acqua e il campione saturo d’acqua (M6 ), la massa del picnometro contenente solo acqua (M7 ) e, infine, la massa del campione asciugato in forno (M8 ). Tutte le misurazioni devono essere eseguite in grammi. Per ciascun campione si calcola la massa volumica dei granuli ρa mediante la formula (8.12): ρa = ρw · M8 M8 − (M6 − M7 ) (8.12) dove: ρa è la densità dell’acqua alla temperatura durante la quale viene misurata la massa M7 , in megagrammi per metro cubo. 8.1.8. Massa volumica del filler La massa volumica reale dei granuli di un aggregato è la massa di un volume unitario del materiale solido, esclusi i pori esistenti all’interno dei granuli. Le indicazioni su come effettuare la prova e le indicazioni riguardo il protocollo di prova sono riportate nella norma UNI EN 1097 parte 7 del 2008 [78]. Il principio consiste nel sostituire una determinata quantità di acqua (di massa volumica nota) con il campione di filler. Si utilizza un picnometro con volume noto, in cui viene inserito il campione di filler, viene riempito di acqua. Il volume occupato dall’acqua viene calcolato dividendne la massa per la sua massa volumica. Il volume del campione di filler viene quindi calcolato sottraendo questo volume dal volume del picnometro. Per ciascun campione si calcola la massa volumica de l filler ρf mediante la formula (8.13): ρf = (m1 − m0 ) V − (m2 −m1 ) ρw (8.13) dove: ρw è la densità dell’acqua alla temperatura di 25℃, in megagrammi per metro cubo; m0 è la massa del picnometro vuoto con tappo, in grammi; m1 è la massa del picnometro con il campione di filler, in grammi; 220 8.2. Le caratteristiche superficiali m2 è la massa del picnometro riempito di acqua con il campione di filler, in grammi; V è il volume del picnometro, in millilitri. 8.2. Le caratteristiche superficiali La caratterizzazione delle superfici dei rivestimenti polimerici hanno riguardato: • la macrotessitura (altezza in sabbia); • la resistenza allo scivolamento (Pendulum test); • la drenabilità orizzontale (permeabilità); Nelle pagine successive sono state descritti i protocolli e le normative relativi alla prove riportate nell’elenco qui sopra. 8.2.1. La prova di altezza in sabbia La norma UNI EN 13036 - 1 del 2010 [64] definisce lo scopo, il campo di applicazione e le modalità con cui eseguire la prova di altezza in sabbia. Il metodo per la determinazione della profondità media della macrotessitura della superficie della pavimentazione consiste nell’applicazione di un volume noto di materiale sulla superficie e nella successiva misurazione dell’area totale coperta (Figura 8.7). La normativa specifica che questa tecnica è stata progettata per fornire un valore di profondità medio della sola macrotessitura della pavimentazione ed è considerata insensibile alle caratteristiche di micro tessitura della pavimentazione. Per lo svolgimento della prova è necessario avere la strumentazione (Figura 8.6) di seguito elencata: • materiale; • contenitore; • tampone; • spazzole; • schermo; • riga; • bilancia. 221 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Figura 8.6.: Strumentazione per la misurazione della macrotessitura [64]. Come materiale da spargere sulla superficie della pavimentazione per effettuare la misurazione la norma consiglia di usare della sfere di vetro che abbiano una granulometria passante al setaccio con maglie delle dimensioni di 0,25 millimetri e trattenuta al setaccio con maglie delle dimensioni di 0,18 millimetri per almeno il 90% del peso. Il contenitore, da riempire con il materiale da stendere sulla pavimentazione, è un cilindro in metallo o in plastica con un volume interno predeterminato di almeno 25000 mm3 (25 millilitri). Il tampone, che serve per distribuire il materiale sulla pavimentazione, è un disco piatto (25 millimetri di spessore 70 millimetri circa di diametro) con un’impugnatura da un lato e con un disco di gomma dall’altro. Le spazzole (una con setole metalliche e una con setole morbide) servono per pulire accuratamente la superficie della pavimentazioe prima dell’applicazione del campione di materiale. Lo schermo può essere posizionato sulla pavimentazione ed è utilizzato per proteggere il materiale steso dal vento e dalle turbolenze prodotte dal traffico. La riga da usare nella prova dovrebbe esssere una riga normalizzata di lunghezza maggiore o uguale a 300 millimetri e con tacche da 1 millimetri. la riga serve per misurare i diametri dell’area della pavimentazione coperta dal materiale. La bilancia dovrebbe avere una sensibilità di 0,1 grammi e serve per controllare che il peso del materiale che viene utilizzato per la misurazione della profondità della macrotessitura superfciale sia costante. Il procedimento per eseguire le misurazioni consiste, in primis, nell’ispezionare la superficie della pavimentazione su cui si devono effettuare le prove. Si sceglie quindi un’area asciutta ed omogenea, che non presenti particolari ca222 8.2. Le caratteristiche superficiali Tabella 8.2.: Classificazione della macrorugosità superficiale del manto stradale in riferimento al valore di altezza in sabbia. Altezza in sabbia (MTD) [mm] MTD ≤ 0,20 0,20 < MTD ≤ 0,40 0,40 < MTD ≤ 0,80 0,80 < MTD ≤ 1,20 MTD > 1,20 Macrorugosità superficiale Molto fina Fina Media Grossa Molto grossa Figura 8.7.: Esempio di misurazione della macrotessitura. ratteristiche localizzate, quali incrinature e giunti. Successivamente bisogna pulire accuratamente la superficie prima con la spazzola metallica e poi con la spazzola a setole morbide peer rimuovere eventuali residui, detriti o particelle rimaste legate alla pavimentazione. Se la prova viene eseguita all’aperto è consigliato posizionare lo schermo mobile intorno all’area di prova della superficie. Se la prova, invece, viene eseguita in laboratorio non è necessario utilizzare lo schermo. Si riempie il cilindro di volume noto con il materiale asciutto (Figura 8.8) e si fa vibrare delicatamente la base del cilindro diverse volte su una superficie rigida. Si deve riempire il contenitore fino all’orlo e livellare la superficie. Si pesa sulla bilancia la massa contenuta nel cilindro e si utilizza questa massa come campione per ogni misurazione. A questo punto si versa il contenuto del cilindro sulla superficie pulita della pavimentazione e con il tampone si distribuisce il materiale accuratamente 223 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Figura 8.8.: La misurazione dell’altezza in sabbia. muovendo lo strumento con moto rotatorio fino a formare un’area circolare coperta dal materiale (Figura 8.8). Tutti i vuoti superficiali nell’area devono essere riempiti in modo uniforme. Bisogna esercitare una leggera pressione con la mano sul tampone per garantire che il disco distribuisca il materiale toccando le punte delle particelle di aggregato superficiali. Si misurano quindi due diametri tra loro ortogonali dell’area circolare coperta dal materiale (Figura 8.8) e si calcola il diametro medio. Per una stessa superficie bisognerebbe, secondo la normativa, eseguire almeno quattro misurazioni a distanze casuali. La media aritmetica dei singoli valori deve essere considerata come la profondità media della tessitura (macrotessitura) della superficie. Per ciascuna superficie, dal diamtero medio si calcola l’area media occupata dal materiale sulla superficie. Il valore della macrotessitura è espresso tramite l’indice "MTD", acronimo di "Mean Texture Depth", e si misura in millimetri. L’indice "MTD" si determina attraverso il rapporto tra il volume di materiale contenuto nel cilindro e l’area media calcolata, ovvero con la Formula (8.14): MTD = 4·V π · D2 (8.14) dove: M T D è la profondità media della tessitura ("Mean Texture Depth"), espressa in millimetri; V è il volume del materiale contenuto nel cilindro (ovvero il volume del clindro), espresso in mm3 ; D è il diamtero medio dell’area coperta dal materiale espresso in millimetri. Il valore del parametro misurato mediante questa prova viene poi confrontato con intervalli definiti, riportati nella Tabella 8.2, che attribuiscono alla macrotessitura superficiale del provino un indicazione specifica: "molto fina", "fina", "media", "grossa", "molto grossa". 224 8.2. Le caratteristiche superficiali 8.2.2. La prova di resistenza allo scivolamento Per valutare in modo ulteriore la tessitura di una pavimentazione, oltre alla prova dell’altezza in sabbia, è possibile misurare la resistenza a slittamento. Lo strumento, noto anche come "Skid Tester", permette di misurare questa resistenza utilizzando l’indice "Pendulum Test Value" (PTV). La normativa europea UNI EN 13036-4 del 2011 [65] contiene la descizione dello strumento e delle modalità operative per lo svolgimento della prova e per il calcolo del relativo indice. La norma descrive il metodo per determinare l’aderenza superficiale (ovvero la resistenza allo slittamento/scivolamento) di pavimentazioni stradali ed aeroportuali, per mezzo di un attrazzatura con un cursore montato all’estremità di un braccio a pendolo. Lo strumento può essere utilizzato sia in campo aperto (per prove in situ) che in laboratorio. Lo strumento (riprodotto nella Figura 8.9) è composto da varie parti: 1. braccio del pendolo; 2. perno (centro di rotazione); 3. meccanismo di sgancio; 4. telaio; 5. piede di supporto posteriore; 6. vite per regolare l’atezza del piede si supporto posteriore; 7. distanziatore per la regolazione grossolana della lunghezza di scorrimento (opzionale); 8. vite per il livellamento; 9. piastra inferiore (opzionale); 10. pattino; 11. barra di supporto del cursore; 12. vite verticale (per la regolazione dell’altezza verticale); 13. maniglia per il sollevamento del pattino; 14. testa del pendolo; 15. morsetto per la regolazione verticale; 16. livella; 17. distanziatore (per calibrare la lunghezza di slittamento del pattino); 18. piedi del pendolo; 19. anello di frizione (include anche l’anello di sicurezza); 20. indicatore; 21. contrappeso dell’indicatore; 22. unità della scala principale; 23. unità della scala F; 24. unità della scala C; 25. rilascio del fermo; 26. puntatore cam (per la calibrazione); 27. maniglia; 28. dado di bloccaggio. 225 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova (a) Skid Tester (b) Particolare delle scale graduate presenti sullo Skid tester Figura 8.9.: Strumentazione per la misura della resistenza allo slittamento di una superficie [65]. Il pendolo dello strumento, dopo la sua calibrazione sulla pavimentazione (spiegata nel seguito), viene agganciato al fermo e quindi lasciato cadere. L’impatto contro la superficie della pavimentazione comporta la perdita per il pendolo di una parte dell’energia cinetica acquistata nella caduta. Poiché non è presenta nessuna inerzia, l’energia cinetica persa viene concentrata nell’urto e quindi lo strumento misura questa perdita di energia. Il procedimento per eseguire una prova è semplice e la prova può essere svolta in campo aperto (in strada) oppure in laboratorio (come in Figura 8.10). É necessario innanzitutto posizionare lo strumento sulla superficie di cui si intende valutare la resistenza allo slittamento. Nel caso in cui si usi un campione in laboratorio si posiziona lo strumento su una piataforma di acciaio su cui sono incisi tre fori per permettere allo strumento stesso di restare fermo durante lo svolgimento della prova. Una volta sistemato, lo strumento viene regolato mediante la vite (8) presente su ciascuno dei tre piedi (4) in modo tale che sia orizzontale rispetto alla superficie e quindi a livello. Lo strumento viene quindi alzato verticalmente con una manopola (12) retrostante lo strumento stesso: si regola l’altezza fino a che il pattino del pendolo tocca la pavimentazione entro un certo intervallo spaziale mediante l’uso del regolo (17). La Figura 8.11 mostra come deve essere effetuata la regolazione del pendolo: il pattino (2) deve toccare sulla pavimentazione a destra e a sinistra del limite riportato sul regolo (1). 1. regolo; 226 8.2. Le caratteristiche superficiali Figura 8.10.: Esempio di misurazione della resistenza allo slittamento effettuata in laboratorio. Figura 8.11.: Regolazione del pendolo utilizzando il regolo (17) [65]. 2. pattino; Le misure nella Figura 8.11 in alto sono contrassegnate da due indici il cui significato è: a misura della lunghezza di slittamento; b attuale lunghezza di slittamento. Regolata l’altezza del pendolo sulla superficie della pavimentazione, si aggancia il pendolo al fermo (indicato con il numero 25 nella Figura 8.9). Si bagna la superficie creando un velo d’acqua sopra alla pavimentazione perchè è in cattive condizioni di aderenza (strada bagnata) che si verifica quale sia la migliore resistenza allo slittamento opposta dalla pavimentazione. Si sgancia il pendolo e si legge il valore riportato sulla scala graduata individuato dall’indicatore ad 227 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Figura 8.12.: Pattino e gommino dello strumento per la misura dela resistenza allo slittamento [65]. asta (20). La lettura va eseguita arrotondando il valore al multiplo di 5 più vicino. Il pattino (10) è formato da un cursore in acciaio che si aggancia al pendolo (18) tramite (11), ed ha una lunghezza di circa 76,2 millimetri, una larghezza (nella direzione dello slittamento) di circa 25,4 millimetri e un’altezza di circa 6,35 millimetri (Figura 8.12). Poichè il pattino è di gomma, la temperatura del luogo in cui vengono effettuate le misurazioni influenza il valore dell’indice "PTV ". Per ottenere una misurazione della resistenza allo slittamento in un ben preciso punto di una superficie è necessario effettuare almeno 5 misurazioni. Il valore dell’indice "PTV " è poi la media di questi cinque valori. L’equazione (8.15) indica come effettuare il calcolo del "PTV ": q (ν1 + ν2 + ν3 + ν4 + ν5 ) PTV = (8.15) 5 dove: ν1 , ν2 , ν3 , ν4 , ν5 sono i singoli valori di "PTV " per ogni slittamento del pattino. Il valore dell’indice "PTV " deve essere ricondotto all’intero più vicino. Inoltre il valore calcolato deve essere sommato alla "correzione" indicata nella Tabella 8.3: ciò serve per tenere in conto che il pattino di gomma può variare la sua consistenza al variare della temperatura e può influenzare la misurazione dell’indice "PTV ". Nella norma è comunque sottolineato come la correzione a causa della temperatura possa influenzare la tessitura della superfcie della pavimentazione. I valori dell’indice "PTV " sono stati classificati, come nel caso dei valori di "MTD" per la prova dell’altezza in sabbia. Il manto della pavimentazione può essere etichettato come: "antisdrucciolevole per eccellenza", "abbastanza antisrucciolevole", "soddisfacente in condizioni favorevoli" e "sdrucciolevole". Nella Tabella 8.4 sono riportati la classificazione dei manto con gli intervalli dell’indice "PTV " corrispondenti. 