La guerra - Progetto Fahrenheit
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La guerra - Progetto Fahrenheit
Editoriale Se le Bombe Possono Far Pensare Parafrasiamo, un po’ liberamente, Julian Beck. Se le bombe non possono far pensare, come può farlo la Filosofia? Se la lunga linea di corpi lacerati prodotta dall’intera storia non può insegnare, come può farlo la Filosofia? Se le grida inquietanti delle voci incenerite di tanta popolazione del nostro tempo, le convulsioni del carro bestiame che ondeggia avanti ed indietro, torturati da scariche elettriche, povertà, disperazione psicologica, violenze, incapacità d’amare, crepe della famiglia, demonologia politica, idioti al timone, rovina dopo rovina, ognuno di noi trascinato come il corpo di Ettore intorno alla città in fiamme in segno di sconfitta, tutta la gloria trasformata in letame, se l’angoscia accumulata della storia nella sua tragedia senza pari non può far pensare, come può farlo una rivista di Filosofia? In passato alla guerra si riconosceva una sua, tremenda sacralità: ogni fase aveva le sue forme rituali, dalla dichiarazione alla pace. La Filosofia è nata in un tentativo di desacralizzazione del mondo – un processo interrotto e ben lungi dal compiersi. Anche il superamento della guerra, come forma di relazione intraspecifica, è stato un tema ricorrente della tradizione filosofica – e non a caso: anche se non è stata sempre all’altezza di questo compito, è stata in questa tradizione culturale che l’umanità ha individuato e si è proposta di superare la logica ferina ed irrazionale della volontà di potere. In ogni caso, quest’appello di PORTA DI MASSA – Laboratorio Autogestito di Filosofia... è stato quello che ha riscosso il maggior numero di consensi, di articoli proposti, di articoli portati a termine, al punto tale che siamo stati costretti a fare, sul tema “guerra” non uno ma ben due numeri. In questo numero, il secondo, si accompagna alla serie di saggi della rivista la raccolta dei pezzi giornalistici di Karl Marx scritti nei primi due anni della Guerra di Secessione Americana. Infine, ancora una volta, un ricordo per Toni Ferro, artista e docente di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro (di cui era stato per quasi un ventennio il Direttore), morto pochi mesi prima del primo numero di questa rivista dedicato al tema guerra. Protagonista del sessantotto napoletano (e non solo) nonché della sua scena culturale, è stato vicino negli ultimi anni all’esperienza di PORTA DI MASSA – Laboratorio Autogestito di Filosofia... e tutti noi lo ricordiamo con estremo affetto. Questo numero è dedicato a lui ed alla sua esperienza di uomo di cultura e pacifista militante. 2 P orta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia... costituisce un momento comunitario di lavoro collettivo e di confronto tematico – un “laboratorio” – in vista di un rinnovamento extraistituzionale del dibattito e della ricerca filosofica. Il progetto parte da alcune constatazioni. Innanzitutto, uno stato sociale di marginalità culturale delle discipline filosofiche trova oggi riflesso nella cultura che di esse si occupa in modo specialistico, in una forma di autocomprensione della Filosofia, che tende a racchiudere le attività filosofiche nel circolo delle attività solitarie della riflessione, della lettura e della scrittura, e a circoscrivere il loro momento pubblico nei luoghi, istituzionalmente predisposti, dell’insegnamento scolastico/ universitario e del convegno tra esperti. Ora, ciò che rischia di andare perduto e/o occultato in queste immagini della Filosofia è proprio una caratteristica che è stata matrice essenziale per la nascita stessa di questa disciplina. Tale caratteristica va individuata nella pretesa della Filosofia di essere una modalità di partecipazione diretta alle forme di comprensione dell’essere e della vita sociale, nonché di revoca di quel consenso che viene concesso, per autorità di rivelazione o di tradizione, per timore della forza o per invidia, ai poteri culturali e politici vigenti. Il progetto di Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia... è volto perciò alla costruzione di un lavoro di ricerca non elitario ed esoterico, ma che riscopra invece quel ruolo sociale che la Filosofia aveva all’atto della sua nascita e che ne ha caratterizzato i suoi momenti più fecondi. L’obiettivo è quello di mostrare come la Filosofia possegga la capacità di parlare in modo razionale e sensato, di offrire, in altre parole, validi momenti di riflessione ed elaborazione di categorie e compor- tamenti culturali, sui nodi cruciali dei vari e diversi campi dell’esperienza umana. Al di là di ciò, non esiste una “linea” culturale prefissata della pubblicazione, il che la rende simile ad una sorta di matematico insieme di Cantor: come questo, essa è definita in modo esclusivo dai suoi elementi, in altre parole dai testi che di volta in volta, numero per numero, costituiranno l’ossatura del dibattito e del lavoro collettivo. D’altronde la redazione stessa è costituita da persone provenienti da esperienze culturali e politiche eterogenee, che ritrovano nell’autogestione culturale – in una forma e non in un contenuto – il loro punto di incontro. Scrivere su Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia... significa, pertanto, riaffermare la volontà di mantenere uno spazio aperto e totalmente autogestito di discussione e di dibattito. Ciò, ovviamente, non implica affatto la corresponsabilità reciproca degli indirizzi d’indagine. Il ruolo e la responsabilità del dibattito redazionale e, in ultima istanza, quello del direttore sono limitati perciò, nella piena libertà di indirizzi culturali dei singoli, alla garanzia nei confronti del lettore della correttezza scientifica dei materiali presentati alla sua attenzione. D’altro canto, la vita umana associata, nell’esperienza di ciascuno di noi, è colma d’inutili sofferenze ed irrazionalità, che rimandano ad una riflessione sui meccanismi del loro superamento. La rivista che avete tra le mani, nei suoi limiti, è pertanto anche un esperimento utopico: è il tentativo di mostrare la possibilità di fare Filosofia e, in generale, Scienza in un luogo che non è quello degli spazi istituzionali, attraverso un’esperienza redazionale comunitaria e libertaria che si pone come alternativa alle gerarchie culturali e politiche della Filosofia ridotta a sapere morto ed 3 istituzionalizzato, a mero “genere letterario”. La particolarità della rivista – ciò che la rende un “laboratorio” – consiste in un particolare metodo di lavoro redazionale. La redazione è composta, numero per numero, da chi propone un articolo su una determinata parola-chiave: si può trattare di chi partecipa in maniera fissa alla redazione, così come di chi dà il suo contributo solo per quello specifico numero. In entrambi i casi, chi presenta un articolo s’impegna contestualmente a partecipare al lavoro redazionale, che si svolge secondo un’ottica comunitaria. In altri termini, non è possibile consegnare il proprio contributo e basta: chi presenta un articolo s’impegna a leggere quelli di tutti gli altri partecipanti al numero ed a fornire loro spunti critici, nei limiti ovviamente delle conoscenze e/o possibilità di ognuno. Il lavoro redazionale, inoltre, è sottoposto ad una norma generale: in linea di principio, non va criticata l’idea di base, l’opzione culturale di fondo del singolo, ma esclusivamente la sua espressione scientifica. Questo significa che chi si ritrova a leggere un contributo di cui non condivide l’impostazione di base, deve fare lo sforzo concettuale di entrare all’interno di quelle idee – che possono essere estremamente distanti dalle sue – e pensare come queste stesse idee potrebbero essere espresse con maggiore incisività e coerenza logica. Tale meccanismo fa sì che il collettivo redazionale si sostenga vicendevolmente in un’ottica libertaria, senza cioè censurare in alcun modo le peculiarità concettuali dei singoli, ma, al contrario, arricchire le sue potenzialità espressive. Questo, ovviamente, cum grano salis: il ruolo del Comitato di Redazione e, in ultima istanza, del Direttore Responsabile, consiste anche nell’individuare quelle opzioni culturali che appaiono loro irrimediabilmente contraddittorie e garantire, quindi, il lettore della correttezza scientifica dei materiali che, alla fine, sono presentati alla sua attenzione. Si tratta, evidentemente, di un meccanismo redazionale coerente con il tentativo di porsi al di fuori dei luoghi e delle gerarchie del sapere istituzionalizzato. La