L`Antico desco racconta - Libera Università dell`Autobiografia

Transcript

L`Antico desco racconta - Libera Università dell`Autobiografia
Chi siamo e come lavoriamo
L’Associazione di Volontariato “RaccontarsiRaccontando”, è una associazione di Volontariato sociale,
accreditata tra le associazioni culturali del II Municipio di Roma che ha fatto propria la “Carta dei Valori del
Volontariato” e che viene supportata, nelle sue attività volontarie, dai Centri Servizi Volontariato
CESV/SPES
L’Associazione opera senza fini di lucro, in maniera specifica con prestazioni non occasionali di
volontariato attivo ed ha per scopo l’elaborazione, la promozione e la realizzazione di progetti di solidarietà
sociale, prefiggendosi le seguenti finalità:
• Raccogliere, a titolo volontario, testimonianze personali e sociali legate al vissuto di singole persone o
gruppi sociali;
• Tutelare la memoria collettiva territoriale quale riferimento per le giovani generazioni anche attraverso
incontri con gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado del territorio;
• Diffondere la pratica di “raccoglitori volontari di testimonianze e narrazioni” anche attraverso la
collaborazione con istituzioni, altre associazioni di volontariato del territorio, università, centri studi, enti
morali e centri anziani.
Le finalità di cui sopra, vengono perseguite attraverso le attività di seguito elencate:
• Percorsi formativi gratuiti, per coloro che intendono divenire “raccoglitori volontari di testimonianze e
narrazioni” per una cultura di rispetto e tutela della “memoria individuale e collettiva”;
• Raccolta, a titolo volontario, di testimonianze e narrazioni di persone anziane, cittadini in stato di
fragilità sociale o in condizione di non poter scrivere la propria testimonianza;
• Interventi presso le scuole di ogni ordine e grado, con il fine di implementare lo scambio
intergenerazionale attraverso “il racconto”, anche in prima persona da parte degli anziani, di eventi,
situazioni ed accadimenti di interesse storico e sociale sia locale che generale, legati a testimonianze dove
solidarietà, speranzosità, pace, rispetto delle diverse culture e religioni, tolleranza e senso civico siano i
valori portanti.
La raccolta di testimonianze e ricordi presente in questa pubblicazione, è frutto della collaborazione tra
“RaccontarsiRaccontando” ed il laboratorio di autoscrittura del Centro Diurno Anziani Televita – Contesto
Casa di Accoglienza Mamre presso la Parrocchia di San Frumenzio – Roma/Via Cavriglia, nel periodo
ottobre 2014/settembre 2015
AnnaMaria Calore
2
Prefazione
Il primo laboratorio autobiografico, che si è tenuto presso il Centro Diurno della Casa di Accoglienza
della parrocchia di San Frumenzio a Roma, è iniziato quasi come una scommessa: era il mese di ottobre
2013 ed è terminato nel mese di maggio 2014, coinvolgendo circa venti persone di età media oltre i settanta
anni. Gli incontri prevedevano non solo la condivisione collettiva della “narrazione di sé”, collocando i
ricordi di ogni persona nel contesto storico nel quale erano accaduti, ma prevedevano anche del lavoro a
casa, inteso come riflessioni, appunti scritti, ricerca di foto, libri e oggetti collegati alle narrazioni.
Quest’ulteriore attività veniva commentata nell’incontro successivo, con partecipazione dei narratori ma
anche dei soggetti presenti al laboratorio come semplici uditori.
Il coinvolgimento globale ha permesso l’attuazione di un documento conclusivo, dal titolo “Noi, bambini al
tempo della guerra”, accolto favorevolmente dalla LUA Libera Università dell’Autobiografia di
Anghiari, che lo ha postato sul sito, quale buona pratica legata al nostro territorio.
Il contributo fondamentale è stato quello dei “raccoglitori” di testimonianze e narrazioni dell’Associazione
Raccontarsiraccontando, che hanno svolto il delicato ruolo di “facilitatori” all’interno del gruppo di
lavoro.
Il laboratorio di autobiografia è diventato, così, una realtà molto partecipata dagli ospiti del Centro
Televita-San Frumenzio e nel 2015 l’esperimento è proseguito con successo, condividendo i ricordi legati
al desco familiare della propria infanzia, presenti in questo documento.
Anna Pisani
3
Presentazione
Natura morta con paniere, Paul Cezanne (1838-1906)
La fame è il miglior cuoco che ci sia.
(antico proverbio contadino)
Intorno ad un tavolo, come vecchie amiche, con un caminetto immaginario che riscalda l’ambiente: ognuna
di noi con un paniere ricco di ricordi e, volta per volta, estrarne uno per condividerlo con tutte le altre. Così,
raccolte in circolo, potendo parlare tutte guardandosi negli occhi, ogni incontro ha scaldato l’ambiente,
creando un clima sereno di fiducia e confidenza.
I ricordi del proprio desco familiare hanno sfornato il cibo povero dell’infanzia, le ricette improvvisate con il
poco che c’era in casa: un pugno di farina di mais, qualche rapa bianca, del pane raffermo. Abbiamo
ricostruito insieme i profumi e i sapori di quelle ricette e abbiamo anche provato a ricuocere quei piatti di
scarso condimento ma ricchi d’amore, suggestivi, antichi
Poi tra un sorriso e una battuta qualcuna s’introduce con un ricordo più profondo, forse più doloroso, una
spina nel cuore, toccata per sbaglio dal racconto di un’altra amica. A quel punto il chiacchiericcio festoso si
assottiglia in un filo di silenzio, per ascoltare la voce di un ricordo importante, da liberare e confidare alle
altre. Ecco che il nostro incontro s’impreziosisce di un dono speciale, unico, interiore e la rete di ricordi si
arricchisce di una nuova storia, in cui la tavola familiare è solo l’incipit per recuperare la nostra memoria,
pensata smarrita. La cucina è il luogo di ritrovo delle famiglie, è l’ambiente più riscaldato della casa, è
quella stanza che trattiene e libera profumi del cibo cucinato, dove il silenzio si guadagna al termine del
pasto e nelle ore notturne, quelle ore che nella quiete e al buio spesso sollecitano ricordi e pensieri lontani.
Una nuova esperienza del Laboratorio Autobiografico del Centro Diurno della Casa di Accoglienza, presso
la Parrocchia di San Frumenzio a Roma, in cui la memoria personale si trasforma in memoria collettiva. Le
scene familiari quotidiane sono accompagnate dagli affetti più intimi e le terre d’origine delle amiche del
laboratorio narrano i momenti bui dell’infanzia trascorsa ai confini della guerra, ma anche i preparativi
benedetti e sereni delle ricorrenze religiose. Durante gli incontri è privilegiata la semplicità del linguaggio,
4
un dialogo sereno tra amiche, in cui Giuseppe, Maria e il bambino Gesù sono i vicini di casa, persone di
famiglia la cui storia evangelica è radicata nella vita delle famiglie. Di loro ne parlano come se fossero
veramente presenti e partecipi in ogni momento della giornata, una fede pura, senza troppo domande, senza
troppe risposte.
Abbiamo cercato di tracciare le linee essenziali del nostro “Antico Desco”, ma spesso si parlava a ruota
libera, perché la vera serendipity è scoprire nuovi sentieri seguendo la spontaneità della memoria
individuale, fino a sfociare in quella collettiva.
Per meglio collocare i dialoghi e le narrazioni delle amiche del laboratorio, abbiamo inserito una cartina
dell’Italia, dove sono evidenziati i paesi di provenienza delle loro famiglie e i luoghi in cui hanno trascorso
molti anni della loro vita, arricchendosi delle tradizioni locali.
Non pensate di trovare solo ricette: tra un ingrediente e l’altro emergono il controllo familiare sui figli e
sulle figlie, le rigorose e spesso ingiuste discipline politiche, le tradizioni religiose, ma anche dialetto,
aneddoti, l’intimità della vita personale. Il condimento principale di tutto quello che è scritto nell’”Antico
Desco” è il sentimento rivolto alla nostalgica memoria.
Ogni ricetta ricordata riaffiora dal proprio contesto familiare e condividerla oggi è come riviverla, con la
sensibilità acquisita negli anni, in compagnia di una dolce malinconia spesso commovente.
Usciamo tutte, da questa esperienza, con un paniere ancora più ricco, dove alle ricette dell’antico desco, si è
aggiunto il cibo per l’anima e per la mente.
Loredana Simonetti
5
6
Paesi e città delle amiche che hanno partecipato
al Laboratorio “L’Antico Desco Racconta…”
Angela di Roma, che ha vissuto la sua infanzia a Calvi nell’Umbria (Terni)
Annamaria di Percìle (Roma), vissuta anche a Vieste (Foggia)
Antonietta di Roma, vissuta a Margherita di Savoia (BT-Barletta,Andria e Trani) e Castro
di Montegallo (Ascoli Piceno)
Bianca di Roma vissuta a Velletri (Rm)
Carla di Roma, la cui famiglia è originaria di Onano (Viterbo)
Carmelina di Montefalcone (Benevento)
Cecilia di Roma, originaria di Vivaro Roma (Rieti)
Consilia di Priverno (Latina)
Elisa di Gallipoli (Lecce), la cui famiglia è originaria di Cassino (Frosinone) ed vissuta
anche all’estero
Maria G. di Castel di Tora (Rieti)
Maria S. di Roma, che ha vissuto a Silvi Marina (Teramo)
Marilena di Roma, che ha frequentato Sambuci (Rm)
Nicolina di Teano(Caserta)
Nilde di Rocca Sinibalda (Rieti)
Ornella di Roma, che ha frequentato Camerino (Macerata)
Paola di Genova
7
I primi passi del laboratorio
La scrittura come testimonianza (fonte social ferrobattuto)
Scrivere è una cura e l’autobiografia, che è individuale, emerge come desiderio della nostra esistenza e per
la nostra sopravvivenza nel tempo, svolgendo un ruolo educativo e terapeutico. In questa “autoterapia”
vivere il piacere di raccontarsi è un modo per volersi bene e per non dimenticarsi di esistere.
I diari di guerra sono una testimonianza fedele di questo stato d’animo. Quando i nostri nonni, giovani
soldati allontanati dalle famiglie perché chiamati in guerra, appuntavano su piccoli quaderni quello che i loro
occhi vedevano e i loro cuori provavano, svuotavano il paniere della paura e si prendevano cura dei loro
pensieri.
Con l’apertura del laboratorio siamo partiti dai ricordi di mio zio, Alberto Milani, Maggiore dell’Esercito e
Internato Militare Italiano, che durante i suoi due anni di prigionia ha mantenuto un prezioso diario quasi
giornaliero. Per otto mesi, dal 28 ottobre 1943 al 9 agosto 1944, fu alloggiato in una caserma; il periodo
successivo di prigionia, fino al 17 aprile 1945, lo trascorse nelle baracche di Langwasser vicino a
Norimberga. A documentare le sue giornate di prigioniero, ci sono anche numerosi bozzetti e quadri ad olio,
poiché la pittura, per zio Alberto, è stata un’altra fonte di consolazione di quei tristi anni.
Gli ingredienti per affrontare la sua quotidianità erano la costanza, la fede e la volontà, mentre il cibo che era
costretto a mangiare, era pessimo; quando riceveva un pacco dalla sua famiglia, il contenuto veniva descritto
minuziosamente e anche per una galletta mandava preghiere e benedizioni ai suoi familiari. I pacchi, stipati
fino a cinque chili, contenevano piccole marmellate, gallette, scatole di lenticchie, fagioli o cotechino, un
barattolo di conserva, il riso e raramente del pane bianco.
Le patate diventavano merce di scambio, ma quando si mangiavano, le bucce erano parte della pietanza.
Partire dai ricordi di zio Alberto ci ha dato una solida base di considerazioni importanti, per non dimenticare
tutto quello che è accaduto nel XX secolo. Se ancora oggi beneficiamo della pace, che per la nostra nazione
dura da settant’anni, lo dobbiamo a tutti quegli uomini e ragazzi che hanno sacrificato la loro vita durante i
conflitti mondiali. La trasformazione dell’Italia è dovuta a loro e alla consapevolezza che tante donne hanno
vissuto le stesse guerre, salvaguardando le famiglie e l’agricoltura, primaria fonte di sussistenza.
Abbiamo, così, curiosato nelle povere dispense di quel periodo, riscoprendo la memoria delle nostre
famiglie nei dialoghi che si svolgevano durante l’unico pasto giornaliero e la semplicità di quella vita che,
malgrado le avversità, ha costruito il nostro avvenire di oggi.
8
Da “NOTE DI INTERNAMENTO 8 settembre 1943 - 17 aprile 1945”
di ALBERTO MILANI
5 ottobre 1943 (n.d.r. il rifiuto a Salò)
“Ci pongono davanti alla domanda che potrebbe decidere della nostra vita!! Dopo tormentose
considerazioni decidiamo di no, io Roberto e Giorgio: divideremo assieme le sorti che ci riserva la
prigionia. In compenso ho anche la grande gioia di poter scrivere una cartolina a casa.”.
25 ottobre 1943
“La sbobba è indecente! Acqua e cavoli, salatissima. Spesso è così. Non ne ho mai accennato perché
desidero sopportare con rassegnazione tutto, ma oggi è troppo! Avessimo almeno qualche altro conforto.
Nulla! Le zuppe portate in “mastelli” che dobbiamo ritirare noi personalmente. Negli stessi mastelli al
mattino andiamo a prendere il “caffè”. Naturalmente puzza di sbobba che fa cascare. L’acqua non è
bevibile! Manca nella maggior parte della giornata!”.
17 novembre 1943
“Oggi la zuppa era indecente! Eppure bisogna mangiarla. Ho l’impressione di essere dimagrito, l’altro ieri
mi girava la testa per la debolezza. Il pane è poco, la zuppa è cattiva, le patate poche: mangiamo anche le
bucce.”
2-2 mercoledì (n.d.r. 1944)
Giornata di festa: mi arriva un pacco di Mamma! L'indirizzo sull'involucro è scritto da Lina; l'elenco
interno è scritto da Mamma. Me lo prendo: è come una sua lettera.
E' stato spedito l'8 gennaio da Baura. Non ricevo posta ma almeno posso dire di avere loro notizie dell' 8/1.
Mi da un po’ da pensare il fatto che non abbiano completato il peso di 5 kg. (tutto il pacco era 4.400). Che
abbiano difficoltà a trovare generi? Certamente ma come si fa a non chiedere? La fame di qui è immensa.
Mi hanno inviato riso, fagioli, cioccolato in polvere, marmellata e una scatoletta di cotechino. Ne farò parte
ai colleghi amici.
5 marzo 1944
“Ho chiesto al Sommo che mi conceda di rivedere l’Italia bella, di lavorare per ricostruirla, di
riabbracciare Maria, Raoul, Mamma e tutti. Ho pregato con fede, con la mente, col core. Dio mi esaudirà
ed esaudirà i compagni che soffrono moralmente la costrizione dei reticolati, l’impossibilità a muoversi, il
rancore della mancanza assoluta di colpa alcuna.”.