228 8.2. Le caratteristiche superficiali Tabella 8.3.: Correzione del valore PTV in funzione della temperatura ambientale [65]. Intervallo di temperatura [℃] Correzione da apportare 5-7 8 - 10 11 - 13 14 - 16 17 - 20 21 - 24 25 - 29 30 - 40 −3 −2 −1 0 +1 +2 +3 +4 Tabella 8.4.: Classificazione del tipo di manto in riferimento al valore PTV. Categoria A B C D Indice "PTV " PTV > 65 55 < PTV < 65 45 < PTV < 55 PTV < 45 Classificazione del manto Manto Manto Manto Manto sdrucciolevole per eccellenza abbastanza antisdrucciolevole soddisfacente in condizioni favorevoli sdrucciolevole 8.2.3. La prova di drenabilità orizzontale Nella norma europea UNI EN 13036 parte 3 del 2006 [66] è descritto un metodo per la determinazione della drenabilità orizzontale (permeabilità) di una superficie stradale (nell’area di contatto strada/pneumatico) come indice di tessitura superficiale. Lo strumento utiilizzato è l’indicatore d’efflusso e può essere usato su tutte le superfici stradali lisce non porose, sia sul campo che in laboratorio (Figura 8.13). L’area selezionata per la prova dovrebbe essere valutata attentamente in modo tale che sia rappresentativa dell’area generale su cui devono essere effettuate le misurazioni, perchè la misura della drenabilità orizzontale si può effettuare solo di una piccola area della superficie. La drenabilità orizzontale è definita, nella norma [66], come la capacità della tessitura della superficie stradale di fornire vuoti interconnessi attraverso i quali l’acqua può essere espulsa da un pneumatico in movimento. La prova consiste nel collocare l’indicatore d’efflusso sulla superficie di prova e nel riempirlo con acqua: si registra quinidi il tempo richiesto perchè il livello dell’acqua scenda da una tacca superiore a una tacca inferiore. L’indicatore d’efflusso è un cilindro di plastica solida trasparente, con altezza di circa 400 millimetri e diametro interno pari a circa 50 millimetri incollato a un anello di pesatura di (Figura 8.14a). Sull’anello di pesatura si avvita un 229 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Figura 8.13.: Esempio di laboratorio. misurazione della drenabilità superficiale in anello portante di ottone con un anello di gomma di precisione collegato a esso (Figura 8.14b). Le dimensioni riportate nella Figura 8.14 sono in millimetri. La massa dell’indicatore d’efflusso è 3500 grammi mentre quella dell”anello portante è 138 grammi. L’anello di gomma è vulcanizzato sull’anello portante ed ha una durezza pari a 48 Shore A. Sul cilindro sono presenti tre tacche (superiore, intermedia e inferiore) che sono fissate dall’organismo di taratura. Nella Figura 8.14a sono riportati: 1. plastica trasparente soplida; 2. tacca superiore; 3. tacca intermedia; 4. tacca inferiore; 5. anello di pesatura di ottone; 6. anello portante di ottone; 7. anello di gomma. Mentre nella Figura 8.14b sono riportati: 1. anello portante; 5. numero di serie (esempio); 2. anello di gomma di precisione; 3. sigillo; 6. data di scadenza; 4. marchio del centro di taratura (esempio); 7. taratura. 230 8.2. Le caratteristiche superficiali (a) Indicatore d’efflusso. (b) Anello portante. Figura 8.14.: Strumentazione per la misura della drenabilità orizzontale di una superficie [66]. La posizione del punto in cui svolgere la prova deve essere selezionata in modo tale che la superficie sia omogenea, non contenga caratteristiche localizzate, quali crepe e giunzioni, e sia rappresentativo del sito. Il numero di prove da svolgere per ottenere la drenabilità orizzontale di un’area dipende dalla variabilità della superficie. Su strada, per prove su campo, la norma specifica che si svolgano almeno 10 prove a circa 2,5 m di distanza: in tal modo si ottiene il valore dell’indice d’efflusso per una lunghezza di 25 m. Prima di ciascuna prova, l’anello di gomma sull’anello portante deve essere controllato per verificare che non ci siano incisioni, crepe, danni superficiali o deformazioni, e che sia pulito. Se danneggiato, l’anello portante deve essere sostituito prima della prova. La tenuta all’acqua dell’indicatore d’efflusso nelle condizioni di prova deve essere controllata su una lastra di vetro orizzontale prima di iniziare e dopo aver completato una serie di prove: in questo caso non deve verificarsi nessuna diminuzione del livello dell’acqua per un periodo di 5 minuti. Durante la prova vengono utilizzate altre apparecchiature, di seguito elencate: 231 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova • scopino; • recipiente per lo stoccaggio dell’acqua, contenente acqua potabile; • secchio per l’acqua, per lo stoccaggio temporaneo; • bottiglia di riempimento; • cronometro con accuratezza di 0,1 secondi. Per effettuare le misurazioni di drenabilità orizzontale, il procedimento, prima di iniziare la prova, prevede l’immersione della parte inferiore dell’indicatore d’efflusso completamente nell’acqua per bagnare l’anello di gomma. Subito dopo, si posiziona l’indicatore d’efflusso verticalmente sulla superficie di prova. Bisogna prestare attenzione al fatto che l’anello di gomma non entri in contatto con una particella di inerte isolata e sporgente o con una depressione isolata sulla superficie stradale. Si riempie quindi l’indicatore d’efflusso con acqua potabile e si misura il tempo impiegato dal livello dell’acqua per scendere dalla tacca superiore alla tacca inferiore sulla parete del cilindro (il tempo letto sul cronometro va arrotondato al secondo intero più vicino). Se il livello dell’acqua impiega più di 3 minuti per raggiungere la tacca intermedia, posizionata a un terzo di distanza tra le due tacche, si ferma il cronometro quando il livello dell’acqua raggiunge la tacca intermedia. in questo caso il risultato per il punto di prova è ottenuto moltiplicando per sei il valore della prova. Dubito dopo la prova si solleva l’indicatore d’efflusso dalla superficie e lo si colloca in modo che l’anello di gomma non sia compresso e possa recuperare la propria forma iniziale. Il risultato della prova è il tempo di deflusso per la lunghezza della superficie analizzata (OTP ) e si ottiene mediando tra di loro le 10 misurazioni effettuate (OTi ). L’equazione (8.16) per il calcolo del tempo di deflusso OTP è: q (OT1 + OT2 + · · · + OT10 ) (8.16) OTP = 10 dove: OTP è il tempo di efflusso per una superficie della lunghezza di 25 metri; OT1 , . . . , OT10 ] sono il tempo di efflusso del punto di prova 1, . . . , e del punto di prova 10. 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche Le prove eseguite per caratterizzare dal punto di vista meccanico i rivestimenti polimerici sono state svolte per determinare: 232 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche • la resistenza alla flessione (solo per le malte polimeriche); • la resistenza a compressione (solo per le malte polimeriche); • il modulo elastico secante (solo per le malte polimeriche); • la resistenza a fatica (per i rivestimenti su impalcato in calcestruzzo); • l’integrità dopo le prove di resistenza a fatica mediante ultrasuoni (per i rivestimenti su impalcato in calcestruzzo); • la resistenza a deformazioni permanenti (per i rivestimenti su impalcato in calcestruzzo); • la resistenza a strappo (per i rivestimenti su impalcato in calcestruzzo); • il coefficiente di dilatazine termica lineare (per i rivestimenti su impalcato in calcestruzzo). Nelle pagine successive sono state descritti i protocolli e le normative relativi alla prove riportate nell’elenco qui sopra. 8.3.1. Le carattristiche meccaniche delle miscele polimeriche premiscelate Le caratteristiche delle malte polimeriche stese con il metodo premiscelato sono molto simili a quelle dei calcestruzzi e delle malte. Per questo motivo, la misurazione in laboratorio delle caratteristiche meccaniche di queste miscele polimeriche è stata eseguita facendo riferimento alla normativa relativa alle malte cementizie: UNI EN 196 parte 1 del 2007 [35] per la determinazione della resistenza a flessione e a compressione e alla normativa UNI 6556 del 1976 [67] per la determinazione del modulo elastico secante a compressione. La resistenza a flessione e a compressione Per la prova per la determinazione della resistenza a flessione e della resistenza a compressione (UNI EN 196-1:2007) sono stati utilizzati dei campioni prismatici di dimensioni standardizzate (lunghezza pari a 160 millimetri, larghezza e spessore pari a 40 millimetri). La resistenza a flessione avviene mediante uno strumento che inflette su tre punti i campioni con carico crescente fino a rottura (Figura 8.15a). Una volta portati a rottura, il campione solitamente si spezza a metà e le due parti vengono utilizzate per misurare la resistenza a compressione mediante una pressa idraulica (Figura 8.15b). 233 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova I valori della resistenza a compressione servono anche per verificare che le tensioni utilizzate nella prove successiva (per la determinazione del modulo elastico secante) abbiano una intensità corretta e ideonea. Il modulo elastico secante La determinazione del modulo elastico secante avviene mediante compressione del campione (che ha le stesse dimensioni usate nella precedente per la determinazione della resistenza a flessione) secondo quanto indicato nella normativa UNI EN 6556 del 1976. La strumentazione consiste in una pressa idraulica, dei trasduttori di spostamento e una centralina di acquisizione dati. In Figura 8.15d si possono notare, oltre al campione di malta polimerica, i trasduttori di spostamento utilizzati per la rilevazione delle defomazioni. I campioni di malta polimerica vengono sottoposti a dei cicli di carico e scarico, progressivamente crescenti in intensità dello sforzo. L’andamento dei cicli è riportato nella normativa [67]. La normativa definisce un preciso intervallo per il vaore delle tensioni da imporre nei cicli di caricodurante la prova (Figura 8.15c). Le tensioni sono in totale quattro: σ0 , σ1 , σ2 e σ3 . σ3 deve essere pari ad un terzo della tensione applicata al campione di malta per portarlo a rottura mediante compressione, mentre la tensione σ0 deve essere pari ad un decimo di σ3 ; le tensioni σ1 e σ2 individuano i restanti terzi dell’intervallo compreso tra σ3 e σ0 . Evidentemente queste tensioni possono differire a seconda del materiale, essendo direttamente dipendenti dalla resistenza a compressione. Dopo aver sottoposto il provino a questi cicli di carico e scarico, il modulo elastico secante a compressione si calcola per singolo ciclo come rapporto tra gli estremi della tensione e della deformazione unitaria elastica, come riportato nella formula (8.17): E= ∆σ (σi − σ0 ) ′′ = ε ∆ε / (8.17) dove: ∆σ è l’intervallo di tensione in cui si opera; σi è la tensione superiore del ciclo di prova; σ0 è la tensione di base; ∆ε è la variazione unitaria di lunghezza corrispondente a tale intervallo misurata, in fase di ritorno, a cicli completamente stabilizzati (indicata con ε” nel diagramma illustrativo (Figura 8.15c). 234 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche (a) Prova per la determinazione della resistenza a flessione. (b) Prova per la determinazione della resistenza a compressione. (c) Andamento dei cicli di carico e scarico. (d) Campione e trasduttori per la determinazione del modulo elastico secante. Figura 8.15.: Strumentazioni e campioni di malta polimerica per determinazione di: resistenza a flessione, resistenza a compressione e modulo elastico secante. 235 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova I dati sperimentali ottenuti da questa prova sono quindi stati inseriti in un grafico dove è stata rappresentanta la forza applicata sul provino in funzione della deformazione conseguente, ottenendo il così il valore del modulo elastico secante. La deformazione è unitaria: viene, cioè, rapportata alla dimensione del trasduttore di spostamento utilizzato. In questo caso la lunghezza del trasduttore è pari a 50 millimetri ed è in grado di misurare una deformazione massima di 2,5 millimetri. 8.3.2. La prova di resistenza a fatica su 4 punti Le prove per determinare la resistenza a fatica sono state eseguite in laboratorio con un’apparecchiatura che sollecita i campioni prismatici a flessione su quattro punti, come descritto nella normativa UNI EN 12697 parte 24, Annesso D, del 2012 [68]. Tale tipologia di prova viene impiegata da motli autori per la caratterizzazione a fatica dei materiali per pavimentazioni stradali su impalcati di ponte [41] [79]. Seppure la norma indica e descrive i metodi per lo studio della resistenza a fatica di campioni in conglomerato bituminoso, è stato deciso di utilizzarne il protocollo per lo studio del comportamento a fatica dei rivestimenti in conglomerato polimerico. D’altra parte si è scelto di utilizzare lo stesso protocollo sia per i campioni in conglomerato bituminoso che per quelli in conglomerato polimerico per evitare diverse risposte e perché dal punto di vista fisico-meccanico i due materiali hanno uno scheletro litico e un comportamento reologico (entrambi i materiali sono caratterizzati da una natura visco-elastica) simili. L’annesso D della norma [68] descrive un metodo per misurare la rigidezza delle miscele bituminose usando una prova a flessione. Il travetto è soggetto a flessione periodica su quattro punti con rotazione e traslazione (orizzontale) libere in tutti i punti di carico e reazione. La flessione è realizzata muovendo entrambi i punti di carico centrale in direzione verticale e perpendicolare all’asse longitudinale del travetto. La posizione verticale dei due punti di estremità rimane fissa (Figura 8.16c). Lo spostamento periodico applicato è simmetrico rispetto allo zero, è sinusoidale e l’ampiezza dello spostamento deve essere costante in funzione del tempo. Durante la prova, la forza richiesta per la deformazione del provino è misurata in funzione del tempo così come il ritardo di fase tra la forza e lo spostamento. Da questo si calcola il modulo di rigidezza del materiale testato. Lo schema statico e il modulo di rigidezza La prova a flessione su quattro punti si esegue su un provino di forma prismatica che viene inserito in un telaio progettato in modo tale da riprodurre 236 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche lo schema statico della trave doppiamente appoggiata e caricata con due forze concentrate, applicate simmetricamente a distanza di L/3, come rappresentato in (Figura 8.16a). La trave così schematizzata è un sistema isostatico. Si consideri lo schema statico rappresentato in (Figura 8.16a): è un esempio di trave ad asse rettilineo soggetta a sole forze e reazioni vincolari normali all’asse, detta trave inflessa. Per questo tipo di configurazione geometrica e di tensione, le sollecitazioni relative ad una qualsiasi sua sezione saranno esclusivamente al più di taglio e di momento flettente, essendo ovunque nulli lo sforzo normale e il momento torcente. I diagrammi delle sollecitazioni agenti sono riportati in Figura 8.16b. Le reazioni vincolari sono quindi: VA = VB = P , e HA = 0. Il taglio è pari alla forza P , con un valore positivo o negativo in base alla convenzione sui segni, nei tratti di lunghezza a (cioè tra gli appoggi e i punti in cui sono applicate le forze), mentre si annulla nella parte centrale. Il momento ha andamento lineare nei tratti di lunghezza a e andamento costante (il taglio si annulla) nella parte centrale della trave, dove il suo valore massimo è: MA = P · a. Nell’ultimo diagramma, in Figura 8.16b, viene mostrata la deformata della trave, cioè il luogo dei punti assunti dall’asse per gli spostamenti subiti a seguito dell’applicazione delle forze P , la cui equazione prende il nome di linea elastica. Nel caso specifico della prova a flessione su quattro punti, la lunghezza a è pari a circa 1/3 della lunghezza del provino e la forza P assume valori variabili con legge sinusoidale. Per questo motivo il carico sarà ciclicamente rivolto verso il basso e verso l’alto, e di conseguenza, anche i diagrammi delle sollecitazioni si specchieranno rispetto all’asse del provino, seguendo i valori di forza della parte di onda positiva e negativa. Per quanto riguarda la deformazione della trave, la generica sezione subirà una deformazione uguale a quella in cui la sollecitazione è una flessione retta, se si trascura la componente di deformazione tagliante; tale assunzione è lecita in quanto la deformazione dovuta al taglio è trascurabile rispetto a quella dovuta alla flessione. Lo spostamento del travetto prismatico, inserito nell’apparecchiatura, si verifica a causa sia della flessione che del taglio. L’analisi dà luogo ad una espressione per il modulo di rigidezza Sm (misurato in MPa) del campione ottenibile tramite l’equazione (8.18): Sm (3 · L2 − 4 · A2 ) (F · A) ] · [χ · (1 + ν) + ] =[ (z · b · h) (4 · h2 ) (8.18) dove: F è il carico applicato verticalmente in kN; L è la distanza tra i morsetti esterni in metri; 237 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova (a) Schema statico della trave appoggiata e caricata simmetricamente da due forze. (b) Diagrammi delle sollecitazioni per trave appoggiata e caricata simmetricamente da due forze concentrate. (c) Telaio per la prova a flessione su travetto a quattro punti. (d) Cella termostatica. Figura 8.16.: Schemi statici e strumentazione utilizzata per la determinazione della resistenza a fatica dei rivestimenti. 