parola-chiave serve da spunto per aprire un ricco dibattito collettivo, che si sviluppa in numerose riunioni redazionali, le quali non hanno lo scopo di giungere a definire una “linea” alla quale i redattori devono sottostare, bensì alla presentazione di un ventaglio di proposte di ricerca diversificate, volte ad offrire al lettore i problemi, i risultati, le ambiguità connesse al tentativo di dare conto, secondo ragione, almeno parzialmente, degli svariati mondi che una determinata parola ha il dono di offrire alla riflessione degli esseri umani. Parallelamente a questo tipo di lavoro redazionale, il collettivo lavora anche intorno all’edizione di un “classico” della storia del pensiero filosofico, congruente con la parola chiave prescelta, che viene allegato alla rivista. Il collettivo redazionale lavora poi anche sul territorio, nel tentativo di riportare il pensiero concettuale nell’agorà, offrendo soprattutto al di fuori dei luoghi deputati istituzionalmente alla ricerca filosofica, numerosi spazi di conoscenza, di confronto e di dibattito. Quest’ultimo genere d’attività è riuscito a coinvolgere centinaia di persone, mentre la stessa, più impegnativa, attività redazionale di “laboratorio” è riuscita comunque ad attrarre in questi anni l’attenzione di decine di persone. Negli ultimi tempi, inoltre, si sta cercando di esportare il progetto culturale sotteso alla rivista anche al di fuori della città di Napoli, in cui questa esperienza è nata e si è radicata. Lo strumento principe che si utilizza al momento è www.portadimassa.net, WEB-TV (e non solo) di Filosofia. 4 BECKMANN, Max, La Notte (particolare) 5 Karl Marx La Guerra di Secessione Americana Articoli scritti per Die Presse (1861-1862) Saggio introduttivo “La Riflessione di Marx sulla Guerra di Secessione Americana” e note al testo di Enrico Voccia 6 DIX, Otto, Il Cannone 7 Enrico Voccia L a Riflessione di Marx sulla Guerra di Secessione Americana La Guerra di Secessione Americana e la Questione della Schiavitù La Guerra di Secessione Americana, detta anche Guerra Civile Americana, iniziò il 12 aprile 1861 e terminò il 26 maggio (o il 6 novembre, se consideriamo la guerra sui mari) 1865 fra gli Stati Uniti d'America e gli Stati Confederati d'America (CSA), entità politica sorta dalla riunione confederale di Stati secessionisti dall'Unione (USA). Questo a grandi linee, in quanto la reale composizione delle entità contrapposte non solo fu molto più complessa, ma subì notevoli modificazioni nel corso del conflitto: si verificò persino il caso di due Stati che per un certo tempo appartennero formalmente ad ambedue le entità politiche. Altri Stati, inoltre, dichiararono inizialmente la loro neutralità, anche se poi le vicende del conflitto finirono per coinvolgerli ugualmente. Vi è infine da ricordare come numerose formazioni di volontari provenienti dagli Stati dell’Unione abbiano combattuto nei ranghi confederati e viceversa, in base a motivazioni di natura ideologica che li portavano al “tradimento” delle Federazioni di appartenenza. La guerra in questione colpì moltissimo l’opinione pubblica del tempo, per tre motivi fondamentali. Innanzitutto, si trattava della prima guerra dove si vedevano all’opera – su larga scala e per un periodo di tempo considerevole – le nuove dinamiche della guerra conseguenti alle innovazioni tecnologiche conseguenti alla Rivoluzione Industriale, che si dispiegarono poi pienamente nella Prima Guerra Mondiale. Poi, le potenze europee fu- rono ripetutamente tentate di intervenirvi – a favore dell’una o dell’altra delle due parti, secondo diverse considerazioni di carattere geopolitico – rischiando di allargare il conflitto a livello mondiale: solo lo sviluppo di un forte movimento pacifista internazionale, sorretto soprattutto dal movimento operaio e socialista, ma anche da determinate correnti di borghesia “progressista”, impedì il disastro. Infine, la Guerra di Secessione Americana aveva, davanti e dietro di sé, come una delle cause scatenanti e come sottofondo ideologico, una questione che dilaniava le coscienze a livello internazionale: la legittimità o meno, il mantenimento o l’abrogazione, dell’istituto giuridico della schiavitù. Negli Stati Uniti, fin dai suoi inizi, la schiavitù influenzò fortemente lo sviluppo del suo sistema politico ed economico, non solo nell'aspetto maggiormente conosciuto della produzione agricola, ma, agli inizi, anche per ciò che concerne il settore industriale. Agli inizi dell'Ottocento, dopo che la produzione industriale aveva abbandonato il sistema schiavistico causa il maggior vantaggio, in termini di “flessibilità”, del lavoratore “libero”, la società americana si divise tra favorevoli e contrari alla schiavitù, oramai diffusa solo come manodopera a basso costo per la produzione agricola negli stati del Sud. Iniziò una tendenza di pensiero che riteneva inevitabile per questa istituzione una progressiva estinzione di pari passo con lo sviluppo socio-economico degli Stati Uniti: l’argomento, comunque, per anni rimase un tema su cui le forze politiche del paese difficilmente avevano interesse a confrontarsi. Negli Stati del Nord industrializzati dove la schiavitù era già stata abolita, 1 Nell'uso comune ma anche nella vasta letteratura dedicata a questa guerra ci si riferisce ai contendenti con diverse espressioni: • Unione, Unionisti, Nord, Nordisti, Giacche Azzurre, Federali o Yankees per gli Stati Uniti; • Confederazione, Confederati, Sud, Sudisti, Secessionisti, Ribelli, Dixies o Gentiluomini del Profondo Sud per gli Stati Confederati. 2 Di questo movimento v’è una traccia negli articoli di Marx che qui presentiamo: vedi, in particolare, “Un’Assemblea Filoamericana”. 8 VOCCIA, Enrico gli schiavi fuggitivi erano accolti ed impiegati nell'industria come manodopera a basso costo. Nel sud del paese, che manteneva prevalenti scambi economici con la Gran Bretagna, lo schiavismo era ritenuto indispensabile al sostentamento e allo sviluppo del modello di sistema economico, in cui la produzione agricola dipende da coltivazioni quali cotone, canna da zucchero e tabacco. I milioni di schiavi neri creavano una situazione concorrenziale con analoghe produzioni nel resto del mondo ove la schiavitù non era praticata. L'arricchimento dei proprietari terrieri era proporzionale anche alle risorse di schiavi disponibili, e nel contempo la loro ricchezza fu alla base del loro potere politico non solo nel Sud ma anche nel resto del paese. I principali personaggi politici – deputati, senatori e presidenti – furono spesso essi stessi proprietari di numerosi schiavi. D’altronde, la cosa valeva anche per molti “Padri Fondatori” della nazione. La questione della schiavitù dovette essere affrontata quando l’espansione territoriale degli Stati Uniti pose le questioni relative all’ammissione di nuovi Stati: il dibattito sull’abolizione dello schiavismo si radicalizzò gradatamente. Da una parte, al Nord, i gruppi abolizionisti si organizzarono dapprima come Gruppi dell'Impero Filantropico, successivamente in molti altri gruppi di pressione politica e di azione sociale diretta, volta allo scopo di organizzare la fuga degli schiavi. Al Sud, invece, oltre ad atteggiamenti assai violenti nei confronti dei neri e degli “amici dei neri”, la classe politica, espressione dei grandi proprietari terrieri, sviluppò un pensiero politico che legittimava lo schiavismo a partire dai fondamenti giuridici della stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America. I sudisti utilizzarono la Corte Suprema, che giunse a legittimare l’idea che la Costituzione valeva solo per una categoria di esseri umani, i bianchi americani, precisando che non era stata scritta per “i neri, schiavi o liberi che fossero”. Partiti antischiavisti come il Liberty Party e il Free Soil Party costituirono una novità nel sistema politico americano perché per la prima volta uno dei due schieramenti diede luogo a partiti politici apertamente antischiavisti, ma è solo a partire dalla metà del XIX secolo che lo scontro sullo schiavismo genera due partiti internamente strutturati su base sezionale che divisero di conseguenza anche il paese in due blocchi tali da compromettere la stessa unità della federazione. Da una parte gli abolizionisti nel Partito Repubblicano a Nord (nelle cui file confluirono i resti dei partiti antischiavisti), dall’altra gli schiavisti al Sud in quella parte del partito Democratico divisosi in modo insanabile nel 1860 tra la fazione del senatore Douglass (che non condannava apertamente la schiavitù e demandava alla sovranità popolare