12 marzo 1944
“Nel pomeriggio un nuovo pacco!! E’ troppo! E l’amore di Mamma che viene a portarmi un po’ della casa.
Ho avuto pane condito, straordinariamente buono; prugne secche, una scatola di latte, una di sugoro,
qualche medicinale, un tegamino, sapone e… anche da loro tanto amore e tanto affetto! Ma sono un
riccone! Custodirò tutto con parsimonia, integrerò le immonde zuppe di rape da foraggio che giornalmente
ci propinano, per mantenere la forza di resistere fino alla fine della tragedia e per aver la forza di tornare
dai miei cari e per lavorare.”.
5 XI (n.d.r. 1944)
Acquisto dal Ten. Rozza (che li aveva avuti al campo di Hammerstein) una bella serie di colori ad olio. Li
pago: 2 gallette, 1 scat. di carne, 20 sigarette, 2 etti di zucchero, 2 etti di salame e 2 etti di pasta. Mi privo
di tutta questa roba per procurarmi tanti bei colori che serviranno a farmi trascorrere qualche ora di
distrazione senza pensare alla posta che non viene, alla guerra, alla fame, al freddo, ai pacchi che non
arrivano ecc. Ho desiderio di dipingere, sento che vorrei fare cose belle e mi manca la conoscenza della
fusione dei colori, dell'armonia ecc.
Farò, farò molto per non pensare sempre e per vivere un po' lontano dalle miserie di questa vita.
9
Autoritratto di Alberto Milani (Maggiore dell’Esercito, Internato Militare Italiano)
(Acquerello con sardine, Tchenstokowa 1944)
10
RAPE BIANCHE, RINATICCE
Maria G. racconta
La fame, gran maestra, anche le bestie addestra.
(proverbio contadino)
Quando ero bambina, in tempo di guerra, nel paese mio (Castel di Tora, in provincia di Rieti) le rape si
trovavano con facilità; in dialetto le chiamavamo ”rinaticce” perché si riproducevano da sole. Per questo se
ne trovavano tante ed era il nostro companatico. Non sono le rape rosse, quelle sono le barbabietole, più
moderne … non sono neanche le cime di rapa, che si fanno con le orecchiette. La rapa è quella bianca, con
le fogliette che escono dalla terra, e ancora oggi si trovano al mercato a mazzetti. Davamo da mangiare le
rape anche ai maiali, era il nutrimento principale, perché i semi cadevano e rinascevano presto, poi il seme
s’imbastardiva e crescevano sempre più piccole… ma sempre rape rimanevano! Noi facevamo la minestra di
rapa, con tanto di fogliette e sembrava quasi un minestrone dal sapore dolciastro.
In famiglia si mangiava tutti insieme, la tavola aveva tanti commensali ed era un momento lieto della
giornata, si chiacchierava… non c’era la televisione e c’era il piacere di raccontarsi l’uno con l’altro come
era andata la giornata. Si mangiava prestissimo la sera, alle sei e mezza, e mio padre, prima di tutti
raccontava la sua giornata di lavoro, com’era andata la semina, quello che era nato e non era nato , - il nostro
era un ambiente contadino - e noi, tutti intorno mangiavamo e ascoltavamo il racconto del progresso della
campagna.
Si raccontavano anche i pettegolezzi del paese e quando c’era un argomento un po’ scabroso, per evitare che
si andasse avanti con il racconto, si diceva “Zitti, c’è la fratta…”; i piccoli di casa erano “la fratta”, come
se formassero una siepe di divisione, un confine che non si doveva superare ed era un modo per far capire
che non era il caso di raccontare oltre, perché c’erano i bambini che potevano ascoltare… Però la complicità
dei fratelli più grandi aiutava a capire quello che gli adulti raccontavano. (Consilia dice che a Priverno si
diceva: “Zitti, c’è la Chiesa!”, perché i bambini rappresentavano l’innocenza e non dovevano essere
scandalizzati).
Ancora oggi mi capita di cuocere le rinaticce e il modo migliore di mangiarle é in padella insieme alle patate
e un po’ di cipolla soffritta. A casa i miei nipoti lo chiamano il mangiare “burino”: sarà pure burino, ma se
lo gustano un sacco!
11
SORELLA MISERIA
Le amiche raccontano
(fonte A.N.P.I.)
Miseria e Povertà sono due sorelle.
(proverbio contadino)
Nicolina: nel 1943, in piena guerra, a Piazza Sant’Emerenziana a Roma, distribuivano la minestra. Il Papa
aveva dato l’incarico alle parrocchie di aiutare le famiglie, soprattutto quelle numerose. Entravamo in
sagrestia con una pentola e le suore ci davano un mestolo di minestra a testa. Noi in famiglia eravamo in sei,
e una volta andai io con quella pentola e con un cucchiaio e tornando a casa ne mangiavo un po’, ma la fame
era veramente tanta e ne riportai a casa pochissima…
Annamaria: quando si passava vicino alle scuole, nel momento della refezione, si sentiva una gran puzza,
forse era una minestra di piselli, forse un surrogato… Mia madre cucinava le linguine con il sugo e le alici
sottosale e quel piatto proprio non mi piaceva. Lei lo sapeva, ma questo passava il convento e questo dovevo
mangiare. Un giorno mi sono impuntata e non l’ho voluta. Mia madre ha detto “Va bene, lascia stare, non fa
niente.” E non mi ha fatto mangiare più niente. Dopo un po’ mi è venuta fame e ho cominciato a dirlo
(avevo una decina d’anni). Mangiati la pasta, mi diceva. Quella non mi piace, le rispondevo. “Non è ancora
arrivata la commare (intendeva la fame)”. Non la volevo proprio, perché le spinette rimanevano sotto i
denti e poi le linguine proprio non mi vanno giù, ancora oggi non le compro mai. E’ arrivata la sera e senza
dire più niente, ho preso il piatto di pasta, freddo e l’ho mangiato. “Visto che è arrivata la commare?” mi ha
detto mamma. Ai tempi miei non si poteva mai dire “Questo non mi piace”, tutto al più dicevi “Questo non
mi va.”.
Carmelina: accontentarsi e arrangiarsi erano un’arte di grande ingegno.
Nicolina: mi ricordo anche della pastina glutinata, una pasta piccola piccola fatta con acqua e farina e
quando si cuoceva si infittiva e diventava sempre tanta. Si dava ai neonati e anche alle persone ammalate
perché era molto energetica. Qualche volta mamma comprava il sugoro, il pomodoro in barattolo, costava un
po’ e quando lo comprava io me lo mangiavo così, direttamente dal barattolo.
12
Bianca: La famiglia di mia madre era di antiche tradizioni e molto religiosa. Mia nonna Bianca – io mi
chiamo come lei – è rimasta vedova giovanissima con cinque figli da crescere tra cui mia madre e mio zio
Aurelio, che ha aiutato tanto la sua famiglia, sacrificandosi e senza sposarsi. Zio Aurelio era un grandissimo
pittore, ma non ha mai preteso nulla di più per arricchirsi, purché la sua famiglia avesse avuto lo stretto
indispensabile. La città di Velletri ha dedicato a mio zio anche un istituto scolastico e, ancora oggi, tante
Chiese espongono le sue opere. Io ero una bambina e non ho ricordi speciali di quello che avveniva in
cucina, i ricordi me li ha trasmessi mia madre. In campagna, quando facevano la polenta, si stendeva sulla
“spianatora” e ognuno prendeva il pezzo proprio. Lì si mangiava tutti insieme e quando eravamo fortunati
c’erano anche i pezzetti di spuntature. A Velletri, in campagna, ci radunavamo tutti, mamma, papà, lo zio, e
quando stavamo a mangiare nessuno si poteva alzare da tavola. Quando finivamo il cibo, dicevamo tutti
insieme il rosario; anche quello era cibo, per l’anima.
Foto del pittore Aurelio Mariani, zio di Bianca
13
LA FATICA DELLA FAMIGLIA
Carla racconta
Onano, il paese d’origine del papà di Carla
Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte.
(Kahil Gibran, poeta e filosofo 1883-1931)
Mia nonna e mia madre erano di Arpino, il paese di Cicerone, erano due donne bellissime, come tutte le
donne della ciociaria e parlavano il dialetto del loro paese in maniera perfetta. Nonna lavorava in una
maglieria e fu messa incinta dal suo padrone, un bell’uomo anche raffinato; lui la sposò, però la considerava
sempre una donna di basso livello…
Quando compii vent’anni nonna mi fece vedere l’atto di nascita di mia madre e io mi accorsi che mamma
era nata prima del matrimonio. Nonna, spontanea e diretta, mi disse: “Embè? vuliva vedè si lu teneva…”.
Mio padre abitava ad Onano e odiava i paesi; diceva sempre “Onano, schifo di paese, lo odio”; Onano è
nell’entroterra viterbese e papà pur essendo farmacista, non lavorava abbastanza per mantenere la sua
famiglia. Fu mandato, allora, dai genitori a lavorare a Roma ai mercati generali, come tante persone di paese
che venivano mandate a Roma a lavorare e a fare i servizi per mantenere la famiglia d’origine. Papà voleva
vivere a Roma e allora ha lavorato e sopportato questo periodo di grandi difficoltà; poi è entrato in Marina,
finalmente con uno stipendio, ma fu chiamato in guerra agli ordini del comandante Mascherpa e si ritrovò a
combattere in Grecia, all’isola di Leros, vicino alla Turchia. L’8 settembre l’esercito si arrese: mio padre fu
veloce a levarsi le mostrine, ma i tedeschi catturarono il suo comandante e lo fucilarono subito. Si salvò, ma
fu lo stesso portato nei campi di concentramento, 43 giorni e 43 notti di viaggio tra la nave e i carri
bestiame, prima di arrivare al campo. Quando lo misero nelle cucine a pelare patate, riuscì a nutrirsi con
quelle bucce per avere un po’ di sollievo. La sua prigionia fu terribile; quella guerra ha scardinato un sacco
di cose e continua ancora adesso a tornare fuori e a perseguitarci.
A Roma, la miseria era diventata una compagnia quotidiana e mio padre sentiva molto la fatica di mantenere
una famiglia con uno stipendio proprio piccolo. Anche nonna aiutava, sotto banco, perché mio padre era
orgoglioso e non ne voleva sentire parlare. Andarono a vivere con nonna in una palazzina del ministero a
Piazza Bologna, dove vivevano anche altri colleghi. Mio padre scoprì che c’erano famiglie in cui lavorava
14
sia la moglie che il marito nel ministero, però non riuscì ad avere un posto anche per mamma. Riuscii a
beneficiarne io, a vent’anni. Fino a quell’età, vivemmo con grandi privazioni. Il vincolo della famiglia era
sentito molto sia da mia madre che da mio padre. Forse non erano preparati a sostenere una famiglia con due
figlie, io e mia sorella, affrontando stenti e difficoltà, forse avrebbero voluto una vita diversa…
Quando morì mio padre, mamma si sentì improvvisamente sola e mi chiese di venire a vivere con me.
Inizialmente accettai ma poi riflettei: anche la mia situazione familiare non era facile da affrontare, avevo
problemi con mio figlio Marco. Glielo dissi che non mi sentivo di averla fissa da me, ma lei si offese a
morte. Stette sei mesi da mia sorella e poi ritornò da me. Non so dire se fosse egoista, ma era sicuramente
una donna fragile, sempre attenta alle sue necessità e dominatrice dei nostri movimenti.
Come poteva non capire le difficoltà che la nostra famiglia doveva affrontare con Marco? Eppure, malgrado
i suoi disagi, è stata una cosa bellissima avere un bambino così bello e intelligente; io e Stefano abbiamo
avuto la gioia di vederlo aprirsi alla vita, ridere e scherzare insieme a lui. Crescendo, il mondo esterno non lo
ha aiutato nella sua disabilità. Forse per le altre mamme la vita con i figli è normale, ma per me ha sempre
avuto un sapore diverso.
E’ una riflessione che faccio spesso: io dovevo pensare a mio figlio, portarlo fuori per aiutarlo nella sua
disabilità, non potevo dedicarmi anche a mamma. Le ho provato a suggerire un pensionato, ma rifiutò
decisamente. Se n’è andata a casa di mia sorella e così ha fatto il suo male e ha sofferto, dipendendo da lei
che ha un carattere più forte. E’ difficile nella solitudine riuscire a scegliere come vivere il proprio futuro, è
difficile…Ho ancora il rimorso di non aver saputo conciliare le esigenze di mio figlio e di mia madre.
15
POMODORO, CUORE ROSSO GENEROSO
Le amiche raccontano
Se mangi pane e pomodoro non vai dal dottore.
(proverbio contadino)
Consilia: quando si trovavano i pomodori al mercato di Priverno, era arrivata la bella stagione, mica come
oggi che i pomodori ci sono tutto l’anno. Allora mamma ne comprava tanti e cominciava a organizzare le
scorte per l’inverno. Ci faceva la conserva, la vera conserva! Io ero piccola ma mi ricordo che mamma, dopo
averli passati, li metteva ad asciugare al sole in una spasella (u’scifu nel dialetto di Maria G., sarebbe la
scifa, oppure lo scifo nel dialetto di Annamaria). La spasella era di legno, rettangolare e aveva i bordi. Ce
n’erano di varie misure, si usano anche per la polenta, ma quelle per i pomodori avevano dei piccoli fori,
come delle tagliature, per far uscire l’acqua in maniera che rimanesse solo il pomodoro; e piano piano, si
faceva la conserva. Rimaneva parecchi giorni al sole, quasi venti giorni, diventava color rosso scuro e non
inacidiva, perché l’acqua spariva e si seccava. Quando era ben asciugata, si metteva nei barattoli e si copriva
con olio e sale. Per questo si chiama conserva, perché si conservava a lungo. Era una delle nostre merende
preferite, mamma ce la dava spalmata sul pane ed era buonissima, oppure, nell’uso più comune, ci faceva la
pasta.
La conserva si vendeva a peso dal droghiere, nei cartoccetti, e a casa si allungava con l’acqua e ci si faceva
il sugo. Ma anche con i pomodori secchi, fateci la pasta! Fate un soffritto con la salsiccia, pomodori secchi a
pezzetti, sentirete che bontà. Un piatto semplicissimo e squisito.
Annamaria: dopo la grande guerra anche al mio paese si faceva la conserva, però passando i pomodori sullo
scifo, venivano levati tutti i semi, in modo che la polpa cadeva e la polpa così fatta, si lasciava ad asciugare.