238 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche A è la distanza tra i morsetti esterni e quelli interni (A = L/3) in metri; z è lo spostamento al centro del travetto (a causa della flessione e della tensione di taglio) in metri; h è lo spessore medio del campione in metri; b è la larghezza media del campione in metri; ν è il coefficiente di Poisson ipotizzato; χ è il fattore di taglio ipotizzato. La norma UNI EN 12697 parte 26 del 2012, Annesso B [69], suggerisce di dedurre il valore assoluto del modulo complesso (| E∗ |) da altre equazionin per calcolare sia la componente reale che quella immaginaria. Comunque, come riportato in precedenti studi sulla rigidezza [80], per frequenze minori di 30 Hz, il fattore di massa potrebbe essere trascurato e il calcolo della rigidezza potrebbe essere perciò semplificato e l’equazione (8.18) darebbero luogo all’espressione (8.19): Sm = [ (F · A) (3 · L2 − 4 · A2 ) ]·[ ] (z · b · h) (4 · h2 ) (8.19) dove i simboli hanno chiaramente il significato esposto per la precedente equazione (8.18). Questa relazione può essere ottenuta anche dall’equazione (8.18) trascuran2 −4·A2 ) ]. Infatti, do l’effetto del taglio sullo spostamento [χ · (1 + ν) ≪ [ (3·L(4·h 2) come riportato in studi precedenti [81], la geometria del campione scelta per quell’indagine porta ad una deformazione di taglio del 5% ed è stata trascurata. La strumentazione L’apparecchiatura prevista dalla norma per l’esecuzione dei test di fatica con prove flessionali su quattro punti ("Four Point Bending Apparatus System" 4PB) si compone di quattro elementi principali: • un attuatore; • un telaio di supporto; • una cella termostatica; • una stazione elettronica per la registrazione dei dati (IMACS). L’attuatore (Figura 8.17a) permette l’applicazione di un carico sinusoidale con una forza, che va da un massimo di 5 kN a 0,01 Hz fino a un minimo di 239 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova (a) Attuatore. (b) Il trasduttore LVDT (il cerchio rosso evidenzia la sua posizione nella foto). Figura 8.17.: Attuatore e trasduttore dell’apparecchiatura a flessione su quattro punti. 1 kN a 70 Hz. L’attuatore viene alimentato ad aria compressa ed è collegato meccanicamente al provino attraverso una cella di carico. Il flusso d’aria compressa è regolato da una servo valvola controllata elettronicamente. Diversi trasduttori sono collegati al sistema per misurare i parametri richiesti (generalmente il carico, la posizione e la deformazione). Questi trasduttori convertono il movimento in segnali elettrici, e tramite l’IMACS ("Integrated Multi-Axis Control System"), forniscono un output interpretabile a video. I segnali dei trasduttori vengono anche usati per controllare il sistema: essi vengono infatti elaborati dall’IMACS e confrontati con i valori di input richiesti. La differenza tra i due segnali (errore) è usata per comandare la servo valvola che regola il flusso di aria compressa al fine di eliminare l’errore. Il telaio (Figura 8.16c) accoglie il travetto prismatico e consente di riprodurre lo schema statico della trave doppiamente appoggiata e caricata simmetricamente da due forze. I quattro punti di appoggio sono costituiti da dispositivi di bloccaggio che mantengono il provino in posizione durante la prova. Sono divisi in morsetti esterni e morsetti interni. I primi rimangono sempre all’altezza imposta dalla geometria del telaio e giocano il ruolo di doppio appoggio della trave, mentre quelli interni, solidali tra loro, si muovono verticalmente e ciclicamente durante l’applicazione del carico, simmetricamente rispetto alla posizione di inizio della prova, come viene descritto l’andamento sinusoidale rispetto all’asse delle ascisse. Gli appoggi esterni possono traslare orizzontalmente di qualche millimetro (Figura 8.18), garantendo la traslazione del travetto, per simulare il carrello previsto dallo schema statico. La rotazione del provino in corrispondenza di tutti e quattro i morsetti, invece, è libera grazie alla possibilità che questi hanno di ruotare attorno ad un asse orizzontale e trasversale rispetto a quello del provino (Figura 8.19). 240 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche Figura 8.18.: Movimento del morsetto che garantisce la libera traslazione del provino in corrispondenza degli appoggi esterni. Figura 8.19.: Movimento del morsetto che garantisce la libera rotazione del provino in corrispondenza degli appoggi. Il bloccaggio del provino avviene tramite quattro piccoli motorini elettrici, che fanno abbassare una piastrina la quale preme verticalmente sul campione durante tutto il corso della prova (Figura 8.20). Gli spostamenti del provino sono misurati tramite un trasduttore LVDT (Linear Variable Differential Transducer) posizionato al centro del telaio, a contatto con la superficie superiore del provino (Figura 8.17b). Esso misura la freccia del campione, nella mezzeria, in relazione allo spostamento che si verifica alla distanza di Lef f /6 dai dispositivi di serraggio esterni tramite una piccola barra metallica che aderisce al provino con l’ausilio di due appoggi di gomma caricati da una molla. Figura 8.20.: Particolare del morsetto del provino (le foto mostrano la fase di abbassamento dei morsetti). 241 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Il telaio è collocato all’interno di una camera termostatica ventilata (Figura 8.16d) che garantisce il mantenimento della temperatura scelta durante tutto il tempo di prova. La stazione elettronica (Figura 8.16d) per la registrazione dei dati (IMACS) è collegata al dispositivo di applicazione del carico, ai motorini che tengono bloccato il provino in corrispondenza dei morsetti, al trasduttore LVDT e al computer con il software che gestisce la prova, tramite porta USB. Essa ha il compito di mettere in comunicazione la componente software con la componente hardware. Riceve, cioè, i segnali provenienti dal software che stabilisce l’intensità del carico da applicare in base all’ampiezza dello spostamento che si vuole raggiungere, o viceversa, l’ampiezza dello spostamento da ottenere in base al carico che si vuole applicare, a seconda della modalità di prova che si sceglie di eseguire. Ad essa è affidato anche il compito di registrare tutti i dati della prova durante la sua esecuzione: modulo di rigidezza, angolo di fase, valore della forza, spostamento, deformazione, tensione e energia dissipata. Il software di gestione dei dati per la prova prevede la possibilità di inserire i dati del campione (peso, misure, ecc.), i parametri di prova (la modalità di controllo del carico, il valore della deformazione o della sollecitazione, la frequenza di carico, il numero di cicli massimo, ecc.), la forma dell’onda di carico e permette di visualizzare i risultati della prova. Le prove possono essere eseguite secondo due modalità: controllo di deformazione o controllo di tensione. Il controllo di deformazione consiste nell’impostare il valore a cui verrà ciclicamente portata la deformazione del campione. Per deformazione si intende la variazione di lunghezza delle fibre superiori e inferiori del campione rapportata alla lunghezza iniziale ed è espressa in microstrain (µm/m). In questa modalità, il carico applicato varia durante la prova regolandosi in base alle deformazioni subite dal provino. Il software controlla il valore del carico nel tempo e fa in modo che la forza applicata al provino sia quella necessaria per provocare la deformazione massima impostata all’inizio della prova. Il controllo di tensione consiste nell’impostare un valore di carico a cui verrà ciclicamente sottoposto il campione misurandonela deformazione che risulterà quindi variabile durante la prova. Prima della prova il campione da sottoporre alla prova deve essere condizionato per un tempo e con una temperatura prescritta dalla normativa o da protocolli suggeriti nella bibliografia del settore. 8.3.3. La prova con ultrasuoni La prova con ultrasuoni consiste in un’apparecchiatura (Figura 8.21b) che registra, tra due trasduttori (un trasmettitore - T e un ricevitore - R), il tempo di passaggio degli ultrasuoni all’interno del materiale da testare. Il tempo di 242 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche (a) La disposizione dei due trasduttori. (b) Lo strumento. Figura 8.21.: Apparecchiatura per la misurazione del tempo di passaggio degli ultrasuoni. passaggio è proporzionale infatti al tipo di materiale, alla sua composizione e alla presenza di discontinuità interne. L’aumento del tempo di passaggio degli ultrasuoni sull’intera lunghezza del supporto in calcestruzzo utilizzato in questo studio permette quindi di capire se siano presenti fessure o danni dovuti alle prove di fatica eseguite. Questo tipo di prova è già stato ampiamente impiegato in lettratura [45] [82]. Lo strumento ad ultrasuoni è conforme alla norma UNI EN 12504 parte 4 del 2005 [83]. La Figura 8.21 mostra la disposizione dei trasduttori nella configurazione "trasmissione diretta". L’accuratezza della misurazione è pari a 0,1 microsecondi. Le superfici dei provini sono lisce e senza presenza di increspature. Le dimensioni delle superfici di contatto dei trasduttori è pari a 7663,5 mm2 . La frequenza degli impulsi propri dei trasduttori è pari a 54 kHz. 8.3.4. La prova di resistenza all’ormaiamento La prova per determinare la resistenza all’ormaiamento è stata eseguita mediante un apparecchiatura (Figura 8.22) che simula il passaggio ripetuto di veicoli pesanti sulla pavimentazione che misura, durante la stessa, la deformazione permanente nel tempo. Il numero di passaggi (104 cicli) che la strumentazione esegue tramite una ruota gommata (assimilabile ad un pneumatico di un autoveicolo) è tale da simulare un traffico mediamente presente su strade italiane. Questa tipologia di prova viene utilizzata da numerosi studiosi per la vatuazione della deformazione permanente delle pavimentazioni stradali anche su impalcati di ponte [41]. Il protocollo utilizzato fa riferimento alla norma europea UNI EN 1269722:2007 [70]. La norma riporta che la deformazione sotto carico viene valutata 243 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Figura 8.22.: L’attrezzatura per la misura della resistenza all’ormaiamento. tramite la profondità dell’ormaia formatasi per il ripetuto passaggio della ruota a carico costante e a temperatura prefissata. Per l’esecuzione della prova, la prova deve essere eseguita sul provino dopo almeno 48 ore dal suo confezionamento ad una temperatura maggiore di 25℃ - 30℃. Prima di eseguire la prova, il provino deve essere condizionato alla temperatura di prova per almeno 4 ore se i provini hanno spessore inferiore ai 60 millimetri; il tempo minimo di condizionamento sale a 6 ore se il provino ha spessore maggiore di 60 millimetri. La norma UNI EN 12697 parte 22 del 2007 prescrive che la prova possa essere eseguita seguendo due procedure: A e B. Quella scelta in questo studio è la B, che viene di seguito descritta brevemente: la prova prevede 104 cicli di carico con una misurazione ogni 250 cicli (la normativa prevede almeno 6 - 7 misurazioni la prima ora e successivamente almeno una ogni 500 cicli); la prova viene interrotta qualora la deformazione superi i 20 millimetri. Il tasso di deformazione (WTSAIR ), per un provino condizionato in aria, è pari alla pendenza della retta che i dati sperimetali descrivono in un grafico con il tempo in ascissa e la deformazione in ordinata. Questa pendenza (misurata in millimetri per 10000 cicli) si determina tramite l’equazione (8.20): W T SAIR = (d10000 − d5000 ) 5 (8.20) dove: W T SAIR è la pendenza della retta, espressa in millimetri per 10000 cicli di carico; d10000 è la profondità dell’impronta dopo 5000 cicli di carico, espressa in millimetri; 244 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche Figura 8.23.: La ruota di carico della strumentazione per misurare le deformazioni permanenti. d5000 è la profondità dell’impronta dopo 10000 cicli di carico, espressa in millimetri; Se il test termina prima dei 10000 cicli, la pendenza viene calcolata sulla parte lineare della curva, a condizione che vengano raggiunti almeno 2000 cicli. La strumentazione è composta principalmente da una ruota (carico agente pari a circa 700 Newton), avente le seguenti caratteristiche (Figura 8.23): • diametro esterno compreso tra i 200 millimetri e i 205 millimetri; • pneumatico a sezione rettangolare con larghezza w = 50 ± 5 millimetri; • spessore dello pneumatico pari a 20 ± 2 millimetri; • pneumatico costituito da gomma con un numero di durezza di 80 IRHD, secondo le norme ISO 7619 e ISO 48. Il campione, dopo 48 ore dal suo confezionamento, viene confinato in un apposito cassero metallico con lo scopo di evitare eccessive deformazioni laterali durante la prova; si posiziona e si fissa quindi il tutto su un piano orizzontale1 mediante appositi supporti (Figura 8.22). Dopo aver inserito i dati nella centralina della strumentazione (temperatura di prova, procedura seguita, ecc.), si inizia il preriscaldamento della lastra per almeno 4 ore alla temperatura stabilita (il protocollo della normativa indica un valore pari a 60℃. Questa temperatura è idoena per verificare la deformazione permanente dei conglomerati bituminosi che, ad elevate temperature, 1 Il piano orizzontale è un carrello semovente che si sposta in senso parallelo sotto alla ruota: è il piano a scorrere al di sotto della ruota e non il contrario. 245 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova si rammolliscono. Per le malte polimeriche si è deciso di effettuare le prove di ormaiamento ad altre temperature (0℃, 20℃ e 40℃) oltre che a 60℃, per verificare se le resine impiegate abbiano un comportamento termoindurente che porterebbe a basse deformazioni ad alte temperature e viceversa a basse temperature. Al termine del preriscaldamento, si eseguono 5 cicli di condizionamento e si avvia la prova per l’esecuzione di 10000 cicli alla temperatura stabilita. Al termine della prova si registrano i dati sperimentali ottenuti. La lunghezza dell’impronta è pari a circa 230 millimetri eseguita con una frequenza pari a 26,5 cicli ogni 60 secondi. La profondità dell’ormaia causata della ruota sul campione viene misurata attraverso un trasduttore lineare potenziometrico che possiede un intervallo di lettura pari a 25 millimetri. 