Nr 60 Settembre 2009

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Nr 60 Settembre 2009
ORGANO DELLA
PASTORALE SANITARIA
DELLA DIOCESI
DI ROMA
POSTE ITALIANE S.P.A.
SPEDIZIONE ABB. POSTALE
DL 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46)
ART. 1 COMMA 2 DCB ROMA
N. 60 settembre 2009
«SI APRIRONO LORO
GLI OCCHI,
LO RICONOBBERO
E LO ANNUNZIARONO»
APPARTENENZA ECCLESIALE
E CORRESPONSABILITÀ PASTORALE
N. 60 settembre 2009
SOMMARIO
Una gran bella sfida
Organo
della Pastorale
Sanitaria
della Diocesi
di Roma
Direzione, Redazione
e Amministrazione
Vicariato di Roma
P.zza S. Giovanni in Laterano, 6/a
00184 Roma
Tel. 06/69886227 - Fax 06/69886182
E-mail:
[email protected]
Sito: www.vicariatusurbis.org/sanita
Direttore:
Armando Brambilla
Direttore Responsabile:
Angelo Zema
PAG
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La realtà del male
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Donna Maria Benedetta Frey
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Giobbe
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Non rinunciare
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Il centro di aiuto alla vita Eur - S. Eugenio
compie 10 anni - Ecco la storia (2ª parte)
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I diversamente abili
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Testimonianza di un volontario
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Volontaria vincenziana
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Alla Casa di Riposo “Roma 2”
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Anno Sacerdotale
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Inserto
Il Sacerdozio, servizio alla parola e all’uomo
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Preghiera per i sacerdoti
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Un brano del discorso di Papa Benedetto XVI
Tutti ci crediamo in diritto di giudicarLo
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‘na vocazione immolata
25 anni della “Salvifici Doloris”
26
Fede, carità e anziani malati (2ª parte)
27
Editore:
Diocesi di Roma
Piazza S. Giovanni in Laterano, 6/a
00184 Roma
Tel. 06/69886227 - FAX 06/69886182
Il credo dei chiamati
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Ottobre mese del Santo Rosario
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Novembre preghiera per i defunti
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Versamenti sul conto corrente postale
n. 31232002
Specificando la causale:
“Pastorale Sanitaria 54-5-6”
L’inganno terminologico
della pillola del giorno dopo
34
Caritas in Veritate
37
L’ospedale per i militari
38
Coordinamento Redazionale:
Dr. Sergio Mancinelli
Comitato di Redazione:
Don Sergio Mangiavacchi,
Padre Carmelo Vitrugno,
Elide Rosati
Maria Adelaide Fioravanti
Amministrazione:
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Periodico Trimestrale Registrato
al Tribunale di Roma
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Ordinario:
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Finito di stampare il 21 settembre 2009
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Q
uello che ci attende il prossimo anno pastorale è una «gran bella sfida», in quanto saremo impegnati nel lavoro di verifica dei piani pastorali degli ultimi anni, con una particolare attenzione all’Eucaristia celebrata nel
giorno del Signore, e alla carità.
Il titolo che è stato scelto, «Si aprirono loro gli occhi, lo riconobbero e lo
annunziarono», si rifà al brano dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), e
sarà «una icona» per ciascuno e per tutta la comunità che cammina lungo la
strada della storia. Come sottotitolo vi
è «Appartenenza ecclesiale e Corresponsabilità pastorale», che è l’obiettivo di fondo a cui la verifica dovrebbe
tendere, al fine di rafforzare il senso di
appartenenza di ogni battezzato alla comunità ecclesiale ed intensificare la corresponsabilità ministeriale e di evangelizzazione.
Ripercorrendo le tappe del cammino pastorale degli ultimi anni, la verifica mira a farci comprendere meglio le finalità
che hanno ispirato i vari programmi, gli
obiettivi che c’eravamo prefissi e in che
misura abbiamo progredito nella nostra
pastorale d’ambiente a contatto con i malati, i loro familiari, il personale sanitario, il volontariato e quanti altri gravitano attorno al mondo sanitario.
La verifica non vuole essere un giudi-
zio dell’azione pastorale, ma una bella
occasione per guardare la realtà, valutare con spirito costruttivo ciò che di positivo abbiamo realizzato e ciò che è ancora mancante, per rafforzare l’esperienza comunionale ed evangelizzatrice che il Signore ci ha affidato.
In questo cammino di verifica ci è accanto il Signore che ci invita a leggere
la storia, i suoi fermenti e i suoi bisogni
alla luce della buona novella, e ci incoraggia a giungere verso la locanda dove spezzerà il pane per noi per farsi riconoscere come il risorto.
UNA PICCOLA RIVOLUZIONE
Per realizzare questa verifica nel modo
migliore, nell’ottica dell’appartenenza
al medesimo ambiente operativo, e della corresponsabilità, gli incontri mensili di formazione che si tenevano l’ultimo giovedì per i cappellani, l’ultimo venerdì per i laici e l’ultima domenica per
le suore, saranno sostituiti da un incontro unitario di ascolto-verifica che si
terrà l’ultima domenica del mese dalle ore 16 alle ore 18 presso il Seminario Maggiore. Così pure per i ritiri spirituali di Avvento e Quaresima che si
terranno alla domenica pomeriggio, e
la verifica finale.
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NELLE STRUTTURE SANITARIE
Il metodo diocesano dovrà essere riportato nelle varie strutture, affinché la
verifica sia il frutto di un confronto che
scaturisce dalla base tra le varie realtà
operanti nel mondo sanitario. Per aiutare abbiamo preparato un VADEMECUM, che, oltre a presentare alcuni brani del discorso che il Santo Padre Benedetto XVI ha tenuto al convegno di
fine maggio in San Giovanni in Laterano, presenta il riassunto del cammino compiuto in questi dieci anni, dalla
missione cittadina ad oggi, e le domande che sono emerse dal Convegno
e che vengono proposte a tutta la Diocesi.
La pluralità delle domande non tendono a sviscerare tutti gli aspetti di ciascun argomento, ma a favorire l’esame
dei diversi punti di osservazione, cercando di cogliere l’oggetto essenziale
nella prospettiva di un orizzonte più largo e di programmi futuri concreti.
A tutti coloro che si sentono corresponsabili nella chiesa è affidato questo compito di lettura dell’esistente per poter
guardare meglio in avanti.
La consapevolezza e l’esercizio della
ministerialità che ognuno possiede in
forza del battesimo, offrirà un contributo essenziale al cammino e alla crescita del popolo di Dio.
Ci assista in tutto questo Maria, Salute
degli infermi e Madre della Chiesa. Lei
che, piena dello Spirito Santo, è stata la
«sapiente» per eccellenza, ottenga il dono della sapienza per tutti noi, per il nostro lavoro di verifica e di crescita nella corresponsabilità e nella consapevolezza di essere un corpo solo, dove Cristo è il capo e noi siamo le sue membra.
Prendendo in seria considerazione l’impegno della verifica, nell’ottica dell’appartenenza e della corresponsabilità, non ci è sembrato opportuno che i
cappellani la facessero da soli, come pure le suore e i laici, perché essendo un
unico popolo di Dio, operatori inseriti
nell’unica comunità, al servizio dell’unica missione evangelizzatrice, operanti nel medesimo mondo sanitario, siamo chiamati a vivere l’unità non certamente nell’uniformità, ma nella medesima appartenenza al Signore e alla sua
Chiesa. È sicuramente una piccola rivoluzione dato che da almeno quindici
anni si vivevano gli incontri in modo separato. Le difficoltà non mancheranno,
ma se accoglieremo questa possibilità
come un dono del Signore, troveremo
il modo di superare sicuramente anche
le difficoltà più gravi.
Sarà importante accoglierci in spirito di
comunione e di dono reciproco, con la
volontà di ascoltare ciò che lo Spirito
Santo ci vorrà dire attraverso i nostri fratelli e le nostre sorelle e di confrontarci con sincero desiderio di progredire
nella via della santità e nella migliore
volontà di testimoniare il Signore, medico dei corpi e delle anime, ai malati e
a tutto il mondo sanitario.
Il cammino è sicuramente impegnativo,
ma anche stimolante e potrà dare tanti
frutti insperati.
Armando Brambilla
Vescovo Ausiliare di Roma
Delegato per la Pastorale Sanitaria
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L
L realta’ del male
a realtà del male e quella del dolore, e in uno scacco della ragione, per altri uno
particolare del dolore innocente, hanno scacco di Dio. Per Búchner (La morte di
costituito da sempre e continuano a co- Danton) la sofferenza è la «roccia delstituire fonte di grandi interrogativi, ol- l’ateismo». Ne La peste di Camus il dottre che di tremende e anche luminose tor Rieux risponde al padre Paneloux:
esperienze. Nelle ricerche dei filosofi, «Mi rifiuterò fino alla morte di amanelle opere teologiche di ogni tempo, e re questa creazione dove i bambini sopiù ancora nel teatro, nel cinema e nel- no torturati». Dostoevskij, ne I fratelli
l’arte in generale, queste esperienze ri- Karamazov, mette in bocca ad Ivan quetornano continuamente, anzi, ne sono ste parole: «Che ne faremo allora dei
quasi il tema prevalente. Prima fra tutte, bambini [...]? Se tutti devono soffrire
per imponenza e profondità, la tragedia per comprare con le loro sofferenze
greca che si è chiesta se esista la libertà un’armonia che duri eternamente, codell’uomo o se egli sia un condannato al sa c’entrano però i bambini [...]? Io
male. «Se gli uominon voglio nessuna
ni del nostro tempo
armonia, per amoavessero il coraggio
re dell’umanità non
di leggere le tragela voglio [...]. Non è
die greche – afferma
che io non accetti
Moeller – vi troveDio, Aliosa; soltanrebbero immagini
to, gli restituisco riacutissime della lospettosamente il biro “condizione”; si
glietto». Da una parsentirebbero meno
te abbiamo dunque
soli. Vedrebbero
la tentazione del rache “la sorte dei
zionalismo, che non
mortali è di soffririesce ad accettare se
re”». Non posso asnon ciò che può misolutamente pensare
surare. Il male, il dodi affrontare, neppu- La sofferenza è un mistero che non si può lore, in particolare
re alla superficie, la penetrare fino in fondo.
quello dei piccoli,
massa delle questiosembra far scoppiani che questi temi suscitano. Mi ridurrò re tutte le categorie concettuali in cui l’uoa parlare soltanto della realtà del dolore mo ha cercato di leggere la realtà. D’alinnocente, per altro la più scandalosa ed tra parte, Dostoevskij combatte il fideiapparentemente senza risposte. La realtà smo di chi vorrebbe giustificare il dolodel male ha posto in discussione fin dal- re in nome di una vita futura, di un ordile origini l’esistenza di Dio. Se esiste Dio, ne futuro, di una giustizia futura. Da queche è bene, che posto può avere il male? sto punto di vista combatteva senza saE soprattutto: da dove nasce, da dove vie- perlo quello che sarebbe stato il comune, chi gli concede lo spazio di azione, nismo. Ma è anche questa la visione cricosì evidente sotto i nostri occhi? Per al- stiana del male? Anche questa la rispotri, invece, è proprio l’esistenza del ma- sta cristiana al problema del dolore inle e del dolore a rimandare all’esistenza nocente?
di Dio, ad una giustizia oltre la vita sen- Accostandomi a percorrere, seppure breza della quale tutto sarebbe soltanto in- vemente, questo itinerario, vorrei qui
finitamente ingiusto. Il dolore innocen- fare alcune precisazioni. Innanzitutto
te rappresenterebbe perciò, per taluni, non possiamo identificare l’innocenza
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accolto quotidianamente da noi uomini: da Adamo fino ad oggi, entra in azione per la suggestività menzognera della sua proposta.
Come ho detto sopra, queste sono soltanto delle piste che ci permettono di
avvicinarci al mistero del dolore innocente. Ve ne è un’altra su cui don Gnoc-
di Gesù a quella degli uomini, per quanto essi siano dei bambini puri di cuore.
Ognuno di noi non è mai completamente
puro né completamente innocente, perlomeno della stessa purezza ed innocenza di Gesù. In secondo luogo dobbiamo notare che molte volte il dolore
dei piccoli è causato da un uso bestiale
della libertà da parte dei grandi. Guerre, stupri, violenze, abbandoni, sono tutte terribili sofferenze inferte ai piccoli
dalla libertà malvagia degli uomini. È
chiaro che qui Dio non c’entra. C’entriamo noi e il nostro animo depravato.
Un’altra considerazione: noi viviamo in
un mondo imperfetto, e tale imperfezione è una conseguenza della nostra libertà. Dio ha creato un mondo ordinato e buono, con sapienza ed amore, ma
imperfetto e incompiuto, in statu viae,
proprio perché ha voluto rispettare la
nostra struttura di uomini, simili a Lui,
cioè liberi. L’esistenza del male è in connessione con l’esistenza della libertà. Il
Catechismo (n. 314) dice: «Solo alla fine, quando avrà termine la nostra conoscenza imperfetta, e vedremo Dio
faccia a faccia, conosceremo pienamente le vie lungo le quali anche attraverso i drammi del male e del peccato Dio avrà condotto la sua crea-
Nella malattia siamo provati ma non
sconfitti.
chi ha tanto insistito. Non esistono gli
uomini separati fra di loro; l’umanità è
un’unità vivente, «solidamente stretta
in un solo ed identico destino, compartecipe del bene e del male di ciascuno dei suoi membri [...]; come particella di un grande corpo sociale, dove tutto il bene e tutto il male “entrano in circolo”, anche il bambino espia
la propria quota, parte degli errori e
delle colpe personali commesse da tutti gli uomini [...]. Nel corpo sociale, se
c’è una circolazione “arteriosa” della verità e del bene, di cui tutti gli uomini inconsciamente e spesso immeritatamente beneficiano, c’è anche
una circolazione “venosa” dell’errore e del male, alla quale nessuno, per
innocente che sia, può pretendere di
sottrarsi» (Pedagogia del dolore innocente). Dobbiamo procedere con molta
cautela, senza assolutamente pretendere di dare risposte intellettualisticamente
compiute. Sarà meglio invece guardare
a delle esperienze, e fra tutte scelgo
quella di Giobbe, un misterioso uomo
estraneo al popolo di Israele, ma la cui
vicenda è entrata attraverso i libri sa-
La sofferenza può diventare partecipazione
alla sofferenza di Cristo.
zione fino al riposo di quel sabato definitivo, in vista del quale ha creato il
cielo e la terra». Dobbiamo infine tenere presente che oltre a Dio e all’uomo vi è un terzo attore della storia: il
Maligno. Il Maligno è stato vinto da Dio,
ma è ancora attivo. In particolare viene
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pienziali nella nostra Bibbia. E poi me il Servo sofferente, ha assunto su di
un’altra misteriosa persona di cui par- sé la sofferenza degli uomini. Cristo ha
lano alcuni capitoli del libro di Isaia, vissuto nella sua vita la fatica, l’ostilità,
identificata con il nome di «servo sof- la solitudine ed infine appare realmenferente». Per taluni indica il popolo stes- te come l’agnello che porta su di sé le
so, per intero o in un suo resto; per al- sofferenze di tutti. Questo accettare su
tri, invece, un vero e proprio individuo. di sé le sofferenze ed il male di tutti per
La tradizione cristiana ha letto in Giob- obbedienza al Padre che glielo ha chiebe e nel Servo sofferente due strade fon- sto, cioè per amore degli uomini, costidamentali per accostarsi alla realtà del- tuisce l’opera della salvezza. Isaia scrila passione di Cristo e per leggere in es- ve: «Il Signore ha fatto ricadere su di
sa la sofferenza innocente di milioni di Lui l’iniquità di noi tutti» (Is 53,6).
uomini. Attraverso questi esempi en- Benché innocente, si addossa le soffetriamo in un punto di vista più alto,
renze di tutti gli uomini. Scrive Gioquello di Dio, «che tutti chiavanni Paolo II: «Nella sua sofferenza
ma alla vita e, se pur attrai peccati vengono cancellati proprio
verso il dolore e la morte,
perché Egli solo come Figlio unial suo Regno eterno
genito poté prenderli su di sé, asdi amore e di pace.
sumerli con quell’amore verso il
Felice la persona
Padre che supera il male di ogni pecche riesce a far ricato» (Salvifici doloris, 17). Il Redensplendere la luce di
tore ha sofferto al nostro posto e per noi,
Dio nella povertà di
ma ci chiama misteriosamente a paruna vita sofferta o
tecipare a quella sofferenza. Sta qui
diminuita!» (Giola misteriosità inarvanni Paolo II,
rivabile della vocaMessaggio per la
zione alla sofferenza.