I pomodori secchi, invece, si aprivano a metà, si salavano e si lasciavano al sole. Io ho la casa a Vieste, in
Puglia e ricordo come li faceva mia suocera. Ogni giorno riapriva questi pomodori che si stavano seccando,
in modo che riprendessero ad asciugarsi; era importante che non rimanesse liquido, si dovevano asciugare
bene, altrimenti si “muffano”. Così, piano piano, sempre esposti al sole, il pomodoro che prima è tondo, si
schiaccia. Una volta asciugato, - ma non dev’essere proprio secco secco, altrimenti diventa gomma
americana - , si mette a strati in un barattolo e si condisce con il peperoncino, aglio e olio. Mia suocera
faceva così: ricomponeva ogni pomodoro a forma di pagnottella e dentro ci metteva un pezzettino di aglio,
un pezzetto di peperone verde e un po’ di prezzemolo e li copriva con olio, aglio, peperoncino e origano
Bianca: vi racconto una ricetta velletrana; si prendono i pomodori grandi maturi e si mettono insieme a due
peperoni nel forno. Così si spellano bene tutti insieme. Poi si mettono in una insalatieretta si tagliano a
pezzetti. Si condisce con olio e sale, aglio e basilico, si prendono due fette di pane e ci si spalmano sopra.
Ancora oggi, la sera d’estate, mi piace cenare così.
Nilde: io ho vissuto dieci anni in Piemonte e adesso mi viene in mente una cosa: in Val d’Aosta, davanti alle
baite, c’erano delle scale con i pioli e su quei pioli si mettevano ad asciugare i pomodori e i funghi; quelle
scale erano ricche di colore… nessuno rubava niente!
16
L’ARCA, CASA DEL PANE
Le amiche raccontano
La madia di Consilia, dove veniva riposto il pane
Consilia: A Priverno ogni rione del paese aveva un forno, ce n’erano cinque in tutto. La vecchietta che
veniva a svegliarci per fare il pane era la stessa che ci aiutava a portare le pagnotte al forno: si chiamava
“reducidora” e prendeva le spaselle con il pane da portare alla “fornara”. Prima s’impastava il pane, si
copriva con “lo mantile” piccolo, come fosse un mantello di stoffa, e mettevano una traversa di legno
all’arca dove si faceva il pane in modo che il contenuto non scivolasse, perché l’impasto doveva essere di
una morbidezza giusta. Poi su una spasella grandissima si stendeva un mantile molto lungo; ogni pagnotta
veniva separata con una piega del mantile. Per riconoscere il nostro pane, mamma ci faceva un segno con la
forchetta. Quando la fornaia veniva a prendere il pane da cuocere, si presentava con la groglia, una specie di
ciambella di stoffa che si mettevano in testa, per portare pure la conca. (sparra, dice Carmelina). Nella
conca si portava di tutto, l’acqua, il pane, i panni…Io ero piccola e ricordo un grande muro di cemento liscio
dove si appoggiavano le spaselle. Tre pagnotte una spasella. La fornara le prendeva e le metteva sulla pala
per infornarle. Ricordo che ognuno aveva un segno di riconoscimento per le sue pagnotte; mia madre in un
angolo faceva un segno con la forchetta.
Contadine che panificano (Evangelina Alciati, 1922)
17
Marilena: io non conosco la vita di paese, eccetto che per il periodo che eravamo sfollati ma ero molto
piccola e non ricordo niente. Prendevamo casa in affitto a Sambuci per andare in vacanza, a mia madre
piaceva tanto perché stava vicina a persone affettuose. Quando facevano il pane era una cosa bellissima, era
una lunga lavorazione e lo coprivano con le coperte. Io le seguivo al forno e un po’ di pasta di pane la
regalavano a noi bambini; ne prendevano un pezzetto (pizziglio, dice Carmelina) e con le mani ne facevano
una pizzetta con olio e un po’ di zucchero; non era tanto dolce, ma il suo sapore era veramente unico.
Maria G.: si facevano le “pizza lievite” per essere sicuri che il forno fosse caldo al punto giusto, e quelle se
le mangiavano i bambini per colazione. A Castel di Tora eravamo sette persone in famiglia e ti mangiavi
solo il pane…Da noi l’accensione era una festa; ‘Comare Maria, domani lo fai tu?’. Si faceva a turno perché
pure la legna costava, il vicinato si metteva d’accordo tra chi faceva il pane, distribuendo i compiti, in un
ordine preciso. La prima metteva la legna per scaldare il forno e quando era ben caldo, si puliva bene il
mattone refrattario con uno straccio, una scopetta che si chiamava “u’munnulu” (che significa pulire). Poi
le pagnotte venivano segnate con una croce sopra, come una benedizione della madonna, affinché crescesse
durante la cottura.
Annamaria: un pezzo di pasta lievita veniva schiacciata e fatta asciugare. Per riutilizzarla bastava usare un
po’ di acqua tiepida. In Puglia ci sono vicoletti molto stretti, con pochissimo spazio tra i palazzi e le donne,
da un balcone all’altro si passavano la “crescitora”, cioè la pasta lievita.
Nilde: ricordo il colore di quel pane che faceva mamma: era scuro e mi dava fastidio. La farina mamma se
la faceva portare dal paese, era di crusca non era raffinata e quel pane scuro non mi piaceva proprio. Oggi un
pane così è una ricercatezza e costa anche più del normale… Mamma lo teneva coperto con un panno e lo
riponeva nella credenza, si conservava per un sacco di giorni. Con mia sorella la mattina facevamo a gara a
scegliere il pezzo di pane meno duro da intingere nel latte… Però, buono non era per niente…guardavo con
desiderio i panini bianchi del fornaio.
Carla: i forni pian piano sono scomparsi e sostituiti dai Vapoforni. Io ricordo i pomodori con riso che
faceva mamma, quando vivevamo a Testaccio: riso crudo, sale olio, pepe e vicino anche le patate e poi
portava la teglia al Vapoforno. Dopo la guerra con la ripresa economica i Vapoforni usavano la corrente
elettrica.
Bianca: con i miei nipoti, i gemellini, abbiamo fatto i panini in casa. Si sono divertiti da morire. Farina, un
po’ di zucchero, che serve per aiutare la lievitazione, il lievito e acqua tiepida. S’impasta tutto, si sbatte, si
tira, si lavora l’impasto giocando… quanto si sono divertiti! Poi mettiamo l’impasto a crescere, riposato
sopra un telo e sotto una coperta di lana, questa è la cosa più importante! Dopo due ore si rimpasta per
mandare via l’aria e poi si fanno tutti i panini, piccoli pugni di pasta, coperti sempre dalla coperta di lana e
lasciati lievitare ancora mezz’ora. Nel forno a cuocere ci devono stare poco, 15 minuti: vengono talmente
morbidi, che sembrano panini all’olio! La ricetta è facilissima: due-tre tazze di acqua tiepida e un cubetto di
lievito con la farina che raccoglie.
18
LA BENEDIZIONE DEL PANE
Carmelina racconta
Donna: cottura del pane, Jean Francoise Millet (1814-1875)
Uovo di un’ora, pane di un giorno, vino di un anno non fecero mai danno
(proverbio contadino)
A Montefalcone la preparazione del pane richiedeva almeno tre giorni. Il primo lavoro era separare la farina
dalla crusca, bisognava setacciare la farina per togliere tutte le impurità della semola. Il giorno prima di fare
il pane venivano cotte le patate, ma solo quelle piccole, perché conservavano il pane più morbido. In ultimo,
bisognava far crescere il lievito, con l’acqua calda e la farina: ognuno che preparava il pane faceva la
“crescitura”; questa parte veniva fatta lievitare per tutta la giornata in una ciotola e coperta con la lana, anzi
le tovaglie e le coperte erano cucite apposta per il pane. Il pane si faceva di notte e la pasta doveva stare al
caldo per lievitare. C’era una vecchina che andava per le case di notte a bussare, per svegliare le persone
affinché iniziassero a lavorare. Io chiedevo a mamma perché non usassero la sveglia, e mamma mi
rispondeva che non tutti avevano la sveglia, ma soprattutto non tutti conoscevano i numeri… il paese era
pieno di analfabeti.
“Cla, auzete e ammassa” (trad.: Alzati e impasta). Di solito la vecchietta che girava a svegliare la gente era
la suocera del fornaio e svegliava le persone che dovevano fare il pane quel giorno, perché ognuno aveva
l’orario per portare il pane a cuocere. Per aiutare mamma veniva una contadina, io mi alzavo lo stesso, anche
se ero molto piccola, perché mi piaceva tanto partecipare alla giornata del pane.. La Madia, dove
s’impastava era appesa al muro e si poggiava sulle sedie oppure su un tavolo basso.
Preparavamo dodici-quindici pagnotte impastando la farina, il sale, il lievito, l’acqua tiepida e le patate e
ricordo il rumore delle nocche delle dita con cui si lavorava l’impasto. Per due-tre ore impastavamo,
aggiungendo ogni tanto l’acqua tiepida, finché la pasta non diventava elastica e liscia. Tutto questo lavoro si
faceva nella madia, cosicché non si disperdesse la farina mentre si lavorava.
Poi la pasta lavorata veniva trasferita in un tino in questo modo: il fondo del tino veniva ricoperto con una
tovaglia bianca e pulita e poi la pasta, come tante piccole pagnotte, venivano appoggiate dentro il tino,
ognuna separata da una tovaglia. La pasta rimaneva almeno altre tre ore e continuava a crescere e lievitare.
19
Le case erano fredde e l’aria era molto rigida e con il freddo si temeva che il pane non lievitasse, per questa
ragione si teneva vicino alla pasta un braciere per trasmettere un po’ di calore. Quando la pasta diventava
grande come una donna incinta, mamma diceva: “Dio è benedetto, la pasta è pronta!.”.
Sfornata (Gianbecchina, 1909-2001)
Questi ricordi ancora mi fanno commuovere… La benedizione del pane era il ringraziamento a Dio per poter
far mangiare tutta la famiglia. Nella tradizione delle nostre famiglie ogni momento della giornata era
accostato ad una preghiera, ma la benedizione per il pane lievitato era la più intensa e commovente.
A quel punto, con l’anima serena perché il pane era lievitato bene, prendevamo delle ceste di vimini e le
preparavamo con una tovaglia bianca nel fondo. In ogni cesta andava una pagnottina da portare al forno. Poi
le ceste si mettevano sulla “spasella” e si portavano al forno per cuocere; su ogni spasella entravano tre
ceste. Mamma faceva un pizzico alla pasta per riconoscere il pane suo dopo la cottura; quando avevano i
soldi pagavano con le monete, altrimenti una delle nostre pagnotta rimaneva alla fornava.
Ricordo che vicino al forno c’era un vecchietto che non aveva nessuno ed era povero. Era talmente magro e
teneva il viso così raggrinzito, che la gente lo chiamava “sumendelle”, che significa piccolo seme. Viveva
di quello che gli davano le persone che andavano a cuocere il pane, lui aiutava, metteva la paglia, faceva
quello che poteva e senza chiedere niente, le persone ne avevano cura. Le donne che andavano là, anche mia
madre, a turno gli lavavano la biancheria. A fine giornata “sumendelle” riposava vicino alla paglia. La
solidarietà era una cosa naturale, non si metteva neanche in discussione.
Prima che il forno raggiungesse la giusta temperatura, la fornava cuoceva cotte le pizze in tutti i modi, al
pomodoro, con l‘olio, con le cipolle, con farina di granturco, con le “cìcole”, che è il lardo quando lo metti a
sciogliere (si chiamano anche sfrizzoli), con la sugna… Dopo venivano infornate le pagnotte e noi bambini
intanto mangiavamo le pizze, così si metteva un tamponamento alla fame… La sera si tornava a casa con le
ceste di pane e, per togliere la cenere e la parte più superficiale della farina sporca, usavamo una scopetta di
saggina, una “raschiatora”. Riponevamo le pagnotte in una credenza fresca, tutte dritte, coperte dalle
tovaglie pesanti, tipo canapone e dopo 15 giorni il pane era ancora buono. Ancora mi sembra di vederle,
tutte dritte e ordinate nella credenza: il profumo della cenere e della farina era l’odore più buono che si
sentiva in casa, il profumo della ricchezza di quegli anni.
20
L’ULTIMO PANE
Consilia racconta
Priverno, Porta Romana, 1948
Il coraggio è fatto di paura
(Oriana Fallaci, scrittrice e giornalista, 1929-2006)
Mio nonno, il papà di mio padre, aveva un terreno vicino Priverno; aveva costruito una specie di casetta e
stava lì nascosto perché i tedeschi facevano il rastrellamento ed aveva paura di essere catturato. Era il mese
di maggio del 1944, il periodo successivo allo sbarco degli americani ad Anzio e Nettuno e gli americani
passavano per Priverno e Latina. I tedeschi scappavano e si portavano via gli uomini, per questo la mia
famiglia, come tutto il paese, era terrorizzata. Noi avevamo i tedeschi proprio di fronte allo stabilimento di
carciofini e sottaceti del Sor Mario Coletta, , avevano la base lì, perchè Priverno era nella direzione di
Cassino.
Il giorno di Santa Rita il 22 maggio del 43, mamma fece il suo ultimo pane. Papà non si poteva muovere e
mi mandò al forno per riprendere il pane cotto; avevo solo otto anni, ero proprio piccola e papà non pensò al
pericolo che potevo correre. Dovevo andare verso corso Vittorio Emanuele, ma iniziarono i bombardamenti
e io invece di andare al forno per la mia curiosità di bambina, inseguii i bombardamenti, quelli a Largo
Cellini, a San Giovanni e al corso. La mia curiosità di assistere ad un bombardamento non mi fece
considerare quanto fosse pericoloso. Mamma mi andava cercando era spaventata. Ci dovevamo incontrare al
forno ma non mi vedeva arrivare… ha iniziato a cercarmi con il cuore in gola e nel frastuono e nella
confusione generale è stata anche colpita da una scheggia in fronte. Quando mi ha vista mi ha abbracciata
stretta, terrorizzata dalla paura di perdermi per colpa di una pagnotta. Io invece, incosciente, ero andata a
vedere i bombardamenti e sentivo piangere le persone, tra le nuvole di fumo…
Siamo andate insieme al forno per riprendere quelle pagnotte. Mamma disse che un pane così bello non le
era mai venuto, come fosse stato un premio di Santa Rita che mi aveva aiutata a salvarmi.
21
PANAMMULLU
Le amiche raccontano
Se avessi un pentolino, olio e sale, mi farei il pancotto, se avessi il pane…
(proverbio contadino)
Maria G.: “pane ammullu co lu cucuccillo”… si chiama così al paese mio, si soffriggeva la cipolla, si
aggiungeva il pomodoretto, la zucchina, che è “lu cucuccillo” e si allungava con l’acqua. Il pane raffermo si
metteva nell’insalatiera e si faceva questa zuppona, aggiungendo il sedano, il basilico, quello che c’era. Poi
si battevano le uova e si ricopriva tutto con il pecorino. Si lasciava così anche una notte intera e il giorno
dopo, ognuno con il suo cucchiaio, mangiava dalla zuppierona, oppure si faceva il piatto a parte.