8.3.5. La prova di resistenza allo strappo Le prove di resistenza allo strappo sono un aspetto importante perchè si verifica l’adesione del rivestimento al supporto in calcestruzzosono. Le prove state condotte prendendo a riferimento il protocollo specificcato dalla normativa UNI EN 1542 del 2000 [71]. La normativa statunitense ASTM D4541 specifica invece quale sia l’attrezzatura (Figura 8.25) che permette di caratterizzare al meglio l’interazione tra il rivestimento ed il supporto: mediante questa prova infatti è possibile determinare quale strato risulti essere il più debole tra gli strati (il rivestimento e il supporto) e la loro l’interfaccia nei confronti della trazione esercitata, nonché quale sia lo sforzo necessario per staccare parte della pavimentazione dal supporto. Le lastre, dopo aver steso le malte polimeriche, sono state lasciate a riposo per una settimana. I campioni sono stati quindi forati con una punta a tazza (Figura 8.24a). I fori cilindrici sono stati eseguiti con un diametro di circa 50 millimetri e fino ad una profondità di circa 15 millimetri all’interno dello strato sottostante in calcestruzzo (Figura 8.24b). Su ciascun provino è stato poi incollato un tassello circolare con adesivo epossidico (prescritto dalla normativa), come in Fiigura 8.24c. Le superfici, prima dell’incollaggio, sono state pulite mediante un getto di aria compressa e, quindi, preparate in modo che l’adesivo epossidico non colasse all’interno del foro (Figura 8.24d. Quando l’adesivo epossidico è risultato essersi indurito (uno o due giorni dopo l’incollaggio), il tassello è stato collegato ad un macchinario che permette di esercitare una sollecitazione di trazione sullo stesso fino a giungere alla rottura (Figura 8.25). Il protocollo prescrive che l’aumento della tensione debba essere progressivo e non superiore a 0,05 MPa/s. 246 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche (a) Punta a tazza per eseguire i fori. (c) Fase di incollaggio del tassello. (b) Esempio di foro tracciato con punta a tazza su lastra. (d) Particolare della preparazione della superficie per l’ìincollaggio. Figura 8.24.: Preparazione dei campioni per le prove di resistenza allo strappo. Figura 8.25.: L’attrezzatura per la prova di resistenza allo strappo. 247 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Al fine di catalogare in maniera oggettiva le varie tipologie di rotture dei campioni, è stata usata la seguente classificazione [61]: A : la rottura del campione è avvenuta all’interno del supporto in calcestruzzo; B : la rottura del campione è avvenuta all’interfaccia tra il supporto in calcestruzzo e lo strato di primer; C : la rottura del campione è avvenuta all’interno dello strato di primer; D : la rottura del campione è avvenuta all’interfaccia tra lo strato di primer e lo strato di rivestimento; E : la rottura del campione è avvenuta all’interno dello strato di rivestimento; F : la rottura del campione è avvenuta all’interno dello strato di adesivo del tassello. Le prove sono state svolte sui campioni in tre situazioni: 1. in condizioni ambientali normali (condizionamento forzato ad una temperatura di 20℃); 2. dopo di 28 giorni di cicli di gelo e disgelo (è stato scelto un intervallo di temperatura compreso tra 0℃ e 60℃); 3. dopo 28 giorni di cicli di gelo e disgelo contemporaneamente all’azioen di sali disgelanti (l’intervallo si temperatura è il medesimo utilizzato nella precedente condizione). Nel secondo caso i cicli di gelo e disgelo sono stati eseguiti ponendo i campioni a giorni alterni, prima in una cella climatica, la cui temperatura è stata posta uguale a 0℃ (per un giorno), e successivamente in un forno a 60℃ (per un giorno). La procedura è stata ripetuta in questo modo per 28 giorni. Il terzo tipo di condizionamento è stato svolto nella stessa maniera del secondo con la sola differenza che i campioni sono stati immersi in una soluzione di acqua e sali disgelanti per creare un ambiente aggressivo. Sono state condotte ulteriori prove su campioni suddivisi in "supporto nuovo o superficie irruvidita" e in "supporto bagnato o prefessurato", a seconda della tipologia di supporto utilizzato, per comprendere il comportamento dei rivestimenti studiati nei confronti dell’adesione all’impalcato. La superficie del supporto nuovo o con superficie irruvidita è stata preparata o è stata irruvidita. La superficie del supporto bagnato o prefessurato è stata resa scivolosa mediante bagnatura o fessurata mediante una prova di fatica preliminare. Successivamente sui campioni sono state stese le varie tipologie di rivestimenti. 248 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche 8.3.6. La prova per la determinazione dei coeffcienti di dilatazione temica dei materiali Le modalità per lo studio e la misurazione del coefficiente di dilatazione termica di un conglomerato polimerico non sono definite da una particolare normativa europea e/o italiana. Per tale motivo le prove sperimentali e il relativo protocollo di esecuzione sono stati pensati utilizzando come linee guida altre normative che prescrivono le procedure per la determinazione dello stesso parametro in materiali differenti: • la norma UNI EN 1770 del 2000 [84], che definisce i metodi per la determinazione del coefficiente di dilatazione termica di agenti leganti strutturali induriti; • la norma ASTM E 831 del 2003 [85], che definisce un metodo per la determinazione del coefficiente di dilatazione termica lineare per mezzo dell’analisi termomaccanica; • la norma UNI EN ISO 10545 parte 8 del 2000 [86], che definisce il metodo per la determinazione del coefficiente di dilatazione termica lineare delle piastrelle di ceramica; • la norma ISO 11359 parte 1 del 2014 [87], che definisce il metodo per la determinazione del coefficiente di dilatazione termica lineare di materie plastiche allo stato solido (mediante analisi termomeccanica). Le normative stabiliscono quali sono le attrezzature da utilizzare, i vincoli da rispettare per effettuare correttamente le prove e come ottenere dei risultati qualitativamente accettabili. Tutte le norme citate indicano di assicurarsi che il provino non subisca variazioni di temperatura troppo repentine e che il calore o il freddo venga distribuito in modo uniforme sul campione di prova in modo da evitare differenti contrazioni o espansioni volumetriche e quindi ridurre al minimo le tensioni che potrebbero nascere al suo interno. Il coefficiente di dilatazione termica è una misura della capacità di dilatazione di un materiale. È possibile distinguere tre tipi di coefficienti di dilatazione termica: • coefficiente di dilatazione volumetrica α; • coefficiente di dilatazione superficiale σ; • coefficiente di dilatazione lineare λ. 249 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova Esiste una stretta correlazione tra i tre coefficienti. Solitamente si utilizza il coefficiente di dilatazione termica volumetrico per i materiali liquidi, quello lineare per i materiali solidi che presentano una dilatazione principalmente in una direzione, e quello superficiale per i materiali solidi che presentano una dilatazione nelle due dimensioni2 . In questo studio si è interessati al coefficiente di dilatazione termica di un campione di malta polimerica che dilata principalmente lungo una direzione. Ai fini di questo lavoro interessa perciò solo il coefficiente di dilatazione termica lineare λ, dato dall’equazione (8.22): λ= 1 (Li − L0 ) · L0 (Ti − T 0 (8.21) dove: • L0 è la lunghezza iniziale del solido; • Li è la lunghezza del solido all’osservazione i-esima; • T0 è la temperatura iniziale; • Ti è la temperatura all’osservazione i-esima. Il coefficiente di dilatazione termica, essendo una proprietà specifica di un materiale, deve essere rilevato da un campione di prova realizzato esclusivamente solo con quel materiale. Per la prova sperimentale si è stato scelto di adottare come geometria dei campioni prismatici di diverso materiale: i "travetti" di malta polimerica posta sul supporto in calcestruzzo (descritti nel Capitolo 7). Alcuni campioni avevano una composizione i cui valori di coefficiente di dilatazione termica lineare non erano noti (come, ad esempio, le miscele PR-2-C (50%), PR-2-C, PR-1-SQ, PR-2-SA), altri invece presentavano valori di coefficiente di dilatazione termica lineare ben noti alla letteratura (come, ad esempio, la miscela CB-2-C e il calcestruzzo). Quest’ultimi campioni sono stati utilizzati in questa sperimentazione come controllo per verificare che il protocollo adottato portasse a risultati sufficientemente accurati. I travetti sono stati forati ad una estremità per permettere l’inserimento di una sonda per la misura della temperatura interna del materiale. Ai campioni di prova sono stati applicati inoltre dei trasduttori di spostamento: questi sensori sono in grado di convertire lo spostamento della punta del tastatore, durante la dilatazione o contrazione del provino al variare della temperatura, in un segnale elettrico da inviare ad una centralina. La centralina, mediante uno 2 qualsiasi 250 materiale ha una dilatazione volumetrica. 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche specifico software, è in grado di riconvertire il segnale in entrata in un valore di deformazione. I campioni di prova sono stati riposti all’interno di una cella climatica e, gradualmente, portati ad una temperatura interna compresa tra i −10℃ e gli 0℃, a seconda della tipologia del materiale di cui è composto il provino. Una volta appurato che la temperatura interna del provino risultasse stabile, aveva inizio il processo di innalzamento della temperatura che terminava quando i provini raggiungevano stabilmente una temperatura interna di 35℃. Il coefficiente di dilatazione termica dipende esclusivamente da ∆l (misurato in millimetri) e da ∆T (misurato in ℃), e non dalla velocità di variazione della temperatura nel tempo (δT /δt). Tuttavia, le variazioni di temperatura del campione non devono essere troppo repentine in modo da evitare differenti contrazioni (o espansioni) volumetriche, e quindi ridurre al minimo le tensioni che potrebbero nascere al suo interno. Poiché il coefficiente di dilatazione termica di un materiale è possibile che non sia costante, è stato deciso di effettuare una procedura "passo - passo" nella rilevazione della lunghezza del provino con intervalli di osservazione ∆t di 30 secondi. I valori registrati sono stati inseriti in un grafico con ∆l (misurato in millimetri) in ordinata e ∆T (misurato in ℃) in ascissa. I punti sono stati poi interpolati mediante un polinomio in grado di descrivere sufficientemente bene l’andamento (coefficiente R2 > 0, 9). Generalmente, dalla disposizione dei punti nel grafico, si può adottare un’interpolazione di tipo lineare. Il coefficiente angolare della retta, ottenuto attraverso un’interpolazione dei dati sperimentali, è stato chiamato β. Per il calcolo del coefficiente di dilatazione termica lineare λ sarà sufficiente moltiplicare β per l’inverso della lunghezza iniziale dell’estensimetro (pari a L0 ) e soddisfare, quindi, l’equazione (8.22): (Li − L0 ) L0 (Li − L0 ) = (Ti − T0 ∆L 1 · = ∆T L0 1 =β· L0 λ= 1 (Ti − T0 1 · L0 · (8.22) dove λ è espresso in ℃−1 . Per eseguire le prove sperimentali si è ricorso all’impiego di: un trasduttore di spostamento (Figura 8.26), una centralina di acquisizione e registrazione 251 Capitolo 8. Normativa e protocolli di prova (a) Trasduttore di spostamento applicato su campione di calcestruzzo. (c) Trasduttore di spostamento. (b) Trasduttore di spostamento applicato su campione di calcestruzzo. (d) Strumentazione per la prova di misurazione di λ. Figura 8.26.: La strumentazione per la misurazione del coefficiente di dilatazione termica λ. dei dati, una cella climatica a controllo di temperatura e di un sensore di temperatura interno del provino. Il trasduttore di spostamento è uno strumento in grado di convertire in un segnale elettrico da inviare alla centralina di acquisizione e registrazione dati lo spostamento della punta del tastatore. La conversione avviene mediante estensimetri elettrici a resistenza, circuitati a ponte intero, sul tastatore all’interno dello strumento. La punta del tastatore può rilevare spostamenti fino a ± 2,5 millimetri e le battute di arresto laterali proteggono il meccanismo di misura dal sovraccarico meccanico. Entro lo spostamento di misura dato, la corsa da misurare viene convertita in un segnale elettrico ad essa proporzionale. La tolleranza della sensibilità è inferiore allo 0,05% del fondo scala. Lo strumento è tarato in modo tale che alla corsa di 1 millimetro della punta corrisponda il segnale in uscita di 1 mV/V. Lo strumento deve essere adatto sia alla misurazione di spostamenti in condizione statiche che dinamiche. È necessario verificare quale sia il range di temperatura di utilizzo dello strumento prima di iniziare la prova sperimentale. La centralina (Figura 8.26) è un dispositivo elettronico per computer usato per l’acquisizione e registrazione di grandezze meccaniche come allungamenti, carichi, pressioni, spostamenti, accelerazioni e temperature. La centralina deve essere collegata ad un computer tramite interfaccia seriale RS-232. 252 8.3. Le caratteristiche fisico-meccaniche La cella termica (Figura 8.26) deve essere in grado di controllare la velocità di variazione della temperatura nel tempo (δT /δt) e di impostarla in modo tale da contenerla in un range di valori prefissati dall’operatore. I sensori per il rilevamento della temperatura devono essere collegati alla centralina di acquisizione dati e inseriti all’interno del provino. Il software di gestione ed elaborazione dati consente di gestire tramite computer la centralina di acquisizione dati e la sensoristica esterna. 253 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati In questo capitolo vengono presentati i dati ottenuti dalle prove su questi rivestimenti per impalcato da ponte e la relativa analisi dei dati. 9.1. La caratterizzazione superficiale Le prove per rilevare le proprietà superficiali delle pavimentazioni sono state condotte su ciascun rivestimento, eseguendo: • sei misurazioni con il metodo dell’altezza in sabbia; • dieci misurazioni con il Pendulum Test (resistenza allo slittamento); • due misurazioni per la permeabilità. Le misurazioni sono state poi mediate per ottenere un valore unico per prova e per rivestimento. 9.1.1. La macrorugosità Osservando i risultati della prova di "altezza in sabbia" (riportati nella Tabella 9.2e nella Figura 9.1), si può notare che i rivestimenti stesi con metodo multistrato offrono valori di macrotessitura molto elevati (macrotessitura "molto grossa", valori superiori a 1,20 millimetri), mentre tutte le altre soluzioni hanno macrotessiture di tipo medio (valori compresi tra 0,4 millimetri e 0,8 millimetri). Questa differenza così accentuata si spiega osservando che la stesa con metodo "multistrato" dà la possibilità agli aggregati di creare molte più asperità rispetto alla stesa con metodo "premiscelato". Infatti, dimezzando il quantitativo di legante impiegato per le miscele stese con metodo premiscelato si può aumentare la macrorugosità del rivestimento: ne sono esempi i rivestimenti testati PR-2-C e PR-1-SQ (Tabella 9.2e Figura 9.1). Il rivestimento PR-2-C arriva perfino ad avere un valore confrontabile con quello delle miscele stese con metodo multistrato. 