il compito di decidere in ogni Stato l’eventuale abolizione della schiavitù) e i democratici del sud favorevoli ad una legislazione federale complessivamente schiavista. Il Nord, inoltre, era protezionista, volto verso un mercato interno ed animato, in parte, da principi egualitari, mentre il Sud da parte sua era liberoscambista, orientato verso l'Europa per le sue esportazioni di materie prime (cotone, tessili), mosso da uno “spirito di tradizione”. La questione, nel suo complesso, fu largamente dibattuta all’interno dei giornali e periodici dell’epoca. Die Presse vide numerosi interventi di un esule tedesco a Londra, legato alle esperienze del movimento operaio e socialista, che rispondeva al nome di Karl Marx, che, sia pure all’interno di un taglio “giornalistico”, affrontò la questione partendo da un’impostazione speculativa di carattere generale che gli era caratteristica e che aveva oramai completamente sviluppato già da tempo. La “Filosofia della Storia” di Karl Marx “Filosofia della Storia”, riferito al pensiero di Karl Marx, è un termine che forse non tutti accetteranno, ma che qui, comunque, intendiamo nel senso 9 La Riflessione di Marx sulla Guerra di Secessione Americana delle riflessioni metacognitive sul divenire delle vicende storico-sociali della specie umana. Questa parte maggiormente speculativa del pensiero di Karl Marx è stata definita, già nella prima metà del Novecento, “Materialismo Storico-Dialettico”. Questa definizione venne ripresa dalle varie Accademie dei paesi a regime marxista, divenne tipica dei vari opuscoli e testi editi direttamente da esse o, negli altri paesi, da autori che vi facevano riferimento. Ebbe un notevole successo negli anni che videro la massima potenza dei paesi del “socialismo reale”, mentre oggi, con la decadenza di questi, gode di un certo discredito: porta con se, infatti, il ricordo di un’interpretazione burocratica e dogmatica del marxismo. La storia empirica di un concetto (nonostante la confusione odierna.) non ne inficia però l’eventuale validità. Ci sembra, infatti, che se si vuole introdurre il nucleo essenziale dell’interpretazione marxista delle vicende storicosociali dell’umanità, il concetto di “Materialismo Storico-Dialettico”, per definire la complessiva concezione di Karl Marx, sia ancora utile. Pertanto, lo utilizzeremo, cominciando a dare un senso preciso ad ognuno di questi tre termini. MATERIALISMO. Esiste una tradizione filosofica materialistica ben prima di Marx: essa consiste, a grandi linee, nella negazione dell’esistenza della sostanza spirituale in quanto tale, nella riduzione dei vari prodotti della mente (e la mente stessa) ad epifenomeno della materia e, in particolare, del corpo umano e, ancora più in particolare, del cervello. Marx denomina queste forme di materialismo come “materialismo volgare”: non perché non vi si riconosca in linea di principio, ma in quanto egli ha elaborato un concetto di “materialismo” diverso, incentrato non sulla questione mente/ corpo bensì sulla caratteristica peculiare dei rapporti sociali. Faremo qualche esempio per spiegarci. Prendiamo un paesaggio di montagna nelle Alpi: ci troviamo di fronte ad esso e vorremmo passare dall’altra parte. Le montagne sono alte, massiccie, e, nella loro materialità, ci pongono un grosso problema al suo attraversamento. Dovremo cercare un valico o tornare indietro fino a che non troviamo un mezzo di trasporto che ci permetta di passare oltre. Ripassiamo dopo alcuni anni e tutto sembra più facile: hanno costruito un traforo in una montagna ed ora possiamo passare con la nostra motocicletta, giungendo in pochi minuti dall’altra parte. C’è solo il piccolo ingombro di una sbarra, ma la nostra motocicletta è stretta e possiamo facilmente farla passare lateralmente. Invece no: tutto è diventato molto più difficile di prima. Quella piccola sbarra ci blocca il passo molto più della gigantesca montagna. È il segno dell’instaurazione di un confine: siamo di fronte ad una relazione umana, ad un rapporto sociale. Di lato della sbarra ci sono persone – le Guardie di Confine – che, se cercassimo di passare oltre senza alcun permesso (un permesso che si chiama “passaporto”, che loro devono ritenere in regola con la legge) ci sequestrerebbero e ci ucciderebbero persino se cercassimo di sfuggirgli. Non solo possono sequestrarci e ucciderci, ma se lo facessero nessun giudice li condannerà. Probabilmente verrebbero anche elogiate e fors’anche premiate per aver compiuto egregiamente il loro dovere. Passiamo ora ad un paesaggio marino. Il Mediterraneo da sempre unisce i luoghi che vi si affacciano. Un tempo, traversarlo era un’impresa e chi si accingeva a farlo, spesso, prima di partire, faceva testamento: era, con le tecnologie antiche e medievali, molto più difficile e pericoloso da attraversare di una montagna. Oggi, con le nuove tecnologie del trasporto marittimo, traversarlo è una banalità: ci si avvia anche con condizioni di mare che, un tempo, avrebbero ucciso i marinai delle migliori navi. Non ci sono nemmeno sbarre, per mare. Chiunque lo attraversi, lo trova materialmente libero da ogni parte. 1 Per una critica approfondita a tale confusione, vedi – all’interno di una rivalutazione della Filosofia “forte” contro l’irrazionalismo dominante come “principio dell’opinione pubblica”, HÖSLE, Vittorio, “Questioni di Fondazione dell’Idealismo Oggettivo”, in HÖSLE, Vittorio, Hegel e la Fondazione dell’Idealismo Oggettivo, Milano, Guerini ed Associati, 1991, pp. 13-69. VOCCIA, Enrico 10 Eppure, il rapporto sociale che si chiama “nazionalità” riporta i navigatori che non hanno ricevuto il “permesso di soggiorno” alle condizioni di un tempo: se avessero qualcosa da lasciare, farebbero anch’essi testamento come un tempo prima di partire. Non possono utilizzare le tratte normali e devono affidarsi alle “carrette del mare”, rischiando, come un tempo, la vita. Per loro le nuove tecnologie del trasporto è come non esistessero. Il senso del materialismo di Marx è qui: nella vita concreta degli individui, la materialità dei rapporti sociali è fortissima e, spesso, supera gli stessi impedimenti materiali in senso stretto. Un simile materialismo – legato alla materialità dei rapporti sociali – è quello che Marx ha elaborato: un materialismo che implica l’analisi delle forze sociali che dirigono, condizionano, ingabbiano la vita degli individui. In un certo senso, che li costruiscono in quanto tali, partendo dal momento della loro nascita che avviene sempre e comunque in ben determinati rapporti storico-sociali. 1 2 Vedi, p. e., EISLER, Riane, Il Calice e la Spada, Milano, Frassinelli, 2006. Il punto più noto, benché assai sintetico, è all’inizio di “Borghesi e Proletari”, il capitolo iniziale del celebre Manifesto del Partito Comunista. STORICO. La catena delle Alpi ed il Mar Mediterraneo sono lì da decine di millenni. Certo, sono cambiati anch’essi, ma i ritmi del loro cambiamento superano di gran lunga quelli delle vicende storiche e persino preistoriche umane. L’homo sapiens sapiens esiste, forse, anche da duecentomila anni. Un tempo che ci sembra enorme, ma per il paesaggio alpino e per il Mediterraneo sono quasi stati un soffio dall’oggi al domani. Per le frontiere, invece, no. Fino a diecimila anni fa, l’uomo era nomade ed esse non esistevano. Anche nei primi cinquemila anni di stanzialità successivi alla Rivoluzione Agricola, pare non ci siano stati problemi di frontiere e di nazionalità. Quel peculiare rapporto umano che si chiama “appartenere ad una nazione” è nato con la formazione, cinquemila anni fa, dei primi Stati. Da allora, una lunga storia di guerre ha portato i confini e le nazionalità ad essere una cosa labile, quasi parole scritte sulla sabbia. I “confini sacri ed inviolabili” sono stati, tutti, profanati e violati. Anzi, sono pressoché tutti distrutti e scomparsi, dando vita a quelli attuali. Ma ciò non accade solo per le frontiere: accade per leggi, forme di stato, strutture economiche, religioni, ecc. I tempi della materialità dei rapporti sociali, in genere, sono tempi storici, molto più rapidi, in genere, dei tempi della natura inorganica. La materialità dei rapporti sociali ne implica, costitutivamente, la storicità. DIALETTICO. Il termine “dialettico” deriva dal greco dialeghein: legare insieme. Ogni evento del mondo non è mai slegato dal resto, non si può vivere in una “torre d’avorio”. Non si può non nel senso che non è giusto farlo, ma che proprio è impossibile da fare. Di conseguenza, dal punto di vista della conoscenza scientifica, è impossibile capire quale