Consilia : A Priverno il pane lievitato naturalmente si chiamava “bazoffia”. Mamma si metteva la pagnotta
in petto e tagliava, con il coltello rivolto verso di sé, delle fettine fine fine. A parte preparava tante verdure
cotte e condite, le verdure quelle che si trovavano, anche le sorbe. Poi in una insalatiera di porcellana
metteva uno strato di pane e sopra il condimento con carciofi, piselli, zucchine, pecorino, un goccetto
d’olio… In ultimo ci rovesciava le uova, cotte e tiepide. Quando aveva raggiunto l’abbastanza, e
l’insalatiera era piena, si faceva il pranzo. Quello era un piatto unico di sapore e… unico, perché non ce
n’erano altri, la pietanza a tavola era solo quella.
Nicolina: noi il pane duro lo mangiavamo con i broccoletti a crudo. Prima facevamo i broccoletti con aglio,
olio e peperoncino e anche qualche pomodoretto, affogati nella padella; quando erano quasi cotti ci
mettevamo i pezzi di pane duro, tutto coperto con il coperchio. Si lasciava ammorbidire così, il pane nella
verdura e si girava ogni tanto. Ma che buono! Era tutto buono, perché c’era solo la fame….
22
CAREZZA DI LATTE
Le amiche raccontano
Latti di crapa, ricotta di pecura, tumazzu di vacca.
(proverbio siciliano)
Carmelina: non c’era il latte di mucca, ma solo quello di capra! Al mio paese, Montefalcone, c’era il
capraio, si chiamava Giocondo, che girava con le capre e quando le riportava all’ovile la sera, faceva il giro
di tutto il paese e si sentiva il campanaccio delle capre. Chi voleva, usciva dalle case con un secchiello di
smalto bianco e il capraio mungeva il latte lì per lì. Io lo bevevo fresco, caldo di capra, mica si bolliva! Si
pagava una volta al mese. Quando passava Giocondo era una festa nel paese, perché le novità erano così
scarse che il campanaccio di Giocondo diventava motivo di festa. Vicino alla montagna c’era un fosso.
Quando nevicava, la neve veniva coperta con la paglia e diventava ghiaccio, in montagna quel ghiaccio si
conservava e noi lo usavamo per conservare per un po’ di tempo le cose fresche. D’estate, invece, il ghiaccio
bisognava comprarlo in contenitori a forma di parallelepipedi.
Annamaria: A Vieste c’era un parente di mio marito che aveva le capre e ogni tanto ci dava qualcosa. Una
volta ci raggiunse sulla spiaggia con una bottiglia di latte appena munto; il tappo per chiudere la bottiglia era
fatto con aghi di pino. Ricordo che appena presi la bottiglia mi è caduta dalle mani! Mia madre da sposata
viveva a Roma e, verso la passeggiata archeologica, vicino alla chiesa di San Gregorio al Celio, abitava un
suo cugino che faceva il fattore presso i preti. Avevano un asilo per bambini e anche tanti animali e quando
mungevano le mucche, io andavo sempre a vedere e nel secchio si formava tanta schiuma che diventava
panna.
Maria G.: Il tappo per le bottiglie in genere si faceva con la parte interna della pannocchia e si chiama
“mazzocchia” (dice Cecilia che a Vivaro Romano il tappo si chiama mazzigliu). Il latte si conservava fuori
casa, al fresco, mentre d’estate si beveva e basta, non si conservava; chi aveva una grotta dove riporre il cibo
era fortunato.
Bianca: io ero appena sposata e ricordo che quando compravo questo latte, a Poggio Mirteto, la panna che
c’era sopra la usavo nel sugo… come se fosse burro, anzi meglio! Oggi, invece, il latte non sa di niente.
Cecilia: fin da piccola, ero addetta alla spesa, l’ho fatta sempre nel paese, a Vivaro Romano. Poi al
negoziante dicevo : “Segna, che paga mamma.” Avevamo due quaderni, uno per lui e uno per noi, con la
copertina nera e con il bordo rosso. Il bottegaio scriveva sul mio quaderno e sul suo quello che dovevo
pagare, come una carta carbone. Nella stessa bottega non si compravano solo olio, biscotti, latte… mamma
comprava anche la lana, noi avevamo tutti i maglioni lavorati da mamma con quella lana là. Ho ancora da
23
parte qualche maglione lavorato con quella lana. Mamma era maestra, così dalla fine di giugno fino a tutto il
mese di settembre, trascorrevamo l’estate a Vivaro Romano e mi sono sempre trovata benissimo.
Annamaria: mi ricordo che nelle botteghe compravamo la pasta sfusa, conservata in un mobile con tanti
cassettini con i vari tipi di pasta e gli spaghetti li avvolgevano con la carta azzurra. Quella bella carta, lucida
e robusta, io la tenevo da parte perché ci foderavo i libri e mamma la metteva nel fondo dei cassetti. Ancora
oggi quel tipo di blu si chiama color “carta da zucchero”, proprio perché ci s’incartava anche lo zucchero,
che si vendeva a peso.
24
IL DESCO NATALIZIO
Le amiche raccontano
Onorerò il Natale nel mio cuore e cercherò di tenerlo con me tutto l’anno.
(Charles Dickens, scrittore 1812-1870)
Maria G.: la sera della vigilia si mangia sempre di magro: spaghetti con le alici, risotto con il tonno, frittelli
di broccoli romaneschi, però prima di friggere il broccolo si fa sbollentare… il capitone, insalata e i dolci,
mostaccioli con il mosto e le noci, cantucci con le nocchie, amaretti. Non è Natale se non rifacciamo i piatti
di quando i figli erano piccoli. Per tutto quello che si cucinava, si faceva il segno della croce, soprattutto per
il pane, anche perché il pane è un riferimento cristiano. “Dio ti benedica” era un augurio, un saluto,
un’espressione di “contromalocchio”, ancora oggi si usa per gioire di una buona notizia. C’era una pratica
quasi magica per contrastare il malocchio, che ogni madre di famiglia insegnava solo alla figlia maggiore, a
Natale. Mia madre, infatti, lo ha insegnato a mia sorella Teresa; preparava una scodella con acqua e olio e
mentre si mescolavano si diceva una preghiera, che io purtroppo non conosco e poi si gettava fuori di casa.
Le vecchiette passavano nelle case per recitare il rosario, come oggi uno direbbe “mi vengo a prendere il
caffè”. Quelle preghiere erano un dialogo religioso, rigorosamente in latino e spesso non si capiva niente di
quello che si diceva, nelle litanie, si ripeteva in continuazione “orapronò”, le vecchiette rispondevano
“oratepromè” … Il Salve Regina, a conclusione del Rosario,era una preghiera quasi liberatoria ed era la più
sentita di tutte.
Annamaria: la frittura era buona anche il giorno dopo; pure se a quei tempi non c’era il frigo, i fritti
andavano avanti fino alla befana! Le ciambelle erano fatte con le patate, come quando si fanno gli gnocchi:
farina, sale pizzico, zucchero, uva passa ammorbidita dentro a qualche liquore, cioccolata a pezzetti e un po’
di lievito per dolci. Si dava la forma di ciambella o di losanghe e si friggeva.
Il vero dolce natalizio a casa nostra è la nociata e si fa con le foglie d’alloro, le noci e il miele.
Si fanno le noci a pezzetti (mezzo chilo di noci va bene per 600 gr di miele). Poi si mettono in un pentolino
sul fuoco; quando vedi che si scurisce lo metti sulla tavola della pasta (la spianatora) per stenderlo e ti devi
sbrigare perché se l’impasto si fredda non lo stiri più… oggi lo stendo sulla carta forno, così non si
appiccica… A parte si preparano le foglie di alloro, ben lavate e asciugate; poi si taglia a rombetti la nociata
ancora calda e si mette tra due foglie di alloro, così ne prende il profumo. Ci si fa quasi un panino. E’ una
tradizione del paese di mia madre, Percile. A casa nostra non è Natale, senza la nociata.
25
La nociata, con le foglie di alloro, di Annamaria
Nilde: mamma faceva i ravioli, anche ripieni di amaretti; nei giorni natalizi mi svegliavo con il rumore della
forchetta di papà che chiudeva i ravioletti. Erano tanto gonfi e ripieni, poi discutevano perché mamma
diceva che papà li faceva troppo piccoli. Questo accadeva fino a quando ero diventata grande. Poi i ravioli
venivano conditi con un sughetto semplice, perché il sapore dei ravioli doveva prevalere sul resto.
Annamaria: a Percile noi i ravioli li facevamo dolci, e conditi con il sugo. Ricotta, cacao, cannella, uova e
poco zucchero. L’interno del raviolo era dolce e poi condito con il sugo di castrato. Per chiuderli si usava
una chiave delle porte interne di casa, perché oltre a chiuderli bene i ravioli venivano tutti ricamati.… Mia
suocera, che era pugliese, per S.Stefano faceva una pasta particolare, con il semolino, le uova, tanto
parmigiano, prezzemolo e un mestolo di brodo per amalgamare l’impasto. Poi l’impasto si stende ed è
faticoso perche è semolino non è farina… io dicevo a mia suocera perché non lo tagliavano con il coltello
per fare i quadrucci, poi l‘ho capito: la pasta veniva “spizzicata” e questi spizzichi venivano tutti irregolari!
Anche le orecchiette sono faticose, una volta ne ho fatte un chilo per la mia famiglia, andavano fatte una per
una, con la semola rimacinata, e venivano di un bel colore giallo di grano duro. Ho cominciato alle 5 del
pomeriggio a lavorare e l’ho fatto per tutto il giorno.. le prime venivano bene, poi andando avanti mi faceva
male la schiena ero proprio affaticata, insomma ‘ste orecchiette alla fine erano piatte, l’ultimo pezzo di pasta
l’avrei sbattuto contro il muro! Che energia che avevano le nostre mamme, erano proprio abituate a
faticare…Io solo quella volta l’ho fatte per tutta la famiglia!
Spianatora in legno, con orecchiette e strozzapreti
Elisa: nel 1965 vivevo in Svezia, ero molto giovane e davo anche lezioni d’italiano. Ai miei allievi ho fatto
conoscere la pizza! Spesso li facevo venire a casa mia e impastavo la pizza per tutti. I pomodori li
conoscevano solo aperti in due e io ho insegnato loro anche a fare i pomodori conditi con l’olio di oliva, la
cipolla, il sedano, erano rimasti a bocca aperta.
26
A Natale da loro si faceva un brodo con il maiale e tutti attingevano qualcosa, per mangiare un po’. Ho
ancora un’agenda del 1942 con ricette internazionali; la consultavo per fare ricette di tutti i paesi, così ho
imparato a cucinare. Ricordo quanto era buona la soupe de onion… (zuppa di cipolle).
L’agenda di ricette del 1942 di Elisa
Antonietta: quando si avvicinavano le feste, mia madre iniziava un mese prima a preparare i dolci. Le
trecce con la marsala, le scarcelle che si fanno con la pasta delle frappe, gli si dà la forma di una rosa, si
friggono, si passano nel vincotto e poi si adornavano con i confettini e la cannella. Quando aveva finito, le
riponeva in una insalatiera e poi metteva tutto sotto il letto oppure sopra la credenza in alto, in modo che
nessuno potesse toccarle.
Da bambina io mi arrampicavo di nascosto e con mia sorella facevamo “una a te e una a me” e le
mangiavamo di nascosto. Poi pareggiavamo le scarcelle così mamma non se ne accorgeva, ma ci
ripensavamo e tornavamo a mangiarle, “una a te e una a me”… Una volta mamma le fece ripiene di
marmellata di cioccolata e ne mangiammo così tante che ci venne una colite!
Maria G.: le cose bisognava nasconderle, perché la fame era tanta e la roba da mangiare sempre poca. Una
volta mia madre voleva fare i ravioli, ripieni di bieda e ricotta. Un pastore le aveva dato una bella ricotta che
aveva riposto nella scansia, quel mobile a ripiani con le tendine. Per me e mio fratello la ricotta era una cosa
meravigliosa da mangiare, non come oggi che i bambini neanche la guardano. Mamma l’aveva lasciata nella
frocella, che sarebbe il cestino, come gliel’aveva data il pastore.
Quando l’abbiamo trovata, con un dito ciascuno sollevavamo la frocella e mangiavamo. Mamma aveva
preparato la pasta ed è andata a prendere il cestino della ricotta… gli schiaffi che c’ha dato! Poverella,
dovette fare le fettuccine e manco le sono venute bene, perché l’impasto dei ravioli è più morbido della
sfoglia delle fettuccine. Mentre racconto, mi sembra di rivedere quella scansia, alta come un armadio a
muro: altro che frigorifero… la mattina sulla scansia trovavamo l’olio ghiacciato per il freddo che faceva.…
27
ABITI E CORREDO
Le amiche raccontano
Costume tradizionale di Castel di Tora (1938)
La ragazza con la dote non deve fare la muffa in casa
(provebio contadino)
Maria G.: al paese mio, Castel di Tora, le donne indossavano “u varnellu”, una gonnona arricciata e uno
scialle sopra. I corsetti potevano essere marroni, blu, ma le gonne sempre nere e si allacciavano dietro. Sotto
la parannanza c’era una bisaccia dove nascondevano le chiavi della dispensa, perché in dispensa si
riponevano le cose da mangiare, quello che si poteva conservare, e se qualcuno andava lì a spiluzzicare,
lasciava altri a bocca asciutta. Per questo la dispensa era sempre chiusa a chiave e le chiavi le teneva solo la
nonna, che era la figura più autorevole di casa. Erano dei chiavoni, come grimaldelli, grossi e pesanti. Le
famiglie erano molto numerose e se mangiavano le poche provviste che c’erano, non rimaneva più niente.
Antonietta: quando da bambina andavamo a Margherita di Savoia, ricordo le zie molto vecchie e noi
bambini eravamo i primi a fare il bagno in costume di lana, al mare. I paesani si mettevano delle sottane
lunghe per entrare nell’acqua e quando uscivano diventavano trasparenti e si vedevano quei sederoni
bianchi… Io, da bambina, non avevo forme, però il mio costume di lana, sembrava scandaloso, (forse perché
lo “arricchivo” con la gommapiuma…); mi misero in castigo, senza farmi fare più il bagno. Una volta feci
pure il bagno nelle saline: ero diventata secca e rigida e per levarmi il sale di dosso, mi dovettero immergere
ripetutamente in una tinozza di acqua bollente, perché era difficile far sciogliere il sale. Tra fratelli e
cuginetti, utilizzavamo delle forme per far asciugare il sale e tutti quegli oggetti sembrava quadrucci rosa,
come fossero di madreperla trasparente!
Carmelina: io dormivo con nonna, era vedova da poco tempo quando sono nata, così abbiamo sempre
dormito insieme, dormito e vissuto la giornata insieme; anche le preghiere dicevamo insieme. Mi ricordo
che raccontava tante cose: la povertà e le serate che non avevano niente da mangiare…Ricordo che
28
indossava una gonna nera lunga, con un corpetto stretto al petto. Per riscaldarci stavamo davanti al focolare
e la notte si dormiva con il cappello in testa. Le coperte di lana erano le “mande”: era stoffa riempita con la
lana di pecora, quella che ancora chiamano imbottita.