giornata mondiale
Ciascuno è chiamato
a partecipare alla
del malato 1994).
sofferenza di Gesù e
Giobbe riceve puquindi alla sua opera
nizioni terribili. È
Nessuna sofferenza va perduta.
redentiva.
consapevole di
non averle meritate. Sa benissimo che E per chi non ha fede, per chi non cononon c’è in lui un rapporto fra sofferen- sce Cristo? Possiamo dire almeno queza e peccato. È questo uno dei principi sto: che nessuna sofferenza è senza peche Gesù affermerà fortemente. Se è ve- so, che nessuna offerta va perduta. Atro che la causa del male è il peccato, è traverso la sua sofferenza ciascun uomo
anche vero che non esiste mai una pro- è chiamato ad amare tutti gli altri uomiporzione fra l’uno e l’altro. La soffe- ni e Dio stesso, secondo una sapienza che
renza è un mistero che l’uomo non può noi non possediamo interamente, ma che
penetrare fino in fondo con la sua in- non contraddice le aperture più alte deltelligenza. Non dobbiamo quindi vede- la ragione. Cristo non spiega in astratto
re nella sofferenza una punizione: Giob- le ragioni della sofferenza, ma la vive.
be non è stato punito, perché non vi era- Nella sua Lettera sul dolore Paul Clauno le basi per infliggergli una pena. È del ha scritto: «Il dolore è una presenstato provato. Il libro di Giobbe si fer- za ed esige perciò la nostra presenza
ma qui, mostra che la sofferenza colpi- [...]. Il Figlio di Dio non è venuto a disce l’innocente e mostra il perché della struggere la sofferenza, ma a soffrire
sofferenza come prova. Attraverso la let- con noi. Non è venuto a distruggere la
tura dei canti del Servo troviamo delle Croce, ma a distendervisi sopra».
indicazioni più importanti. Il Cristo, codon Massimo Camisasca
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Testimone della sofferenza per amore
Donna Maria Benedetta Frey
ne, del discernimento degli spiriti. L’apostolato era diretto ai peccatori, ai miscredenti e alle famiglie in crisi e ai malati: tutti affidava a Gesù Bambino che
aveva di fronte al suo letto. Da lei si recarono personaggi illustri come il cardinal Marry del Val, il servo di Dio Pietro
La Fontaine viterbese e patriarca di Venezia, i beati Nascimbeni e Bartolo Longo, Mons. Bressan (segretario di Pio X),
e don Luigi Orione con il quale nascerà
una profonda amicizia e al quale profetizzò che avrebbe fondato un ordine femminile di suore. A don Orione la Frey
consegnò un’immagine di Gesù Bambino della quale il futuro santo si serviva
per ottenere grazie e conversioni. Per il
50° anniversario della malattia, il 10 Novembre 1911, il papa Pio X con scritto
autografo fece pervenire alla monaca il
suo ringraziamento, la sua stima e benedizione. Due anni dopo il 10 Maggio
1913 poteva salire in cielo all’età di 77
anni e con i suoi 52 anni di immobilità
nel letto. Il 10 dicembre 1927 il corpo
della Serva di Dio fu traslato dal cimitero al monastero, in una cappellina con
esposto il Bambinello Gesù a cui era molto devota e a tutti raccomandava.
La Frey ha vissuto con una fede straordinaria, fortezza e umiltà affrontando e
offrendo questa chiamata di Dio a una
vita di sofferenza. Suor Maria Benedetta
è attuale ed esemplare perché:
• ha saputo dare senso alla vita, alla sofferenza, al dolore, perché era innamorata fortemente di Cristo;
• nonostante l’immobilità, è stata capace di creare un grande movimento:
di preghiera, di carità e di relazioni;
• sempre di buon umore e sorridente;
• per la virtù della fortezza che ha eser-
P
enelope nacque a Roma il 6 marzo 1836
da Luigi e Maria Giannotti e fu battezzata nella parrocchia di S. Andrea delle
Fratte. Una fanciullezza che scorre tra lo
studio, il gioco, l’hobby per la musica e
il canto. Alla formazione culturale univa quella religiosa facendo presagire segni di vocazione per la vita di clausura.
Fu indirizzata a Viterbo nel Monastero
della Visitazione, prese l’abito monastico assumendo il nome di Suor M. Benedetta Giuseppina. Il 2 luglio 1858 si
consacrò solennemente. Nel novembre
del 1861 il Signore bussò nel suo cuore,
era la follia della Croce che prepotentemente faceva irruzione nella sua vita a
25 anni. Fu colpita da paralisi a tutta la
parte sinistra del corpo con incidenza sulla spina dorsale. Disse di lei San Giovanni Bosco: «Quella monaca malata
di Viterbo si porti con pazienza la sua
malattia perché sarà un gran bene per
l’anima sua e un gran vantaggio per
la comunità e per le anime».
Non poteva poggiare il capo sui guanciali a causa di acuti dolori, né poteva tenerlo eretto perché le ricadeva inerte sul
petto con pericolo di soffocamento, perciò le si doveva sostenere la fronte con
cordicelle e bende. A tutto questo si aggiunse per via, gli inevitabili malanni causati dalla lunga degenza a letto, le piaghe da decubito, le bronchiti e le polmoniti. Diceva spesso: «In tutto sia fatta la volontà Santissima di Dio il quale
tutto permette per il bene nostro spirituale». La sua attività la rivolse nel consigliare, nel consolare e scriveva e riceveva molte lettere. Aveva i doni della consolazione, della profezia, della guarigio8
citato. Oggi ci si domanda: quanta fragilità, quanti pensieri deboli, quanto
pessimismo, indifferenza! Tutto ciò fa
pensare che si ha più paura di vivere
che di morire;
• per la consolazione con cui ha consolato i disperati, i bisognosi;
• ha amato e si è offerta totalmente, si
è donata e si è impegnata a tal punto
da essere disposta a venir ferita nell’intimo di se stessa. Una persona che
ha saputo trasformare i propri limiti
e sofferenze in una fonte di guarigione per gli altri, con la grazia divina;
• non ha scelto l’eutanasia, ma ha preferito seguire la Croce;
Per il cristiano il dolore è trasformato, è
finalizzato alla salvezza. Viene pregata
per i malati gravi, per
coloro che hanno difficoltà a procreare un
figlio e per la riconciliazione tra persone. È la madrina dei
sacerdoti e dei seminaristi.
La lotta contro il
male al fianco di Dio
enché, in senso classico, la preghiera sia una domanda, un rinB
graziamento o una lode, si può sostenere che il Libro di Giobbe, nel quale
il personaggio di Giobbe intenta un vero e proprio processo a Dio, è anche
una preghiera, una preghiera nella sofferenza. È appassionante studiarla, perché essa approda a un reale incontro
con Dio, del quale la teologia cristiana forse non ha tenuto conto a sufficienza finora.
La sofferenza di Giobbe è rappresentativa di
tutte le forme conosciute di
sofferenza umana: dolore fisico, malattia incurabile, angoscia, abbandono,
persecuzione, sino alla pazzia, alla lacerazione completa della persona e
dunque all’impossibilità di affrontare
serenamente la prova.
Tale inferno è raddoppiato dalla vanità
dei rimedi che i tre amici giunti a visitare Giobbe – Elifaz, Bildad e Zofar –
gli propongono. Gli espongono ciò che
è stata definita la «morale della retribuzione»: coloro che rispettano la Legge sono felici, quanti invece la trasgrediscono subiscono il male a sconto dei
loro errori. Se Giobbe soffre è dunque
perché ha peccato. Deve soltanto pentirsi e forse Dio lo guarirà. Ma Giobbe rifiuta questo ragionamento punto su punto. Conosce la Legge quanto i suoi amici e sa di essere innocente delle colpe
di cui viene accusato. Capisce che gli
argomenti degli amici non solo sono
falsi, sono anche idolatrici. Perché la
morale della retribuzione tende ad assimilare Dio alla Legge e la morale a
una sorta di tecnica. Il Dio giustiziere
Giobbe
Don Gianluca Scrimieri
(La nuova biografia, con le virtù della
fede e della speranza, è edita dal Centro Volontari della Sofferenza «Suor M.
Benedetta Frey - Testimone della sofferenza per Amore», con la prefazione del Segretario del Pontificio Consiglio per la pastorale della salute Mons.
José L. Redrado, O.H.
Il postulatore è don Armando Aufiero
del C.V.S.).
Centro Volontari della Sofferenza
9
fa chiaramente parte di tale progetto.
Ben presto, Giobbe concepisce l’idea
che, se il male gli è stato ingiustamente mandato, è esattamente per farlo uscire dalla certezza della morale di retribuzione, perché capisca che la fede dogmatica in questo è idolatria, per fargli
scoprire il vero volto di Dio. L’eccesso
del male è, in un certo senso, una teofania, un incontro di Dio.
Se il male viene da Dio, se è quindi una
«parola di Dio», che cosa significa questa parola? Che cosa attende Dio dall’uomo? Giobbe ha l’intuizione che
quanto Dio si aspetta è che Giobbe si
impegni in una lotta incondizionata contro il male e che si unisca intimamente
a Lui in questa lotta. Giobbe è certo che,
se si lancia con tutto il cuore e con tutta l’anima nel combattimento contro il
male, Dio l’accoglierà nel suo seno.
La domanda non è più dunque di sapere
se Giobbe ha peccato in passato – Giobbe del resto finisce per ammettere che ha
peccato – ma di sapere ciò che farà adesso e nel resto della sua vita, se aiuterà
Dio a lottare contro il male, a trasformare il mondo. Perché sembra a Giobbe che
Dio soffra, che abbia bisogno degli uomini per completare la sua Creazione.
Nell’attimo stesso di questa intuizione,
egli è colto da una speranza senza limiti. Dal momento che Dio è il Creatore,
nulla gli è impossibile, la morte non è un
ostacolo per Lui. Da cui i famosi versetti: «Io so che il mio Difensore è vivo e
che io vedrò Dio con la mia carne».
Giobbe scopre contemporaneamente la
fede, la carità e la speranza.
Segue l’ultima pista da esplorare. Nel
seno stesso del libro dell’Antico Testamento che è «Giobbe», si profila il volto di Cristo.
Perché che cos’è il Cristo, se non esattamente un Dio che soffre, che ha pianto per la morte di Lazzaro, che si è creduto abbandonato sulla croce? E che si
degli amici è il garante dell’ordine del
mondo, è soltanto un altro nome del mondo. Forse che Dio non è questo e basta?
La verità è che il male subìto da Giobbe non può essere integrato in alcun pensiero tecnico. Esso è il non integrabile
per eccellenza. È in eccesso, parola che
non designa una particolare intensità del
male, ma la sproporzione tra il male subìto e il male meritato. Tale eccesso si ritrova dappertutto, anche fuori dal caso
di Giobbe. In realtà, tutti sanno che il
mondo è folle. Perché, ovunque, i cattivi prosperano, perché i buoni ne sono
vittime, perché esistono tante sofferenze, inspiegabili e senza rimedio, nel mondo? E chi è Dio per ammetterlo? In ogni
caso, Egli non è colui che si pensa, il
Dio-Legge dei saggi e degli esperti.
Giobbe si convince presto che la follia del
mondo rivela un aldilà del mondo. È questo «altro» che ha intenzionalmente inviato il male a Giobbe. Lo ha cercato –
lui, Giobbe – come L’Angelo ha cercato
Giacobbe al guado del fiume Jabbok.
Giobbe non soffre per caso, semplicemente per le leggi della natura. Perché
queste leggi possono essere crudeli, ma
sono neutre e cieche, dunque con un po’
d’abilità e di fortuna si può loro sfuggire.
Giobbe invece è manifestamente torturato da qualcuno che gli vuole far male.
Di qui la straordinaria meditazione-preghiera che si stende lungo tutto il libro,
uno dei più lunghi della Bibbia, nel quale Giobbe si domanda qual è il messaggio che Dio ha voluto fargli capire inviandogli il male. Anzitutto, egli prende coscienza di essere stato creato. Perché Dio avrebbe potuto agire in modo
di non farlo nascere, di «sopprimere
dal calendario la notte in cui fu concepito». Invece ha voluto che Giobbe
nascesse e subisse la prova che sta subendo. Dunque Egli si interessa in modo speciale a lui, e creandolo aveva un
progetto. La prova che Giobbe subisce
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offre come Difensore dell’umanità? Come il Dio di Giobbe, Cristo rifiuta di giudicare. A coloro che vogliono lapidare
la donna adultera dice: «Colui che è senza peccato, scagli la prima pietra», e
alla donna: «Neanch’io ti condanno.
Va’ e non peccare più» (Gv 8, 1-11).
Ciò che conta dunque, per Cristo, è la
direzione che essa darà d’ora in poi alla sua vita. È la stessa cosa rivelata a
Giobbe. In fondo, come il Difensore che
promette a Giobbe un’eterna felicità, Cristo promette il regno di Dio a coloro che
obbediscono alla nuova giustizia esposta nel Discorso della Montagna, che è
il contrario della giustizia
contabile dei tre amici di
Giobbe. E persino, più
precisamente, promette il
Paradiso al buon ladrone
crocifisso al suo fianco,
come il difensore di Giobbe lo promette a Giobbe,
lui pure crocifisso.
Perciò la conclusione del
libro di Giobbe è davvero
uno dei punti salienti in cui
si realizza la rivoluzione
etica ed escatologica della Bibbia. Una rivoluzione etica, perché insegna a
Giobbe che occorre lottare senza quartiere contro il male, che lì sta la vera giustizia. Una rivoluzione escatologica, perché voler lottare contro il male nel mondo ha senso soltanto se si pensa che il futuro può essere diverso dal passato, solo se si spera ardentemente nella venuta
del Regno. La «preghiera nella sofferenza» di Giobbe, opera di un autore particolarmente ispirato del V secolo a. C.,
costituisce dunque un annuncio del Vangelo che meriterebbe di essere letto più
spesso dai cristiani.
Quando le cose vanno male,
come spesso accade,
quando la tua strada sembra tutta
in salita,
quando i fondi sono pochi e i debiti
molti, e volevi sorridere, ma hai
dovuto sospirare,
quando le responsabilità ti opprimono,
fermati un attimo, se devi,
ma NON RINUNCIARE.
La vita è strana,
con i suoi cambiamenti e le sue svolte,
come ognuno di noi ha dovuto imparare
e spesso si ha un fallimento,
quando sarebbe bastato avere costanza
per vincere,
NON RINUNCIARE,
anche se sembra che tutto sia fermo,
potresti vincere al prossimo colpo.
Spesso la meta è più vicina
di quanto non sembri ad un uomo che
lotta.
Spesso il lottatore si è arreso
quando avrebbe potuto ottenere
la coppa del vincitore.
E troppo tardi si è accorto, al calare
della notte,
quanto era vicino alla corona d'oro.
Il successo è l’insuccesso rovesciato,
la tenda argentea delle nubi del dubbio,
e non puoi mai accorgerti di quanto sia
vicino,
potrebbe esserlo
proprio quando sembra tanto lontano.
Quindi continua a lottare
quando sei colpito più duramente,
è quando tutto sembra perduto che
NON DEVI RINUNCIARE
Philippe Nemo
(da Avvenire del maggio 2009)
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Consiglio direttivo, dell'assemblea dei
soci e di tutte quelle funzioni gestionali
ed amministrative comuni a tutte le Associazioni di volontariato.
Parlo di avventura, perché in cassa alla
data del mio incarico, c'erano soltanto Lire 500.000 però con un affitto annuale,
pagato, pure di Lire 500.000. Quindi dovetti cercare i fondi per la sede e grazie
ad alcune mie conoscenze ebbi la fortuna di poter ottenere un contributo di
Lit.12.000.000 dalla Fondazione della
Banca di Roma, con il quale si eseguirono i lavori di ristrutturazione e l'arredamento compresa la strumentazione informatica necessaria per la gestione amministrativa. Le altre entrate erano costituite dalle quote sociali di 25.000 lire annue
e i soci erano circa 48 e dalle indennità
una tantum pari a lire 200.000 che cominciarono ad arrivare, sempre dai soci
II parte: anni 2000-2008
periodo in cui ho retto la presidenza
del CAV inizia proprio nel giugno
2000. Però prima c'è stata una fase
durante la quale assieme a don Nicola,
cappellano dell’Ospedale S. Eugenio,
presi confidenza con le tematiche tipiche di una Associazione collegata al
Movimento per la Vita Italiano.