sarà lo sviluppo di un materialistico rapporto storico-sociale focalizzandosi esclusivamente su di esso. Torniamo all’esempio delle nostre frontiere. Esse servono a separare, mantenere una distanza fra due “nazioni”, impedire le “contaminazioni”. Se ci concentrassimo solo su di esse, potremmo pensare che la loro esistenza cristallizzerà in eterno la distanza “nazionale” che sanciscono. Ma le frontiere non esistono nel vuoto: la loro azione di separazione si riversa sul resto dei rapporti sociali ed innesca reazioni complesse, dagli esiti spesso paradossali. Le tante piccole frontiere interne medievali, di fronte allo svilupparsi delle prime forme della borghesia commerciale, hanno, in questo contesto, innescato un movimento che ha portato alla nascita degli stati nazionali moderni. Si tratta di un fenomeno che è analizzato dallo stesso Marx. In tempi più recenti, le frontiere alpine, nell’immediato secondo dopoguerra, con la loro presenza separante Stati che avevano combattuto una guerra sanguinosa, barbarica e terminata nel La riflessione di Marx sulla Guerra di Secessione Americana terrore nucleare, hanno, in questo contesto, dato forza ad un movimento politico che ha portato alla loro scomparsa. Una concezione dialettica – come quella di Marx – dei rapporti sociali invita a cercare ed analizzare con attenzione le interazioni tra i fenomeni ed a non lasciarsi prendere da definizioni ideologiche che tendono a sancire l’immobilità delle relazioni storicosociali, a farci credere, insomma, alla loro sacralità. U n altro punto chiave della riflessione speculativa di Marx sulle vicende storico-sociali è la distinzione tra “Struttura” e “Sovrastruttura”. Un essere umano è estremamente devoto alla sua religione: vi si dedica completamente, ha organizzato tutta la sua esistenza intorno ad essa. Un altro è dedito alla ricerca scientifica: è per lui sia una professione sia una passione. Un altro ancora è un politico: è convinto delle sue idee e vuole tradurle in un apparato legislativo. Un altro ancora è un romanziere: racconta con le parole storie inventate ma significative, che toccano i sentimenti. Ognuno di questi è dedito ad un’attività intellettuale diversa, ma hanno qualcosa in comune: vivono in una società dotata di una struttura economica che produce un surplus di beni di sussistenza. Se la struttura economica in cui vivono non fosse in grado di farli vivere senza lavorare intorno alla produzione di beni e servizi, non potrebbero dedicarsi alle loro attività – in questo senso – sovrastrutturali. Insomma, per Marx la Struttura – la forma della produzione materiale dell’esistenza – condiziona ogni altra forma dei rapporti storico-sociali umani che “si elevano” necessariamente sopra di essi – sono in altri termini Sovrastrutturali. Questo non implica necessariamente – anche se non sempre Marx è chiaro su questo punto – che una forma sovrastrutturale, una volta creatasi, non abbia una sua autonomia e possa giungere anche a retro- agire dialetticamente con la struttura, determinandola a sua volta. Per esempio, una legge può condizionare certamente le forme della produzione materiale dell’esistenza. Ma alla struttura resta comunque il ruolo di “principio motore” dell’intero sistema storicosociale: d’altronde, mentre su di una struttura in grado di produrre un surplus di beni di sussistenza si possono formare innumerevoli forme sovrastrutturali, non può avvenire il contrario: le forme della produzione materiale dell’esistenza non possono variare all’infinito, sono ristrette, di fatto, in pochi schemi base, su cui la sovrastruttura ha un campo d’azione assai limitato. Insomma, per Marx la struttura – la forma della produzione materiale dell’esistenza – condiziona ogni altra forma dei rapporti storico-sociali umani che “si elevano” necessariamente sopra di essi – sono in altri termini sovrastrutturali. concezioni di Marx del diveQ ueste nire storico, in sé, sono dati oggettivi, difficilmente contestabili in linea generale. Nel caso della distinzione Struttura-Sovrastruttura, però, credo che Marx commetta un errore di valutazione, restringendo la forma Stato, sempre e comunque, ad una semplice forma sovrastrutturale. Andrebbe, infatti, effettuata una distinzione tra forme di produzione paritarie e forme di produzione gerarchiche. Queste ultime si caratterizzano per una distribuzione ineguale dei beni prodotti: la maggior parte della popolazione – le classi subalterne – lavora ma il prodotto della loro attività è quasi per intero depredato dalle minoritarie classi dominanti. Le società schiavistiche, feudali, capitalistiche sono di questo tipo. In una simile condizione, il monopolio della forza armata, della decisione politica, delle strutture educative e degli strumenti di propaganda non possono essere considerate sovrastrutturali. Senza questo imperium, infatti, la 11 12 VOCCIA, Enrico struttura produttiva non potrebbe reggersi. Lo Stato, insomma, è il fondamento strutturale delle forme di produzione gerarchiche – capitalismo compreso, nonostante le finzioni ideologiche del “libero mercato”, del “predominio della “società” civile. In qualche modo Marx ci sembra anch’esso vittima di queste finzioni ideologiche: la sua sottovalutazione della funzione strutturale dello Stato – ben visibile in alcune sue indicazioni politiche come la “fase di transizione” statale ad una società senza classi e senza Stato – ne sono il risultato. Da questo punto di vista, altre tradizioni del movimento operaio e socialista – con cui Marx entrò in polemica proprio su questo punto – sembrano, specie oggi, essere state più accorte ed andrebbero rivisitate con maggiore attenzione. Gli articoli di Marx sulla Guerra di Secessione Americana Gli articoli che qui presentiamo sono stati scritti da Marx durante i primi due anni della Guerra di Secessione Americana. Lo scontro tra gli interessi particolari dei diversi Stati della momentaneamente ex Unione, l’ambiguità dell’atteggiamento della Gran Bretagna ed i vari infingimenti ideologici 1 Vedi, p. e., le dettagliate analisi presenti in LOSURDO, Domenico, Controstoria del Liberalismo, Bari-Roma, Laterza, 2005. ROUSSEAU, Henry, Gli Artiglieri dietro i quali nasconde la sua simpatia per gli Stati schiavisti, la simpatia popolare verso il nord a causa delle sue posizioni antischiaviste, l’analisi degli eventi bellici e la previsione della vittoria dell’Unione: alla luce dei parametri interpretativi che gli sono tipici e che abbiamo appena descritto e commentato, compaiono, sotto la sua penna, per i lettori di Die Presse, i dati chiave dell’evento che si svolge. L’analisi di Marx, sia pure nei limiti “giornalistici”, è lucida e stringente, salvo che in un punto: la sua simpatia per le posizioni antischiaviste del Nord lo porta a leggere in maniera eccessivamente idealistica la figura e le posizioni politiche di Lincoln, del Partito Repubblicano e, in generale, dell’Unione degli Stati del Nord. Oggi abbiamo informazioni probabilmente migliori delle sue che ci permettono analisi più specifiche e meno oleografiche; va detto, però, che all’epoca dei fatti, era assai più difficile di oggi controllare i dettagli delle notizie. Nel complesso, comunque, gli articoli di Marx sono probabilmente quanto di meglio all’epoca esistesse per comprendere un evento bellico che prefigurava, sotto molti punti di vista, le disastrose novità che la Rivoluzione Industriale stava per inserire nelle dinamiche belliche che il dominio dell’uomo sull’uomo impone alla stragrande maggioranza dell’umanità. 