255 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati Tabella 9.1.: Misurazioni dei diametri formati dalla prova di "altezza in sabbia" sulle superfici dei rivestimenti. Tipo D1 [mm] D2 [mm] D3 [mm] D4 [mm] D5 [mm] D6 [mm] Dmedio [mm] PR-2-C PR-2-SA PR-1-SQ PR-1-CD PR-1-SA CB-2-C CB-2-SA ML-SQ ML-CD ML-SA ML-B PR-2-C (50%) PR-1-SQ (50%) 310,0 350,0 332,0 234,0 227,0 204,0 248,0 140,0 120,0 122,0 265,0 260,0 120,0 310,0 330,0 305,0 235,0 222,0 190,0 232,0 145,0 115,0 125,0 260,0 270,0 160,0 290,0 310,0 315,0 241,0 213,0 208,0 257,0 152,0 121,0 118,0 250,0 290,0 150,0 280,0 340,0 320,0 237,0 209,0 215,0 234,0 141,0 113,0 117,0 270,0 270,0 170,0 295,0 332,0 308,0 224,0 247,0 217,0 261,0 137,0 114,0 127,0 257,0 265,0 140,0 301,0 345,0 292,0 226,0 252,0 222,0 249,0 142,0 118,0 124,0 263,0 280,0 160,0 297,7 334,5 312,0 232,8 228,3 209,3 246,8 142,8 116,8 122,2 260,8 272,5 150,0 Tabella 9.2.: Misurazioni della macrorugosità delle rivestimenti. Tipo PR-2-C PR-2-SA PR-1-SQ PR-1-CD PR-1-SA CB-2-C CB-2-SA ML-SQ ML-CD ML-SA ML-B PR-2-C (50%) PR-1-SQ (50%) a Dmedio [mm] 297,7 334,5 312,0 232,8 228,3 209,3 246,8 142,8 116,8 122,2 260,8 272,5 150,0 Area [mm2 ] 65 590,6 87 878,4 76 453,8 42 577,5 40 947,6 34 416,5 47 851,7 16 023,2 10 720,7 11 721,8 53 433,8 17 671,5 58 320,7 Volume [mm3 ] superfici MTD [mm]a 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 24 722,8 MTD = "Mean Texture Depth", ovvero il valore dell’altezza in sabbia. 256 dei 0,36 0,28 0,32 0,58 0,60 0,72 0,52 1,54 2,31 2,11 0,46 1,40 0,42 9.1. La caratterizzazione superficiale 2.4 2.2 2 Altezza in sabbia [mm] 1.8 1.6 1.4 1.2 1 0.8 0.6 0.4 0.2 PR PR -2-C -2 PR -SA -1 PR -SQ -1 PR -CD -1 C SA B C -2-C B -2 M SA LM SQ LC M D LSA PR M PR 2-C L-1 (5 B -S 0 Q %) (5 0% ) 0 Tipi di rivestimento Figura 9.1.: Istogramma dei valori di altezza in sabbia dei rivestimenti. 257 120 115 110 105 100 95 90 85 80 75 70 65 60 55 50 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 PR PR -2-C -2 P R -S A -1 P R -S Q -1 PR -CD -1 C SA B C -2-C B -2 M SA LM SQ LC M D LSA PR M PR -2-C L-1 (5 B -S 0 Q %) (5 0% ) Altezza in sabbia [mm] Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati Tipi di rivestimento Figura 9.2.: Istogramma dei rivestimenti. valori di resistenza allo slittamento dei 9.1.2. La resistenza a slittamento Le misure di resistenza allo scivolamento sono state condotte con lo strumento (Figura 8.9) descritto nel Capitolo 8 e i risultati delle prove eseguite sui rivestimenti sono riportati nella Tabella 9.3. Come già descritto, la resistenza allo scivolamento è il risultato della quantità di energia persa dopo lo strisciamento del pattino sulla pavimentazione: più una pavimentazione è liscia più il valore della resistenza sarà basso. In termini di resistenza allo scivolamento, quasi tutti i rivestimento hanno una superficie "antisdrucciolevole per eccellenza" (valori superiori a 65). Come nel caso della macrorugosità, esprimono una migliore resistenza allo scivolamento i rivestimenti multistrato e il conglomerato bituminoso (Figura 9.2). 258 Tabella 9.3.: Misurazioni della resistenza allo slittamento delle superfici dei rivestimenti. Tipo a BPN2 BPN3 BPN4 BPN5 BPN6 BPN7 BPN8 BPN9 BPN10 BPNmedio Ca BPN 40 35 20 60 75 120 100 100 100 120 75 95 70 35 35 20 55 75 115 95 100 100 115 75 90 65 35 30 20 50 70 115 95 110 95 115 75 90 65 35 30 25 50 70 115 95 105 100 115 75 95 70 40 30 25 50 70 115 95 100 100 115 80 95 70 35 30 20 55 70 115 95 110 100 115 80 95 70 35 30 20 50 70 115 100 105 100 110 80 95 70 35 35 20 50 70 115 95 105 100 115 75 90 65 40 30 25 50 70 120 95 105 100 115 75 95 65 40 30 20 50 75 120 95 105 100 115 75 95 70 37 32 22 52 72 117 96 105 100 115 77 94 68 −1 −1 −1 −1 −1 −1 −1 −1 −1 −1 −1 −1 −1 36 31 21 86 71 116 95 104 99 114 76 93 67 C = correzione: valore da sommare al valore medio del BPN per temperature comprese tra 11℃ e 13℃; tiene conto della diversa temperatura alla quale è stata svolta la prova (Tprova = 12 ℃). 259 9.1. La caratterizzazione superficiale PR-2-C PR-2-SA PR-1-SQ PR-1-CD PR-1-SA CB-2-C CB-2-SA ML-SQ ML-CD ML-SA ML-B PR-2-C (50%) PR-1-SQ (50%) BPN1 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati Tabella 9.4.: Misurazioni dei tempi d’efflusso dell’acqua nella prova di drenabilità orizzontale sulle superfici dei rivestimenti. Tipo PR-2-C PR-2-SA PR-1-SQ PR-1-CD PR-1-SA CB-2-C CB-2-SA ML-SQ ML-CD ML-SA ML-B PR-2-C (50%) PR-1-SQ (50%) OT1 [sec] OT2 [sec] OTmedio [sec] > 180 > 180 > 180 526 > 180 214 152 18 15 16 629 14 > 180 > 180 > 180 > 180 644 > 180 112 216 24 13 20 855 9 > 180 > 180 > 180 > 180 585 > 180 163 184 21 14 18 742 11 > 180 Come ci potrebbe aspettare, la resistenza a slittamento aumenta se il contenuto di legante viene dimezzato rispetto a quello usato. Le miscele PR-2-C e PR-1-SQ dimostrano infatti che i valori di PTV aumentano, portando entrambi i rivestimenti ad un valore di reistenza allo slittamento maggiore di 65 (Tabella 9.3 e Figura 9.2). 9.1.3. La drenabilità orizzontale La drenabilità orizzontale, o permabilità, è stata misurata secondo il procedimento indicato nella norma UNI EN 13036 parte 3 del 2006 [66]. Il protocollo di prova è stato però modificato per adattarlo ai campioni utilizzati in laboratorio. Per queste prove, non disponendo di campi di prova così larghi come quelli previsti dalla normativa, sono state effettuate due sole prove. Considerando la superficie relativamente piccola a disposizione ed essendo questa rappresentativa della condizione reale, il numero di prove può essere considerato, quantomeno indicativo della soluzione testata. I risultati (Tabella 9.4) sono stati poi elaborati, come indicato nella norma, adattandoli al numero di prove realmente effettuate. La permeabilità misurata conferma quanto precedentemente descritto: i rivestimenti con superfici più lisce impediscono all’acqua di fuoriuscire e hanno quindi valori di permeabilità minori. Viceversa, le pavimentazioni stese con metodo multistrato, che mantengono maggiori asperità degli aggregati, consentono una maggiore drenabilità dell’acqua. Il rivestimento ML-B ha valori intermedi 260 9.1. La caratterizzazione superficiale 800 Drenabilità orizzontale [secondi] 700 600 500 400 300 200 100 ) (5 0% B LPR -2 -C M SA L- M M L- C D SQ M L- A B -2 -S -C C -2 B C PR -1 -C D 0 Tipi di rivestimento Figura 9.3.: Istogramma dei valori di permeabilità dei rivestimenti (non sono presenti nel grafico le pavimentazioni che hanno riportato un risultato "> 180" secondi). tra quelli del conglomerato bituminoso e quelli riscontrati sulle pavimentazioni stese con metodo "premiscelato" (Tabella 9.4 e Figura ??). Molti rivestimenti hanno ottenuto una misurazione che è stata classificata come "> 180 secondi" (Tabella 9.4), perché dopo 3 minuti l’acqua contenuta nel cilindro non era ancora fuoriuscita. Ciò ha significato, come da protocollo, che la pavimentazione esaminata non ha consentito la drenabilità orizzontale. Dimezzando il quantitativo di legante non è certo che i rivestimenti abbiano un miglioramento sotto l’aspetto della drenabilità orizzontale: se da un lato il valore del rivestimento PR-2-C passa da "> 180" ad un valore pari ad 11 secondi (maumentano le asperità della superficie, favorendo una migliore permeabilità), dall’altro il rivestimento PR-1-SQ non gode dello stesso risultato restando "> 180". 261 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica 9.2.1. Le caratteristiche fisico-mecaniche delle malte polimeriche I rivestimenti polimerici stesi con metodo "premiscelato" sono assimilabili a dei conglomerati cementizi o a delle malte. Per misurare le principali caratteristiche meccaniche di questi materiali polimerici sono stati usati quindi dei protocolli indicati per lo studio delle malte cementizie. Essi hanno permesso di determinare la resistenza a flessione, la resistenza a compressione e il modulo elastico secante a compressione. La prova di resistenza a flessione serve per definire il carico ultimo applicato al materiale in corrispondenza della rottura del campione. A causa dell’elevata elasticità che hanno dimostrato di avere queste malte polimeriche, non si è mai avuta una rottura fragile dei campioni, ma un accumulo di deformazione nel tempo. Del resto, la strumentazione non si è rivelata adatta per descrivere le caratteristiche meccanche di questi campioni, perché la prova si interompeva in corrispondenza di una certa deformazione del provino. Non è stato possibile quindi arrivare all’effettiva rottura dei provini di conglomerato polimerico, che si sono in tutti i casi deformati senza rompersi. La reale resistenza a rottura per flessione di questi materiali risulta infatti più elevata dei valori ottenuti. La prova di compressione consente di misurare la resistenza a compressione, ovvero la tensione necessaria per portare a rottura il campione. Le malte polimeriche, non avendo una rottura fragile, ma di tipo duttile, hanno avuto un comportamento diverso dalle comuni malte cementizie: inizialmente il carico applicato è aumentato progressivamente, fino al raggiungimento della massima tensione che è rimasta più o meno la stessa per un certo intervallo ("carico di picco"), essendo aumentata la deformazione del provino. Il raggiungimento di questo carico di picco è stato utilizzato come criterio per definire la fine della prova in questa sperimentazione. I campioni non hanno dimostrato la stessa deformazione durante e dopo la prova a compressione. Infatti, mentre i campioni con sabbia di quarzo hanno mostrato una lieve espansione nel senso trasversale rispetto alla direzione di sollecitazione, gli altri (scoria di acciaieria e materiale da C&D) si sono notevolmente deformati una volta raggiunto il carico di picco. Dopo la prova i campioni hanno comunque recuperato gran parte della deformazione, nonostante l’accumulo fosse consistente. Per quello che riguarda le prove di modulo elastico secante a compressione, le caratteristiche delle malte polimeriche hanno in alcuni casi influito negativamente sulla possibilità di misurare completamente le deformazioni conseguenti ad alcuni cicli di carico. In questo caso, infatti l’eccessiva contrazione o al- 262 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica lungamento del campione eccedeva la massima escursione dei trasduttori di spostamento (pari a 2,5 millimetri). Nella Tabella 9.5 sono stati riportati i valori della resistenza a flessione, della resistenza a compressione e del modulo elastico secante per le malte polimeriche testate: PR-1-SQ, PR-1-SA e PR-1-CD. Dalle prove realizzate e dai risultati ottenuti emerge come il conglomerato con sabbia di quarzo tenda ad essere più rigido rispetto agli altri due, pur rimanendo sempre un materiale estremamente deformabile se rapportato a quelli tradizionali. I conglomerati realizzati con scoria d’acciaieria e materiale da C&D mostrano invece prestazioni tendenzialmente inferiori. Queste differenze di comportamento sono dovute alle caratteristiche degli aggregati impiegati (in particolare alla loro granulometria). Infatti la curva granulometrica della sabbia di quarzo è costituita da granuli molto fini (dimensioni minori di 4 millimetri), mentre quelle della scoria d’acciaieria e del materiale da C&D hanno anche una frazione più grossolana. I risultati di queste prove dimostrano quindi come la presenza di materiale fine sia condizione necessaria per ottenere un materiale più compatto e quindi più rigido. 9.2.2. La fatica Le prove di resistenza a fatica dimostrano che il modulo di rigidezza non ha un preciso andamento in generale. In questa trattazione sono stati confrontati il modulo elastico di rigidezza dopo cento cicli e dopo centocinquatamila cicli (Tabella 9.6 e Figura 9.5). Le prove hanno evidenziato che il supporto di calcestruzzo, essendo un materiale fragile, da luogo, in quasi tutti i casi, a fessurazioni più o meno distribuite. É stato però verificato con questo lavoro che i danni non si sono propagati ai rivestimenti, seppure la forza di adesione al supporto sia diminuita dopo le prove di fatica (con variazioni diverse a seconda del tipo di supporto, come si può notare nel paragrafo successivo sulla resistenza allo strappo). Ciò suggerisce che questi rivestimenti innovativi abbiano una buona resistenza alla fessurazione e una buona adesione al supporto, nonostante questo si possa fessurare durante le sua vita utile. I conglomerati bituminosi, invece, alla fine della prova hanno perso la loro adesione al supporto, fessurandosi (Figura 9.5a e Figura 9.5b). A parità di scheletro litico, i conglomerati bituminosi posseggono un modulo di rigidezza maggiore rispetto alle miscele con la resina epossidica. Le miscele stese con metodo "multistrato" hanno i valori più bassi indicando che questo metodo di stesa non garantisce una buona elasticità della pavimentazione. 263 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati Tabella 9.5.: Valutazione delle caratteristiche meccaniche delle malte polimeriche. Proprietà PR-1-SQ PR-1-SA PR-1-CD RF 1 [Mpa]a RF 2 [Mpa] RF 3 [Mpa] RF 4 [Mpa] RF 5 [Mpa] RF medio [Mpa] 2,2 5,6 3,3 5,8 4,0 4,2 1,5 2,0 2,8 2,0 3,0 2,3 1,8 2,0 3,2 2,9 2,1 2,4 RC1 [MPa]b RC2 [MPa] RC3 [MPa] RC4 [MPa] RC5 [MPa] RC6 [MPa] RC7 [MPa] RC8 [MPa] RC9 [MPa] RC10 [MPa] RCmedio [MPa] 9,8 10,1 12,0 12,8 9,8 10,1 12,3 12,3 11,0 11,0 11,1 7,5 7,4 6,7 6,3 7,5 7,4 7,7 7,0 6,8 7,0 7,1 5,8 6,0 5,9 6,5 7,4 7,0 6,5 6,7 6,7 6,4 6,5 ES1 [MPa]c ES2 [MPa] ES3 [MPa] ES4 [MPa] ES5 [MPa] ES6 [MPa] ESmedio [MPa] 385 326 567 483 438 480 447 199 121 169 143 240 151 171 137 116 170 130 167 128 141 0,33 1,33 2,32 1,45 0,25 0,98 1,72 2,45 0,25 0,98 1,72 2,45 σ0 σ1 σ2 σ3 [MPa] [MPa] [MPa] [MPa] RF i = resistenza a flessione ottenuta nella prova i-esima; b RCi = resistenza a compressione ottenuta nella prova i-esima; c ESi = modulo elastico secante ottenuto nella prova i-esima. a 264 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica Tabella 9.6.: Risultati delle prove a felssione su quattro punti a fatica. Tipo Modulo dopo 100 cicli [MPa] PR 2 SA PR 2 C CB-2-SA CB-2-C PR-1-CD PR-1-SA PR-1-SQ ML-CD ML-SA ML-SQ Modulo dopo 150.000 cicli [MPa] 10 166,24 6350,55 11 441,10 8238,41 14 562,16 14 114,71 12 486,92 8342,05 8913,04 10 942,37 9290,53 6223,75 10 267,73 7925,02 14 455,66 14 045,06 12 089,49 6489,72 7986,02 10 734,12 16 E100 E150.000 14 Modulo elastico [GPa] 12 10 8 6 4 2 -S PR A -1 -S Q M LC D M LSA M LSQ -1 D PR -C -1 -C PR -2 B -2 B C C -S A C 2 PR PR 2 SA 0 Tipi di rivestimento Figura 9.4.: Confronto tra i moduli elastici di rigidezza dopo 100 cicli e dopo 150.000 cicli delle diverse tipologie di rivestimento. 265 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati (a) Tavetto in conglomerato bituminoso. (c) Travetto in conglomerato polimerico. (b) Lo stato della guaina bituminosa. (d) Fessurazione limitata al calcestruzzo. Figura 9.5.: Esempi di fessurazioni e delaminazioni sui travetti a seguito delle prove di resistenza a fatica. Le miscele stese con metodo "premiscelato" con scheletro litico di tipo 1 hanno dimostrato invece una performance migliore di tutte le altre tipologie di rivestimento: una buona adesione e, nella maggior parte dei casi, non hanno consentito alla fessura di propagarsi alla pavimentazione seppure il supporto fosse fessurato (Figura 9.5d). Questo è dovuto alla buona elasticità che possiedono le resine polimeriche anche per molto tempo durante la loro vita utile, mentre il bitume invecchiando diventa più fragile. Durante le prove di fatica è stato possibile notare come il valore del modulo elastico di rigidezza dei provini fosse lentamente diminuito all’aumentare del numero di cicli: ciò conferma che i campioni si sono danneggiati durante le prove. Infatti, se da un lato il calcestruzzo del supporto si è fessurato, dall’altro la resina epossidica (nelle soluzioni proposte) ha mantenuto il livello di tensione, dimostrando di essere un buon materiale per le applicazioni previste (Figura 9.5d). Come evidenziato in altri studi [45], il materiale sintetico crea un effetto di "continutià" che "chiude" le fessure formatesi sul calcestruzzo. 9.2.3. Le prove agli ultrasuoni La conferma della fessurazione dei supporti in calcestruzzo è stata ottenuta impiegando uno strumento ad ultrasuoni. 