Il tutto è iniziato a seguito di un colloquio con una amica, la Sig.ra Maria Grazia Astolfi, membro del Consiglio Pastorale, che su incarico del parroco, don
Mario, mi riferì il desiderio che mi occupassi di questa iniziativa. In effetti io
ero a conoscenza di che cosa trattasse
l'argomento pro life perché, purtroppo
a causa del mio lavoro alla Asl (Sistema Informativo) compilavo, fra l'altro,
i riepiloghi mensili dei nati nell'ospe-
Il
Il Centro di aiuto alla vita Eur S. Eugenio
compie 10 anni - Ecco la storia
Poi seguirono gli iter burocratici per ottenere la registrazione del CAV nel Registro Regionale delle Associazioni di
Volontariato per usufruire di tutte le agevolazioni previste dalla normativa fiscale e per fornire anche ai nostri sostenitori e benefattori quella giusta sicurezza e veridicità che ogni ente deve
a coloro che gratuitamente offrono parte dei loro beni per venire in aiuto di
persone sconosciute ma che hanno bisogno di loro per salvare una vita.
Ma l'avventura più grande però, era la
realizzazione del cuore del CAV ovvero del gruppo dei volontari che avrebbero dovuto far parte del centro di
ascolto.
Partecipammo ai corsi della Caritas, e
ogni convegno sul tema di bioetica era
dale S. Eugenio e gli aborti che venivano praticati allora, soltanto nella struttura privata Villa Gina.
La cosa certo non mi garbava ma non
conoscevo nulla su quanto invece si stava facendo in altre parti d'Italia per contrastare questa terribile «terapia».
Visto che avevo deciso di andare in pensione e per un piccolo voto fatto al Signore di continuare a lavorare per Lui
soltanto, decisi di affrontare questa avventura.
L'avventura iniziò con la ristrutturazione e arredamento della sede. Uno stanzone adibito a sala condominiale che doveva essere trasformato in modo da avere i requisiti di una sede dove si potesse
accogliere dignitosamente le ragazze,
ma anche utile ai fini delle riunioni del
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seguito per darci quelle conoscenze ne- Però la vera entrata, quella più cospicua
cessarie per la nostra acculturazione e e sicura ci proviene dalla Fondazione Viquindi per una risposta più concreta e ta Nova di Milano che con grande afcorrispondente alla verità scientifica al- fetto e partecipazione ha sempre rispole donne che chiedevano il nostro aiuto sto agli S.O.S. delle nostre ragazze. Una
per capire e molte volte per sapere co- fondazione benemerita che affianca il
sa veramente stesse loro succedendo. Se Movimento per la Vita Italiano e che veveramente «il coso» era una persona ramente compie dei miracoli perché atoppure «un grumo di cellule» di cui traverso di essa si incontrano le persone
tanti, specialmente nell'ambito sanita- che in modo disinteressato e pieno di
rio, andavano sostenendo per tranquil- amore offrono a tutte le mamme di ben
lizzarle sulla liceità o addirittura sag- oltre i 300 CAV Italiani, quel sostegno
economico chiamato «Progetto Gemgezza della decisione di abortire.
Fummo seguite anche da alcune Psico- ma» che permette di salvare una vita;
loghe Salvatoriane proprio per costitui- veramente noi diciamo di salvare due vite, quella del bambire il «Gruppo», per
no ma anche quella
affinare la nostra
della mamma perché
empatia e per acquiil baratro dell'aborto
stare una migliore
produce oltre che la
padronanza dei memorte dell'anima antodi dell'ascolto delche ferite profonde
le donne in quel monella psiche, molto
mento tanto buio e
difficili da curare e
tanto delicato.
che causano terribiSì, questa fu la parli sensi di colpa.
te più delicata, più
Inoltre la presenza
sofferta ma anche la
di un CAV nel terripiù bella perché fra
torio parrocchiale,
un incontro e uno Un bimbo è il più bel dono della vita.
ovviamente in moscontro, come in tutte le comunità, si è raggiunto un buon do graduale, sviluppa anche un forte riclima di collaborazione come pure una chiamo nelle coscienze di parrocchiani
grande partecipazione alla gioia per un e non, che pian piano finiscono per senbimbo che nascerà e al dolore quando tirlo più vicino e partecipano alle picpurtroppo gli verrà negato questo dirit- cole feste che il CAV organizza per le
mamme in varie occasioni soprattutto
to.
Dal primo anno in poi fino ad oggi l'at- del battesimo dei loro bimbi dando cotività è andata crescendo e grazie ad aiu- sì testimonianza di quanto si sta facenti anche cospicui da parte della Regio- do in nome della vita.
ne o di benefattori le entrate si sono rim- Molti portano indumenti, carrozzine e
pinguate e quindi abbiamo potuto aiu- quant'altro serve per la crescita dei notare meglio le nostre ragazze e aiutare, stri marmocchietti. Gli abitini dei nipocon miniprogetti anche quelle che pur tini, la loro culla, il passeggino e così
non volendo abortire si rivolgono a noi via.
perché economicamente non ce la fan- La celebrazione della «Giornata per la
no a portare avanti una gravidanza per vita» è veramente una festa e la si celebra in tanti modi. Palloncini che vomotivi economici.
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lano con un pensierino dei bambini legato alla cordicella o il mazzo di palloni che trascina verso l'alto una culla con
le intenzioni dei piccoli. Dovreste leggerle!!!
I più grandi in occasione della giornata
per la vita vengono sensibilizzati sia sul
tema del messaggio dei Vescovi ma anche sigle tematiche di etica e la realtà
del volontariato che si svolge all'interno di un CAV.
Infatti il volontariato di un CAV si
estrinseca anche in un’attività di promozione del messaggio sulla sacralita
della vita oltre che all'ascolto e all'assistenza alle mamme che a volte anche
dopo anni continuano a cercarci per ringraziarci, per avere un consiglio, o magari un aiuto d'ordine professionale per
problemi di natura legale o psicologica.
Insomma posso veramente dire che durante questi dieci anni abbiamo avuto
303 figlie e 226 nipotini.!
Ed è questo il frutto più bello che ti allarga il cuore e ti fa capire, anche nei
momenti in cui c'è il rifiuto, che il Signore è con te! Che tutto ciò che accade è opera Sua e tu sei solo, come diceva la nostra beata Madre Teresa di Calcutta, Maestra del nostro CAV, «la matita di cui il Signore si serve per scrivere la sua storia».
I diversamente
N
el corso della storia, il disabile è
stato sempre oggetto di atteggiamenti protettivi e al tempo stesso
costrittivi, sempre comunque sospinto ai margini della vita sociale per
la sua «diversità», e considerato alla stregua di un predestinato perdente e quindi
inferiore. La svolta concettuale decisiva
avviene tra il XVIII e il XIX secolo per
l’apporto dei filosofi e dei moralisti che
attribuiscono pari dignità ad ogni uomo.
Il XX secolo vede l’affermazione del
Welfare State, si fa strada l’idea di considerare il disagiato un lavoratore potenziale, così che si ritiene più conveniente
inserirlo nel mondo produttivo, in modo
che lui stesso potrà diventare simile agli
altri. Si apre finalmente al disabile, (e nel
1959 per concerto mondiale, con la «risoluzione» n. 3447 del dicembre ‘75,
l’Assemblea Generale dell’O.N.U. emana la carta per la tutela e la protezione
degli «svantaggiati» (Dichiarazione dei
diritti degli invalidi). Il riconoscimento
del diritto di essere considerato un
«uguale», avente pari dignità e valore
quali che siano i suoi limiti psico-fisici.
Anche per il disabile sussiste il diritto di
avvalersi dei vantaggi offerti dalla scienza e dalla tecnologia, nel campo della
prevenzione, della cura, e della riabilitazione delle infermità invalidanti fisiche,
psichiche e sensoriali. Per una reale integrazione del disabile, non è sufficiente abbattere le barriere architetoniche,
vanno anche abbattute quelle culturali attraverso una solidarietà associazionistica capace di dialogare con le Istituzioni
non tanto per rivendicare, ma bensì per
costruire insieme. Nell’agire con tali propositi c’è la dichiarata volontà di annullare ogni emarginazione per coloro che
D.ssa Miranda Lucchini
Foto Wilson
La vita di ogni bambino è come un bel fiore.
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sono portatori di handicap, ma anche di
ridurre i costi assai
onerosi per la società. Una tappa miliare viene segnata nell’anno europeo dei
disabili (2003), con la Dichiarazione di
Madrid, in cui «le organizzazioni dichiarano apertamente la loro conformità all’obiettivo proposto dalla stessa (“Non discriminazione più azione
positiva uguale integrazione sociale”),
e si impegnano ad agire in modo da
contribuire al processo che porterà all’uguaglianza effettiva delle persone
con disabilità e dei loro familiari». Le
Istituzioni e la Società Civile hanno fatto notevoli passi perché i più deboli, gli
handicappati, non siano più avvertiti come un limite, ma piuttosto come una forza viva con cui lavorare per costruire insieme la società comune. Anche la Chiesa, madre sempre sollecita verso i suoi
figli più fragili, ha elevato la sua voce a
difesa dei «diritti dei più deboli che non
sono diritti deboli» e nel comunicato finale della 51a Assemblea Generale della
Conferenza Episcopale Italiana ha ribadito che «il disabile è a pieno titolo persona, soggetto umano con corrispondenti diritti innati, sacri e inviolabili
fin dal suo concepimento e in ogni stadio del suo sviluppo e deve essere facilitato a partecipare alla vita della società in tutte le sue dimensioni e a tutti i livelli, che siano accessibili alle sue
possibilità». Molto resta ancora da fare
perché i disabili non debbano «sentirsi
soli, perché al pari di ogni altro essere
umano sono membra di Cristo che nell’assunzione della natura umana sofferente, ha ottenuto la redenzione del
mondo». Queste aspirazioni, questi sogni vanno tradotti in realtà. Il bene dei
sofferenti per disagio psico-fisico, deve
prevalere sull’interesse economico-manageriale che pone la sua attenzione pre-
valente sulla logica del profitto. C’è ancora precarietà per i ritardi accumulati
nella realizzazione degli interventi strutturali e organizzativi che concernono la
sanità pubblica, con particolare riferimento al settore dell’handicap che ancora attende il completamento della rete
assistenziale. Tutti i romani pontefici hanno sempre espresso la loro paterna sollecitudine verso i portatori di disabilità,
ben conoscendo «la sofferenza della limitazione». Giovanni Paolo II, nel promuovere il sostegno ai disabili per il superamento della loro condizione di emarginazione, ha affermato con il suo magistero riferito agli handicappati nella società, che «le strutture portanti» della
umana convivenza sono:
La Famiglia, che è il santuario dell’amore e della comprensione; è chiamata a condividere più di ogni altro
la condizione dei più deboli, a ricoprire il suo ruolo determinante nella
formazione del disabile, in vista del
suo recupero fisico e spirituale e del
suo effettivo reinserimento sociale. Lo Stato, il quale misura il proprio livello di civiltà sul metro del rispetto
con cui sa circondare i più deboli tra
i componenti della società, elaborando e favorendo strategie di prevenzione e riabilitazione e favorendo nel
disabile la partecipazione alla vita nella società. La Chiesa, che guidata dall’esempio
e dall’insegnamento del Signore, non
ha mai cessato di prodigarsi al servizio dei più deboli. Diversamente abili, dunque, come soggetti e protagonisti di evangelizzazione, come testimoni di umanità, parte viva e vitale della comunità religiosa cui
va riconosciuto il diritto alla santità, forza positiva con cui costruire la società
comune.
ABILI
I diversamente ABILI
Dr. Sergio Mancinelli
15
S
ono un volontario dell’A.R.V.À.S.
(Associazione Regionale Volontari
Assistenza Sanitaria) da ormai quattro anni e vorrei condividere con voi
quest’esperienza di servizio.
Ho frequentato il corso per diventare volontario alla fine del 2006 presso l’ospedale S. Eugenio. Perché questa scelta? E poi così impegnativa? Quando ho
deciso di farla avevo già alle spalle sei
anni di servizio nel gruppo Kolbe della
mia parrocchia, San Giuseppe da Copertino alla Cecchignola, con quattro
soggiorni estivi ed uno invernale vissuti con giovani diversamente abili psicofisici. Anni bellissimi ed indimenticabili, senza dubbio, ma sentivo che mi mancava ancora qualcosa, un’esperienza for-
sui giornali e sentite dai servizi dei T.G.!
Mi ritrovai d’un tratto in mezzo ad un
intreccio vorticoso di storie dolorose che
mi sconvolsero il cuore, ma ciò che mi
faceva soffrire di più era il mio senso di
impotenza di fronte a questi drammi...
Ho ancora negli occhi e nel cuore quella signora polacca, sessantenne, che era
sola in una stanza e che mi accolse con
un sorriso dolcissimo. Io glielo feci notare e lei mi rispose che le era rimasto,
ormai solo quello; aveva un cancro al
pancreas e lasciava tre figli lontani, in
Polonia. Volevo morire per lei, ma che
dire, che fare in quei momenti così tristi e terribili? Cosa potevo fare io? Mi
sentivo impotente e inutile, le strinsi le
mani, restai un po’ con lei, senza parla-
te con cui confrontarmi. Insomma, io di
fronte al dolore di chi soffre in ospedale ed è solo con la sua malattia. Superato l’esame d’idoneità più che bene, mi
aspettavo che la segreteria dell’Arvas
mi assegnasse ad un reparto come dire... morbido, abbordabile, dato che ero
alle prime esperienze in corsia. Invece
mi assegnò al reparto di chirurgia oncologica. Sotto la guida esperta di una
bravissima volontaria, iniziai quest’avventura d’amore in corsia con un po’ di
timore, che, comunque, durò ben poco
perché, di fronte a tanta sofferenza, spesso senza speranza, non ebbi neppure il
tempo di accorgermene. Mi rimboccai
solo le maniche e cominciai il servizio,
incontrando per primo un uomo giovane, non vedente, padre di tre figli in tenera età, affetto da tumore... bel... battesimo d’amore, per me, ancora lontano da queste terribili realtà lette finora
re, poi me ne andai con il cuore a pezzi, regalandole ciò che avevo: un sorriso e soprattutto una preghiera. Dopo due
anni di servizio presso quel reparto, fui
trasferito a «medicina generale» dove
trovai uno scenario diverso ma non meno doloroso: i degenti erano quasi tutte
persone anziane, alcune abbandonate a
se stesse e prossime alla morte, bisognose
di tutto. Cosa fare? Parlare, parlare soprattutto con gesti semplici e concreti.
Spesso portavo «a spasso», sulla carrozzella, qualche degente che non poteva camminare e intanto scambiavo qualche chiacchiera con lei, accompagnavo
in bagno qualche nonnino che non riusciva a camminare da solo, davo da mangiare a coloro che non erano in condizioni di farlo da soli, cose semplici ma
indispensabili cui non potevano certo
sopperire gli infermieri. Mi adoperavo
anche come ministro straordinario della
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volontariato, confrontandoci e arricchendoci reciprocamente portando ciascuno le esperienze vissute nei vari ospedali nei quali si presta servizio e parlando delle difficoltà incontrate, che magari sono uguali per alcuni di noi, e di come affrontarle e risolverle... io l’idea l’ho
lanciata e speriamo che venga accolta favorevolmente. Sarebbe un grande aiuto
per noi operatori in questo campo. Ritornando al mio servizio, mi auguro di
continuare a dare il massimo anche in
questo nuovo reparto, dove i degenti sono molti e alcuni di
essi si trovano in
condizioni disagiate, non sufficienti a
se’ stessi, e bisognosi di ogni cura, cui
gli infermieri non
possono certo sopperire. Spesso non
riescono a mangiare
da soli o hanno solo
bisogno di chi dia
La solidarietà alleggerisce
loro da bere.
il dolore.
Io mi adopero in
questo senso con tutta la disponibilità che
posso: sono presente tutti i martedì pomeriggio fino alle diciannove e trenta, e
il mercoledì pomeriggio porto la comunione, come ministro straordinario dell’Eucarestia, a chi lo desidera tra i pazienti ricoverati, ricordando le parole di
Gesù: «I poveri li avrete sempre con
voi». Di conseguenza, non mi posso permettere il lusso di andare in pensione.
Servirò fino alla fine dei miei giorni gli
ultimi e i più bisognosi: spero solo che
se dovessi incontrare Gesù per le strade
del mondo Egli mi guardi negli occhi e
nel cuore e mi dica: «Non sei molto lontano dal Regno di Dio». Vorrebbe dire
che non ho speso invano questa vita e che
l’amore di Dio per me ha prodotto i frutti che Lui voleva. Pace e bene a tutti.