13 Karl Marx L a Guerra di Secessione Americana Crisi per la questione della schiavitù Die Presse, 11 dicembre 1861 Londra, 10 dicembre 1861 Indubbiamente gli Stati Uniti hanno raggiunto un punto critico nella questione che sta alla radice di tutta la guerra civile: la questione della schiavitù. Il generale Frèmont è stato destituito dalle sue funzioni perché aveva dichiarato liberi gli schiavi appartenenti ai ribelli. Poco tempo dopo il governo di Washington ha reso note le istruzioni impartite al generale Sherman – capo del corpo di spedizione nella Carolina Meridionale. In base a tali istruzioni, che vanno più in là del proclama di Frèmont, gli schiavi fuggiaschi, anche quelli appartenenti agli schiavisti lealisti, dovranno esser equiparati a lavoratori salariati e, in certe condizioni, dovranno essere armati; in tal caso, i proprietari “lealisti” si consoleranno alla prospettiva di ricevere in futuro un adeguato indennizzo. Il colonnello Cochrane si spinge anche oltre Frèmont e reclama l’armamento generale degli schiavi come misura bellica. Il segretario alla Guerra Cameron ha dato l’approvazione ufficiale allo “spirito” delle proposte di Cochrane. Nel frattempo, il segretario agli Interni smentisce per conto del governo le dichiarazioni del segretario alla Guerra. Quest’ultimo ribadisce la sua “opinione” con energia ed enfasi ancora maggiori in una conferenza ufficiale, ed afferma di voler dibattere la questione in una comunicazione al Congresso. Il generale Halleck, succes- sore di Frèmont sul fronte del Missouri, e il generale Dix nella Virginia orientale cacciano gli schiavi fuggiaschi dagli accampamenti dell’esercito e proibiscono loro di riapparire in futuro in prossimità delle posizioni occupate dall’esercito. Contemporaneamente, comunque, il generale Wool accoglie a braccia aperte il “contrabbando nero” a Forte Monroe. I vecchi capi del Partito democratico, i senatori Dickinson e Crosswell (ex membri della cosiddetta reggenza democratica) approvano l’operato di Cochrane e Cameron, mentre nel Kansas il colonnello Jennison scavalca tutti i suoi superiori e predecessori facendo un discorso alle sue truppe, in cui dichiara fra l’altro: Nessuna esitazione nei confronti dei ribelli e di chi parteggia per loro (...) Ho dichiarato al generale Frèmont che non avrei impugnato le armi, se avessi creduto che lo schiavismo sarebbe sopravvissuto anche dopo la guerra. Gli schiavi che appartenevano ai ribelli continuano a cercare rifugio nel nostro accampamento e noi li difenderemo fino all’estremo, fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia. Non voglio nelle mie truppe uomini che non siano abolizionisti; non vi è posto per loro, ed io spero che non ve ne siano affatto, poiché sappiamo tutti che la questione della schiavitù è alla radice di questa guerra maledetta, ne costituisce l’essenza e l’idea (...). E se il governo non approva la mia condotta, potrà anche revocarmi dal mio incarico – ma in tal caso continuerò ad agire per mio conto, anche se all’inizio non disporrò che di mezza dozzina di uomini. Negli stati di confine schiavisti, soprattutto nel Maryland e in minor misura nel Kentucky, la questione degli schia- 1 Gruppo dirigente del Partito democratico nello stato di New York. Rimase in vita sino al 1854 e si riuniva ad Albany, che era allora il centro amministrativo dello stato di New York. MARX, Karl 14 vi in pratica è già in via di soluzione. È stato osservato un immenso flusso e riflusso di schiavi; si calcola, ad esempio, che vi si trovino circa cinquantamila schiavi provenienti dal Missouri, in parte fuggiaschi, in parte deportati dagli schiavisti degli stati del “profondo Sud”. Un evento quanto mai importante e significativo non trova alcuna eco in nessun quotidiano inglese – e ciò non ci sorprende affatto. Il 18 novembre nell’isola di Hatteras si sono incontrati i rappresentanti di 45 contee della Carolina Settentrionale, che si sono costituiti un governo provvisorio, hanno sconfessato l’atto di secessione e proclamato il ritorno della Carolina Settentrionale in seno all’Unione. I membri dei collegi elettorali della parte dello stato rappresenta in tale assemblea sono invitati ad eleggere i propri rappresentanti al Congresso di Washington. Il governo di Washington e le potenze occidentali Die Presse, 25 dicembre 1861 Londra, 20 dicembre 1861 Una delle maggiori sorprese di una guerra così ricca di sorprese come la guerra anglo-franco-russa è stata senza dubbio la dichiarazione sul diritto marittimo concordata a Parigi nella primavera del 1856. Quando iniziò la guerra contro la Russia, l’Inghilterra tenne in sospeso le armi più formidabili di cui disponeva: la confisca della merce di proprietà del nemico su navi neutrali e la guerra con navi corsare. Alla fine delle ostilità, l’Inghilterra faceva scempio delle sue armi e ne sacrificava i miseri resti sull’altare della pace. La Russia, il paese ufficialmente vinto, riceveva una concessione che sin dai tempi di Caterina II aveva tentato invano di estorcere con tutta una serie di “neutralità armate”, di guerre e di intrighi diplomatici. L’Inghilterra ufficialmente vittoriosa rinunziava invece ai grandi mezzi di attacco e di difesa che erano stati sviluppati dalla sua potenza marittima e che aveva mantenuto per un secolo e mezzo contro un mondo in armi. I motivi umanitari che sono serviti da pretesto alla Dichiarazione del 1856 perdono ogni valore anche all’esame più superficiale. La pirateria non è una barbarie maggiore dell’azione di corpi volontari o di guerriglieri nella guerra terrestre. Le requisizioni militari, per esempio, colpiscono solo le casse del governo nemico, risparmiando le proprietà dei privati? La natura della guerra terrestre salvaguarda i possedimenti nemici che si trovano in zona neutrale, e quindi sotto la sovranità di una potenza neutrale. La natura della guerra per mare elimina queste barriere, dal momento che il mare, come grande via di comunicazione delle nazioni, non può cadere sotto la sovranità di nessuna potenza neutrale. Sta di fatto comunque che la Dichiarazione del 1856 ammanta di espressioni filantropiche una grande mancanza di umanità. In linea di principio, essa trasforma la guerra da guerra di popoli in guerra di governi; concede alla proprietà un’inviolabilità che nega alle persone; libera il commercio dagli orrori della guerra e così facendo rende insensibili ad essi le classi che esercitano il commercio e l’industria. Per il resto è fin troppo evidente che i pretesti umanitari della Dichiarazione del 1856 erano diretti soltanto agli spettatori europei, non diversamente dai pretesti religiosi della Santa Alleanza! È ben noto che Lord Clarendon, che ha firmato il documento di trasferimento dei diritti marittimi al Congresso di Parigi, ha agito, come ha poi confessato alla Camera Alta, all’insaputa della Corona, senza riceverne direttiva alcuna. La sua unica autorità consisteva in una lettera privata di Lord Palmerston. Fino ad ora Palmerston non ha osato chiedere al Parlamento inglese di approvare la Dichiarazione di Parigi e la firma che vi ha apposto Clarendon. A parte le discus- La Guerra di Secessione Americana sioni sul contenuto della Dichiarazione, si temevano discussioni sulla questione se, indipendentemente dalla Corona e dal Parlamento, un ministro inglese potesse arrogarsi il diritto di spazzar via le antiche fondamenta della potenza marittima inglese con un colpo di penna. Se questo coup d’état ministeriale non ha portato un uragano di interpellanze, ma, piuttosto, è stato tacitamente accettato come fait accompli, Palmerston lo deve all’influenza della scuola liberista di Manchester. Secondo quella scuola, coincideva con gli interessi da lei rappresentati, e perciò con la filantropia, la civiltà ed anche il progresso, un’innovazione che avrebbe permesso al commercio inglese di continuare a fare indisturbato i suoi affari con il nemico su navi neutrali, mentre i marinai e soldati combattevano per l’onore della nazione. I liberisti di Manchester esultavano per il fatto che con un incostituzionale coup de main il ministro aveva legato l’Inghilterra alle concessioni internazionali cui era del tutto improbabile addivenire secondo la procedura parlamentare costituzionale. Di qui l’attuale indignazione del gruppo di Manchester in Inghilterra per le rivelazioni del “libro azzurro” parlamentare presentato da Seward al Congresso di Washington! Come è noto, gli Stati Uniti sono stati l’unica grande potenza che si è rifiutata di aderire alla Dichiarazione di Parigi del 1856. Se rinunciavano alla pirateria, allora avrebbero dovuto creare una grande marina di stato. Qualsiasi indebolimento dei loro mezzi di guerra sul mare li minacciava contemporaneamente con l’incubo di un esercito di terra permanente, secondo i criteri europei. Ciò nonostante il presidente Buchanan ha dichiarato di essere pronto ad accettare la Dichiarazione di Parigi, purché la stessa inviolabilità venisse assicurata per ogni proprietà, nemica o neutrale, trovata sulle navi, ad eccezione del contrabbando di guerra. La sua proposta è stata respinta. Dal libro azzurro di Seward ora si apprende che Lincoln, subito dopo 15 aver assunto la presidenza, ha offerto all’Inghilterra e alla Francia l’adesione degli Stati Uniti alla Dichiarazione di Parigi, per quanto riguarda la pirateria, a condizione che la proibizione della pirateria venisse estesa alle parti degli Stati Uniti in rivolta, cioè alla Confederazione sudista. Ha avuto una risposta che in pratica equivaleva al riconoscimento dei diritti dei belligeranti alla Confederazione sudista. “Umanità, progresso