266 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica Tabella 9.7.: Risultati delle prove ultrasuoni su supporto nuovo o preparato con sistemi irruvidenti. Tipo di aggregato PR-1SQ PR-1SA PR-1CD MLSQ MLSA MLCD TspreF [µsec] TspostF [µsec] Differenza 102,5 112,2 + 9,7 107,5 119,4 + 11,9 104,6 114,2 + 9,6 106,1 116,8 + 10,7 107,0 120,0 + 13,0 103,4 115,4 + 12,0 Tabella 9.8.: Risultati delle prove ultrasuoni su supporto umido o mal preparato. Tipo di aggregato PR-1SQ PR-1SA PR-1CD MLSQ MLSA MLCD TspreF [µsec] TspostF [µsec] Differenza 95,2 102,3 + 7,1 96,7 105,6 + 8,9 98,4 107,1 + 8,7 96,6 104,4 + 7,8 96,7 109,5 + 12,8 97,2 114,0 + 16,8 I campioni sono stati suddivisi in "supporto nuovo o superficie irruvidita" e in "supporto bagnato o prefessurato", a seconda della tipologia di supporto utilizzato. La superficie del supporto nuovo o con superficie irruvidita è stata preparata o è stata irruvidita. La superficie del supporto bagnato o prefessurato è stata resa scivolosa mediante bagnatura o fessurata mediante una prova di fatica preliminare. Successivamente sui campioni sono state stese le varie tipologie di rivestimenti. Nella Tabella 9.7 e nella Tabella 9.8 sono riportati i valori medi del tempi di passaggio degli ultrasuoni (Ts ) prima e dopo le prove di fatica (TspreF , TspostF ), al variare del tipo di supporto, della tipologia di posa e del tipo di aggregati. I valori ottenuti misurando il tempo di passaggio delle onde attraverso il calcestruzzo prima e dopo le prove di fatica suggeriscono che i provini si siano fessurati o danneggiati. Il tempo di passaggio degli ultrasuoni è maggiore dopo la prova di fatica per le miscele confezionate con scorie di acciaieria (sia con metodo "premiscelato" che con metodo "multistrato"), mentre le miscele confezionate con sabbia di quarzo offrono il miglior risultato iìcon entrambi i metodi. Il numero esiguo di dati non conssente ulteriori osservazioni sui comportamenti delle miscele polimeriche applicate a supporti in calcestruzzo: è evidente però che l’utilizzo di malte polimeriche stese con metodo "premiscelato" comporta un valido contrasto per evitare la risalita delle fessure che si possono formare sull’impalcato in calcestruzzo. 267 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati Tabella 9.9.: Valori del parametro WTSAIR a 20℃ e 60℃. WTSAIR [mm/103 cicli] PR-2-C PR-2-SA PR-1-SQ PR-1-SA PR-1-CD CB-2-C CB-2-SA ML-SQ ML-SA ML-CD SL-B PR-2-C (50%) PR-1-SQ (50%) 20℃ 0,027 0,018 0,045 0,041 0,036 0,156 0,043 0,013 0,035 0,026 0,006 0,028 0,021 60℃ 0,018 0,005 0,008 0,010 0,007 0,180 0,068 0,006 0,009 0,019 0,001 0,036 0,003 Tabella 9.10.: Valori del parametro WTSAIR a 0℃, 20℃, 40℃ e 60℃. WTSAIR [mm/103 cicli] 0℃ PR-2-C PR-1-SQ PR-1-SA CB-2-C SL-B PR-2-C (50%) PR-1-SQ (50%) 0,085 0,047 0,032 0,144 0,013 0,078 0,085 20℃ 0,027 0,045 0,041 0,156 0,006 0,028 0,021 40℃ 0,023 0,008 0,038 0,168 0,009 0,012 0,006 60℃ 0,018 0,008 0,010 0,180 0,001 0,036 0,003 9.2.4. Le deformazioni permanenti Le deformazioni permanenti sono state misurate, come descritto nel Capitolo 8, tramite la macchina ormaiola e la noramtiva UNI EN 12697 parte 22 del 2007. In questo paragrafo verranno presentati e discussi i dati ottenuti dalle prove. I risultati completi delle prove, dato l’elevato numero di dati, sono stati riportari nell’appendice B. È stato possibile constatare immediatamente che i leganti polimerici possiedono un comportamento termoindurente, a causa della loro composizione chimica. Infatti, il reticolo di molecole si completa, irrigidendo la matrice polimerica, all’aumentare della temperatura. I rivestimenti polimerici con scheletro litico di tipo 2 si comportano in modo migliore alle deformazioni permanenti rispetto a quelli bituminosi. Da notare inoltre che il conglomerato bituminoso con scorie di acciaieria ha un migliore comportamento rispetto a quello con calcare, come già indicato in 268 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica 0.2 20℃ 60℃ 0.18 0.16 W T SAIR [mm/103 cicli] 0.14 0.12 0.1 8 · 10−2 6 · 10−2 4 · 10−2 2 · 10−2 PR PR 2-C -2 PR -SA -1 PR SQ -1 PR -SA -1 -C C D B C 2-C B -2 -S M A LS M Q LS M A LC D PR S PR 2-C L-B -1 (5 -S 0% Q (5 ) 0% ) 0 Tipi di rivestimento Figura 9.6.: WTSAIR a 20℃ e a 60℃ per ciascuna tipologia di rivestimento. letteratura [88]. I rivestimenti polimerici di tipo "multistrato" soffrono maggiormente l’accumulo di deformazioni permanenti rispetto agli stessi rivestimenti stesi con metodo "premiscelato" (come si può notare nella Tabella 9.10 e nella Figura 9.6). La soluzione in conglomerato bituminoso ha dimostrato di avere delle carenze evidenti soprattutto alle alte temperature (40℃ e 60℃): il conglomerato ha subito profonde deformazioni permanenti (Figura 9.8a) e ha avuto delle perdite parziali, in alcuni casi anche totali, di adesione con il supporto sottostante in calcestruzzo (Figura 9.8b), dimostrando che uno spessore molto sottile di conglomerato non è adatto per ricoprire l’impalcato di ponte. Infatti l’adesio- 269 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati ne tra conglomerato bituminoso e calcestruzzo diminuisce al diminuire dello spessore dello strato di conglomerato bituminoso a causa dell’esiguo peso della pavimentazione. Ulteriore svantaggio è la presenza della guaina bituminosa che crea una superficie preferenziale per le tensioni tangenziali, responsabili dello slittamento della pavimentazione sull’impacato di ponte. In tutti i casi analizzati, il comportamento dei rivestimenti polimerici ha evidenziato una minore predisposizione alla deformazione permanente a temperature alte (60℃ - 40℃) e, viceversa, un’alta predisposizione a temperature più basse (0℃ - 20℃) [58], come si può notare in Tabella 9.10, in Figura 9.7, in Figura 9.8c e in Figura 9.8d. I rivestimenti con il 50% in meno di legante dimostrano un andamento generale simile a quello degli altri. Nel caso della sabbia di quarzo, il quantitativo minore di legante riduce ulteriormente l’accumulo di deformazione permanente, mentre nel caso del calcare si ha un aumnento dell’accumulo di deformazione: ciò può essere imputato alla tipologia di scheletro litico. Infatti la sabbia di quarzo, essendo composta da materiale molto fine crea uno scheletro più rigido nel conlgomerato polimerico, mentre la miscela con calcare (avendo al suo interno anche pezzature maggiori) possiede più vuoti interni che si chiudono con il tempo durante la prova. 9.2.5. La resistenza allo strappo L’adesione del rivestimento al supporto in calcestruzzo è stata testata mediamente tre prove di adesione per ogni tipo di pavimentazione. I campioni sono stati testati: 1. in condizioni ambientali normali (condizionamento forzato ad una temperatura di 20℃); 2. dopo di 28 giorni di cicli di gelo e disgelo (è stato scelto un intervallo di temperatura compreso tra 0℃ e 60℃); 3. dopo 28 giorni di cicli di gelo e disgelo contemporaneamente all’azioen di sali disgelanti (l’intervallo si temperatura è il medesimo utilizzato nella precedente condizione). I risultati delle prove sui campioni sottoposti a diverse condizioni climatiche, riassunti nella Tabella 9.11 e nella Figura 9.9, sono stati diversi di volta in volta anche all’interno dello stesso rivestimento. Ciò è accaduto soprattutto perché la superfici del rivestimento presentavano delle discontinuità che hanno impedito all’adesivo di attaccarsi perfettamente. Inoltre anche una lieve inclinazione del tassello o dello strumento ha portato ad avere forze di trazione non omogenee sul provino da testare [61]. 270 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica 0.2 0℃ 20℃ 40℃ 60℃ 0.18 0.16 W T SAIR [mm/103 cicli] 0.14 0.12 0.1 8 · 10−2 6 · 10−2 4 · 10−2 2 · 10−2 ) 0% ) -S PR -1 -C -2 PR Tipi di rivestimento Q (5 (5 0% -B SL -2 -C B C PR -1 -S A Q -1 -S PR PR -2 -C 0 Figura 9.7.: WTSAIR a 0℃, 20℃, 40℃ e a 60℃ per alcune tipologie di rivestimento. 271 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati (a) Ormaia formatasi sul campione in conglomerato bituminoso a 60℃. (c) Ormaia formatasi sul campione premiscelasto in malta polimerica a 20℃. (b) Perdita di adesione con il supporto in calcestruzzo. (d) Ormaia formatasi sul campione premiscelasto in malta polimerica a 0℃ (sopra) e a 60℃ (sotto). Figura 9.8.: Esempi di rivestimenti dopo le prove di resistenza a deformzioni permanenti. 272 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica Tabella 9.11.: Valori della tensione a trazione e tipo di rottura per ciascun tipo di rivestimento in diverse condizioni. Tipo PR-2-C PR-2-SA PR-1-SQ PR-1-SA PR-1-CD CB-2-C CB-2-SA ML-SQ ML-SA ML-CD SL-B T=20℃ - 25℃a Gelo/disgelob Gelo/disgelo & salic TTm [MPa]d TR e TTm [MPa]d TR e TTm [MPa]d TR e 1,44 1,39 1,59 1,31 0,91 0,70 0,76 1,53 1,48 0,97 1,20 F A B C C Bf E D C E B 0,95 0,52 0,65 0,64 0,48 0,38 0,41 1,44 0,87 0,80 1,42 D A E F F B B D E D F 0,44 0,37 0,41 0,37 0,28 0,22 0,25 0,85 0,50 0,54 1,38 F E F F F B B E E E F Condizioni ambientali normali (T=20℃ - 25℃); Dopo cicli di gelo e disgelo; c Dopo cicli di gelo e disgelo & azione dei sali disgelanti; d Tensione a trazione media; e Tipo di rottura; f La rottura è avvenuta tra il supporto in calcestruzzo e la guaina a b Solo nel caso della miscela PR-2-SA la rottura del provino è avvenuta all’interno del supporto in calcestruzzo, evidenziando che lo scheletro di tipo 2 con scorie ha una buona coesione interna. Infatti, seppure le tensioni sviluppate siano elevate, ha ceduto quasi sempre il primer o l’interfaccia tra primer e rivestimento. I conglomerati bituminosi hanno avuto una performance più bassa rispetto agli altri rivestimenti: la guaina bituminosa ha dimostrato di avere infatti un minore grado di adesione al supporto in calcestruzzo rispetto ai primer utilizzati per le altre soluzioni. In due casi, durante l’esecuzione del carotaggio, la sola rotazione della punta a tazza ha fatto in modo che la guaina e il conglomerato bituminoso si staccassero dal supporto. I valori di tensione sono globalmente maggiori per le soluzioni stese con metodo "multistrato", che con il metodo "premiscelato", seppure le soluzioni con sabbia di quarzo abbiano ottenuto entrambe alti valori della tensione di trazione (Figura 9.9). Sono stati inoltre condotti ulteriori sperimentazioni riguardanti l’adesione dei rivestimenti sull’impalcato da ponte su alcuni provini sottoposti a prove di fatica. I campioni, gli stessi usati per le prove ad ultrasuoni, sono stati suddivisi in "supporto nuovo o superficie irruvidita" e in "supporto bagnato o 273 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati 1.8 T=20℃-25℃ Gelo/disgelo Gelo/disgelo&sali 1.6 Tensione media a trazione [MPa] 1.4 1.2 1 0.8 0.6 0.4 0.2 Tipi di rivestimento Figura 9.9.: Risultati della prova di resistenza allo strappo. 274 -B SL -S PR A -1 -S Q PR -1 -S PR A -1 -C D C B -2 -C C B -2 -S A M LSQ M LSA M LC D -2 PR PR -2 -C 0 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica Tabella 9.12.: Valori della tensione a trazione e tipo di rottura per ciascun tipo di rivestimento con i vari tipi di supporto. Tipo di rivestimento PR1-SQ PR1-SA PR1-CD MLSQ MLSA MLCD CB2-SA Tensione media a trazione [MPa]a Tipo di Rotturaa Tensione media a trazione [MPa]b Tipo di Rotturab Tensione media a trazione [MPa]c Tipo di Rotturac 1,59 1,31 0,91 1,53 1,48 0,97 0,76 B 1,38 C 1,29 C 0,91 D 1,52 C 1,49 E 0,95 E − D 1,33 C 1,29 C 0,82 D 1,46 E 1,45 E 0,92 E - C C C D C E E a b c Prove svolte su rivestimento steso su supporto nuovo o superficie irruvidita. Prove svolte su rivestimento steso su supporto nuovo o superficie irruvidita, dopo la prova di fatica Prove svolte su rivestimento steso su supporto in calcestruzzo bagnato o pre-fessurato, dopo la prova di fatica prefessurato", a seconda della tipologia di supporto utilizzato. La resistenza allo strappo è stata misurata prima e dopo la prova di fatica (Tabella ??). Si può notare che, dopo l’azione di cicli di gelo e disgelo contemporanea o meno all’azione dei sali disgelanti, quasi tute le tipologie di rivestimento hanno un abbassamento della tensione media a trazione. Facendo un confronto tra i risultati dei campioni in condizioni normali e quelli che hanno subito gelo/disgelo e l’azione dei sali disgelanti, le miscele che hanno avuto un comportamento migliore sono state quelle con sabbia di quarzo (PR-1-SQ e ML-SQ) e con bauxite (SL-B). Questo è dovuto soprattutto alle proprietà degli aggregati: quarzo e bauxite sono materiali estremamente duri e che non perdono l’adesione con il legante, se non dopo molti cicli di gelo/disgelo e con l’azione contemporanea dei sali disgelanti. Gli altri aggregati invece subiscono già dopo 28 giorni un modesto degrado. Visivamente non si sono notate perdite di materiale granulare o di parti della pavimentazione/soletta in calcestruzzo. Molte delle prove (su supporto nuovo o preparato con sistemi irruvidenti) effettuate dopo le prove di fatica hanno dato dei risultati che sottolineano l’indebolimento dell’interfaccia tra il supporto in calcestruzzo e il rivestimento (o tra il primer e il rivestimento). La prova di fatica ha quindi portato ad un degrado dell’adesione tra i due materiali. Su supporto umido (o non preparato con sistemi irruvidenti) le prove di fatica hanno indebolito ulteriormente il legame all’interfaccia dei materiali, portando la rottura dei campioni di prova 275 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati ad un livello più basso (tra il primer e il rivestimento) rispetto a quelle avutesi su supporto nuovo (Tabella 9.12). Per quanto riguarda le soluzioni tradizionali, durante le prove a fatica si sono avuti dei distacchi localizzati dello strato in conglomerato bituminoso rispetto alla membrana bituminosa (Figura 9.5a). Ciò ha portato a non eseguire le prove di adesione su tale tipologia di rivestimento poiché era impossibile dare seguito alla prova. Le prestazioni ottenute con sabbia di quarzo (SQ) e scoria d’acciaieria (SA) sono risultate essere migliori rispetto a quelle ottenute con il materiale da costruzione e demolizione (CD). Infatti quest’ultimo tipo di aggregato sviluppa una minor adesione alla resina epossidica avendo una coefficiente di appiattimento più elevato rispetto alle altre tipologie di aggregato. Ha invece una minima influenza sull’adesione al supporto il metodo di stesa (premiscelato o multistrato). 9.2.6. I coefficienti di dilatazione termica Per la valutazione del coefficiente di dilatazione termica dei materiali fin’ora descritti è stato scelto, mancando un protocollo specifico (come indicato nel Capitolo 8), di svolgere delle prove sperimentali secondo protocolli che utilizzano altre normative come linee guida: queste norme però prescrivono le procedure per la determinazione del coefficiente di dilatazione termico in materiali differenti da quelli studiati. In queste normative è suggerito che il campione non subisca variazioni di temperatura troppo repentine e che il calore (o il freddo) venga distribuito in modo uniforme sul campione, per evitare differenti espansioni (o contrazioni) volumetriche, ovvero per ridurre al minimo le tensioni che potrebbero nascere al suo interno. Per questi motivi le normative evidenziano la necessità di operare con una cella climatica che sia in grado di controllare la velocità di variazione della temperatura nel tempo (δT /δt) e di impostarla in modo tale da rimanere entro i 10℃/minuto. Poichè l’attrezzatura a disposizione non consentiva questo, si è scelto di procedere in modo cautelativo, facendo variare la temperatura in maniera sufficientemente lenta. Dai risultati ottenuti si evince che le prove sono state condotte con una velocità di variazione della temperatura che varia tra 0,25℃/minuto e 0,33℃/minuto. É stata quindi studiata la dilatazione termica di alcuni campioni prismatici bistrato (malta polimerica posta su supporto in calcestruzzo): PR-2-C (50%), PR-2-C, PR-1-SQ, PR-1-SA, CB-2-C e per il calcestruzzo fibrorinforzato del supporto. 