Cecilia: io ancora ce l’ho a Vivaro, pesa 20 chili, perché la lana grezza di pecora è pesante!
Nicolina: quando ci si sposava, i genitori dello sposo andavano a controllare quanto corredo portava la
sposa Chiedevano:” Quanto corredo ti porti ?” e i genitori della sposa rispondevano, ad esempio: “Panni
20.” E allora cominciavano a contare, 20 di questo, 20 di quello…. Sai che succedeva se qualcuno non ce
l’aveva? Se li facevano prestare da un’amica per la conta e poi glieli ridava, sennò si litigava!
Antonietta: mi ricordo in Puglia, mia cugina aveva preparato 23 lenzuola invece di 24 e non andava bene…
allora mia cugina disse alla madre dello sposo: “Te dò una gallina al posto del lenzuolo.” E quella disse di
no e s’arrabbiò! Dopo che s’erano accordati, tutto il corredo veniva esposto in una casa e la gente andava a
vederlo, così la festa del matrimonio durava qualche giorno e gli sposi arrivavano stravolti alla funzione…
Nilde: una zia di mia nonna aveva un telaio e chi si doveva sposare, si faceva fare i teli di canapone con
una trama più leggera e una più pesante. Quello con la trama più pesante si usava come lenzuolo di sotto,
quell’altro come lenzuolo di sopra. In realtà quando lo usavi ti ci scorticavi, per quanto grossa fosse la
grana… Ne ho una lavorata a nido d’ape, mamma mi ci fece il copriletto, prendendo le misure dal suo letto,
che era altissimo, una cosa meravigliosa che però ho usato una volta sola. I teli erano uniti al centro con
l’uncinetto, con un merletto cucito da lei. Adesso è tutto riposto nel baule, sono troppo pesanti… Con questi
teli ci potevi fare di tutto, lenzuola, tovaglie.. io ci ho fatto due canovacci e da cinquant’anni ancora li uso,
per quanto sono robusti. Quando si lavavano i teli diventavano sempre più bianchi. Ho ancora una foto di
questa zia vecchina, con il vestito nero lungo e una crocchia in testa, vicino al telaio mentre lavorava.
I teli di Nilde
Carla: una delle prime gite che feci con la mia famiglia, era il 1971 e attraversammo le Gole del Sagittario,
in Abruzzo. Arrivammo a Scanno, dove non c’era tanta neve. Il fiume, che adesso è interrato, era pieno di
donne che lavavano i panni, circondate dalla neve. Erano vestite con il costume tradizionale, la gonna lunga,
fitta e grande, il corsetto e uno scialle nero che si chiamava “u pannu a spalli”; questo copriva bene le
spalle ma lasciava scoperto il seno e loro sentivano tanto freddo. Erano gli anni 70, ma lì il tempo sembrava
essersi fermato.
29
SCEGLIERE: UN ATTO DI RIBELLIONE
Nicolina racconta
Il sarto (Giovan Battista Moroni, 1522-1579)
Non c’è sarto che non si punga con l’ago.
(proverbio contadino)
La scelta di mio padre di fare il mestiere del sarto, per mio nonno era stato come un atto di ribellione. Aveva
osato “scegliere”, mentre a quei tempi dovevi solo fare quello che in famiglia ti comandavano di fare. Papà
non si piegava alle imposizioni, infatti non aveva voluto neanche la tessera del partito fascista. Ricordo i
miei nonni, quanto erano severi, soprattutto mio nonno, perché mio padre aveva voluto sposare mia madre e
perché aveva scelto di fare di mestiere il sarto. Mio nonno, invece, di mestiere faceva il “calcaiuolo”, cioè
significa che dalla montagna faceva la calce; nonno voleva che mio padre facesse lo stesso lavoro, invece
mio padre aveva scelto di fare il sarto ed era un bravissimo sarto. Aveva preso il mestiere a Napoli e un bel
vestito con pantaloni, gilet e giacca nel 1932, tutto compreso, stoffa e cucitura, lo faceva pagare 20 lire,
quattro monete d’argento da cinque lire. Mio padre aveva una pietra per provare che non fossero false e ce le
strofinava sopra. Da bambina, quando vedevo quei soldi, dicevo a papà: “Siamo ricchi, siamo ricchi!”.
Nonno odiava mio padre, mia madre e tutti i figli. Io ho un brutto ricordo di loro, veramente doloroso,
nessuna festa o ricorrenze passate insieme, mai un aiuto quando ne abbiamo avuto bisogno… Una volta mia
madre aveva fatto una scommessa con mio padre: “Vuoi vedere che se mandiamo a Nicolina a chiedere dei
soldi tuo padre non ce li dà?” . I nonni erano i “ricchi” del paese, così erano considerati a Teano, perché non
gli mancava nulla.
Quel giorno che dovevo andare dai nonni a chiedere i soldi mi sentivo male; nonna teneva i soldi in petto, li
nascondeva là e io le chiesi:
“Nonà – così la chiamavo – c’è nonò?”
“Sta ancora alla calcara, che vuoi?”
“Gli devo chiedere i soldi…”. Lei me li poteva dare, ma non lo fece, mi disse solo:
“Eh aspetta… mo viene e glieli chiedi.” Io avevo una paura a chiederli a lui, ero piccola, tenevo 9 anni. Però
aspettai lo stesso. Nel frattempo venne una paesana e con un certo rispetto verso mia nonna chiese: “Donna
Carolì, devo pagare la luce…”. Mia nonna indossava “u mantesine grande” (una mantella), allacciata
30
davanti e dietro e teneva sotto la gonna una tasca grande dove ci metteva poche monete, il rosario, le chiavi
della dispensa. Io vidi che nonna si girò dandomi le spalle, si prese i soldi dal petto e glieli diede. A me, me
fece aspetta’ a nonno…
Quando tornò lui, gli dissi: “Nonò…”, - ancora sento la fifa che provavo - , “Che vuo’ ‘sta columbrina?”
(significa birbante) mi disse con quella vociona severa. (Chiesi poco, non ricordo quanto, ma era una cifra
poca, forse 2 lire).
“Dì a pàtete che ne trova uno che ce n’ha 4, così facciamo 2 lire per uno!”. Era senza pietà!
Io tenevo paura di nonno, ma avevo pure paura a tornare da mamma a riferire questo; lei, però, che se lo
immaginava quello che era successo, mi disse: “Tua nonna i soldi ce l’ha, io vedo quando li tiene in petto, te
li poteva da’…” e per la prima volta disse una parolaccia verso mia nonna.
31
AL MERCATO DEGLI AMBULANTI
Le amiche raccontano
Venditore di frutta con stadera
Il miglior podere è un buon mestiere.
(proverbio contadino)
Antonietta: quando avevo i bambini piccoli, per fargli respirare aria buona, ho preso in affitto una casetta in
un paesino, Castro di Montegallo sotto il Monte Vettore, che aveva una sola strada per le vacche. Non c’era
niente! La sera il divertimento era giocare a morra nella piazzetta e la mattina presto, con il Monte Vettore
che si colorava di rosa, veniva un camion che suonava la tromba; io facevo riserva di tutto, perché non
c’erano né negozi né botteghe. Nel paese chi aveva le uova le metteva sotto la calce per conservarle per
l’inverno, ma non le vendeva.
Nicolina: a Teano passava uno che di soprannome lo chiamavano “Pallipalle”; era una specie di banditore
e diceva quello che stava per arrivare in paese. La gente lo accoglieva battendo le mani…perché era un
avvenimento!
Cecilia: a Vivaro, quando stava per arrivare anche un solo fruttivendolo, c’era un uomo appostato che
avvisava tutto il paese che diceva: ”Se jetta u’ bannu!” che significa “ Si mette il bando! (cioè si dà notizia)
“. Ad esempio “E’ arrivatu Filicettu co’ le pèrseche e le mela”, la lettera “a” di mela era un plurale neutro,
come in latino… e faceva l’elenco di tutto quello che avrebbero venduto.
Annamaria: anche io me lo ricordo a Percìle, passava per diversi cantoni urlando “Se jetta u’ bannu, se
jetta u’ bannu!” e poi cominciava l’elenco degli ambulanti… “In piazza è arrivata gliu spezzinu”, che era
quello che vendeva le stoffe. Nei paesi non c’erano negozi, solo un alimentari che faceva anche da emporio.
Quando passava il banditore si poteva comprare qualcosa di diverso. Ancora arrivano i furgoncini Apette,
però non ci sta più il banditore, c’è un passaparola per andare in piazza. Qualche volta vengono i camion che
hanno un altoparlante. Poi ci sono i venditori per i vari giorni della settimana.
Maria G.: quando venivano gli ambulanti, tutte le donne andavano dallo spezzino (altre lo chiamano “o
pannazzaro”…) che si metteva nella piazza più larga, perché il camion era grande e non poteva
32
parcheggiare nelle vie più piccole. Mi ricordo la processione di queste donne che compravano le lenzuola a
metraggio, magari per cominciare a pensare al corredo di una figlia. Si compravano i lenzuoli a teli, erano di
lino buono, fatti a mano, teli piccoli che si univano a due a due per le cimose “a cianco di mosca”, finché
non si raggiungeva la larghezza del lenzuolo matrimoniale.
Nicolina: mi ricordo che ogni tanto da Capua veniva uno che vendeva il gelato. E urlava :”Guagliu’,
chiagnite che mamma vostra vi compra u gelato…”, perché se i ragazzini facevano la lagna, la mamma per
non starli a sentire gli comprava il gelato.
33
BACCALA’, UNICO PESCE
Le amiche raccontano
Venditore di baccalà
Annamaria: nei paesi non c’erano pescherie, c’era un negozio che vendeva di tutto, dal rocchetto di filo al
pane e di pesce trovavi le sardine in scatola oppure il baccalà, raramente, ancora oggi, arriva il pescivendolo
con l’apetta.
Carmelina: noi abitavamo in un paese di montagna, Montefalcone, e il pesce non arrivava mai, l’unico
pesce che si mangiava era il baccalà. Si comprava secco, in un unico pezzo di 5 o 6 chili, e si riponeva in
cantina; quando serviva, veniva tagliato e messo in acqua a bagno, per 4-5 giorni, cambiando l’acqua spesso
per togliere il sale. Si cucinava con le patate oppure si faceva l’insalata rinforzata.
Mia nonna, alla vigilia di Natale cucinava il baccalà in agrodolce; dopo averlo bollito ci aggiungeva l’aceto
e l’uvetta che gli dava un sapore più dolciastro. Però bisogna distinguere il baccalà dallo stoccafisso. Lo
stoccafisso viene asciugato al sole, senza sale, e si chiama così perché i pezzi di merluzzo vengono appesi ad
un bastone. Anche se a conservarlo puzza parecchio, il sapore è molto delicato e costa anche di più. Il
baccalà, invece, era il piatto dei poveri.
Nel mio paese il 19 marzo, festa di San Giuseppe, c’era il desiderio che tutti potessero festeggiarlo, anche
nelle famiglie dove non c’era l’abbondanza, perché San Giuseppe era il padre putativo di Gesù. Tutti in casa
cucinavano il baccalà con i ceci e mia zia ne faceva tanto e lo andava a regalare alle famiglie povere. Io e le
mie sorelle andavamo per le case dove sapevamo che c’erano famiglie povere. Portavamo in una scodella i
ceci di Montefalcone cotti con l’alloro e il baccalà messo dentro. Magari i ceci ce li avevano, ma il baccalà
no…
Antonietta: anche nel viterbese, nel giorno di San Giuseppe, si fanno i ceciaroli: i ceci vengono lessati e
macinati, ci si fa una crema e ci si riempiono dei ravioli dolci, con alkermes, lo zucchero e l’uovo. Invece
mamma il baccalà lo faceva soffriggere in un tegame, con il pomodoretto fresco, l’erbetta, le olive nere, i
pinoli, l’uvetta e i capperi. A me non piace il baccalà, però, forse perché è legato al ricordo di mia madre, lo
ricordo buonissimo lo stesso.
Consilia: mia madre invece faceva il baccalà alla cacciatora. Dopo averlo dissalato, lo friggeva infarinato.
A parte faceva un pesto di aglio, rosmarino e aceto con l’olio caldo e poi ce lo metteva sopra… mamma mia,
ancora ne ricordo il sapore. Il baccalà era buono anche sulla brace e con il rametto di rosmarino si ungeva
d’olio.
Marilena: Il baccalà sarà stato il cibo dei poveri, ma era ricco di fosforo. Una vecchia zia era di origine
nobile e ricchissima. Ha fatto studiare cinque figli e diceva sempre: “Cinque lauree, tutte col baccalà…”.
34
IL PROFUMO DEI RICORDI
Le amiche raccontano
Io non so se l’erba campa e il cavallo cresce, ma bisogna avere fiducia.
(Totò)
Antonietta: mia mamma era di Margherita di Savoia, vicino Foggia, dove ci sono le saline più grandi di
Europa, ed era molto brava a fare la seppia ripiena: la riempiva dei tentacoli tutti a pezzetti, pangrattato,
uovo, aglio, erbetta e pecorino, ... molto pecorino, che meraviglia.. Il pecorino dava sapore a tutto!
Un altro piatto pugliese, povero, che ho imparato da lei è la “recanata”. Si prendono le patate e si tagliano
rotonde e si mettono dentro una teglia e se ne fa uno strato. Sopra si sparge pecorino (quello non manca
mai…), pangrattato, pomodoretto fresco, un goccettino d’acqua, aglio e erbetta e origano… Poi sopra ci si
mette il pesce, io ci mettevo pure il baccalà, poi un altro strato di patate con pomodoro, pangrattato e
pecorino, tanto pecorino perché è quello che gli dà il sapore, sale e pepe e tanto origano, …. il goccetto
d’acqua serve per cuocere le patate, insieme all’acqua che caccia il pomodoretto…E’ un piatto unico, nel
senso che mangi solo quello e stai a posto. Una volta messo al forno, il profumo si sentiva anche per le scale
e ti faceva voglia di accelerare il passo…. “Recanata” viene da “origanata”, perché l’origano è la spezia
principale, poi nel parlare comune è diventata recanata.
Un giorno mia zia Gaetanella, sorella di mio padre che era un po’ cattivella e si divertiva a farmi i dispetti,
mi chiese di andare a comprare la “vasilicova”. Mi aveva fatto indossare una camicia lunga ricamata e con
la bicicletta andai al mercato a cercare questo vasilicova. Io non ero sicura di aver capito che cosa fosse “il
vaso di Nicola” e così a tutti quelli che incontravo chiedevo: “Che ti chiami Nicola?” Ho trascorso tutta la
mattinata a cercare il vaso di Nicola e quando a casa non mi vedevano tornare mi sono venuti a cercare e si
sono arrabbiati tantissimo. Che ne sapevo che la vasilicova era un semplice basilico?
Cecilia: è dialetto, ma il suo nome ha origine dal greco, “Vasilicos”, il basilico, significa “pianta del re”.