e civiltà” hanno suggerito ai governi di San Giacomo e delle Tuileries che la proibizione della pirateria avrebbe ridotto enormemente le possibilità di secessione e perciò di dissoluzione degli Stati Uniti. Perciò la Confederazione è stata riconosciuta in tutta fretta come parte belligerante, per poter poi rispondere al gabinetto di Washington che l’Inghilterra e la Francia naturalmente non potevano riconoscere la proposta di una parte belligerante come legge vincolante per l’altra parte belligerante. La stessa “nobile rettitudine” ha ispirato tutti i negoziati diplomatici dell’Inghilterra e della Francia con il governo dell’Unione fin dallo scoppio della guerra civile, e se il San Jacinto non avesse fermato il Trent nello stretto delle Bahamas, qualsiasi altro incidente sarebbe stato sufficiente a fornire un pretesto per il conflitto al quale mirava Lord Palmerston. L’opinione della stampa e l’opinione popolare Die Presse, 31 dicembre 1861 Londra, 25 dicembre 1861 Gli uomini politici del continente, che pensano di avere nella stampa di Londra un termometro dell’umore del popolo inglese, al momento attuale traggono inevitabilmente conclusioni fallaci. Alle prime notizie del caso Trent l’orgoglio nazionale inglese ha preso fuoco ed il grido di guerra agli Stati 1 La scuola di Manchester coniugava il liberismo ed il libero scambio: in questa nota ironica, Marx mostra come il liberismo, nella sua prassi concreta, si appoggia largamente allo Stato e non disdegna affatto il dirigismo. 2 La Gran Bretagna, nonostante la sua legislazione antischiavistica e l'opinione pubblica contraria, di fatto appoggiava i Confederati, dal momento che gli Stati del sud le fornivano, grazie al sistema schiavile, il cotone grezzo a prezzi concorrenziali. MARX, Karl 16 Uniti è risuonato quasi da ogni parte. La stampa di Londra, d’altro canto , ha ostentato grande moderazione, e perfino il Times ha dubitato dell’esistenza di un casus belli. A che cosa è dovuto questo fenomeno? Palmerston non era sicuro che i giuristi della Corona fossero in posizione tale da escogitare qualche pretesto legale per la guerra. Infatti, una settimana e mezza prima dell’arrivo del La Plata a Southampton, i rappresentanti della Confederazione sudista da Liverpool si erano rivolti al gabinetto inglese, avevano denunziato l’intenzione degli incrociatori americani di cacciare Mason, Slidell. e soci dai porti inglesi e di intercettarli in alto mare, e avevano richiesto l’intervento del governo inglese. Seguendo il parere dei consiglieri giuridici della Corona, il governo inglese ha respinto la richiesta. Di qui il tono inizialmente pacifico e moderato della stampa di Londra in contrasto con l’impazienza bellicosa del popolo. Comunque, appena i giuristi della Corona – il procuratore generale e il vice procuratore generale, entrambi membri del gabinetto – hanno scovato un pretesto tecnico per un contrasto con gli Stati Uniti, le relazioni fra il popolo e la stampa si sono capovolte. La febbre della guerra aumentava nella stampa nella stessa misura in cui diminuiva nel popolo. Attualmente una guerra con l’America incontra in tutti gli strati sociali, esclusi gli amici del “re cotone” ed i Krautjunker[NOTA - Letteralmente “mangiatori di cavoli”, termine dispregiativo per indicare i signorotti di campagna.], un’ostilità pari al fragoroso grido di guerra della stampa. Ma considerate adesso la stampa di Londra! Alla sua testa è il Times, il cui redattore capo, Bob Lowe, prima faceva il demagogo in Australia, dove creava agitazioni per la separazione dall’Inghilterra. È un membro subordinato del governo, una specie di ministro della Pubblica Istruzione, una creatura di Palmerston. Il Punch è il giullare di corte del Times e trasforma i sesquipe- dalia verba in scherzi forbiti e caricature senza mordente. Un importante redattore del Punch ha avuto da Palmerston un posto al ministero della Sanità e un appannaggio annuo di mille sterline. Il Morning Post è in parte proprietà privata di Palmerston, mentre un’altra parte di questa singolare istituzione è stata venduta all’ambasciata di Francia; il resto appartiene alla haute volèe] e fornisce le cronache più precise ai lacchè di corte ed ai sarti delle signore. Agli inglesi il è quindi noto come il Jenkins, il lacchè della stampa. Il Morning Advertiser è proprietà comune dei “bettolieri”, cioè dei pubs, che oltre alla birra possono vendere anche alcolici. È anche l’organo dei bigotti anglicani e degli allibratori, gente che fa affari con le corse dei cavalli, le scommesse, il pugilato. Il redattore di questo quotidiano, Grant, che prima faceva lo stenografo per i giornali ed è del tutto sprovveduto sul piano letterario, ha avuto l’onore di esser invitato alle soirèes private di Palmerston. Da allora è entusiasta del “ministro veramente inglese”, che allo scoppio della guerra con la Russia aveva denunziato come “agente russo”. Si deve aggiungere che i pii patrocinatori di questo giornale da osteria sono guidati a bacchetta dal conte di Shaftesbury, e che Shaftesbury è il genero di Palmerston. Shaftesbury è il papa dei seguaci della Chiesa Bassa, che confonde lo spiritus sanctus con il profano dell’onesto Advertiser. Il Morning Chronicle! Quantum mutatus ab illo! Per quasi mezzo secolo è stato la voce possente del partito whig e il non sfortunato rivale del Times, ma dopo la guerra dei whigs la sua stella si è offuscata. È passato attraverso metamorfosi di ogni genere: è diventato un giornale da pochi soldi ed ha cercato di vivere di “notizie a sensazione”, come, per esempio, prendendo le difese dell’avvelenatore Palmer. In seguito si è venduto all’ambasciata francese, che, La Guerra di Secessione Americana ad ogni modo, si è ben presto dispiaciuta di gettar via il suo denaro. Allora si è dato all’antibonapartismo, ma con risultati altrettanto insoddisfacenti. Infine ha trovato l’acquirente che cercava da tanto tempo in Yancey e Mann – i rappresentanti della Confederazione sudista a Londra. Il Daily Telegraph è proprietà privata di un certo Lloyd, ed è bollato dalla stessa stampa inglese come il giornale popolare di Palmerston. Oltre a questa funzione esso offre anche una chronique scandaleuse. È caratteristico che questo Telegraph, all’arrivo della notizia del Trent, per ordini superiori abbia dichiarato che la guerra era impossibile. La dignità e la moderazione impostagli parevano così insolite anche ad esso, che da allora ha pubblicato una mezza dozzina di articoli su tale esempio luminoso di moderazione e di dignità. Comunque appena ha ricevuto l’ordre di cambiare opinione, il Telegraph ha cercato un compenso alla coercizione esercitata su di esso superando tutti i suoi compagni nel levare clamore di guerra. Il Globe è il giornale governativo della sera che riceve sussidi ufficiali da tutti i ministeri whig. I giornali dei tories, il Morning Heralds e l’Evening standard, che appartengono entrambi alla stessa boutique, sono guidati da un duplice scopo: sfogare l’odio ereditario per le “colonie inglesi in rivolta”, e fronteggiare la crisi cronica delle loro finanze. Essi sanno che una guerra con l’America distruggerebbe inevitabilmente l’attuale governo di coalizione ed aprirebbe la strada ad un governo tory. Con i tories al potere ritornerebbero i sussidi ufficiali all’Herald e allo Standard. La conseguenza è che lupi famelici in cerca di preda non potrebbero ululare più forte di quanto facciano questi giornali dei tories alla caccia di una guerra americana e della susseguente pioggia d’oro! Fra i quotidiani londinesi, gli unici altri giornali degni di nota sono il Daily News ed il Morning Star, che si oppongono entrambi ai tamburi di guerra. Il Daily News è limitato nei suoi movimenti per i contatti con Lord John Russell; il Morning Star, il foglio di Bright e Cobden, ha un’influenza circoscritta per il fatto di essere un “giornale per la pace ad ogni costo”. Per la maggior parte i settimanali londinesi sono semplicemente echi della stampa quotidiana, e son quindi estremamente bellicosi. L’Observer è al soldo del governo; il Saturday Review cerca di fare dello spirito e crede di raggiungere il suo intento affettando una cinica superiorità, inattaccabile ai pregiudizi “umanitari”. Per far mostra di bello spirito, gli avvocati, i preti e i maestri di scuola corrotti che scrivono su questo giornale hanno elargito sorrisetti d’approvazione agli schiavisti fin dall’inizio della guerra civile americana. Naturalmente poi hanno suonato le trombe di guerra insieme al Times. Ora stanno già facendo progetti per una campagna contro gli Stati Uniti, dimostrando un’ignoranza da far rizzare i capelli. Lo Spectator, l’Examiner e soprattutto il MacMillan’s Magazine sono da ricordare come eccezioni più o meno lodevoli. È palese pertanto che nell’insieme la stampa di Londra – ad eccezione degli organi dei commercianti del cotone, i giornali provinciali offrono un contrasto encomiabile – non rappresenta niente altro che Palmerston, ancora e sempre Palmerston. Palmerston vuole la guerra; gli inglesi non la vogliono. I prossimi avvenimenti mostreranno chi vincerà questo duello, se Palmerston o il popolo. Comunque Palmerston sta facendo un gioco più pericoloso di quello che faceva Luigi Bonaparte all’inizio del 1859. 