276 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica ∆l [mm] 0.15 0.1 5 · 10−2 0 0 5 10 15 20 25 30 35 40 ∆T [℃] Dati Interpolazione Figura 9.10.: Risultati sperimentali e retta di interpolazione lineare ottenuti per la miscela PR-2-C (50%). I valori dei coefficiente di dilatazione termica lineare del conglomerato bituminoso con calcare (CB-2-C) e del calcestruzzo sono noti in letteratura e sono stati usati come campioni di controllo per verificare la bontà del protocollo adottato. Il coefficiente angolare β della retta di interpolazione dei dati sperimentali ottenuti per un singolo materiale è stato inserito nell’equazione (8.22) da cui si è ricavato λ, ovvero il coefficiente di dilatazione termica lineare. Per la miscela PR-2-C (50%), si è ottenuto un coefficiente β pari a 0, 0038 e dall’equazione (8.22) un coefficiente λ pari a 38 · 10−6 ℃−1 . L’interpolazione è molto buona (R2 = 0, 96, come si può notare nella Figura 9.10). Lo studio sulla miscela PR-2-C ha portato ad ottenere un coefficiente β pari a 0, 012 e, mediante l’equazione (8.22), un coefficiente di dilatazione termica lineare λ pari a 120 · 10−6 ℃−1 con un buon R2 pari a 0,98 (Figura 9.11). Il coefficiente angolare β della retta di interpolazione dei risultati sperimentali per la miscela PR-1-SQ è risultato essere pari a 0, 0056. Con una ottima interpolazione (R2 pari a 0,99) e, tramite l’equazione (8.22), si è calcolato un coefficiente di dilatazione termica lineare λ pari a 56 · 10−6 ℃−1 (Figura 9.12). La Figura 9.13 mostra l’interpolazione dei risultati sperimentali per la miscela PR-1-SA: con un coefficiente angolare β pari a 0, 0085 si è ottenuto un coefficiente di dilatazione termica lineare λ pari a 85·10−6 ℃−1 (R2 pari a 0,98). Il conglomerato bituminoso con calcare (CB-2-C) ha dimostrato avere (Fi- 277 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati 0.2 ∆l [mm] 0.15 0.1 5 · 10−2 0 0 2 4 6 8 10 12 14 ∆T [℃] Dati Interpolazione Figura 9.11.: Risultati sperimentali e retta di interpolazione lineare ottenuti per la miscela PR-2-C. 0.25 ∆l [mm] 0.2 0.15 0.1 5 · 10−2 0 0 10 20 30 40 ∆T [℃] Dati Interpolazione Figura 9.12.: Risultati sperimentali e retta di interpolazione ottenuti per la miscela PR-1-SQ. 278 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica 0.4 ∆l [mm] 0.3 0.2 0.1 0 0 10 20 30 40 ∆T [℃] Dati Interpolazione Figura 9.13.: Risultati sperimentali e retta di interpolazione ottenuti per la miscela PR-1-SA. Tabella 9.13.: Valori di dilatazione termica dei materiali. Materiale PR-2-C (50%) PR-2-C PR-1-SQ PR-2-SA CB-2-C Calcestruzzo λ (sperimentale) [℃−1 ] λ (letteratura) [℃−1 ] 38 · 10−6 120 · 10−6 56 · 10−6 85 · 10−6 27 · 10−6 12 · 10−6 – – – – 25 · 10−6 12 · 10−6 gura 9.14) un coefficiente angolare β pari a 0, 0027 con un coefficiente R2 pari a 0,95. Il coeffciente di dilatazione termica lineare λ è pari a 27 · 10−6 ℃−1 . L’equazione (8.22) ha permesso di passare dal coeffciente β (pari a 0, 0012) ad un coefficiente di dilatazione termica lineare λ pari a 12 · 10−6 ℃−1 per il calcestruzzo, mediante un coefficiente R2 pari a 0,92 (Figura 9.15). Nella Tabella 9.13 sono stati riportati i coefficienti di dilatazione termica ottenuti per via sperimentale e i coefficienti di dilatazione termica indicati in letteratura. Come si può notare nella Tabella 9.13, i risultati ottenuti dalle prove di laboratorio mettono in luce la bontà del protocollo in quanto i valori di coefficiente di dilatazione termica ottenuti per il conglomerato bituminoso e per il 279 Capitolo 9. Dati e analisi dei risultati 0.1 ∆l [mm] 8 · 10−2 6 · 10−2 4 · 10−2 2 · 10−2 0 0 5 10 15 20 25 ∆T [℃] Dati Interpolazione Figura 9.14.: Risultati sperimentali e retta di interpolazione ottenuti per la miscela CB-2-C. 2 ·10−2 ∆l [mm] 1.5 1 0.5 0 0 2 4 6 8 10 ∆T [℃] Dati Interpolazione Figura 9.15.: Risultati sperimentali e retta di interpolazione ottenuti per il calcestruzzo. 280 9.2. La caratterizzazione fisico-meccanica calcestruzzo sono simili ai valori riportati nei testi in letteratura [42] [89]. Si suppone che la procedura che ha portato ai valori dei coefficienti di dilatazione termica per le miscele studiate quindi sia attendibile. La dilatazione termica varia a seconda del tipo di aggregato utilizzato e della tipologia di stesa del materiale. Il coefficiente di dilatazione termica lineare aumenta all’aumentare del quantitativo di legante a parità di tipologia e quantità di aggregato. La miscela PR2-C (50%), infatti, ha un coefficiente λ più basso rispetto alla miscela PR-2-C, che risulta essere quella che ha il coefficiente λ più elevato in assoluto. Il coefficiente di dilatazione (o di contrazione) termica λ è influenzato dal rapporto tra la quantità di legante e la quantità di aggregato: un maggiore contenuto di legante comporta un incremento nei valori del coefficiente λ. Confrontando i coefficienti delle altre miscele (PR-2-C, PR-1-SA e PR-1-SQ), seppure con scheletri litici diversi, non si riesce ad individuare un andamento preciso: al variare della tipologia di aggregato non si comprende l’andamento del coefficiente di dilatazione termica. Le miscele con legate polimerico hanno un comportamento maggiormente dilatatorio rispetto ai conglomerati bituminosi e al calcestruzzo: questo rende più difficoltoso la possibilità di accoppiarli su di un impalcato di ponte. Mentre è possibile l’accoppiamento tra una pavimentazione in conglomerato bituminoso e l’impalcato in calcestruzzo, seppure il conglomerato abbia un coefficiente λ che è circa il doppio di quello del calcestruzzo (Tabella 9.13). L’andamento del coefficiente λ suggerisce la costruzione di una pavimentazione di piccolo spessore (nel caso di rivestimenti in conglomerato bituminoso e soprattutto nel caso di rivestimenti poliemrici) in modo tale da ridurre lo stato di tensione che potrebbe instaurarsi tra pavimentazione e calcestruzzo. 281 Capitolo 10. Conclusioni Lo studio di nuove soluzioni per impalcati di ponte in calcestruzzo ha permesso di acquisire ulteriore conoscenza nel campo delle impermeabilizzazioni carrabili in materiale polimerico. I rivestimenti impiegati hanno infatti il pregio di conferire una superficie direttamente carrabile e nel contempo un’impermeabilizzazione dell’estradosso. Il confronto con soluzioni tradizionali in conglomerato bituminoso ha evidenziato che i rivestimenti in materiale polimerico conciliano ottimamente la funzione di impermeabilizzazione a quella di immediata transitabilità: il sistema complessivo ha certamente una maggiore semplicità ed efficacia dal punto di vista pratico. L’impermeabilizzazione si realizza contemporaneamente alla pavimentazione del ponte, eliminando così la problematica del degrado delle sovrastrutture. Attraverso questa tecnologia infatti, tutte le acque (che potrebbero ristagnare) risultano, di fatto, acque superficiali ed esse, con opportune pendenze e con l’ausilio di caditoie, potranno defluire velocemente dalla sede stradale garantendo massima sicurezza alla circolazione dei mezzi e protezione durevole all’intera struttura. Da questo punto di vista, la costruzione di pavimentazioni in conglomerato bituminoso è più complessa: infatti al di sotto del rivestimento bituminoso deve essere posta una membrana che rivesta l’estradosso per evitare le infiltrazioni di acqua e di agenti chimici (sali disgelanti) che possono danneggiare il calcestruzzo e le barre d’armatura. Mediante prove di laboratorio e con la successiva analisi dei dati si è valutato il comportamento sia dal punto di vista fisico (caratteristiche superficiali) che dal punto di vista meccanico (resistenza a fatica, resistenza a deformazioni permanenti, adesione al supporto, ecc.) dei rivestimenti in conglomerato polimerico realizzati. La sperimentazione ha consentito di studiare le caratteristiche superficiali e meccaniche delle pavimentazioni al variare della curva granulometrica dell’aggregato, del tipo di legante e del rapporto tra le quantità, in peso, di legante e aggregato prendendo in esame tre diverse tecniche di posa: "multistrato", "premiscelato" e "slurry". 283 Capitolo 10. Conclusioni É possibile notare, dai dati ottenuti, che le caratteristiche superficiali delle pavimentazioni studiate variano a seconda del tipo di aggregato impiegato e del metodo di posa. I rivestimenti stesi con metodo "multistrato", se confrontati con quelli con metodo "premiscelato", dimostrano di avere una perfomance molto più soddisfacente in fatto di caratteristiche superficiali: la macrotessitura, la resistenza allo slittamento e la permeabilità sono di gran lunga migliori (come già indicato in letteratura [58]). I conglomerati bituminosi pur possedendo della caratteristiche superficiali buone (in termini di resistenza allo scivolamento e di permeabilità) rispetto ai rivestimenti in conglomerato polimerico stesi con metodo "premiscelato", hanno delle discrete performance in confronto ai rivestimenti stesi con metodo "multistrato". La pavimentazione SL-B, stesa con metodo "slurry", presenta un andamento dei risultati molto simile a quello dei conglomerati bituminosi. Il materiale da costruzione e demolizione (C&D) si classifica avere una buona rugosità in entrambi i casi (sia con metodo "premiscelato" che con quello "multistrato") e un manto "antisdrucciolevole per eccellenza" (in termini di resistenza allo scivolamento). La scoria d’acciaieria (SA) porta invece a dei discreti risultati. I rivestimenti con scheletro litico di tipo 2 hanno buone caratteristiche superficiali se viene impiegato il bitume come legante, viceversa con il legante polimerico. Ciò viene confermato visivamente: la resina sintetica infatti tende a riempire i vuoti tra gli aggregati creando una superficie tendenzialmente liscia (Figura A.5 e Figura A.3), mentre il bitume avvolgendo i singoli grani di aggregato consente loro di conservare la loro forma spigolosa e le loro asperità (Figura A.12 e Figura A.13. In questo modo le proprietà globali della pavimentazione bituminosa sono migliori di quella con legante polimerico. Le malte sintetiche adoperate e i metodi di posa si sono rivelati essere molto adatti allo scopo: i campioni, sottoposti a prove di fatica e di ormaiamento, hanno dimostrato di essere flessibili, tenaci e poco deformabili sotto carichi ciclici. Le malte ottenute con il metodo "premiscelato" hanno dimostrato di avere una buona capacità di resistere alle deformazioni permanenti. Seppur il metodo di posa "multistrato" abbia permesso di ottenere ottimi valori degli indici che caratterizzano le superfici stradali (altezza in sabbia, resistenza allo slittamento e permeabilità), esso si è rivelato meno adatto del metodo premiscelato a sopperire a problemi di affaticamento e di ormaiamento del materiale. Le pavimentazioni stese con metodo "multistrato" soffrono un maggiore accumulo di deformazioni permanenti a causa del fatto che i grani di aggregato non sono completamente immersi nella resina. Infatti la presenza di asperità molto elevate sulla superficie del rivestimento conferisce al sistema proprietà antisdrucciolevoli anche nei casi peggiori, ma rende più debole la pavimen284 tazione nel suo complesso per la maggiore presenza di vuoti e per le tensioni che il battistrada del pneumatico scarica direttamente sul singolo grano dell’aggregato [61]. Le miscele stese con metodo "premiscelato" hanno il pregio di essere più resistenti a temperature elevate (ciò deriva dal comportamento termoindurente della resina usata come legante), contrariamente ai conglomerati bituminosi, che invece accumulano maggiori deformazioni permanenti. Le soluzioni in conglomerato polimerico garantiscono anche una buona adesione al supporto in calcestruzzo, buona resistenza a fatica avendo delle ottime caratteristiche elastiche (anche in seguito a cicli di gelo/disgelo), eccellente impermeabilità all’acqua e buona capacità di resistere all’azione chimica dei sali disgelanti (assicurando protezione anche all’impalcato). Tra gli aggregati, la sabbia di quarzo ha fatto acquisire alla malta sintetica una struttura più coesa e più adatta a sopportare i carichi ciclici. Infatti la miscela con sabbia di quarzo ha avuto il comportamento migliore, perché tende ad essere più rigida per la presenza di una maggior quantità di frazione fine (come evidenziato dalle prove per la determinazione delle caratteristiche meccaniche dei conglomerati polimerici). Il materiale da C&D ha invece dimostrato di essere il peggiore tra tutti, essendo, per le sue caratteristiche intrinseche, più fragile e con un coefficiente di appiattimento più elevato degli altri. A metà tra queste due si pone invece la scoria di acciaieria, che ha permesso alla malta di acquisire una struttura monolitica, ma il minor quantitativo di fine ha portato ad una maggiore propensione per le deformazioni permanenti. Le prove di adesione hanno suggerito come i rivestimenti innovativi testati fossero migliori di quelli tradizionali anche dopo essere stati sottoposti a fatica: i materiali hanno dimostrato infatti di essere tenaci e di formare un buon legame all’interfaccia con il supporto in calcestruzzo. Anche con supporto umido o prefessurato il comportamento delle malte sintetiche ha dato le migliori risposte, rispetto alle soluzioni tradizionali. La resina epossidica di tipo A ha un buona adesione al supporto anche a seguito di cicli di gelo e disgelo e alla contemporanea presenza di sali disgelanti, come già testato da altri ricercatori [90]. I rivestimenti PR-1-SQ, ML-SQ e SL-B si sono dimostrati i più tenaci a seguito delle prove di resistenza allo strappo dopo cicli di gelo e disgelo contemporaneamente alla presenza di sali disgelanti. Il fatto che i rivestimenti in conglomerato polimerico esprimano una buonissima adesione al supporto è una proprietà fondamentale, perché le forze tangenziali applicate dai pneumatici in trazione o frenatura devono essere assorbite da pavimentazioni di spessore sottile (tra 5 millimetri e 10 millimetri), come riportato anche in letteratura [44]. Questo studio ha permesso di comprendere anche il legame tra conglomerato 285 Capitolo 10. Conclusioni bituminoso e guaina bituminosa: nonostante una migliore adesione al supporto in calcestruzzo e il raggiungimento di un buon livello di impermeabilizzazione dell’estradosso dell’impalcato del ponte (anche se umido o prefessurato) da parte della guaina, non vi è la capacità di instaurare un buon legame di adesione con il conglomerato bituminoso. Come già indicato in letteratura [91], l’adesione della membrana bituminosa all’impalcato dipende da numerosi fattori: tipo di stesa e di compattazione del conglomerato bituminoso, temperatura del conglomerato durante la stesa, tipologia di irruvidimento della soletta in calcestruzzo. É stato notato che la preparazione della superficie dell’impalcato non è una fase imprescindibile, visto la buona adesione delle malte polimeriche ai supporti "non preparati", però l’irruvidimento della superficie in calcestruzzo comporta sicuramente un miglioramento dell’adesione tra impalcato e pavimentazione [92]. Dal punto di vista degli aggregati, le prestazioni ottenute con sabbia di quarzo (SQ) e scoria d’acciaieria (SA) sono migliori rispetto a quelle ottenute con il materiale da costruzione e demolizione (C&D). Infatti quest’ultimo tipo di aggregato sviluppa una minore adesione alla resina epossidica avendo una coefficiente di appiattimento più elevato rispetto alle altre tipologie di aggregato. Si è visto inoltre che l’impiego con leganti polimerici di uno scheletro litico di tipo 2, simile a quello usato per il conglomerato bituminoso, ottiene caratteristiche peggiori delle soluzioni stese con metodo "premiscelato". Per queste ultime infatti viene usato uno scheletro litico di tipo 1, il cui fuso granulometrico comprende solo materiale fino. Seppure le caratteristiche superficiali dei campioni stesi con metodo "premiscelato siano meno elevate, il fatto che si inserisca nel legante una maggiore quantità di aggregato fine (rispetto alle miscele di tipo "premiscelato con scheletro litico di tipo 2) ha comportato un minore accumulo di deformazioni permanenti. Le prove svolte per lo studio della dilatazione termica hanno dimostrato che il coefficiente di dilatazione termica lineare varia a seconda del tipo di aggregato utilizzato e della tipologia di stesa del materiale. Ciò suggerisce la costruzione di una pavimentazione di piccolo spessore in modo tale da ridurre lo stato di tensione che potrebbe instaurarsi tra pavimentazione e calcestruzzo [89]. I materiali che, al giorno d’oggi, sembrano presentare un miglior comportamento complessivo sono quelli a base di leganti polimerici. Queste tipologie di impermeabilizzazioni consentono di colmare alcune lacune tipiche dei materiali tradizionali come la scarsa adesione ai supporti caratterizzati da un alto grado di umidità (condizione facilmente riscontrabile in cantiere), la discontinuità dell’azione protettiva e la scarsa resistenza a carichi elevati (problematica riscontrabile in zone maggiormente interessate dal traffico stradale pesante). 