Antonietta: Si, l’ho scoperto dopo, … Il basilico veniva utilizzato soprattutto per il sugo, il basilico e il
petruzzino, che sarebbe il prezzemolo.
Nicolina: a Teano il prezzemolo si chiamava purdusine.
Antonietta.: e poi c’erano anche le passenache, le carote, e se attacchiamo con il dialetto… u trafunno è il
comò e u tiraturo è il cassetto, o’ menenne è il camino.., a culunnetta è il comodino. Domani si dice a
biscria, … “st’atte’, che càsca de cuozzo a tera!” (attenta, che cadi di testa a terra…). Con l’erbette si
cucinava di tutto, anche i topolini… Si diceva che per far smettere ai bambini di fare la pipì al letto,
bisognava dar loro da mangiare i topolini tutti a pezzetti, cucinati con le erbette e con l’aglio. Era un rimedio
naturale: chissà se era una bugia per costringere i bambini a non bagnarsi più la notte?
35
Io ho affidato i miei figli a mia madre e lei era tutta contenta. Si moriva per i nipoti. Aveva un dindarolo
dove metteva i soldi da parte per i nipoti, per fargli i regalini quando erano la loro festa. Mia madre,
originaria di Margherita di Savoia, in provincia di Foggia, era una cuoca meravigliosa, tutta la scala dove
abitavamo sentiva il profumi delle sue ricette. Quando si avvicinavano le feste, iniziava un mese prima a
preparare i dolci. Le trecce con la marsala, le scarcelle…queste si fanno con la pasta delle frappe, gli si dà la
forma di una rosa, si friggono, si passano nel vincotto e poi si adornavano con i confettini e la cannella.
Quando aveva finito, le riponeva in una insalatiera e poi metteva tutto sotto il letto oppure sopra la credenza
in alto, in modo che nessuno potesse toccarle. Da bambina io mi arrampicavo di nascosto e con mia sorella
facevamo “una a te e una a me” e le mangiavamo di nascosto. Poi pareggiavamo le scarcelle così mamma
non se ne accorgeva, ma ci ripensavamo e tornavamo a mangiarle, “una a te e una a me”… Una volta
mamma le fece ripiene di marmellata di cioccolata e ne mangiammo così tante che ci venne una colite!
Maria G.: le cose bisognava nasconderle, perché solo la fame era tanta, ma la roba da mangiare sempre
poca… una volta mia madre voleva fare i ravioli, ripieni di bieda e ricotta e aveva una bella ricotta che le
aveva dato il pastore e l’ha riposta nella scansia, perché il frigorifero non esisteva. Per me e mio fratello la
ricotta era una cosa meravigliosa da mangiare, non come oggi che i bambini neanche la guardano. Mamma
l’aveva lasciata nel cestino come gliel’avevano data (noi la chiamiamo la frocella) e l’aveva riposta nella
scansia, quel mobile a ripiani con le tendine. L’avevamo trovata e con un dito ciascuno sollevavamo la
frocella e mangiavamo. Quando mamma aveva già preparato la pasta è andata a prendere il cestino della
ricotta… gli schiaffi che c’ha dato! Poverella, ha dovuto fare le fettuccine e manco le sono venute bene,
perché l’impasto dei ravioli è più morbida della sfoglia delle fettuccine. Mentre racconto, mi sembra di
rivedere quella scansia, alto come un armadio a muro: altro che frigorifero… la mattina sulla scansia
trovavamo l’olio ghiacciato! Faceva tanto freddo e ci si scaldava solo con il camino…
Marilena: Io non avevo la passione per la cucina, poi però ho cominciato a divertirmi. Mio padre ha vissuto
con me per 21 anni ed era di poco appetito. Il suo piatto preferito era pasta e patate, forse anche per questo lo
facevo volentieri, perché lui lo mangiava di gusto. Mangiava poco, è vero, ma gli piaceva tanto quello che
poteva far male; quando usciva da solo si comprava la coppa, il salame, i bruscolini… Avevamo un bel
rapporto, perché mio padre mi amava tanto.
Paola (di Genova): ricordo il profumo della torta pasqualina che si faceva a casa: si tiravano 33 sfoglie, una
per ogni anno di Gesù Cristo. Le sfoglie sono fatte con acqua, olio e farina, vengono tirate sottilissime e poi
farcite con i carciofi tritati, e le uova messe intere che cuocendo diventano sode. Sulla prima sfoglia si mette
la farcia poi, sopra, tutte le altre sfoglie. Si chiude arricciandola sul bordo e un momento prima di chiuderla
del tutto ci si soffia dentro, come se si volesse dare vita alla torta; così, con l’aria, si forma un specie di
cupola. Nel raccontarla mi sembra quasi di scrivere una poesia…
36
La mia infanzia a Calvi nell’Umbria
Angela racconta
Ho trascorso molti anni della mia infanzia a Calvi nell’Umbria, un paesetto che aveva un ponte, distrutto
dalla guerra, che divideva il Lazio dall’Umbria; mia madre mi ha mandato in collegio con mia sorella
piccola, perché doveva lavorare e non stava bene. Io ero terrorizzata che morisse, avevo proprio l’incubo
della sua morte: per questo non ero arrabbiata con lei che mi aveva messo in collegio.
Il collegio era tenuto dalle suore Orsoline, in un castello medievale, che oggi fa parte del patrimonio
pubblico. All’epoca, in quel collegio c’erano anche le postulanti e le novizie, che poi diventavano suore.
Ricordo di aver partecipato a molte di queste bellissime funzioni in cui le novizie prendevano i voti perenni.
C’erano i parenti che venivano a vedere le loro figlie prendere i voti.
Le madri venivano ospitate nel collegio, mentre i padri che non potevano dormire lì dentro, si prendevano
una stanza nell’unico albergo del paese. Ricordo i pianti di questi genitori, perché non volevano che le figlie
diventassero suore… ma le fanciulle avevano delle sincere vocazioni, non erano messe in convento per
convenienze familiari.
Quel periodo di convivenza con le suore era bello, però mi rifiutavo di mangiare, bevevo l’acqua per
mandare giù il cibo oppure qualche volta nascondevo il boccone nel grembiule. Bisognava mangiare anche
la pelle del pollo e quelle cose nere dell’interiora… allora le nascondevo e poi le davo ai gattini.
37
Albert Anker (1831-1910)
Adesso, ripensandoci, forse ho avuto un problema serio con il mangiare, ero gonfia, con un pancione, e dopo
pranzo stavo sempre in castigo, perché una persona mi doveva stare vicino e imboccarmi. A mia sorella
davano un cibo diverso perché era molto fragile e la superiora la coccolava sempre. Io ho vissuto all’ombra
di mia sorella Emilia, che veniva chiamata Milly, mentre io, che ero più grande, dovevo dare sempre il buon
esempio.
Non so se abbia sofferto di gelosia, però è stato sicuramente un rapporto faticoso, quello con mia sorella. La
consideravo molto fortunata, perché da bambina aveva trovato perfino un quadrifoglio!
Tante cose le ho superate grazie all’amore di mio marito e poi, crescendo, io e mia sorella abbiamo avuto
vite molto diverse, come se la vita avesse voluto mettere alla prova entrambe.
Quando ho finito il collegio e sono tornata a casa, mio padre per farmi una sorpresa mi aveva fatto le
polpette; non volevo mangiarle, perché ricordavo quelle che cucinavano le suore, poi invece dopo averle
assaggiate ho scoperto che erano buonissime! Quelle che facevano le suore avevano i rigagli del pollo, per
questo motivo erano cattivissime!
38
TRA I RICORDI DI SILVI MARINA
MARIA S. RACCONTA
Ragazza con la vela (Edmund Charles Tarbell, 1862-1938)
Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere compiti e impartire ordini,
ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito.
(Antoine de Saint-Exupéry, 1900-1944)
Io sono nata a Silvi Marina, a 4 anni ci siamo trasferiti a Roma, però d’estate, finite le scuole, tornavamo
sempre là. A Roma abitavamo in Prati, in Via degli Scipioni e sopra di noi c’era la batteria antiaerea di
Monte Mario; trascorrevamo molto tempo nei rifugi e mamma era sicura che non ci potessero far nulla,
perché abitavamo vicino al Papa… Quando bombardarono San Lorenzo, era il 19 luglio 1943 e avevo nove
anni, papà ci portò a Silvi, perché pensava che la guerra là fosse più distante e potevamo stare tranquilli.
Dall’8 settembre, però, non abbiamo più prendere il treno per tornare a Roma, perché mitragliavano la
ferrovia, mentre da Ortona in su, i tedeschi hanno continuato ad operare violenze e prepotenze di tutti i tipi.
Risalendo verso nord, sulla via nazionale, i tedeschi si fermarono a Silvi Marina e siccome la nostra casa
paterna era grande e bella, i tedeschi ci buttarono fuori e ci fecero il loro presidio. La nostra famiglia andò ad
alloggiare in una camera nella villa di fronte, tutti insieme. Pensavamo di stare più sereni a Silvi, invece
eravamo sfollati in casa nostra.
Siamo rimasti a Silvi per due anni, perché anche la ferrovia verso Avezzano era stata bombardata. Quando i
tedeschi iniziarono a rastrellare i giovani – dicevano che gli serviva la mano d’opera – ci rifugiammo ad Atri
e il vescovo diede ospitalità a noi e agli altri sfollati di quelle zone, nel seminario di fronte alla bellissima
Cattedrale di Atri, poiché in quel periodo non c’erano seminaristi. Abbiamo vissuto così fino al 1945, fino a
quando gli americani vennero a liberarci. Tornammo allora, a Silvi, con mia grande gioia e ritrovai le mie
amiche e tanti giochi semplici che facevo con loro, ma soprattutto ritrovai i miei nonni.
La sera era il momento più bello, quando stavamo con il nonno nel suo grande salone con le vetrate antiche
e colorate, e lui ci raccontava episodi della Bibbia, non li leggeva, ma li raccontava come fossero piccole
favole per bambini! Nonno aveva una piccola biblioteca, a quei tempi con c’erano tanti libri in giro, e così
aveva la possibilità di coltivare la sua passione.
39
Tornati a Roma, ripresi ad andare a scuola, recuperando quei due anni persi a causa della guerra. Prima del
’43 andavo alla Luigi Pianciani, che sta a Piazza Risorgimento, ma la scuola ormai era diventata la casa di
tanti sfollati napoletani. Mamma non si perse d’animo e mi iscrisse ad una scuola di suore, in cui feci la 4^ e
la 5^ elementare insieme, così riuscii a recuperare un anno scolastico.
Quando da adolescente frequentai le magistrali e a scuola si studiava la religione, mi ritornava in mente quel
ricordo antico del nonno: non avevo bisogno di studiare, perché tanti passi della Bibbia erano parte di me,
grazie a lui e ai suoi delicati racconti nella casa di Silvi.
Sono diventata maestra e ho insegnato proprio in quella scuola lì, la Luigi Pianciani. Ora la scuola è stata
rilevata dalla Rai e ha molti uffici, come un po’ tutta la zona, bambini non ce ne sono più…
La bella casa di Silvi è stata divisa tra i miei fratelli, siamo in quattro e io sono la più grande. Ricordo che
d’estate c’erano tante barche, anche a vela, le lancette le chiamavano. Oggi i pescatori con grandi barche
sono tutti nel porto di Pescara, ma a Silvi ne sono rimasti ancora due, Domenico e Walter.
Adesso ho una casetta per conto mio che si affaccia sul mare e da una finestra, ancora li vedo con le loro
barche sulla spiaggia, quando ritornano dalla loro uscita in mare e la mia memoria recupera un filo
malinconico e dolce di quei difficili anni trascorsi a Silvi.
40
E LE PATATE?
Le amiche raccontano
Cruda, arrosto oppur lessata benedetta la patata.
(proverbio contadino)
Maria G.: le patate accompagnavano sempre il bicchier di vino, quando veniva il compare, l’amico o il
paesano e stavano tutti intorno al camino. Le patate intanto si cuocevano nella cenere e quando erano cotte si
prendevano con le mani, si scuotevano dalla cenere si mangiavano così, sempre con un bicchier di vino. Era
un momento di grande intimità e di riposo tra amici e familiari. La raccolta delle patate si faceva d’agosto:
gli uomini zappettano e le tirano fuori dalla terra, dietro passano le donne che le raccoglievano e separavano
le grandi dalle piccole. Di tutte le patate raccolte se ne conservavano le più piccole e si ripiantavano, nel
mese di marzo, una per ogni pozzo (che è una buca nella terra). Mamma però, verso maggio andava a
“ricavà” (scavare) per qualche patata novella. La terra delle patate doveva essere buona, morbida…
Cecilia: la terra doveva essere “zappetellata”, cioè il lavoro delicato dello zappetto…
Maria G.: “ ’Nammo a rammucchià le patane”, si diceva a Castel di Tora, per riunire la terra e formare
questi piccoli pozzi. Le patate erano il cibo che accompagnava qualsiasi piatto, il baccalà, la pasta… ma
anche le verdure, soprattutto le verdure campagnole, la cicoria, le ravacciole, le crispigne, la finocchiella,
gli iòiari (che sono un po’ oleosi). Si facevano tutte queste verdure miste, vicino le patate e la cena era fatta!
Cecilia: ricordo la ricetta delle patate al coppo, che è una padellaccia, semisferica di rame e ci si metteva la
cenere calda del camino. Poi le patate si tagliavano a metà sulla cenere e coperte di brace. Si mangiavano
con tutta la buccia, perché tanto con la brace è tutto disinfettato.
Antonietta: le bucce di patate fritte le ho trovate pure al ristorante!
Marilena: io le patate non le ho neanche sotto i piedi! Scherzi a parte… pure Aldo Fabrizi parlava delle
patate a tocchetti. Mia madre mi raccontava che mia nonna paterna non amava cucinare, però le piaceva
mangiare e si raccomandava sempre a qualcun altro che potesse cucinare. Mamma me lo diceva sempre,
però una ricetta semplice la sapeva fare proprio bene e ogni tanto la faccio anche io. Sbucci tutte le patate e
le fai a tocchetti, prendi un po’ d’aglio, il peperoncino, le foglie d’alloro a pezzetti e metti tutto in una
padella con l’olio sul fuoco… Ma quanto vengono buone!
41
DEL MAIALE NON SI BUTTA NIENTE
Le amiche raccontano
Maiale pulito non fu mai grasso
(proverbio contadino)
Maria G.: quando si ammazzava il maiale, era una cosa terribile, ma una volta morto tutto diventava una
festa. Era un vero rito e si faceva sempre il 26 dicembre, a Santo Stefano, sennò non si sarebbe mantenuto
per tutta la lavorazione. Con il fegato si facevano le salsicce e cuocevamo in una padellaccia tutti i pezzetti e
le animelle. Anche per il maiale, come per la mietitura si chiamavano i parenti e gli amici, perché ci si
aiutava tutti insieme. Io ero bambina e ricordo che la mattina presto si sentivano le urla di quel povero
maiale… se nevicava, il sangue sporcava di rosso pure la neve. A noi bambini quelle urla rimasero impresse
per lungo tempo. Dopo che il maiale era morto, con l’acqua bollente si faceva la spelatura per levare le
setole; stavano tutti intorno a quella povera bestia a spelarlo.