Leandro De Bonis
comunione, distribuendo a chi lo desiderasse, come a due suore ed a un signore
affabile e gentile, curato amorevolmente dalla moglie e dalla figlia, due persone dal cuore d’oro. Mi ricordo anche di
una «nonnina» che incontrai lungo il
corridoio mentre pregava davanti a una
bellissima statua della Madonna. Mi avvicinai dopo la preghiera e lei mi disse
che stava pregando Maria perché era sola e aveva una gran voglia di parlare con
qualcuno... «Eccomi», le dissi, e cominciammo a parlare per più di mezz’ora, contenta di questo incontro benedetto dalla Madonna... Ora presto servizio,
presso il reparto di «Medicina I». Mi
sono «ambientato» subito e mi sono dato da fare non solo con le parole, comunque sempre utili e incoraggianti per
i degenti, ma anche con i fatti. Mi sono
fatto carico del caso di un africano che
aveva perso un occhio a causa di un incidente e che non aveva i soldi per potersi comprare un paio di occhiali. Ora
li ha e gratis, o il caso di quel polacco
che aveva le scarpe sfondate e ora ha un
paio di scarpe decenti. Non ho risolto le
loro povertà e ora, dimessi dall’ospedale, torneranno a fare la vita di mendicanti
o di barboni, ma almeno ho fatto qualcosa di concreto per loro. Ho potuto partecipare a due ritiri spirituali di mezza
giornata, organizzati dal Centro della
Pastorale Sanitaria, svoltisi presso il Seminario Maggiore, uno in preparazione
dell’Avvento e uno in preparazione della Pasqua entrambi molto intensi e costruttivi. Mi è piaciuto soprattutto l’ultimo: il tema scelto era la conversione.
Dopo la riflessione, c’è stata la Via Crucis e a conclusione la Santa Messa. A
me piacerebbe che questi ritiri si facessero piu’ spesso, per esempio ogni tre
mesi: in pratica quattro incontri, lasciando quelli previsti per Avvento e
Quaresima, si potrebbe negli altri due affrontare i temi specifici relativi al nostro
17
V
I
OLONTARIA
INCENZIANA
lità e per la temperanza nel coordinare la
presenza dei volontari nelle corsie degli
ospedali, per l’ascolto e la risoluzione
delle varie problematiche. Noi volontari, nel ringraziarla calorosamente del lavoro fin qui svolto, Le auguriamo che lo
l giorno 5 maggio 2009 presso le Suore Spirito Santo l’aiuti sempre ad assolveAncelle del Sacro Cuore, il nostro assi- re questo compito con amore, e che posstente don Telesforo Kowalski ha cele- sa accrescere l’operatività nel servizio
brato la Santa Messa per noi volontari del- dei malati e delle persone più deboli. La
l’Associazione San Vincenzo Dé Paoli.
Signora Lucia Di Chio, ha ringraziato i
Nell’omelia don Telesforo ha sottolinea- presenti per la fiducia nuovamente acto l’importanza della presenza dei vo- cordataLe, chiedendo sempre una maglontari nelle strutture ospedaliere, e ci ha giore collaborazione affinché possa esesortati, a proseguire sempre con amore sere migliorata la qualità del servizio, afil servizio verso i PREGHIERA DEI VINCENZIANI
finando la capacità di
fratelli malati in pieassistenza e dediziona collaborazione Signore, fammi buon amico di tutti,
ne verso i malati cocon tutti perché solo fa’ che la mia persona ispiri fiducia:
municando amore.
lo scambio di espe- a chi soffre e si lamenta,
Questo spirito di
cerca luce lontano da Te,
rienze può educarci aa chi
unità e collaboraziochi vorrebbe cominciare e non sa come,
ad una maggiore a chi vorrebbe confidarsi
ne ci aiuterà a meglio
sensibilizzazione e chi non se ne sente capace.
svolgere il nostro
verso ogni singolo Signore aiutami,
servizio nei vari reessere umano nel perché non passi accanto a nessuno
parti, ma anche a damomento del dolore con il volto indifferente,
re una testimonianza
ed a diventare quel con il cuore chiuso,
al mondo sanitario,
piccolo seme che se- con il passo affrettato.
che tante volte è percondo i diversi ter- Signore, aiutami ad accorgermi subito:
corso da fremiti di
reni in cui cade cre- di quelli che mi stanno accanto,
divisione, arrivismo
di quelli che sono preoccupati e disorientati
scerà e darà frutto.
e voglia di apparire.
Dopo la Santa Mes- di quelli che soffrono senza mostrarlo,
Ci aiuti sempre S.
sa si è vissuto il mo- di quelli che si sentono isolati senza volerlo. Vincenzo de’ Paoli a
mento più importan- Signore, dammi una sensibilità che sappia
servire in umiltà e lete e democratico per andare incontro ai cuori.
tizia, per il bene del
una associazione Signore, liberami dall’egoismo,
sofferente, ma anche
che sono la votazio- perché Ti possa servire,
della Santa Chiesa
perché Ti possa amare,
ne per il rinnovo perché Ti possa ascoltare
che si rende presente
della carica del pre- in ogni fratello
nei luoghi di cura ansidente dell’Asso- che mi fai incontrare.
che attraverso la nociazione, unitamenstra povera e umile
te all’ingresso dei nuovi volontari, (in Opera. Un augurio va alla nostra presiquest’anno ne sono entrati 25 e ci per- dente di buon lavoro di coordinazione e
mettono di servire numerose strutture sa- promozione dell’Opera Vincenziana e per
nitarie ospedaliere), quello delle elezio- quanto le è possibile di collaborazione
ni è il gesto più significativo dell’appar- con tutti i vari volontariati presenti in Diotenenza al volontariato S. Vincenzo.
cesi. Un grazie a Diaconia Christi che
I volontari hanno rinnovato a pieni voti gentilmente ospita i nostri piccoli scritti
la fiducia alla presidente uscente Sig.ra che ci permettono di farci conoscere e di
Lucia Di Chio a conferma di quanto il la- divulgare la spiritualità Vincenziana.
voro fin qui svolto dalla stessa sia stato
Pia Sgrò
molto apprezzato, per la sua disponibiVolontaria Opera Ospedaliera
I
18
Alla Casa di Riposo “ROMA 2”
E
simio Signor Vescovo, è giunto il momento della desiderata sua venuta e per
questo mi accingo a pronunciare parole
e frasi con entusiasmo a nome di tutti gli
ospiti.
Eccellenza a nome di quanti siamo presenti, voglio testimoniare il suo gradito
arrivo che promuove l’amicizia ed il dialogo, nella vita tra voi autorità e noi cattolici praticanti la fede; ci sentiamo incoraggiati nel rispetto di noi stessi e di
chi ci sta accanto, tutto ciò favorito dalla presenza di Iddio sovrano e dal verbo
suo figlio, Gesù di Nazaret.
Un elogio è rivolto al nostro cappellano
don Edouard, che con tanti sacrifici ci
sta seguendo con prolungate preghiere e
magistrali commenti del Vangelo di Dio
e degli apostoli, riuscendo a riempire l’uditorio di noi anziani. Come ogni parola di Gesù vive, mediante lo Spirito Santo, così pure le opere compiute che ci sono state tramandate, ci sentiamo avvinti dalla bravura del commento e dall’energia con cui don Edouard sfoggia la
sua preparazione dottrinale.
Ancora un caldo e meritato ringraziamento Le viene rivolto unanimemente,
per il tempo che dedica a noi ogni volta
che Lei presenzia nella nostra casa di riposo la S. Messa.
Eccellentissimo Monsignore, i nostri
spontanei ringraziamenti sono unanimi
nelle preghiere praticate presso Gesù, per
intercessione della Santissima Vergine
Maria e godiamo giorno per giorno, con
coraggio e rassegnazione, il tempo che
ci lascia da vivere il Signore.
Il suo proficuo impegno giornaliero ci lascia pensare e ci fa credere nella vicinanza alle case di riposo, per prodigare assi-
stenza ed apporto spirituale e umano verso i più bisognosi colpiti da infermità.
A tale proposito, Eccellentissimo Monsignore, le mie preghiere sono unanimemente condivise dagli altri ospiti affinché la sua persona continui a prodigare prosperità, amore cristiano e la sua
santa benedizione scenda su chi tanto ne
ha bisogno e sia come raccomandazione verso Dio.
La ringraziamo immensamente, augurandole longevità e amore verso tutti coloro che lei incontra nei vari luoghi di
sofferenza e sono provati dalle avversità
della vita.
La piena comunione, l’affetto sincero e
crescente si estende dai residenti della
casa di riposo Roma 2 a tutte le case di
riposo presenti in Roma. La comunione
è una realtà che sentiamo e custodiamo
dentro di noi e speriamo che le rivalità,
le contese e le gelosie proposte da abili
letterati che si intromettono nelle comunità ecclesiali, siano vinte dall’unità e
dall’amore.
Il percorso ecclesiale contribuisca a dare impulso e ad aggiornare le scelte pastorali che sono decisivi nella vita cristiana, a giudicare il nostro comportamento alla luce della legge di Dio onnipotente che regge il creato e la vita degli uomini.
Spontanei sono gli auspici che formuliamo. Con ossequi.
Russo Giovanni
(anni 84)
Erano presenti: Le Dame di S. Vincenzo, la Comunità di S. Egidio, la Direzione ed il personale della Casa di Riposo Roma 2. Grazie.
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«Anno Sacerdotale»
Il santo Curato d’Ars, il prete vissuto tra la Rivoluzione e la
Restaurazione, confessava, celebrava messa, insegnava catechismo,
soccorreva i poveri. Non sapeva inventarsi nient’altro. Per questo
tutti correvano da lui. Perché non faceva velo al lavoro della grazia.
Indulgenza plenaria tutti i giorni per i sacerdoti
«A
i sacerdoti, veramente pentiti, che in qualsiasi giorno devotamente reciteranno almeno le Lodi mattutine o i Vespri davanti
al Santissimo Sacramento, esposto alla pubblica adorazione o riposto nel tabernacolo,
e, sull’esempio di san Giovanni Maria Vianney, si offriranno con animo pronto e generoso alla celebrazione dei sacramenti, soprattutto della confessione, viene impartita misericordiosamente l’Indulgenza plenaria, che potranno anche applicare ai confratelli defunti a modo di suffragio, se, in
conformità alle disposizioni vigenti, si accosteranno alla confessione sacramentale e
alla comunione, e se pregheranno secondo
le intenzioni del Sommo Pontefice».
Un’immagine del santo parroco con i fedeli mentre benedice una bambina. Un affresco nel santuario di Ars.
per tutti i fedeli
«A
tutti i fedeli, veramente pentiti, che assisteranno devotamente al divino Sacrificio della messa e offriranno a Gesù Cristo
Sommo ed Eterno Sacerdote preghiere e un'opera buona compiuta in quel giorno per i sacerdoti della Chiesa affinché li santifichi e li plasmi secondo il Suo Cuore, è concessa l'Indulgenza plenaria, purché abbiano espiato i propri peccati con la
confessione sacramentale e innalzato preghiere secondo l'intenzione del Sommo Pontefice, nei giorni in cui si apre e si
chiude l'Anno sacerdotale, nel giorno del centocinquantesimo
anniversario del pio transito di san Giovanni Maria Vianney,
nel primo giovedì di ogni mese o in qualche altro giorno stabilito dai Vescovi per l'utilità dei fedeli».
Il confessionale del santo Curato d’Ars.
20
IL SACERDOZIO, SERVIZIO
ALLA PAROLA E ALL’UOMO
Udienza di mercoledi 24/06/2009
Il Papa ha dedicato la catechesi settimanale al
significato dell’Anno sacerdotale inaugurato il 19 giugno.
Perché sia autentico e efficace l’annuncio
«comporta sempre anche il sacrificio di sé»
C
ari fratelli e sorelle, venerdì 19 giugno,
solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù e giornata tradizionalmente dedicata alla preghiera per la santificazione dei
sacerdoti, ho avuto la gioia d'inaugurare l'Anno Sacerdotale, indetto in occasione del centocinquantesimo anniversario della «nascita al Cielo» del curato d'Ars, san Giovanni Battista Maria
Vianney. Ed entrando nella basilica Vaticana per la celebrazione dei vespri,
quasi come primo gesto simbolico, mi
sono fermato nella cappella del coro per
venerare la reliquia di questo santo pastore d'anime: il suo cuore. Perché un
Anno Sacerdotale? Perché proprio nel
ricordo del santo curato d'Ars, che apparentemente non ha compiuto nulla di
straordinario?
La Provvidenza divina ha fatto sì che la
sua figura venisse accostata a quella di
san Paolo. Mentre infatti si va concludendo l'Anno Paolino, dedicato all'apostolo delle genti, modello di straordinario evangelizzatore che ha compiuto diversi viaggi missionari per diffondere il
Vangelo, questo nuovo anno giubilare
ci invita a guardare ad un povero contadino diventato umile parroco, che ha
consumato il suo servizio pastorale in
un piccolo villaggio. Se i due santi differiscono molto per i percorsi di vita che
li hanno caratterizzati – l'uno è passato
di regione in regione per annunciare il
Vangelo, l'altro ha accolto migliaia e migliaia di fedeli sempre restando nella
sua piccola parrocchia –, c'è però qualcosa di fondamentale che li accomuna:
ed è la loro identificazione totale col
proprio ministero, la loro comunione
con Cristo che faceva dire a san Paolo:
«Sono stato crocifisso con Cristo. Non
sono più io che vivo, ma Cristo vive
in me» (Gal 2,20). E san Giovanni Maria Vianney amava ripetere: «Se avessimo fede, vedremmo Dio nascosto nel
sacerdote come una luce dietro il vetro, come il vino mescolato all'acqua».
Scopo di questo Anno Sacerdotale come ho scritto nella lettera inviata ai sacerdoti per tale occasione – è pertanto
favorire la tensione di ogni presbitero
«verso la perfezione spirituale dalla
quale soprattutto dipende l'efficacia
del suo ministero», e aiutare innanzitutto i sacerdoti, e con essi l'intero popolo di Dio, a riscoprire e rinvigorire la
coscienza dello straordinario ed indispensabile dono di grazia che il ministero ordinato rappresenta per chi lo ha
ricevuto, per la Chiesa intera e per il
mondo, che senza la presenza reale di
Cristo sarebbe perduto.
Indubbiamente sono mutate le condizioni storiche e sociali nelle quali ebbe
a trovarsi il curato d'Ars ed è giusto domandarsi come possano i sacerdoti imitarlo nella immedesimazione col pro21
prio ministero nelle attuali società globalizzate. In un mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al posto del quale, la
«funzionalità» diviene l'unica decisiva
categoria, la concezione cattolica del sacerdozio potrebbe rischiare di perdere
la sua naturale considerazione, talora
anche all'interno della coscienza ecclesiale. Non di rado, sia negli ambienti
teologici, come pure nella concreta prassi pastorale e di formazione del clero, si
confrontano, e talora si oppongono, due
differenti concezioni del sacerdozio. Rilevavo in proposito alcuni anni or sono
che esistono «da una parte una concezione sociale-funzionale che definisce l'essenza del sacerdozio con il concetto di "servizio": il servizio alla comunità, nell'espletamento di una funzione... Dall'altra parte, vi è la concezione sacramentale-ontologica, che
naturalmente non nega il carattere di
servizio del sacerdozio, lo vede però
ancorato all'essere del ministro e ritiene che questo essere è determinato da un dono concesso dal Signore
attraverso la mediazione della Chiesa, il cui nome è sacramento» (J. Ratzinger, Ministero e vita del sacerdote,
in Elementi di teologia fondamentale.
Saggio su fede e ministero, Brescia
2005, p.165). Anche lo slittamento terminologico dalla parola «sacerdozio»
a quelle di «servizio, ministero, incarico», è segno di tale differente concezione. Alla prima, poi, quella ontologico-sacramentale, è legato il primato dell'Eucaristia, nel binomio «sacerdoziosacrificio», mentre alla seconda corrisponderebbe il primato della Parola e
del servizio dell'annuncio.
A ben vedere, non si tratta di due concezioni contrapposte, e la tensione che
pur esiste tra di esse va risolta dall'interno. Così il decreto Presbyterorum ordinis del Concilio Vaticano II afferma:
«È proprio per mezzo dell'annuncio
apostolico del Vangelo che il popolo
di Dio viene convocato e adunato, in
modo che tutti... possano offrire se
stessi come “ostia viva, santa, accettabile da Dio” (Rm 12,1), ed è proprio
attraverso il ministero dei presbiteri
che il sacrificio spirituale dei fedeli
viene reso perfetto nell'unione al sacrificio di Cristo, unico mediatore.