286 Inoltre, i prodotti polimerici possono essere stesi in opera tramite un’operazione di spruzzatura o stesura senza dover ricorrere alla preformatura industriale, garantendo un minor tempo di posa rispetto agli analoghi prodotti a matrice bituminosa, poiché non necessitano di calore nella posa e induriscono a temperatura ambiente per mezzo di semplici agenti catalizzatori. Rispetto ad una pavimentazione rigida, questi materiali polimerici, sia nella preparazione che nella stesa, non richiedono attrezzature specifiche, di cui, invece, il calcestruzzo necessita per la sua applicazione [93]. Gli altri vantaggi che i rivestimenti in conglomerato polimerico possono apportare rispetto al conglomerato bituminoso sono: • la possibilità di eliminare i giunti (in quanto si disponde di un materiale che possiede una maggiore elasticità); • un minore peso della pavimentazione sull’impalcato (i rivestimenti polimerici devono essere stesi con uno spessore più contenuto); • la possibilità di applicare i prodotti sull’impalcato in presenza di diverse temperature ambientali; • la facilità nella manutenzione della pavimentazione. 287 Appendice A. I rivestimenti studiati Questa appendice raccoglie le immagini dei rivestimenti progettati e studiati, così come descritti nei Capitoli 7, 8 e 9. Figura A.1.: Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con sabbia di quarzo (PR-1-SQ). 289 Appendice A. I rivestimenti studiati Figura A.2.: Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con sabbia di quarzo e con un quantitativo di legante dimezzato (PR-1-SQ-50%). Figura A.3.: Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con scoria di acciaieria (PR-1-SA). Figura A.4.: Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con materiale da C&D (PR-1-CD). Figura A.5.: Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 2 con calcare (PR-2-C). 290 Figura A.6.: Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 2 con scoria di acciaieria (PR-2-SA). Figura A.7.: Immagine del rivestimento "premiscelato" con scheletro di tipo 1 con calcare e con un quantitativo di legante dimezzato (PR-2-C50%). Figura A.8.: Immagine del rivestimento "multistrato" con sabbia di quarzo (ML-SQ). Figura A.9.: Immagine del rivestimento "multistrato" con scoria di acciaieria (ML-SA). 291 Appendice A. I rivestimenti studiati Figura A.10.: Immagine del rivestimento "multistrato" con materiale da C&D (ML-CD). Figura A.11.: Immagine del rivestimento "slurry" con bauxite (SL-B). Figura A.12.: Immagine del rivestimento in conglomerato bituminoso con scheletro di tipo 2 con calcare (CB-2-C). Figura A.13.: Immagine del rivestimento in conglomerato bituminoso con scheletro di tipo 2 con scoria di acciaieria (CB-2-SA). 292 Appendice B. Valori delle deformazioni permanenti Nella presente appendice B sono riportati i dati ottenuti dalle prove di ormaiamento discussi nel Capitolo 9, il cui protocollo è stato spiegato nel Capitolo 8. 293 Appendice B. Valori delle deformazioni permanenti Tabella B.1.: Valori delle deformazioni permanenti dei rivestimenti "premiscelato" con scheletro di tipo 1: PR-1-SQ, PR-1-SA e PR-1-CD. Cicli 0 250 500 750 1000 1250 1500 1750 2000 2250 2500 2750 3000 3250 3500 3750 4000 4250 4500 4750 5000 5250 5500 5750 6000 6250 6500 6750 7000 7250 7500 7750 8000 8250 8500 8750 9000 9250 9500 9750 10000 294 PR-1-SQ PR-1-SA PR-1-CD 0℃ 20℃ 40℃ 60℃ 0℃ 20℃ 40℃ 60℃ 20℃ 60℃ 0,01 0,11 0,08 0,04 0,19 0,13 0,16 0,18 0,27 0,28 0,23 0,18 0,14 0,25 0,27 0,35 0,28 0,34 0,34 0,25 0,28 0,27 0,28 0,40 0,30 0,33 0,39 0,37 0,30 0,42 0,41 0,34 0,43 0,48 0,46 0,49 0,38 0,42 0,42 0,45 0,52 0,01 0,04 0,05 0,01 0,08 0,01 0,04 0,09 0,12 0,08 0,11 0,11 0,12 0,18 0,19 0,17 0,27 0,24 0,19 0,25 0,21 0,27 0,24 0,29 0,33 0,30 0,31 0,35 0,38 0,31 0,29 0,29 0,36 0,31 0,35 0,40 0,36 0,37 0,41 0,35 0,43 0,04 0,00 0,00 0,01 0,06 0,02 0,00 0,00 0,00 0,01 0,02 0,00 0,02 0,03 0,04 0,05 0,06 0,08 0,07 0,09 0,12 0,14 0,09 0,14 0,14 0,13 0,14 0,12 0,12 0,18 0,19 0,17 0,18 0,19 0,17 0,16 0,17 0,15 0,21 0,15 0,16 0,00 0,11 0,12 0,13 0,14 0,15 0,15 0,16 0,16 0,17 0,17 0,17 0,18 0,18 0,18 0,19 0,19 0,19 0,20 0,20 0,20 0,20 0,21 0,21 0,21 0,21 0,22 0,22 0,22 0,22 0,22 0,23 0,23 0,23 0,23 0,23 0,23 0,24 0,24 0,24 0,24 0,05 0,10 0,09 0,00 0,18 0,05 0,29 0,17 0,13 0,32 0,09 0,20 0,39 0,43 0,28 0,15 0,13 0,36 0,36 0,23 0,31 0,20 0,38 0,27 0,19 0,47 0,53 0,17 0,33 0,42 0,32 0,17 0,51 0,25 0,32 0,34 0,34 0,32 0,48 0,17 0,47 0,00 0,10 0,13 0,17 0,19 0,16 0,21 0,20 0,22 0,26 0,27 0,29 0,31 0,33 0,33 0,38 0,37 0,37 0,39 0,41 0,42 0,47 0,46 0,46 0,48 0,53 0,51 0,54 0,54 0,53 0,53 0,53 0,56 0,57 0,60 0,59 0,60 0,63 0,62 0,62 0,62 0,20 0,19 0,16 0,27 0,40 0,50 0,39 0,44 0,52 0,28 0,37 0,50 0,25 0,30 0,50 0,51 0,30 0,27 0,46 0,41 0,25 0,48 0,25 0,33 0,40 0,50 0,36 0,29 0,30 0,36 0,47 0,60 0,38 0,34 0,49 0,36 0,48 0,43 0,46 0,39 0,43 0,00 0,22 0,22 0,23 0,24 0,24 0,25 0,25 0,25 0,26 0,26 0,26 0,27 0,27 0,27 0,28 0,28 0,28 0,29 0,29 0,29 0,29 0,30 0,30 0,30 0,30 0,31 0,31 0,31 0,31 0,32 0,32 0,32 0,32 0,32 0,33 0,33 0,33 0,33 0,34 0,34 0,00 0,15 0,20 0,24 0,27 0,30 0,33 0,35 0,37 0,39 0,41 0,43 0,44 0,46 0,47 0,49 0,50 0,51 0,53 0,54 0,55 0,56 0,57 0,59 0,60 0,61 0,62 0,63 0,63 0,64 0,65 0,66 0,67 0,68 0,69 0,69 0,70 0,71 0,72 0,72 0,73 0,00 0,22 0,28 0,32 0,36 0,39 0,41 0,44 0,46 0,47 0,49 0,50 0,51 0,52 0,53 0,54 0,55 0,56 0,56 0,57 0,57 0,58 0,58 0,59 0,59 0,59 0,59 0,60 0,60 0,60 0,60 0,60 0,60 0,61 0,61 0,61 0,61 0,61 0,61 0,61 0,61 Tabella B.2.: Valori delle deformazioni permanenti dei rivestimenti "premiscelato" con scheletro di tipo 2: PR-2-C, PR-2-SA, CB-2-C e CB-2-SA. Cicli 0 250 500 750 1000 1250 1500 1750 2000 2250 2500 2750 3000 3250 3500 3750 4000 4250 4500 4750 5000 5250 5500 5750 6000 6250 6500 6750 7000 7250 7500 7750 8000 8250 8500 8750 9000 9250 9500 9750 10000 PR-2-C PR-2-SA CB-2-C CB-2-SA 0℃ 20℃ 40℃ 60℃ 20℃ 60℃ 0℃ 20℃ 40℃ 60℃ 20℃ 60℃ 0,21 0,25 0,33 0,37 0,23 0,35 0,40 0,22 0,42 0,57 0,44 0,45 0,79 0,88 0,70 0,84 0,92 0,79 0,81 0,94 0,98 0,80 1,03 0,97 0,87 0,97 1,07 1,14 0,94 1,31 1,13 1,33 1,19 1,22 1,40 1,27 1,34 1,40 1,45 1,40 1,40 0,02 0,07 0,10 0,12 0,12 0,14 0,15 0,17 0,18 0,20 0,22 0,23 0,24 0,26 0,27 0,28 0,30 0,32 0,32 0,33 0,34 0,35 0,37 0,37 0,38 0,39 0,40 0,40 0,41 0,41 0,42 0,43 0,43 0,45 0,45 0,46 0,45 0,47 0,46 0,48 0,47 0,01 0,20 0,28 0,32 0,39 0,43 0,47 0,51 0,55 0,58 0,61 0,66 0,70 0,74 0,78 0,84 0,88 0,91 0,96 1,00 1,03 1,09 1,12 1,15 1,21 1,24 1,30 1,35 1,38 1,42 1,47 1,51 1,55 1,58 1,62 1,66 1,69 1,73 1,78 1,78 1,81 0,06 0,03 0,00 0,21 0,09 0,11 0,13 0,18 0,13 0,19 0,21 0,18 0,21 0,17 0,21 0,15 0,17 0,10 0,23 0,05 0,08 0,13 0,06 0,22 0,11 0,22 0,14 0,17 0,25 0,07 0,05 0,21 0,23 0,24 0,06 0,22 0,14 0,24 0,25 0,07 0,19 0,00 0,03 0,10 0,06 0,00 0,00 0,03 0,01 0,01 0,02 0,03 0,05 0,09 0,10 0,10 0,11 0,12 0,18 0,15 0,15 0,18 0,18 0,22 0,19 0,20 0,23 0,25 0,22 0,21 0,21 0,21 0,24 0,22 0,25 0,23 0,24 0,25 0,27 0,26 0,29 0,27 0,00 0,03 0,10 0,06 0,00 0,00 0,03 0,01 0,01 0,02 0,03 0,05 0,09 0,10 0,10 0,11 0,12 0,18 0,15 0,15 0,18 0,18 0,22 0,19 0,20 0,23 0,25 0,22 0,21 0,21 0,21 0,24 0,22 0,25 0,23 0,24 0,25 0,27 0,26 0,29 0,27 0,09 0,10 0,10 0,07 0,12 0,12 0,17 0,17 0,10 0,18 0,17 0,14 0,14 0,17 0,12 0,10 0,04 0,05 0,10 0,04 0,06 0,06 0,05 0,13 0,11 0,11 0,08 0,11 0,10 0,08 0,12 0,14 0,05 0,09 0,13 0,15 0,05 0,13 0,12 0,12 0,08 0,04 0,08 0,13 0,04 0,03 0,12 0,18 0,22 0,26 0,31 0,38 0,43 0,49 0,56 0,65 0,69 0,78 0,83 0,95 0,99 1,04 1,06 1,09 1,13 1,17 1,20 1,24 1,28 1,31 1,36 1,39 1,42 1,45 1,49 1,53 1,55 1,60 1,64 1,69 1,71 1,76 0,02 0,84 1,11 1,23 1,42 1,52 1,64 1,75 1,85 1,96 2,08 2,17 2,24 2,40 2,67 2,81 2,95 3,10 3,19 3,32 3,42 3,48 3,56 3,61 3,73 3,79 3,82 3,85 3,88 3,90 3,94 3,96 3,99 4,02 4,08 4,11 4,15 4,18 4,20 4,24 4,26 0,11 4,69 7,21 8,42 9,03 9,54 9,86 10,14 10,43 10,62 10,90 11,04 11,27 11,62 11,76 11,95 12,03 12,19 12,25 12,34 12,52 12,70 12,65 12,73 12,85 12,87 13,01 13,08 12,95 13,10 13,13 13,25 13,12 13,32 13,39 13,23 13,30 13,33 13,41 13,41 13,42 0,00 0,15 0,19 0,23 0,26 0,29 0,32 0,34 0,36 0,38 0,40 0,42 0,44 0,45 0,47 0,48 0,50 0,51 0,52 0,54 0,55 0,56 0,57 0,59 0,60 0,61 0,62 0,63 0,64 0,65 0,66 0,68 0,69 0,69 0,70 0,71 0,72 0,73 0,75 0,76 0,77 0,00 0,45 0,59 0,68 0,76 0,82 0,88 0,93 0,97 1,02 1,06 1,09 1,13 1,16 1,20 1,23 1,26 1,28 1,31 1,34 1,36 1,39 1,41 1,43 1,46 1,48 1,50 1,52 1,54 1,55 1,57 1,59 1,60 1,62 1,63 1,65 1,66 1,67 1,68 1,69 1,70 295 Appendice B. Valori delle deformazioni permanenti Tabella B.3.: Valori delle deformazioni permanenti dei rivestimenti "premiscelato" con un quantitativo di legante dimezzato: PR-1-SQ (50%) e PR-2-C (50%). Cicli 0 250 500 750 1000 1250 1500 1750 2000 2250 2500 2750 3000 3250 3500 3750 4000 4250 4500 4750 5000 5250 5500 5750 6000 6250 6500 6750 7000 7250 7500 7750 8000 8250 8500 8750 9000 9250 9500 9750 10000 296 PR-1-SQ (50%) PR-2-C (50%) 0℃ 20℃ 40℃ 60℃ 0℃ 20℃ 40℃ 60℃ 0,21 0,25 0,33 0,37 0,23 0,35 0,40 0,22 0,42 0,57 0,44 0,45 0,79 0,88 0,70 0,84 0,92 0,79 0,81 0,94 0,98 0,80 1,03 0,97 0,87 0,97 1,07 1,14 0,94 1,31 1,13 1,33 1,19 1,22 1,40 1,27 1,34 1,40 1,45 1,40 1,40 0,02 0,06 0,10 0,04 0,13 0,17 0,09 0,19 0,19 0,25 0,26 0,19 0,29 0,28 0,24 0,31 0,29 0,32 0,25 0,34 0,32 0,22 0,24 0,37 0,34 0,34 0,37 0,35 0,27 0,34 0,39 0,36 0,31 0,40 0,39 0,30 0,30 0,29 0,39 0,37 0,42 0,03 0,07 0,24 0,02 0,00 0,04 0,18 0,18 0,17 0,00 0,27 0,20 0,01 0,24 0,21 0,27 0,29 0,31 0,11 0,31 0,19 0,08 0,17 0,06 0,18 0,17 0,27 0,26 0,25 0,06 0,01 0,15 0,06 0,29 0,31 0,13 0,09 0,32 0,02 0,26 0,16 0,14 0,18 0,09 0,17 0,21 0,32 0,14 0,15 0,06 0,07 0,30 0,35 0,11 0,34 0,27 0,22 0,18 0,19 0,14 0,38 0,21 0,32 0,22 0,11 0,24 0,10 0,25 0,18 0,16 0,18 0,18 0,32 0,34 0,29 0,24 0,41 0,15 0,14 0,24 0,30 0,23 0,00 1,22 1,57 1,75 1,89 2,07 2,21 2,42 2,50 2,59 2,62 2,68 2,73 2,78 2,82 2,83 2,90 2,92 2,95 2,97 3,03 3,05 3,06 3,09 3,09 3,14 3,17 3,18 3,20 3,24 3,25 3,26 3,29 3,29 3,31 3,33 3,36 3,36 3,37 3,37 3,42 0,00 0,05 0,08 0,09 0,13 0,13 0,16 0,18 0,21 0,22 0,22 0,22 0,26 0,26 0,30 0,31 0,32 0,34 0,34 0,34 0,38 0,35 0,37 0,40 0,41 0,40 0,39 0,44 0,45 0,42 0,46 0,45 0,45 0,46 0,48 0,48 0,50 0,50 0,50 0,48 0,52 0,02 0,21 0,37 0,39 0,30 0,28 0,27 0,29 0,31 0,31 0,32 0,33 0,32 0,33 0,34 0,34 0,34 0,34 0,35 0,35 0,36 0,36 0,38 0,37 0,38 0,38 0,38 0,39 0,38 0,39 0,38 0,40 0,40 0,39 0,39 0,40 0,41 0,40 0,41 0,41 0,42 0,03 0,19 0,26 0,30 0,33 0,36 0,38 0,38 0,37 0,34 0,35 0,43 0,41 0,46 0,51 0,47 0,52 0,49 0,55 0,52 0,45 0,57 0,55 0,49 0,50 0,61 0,57 0,54 0,52 0,63 0,60 0,62 0,58 0,60 0,56 0,62 0,58 0,63 0,66 0,56 0,63 Tabella B.4.: Valori delle deformazioni permanenti dei rivestimenti "multistrato" e "slurry": ML-SQ, ML-SA, ML-CD e SL-B. Cicli 0 250 500 750 1000 1250 1500 1750 2000 2250 2500 2750 3000 3250 3500 3750 4000 4250 4500 4750 5000 5250 5500 5750 6000 6250 6500 6750 7000 7250 7500 7750 8000 8250 8500 8750 9000 9250 9500 9750 10000 ML-SQ ML-SA ML-CD SL-B 20℃ 60℃ 20℃ 60℃ 20℃ 60℃ 0℃ 20℃ 40℃ 60℃ 0,00 0,07 0,10 0,12 0,14 0,16 0,18 0,19 0,21 0,22 0,23 0,24 0,25 0,26 0,27 0,28 0,29 0,29 0,30 0,31 0,31 0,32 0,32 0,33 0,33 0,34 0,34 0,35 0,35 0,35 0,36 0,36 0,36 0,37 0,37 0,37 0,37 0,37 0,37 0,38 0,38 0,00 0,08 0,10 0,11 0,12 0,12 0,13 0,13 0,14 0,14 0,14 0,15 0,15 0,15 0,16 0,16 0,16 0,17 0,17 0,17 0,17 0,17 0,18 0,18 0,18 0,18 0,18 0,19 0,19 0,19 0,19 0,19 0,19 0,19 0,20 0,20 0,20 0,20 0,20 0,20 0,20 0,00 0,26 0,34 0,40 0,44 0,48 0,51 0,54 0,57 0,59 0,61 0,63 0,65 0,67 0,68 0,70 0,71 0,73 0,74 0,75 0,76 0,78 0,79 0,80 0,81 0,82 0,83 0,84 0,85 0,86 0,86 0,87 0,88 0,89 0,90 0,90 0,91 0,92 0,93 0,93 0,94 0,00 0,24 0,29 0,32 0,35 0,37 0,38 0,40 0,41 0,42 0,43 0,43 0,44 0,45 0,45 0,45 0,46 0,46 0,46 0,47 0,47 0,47 0,47 0,48 0,48 0,48 0,48 0,48 0,48 0,49 0,49 0,49 0,49 0,49 0,50 0,50 0,50 0,50 0,51 0,51 0,51 0,00 0,33 0,39 0,43 0,46 0,49 0,51 0,53 0,55 0,56 0,58 0,59 0,60 0,62 0,63 0,64 0,65 0,66 0,67 0,68 0,69 0,69 0,70 0,71 0,72 0,73 0,73 0,74 0,75 0,75 0,76 0,77 0,77 0,78 0,78 0,79 0,79 0,80 0,81 0,81 0,82 0,00 0,14 0,20 0,23 0,26 0,29 0,31 0,33 0,34 0,36 0,37 0,38 0,39 0,40 0,41 0,42 0,43 0,44 0,44 0,45 0,45 0,46 0,47 0,47 0,48 0,48 0,49 0,49 0,50 0,50 0,50 0,51 0,51 0,52 0,52 0,53 0,53 0,54 0,54 0,55 0,55 0,01 0,18 0,16 0,13 0,07 0,09 0,05 0,05 0,07 0,04 0,10 0,06 0,09 0,07 0,09 0,06 0,08 0,12 0,11 0,09 0,06 0,06 0,06 0,08 0,10 0,13 0,07 0,08 0,08 0,08 0,12 0,08 0,07 0,11 0,06 0,08 0,11 0,08 0,14 0,06 0,12 0,06 0,01 0,04 0,03 0,04 0,06 0,00 0,06 0,01 0,12 0,07 0,06 0,03 0,06 0,14 0,14 0,11 0,12 0,11 0,09 0,17 0,18 0,14 0,15 0,11 0,14 0,13 0,12 0,24 0,13 0,21 0,15 0,20 0,20 0,17 0,19 0,25 0,23 0,21 0,20 0,20 0,01 0,18 0,16 0,13 0,07 0,09 0,05 0,05 0,07 0,04 0,10 0,06 0,09 0,07 0,09 0,06 0,08 0,12 0,11 0,09 0,08 0,06 0,06 0,08 0,10 0,13 0,07 0,08 0,08 0,08 0,12 0,08 0,07 0,11 0,06 0,08 0,11 0,08 0,14 0,06 0,12 0,00 0,03 0,05 0,02 0,09 0,16 0,20 0,19 0,21 0,21 0,22 0,23 0,21 0,22 0,24 0,23 0,24 0,22 0,24 0,23 0,24 0,25 0,25 0,24 0,25 0,24 0,23 0,23 0,23 0,23 0,23 0,24 0,24 0,24 0,24 0,23 0,23 0,23 0,23 0,22 0,25 297 Bibliografia [1] N. 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[19] Decreto ministeriale 8 maggio 2003, n. 203 - “norme affinché gli uffici pubblici e le società a prevalente capitale pubblico coprano il fabbisogno annuale di manufatti e beni con una quota di prodotti ottenuti da materiale riciclato nella misura non inferiore al 30 [20] Decreto ministeriale 5 aprile 2006, n. 186 - “regolamento recante modifiche al decreto ministeriale 5 febbraio 1998: Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero, ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22". [21] Ente Nazionale Italiano di Unificazione (UNI). UNI 10802:2013 Rifiuti - Campionamento manuale, preparazione del campione ed analisi degli eluati. Milano (Italia), agosto 2013. [22] AIPCR Italia. Aipcr - la storia, 2014. [23] Giovanni Treccani. macadam. http://www.treccani.it. 1929. In Enciclopedia Treccani on-line - [24] D’Andrea, A. Inerti di riciclo: caratteristiche, campi di impiego., Palermo (Italia), giugno 1999. 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