Si raccoglieva tutto il sangue caldo e si faceva bollire. I grumi che si formavano si condivano, era
buonissimo. Alla fine della pulitura il maiale si spaccava a metà e si lasciava così per 24-48 ore a raccogliere
tutto il sangue.
Consilia: da noi, a Priverno, appena finito di pulire e di raschiare l’interno del maiale, il fegato lo facevano
arrosto lì per lì. Invece, budello del maiale veniva riempito con il sanguinaccio, arricchito con i pinoli, l’uva
passa… poi si lasciava asciugare e si tagliava a pezzetti. Era un gusto incredibile.
Ornella: Negli anni '70 avuto modo di frequentare Camerino, storica cittadina delle Marche, ed i suoi
dintorni: ricordo che tra novembre e dicembre era in uso, da parte dei contadini, fare la cosiddetta " pista".
Essa consisteva nella lavorazione del maiale che ognuno allevava con i metodi tradizionali e che veniva
"sacrificato" proprio in quel periodo per ricavarne gustosissimi insaccati. Tra questi, mi viene in mente, la
soppressata nonché il ciauscolo, un salume caratteristico di quelle zone, da spalmare, quando non è molto
asciutto, sul pane. Una bontà per me che amo le cose saporite. La "pista" era quasi una festa, un'occasione
per stare tutti insieme e bere qualche buon bicchiere, con gli amici ed i parenti che andavano ad aiutare,
mentre si lavorava alacremente per preparare i tagli di carne, secondo una tecnica tramandata da una
42
generazione all'altra. Il dominus del rito era il cosiddetto" pistarolo", il superesperto che dava gli opportuni
consigli per avere un buon prodotto finito. Manco dalla provincia di Macerata da parecchi anni ormai ed una
volta, volendo riassaporare il ciauscolo di vecchia memoria, lo acquistai in un supermercato di Roma:
discreto ma pur sempre un prodotto industriale. La differenza c'era e... si sentiva.”
Annamaria: mi ricordo che a Roma tutte le macellerie in quel periodo, avevano appeso in bella mostra il
lardo fresco e il sanguinaccio, che era il sangue già bollito e a casa cuoceva poi con la cipolla, l’olio, il sale e
il peperoncino, un piatto squisito.
Carmelina: il sanguinaccio da noi, invece, era un dolce con il cioccolato, il latte e lo zucchero. A
Montefalcone ancora lo fanno, perché è proprio una tradizione della Campania.
43
L’ESTASI PASQUALE
Carla Racconta
L’Angelo (Pietro Novelli, 1603-1647)
Ho un ricordo di bambina del periodo pasquale, abitavamo a Testaccio e ci conoscevamo tutti nel
condominio e spesso trascorrevamo le serate insieme, ognuno cucinava qualcosa, oppure si preoccupava di
fare la spesa. Questo grande palazzo, dell’epoca fascista, costruito per i poveri, aveva una struttura quadrata
con un cortile interno ed erano costruiti così perché, in caso di sommosse operaie, i cecchini si mettevano sui
tetti per tenere a bada le persone. Era in Via Giovanni Branca e mia nonna era la portiera di questo palazzo e
distribuiva la posta. Si sapeva tutto di tutti e da una parte era una cosa buona, perché in caso di necessità ci si
aiutava l’uno con l’altro. Nonna teneva un registro, come un libro “spia”, in cui venivano registrati gli orari
d’ingresso e d’uscita di tutti i condomini. Inoltre alle 22 si chiudeva il portone, inderogabilmente. Ogni tanto
veniva un ispettore della polizia, una specie di capo rione, per controllare quei registri, e se Nonna non era
in grado di scrivere le vicende delle persone, le scriveva mamma. Ogni due mesi veniva questo ispettore, lo
ricordo piccolino, basso e con gli occhialetti, consultava questo registro e parlava con nonna… alla fine lui
firmava il registro!
Il parroco del nostro quartiere, una persona austera e severa soprannominato “Don Schiaffino”, veniva il
sabato santo a benedire le case, con la compagnia di un chierichetto. Per quell’evento mamma puliva bene la
casa, sul letto metteva una coperta bellissima lavorata a filet e sul comò poggiava i dolci di Pasqua, che ce li
portava la Sora Domenica, la comare di papà che viveva a Montecelio. Il ciambellone, molto duro ma
buono, aveva un uovo sodo nel suo interno con tutta la buccia.
Quando entrava Don Schiaffino, benediva tutto e tutti e il suo viso serio e austero veniva addolcito dal
garrire delle rondini e dal primo tepore della primavera. A mezzogiorno di quel sabato sciolsero le campane
e io, presa dall’estasi di quel momento, mi inginocchiai e ricordo di aver sentito la presenza di Gesù, dentro
di me. E’ un ricordo molto dolce a cui sono tanto legata, perché quella visione la sentii come una
benedizione per tutta la mia famiglia, in quel momento molto disagiata.
44
LA FESTA DELLA MIETITURA
Maria G. racconta
Vanga e zappa non vuol digiuno. (proverbio contadino)
Quello della mietitura era un periodo bellissimo. Venivano tanti uomini a lavorare, a “le campora” e
faticavano tanto; per questo bisognava dare loro da mangiare a colazione, a merenda e a cena. Solo la cena si
faceva in casa, bisognava preparare un sacco di roba; il resto si mangiava in campagna, dove gli uomini
lavoravano. Portavamo in campagna tanti canestri con la roba da mangiare e cantavamo tutti intorno,
insieme a loro. A colazione si mangiavano il baccalà in umido, la corata di mucca (mica la coratella
d’abbacchio…) e poi il pane, il vino che si passavano tra loro con la “coppelletta”, una sorta di cannuccia
da cui si beveva a garganella, non usavano il bicchiere… quella era la colazione! La figlia grande portava la
colazione mentre a casa c’era chi preparava il pranzo, che se andava bene erano almeno tre chili di rigatoni.
Quando era il momento partivano da casa tutte queste donne con le conche in testa in processione e poi si
dividevano per raggiungere i mietitori e dargli da mangiare.
Io ero bambina e ricordo che faceva molto caldo, così il vino si riparava vicino ad un cespuglio, all’ombra;
ogni tanto i mietitori chiedevano da bere “ Coppella, padrò” e noi bambini correvamo con il vino e
ridevamo a vederli bere a garganella. Bevevano anche l’acqua, naturalmente, e sempre noi bambini
l’andavamo a prendere nei fossati vicini. Era bello perché si passava parola l’uno con l’altro e quando si
finiva nel campo di un padrone, poi si continuava in quello di un altro. Tutti aiutavano tutti, amici, parenti,
l’importante era rispettare i tempi della stagione della mietitura.
45
MOSTO E VINO, SAPORE SOPRAFFINO
Le amiche raccontano
Affonda bene la zappa nella vigna e togli l’erbaccia e la gramigna
(proverbio contadino)
Nilde: ho ancora la casa dei miei nonni al paese, vicino a Rocca Sinibalda, precisamente a Vaccareccia.
In cucina c’è una botola: si scendono dei gradini e ci si trova davanti un vascone. Sulla destra c’è un grande
finestrone, come fosse una galleria in pendenza. Da lì facevano cadere i grappoli d’uva che poi sarebbero
stati pestati con i piedi. Dalla vasca c’era un’apertuna per far uscire il mosto. C’erano conservate delle botti,
ma ogni tanto veniva qualche antiquario per acquistarle e per rifarci dei mobili antichi. Oggi non ci sono più
le botti, ma io ricordo quello che mi raccontavano i miei genitori e anche se il loro racconto era festoso, io
ho sempre avuto una gran paura di quella botola. I miei zii erano tutti ragazzi, si andavano a divertire e
pestando l’uva cantavano tante canzoni.
Qualche volta capita ancora che ci vado con i miei fratelli, ma quella botola ha sempre un qualcosa di
angoscioso.
Maria G.: da noi i vasconi erano di pietra, forse di cemento. Il mosto si fa con la ribollita dell’uva.
Venivano i somari con i bigonci di legno, si vuotavano dentro queste vasche e le persone scalze andavano a
pestare l’uva: sotto la vasca c’era un buco e da lì usciva il succo dell’uva. Poi si facevano i mostaccioli con
le bucce dell’uva, le vinacce dell’uva nera. Si facevano ribollire con un po’ di vino fino a infittirsi e a
fermentare. Alla fine si formava una specie di crema e si aggiungeva anche un po’ di zucchero. Il vino
invece, veniva versato nelle botti e dopo un po’ di tempo mia madre diceva: “Andiamo a cambiare le botti
del vino.”, così, da una botte all’altra, il vino era sempre più puro lasciando i depositi nella botte precedente.
Nicolina: nel mio paese, a Teano, c’era una grande vasca di legno con un bastone lungo e noi ci
attaccavamo al bastone e battevamo i piedi. Il mosto fermentava ed era buonissimo, era dolce e si
conservava nei barattoli per un sacco di tempo.
Annamaria: in Puglia, con il mosto cotto, fanno le “cartellate”, una pasta semplice, farina e vino, di forma
rotonda, vengono fritte e poi alla fine si rifiniscono con il mosto cotto oppure con il miele e le mandorle a
pezzettini.
46
Carmelina: io ho un racconto della mia infanzia lagato al vino. L’uva con i muli veniva portata dalla
campagna e rovesciata in un grande tino nella cantina. Dopo che era stata pigiata rimaneva così per 10-11
giorni; c’era un profumo di mosto buonissimo e papà ogni tanto andava a levare le vinacce che venivano a
galla. Quando acquistava una certa consistenza, il vino, filtrato, veniva spillato nelle damigiane. Mamma
aiutava papà, ma una volta mamma era impegnata a casa e papà rimase da solo. Ad un certo punto, forse si
era distratto, il vino è caduto tutto per terra e invece di tappare il buco della vasca con la mano, è uscito di
corsa a chiamare aiuto “Currete, currete…”. Macchè, se n’è uscito tutto il vino! La rabbia si sfogò contro
mia madre che non lo aveva aiutato, ma lei placidamente, gli rispose “Perché non hai tappato il buco con la
mano?”. Hanno provato a raccoglierlo, ma alla fine si è buttato tutto…
Quando c’erano le feste, questo fatto veniva sempre raccontato e ci si rideva, ma quella volta fu una vera
tragedia, perché papà amava fare il vino, era proprio un cultore della vigna.
Quel vigneto me lo ha donato papà, l’ho tenuto per un po’ di tempo più che altro come ricordo, ma poi l’ho
venduto. Adesso c’è un contadino che ne ha fatto un uliveto.
Maria G.: io mi ricordo che la botte aveva un rubinetto, che si chiamava càola, aveva un becco di legno con
sopra una chiavetta di legno che chiudeva il vino. Ricordo che una signora del paese mio chiese ad un
ragazzo : “Vai a caccià il vino”. Lui scese in cantina ma gli si sfilò la càola e il vino usciva senza fermarsi. Il
ragazzo, che era balbuziente, corse subito dalla signora, e cominciò “Mamamama… memememe…” Allora
la signora gli disse: “ Figlio mio, dillo cantando…”. E il ragazzo cantò: “Me s’è sturà a càola…”. Sembra
una barzelletta ma è una cosa che è successa veramente…
Botte con la caola
47
LA CUCINA, IL REGNO DELLA CASA
Cecilia racconta
Interno di cucina con focolare
Carlo Pascale D’Illonza (XVIII secolo)
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare
(da Natale di Giuseppe Ungaretti, 1888-1970)
Una volta si stava tutti in un ambiente, anche per risparmiare la corrente, non come adesso che ognuno sta in
una stanza sua. Anche per questa ragione si trascorreva molto tempo in cucina, si risparmiava la corrente ed
era la stanza più calda. Mio padre ha sempre scritto poesie, lo faceva in cucina, alle quattro di notte, mentre
tutti dormivano: era l’ora migliore per dedicarsi alle sue amate poesie, tutte scritte rigorosamente in dialetto
vivarese. Mi ricordo di quei momenti che mio padre rubava alla notte e tra i cinque fratelli che siamo, forse
io ho penetrato di più lo spirito di quegli scritti. Al paese, Vivaro, dove vado spesso e volentieri, i
compaesani mi dicono sempre : “tu però ci sai pure faellà in iuarata” (tu sai parlare in vivarese). Non tutti
apprezzano il dialetto, anche mamma, che era il motore della casa come tutte le madri di quei tempi, diceva
con un pizzico di ironia “Babbo sta facendo le poesie…”. Lui si astraeva, si allontanava dalla quotidianità
per tuffarcisi nuovamente con tutto il suo sentimento e la sua capacità di osservazione.
La scrittura era il suo amore, oggi si direbbe il suo hobby. Ancora abbiamo i quadernetti dove appuntava le
sue poesie, scritte a penna e in corsivo, però abbiamo voluto farne un libro e un nostro amico paesano, ha
fatto un grande lavoro di qualità, traducendo le poesie in italiano e mantenendo le regole della metrica delle
48
poesie originali. Un lavoro straordinario perché chi vuole, le può leggere molto più facilmente. Il titolo del
libro è: Sòle, rànena e pennecchie che in dialetto significa “Sole, grandine e fiocchi di neve”.
Il libro di poesie in dialetto vivarese del padre di Cecilia, Vittorio Peruzzi
Quelle poesie mi stanno nel cuore, peccato che mio padre non ce le abbia mai fatte leggere, finché era vivo.
Una delle cose che colpiva di più mio padre era la mortalità infantile. Infatti alcune liriche citano la
disperazione di queste famiglie numerose in cui ogni tanto moriva un bambino, soprattutto per la polmonite.
Anche la difterite era una malattia che decimava i bambini, prendeva alla gola… mia madre perse così un
fratellino piccolo, tant’è vero che quando l’ho avuta io, i miei genitori erano disperati! Sono stata ricoverata
per un periodo al Bambino Gesù, però per fortuna ne sono venuta fuori. In dialetto la difterite la chiamavano
“gruppo”, (nome originale crup).
Quando babbo andò in pensione, i primi giorni di maggio papà si trasferiva con mamma a Vivaro e ci stava
fino a ottobre e diceva sempre che alla “pischera” (pischiera, la piazza principale del paese), si sentiva
finalmente bene. Da quella piazza si vede il Monte Velino con la neve, che, quando è meno caldo, da colore
bianco diventa rosa. C’era anche il richiamo dell’acqua, perché vicino c’è il fiume Turano e il piccolo
affluente che in dialetto si chiama “u carecarone”, che significa “va a ricaricare il fiume principale”.
Forse l’aria di Vivaro lo aiutava anche di più nella scrittura.