Questo sacrificio, infatti, per mano
dei presbiteri e in nome di tutta la
Chiesa, viene offerto nell'Eucaristia
in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore» (n. 2).
Ci chiediamo allora: «Che cosa significa propriamente, per i sacerdoti,
evangelizzare? In che consiste il cosiddetto primato dell'annuncio?». Gesù parla dell'annuncio del Regno di Dio
come del vero scopo della sua venuta
nel mondo e il suo annuncio non è solo
un «discorso». Include, nel medesimo
tempo, il suo stesso agire: i segni e i miracoli che compie indicano che il Regno viene nel mondo come realtà presente, che coincide ultimamente con la
sua stessa persona. In questo senso, è
doveroso ricordare che, anche nel primato dell'annuncio, parola e segno sono indivisibili. La predicazione cristiana non proclama «parole», ma la Parola, e l'annuncio coincide con la persona
stessa di Cristo, ontologicamente aperta alla relazione con il Padre ed obbediente alla sua volontà. Quindi, un autentico servizio alla Parola richiede da
parte del sacerdote che tenda ad una approfondita abnegazione di sé, sino a dire con l'apostolo: «non sono più io che
vivo, ma Cristo vive in me». Il presbitero non può considerarsi «padrone»
della Parola, ma servo. Egli non è la parola, ma, come proclamava Giovanni il
Battista, del quale celebriamo proprio
oggi la Natività, è «voce» della Parola:
22
«Voce di uno che grida nel deserto: sbitero è radicalmente al servizio degli
preparate la strada del Signore, rad- uomini: è ministro della loro salvezza,
drizzate i suoi sentieri» (Mc 1,3).
della loro felicità, della loro autentica
Ora, essere «voce» della Parola, non co- liberazione, maturando, in questa prostituisce per il sacerdote un mero aspet- gressiva assunzione della volontà del
to funzionale. Al contrario presuppone Cristo, nella preghiera, nello «stare
un sostanziale «perdersi» in Cristo, par- cuore a cuore» con Lui. È questa allotecipando al suo mistero di morte e di ra la condizione imprescindibile di ogni
risurrezione con tutto il proprio io: in- annuncio, che comporta la partecipaziotelligenza, libertà, volontà e offerta dei ne all'offerta sacramentale dell'Eucaripropri corpi, come sacrificio vivente (cfr stia e la docile obbedienza alla Chiesa.
Rm 12,1-2). Solo la partecipazione al Il santo curato d'Ars ripeteva spesso con
sacrificio di Crile lacrime agli ocsto, alla sua chèchi: «Come è
nosi, rende auten- Dio onnipotente ed eterno, per i meriti del tuo Figlio spaventoso essetico l'annuncio! E e per il tuo amore verso di Lui, abbi pietà dei sacer- re prete!». Ed agdella Santa Chiesa. Nonostante questa dignità suquesto è il cam- doti
blime sono deboli come gli altri. Incendia, per la tua giungeva: «Come
mino che deve misericordia infinita, i loro cuori con il fuoco del tuo è da compiangepercorrere con amore. Soccorrili: non lasciare che i sacerdoti perda- re un prete quanla loro vocazione o la sminuiscano. O Gesù, ti supdo celebra la
Cristo per giunge- no
plichiamo: Abbi pietà dei sacerdoti della tua Chiesa.
re a dire al Padre Di quelli che ti servono fedelmente, che guidano il tuo Messa come un
fatto ordinario!
insieme con Lui: gregge e ti glorificano...
si compia «non Abbi pietà di quelli perseguitati, incarcerati, abbando- Com'è sventuranati, piegati dalle sofferenze...
ciò che io voglio, Abbi pietà dei sacerdoti tiepidi e di quelli che vacilla- to un prete senza
ma ciò che tu no nella fede... Abbi pietà dei sacerdoti secolarizzati... vita interiore!».
Possa l'Anno Savuoi» (Mc 14,36). Abbi pietà dei sacerdoti infermi e moribondi...
pietà di quelli che stanno in purgatorio...
L'annuncio, allo- Abbi
Signore Gesù ti supplichiamo: ascolta le nostre pre- cerdotale condurra, comporta sem- ghiere, abbi pietà dei sacerdoti; sono tuoi! Illuminali, re tutti i sacerdopre anche il sacri- fortificali e consolali! O Gesù, ti affidiamo i sacerdoti ti ad immedesitutto il mondo, ma soprattutto quelli che mi hanno
marsi totalmente
ficio di sé, condi- di
battezzato ed assolto, quelli che per me hanno offerzione perché l'an- to il Santo Sacrificio e consacrato l’Ostia Santa per nu- con Gesù crocinuncio sia auten- trire la mia anima. Ti affido i sacerdoti che hanno dis- fisso e risorto,
i miei dubbi, indirizzato i miei passi, guidato i perché, ad imitatico ed efficace. sipato
miei sforzi, consolato le mie pene; per tutti loro, in seAlter Christus, il gno di gratitudine, imploro il tuo aiuto e la tua miseri- zione di san Giovanni Battista,
sacerdote è pro- cordia. Amen.
fondamente unito Orazione scritta da Monsignor Kiung, Vescovo di siano pronti a
al Verbo del Pa- Shangai, durante la sua prigionia da infermo. Fu «diminuire» pernel 1960 a 20 anni di carcere dal goché Lui cresca;
dre, che incarnan- condannato
verno cinese a causa della sua fedeltà a Cristo.
perché, seguendo
dosi ha preso la
forma di servo, è divenuto servo (cfr l'esempio del curato d'Ars, avvertano
Fil 2,5-11). Il sacerdote è servo di Cri- in maniera costante e profonda la resto, nel senso che la sua esistenza, con- sponsabilità della loro missione, che è
figurata a Cristo ontologicamente, as- segno e presenza dell'infinita miserisume un carattere essenzialmente rela- cordia di Dio. Affidiamo alla Madonzionale: egli è in Cristo, per Cristo e na, Madre della Chiesa, l'Anno Sacercon Cristo al servizio degli uomini. Pro- dotale appena iniziato e tutti i sacerdoprio perché appartiene a Cristo, il pre- ti del mondo.
PREGHIERA PER I SACERDOTI
23
«O
Un brano del discorso che
ha pronunciato durante l’in
pomeriggio di domenica 21
sollievo della sofferenza» di
gni volta che si entra in un luogo di
cura, il pensiero va naturalmente al mistero della malattia e del dolore, alla speranza della guarigione e al valore inestimabile della salute, di cui ci si rende conto spesso soltanto allorché essa viene a
mancare. Negli ospedali si tocca con mano la preziosità della nostra esistenza, ma
anche la sua fragilità. Seguendo l’esempio di Gesù, che percorreva tutta la Galilea, «curando ogni sorta di malattie e
di infermità nel popolo» (Mt 4, 23), la
Chiesa, fin dalle sue origini, mossa dallo
Spirito Santo, ha considerato un proprio
dovere e privilegio stare accanto a chi soffre, coltivando un’attenzione preferenziale
per i malati.
La malattia, che si manifesta in tante forme e colpisce in modi diversi, suscita inquietanti domande: Perché soffriamo? Può
ritenersi positiva l’esperienza del dolore?
Chi ci può liberare dalla sofferenza e dalla morte? Interrogativi esistenziali, che restano umanamente il più delle volte senza
risposta, dato che il soffrire costituisce un
enigma imperscrutabile alla ragione. La
sofferenza fa parte del mistero stesso della persona umana. È quanto ho sottolineato
nell’Enciclica Spe salvi, notando che «essa deriva, da una parte, dalla nostra finitezza, dall’altra, dalla massa di colpa
che, nel corso della storia si è accumulata e anche nel presente cresce in modo inarrestabile». Ed ho aggiunto che
«certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza... ma eliminarla completamente dal mondo non
sta nelle nostre possibilità semplicemente
perché... nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male... continuamente fonte di sofferenza» (cfr. n. 36).
Chi può eliminare il potere del male è solo Dio. Proprio per il fatto che Gesù Cristo è venuto nel mondo per rivelarci il di-
A
nche per il papa, il Sinedrio è sempre
convocato, e il Tribunale siede in permanenza. Tutti l’abbiamo giudicato,
una, due, tante volte: tutti ci crediamo
in diritto di giudicarlo.
Ogni colpa è sua. Se ha fatto, perché ha
fatto; se non ha fatto, perché non ha fatto. I peccati di omissione sono i più grossi capi d’accusa nella requisitoria che
ognuno di noi ha già elaborato contro di
lui... «Se il Papa avesse detto...».
«Se il Papa si fosse apertamente dichiarato...». «Se il Papa non avesse mostrato di aver paura...». Falsi testimoni
e gente in buona fede s’avvicendano al
banco dell’accusa. Ogni giorno ha le sue
accuse: ogni epoca nuovi torti da buttargli addosso. E quasi par che abbiano ragione questi e quelli, benché si contraddicano come i testimoni del Sinedrio.
Chi deve rispondere della salvezza di tutti può aver sempre torto davanti a qualcuno. Ci vuol bene il Papa che porti di
fronte alla storia la colpa che tutti rifiutano. Ci vuol sempre un innocente che pos-
sa essere condannato per
salvare i colpevoli: uno che
muoia per il popolo.
Non ci sono apologie per
difendere chi deve essere
condannato.
Non domanda neanche l’avvocato d’ufficio; non risponde neanche!
Se parla ha torto, se tace ha torto. Ha torto se si mantiene calmo, ha torto se si sdegna. «“Così rispondi al pontefice?”.
E gli diede uno schiaffo».
Quel giorno che gli uomini gli andassero
incontro da ogni strada cantandogli osanna, quel giorno il Papa non sarebbe più il
Papa, cioè colui che tiene il posto di due
crocifissi: uno col capo in giù, perché non
si credeva degno d’essere equiparato al
Maestro.
Nel cerimoniale della sua incoronazione,
la croce è piccola e un accolito la porta.
Non il Papa. Sulle spalle il gran manto, il
triregno sul capo, i flabelli ai lati.
Come un grande della terra.
Ci vogliono anche queste cose per segnare
Tutti ci
in diritto
24
Papa Benedetto XVI
contro svoltosi nel
giugno 2009 alla «Casa
S. Giovanni Rotondo
segno divino della nostra salvezza, la fede ci aiuta a penetrare il senso di tutto l’umano e quindi anche del soffrire. Esiste,
quindi, un’intima relazione fra la Croce
di Gesù – simbolo del supremo dolore e
prezzo della nostra vera libertà – e il nostro dolore, che si trasforma e si sublima
quando è vissuto nella consapevolezza
della vicinanza e della solidarietà di Dio.
Padre Pio aveva intuito tale profonda verità e, nel primo anniversario dell’inaugurazione di quest’Opera, ebbe a dire che
in essa «il sofferente deve vivere l’amore di Dio per mezzo della saggia accettazione dei suoi dolori, della serena meditazione del suo destino a Lui» (Discorso del 5 maggio 1957). Annotava ancora che nella Casa Sollievo «ricoverati, medici, sacerdoti saranno riserve di
amore, che tanto più sarà abbondante
in uno, tanto più si comunicherà agli
altri» (ibid.).
Essere «riserve di amore»: Ecco, cari fratelli e sorelle, la missione che questa sera
il nostro Santo richiama a voi, che a vario
titolo formate la grande famiglia di questa
Casa Sollievo della Sofferenza. Il Signore vi aiuti a realizzare il progetto avviato
da Padre Pio con l’apporto di tutti: dei medici e dei ricercatori scientifici, degli operatori sanitari e dei collaboratori dei vari
uffici, dei volontari e dei benefattori, dei
Frati Cappuccini e degli altri Sacerdoti.
Senza dimenticare i gruppi di preghiera
che, «affiancati alla Casa del Sollievo,
sono le posizioni avanzate di questa Cittadella della carità, vivai di fede, focolai d’amore» (Padre Pio Discorso del 5
maggio 1866). Su tutti e ciascuno invoco
l’intercessione di Padre Pio e la materna
protezione di Maria, Salute dei malati. Grazie ancora per la vostra accoglienza e, mentre assicuro la mia preghiera per ciascuno
di voi, di cuore tutti vi benedico.
la prospettiva tra la
«città dell’uomo e
quella di Dio», tra
ciò che passa e ciò
che dura. Ecco: a intervalli brevi, il corteo sosta: qualche cosa viene bruciato sotto gli occhi dell’eletto: «Così passa, beatissimo padre, la gloria di questo mondo». Il rito richiama il memento delle ceneri e l’irrisione del pretorio. Quando la
porpora, il triregno, lo scettro non durano, essi valgono quanto lo straccio scarlatto, la corona di spine, la canna del pretorio. Con questa differenza: che mentre
nel pretorio di Pilato l’illusione non è possibile, negli atrii del Vaticano, per qualcuno, essa può resistere all’assalto di qualsiasi ripetuto memento.
La croce astile, voluta dal cerimoniale e
portata dall’accolito, tutti la vedono, perché è d’oro e brilla. Ma la croce di legno,
larga quanto la cattolicità, greve come l’amore, la porta lui, il Papa, sulle sue spalle e nel suo cuore. E pochi la vedono, per-
ché pochi sono i cristiani che riescono a
sciogliere i simboli dell’eterno dalle scorie che i secoli vi hanno aggiunto.
«Non vedete ch’egli non sorride mai!».
È un condannato anche lui: «Si è fatto anche lui obbediente fino alla morte e alla morte di croce». In luogo del crucifige, l’osanna... Ma non per questo è meno
dura la strada del suo Calvario e meno pesante la sua croce. Alcuni del corteo pretendono d’illudersi che non sia una Via
Crucis la strada che percorrono e non un
condannato a morte l’uomo che accompagnano. Costoro non hanno pietà di lui,
non pregano per lui al di là delle preghiere
comandate.
S’egli è potente, s’egli è grande, non ha
bisogno di nulla. Troppi omaggi, troppo
sfarzo di cerimoniale perché i cuori gli
vengan vicino!
Chi lo sente, al di là del simbolo, uomo
come noi, curvo sotto il peso di una responsabilità che abbraccia il cielo e la terra, il tempo e l’eternità?
don Primo Mazzolari
crediamo
di giudicarLo
25
'na vocazzione 25 ANNI DELLA
immolata “SALVIFICI DOLORIS”
L’
11 febbraio 1984, il Santo Padre Giovanni Paolo II, promulgava la prima
enciclica che tratta esclusivamente del dolore. C’erano stati diversi discorsi dei Papi
precedenti sul dolore, la malattia, la sofferenza, ma una trattazione così organica mai.
Il Papa Giovanni Paolo II, con un titolo che
sembrava provocatorio, ha detto a tutto il
mondo qual’è il senso cristiano della sofferenza umana.
È stato il suo un atto di coraggio e di grande magistero; in un tempo e in una cultura
che proclama solo la bellezza, il salutismo,
la giovinezza perenne, l’ebrezza del godimento e del piacere, annunciare la «virtù
salvifica del dolore» è stato dirompente e
di grande aiuto a tutti coloro che soffrono,
alle loro famiglie ma anche per tutti gli operatori sanitari, i volontari, le suore e gli assistenti spirituali, come per tutte le comunità cristiane. Nel radio messaggio del 18
ottobre del 1978 diceva: «Siete voi (cari
ammalati, afflitti, poveri)... che con le vostre sofferenze condividete la passione
dello stesso Redentore, ed in qualche modo la completate».
Per rendere omaggio al Papa della sofferenza e per attingervi i molteplici tesori insiti nell'enciclica i 4 sabati di novembre, dalle 10 alle 12, in Vicariato (sala rossa) si terranno quattro incontri sull’enciclica «Salvifici doloris». Gli incontri sono aperti a
tutti: cappellani, suore, operatori sanitari,
volontari, operatori caritas, ministri della
comunione ecc.
Un minatore giovane e robbusto
ch'era rimasto già senza famija,
volènnose fà' prete (com'è giusto!)
se presentò ar Prevosto in sagrestia.
Quello guardò, sentì, la pasta c'era
pe' tirà su un pretone co' li fiocchi,
ma l'espressione je diventò nera
pe' la difficortà de li bajocchi...
«Fijolo mio – je fece – è un brutt'affare!
Er Zeminario è povero, se sa;
e si nissuno te potrà spesare,
che magni? come fàmo pe' studià'?»