17 MARX, Karl 18 Un’assemblea filo-americana Die Presse, 5 gennaio 1862 care l’offesa. Un simile modo di agire non ci bollerebbe come vigliacchi agli occhi del mondo civile? Ha detto Cunningham: Londra, 1 gennaio 1862 1 Fin dallo scoppio della guerra si presentò il problema della sua classificazione, anche allo scopo di definire se ad essa si potessero applicare le norme del Diritto bellico consuetudinario e delle (poche) convenzioni internazionali in vigore. Gli Stati Uniti sostennero che gli stati secessionisti avevano violato la Costituzione, che al primo comma della Sez. 10 dell'Art. I, vieta la partecipazione degli stati a trattati, alleanze o patti confederali. Avevano inoltre tutto l'interesse a mantenere la questione nell'ambito del diritto interno, per evitare indesiderate interferenze da parte degli stati europei. Gli Stati Confederati per contro propugnavano fermamente il loro diritto ad essere stati liberi e indipendenti, richiamando la frase conclusiva della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America e forti del fatto che la Costituzione degli Stati Uniti d'America fosse un vero e proprio trattato internazionale e quindi soggetto non solo a ratifica ma anche a denuncia. Dalla loro parte stavano quasi tutti gli stati europei, e il Regno Unito aveva addirittura emanato un proclama di neutralità che riconobbe la sovranità della Confederazione, documento assolutamente inutile se il conflitto avesse avuto un carattere esclusivamente interno. In Inghilterra il movimento contrario alla guerra aumenta di giorno in giorno di energia e proporzioni. Pubbliche assemblee nelle parti più diverse del paese sollecitano un arbitrato della disputa fra Inghilterra e America. In questo senso piovono note sul capo del governo e la stampa provinciale indipendente è quasi unanime nella sua opposizione al grido di guerra della stampa di Londra. Qui accluso c’è un resoconto dettagliato della riunione tenuta lunedì scorso a Brighton, poiché si trattava di una riunione della classe lavoratrice, e i due oratori principali, Cunnigham e White, sono membri influenti del Parlamento e siedono entrambi nel partito di maggioranza alla Camera. Wood (un lavoratore) ha proposto la prima mozione, secondo cui la disputa fra Inghilterra e America nasceva da un’errata interpretazione del diritto internazionale, e non da un affronto intenzionale alla bandiera britannica; che di conseguenza questa assemblea è del parere che tutta la questione controversa sia da riferire ad una potenza neutrale che sia arbitra della decisione; che nelle attuali circostanze una guerra con l’America non è giustificabile, ma merita piuttosto la condanna del popolo inglese. Per sostenere la sua istanza Wood fra l’altro ha fatto rilevare: Si dice che questa nuova offesa sia semplicemente l’ultimo anello di una catena di offese che l’America ha inflitto all’Inghilterra. Ammettiamo che sia vero: che cosa dimostrerebbe per quanto riguarda il grido di guerra del momento attuale? Dimostrerebbe che finché l’America è stata forte e unita, noi abbiamo subìto le sue offese senza battere ciglio; ma ora, nel momento in cui è in pericolo, ci avvaliamo di una posizione a noi favorevole per vendi- (...) In questo momento si sta sviluppando in seno all’Unione una dichiarata politica di emancipazione (applausi), ed io esprimo la grande speranza che non si permetta alcun intervento da parte del governo inglese (applausi) (...) Voi, inglesi nati liberi, permettereste che vi si coinvolga in una guerra anti-repubblicana? Poiché è l’intenzione del Times e del partito che sta dietro le sue spalle(...) Faccio appello ai lavoratori d’Inghilterra, che hanno il maggiore interesse a conservare la pace, perché facciano sentire la loro voce e, se necessario, entrino in azione per impedire un crimine così grande (applausi scroscianti) (...) Il Times ha fatto ogni sforzo per eccitare l’animo del paese alla guerra e per suscitare negli americani un senso di ostilità fomentando rancori e discordie (...) io non appartengo al cosiddetto partito della pace. Il Times ha favorito la politica della Russia e (nel 1853) ha fatto pesare tutta la sua potenza per portare il nostro paese ad osservare tranquillamente l’invadenza militare della barbarie russa in oriente. Io ero tra quelli che hanno alzato la voce contro questa falsa politica. Al tempo della presentazione del progetto di legge contro la cospirazione, che aveva lo scopo di facilitare l’estradizione dei rifugiati politici, al Times nessuno sforzo è sembrato troppo grande pur di farlo approvare alla Camera Bassa. Io sono stato uno dei novantanove membri della Camera che si sono opposti a questa prevaricazione della libertà del popolo inglese, ed hanno causato la caduta del ministro (applausi). Ora quel ministro è a capo del governo. Io gli predìco che se dovesse cercare di immischiare il nostro paese in una guerra con l’America senza ragioni valide e sufficienti, il suo piano fallirà ignominiosamente. Io gli prometto un’altra ignominiosa sconfitta, ancora peggiore di quella che gli è toccata in occasione del progetto di legge contro la cospirazione (applausi scroscianti) (...) Non conosco la comunicazione ufficiale che è stata fatta a Washington; ma l’opinione prevalente è che i consiglieri giuridici della Corona abbiano raccomandato al governo di prendere posizione in base La Guerra di Secessione Americana 19 al limitatissimo pretesto legale secondo il quale i rappresentanti sudisti non avrebbero potuto esser catturati senza la nave che li ha trasportati. Di conseguenza il rilascio di Slidell e Mason è da richiedersi come conditio sine qua non. Supponiamo che il popolo dell’altra parte dell’oceano Atlantico non permetta al suo governo di rilasciarli. Farete la guerra per la persona di questi due inviati degli aguzzini schiavisti? (...) esiste in questo paese un partito che vuole la guerra contro la repubblica americana. Ricordate l’ultima guerra russa. Dai dispacci segreti pubblicati a Pietroburgo era chiaro oltre ogni possibile dubbio che gli articoli pubblicati dal Times nel 1855 erano stati scritti da una persona che aveva accesso alle carte e ai documenti di Stato segreti della Russia. A quel tempo Layard lesse i passi salienti alla Camera Bassa, e il Times, costernato, cambiò subito tono e la mattina seguente suonò la tromba di guerra (...) Il Times ha più volte attaccato l’imperatore Napoleone e sostenuto il nostro governo nella sua richiesta di crediti illimitati per le fortificazioni di terra e per le batterie galleggianti. Dopo di che, dopo aver fatto risuonare il grido di allarme contro la Francia, ora il Times desidera lasciare le nostre coste esposte all’imperatore francese coinvolgendo il nostro paese in una guerra oltre Atlantico? (...) Dobbiamo temere che i grandi preparativi attuali non siano fatti solo per il caso Trent ma anche per l’eventualità di un riconoscimento degli stati schiavisti da parte del nostro governo. Se l’Inghilterra lo farà, allora si ricoprirà di perpetua vergogna. sudisti la primavera prossima. In quel periodo la Gran Bretagna avrà una flotta più forte nelle acque americane, e il Canada sarà perfettamente preparato alla difesa. Quindi, se gli stati del Nord sono decisi a fare del riconoscimento degli stati del Sud un casus belli, la Gran Bretagna sarà pronta (...). Ha detto White: Il caso Trent, che era morto e sepolto, è stato riesumato – questa volta, però, come casus belli non l’Inghilterra e gli Stati Uniti, ma tra il popolo inglese ed il suo governo. Il nuovo casus belli sarà esaminato dal Parlamento, che si riunirà il mese prossimo. Senza dubbio avrete già preso nota della polemica del Daily News e dello Star contro il Morning Post riguardo alla soppressione e alla smentita del messaggio di pace di Seward del 30 novembre, che il 19 dicembre è stato letto a Lord John Russell dall’ambasciatore