49
La poesia “‘A pischera”
La poesia “Me stea a sonna’ “
50
A conclusione del nostro laboratorio, le amiche hanno voluto riporre, nel prezioso scrigno
di ricette e ricordi, la ricetta del cuore, quella alla quale sono più affezionate, quella che
torna alla mente con facilità e che ha accompagnato la loro vita come una delle immagini
più significative. E’ la ricetta che ancora propongono in famiglia, ai figli e ai nipoti.
Un pensiero, un profumo, il ricordo più intimo e delicato, la ricetta del cuore è legata
all’autenticità della loro esistenza, carica di saperi e di sapori genuini.
Carmelina: quando vengono a pranzo anche i miei nipoti, mi chiedono i “cicatielli” al sugo. Sono i
cavatelli, un piatto semplice e veloce, fatti con acqua e farina, a mano, non è niente di particolare, ma è il
piatto che raduna tutta la famiglia. Il sugo è la parte più buona: agnello, maiale, vitello e poi si condisce con
tanto parmigiano e pecorino. Per dieci persone, uso un chilo di semola rimacinata e lo impasto con l’acqua.
Taglio tanti rettangolini e con tre dita accartoccio la pasta. Stare insieme con la mia famiglia è sempre un
giorno di festa e i cavatelli sono il piatto che ci fanno sempre compagnia.
Loredana: mia nonna materna Rosina, che era pugliese di Gioia del Colle, faceva il calzone fritto, con
l’impasto della pizza molto sottile, e lo riempiva con capperi, pomodori, acciughe e olive. Poi lo friggeva in
padella. Nonna trascorreva con la mia famiglia, le vacanze a Ladispoli al mare, e l’ultimo giorno di vacanza,
verso il dieci di settembre, era dedicato al calzone fritto. Ne faceva tanti e quelli che avanzavano ce li
portavamo a Roma per mangiarli nei giorni successivi. Un anno accadde che al nostro ritorno a Roma,
andassimo ad aprire la busta dei calzoni fritti e ci trovammo la spazzatura: invece di gettare nel cassonetto
l’immondizia, avevamo buttato i calzoni… Quando faccio il calzone fritto, mi viene sempre da sorridere nel
ricordare nonna Rosina, piccola e tosta, sempre con le mani… in pasta!
51
Cecilia: io non ricordo bene le dosi, ma la mia nonnina Cecilia, faceva le frittelle di San Giuseppe,
meravigliose, con la pasta lievita e l’uvetta sultanina. Gliele vedevo fare e da grande ho provato a rifarle, ma
i palloncini che realizzava lei, non mi venivano, Ancora non esisteva la festa del papà, si festeggiava San
Giuseppe che era anche vacanza a scuola. Non si metteva lo zucchero a velo, ma lo zucchero normale.
Nonna, fino al 1958, ha vissuto con noi, in via Merulana, e quella casa, con un po’ di dispiacere di mamma,
non aveva balconi, però il corridoio era talmente lungo che io e mio fratello ci andavamo in bicicletta. Però
la cucina era grande e ci ritrovavamo tutti là.
Annamaria: io ho cucinato tanto da giovane, ma adesso siamo troppi… Quando ci riuniamo tutti insieme è
veramente una grande fatica: sono tutti bravi ad apparecchiare, però poi si siedono e vogliono mangiare! Per
risparmiare la fatica, facciamo il polentone, la polenta dura, che poi si taglia con il filo. Faccio la polenta
tradizionale nel paiolo di rame, girando con lo spino, che è un bastone robustissimo che mi aveva fatto mio
zio tanti anni fa. Poi la stendo sulla spianatora, su un tavolino a parte vicino al tavolo da pranzo. Si forma
una specie di piramide e con il filo da cucire taglio la polenta a fette. Il sugo, naturalmente è la parte più
buona: spuntature abbrustolite con rosmarino, vino e aceto e salsicce intere. Quando l’aceto e il vino si
consumano, si aggiunge il pomodoro. Si aspetta l’inverno per mangiare insieme la polenta con il filo.
Antonietta: la mia ricetta del cuore è sempre l’ultima che mi suggerisce mia figlia. Lei abita in campagna e
gestisce un bellissimo agriturismo, così quando prepara qualcosa di nuovo, mi telefona per darmi la ricetta: è
come se stessimo subito vicine a sperimentare qualche specialità. Più ricetta del cuore di così! Proprio
stamani mi ha telefonato e mi ha detto: “Mamma, ti devo dire questa ricetta golosa: un bicchiere di latte, un
bicchierino da caffè di olio di semi, frullali insieme e mettilo sul fuoco, fai bollire un pochino fino a farlo
rassodare. Viene fuori la panna da cucina che è una specialità.”. Certo che la provo, la faccio subito!
Bianca: mamma mia non era una gran cuciniera e qualche volta, quando faceva la minestra, s’incollava al
palato, ma come cucinava i rigatoni con la pajata me lo ricordo benissimo. Me lo ricordo perché da
bambina io, soprattutto, mangiavo. Ricordo il colore di quelle budelline di vitello, il profumo del vino che si
asciugava nel tegame e il pomodoro che ribolliva con tutto quell’intingolo goloso; si sentiva un profumo per
casa e chi se lo scorda più?
Marilena: C’è stato un periodo della mia vita in cui non mi sentivo bene, forse ero diventata anoressica.
Mamma, allora, per non farmi affaticare, mi aiutava tanto. A Natale c’era la tradizione di preparare i fritti.
Io ero seduta e guardavo lei in cucina, mentre preparava le fritture: animelle, ricotta, mele, baccalà, le fettine
panate… il suo fritto non era unto, ma croccante e dorato. Io non mi sentivo bene, non ce l’avrei fatta, ma lei
non avrebbe voluto un Natale diverso. Quei fritti si mangiavano per l’intero periodo delle feste e
conservavano lo stesso sapore, come se fossero stati appena tolti dall’olio.
Carla: nella mia “bellicosa” famiglia, mamma e papà si concedevano una tregua in cucina, la domenica
mattina quando preparavano le tagliatelle e a Natale deponevano le “armi” con i ravioli al sugo. Mentre loro
preparavano, io ancora dormivo, perché ero una dormigliona. Prima sistemavano la casa, anche perché papà
era innamorato di quella casa, mentre mamma, che ne aveva cura per tutta la settimana soffriva per
quell’impegno continuo, avrebbe preferito uscire. Li facevano insieme, e, dopo aver steso l’impasto,
tagliavano tanti tondi con un bicchiere. Poi quei cerchietti venivano farciti con il ripieno e chiusi uno ad uno,
schiacciando i bordi con la forchetta. Il ripieno era fatto di carne macinata soffritta e parmigiano. I ravioli
con il sugo erano la firma al loro trattato di pace.
Nilde: ho trascorso molte vacanze estive in montagna, a Longone vicino a Rocca Sinibalda e ad agosto,
quando il paese aveva il massimo della densità popolare, si facevano grandi feste nella piazza principale.
Ricordo che si andava a bussare alle porte per chiedere in prestito le sedie. Le donne giovani facevano le
gare di dolci e poi si metteva un grande barbecue di carne arrosto, dove si cuoceva la roba del posto,
soprattutto il maiale. Una mia cugina per hobby, di fronte a casa mia, teneva un piccolo orto naturale. Il mio
frigorifero era pieno di quel ben di Dio. Poi in serata, tutti a ballare una specie di tarantella, insieme alla
Fantasima, che era una pupazza di carta altissima. Alla fine della festa, si dava fuoco alla Fantasima, e così,
52
finiva la festa, però se ne sarebbe parlato nei giorni successivi. Mi sembrava di aver vissuto dentro una
favola.
Nicolina: Questa ricetta è il ricordo più vivo di ciò che di buono preparava mia madre per il pranzo di
domenica, quando però era festa…Io ero piccolina ma, essendo la più grande di sei figli, ero sicuramente
quella su cui lei poteva contare di più per darle una mano sia in cucina che nelle faccende di casa e di
cucina. Sono i Cavatelli, ovvero gli Gnocchetti di farina L’impasto è soltanto con acqua e farina, infatti
alla cottura risultano molto più duri di quelli di patate. Si prende della farina si mette a fontana sulla
spianatora e poi si aggiunge dell’acqua e un pizzico di sale. S’impasta fino a che questa massa diventi
omogenea e pronta per essere arrotolata con le mani per farne dei rotoli lunghi e sottili, cercando di tenerli
sulla spianatora sempre avvolti in un velo di farina per non farli incollare. Si procede quindi al taglio in
piccole porzioni che si cercheranno di sagomare spingendo il dito anulare sopra ognuna di esse, (da qui il
nome di cavatelli) e si lasceranno riposare per una ventina di minuti. Nel frattempo si avrà preparato un ragù
(sugo con carne macinata) e si metterà a bollire una pentola (piuttosto alta) piena d’acqua. Al bollore si
getteranno delicatamente gli gnocchetti, cercando di distanziarli uno dall’altro.
Appena torneranno a galla, si scoleranno con la schiumarola, e si condiranno in una pirofila, dove sarà stato
versato precedentemente il sugo bollente. Sento già il profumo, voi lo sentite?
Angela: Mio padre, che sapeva cucinare benissimo, faceva spesso durante l’estate, un contorno estivo, da
mangiare anche freddo: fagiolini corallo, zucchine e patate. Si prende una pentola piuttosto larga e bassa e
si mette a soffriggere un po’ d’olio con due o tre spicchi d’aglio schiacciato, e si lascia rosolare. Quindi si
mettono due o tre pomodori a pezzi (meglio dei semplici pelati della lattina perché non hanno la pelle) per
farne un sugo. Poi si aggiungono dei fagiolini corallo in tutta la larghezza della pentola. Si procede quindi a
posizionare delle zucchine tagliate a listarelle e, per finire, delle patate sbucciate tagliate a spicchi piuttosto
grandi.
Tra uno strato e l’altro ci si può mettere qualche piccola scorza di parmigiano (di quelle che ci si ritrova
in frigo perché avanzato e non adatto più ad essere grattugiato) e un bicchiere o due d’acqua,affinché non si
attacchi. Al bollore si abbassa la fiamma, si mette un po’ di sale grosso e si lascia cuocere per circa mezz’ora
a fuoco lento. Quando le patate saranno cotte il piatto sarà pronto. Si lascia un po’ raffreddare ed è
veramente gustoso. Se si gradisce, ci si può aggiungere un po’ di peperoncino. Anche io d’estate è un piatto
che faccio spesso, è buono di sapore e fresco.
Maria G.: La mia è una ricetta semplice, la faceva mia nonna e poi anche mia madre. Ancora oggi, quando
faccio la frittata di patate, i miei nipoti ne vanno ghiotti. Si lessano e si sbucciano le patate e poi si
schiacciano grossolanamente con una forchetta. Nella padella faccio soffriggere olio, aglio e rosmarino
tagliato fino fino e poi si ripassano le patate, dando con la forchetta la forma di frittata. Quando è rosolata da
una parte, si rigira, proprio come una frittata di uova, ma qui le uova non ci stanno proprio! Al massimo si
dà alla fine una spolverata di pecorino, per dargli un po’ più di sapore.
Nonna aveva cinque figli e il mangiare si avvaleva di piatti poveri e nutrienti. Quando faccio la frittata, è
come se rivedessi l’angoletto dove stava mia nonna, con la sua veste nera; ancora non esistevano i fornelli,
c’era il camino e con il paiolo per fare le minestre; quando faceva la frittata di patate poggiava la padellona
sul treppiede, dentro al camino. Mentre rigiro la mia frittata, rivivo l’emozione di quell’angoletto.
Consilia: mio padre era cuoco, non aveva un ristorante ma un bel locale e cucinava per le feste, i
banchetti… Però, quando cucinava solo per noi, faceva benissimo la faraona. Faceva a pezzi la faraona, la
condiva con olio, sale e poco peperoncino e la lasciava marinare. Poi accendeva la graticola grande sopra le
braci di legna e la faceva rosolare. A parte preparava una salsina con pomodoro e olio, una salsina lenta e
continuamente spennellava la faraona fino a quando era cotta. Alla faraona accompagnava i broccoletti cotti
a crudo, che avevano i gambi sottili come spaghetti. Era un piatto tutto nostro, che dedicava solo alla nostra
famiglia.
FINE
53
Ringraziamenti
Ringrazio mio cugino Raoul Milani, per avermi permesso di utilizzare alcuni tratti del diario di guerra di
suo padre, Alberto Milani, e di avermi dato preziosi suggerimenti e indicazioni su come utilizzarli.
Ringrazio le Edizioni Del Baldo di Castelnuovo del Garda (VR) per avermi liberamente consentito l’uso dei
proverbi estratti dal loro libro “Proverbi e modi di dire contadini”, come didascalia alle numerose
illustrazioni, presenti in questo documento.
Ringrazio soprattutto le amiche del Centro Diurno della Casa di Accoglienza Televita-San Frumenzio
che hanno partecipato al Laboratorio di Autobiografia dandomi fiducia e sostenendo il mio operato. Senza di
loro non sarebbe stato possibile realizzare questo prezioso cofanetto di ricette e ricordi e per usare
un’espressione di fede, a loro molto cara…“che siano tutte benedette !”.
Settembre 2015
54
L’ANTICO DESCO RACCONTA…
INDICE
Prefazione di Anna Pisani
pag. 2
Presentazione di Loredana Simonetti
pag. 3
Luoghi di provenienza
pag. 5
I primi passi del laboratorio
pag. 7
Da “Note di internamento” di Alberto Milani
pag. 8
Rape bianche, rinaticce - MARIA G. racconta
Sorella Miseria
La fatica della famiglia - CARLA racconta
Pomodoro, cuore rosso generoso
L’arca, casa del pane
La benedizione del pane - CARMELINA racconta
L’ultimo pane - CONSILIA racconta
Pane ammullu
Carezza di latte
Il desco natalizio
Abiti e corredo
Scegliere: un atto di ribellione -NICOLINA racconta
Al mercato degli ambulanti
Baccalà, unico pesce
Il profumo dei ricordi
La mia infanzia a Calvi nell’Umbria - ANGELA racconta
Tra i ricordi di Silvi Marina - MARIA S. racconta
E le patate?
Del maiale non si butta niente!
L’estasi Pasquale - CARLA racconta
La festa della mietitura – MARIA G. racconta
Mosto e vino sapore sopraffino
La cucina, regno della casa – CECILIA racconta
Le ricette del cuore
pag. 10
pag. 11
pag. 13
pag. 15
pag. 16
pag. 18
pag. 20
pag. 21
pag. 22
pag. 24
pag. 27
pag. 29
pag. 31
pag. 33
pag. 34
pag. 36
pag. 38
pag. 40
pag. 41
pag. 43
pag. 44
pag. 45
pag. 47
pag. 50
Ringraziamenti
Indice
pag. 53
pag. 54
55
La composizione di un testo è un’opera delicata e di estrema precisione. Se il lettore dovesse ravvisare qualche refuso, è pregato
di segnalarlo all’associazione di Volontariato “RaccontarsiRaccontando”- Via Alessandria 63 - 00198 Roma [email protected] - cell 328 9559641
56