«Padre – arispose er giovane sincero –
si è solo questo, torno giù in miniera:
lavoro, risparammio, e così spero
de potémme fa' prete a 'sta maniera».
Er vecchio prete, cór core spezzato,
lo benedisse: «Va', prego pe' te...
e quanno sai che ormai ce sei arivato,
nun perde manco un giorno; vie' da me!»
Doppo quattr'anni, ar posto der soggetto,
fece ritorno un prico un pò pesante,
pieno de sòrdi, assieme ad un bijetto
scritto co' mano incerta e tremolante:
«Padre – diceva – s'aricorda quanno,
quattr'anni fa je feci quer discorzo?
Purtroppo mè venuto un gran malanno,
e de la vita mia finisce er corso...
Sabato 7 Tema:
Il drammatico perché della sofferenza
Però prenna 'sti sòrdi, per piacere,
e facci sì che servino a quarcuno
che vadi ar posto mio, no' ner mestiere,
ma su l'artare... e s'aricordi Bruno!»
Sabato 14 Tema:
Con Cristo vincitori
Sabato 21 Tema:
Il Vangelo della sofferenza
Er monzignore, bianco come cera,
agnede dar Rettore, in Zeminario,
je dette tutto... e su 'sta storia vera,
pe' nun bagnà' le righe, fo' sipario...
Sabato 28 Tema:
Il Buon samaritano
26
FEDE, CARITÀ E ANZIANI MALATI
G
II parte
Bonum est diffusivum sui. Santa Teresa,
pertanto, offrì se stessa a quell’amore
misericordioso affinché dentro di lei potesse trovare spazio per espandersi. La
sua apertura a Dio consisteva in una
completa fiducia filiale nella bontà e
nella preoccupazione del Padre divino.
Questo però non la dispensava dalla fede. Anche se la sua morte può essere fisicamente attribuita alla tubercolosi, ella morì d’amore. Il suo cuore accettò la
pienezza dell’amore divino che era
pronta a ricevere, mentre quel dono divino doveva passare attraverso la sua
fede eroica, turbata da tentazioni simili alle posizioni di molti filosofi atei.
La virtù soprannaturale della carità con
cui riceviamo l’amore di Dio e cerchiamo di applicarlo nel nostro atteggiamento verso Dio stesso e verso gli altri,
anche se possiamo esservi pienamente
aperti solo negli ultimi momenti di vita, è l’unica realtà di paradiso che possiamo già sperimentare qui sulla terra.
Quando ci amiamo l’un l’altro sulla base di quell’amore divino abbiamo già
un piede in paradiso. Per comprendere
questo mistero, o piuttosto per accettarlo a livello intellettuale, poiché non
possiamo comprenderlo completamente, abbiamo bisogno di superare una presupposizione filosofica che ha distorto
il pensiero almeno fino alla fine del Medioevo. La prima causa può agire completamente dentro la causa secondaria,
senza privarla in nessun modo della sua
qualità, dignità e diritti naturali, e quindi le due cause non si fronteggiano come rivali. La grazia divina può manifestarsi all’interno di un’azione veramente umana. Noi possiamo suscitare un atto d’amore, che scaturisce da quel movimento di grazia interiore che è completamente sovrannaturale, trasparente
Imparare ad amare
uardando al dono totale di sé di Cristo
che ci ha amati sino alla fine, fino alla
manifestazione di quell’amore nella sofferenza della croce e alla sua manifestazione nell’Eucaristia, possiamo imparare ad amare, che è il senso del pellegrinaggio della nostra vita. Il segreto
della crescita nell’amore sta nell’apertura all’amore sovrannaturale che scaturisce dalla Trinità. L’essenza della carità è che è un amore sovrannaturale,
quello stesso che anima la Trinità che
può essere incarnata nel nostro amore
umano, purificandolo e dandogli pieno
splendore. «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato»
(Rm 5.5). Santa Teresa di Lisieux, nella sua meditazione della preghiera sacerdotale di Gesù, riconobbe il segreto
dell’amore divino. Gesù diede il proprio
amore e ci invita a vivere quell’amore
nei nostri rapporti umani. Noi possiamo far crescere quell’amore, non mediante i nostri deboli sforzi umani, ma
ricevendo con fiducia maggiore quell’amore che ci è dato liberamente. La
Santa di Lisieux disse: «Si dice che sia
più dolce dare che ricevere, ed è vero, così quando Gesù vuole gustare
egli stesso la dolcezza del donare, non
sarebbe gentile rifiutare». Santa Teresa aveva sentito di una suora di un altro
Carmelo che era morta in grande sofferenza offrendosi in riparazione alla giustizia divina. La Santa rifiutò questo tipo di devozione e si offrì invece all’amore misericordioso di Dio. Poiché Dio
è misericordia infinita, questa ha bisogno di anime che l’accettino e la vivano in pienezza. C’è, nell’amore divino,
una necessità inerente di diffondersi.
27
rituale è contrapposto allora dalla crisi
della notte oscura provata fortemente a
livello psichico. Un’immersione più
profonda nel mistero di Dio non dà una
luce tale da rendere non necessaria la
fede. Al contrario, obbliga la persona a
compiere atti di fede più profondi ed
eroici in cui il mistero sia ricevuto in
completa cecità contro un’opposizione
naturale.
Andando avanti nella vita, impariamo
ad amare, e ad abbandonare i nostri progetti, le immaginazioni, le autocondanne e le ambizioni, così che l’amore divino, dato liberamente da Cristo sulla
croce, possa essere accolto nel profondo dei nostri cuori. Coloro che, nel corso della vita attiva, hanno imparato a vivere l’amore che è più potente dell’amore divino, riconoscendo la debolezza dei loro sforzi naturali e aprendosi
nella fede all’amore, gratuitamente dato loro come dono immeritato, entreranno nell’eternità pur rimanendo ancora con noi. Coloro che hanno lasciato l’apertura al dono divino nei momenti
finali della loro vita, imparano l’umile
sottomissione alla grazia divina negli
ultimi momenti, quando la malattia, la
sofferenza e la fragilità li costringeranno a confidare solo in Dio. La morte è
un trasferimento, in cui la grandezza dell’amore divino può sopraffare la persona completamente. Noi andiamo in paradiso per amare e per amare di più, grazie a quell’amore divino che abbiamo
appreso a vivere già qui sulla terra.
È alla luce del mistero dell’amore divino che dobbiamo guardare la vecchiaia.
Nel passato le persone vivevano con una
consapevolezza più profonda di dipendere da Dio, poiché sapevano che la loro sopravvivenza era legata al tempo e
ai raccolti. Oggi grazie al benessere economico le persone possono vivere la
maggior parte della loro vita attiva senza pensare a Dio. Egli ha tuttavia rea-
all’amore supremo di Dio, e allo stesso
tempo è pienamente atto nostro, con tutto il nostro coinvolgimento, le nostre inventive e la nostra responsabilità personale. La volontà umana, poiché è creata, può essere influenzata all’interno da
Dio, senza perdere in nessun modo la
propria natura umana, finalità e qualità
personale. Ciò vuol dire che l’amore di
Dio, reso manifesto nel dono totale di
sé di Cristo, può passare attraverso il
nostro amore umano. Dio infatti implora i nostri cuori, le nostre menti e le nostre mani, la nostra generosità e creatività, così che qualcosa del Suo amore
divino si manifesti nel qui e nell’adesso del-le nostre vite.
Una difficoltà scaturisce tuttavia dal fatto che noi possiamo facilmente opporre resistenza al movimento della grazia
di Dio all’interno di noi. Attraverso le
nostre ambizioni, attraverso le convinzioni delle nostre speciali capacità e diritti, possiamo bloccare la purezza della grazia divina in noi. Occorrono un
grande sforzo e una povertà spirituale
per allontanarci con umiltà dall’attaccamento ai nostri progetti e idee, permettendo alla fecondità di Dio di manifestarsi all’interno di essi.
C’è un’altra difficoltà nell’arrendersi
completamente a Dio. Mentre, da una
parte, è vero che esiste una corrispondenza tra natura e grazia, ove la grazia
rende la natura più naturale, più aggraziata, dall’altro c’è una certa opposizione tra le due. Il dono della grazia sovrannaturale estende le facoltà umane
oltre i loro limiti naturali. La grazia, in
particolare quando diventa più dominante nell’anima, è percepita dalla natura come un’intrusione, una sorta di virus che genera una reazione febbrile.
Quando il dono di Dio della grazia diventa più potente, quando prende il controllo dell’anima, le forze della natura
protestano. Ciò che accade a livello spi28
gito a questa situazione estendendo la
durata della vita. Gli esseri umani ora
vivono più a lungo, e a volte nella vecchiaia trascorrono lunghi periodi, quando sono malati, soli e dimenticati dalla
famiglia. È un periodo di tempo privilegiato, donato da Dio, quando i vecchi
e i malati, che sono stati indipendenti e
hanno avuto successo nella vita, imparano a staccarsi da tutto ciò a cui erano
attaccati e a diventare figli di fronte a
Dio. Può sembrare che i vecchi e i malati, costretti in un letto d’ospedale o in
una casa di riposo, possano fare poco,
che la portata della loro carità sia ridotta. Dio, però, non ha bisogno di grandi
progetti e di attività umane gigantesche.
Egli aspetta solo la risposta del cuore
dell’uomo. La persona che, in vecchiaia,
trascorre giorni noiosi e monotoni nella preghiera, in abbandono a Dio, poiché tutti coloro che le sono vicini se ne
sono andati, che non cerca più di imporre a Dio i propri progetti di vita, poiché la storia è andata avanti e ciò che
sembrava importante e drammatico nel
passato non è più rilevante, questa persona può diventare trasparente allo
scambio d’amore che scaturisce dalla
Trinità. Questo è un momento inviato
da Dio che non dovrebbe essere ignorato o passare inosservato. È un tempo
per un approfondimento e una purificazione ultima della fede e della carità divina nell’anima.
ricordi che avevano accompagnato la
persona durante la sua vita. Il momento finale era un tempo per dire addio ai
familiari e ricevere il viatico per il viaggio finale. Le preghiere che l’accompagnavano contribuivano a mantenere una
fede viva, una fiducia profonda in Dio
e a consegnarsi nelle braccia amorevoli del Padre che aspetta. I progressi attuali nelle tecniche mediche e nell’organizzazione delle cure sanitarie terminali hanno prolungato la durata degli ultimi momenti e trasferito l’agonia finale a istituzioni impersonali, ove le persone muoiono, attaccate a delle macchine, spesso lontane dai propri cari e
senza il sostegno delle loro ardenti preghiere. Queste circostanze aiutano o impediscono di mantenere vive la fede e
la fiducia nell’amore di Dio, nonostante le sofferenze e la minore consapevolezza dei morenti?
Le virtù teologali non appartengono al
livello psichico ma a quello spirituale,
e ciò vuol dire che il loro esercizio non
coinvolge necessariamente sentimenti
consapevoli, anche se la presenza di
queste virtù nelle facoltà può suscitare
un’eco a livello psichico. La ripercussione delle virtù teologali, pertanto, non
genera necessariamente una reazione
sperimentalmente percettibile, pur rendendo l’anima aperta alla grazia. Noi
non possiamo materialmente percepire
il movimento di grazia, anche se possiamo consapevolmente sperimentare il
fatto che compiamo un atto di fede o un
atto d’amore, basato unicamente sul fondamento che è la fiducia in Dio. Un’esposizione teologica delle virtù teologali, della loro natura e modo di funzionamento è applicabile a tutte le situazioni di vita. La fede di un bambino
che riceve la Prima Comunione è la stessa, nella sua natura, di quella di un mistico intenso. È un dono di grazia, che
dispone l’anima all’incontro con Dio.
Incontro con Dio
e morte procrastinata
Nel passato gli ospedali erano luoghi in
cui venivano curati i malati. Quando i
medici arrivavano alla conclusione che
per il paziente non c’era più nulla da fare, questi era rispedito a casa per morire. Ciò voleva dire che l’agonia finale
avveniva a casa, spesso alla presenza
della famiglia, tra i mobili, i quadri e i
29
gia medica polacca, sono stati coniati
nuovi termini per descrivere situazioni
emergenti e che stanno acquisendo proprietà. Una morte che avviene spontaneamente, come risultato naturale della
malattia, nonostante cure mediche appropriate o come risultato del fatto che
attrezzature mediche limitate sono state trasferite a un altro paziente, che si riteneva dovesse averne più bisogno, è descritta come «ortotanasia», che vuol dire buona morte. Non ha nessuna delle
connotazioni moralmente cattive dell’«eutanasia», che si riferisce strettamente all’uccisione diretta della persona sofferente. Un trattamento medico
aggressivo che cerchi di prolungare la
vita del paziente a tutti i costi, senza tener conto del dolore del paziente e di
una situazione senza speranza, è definito «distanasia». Infatti, più che il prolungamento della vita, essa è il prolungamento del processo di morire. Forse
seguendo la logica della nuova terminologia potremmo coniare il termine finora non ancora usato di «eterotanasia» per un modo inappropriato di morire che sarebbe un antonimo di «ortotanasia», la «buona morte» mentre «distanasia» sarebbe una forma di «eterotanasia». Così come distinguiamo tra
«ortodossia» ed «eterodossia», distingueremmo allora tra un modo appropriato e uno inappropriato di morire. Può
accadere che il processo di morire venga prolungato artificialmente per una serie di ragioni che non meritano approvazione morale. Se ciò è fatto senza
preoccupazione del vero bene del paziente, ma unicamente allo scopo di ricavare materiale per la ricerca scientifica, o per la «raccolta di organi» o, come può accadere nel caso di un dittatore, al fine di predisporre manovre politiche prima della sua morte, queste
preoccupazioni per il prolungamento
della vita sarebbero una forma di «ete-
La questione tuttavia è come funzionano queste virtù nei momenti di malattia
e fragilità umana. Può un anziano, essendo incosciente, perché sotto l’influenza di medicinali o depresso, esercitare le virtù teologali? Può una persona ritardata mentale, incapace di sforzi
intellettuali, compiere atti di fede e carità? Naturalmente è difficile giudicare
osservando la persona debole dal di fuori, ma per fortuna non è nostro compito farlo e accertare la qualità delle sue
virtù teologali. Chi siamo noi per escludere queste persone dall’incontro con
Dio? Certamente a volte possiamo testimoniare espressioni di fiducia e devozione tra i disabili mentali profondi.
Quando le qualità umane sono sottosviluppate o ridotte, la fiducia in Dio
può essere l’unica realtà spirituale che
rimane, e con la Trinità trovare la gioia
suprema nell’incontro con i poveri di
spirito (Lc 10, 21). Fede e carità sono
date da Dio per permettere un contatto
con Lui e spetta a Lui stabilire se e come sono esercitate. Noi possiamo credere pertanto che la senilità, la sofferenza e l’agonia della morte possono apportare all’anima una purificazione assoluta tale che la fiducia in Dio resti l’unica realtà importante e decisiva anche
nello stato di una consapevolezza affievolita e ridotta. Molteplici esempi di
morti sante, in cui il passaggio finale è
un momento per convertirsi, abbandono di tutte le speranze effimere e passaggio nelle mani del Padre amorevole,
mostrano che ciò è possibile, che è infatti il momento più importante della vita, che dà inizio alla vita più ricca, alla
vita risorta, dall’altro lato dell’eternità.
Per concludere, vorrei aggiungere una
breve osservazione prendendo in considerazione nuove questioni bioetiche suscitate dallo sviluppo delle scienze mediche e la possibilità dell’estensione dell’agonia finale. Secondo la terminolo30
re trattamento sia considerato come
straordinario e sproporzionato, e se i palliativi che possono risultare in una diminuita coscienza possono essere applicati. Deve comunque essere mantenuto il principio formulato da Giovanni Paolo II: «Avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado
di poter soddisfare ai loro obblighi
morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con
Dio».
rotanasia». La decisione moralmente
accettabile di fare a meno della «distanasia», il gravoso e sproporzionato trattamento medico «aggressivo» deve tener conto del vero bene del paziente. Per
tornare, quindi, alla questione discussa
in questo intervento, è importante che
nel vero bene del paziente che deve sempre rimanere il punto centrale, siano inclusi il suo bene spirituale e il suo incontro con Dio. Il fatto che il morente
abbia ricevuto i sacramenti può essere
un fattore che entrerà, a parte gli argomenti strettamente medici, nella valutazione se il prolungamento di un ulterio-
p. Wojciech Giertych OP
IL CREDO DEI CHIAMATI
Noi crediamo che Dio ci ha scelti prima
della creazione del mondo, per essere
santi e immacolati al suo cospetto (cf Ef
1,4).
Considerando la nostra chiamata, noi crediamo che Dio ha scelto ciò che è debole
per confondere i forti, affinché la nostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1 Cor 1,27;25).
Noi crediamo che quelli che Egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del
Figlio suo (Rm 8,29).
Noi crediamo che a ciascuno Dio ha dato una manifestazione dello Spirito per
l’utilità comune (1 Cor 12).
Noi crediamo che Dio ci ha scelti fin dal
seno materno, ci ha chiamati con la sua
grazia e si compiace di rivelare a noi suo
Figlio, perché lo annunziamo (Gal 1,1516).
Noi crediamo di doverci comportare in
maniera degna della vocazione che abbiamo ricevuto: con tutta umiltà, mansuetudine e pazienza, cercando di crescere
in ogni cosa verso di Lui (Ef 4,1-2).
Noi crediamo che Egli ci ha salvati e ci
ha chiamati con una vocazione santa non
in base alle nostre opere, ma in base alla sua grazia che ci è stata data in Cristo
Gesù fin dall’eternità (1 Tm 1,9).
Noi crediamo che tutto concorre al bene
di coloro che amano Dio, che sono stati
chiamati secondo il suo disegno (Rm 8,28).
Noi crediamo a colui che in tutto ha potere di fare molto di più di quanto possiamo domandare o pensare, secondo la
sua potenza che già opera in noi (Ef 3,20).
Noi crediamo che Gesù Cristo ci ha stimati degni di fiducia chiamandoci al suo
servizio (1 Tm 1,12).
Noi crediamo che colui che ha iniziato
in noi quest’opera buona, la porterà a
compimento fino al giorno di Cristo Gesù, perché colui che ci ha chiamati è fedele (Fil 1,6;1 Ts 5,24).
Noi crediamo di essere apostoli per vocazione, servi di Cristo Gesù, prescelti
per annunciare il Vangelo di Dio (Rm
1,1).
31
Ottobre mese del Santo Rosario
Il mese di ottobre, unitamente al mese di maggio, è il tempo che la
pietà popolare riserva alla recita del S. Rosario, per onorare
la Vergine Maria e per implorare le grazie necessarie a vivere
santamente la propria vita. La particolare intenzione nel mese
di ottobre sono le missioni. Quest’anno sarebbe bello aggiungervi
i sacerdoti, nell’anno a loro dedicato.
Rosa autunnale
La Nicchia
Trentasett'anni, Vergine, è che vo,
stanco e cencioso come un vagabondo,
lungo il torto viottolo del mondo;
e quando e dove poserò non so.
Na nicchia un po aroccata ner giardino
de na Madonna fa da copertura
quattr'angeli je fanno capolino
fra tante gemme vive de natura
Ma tu, che d'ogni sconsolato errante
segui, dall'alto, le intricate pèste,
volgi i begli occhi al tuo Figliol celeste,
digli che m'apra le sue braccia sante.
E na corona a petali de rose
emanano er profumo a lei Maria
vorebbero parlaje e dije cose
der tempo ch'è trascorso a casa mia
Digli che ho sete e secca è la cisterna,
digli che ho fame ed ho per pane sassi,
digli che, a notte, sugli incerti passi,
mi si spegne, guizzando, la lanterna.
Tu che Madonna sei l'Immacolata
una colomba a te ieri è salita
da qui dai nostri affetti ch'è volata
lascianno segni amari nella vita
Tuo figlio, o Madre, è pane acqua e luce
che pienamente illumina e ristora;
Egli, accogliendo l'anima che implora,
seco, se degna, al Padre la conduce.
Sentenno drento er core a viva voce
quarcosa che te manca e voi pregare
facennome poi er segno della Croce
Madonna Santa nun ciabbandonare.
Maurizio Albani
Egli è l'amore che ci sana e sbenda.
Ei, se ammutimmo, ci dà nuova voce;
Ei, lampeggiando, si fa viva croce
a ciò che l'uomo nuovo vi si stenda.
La chiesa di polenta
Ma io, che son fra gl'infimi il meschino
e non son degno ancor del mio Signore,
(dacché, come lo stolto potatore,
mi sopravanza alla vendemmia il tino)
Ave Maria! Quando su l’aure corre
l'umil saluto, i piccioli mortali
scoprono il capo, curvano la fronte
Dante ed Aroldo.
Una di flauti lenta melodia
passa invisibil fra la terra e il cielo:
spiriti forse che furon, che sono e che saranno?
Un oblio lene de la faticosa vita,
un pensoso sospirar quiete,
una soave volontà di pianto l'anime invade.
Tacciòn le fiere e gli uomini e le cose,
roseo 'l tramonto ne l'azzurro sfuma,
mormoran gli alti vertici ondeggianti Ave Maria.
se tu non vieni, Vergine, a pigliarmi
col tuo mistico remo e col tuo lume,
giunto sull'orlo dell'infernal fiume,
non ho da me speranza di salvarmi.
Vedi, pia Madre, come già la morte
tutto, pel mondo, capovolge e oscura;
schiava del corpo, l'anima ha paura,
sotto il flagello, di non esser forte.
Recala dunque, Ausiliatrice bella,
teco, da questo umano carcer tristo,
su, fin nel sole in cui sfavilla Cristo,
ed ogni assorta anima intorno è stella.
Giosuè Carducci
8 DICEMBRE FESTA DELLA
IMMACOLATA CONCEZIONE
Nella chiesa di Trinità dei Monti ore 11
S. Messa con tutti gli operatori Sanitari
OMAGGIO FLOREALE ALLA
MADONNA IN PIAZZA DI SPAGNA
E mentre, sciolta da' suoi pensier vani,
solo in te goda, Vergin gaudiosa,
falla cader, com'autunnale rosa,
del figliol tuo sulle trafitte mani.
Domenico Giuliotti
32
Novembre preghiera per i Defunti
Riflessioni
La morte
Se ci penso un po'
È davvero strana la vita,
Passa come un alito di vento
E d'improvviso è poi finita.
Lenta la morte che non ha mai un'ora
che può avvisare chi qui in terra vive
è quando che si vede che addolora
per poi sentirla nel poterci scrive.
Non sei più fra noi...
Non più fra la gente
Rimangono gli oggetti inanimati
E i ricordi nella mente.
Passa non ha età è come il vento
arma le mani e menti a rude gente
rapendone poi tanti a cento, a cento
presente sempre più a un'incidente.
È davvero grande...
Questo vuoto che hai lasciato
Ma noi siamo sicuri
Che sei in un posto beato.
Eccola li in agguato è nello specchio
guardando ogn'immagine di un viso
è nel specchiarsi che ti vedi vecchio
nel non sapere più cosè un sorriso.
È da questa mattina che ti penso
E ti rivedo sulla loggetta
Fra i panni stesi al sole
Quando ti chiedevo
Elide... dammi una sigaretta!
Non ti da il tempo di lasciar un biglietto
per dare a chi rimane ancor un saluto
volendo dire un ciao, un ciao di affetto
anche a chi poco bene ti ha voluto.
La chiesa ieri era piena di gente
Per darti l'ultimo saluto
Chi ti voleva bene
Ma anche chi non ti ha conosciuto.
Anche io ti ho salutato
Come tu mi hai sognato
L'ho fatto con un canto
Ma la voce mi si spezza
Con una lacrima di pianto.
Angelica Daga
Eternità
Se la vita terrena pone continui sforzi umani
se il cielo piange
e la terra pietosa assorbe il suo dolore.
Se una pioggia di stelle
insegue danzando l'alba nascente.
Se il vulcano nel profondo nero
scala il sentiero dell'indifferenza
per esplodere nella luce.
Se nel cammino dello sguardo tuo
ti sembrerà che tutto intorno a te
stia andando in rovina.
Tu non temere figlio mio,
io sono con te
dai tempi dei tempi,
nella gioia, nella pace, nell'amore
Per l'eternità.
Ennio Proietti
Ti porti li con te quel ciao di amore
che veglia sul tuo corpo addormentato
di un tempo che non conta mai più l'ore
per essersi in quell'ora il cuor fermato.
Passando ore e tempo che ora tace
volendo chissà chi poi ricordare
rompendo quel silenzio ch'è di pace
capendo solo oggi cosè amare.
Maurizio Albani
Speranza e vita
Franco, ricordiamo insieme la tua vita,
la lotta sul lavoro, il successo, l’amore familiare.
Penso con nostalgia al tuo piglio guascone,
ma io so quello che avevi dentro:
Il tuo affanno per sgombrare dalla famiglia gli errori
ed avere una vita serena.
Ma Dio sempre presente in ognuno di noi,
ti ha concesso anni fecondi:
amore familiare, ascesa nel sociale.
Che sappiamo, però Franco, dov’è la verità?!
Esiste una Verità nascosta,
ma bisogna sempre offrire il cuore.
È arrivata la Croce,
e gli occhi sono pieni di pianto.
Chiudiamo gli occhi e sogniamo
oltre i confini della speranza.
La famiglia è unita intorno a te
e segue i tuoi lenti passi.
Ma allora la Vita... che Vita è?
Sono certa che ora, la tua mente
ormai convinta
s’aprirà per sempre a l’Amore Eterno.
Maria Giovanna Zucconi
33
RIFLESSIONI SULLA «DIGNITAS PERSONAE»
L’inganno terminologico
della pillola del giorno dopo
L
dunque, che la pillola possa anche impedire lo sviluppo dell’embrione già esistente, con il noto effetto dei progestinici sull’endometrio uterino. Sebbene manchino ancora, a livello scientifico, le prove certe di una tale azione, è tuttavia corretto ammettere che si possa presumere
una qualche interferenza nello sviluppo
dell’embrione precoce.
I mezzi contragestativi si riferiscono essenzialmente all’assunzione di un antiprogesterone (mifepristone). Il mifepristone (RU 486) ha come effetto principale quello di bloccare i recettori per il
progesterone; somministrato nelle prime
ore dopo il rapporto sessuale, impedisce
l’impianto dell’embrione, e la sua efficacia si protrae fino a cinque giorni dopo il
rapporto. Il mifepristone è usato soprattutto per il suo effetto contragestativo, e
non può essere assunto senza controllo
medico.
La contragestazione operata con il mifepristone realizza chiaramente un
aborto e non può sussistere nessun dubbio sulla grave illiceità morale del suo
uso, tanto per il medico che lo prescrive quanto per la paziente che lo richiede e lo assume.
Per quanto riguarda i mezzi intercettivi,
già si è accennato alle accese discussioni
sul loro meccanismo d’azione, che hanno generato giudizi contrastanti sull’illiceità morale della loro assunzione. Si deve affermare, tuttavia, che il solo fatto che
tali mezzi siano concepiti per avere un effetto intercettivo, cioè abortivo, e data la
probabilità che questi effetti siano reali,
il suo uso è da ritenere, dal punto di vista
morale, gravemente illecito, a motivo del
a seconda parte dell’istruzione Dignitas
personae, dedicata ai nuovi problemi riguardanti la procreazione, si conclude con
un paragrafo circa le nuove forme di intercezione e contragestazione. Questi sono mezzi tecnici che, una volta avvenuta
la fecondazione, agiscono allo scopo di
impedire all’ovulo fecondato d’impiantarsi nell’utero – intercezione – o di proseguire nella propria maturazione una volta che l’impianto è avvenuto contragestazione.
Tra i mezzi intercettivi ci sono dispositivi
intra-uterini (spirale), prodotti con azione antigonadotropa (danazolo), prodotti
di uso orale in combinazione con alte dose di estrogeni. In quest’ultimo caso, il
metodo attualmente più diffuso è quello
che utilizza il progestinico levonorgestrel.
Il meccanismo di inibizione della gravidanza esercitata da questo prodotto,
somministrato con due dosi successive
entro le 48 ore dal rapporto sessuale, è oggetto d’intensa discussione a livello medico ed etico. Alcuni, infatti, parlano di
un effetto puramente contraccettivo che
impedirebbe la fecondazione. Altri, invece, sostengono che tale prodotto agisce
anche dopo la fecondazione. L’azione post-coitale di questo prodotto dipende prima di tutto dal momento in cui è assunto,
rispetto al ciclo ovarico della paziente. Se
la pillola viene assunta a fecondazione già
avvenuta, impedendo la gravidanza, si deve ammettere l’esistenza di un’azione che
impedisce lo sviluppo naturale dell’embrione. Un effetto rilevato nelle donne che
hanno assunto la pillola a base di levonorgestrel è stato una certa alterazione della ricettività dell’endometrio. Si suppone,
34
mancato rispetto della vita umana in esso implicito.
Non è rilevante quale sia il momento esatto in cui viene interrotto lo sviluppo di un
embrione, attraverso un atto positivo. Ci
si situa qui nella fattispecie dell’aborto,
tanto a livello morale quanto a livello canonico.
Sotto quest’ultimo aspetto, in particolare, l’istruzione ricorda opportunamente
che la configurazione penale dell’aborto,
per il Diritto Canonico, riguarda «l’uccisione del feto in qualunque modo e in
qualunque tempo dal momento del concepimento», come attestato dalle Risposte a dubbi emesse il 23 maggio 1988 dalla Pontificia Commissione per l’Interpretazione Autentica del Codice di Diritto
Canonico.
A livello morale, è doveroso ricordare i
termini dell’enciclica Evangelium vitae
che definisce l’aborto procurato «l’uccisione deliberata e diretta, comunque
venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita».
E l’enciclica continua: «La gravità morale dell’aborto procurato appare in
tutta la sua verità se si riconosce che si
tratta di un omicidio e, in particolare,
se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare»
(n. 58).
Si deve sempre tenere presente che dal
momento della fecondazione, cioè della
penetrazione di uno spermatozoo nell’ovulo, inizia la formazione di una nuova
entità biologica, lo zigote. I due gameti
realizzano, con l’unione dei loro rispettivi programmi, un nuovo progetto-programma che determina ciò che sarà l’essere così individuato. E in questo momento che comincia l’avventura di una
nuova vita umana.
A livello biologico conviene insistere sul
fatto che un tale programma non è un materiale inerte, sul quale l’organismo ma-
terno possa poi agire, allo stesso modo in
cui ci si serve di un programma di lavoro
per costruire un progetto. Si tratta, invece, di un nuovo progetto che si costruisce
da solo e che è autore e attore di se stesso. Dal momento della fecondazione, sono i sistemi di controllo dello zigote a entrare in gioco e sono ancora questi che assumono il controllo totale dell’impianto
dell’embrione. In altre parole, dalla prima divisione di segmentazione in bastomeri fino allo stadio di blastocisti e all’annidamento, il responsabile della programmazione è il materiale genetico intrinseco del neo-concepito. Pertanto, l’embrione umano, ancora prima del suo
impianto nell’utero, dal processo della
fecondazione e della formazione dello
zigote, merita il pieno rispetto dovuto
alla persona umana.
Se i mezzi tecnici intercettivi e contragestativi sono abortivi, ci si può chiedere perché la presente istruzione ne voglia trattare, essendo l’aborto una materia ampiamente discussa negli ultimi cinquant’anni nei testi del magistero della
Chiesa. Il motivo essenziale è che questi
mezzi vengono talvolta presentati, in modo ingannevole, come mezzi puramente
contraccettivi, il che ha generato le discussioni alle quali si è fatto riferimento
precedentemente.
L’inganno si situa anzitutto a livello terminologico: si parla volentieri di «contraccezione d’emergenza», oppure di
«contraccezione pre-impiantatoria» o
ancora di «contraccezione post-coitale»;
si usa anche l’espressione «pillola del
giorno dopo», in analogia con la classica pillola contraccettiva. Questo tipo di
terminologia induce erronea-mente a credere che esistano due tipi di contraccezione. Il primo che designa i metodi classici (ormonali, di barriera, eccetera) che
si usano prima del rapporto sessuale; e un
secondo, che si userebbe in caso di dimenticanza, una volta avvenuto il rapporto.
Se esiste qualche incertezza a proposito
dell’azione esatta dei mezzi di «contrac-
35
cezione d’emergenza», un tale dubbio
induce a propendere per un’azione abortiva, per l’impedimento dell’annidamento.
In tale condizione, la regola morale è chiara: chiede di astenersi, perché ciò che è
in gioco è l’esistenza di una vita umana, che deve essere rispettata e tutelata. Si noti anche che, a livello etico, la
specie morale dell’aborto non cambia a
seconda che questo venga effettuato con
intervento chirurgico, o in maniera più
«asettica» attraverso la somministrazione di una pillola.
Tale giudizio non impedisce di continuare
gli studi circa i modi più adatti per affrontare i gravissimi problemi causati dalla violenza sessuale a una donna. Se da una parte la donna vittima di una terribile aggressione alla sua dignità ha il diritto di difendersi, anche attraverso l’uso di mezzi che
potrebbero impedire l’ovulazione e la fecondazione, occorre d’altra parte ribadire
che va difeso anche il diritto alla vita dell’essere umano eventualmente già concepito. Se ci fosse una qualche incertezza al
riguardo, non sarebbe lecito utilizzare mezzi che potrebbero avere un effetto anche
abortivo. Come afferma l’enciclica Evangelium vitae, «sotto il profilo dell’obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte ad una persona
per giustificare la più netta proibizione
di ogni intervento volto a sopprimere
l’embrione umano» (n. 60).
Occorre anche ribadire che non siamo qui
di fronte alla fattispecie di una coscienza
confusa a causa di un dubbio sul valore
dell’azione progettata, come pretendono
alcuni difensori della «pillola del giorno
dopo». La persona che chiede una «contraccezione di emergenza» lo fa perché
ha avuto un rapporto sessuale che sa essere potenzialmente fecondo e desidera
che questa eventuale gravidanza venga
interrotta. La sua intenzione non è solo contraccettiva: ha anche un’intenzione abortiva. Il medico che prescrive a
questa persona la «pillola del giorno dopo» non lo fa per il suo effetto solo contraccettivo, ma anche per quello abortivo,
vale a dire per impedire lo sviluppo di una
gravidanza potenzialmente già iniziata.
E vero che la donna che assume il «contraccettivo d’emergenza» può farlo senza aver iniziato una gravidanza e che, in
questo caso, l’effetto del prodotto sarebbe prevalentemente antiovulatorio. Tuttavia, quest’ultima possibilità non modifica la specie morale del ricorso a tale pratica: la donna che vuole il prodotto e il
medico che lo prescrive o somministra,
accettano volontariamente il rischio di
provocare un aborto. Qualunque sia la
realtà a livello biologico, siamo certamente, sul piano morale delle intenzioni,
nel campo dell’aborto procurato.
La situazione appena descritta mostra il
dovere morale dei medici, degli educatori e dei confessori di illuminare la coscienza dei fedeli e di tutte le persone di
buona volontà, denunciando l’inganno che
ha reso possibile l’accettazione della «pillola del giorno dopo» nei Parlamenti nazionali.
In conclusione, si deve precisare che il fatto che s’invochi la contraccezione per «giustificare» retoricamente degli atti potenzialmente abortivi non deve ingannare, lasciando pensare che l’uso di mezzi solo
contraccettivi sia moralmente lecito. Al riguardo il magistero si è già ampiamente
espresso. Occorre osservare, tuttavia, che,
pur essendo la contraccezione un atto di
natura essenzialmente diversa, l’uso abituale e banalizzato dei mezzi contraccettivi, lungi dal fare regredire il ricorso all’aborto, trova spesso in quest’ultimo il suo
prolungamento. Al riguardo, fanno pensare le parole di Evangelium vitae: «Certo,
contraccezione ed aborto, dal punto di
vista morale, sono mali specificamente
diversi (...) Ma pure con questa diversa
natura e peso morale, essi sono molto
spesso in intima relazione, come frutti
di una medesima pianta» (n. 13).
Jean Laffitte
Vice Presidente della Pontificia
Accademia per la Vita
(dall’Osservatore Romano del 24/04/09)
36
L
dell’enciclica la situazione mondiale che
presenta scandalose disuguaglianza e gravi squilibri sociali.
Di fronte al fenomeno della globalizzazione occorre porre mano ad un profondo rinnovamento morale, culturale ed economico, che ridisegni lo sviluppo in maniera globale, basandosi sul fondamento
etico della responsabilità davanti a Dio e
all’essere umano come creatura di Dio.
Certamente il Papa non vuole offrire soluzioni tecniche per le problematiche sociali del mondo, ma richiamare i principi che sono indispensabili oggi per costruire lo sviluppo umano.
Tra questi principi il Santo Padre pone
a nuova enciclica si ispira, nella sua visione fondamentale, ad un passo della lettera di S. Paolo agli Efesini, dove l’apostolo parla dell’agire secondo «verità nella carità».
Il Papa afferma che la verità nella carità
è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’intera
umanità.
In questa nuova enciclica il Santo Padre
Benedetto XVI riassume la dottrina sociale della chiesa, affermando che: «solo
con la carità, illuminata dalla ragione
e dalla fede, è possibile conseguire
obiettivi di sviluppo dotati di valenza
umana e umanizzante».
La nuova Enciclica di Papa Benedetto XVI
l’attenzione alla vita umana, considerata come centro di ogni progresso; la libertà religiosa, collegata allo sviluppo
dell’uomo, la fame e la sicurezza alimentare per eliminare le cause di tale flagello. Il Papa richiama inoltre alla via della solidarietà verso i paesi più poveri;
occorre anche rivalutare il ruolo politico
degli Stati, senza dimenticare la responsabilità di partecipazione che ogni cittadino ha in ordine alla politica, all’economia, alla cultura, al bene comune, alla salvaguardia del creato. Bisogna recuperare anche il principio della gratuità e della logica del dono, con uno stile di vita
più sobrio. L’umanità è una sola famiglia, per questo bisogna cercare il bene
di tutti, perché tutti stiano bene. Il Vangelo ci ricorda che non di solo pane vive
l’uomo, per cui l’orizzonte dell’uomo
dev’essere più alto. Accanto allo sviluppo materiale ci dev’essere la possibilità
anche dello sviluppo spirituale, perché
l’uomo possa crescere in modo armonico e con lui l’intera umanità.
Enciclica da leggere.
La carità nella verità «è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della
Chiesa, un principio che prende forma
operativa in criteri orientativi» (n. 6).
L’enciclica richiama subito nell’introduzione due criteri fondamentali: la giustizia e il bene comune. La giustizia e parte integrante di quell’amore «coi fatti e
nella verità» (1 Gv 3, 18), a cui esorta
l’apostolo Giovanni (cfr n. 6). «Amare
qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto
al bene individuale, c’è un bene legato
al vivere sociale delle persone... Si ama
tanto più efficacemente il prossimo,
quanto più ci si adopera» per il bene comune. Due sono quindi i criteri operativi, la giustizia e il bene comune; grazie a
quest’ultimo, la carità acquista una dimensione sociale. Ogni cristiano – dice
l’enciclica – è chiamato a questa carità,
ed aggiunge: «È questa la via istituzionale ... della carità» (cfr n. 7).
(dal discorso tenuto nell’udienza generale del mercoledì 8/7/2009)
Il Papa pone come analisi di sottofondo
37
Antichi ospedali romani minori
L’OSPEDALE PER
I MILITARI
ra una lunga e travagliata storia, sempre però legata all’assistenza sanitaria:
era l’ospizio chiamato «de’ cento preti» e sul quale magari torneremo in una
prossima occasione. In questa nostra ricerca ci ha fornito preziosissimo supporto una rara opera di cui già ci siamo
avvalsi in altro frangente, ossia il trattato «Degl’Istituti di pubblica carità ed
istruzione primaria e delle prigioni in
Roma» pubblicato nel 1842 da mons.
Carlo Luigi Morichini.
Ravvisata a un certo momento l’esigenza di un ricovero specifico per i militari infermi, il Luogotenente generale
dell’Ordine, il balì Candida, si mise all’opera e nel settembre 1841 poté inaugurare il nosocomio castrense alla presenza di papa Gregorio in persona. La
struttura, come vedremo tra poco, era
davvero di grandi proporzioni sia in tema di posti letto che di organizzazione
sanitaria. Per far ciò, l’Ordine «vi avea
speso del suo venti e forse trentamila
scudi»: è molto difficile offrire una corretta comparazione in termini monetari odierni, ma in base ad una serie di calcoli potremmo parlare molto orientativamente di una somma tra i 450 ed i
650mila dei nostri euro. In cambio, la
«pubblica amministranza» si impegnava a pagare due «paoli» per ogni
giorno di degenza dell’infermo, a fronte di un solo «paolo» corrisposto per lo
stesso motivo agli ospedali civili. Il
«paolo» (detto anche «giulio») equivaleva a dieci centesimi di scudo e quin-
Chi ha avuto finora la cortese costanza
di seguire questa piccola serie dedicata
all’antica ospedalità romana, avrà avuto anche modo di verificare quanto zelo scientifico e organizzativo venisse
profuso a Roma in tema di assistenza
sanitaria. Pur tenuto conto dei diversi
contesti socioeconomici, abbiamo potuto accertare – forse per qualcuno con
gran sorpresa – che la città del Papa non
era davvero seconda a nessuno quando
si trattava di curare i corpi oltre che le
anime. Inoltre, abbiamo visto come non
vi fosse categoria sociale, professionale o anche semplicemente umana che
non potesse sempre godere d’una specifica assistenza: sotto questo punto di
vista, quella che oggi chiameremmo
«diversificazione dell’offerta» era davvero all’avanguardia. Il tema di questa
puntata mira quindi, pur narrando di una
presenza che fu tanto fugace quanto intensa, a confermare queste impressioni.
Quando oggi si parla di «ospedale militare» la mente corre subito all’imponente complesso del Celio, ma esso ebbe origine verso la fine dell’Ottocento
e comunque dopo l’unificazione d’Italia. Invece la specifica attenzione verso
la sanità castrense nacque molto prima,
ancora in vigenza del governo pontificio. Tralasciando alcune esperienze anteriori del tutto episodiche e prive di interesse, troviamo che nel 1835 papa Gregorio XVI assegnò al Sovrano Ordine
di Malta un fabbricato prospiciente ponte Sisto e che aveva avuto fino ad allo38
Quanto alla struttura del personale, il
di a poco più di due euro odierni.
L’ospedale si trovava sulla riva sinistra luogotenente generale dell’Ordine gedel Tevere, all’imbocco di ponte Sisto, rosolimitano era «il supremo ed indied è l’edificio che – pur con mutazioni pendente superiore», una sorta di pre– costituisce l’angolo fra il lungoteve- sidente, il quale nominava personalre dei Vallati e via dei Pettinari. Un tem- mente tutti gli addetti. Vi erano quindi
po inglobava pure il «fontanone» che un commendatore dell’Ordine quale
poi, in seguito ai lavori di risistemazio- «superiore locale» e un vice superione dell’area intorno al 1890, fu sposta- re (che si occupavano della disciplina
to sul lato opposto del ponte, a piazza in generale); un «cavaliere prodòmo»
Trilussa. Il nosocomio poteva contare (il direttore amministrativo); un sacersu quattordici sale e ben cinquecento dote priore ed uno vice priore (scelti
letti in ferro. In esso venivano curati, e fra i cappellani conventuali dell’Orditrattenuti fino al termine dell’eventua- ne); tre «professori consulenti», un mele convalescenza, i soldati pontifici di dico e due chirurghi (scelti fra gli uffiqualunque arma ed infermi di qualsi- ciali sanitari superiori delle milizie pontificie);
voglia maL'ex Ospizio dei Cento Preti col Fontanone
quattro «prilattia, purmarii», due
ché stanziamedici e due
ti in Roma o
c h i r u rg h i ;
nella produe «astanti
vincia romedici» e
mana. La
due «astanti
medicina
chirurghi»
generale era
per l’accetseparata
tazione; due
dalla chirur«flebotomi»
gia; le ma(gli addetti
lattie contagiose, la scabbia e la tisi avevano pro- ai salassi, pratica medica molto comupri reparti. Una camera munita d’infer- ne a quei tempi); un guardarobiere, doriate ospitava i soldati infermi ma og- dici infermieri, un portinaio e un cuogetto di restrizioni disciplinari. L’ospe- co. Questo staff era dimensionato suldale ospitava soprattutto la bassa forza l’ipotesi che la degenza media non su(«dal sergente in giù») ma vi erano co- perasse i duecento infermi, poiché in
munque alcuni locali «destinati agli uf- caso di afflusso superiore per ogni cinficiali ed altri impiegati militari che vo- quanta infermi lo si incrementava con
lessero esservi curati». Un’altra sala era un flebotomo, due infermieri e due meriservata ai convalescenti, i quali in pre- dici (o chirurghi, se del caso): un esemcedenza – ancorché militari – venivano pio di modulazione operativa del tutto
inviati al vicino ospedale della Trinità all’avanguardia. Le operazioni di alta
dei Pellegrini. «Vi sono i bagni», ci tie- chirurgia erano eseguite, dopo accurane a specificare il Morichini forse per to consulto, da uno dei «consulenti» o
meglio sottolineare l’eccellenza del luo- dei primari. I deceduti venivano trago, ma c’era ovviamente anche la spe- sportati con accompagno di sacerdote,
zieria «e tutt’altro che abbisogna a si- passate le ventiquattr’ore di rito, al cimitero dell’ospedale Santo Spirito.
mili istituti».
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la «dieta» consisteva in quattro once
giornaliere di minestra ripartite in due
pasti. Il «mezzo vitto» constava giornalmente di quattro once di minestra,
cinque di carne, sei di pane e «mezza
foglietta» di vino. Il «tuttovitto» comprendeva sempre la minestra, poi otto
once di carne, undici di pane e una «foglietta» intera di vino (mezzo litro).
Quest’ultimo trattamento competeva anche ai convalescenti, nel qual caso la razione di pane saliva fino a ben diciotto
once (circa mezzo kg). Per le dimissioni dall’ospedale si teneva apposito consulto tre volte la settimana e solo in caso di assoluta e palese guarigione il paziente veniva rinviato alla propria caserma: stante la dura vita militare, era
irrinunciabile che lo stato di salute dovesse essere ottimale.
Il Morichini, infine, presenta una piccola statistica riguardante i primi quattro mesi di attività, da settembre a dicembre del 1841. Il campione non è ovviamente molto significativo ma è
senz’altro interessante per valutare l’impatto della novità. Nel periodo entrarono in tutto 1.595 militari, due terzi per
trattamenti di medicina generale e un
terzo per trattamenti chirurgici. Il picco
di maggior presenza giornaliera fu di
325, il minimo di 184. I deceduti furono 41, pari a un 2,5% che per l’epoca
era ritenuta «un’assai piccola mortalità». Nel 1844 l’ospedale rimase poi
gravemente danneggiato da un incendio
ma fu presto restaurato sotto la direzione di Andrea Busiri Vici. Nonostante
però tanta eccellenza, per certi versi superiore perfino ad alcuni grandi ospedali civili, nel 1855 papa Pio IX volle
restituire l'edificio all'uso originario di
ospizio per i sacerdoti poveri e la sanità
militare fu dirottata nuovamente presso
l'ospedalità ordinaria.
Ogni mattina si celebrava la S. Messa
in ciascuna delle sale. L’infermo doveva confessarsi entro i primi due giorni
dal ricovero, in seguito secondo le necessità.
Tutti i dipendenti ricevevano «convenienti salari», risiedevano nell’istituto ma non ne ricevevano il vitto affinché tutto andasse agli infermi e per
giunta non accadesse che «i migliori
brodi e le migliori vivande sieno pe’
famigli, il peggio per gli infermi». Lo
speziale, a differenza degli altri, riceveva un compenso per ogni giorno di
ricovero individuale ed era pari a tre
bajocchi (circa û 0,75). I contratti di
fornitura dovevano durare non meno di
nove anni ed erano dettagliatamente
differenziati per classe merceologica
onde evitare quelli che oggi chiameremmo «maxiappalti». Il servizio di
guardia era assicurato da un sacerdote
confessore, un medico astante, un chirurgo astante, un flebotomo e non meno di tre infermieri. Ogni guardia era
di ventiquattrore, meno quelle degli infermieri e del confessore che turnavano ogni sei ore «a principiare dall’avemaria». Gli infermieri in servizio indossavano un soprabito di panno rosso
con croce di tela bianca, in linea con la
divisa dell’Ordine di Malta; i flebotomi e gli astanti l’avevano invece di panno turchino ma sempre distinto dalla
croce bianca. I primari visitavano gli
infermi due volte al giorno, i consulenti
tre o quattro volte la settimana. Una
volta al mese si teneva un alto consiglio tra il luogotenente generale dell’Ordine, il «superiore» commendatore e il direttore generale della sanità
militare, al fine di fare il punto sugli affari correnti e studiare eventuali migliorie.
Il vitto degli infermi era diviso in tre
classi. Premesso che un’oncia deve intendersi equivalente a circa 30 grammi,
Domenico Rotella
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