americano Adams. Permettetemi ora di ritornare su questa faccenda. Si deve dare atto alla classe lavoratrice di esser stata la promotrice di quest’assemblea e di aver sostenuto tutte le spese organizzative tramite il suo comitato (...) L’attuale governo non ha mai avuto il buon senso di trattare con onestà e franchezza con il popolo (...) Non ho mai creduto nemmeno per un attimo che vi fosse la più remota possibilità di guerra per via del caso Trent. Ho dichiarato alla presenza di molti membri del governo che neppure un ministro credeva alla possibilità di una guerra per via del caso Trent. Perché allora tutti questi preparativi? Io credo che Inghilterra e Francia si siano accordate per riconoscere l’indipendenza degli stati L’oratore quindi ha continuato a parlare dei pericoli di una guerra con gli Stati Uniti, ha ricordato la solidarietà che aveva dimostrato l’America alla morte del generale Havelock, l’aiuto che i marinai americani avevano dato alle navi inglesi nello sfortunato scontro di Pehio, ed altri episodi. Ha concluso facendo osservare che la guerra civile sarebbe finita con l’abolizione della schiavitù, e che di conseguenza l’Inghilterra doveva dare il suo appoggio incondizionato al Nord. Approvata all’unanimità la proposta iniziale, è stato presentato all’assemblea un promemoria per Palmerston, che è stato anch’esso discusso ed approvato. La storia del dispaccio soppresso di Seward Die Presse, 18 gennaio 1862 Londra, 4 gennaio 1862 MARX, Karl 20 Con l’assicurazione del Morning Post che il dispaccio di Seward non aveva il benché minimo rapporto con il caso Trent, i titoli di borsa sono crollati e proprietà del valore di parecchi milioni hanno cambiato mano, perse da una parte, vinte dall’altra. Perciò negli ambienti finanziari e industriali l’ingiustificabile menzogna di un organo semi-ufficiale quale il Morning Post, smascherato dalla pubblicazione del dispaccio di Seward del 30 novembre, ha suscitato la più viva indignazione. Il pomeriggio del 9 gennaio sono giunte a Londra notizie di pace; la sera stessa l’Evening Star (l’edizione serale del Morning Star) ha interpellato il governo sulla soppressione del dispaccio di Seward del 30 novembre. La mattina seguente, il 10 gennaio, il Morning Post ha replicato: Naturalmente ci si domanderà perché non ne abbiamo sentito parlare prima, dal momento che il dispaccio di Seward deve essere pervenuto ad Adams in dicembre. La spiegazione è molto semplice: il dispaccio ricevuto da Adams non è stato comunicato al governo inglese. La sera di quello stesso giorno lo Star ha smentito decisamente il Post e ha dichiarato che la sua “rettifica” era un meschino sotterfugio: infatti il dispaccio non era stato “comunicato”, perché era stato “letto” da Adams a Lord Palmerston e Lord Russell. La mattina dopo, sabato 11 gennaio, il Daily News è sceso in campo, e in base all’articolo del Morning Post del 21 dicembre ha dimostrato che sia il giornale che il governo erano perfettamente a conoscenza del dispaccio di Seward e lo avevano deliberatamente contraffatto. Il governo allora si è preparato alla ritirata. La sera dell’11 gennaio il giornale semi-ufficiale Globe dichiarava che Adams aveva comunicato al governo il dispaccio di Seward il 19 dicembre; esso peraltro 1 Globe, 11 gennaio 1862. non conteneva alcuna offerta del genere che Lord Russell supponeva che il gover- no federale sarebbe stato disposto a fare, oltre a non presentare scuse immediate per l’oltraggio che il capitano Wilkes aveva inflitto alla nostra bandiera. Questa vergognosa confessione di aver deliberatamente ingannato il popolo inglese per tre settimane ha attizzato il fuoco invece di spegnerlo. Su tutti i giornali delle zone industriali della Gran Bretagna è risuonato un grido furibondo, che ieri ha finalmente trovato un eco anche sui giornali dei tories. Tutta la questione, si è osservato senza mezzi termini, è stata posta all’ordine del giorno non dai politici, ma dal mondo del commercio. Il Morning Star di oggi nota in proposito: Lord John Russell si è reso complice di quel nascondere la verità che è virtuale indizio di falsità: ha permesso al Morning Post di affermare senza tema di smentita proprio l’opposto della verità, ma non può aver dettato quell’articolo mendace ed estremamente pernicioso che è apparso il 21 dicembre (...) Solo un uomo ha una carica abbastanza elevata ed un carattere abbastanza meschino da poter ispirare l’atroce scritto (...) Il ministro che ha contraffatto i dispacci afgani è l’unica persona capace di sopprimere il messaggio di pace di Seward (...) La stolta indulgenza della Camera dei Comuni ha perdonato quell’offesa. Il Parlamento ed il popolo non si uniranno per infliggergli la pena per l’altra? Un coup d’ètat di Lord John Russell Die Presse, 21 gennaio 1862 Londra, 17 gennaio 1862 L’atteggiamento di Lord John Russell durante la recente crisi è stato davvero irritante, anche per un uomo la cui intera vita parlamentare dimostra co- La Guerra di Secessione Americana me abbia esitato raramente a sacrificare il potere effettivo alla posizione ufficiale. Nessuno ha dimenticato che Lord John Russell ha perduto la carica di primo ministro che è stata assunta da Palmerston, ma sembra che nessuno ricordi che egli ha avuto da Palmerston il ministero degli Esteri. Tutto il mondo ha considerato assiomatico che Palmerston dirigesse il gabinetto sotto il proprio nome e la politica estera sotto il nome di Russell. All’arrivo delle prime notizie di pace da New York, whigs e tories han fatto a gara a cantare le lodi dell’arte di governo di Palmerston, mentre il ministro degli Esteri, Lord John Russell, non era nemmeno oggetto di encomio come suo assistente. È stato completamente ignorato. Comunque, era appena scoppiato lo scandalo causato dalla soppressione del dispaccio americano del 30 novembre, quando il nome di Russell è stato riportato in vita. Accusa e difesa allora hanno scoperto che il ministro degli esteri responsabile si chiamava Lord John Russell! Ma a quel punto anche Russell ha perduto la pazienza. Senza aspettare l’apertura dei lavori del Parlamento e contrariamente a tutte le usanze ministeriali, egli ha immediatamente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12 gennaio la propria corrispondenza con Lord Lyons. Tali lettere dimostrano che il dispaccio del 30 novembre di Seward è stato letto a Lord John Russell il 19 dicembre da Adams; che Russell ha riconosciuto esplicitamente che quel dispaccio presentava le scuse per l’atto del capitano Wilkes, e che Adams, dopo le parole di Russell, considerava sicura la soluzione pacifica della disputa. Dopo questa rivelazione ufficiale, che ne è del Morning Post del 21 dicembre, che negava l’arrivo di qualsiasi dispaccio di Seward che si riferisse al caso Trent? Che ne è del Morning Post del 10 gennaio, che accusava Adams della soppressione del Dispaccio? Che ne è di tutto il rumore di guerra della stampa di Palmerston dal 19 dicembre 1861 all’8 gennaio 1862? 21 E vi è di più! Il messaggio di Lord John Russell a Lord Lyons del 9 dicembre 1861 dimostra che il gabinetto inglese non ha presentato alcun ultimatum di guerra; che Lord Lyons non ha ricevuto l’ordine di lasciare Washington sette giorni dopo la consegna dell’ultimatum; che Lord Russell ha ordinato all’ambasciatore di evitare ogni parvenza di minaccia e, infine, che il gabinetto inglese aveva stabilito di prendere una decisione definitiva solo dopo aver ricevuto la risposta americana. Tutta la politica strombazzata dalla stampa di Palmerston, che ha trovato tanta eco servile sul continente, è quindi soltanto una chimera. Non è mai stata messa in atto in realtà. Dimostra soltanto, come asserisce un giornale di Londra di oggi, che Palmerston “ha cercato di frustrare la linea di condotta dichiarata e vincolante dei consiglieri responsabili della Corona (...)”. Che il coup de main di Lord John Russell sia piombato sulla stampa di Palmerston come un fulmine a ciel sereno, è un fatto incontrovertibile. Il Times di ieri ha soppresso la corrispondenza di Russell e non ne ha fatto menzione alcuna. Soltanto oggi figura nelle sue colonne una ristampa della London Gazette, con un articolo di fondo che funge da presentazione e commento e che evita accuratamente il problema reale, il contrasto fra il popolo inglese ed il governo inglese, e che lo sfiora soltanto nell’espressione stizzosa: “Lord Russell ha dovuto spiegare tutto il suo ingegno per trovare un accenno di scuse” nel dispaccio di Seward del 30 novembre. D’altra parte il Giove tonante di Printing House Square sfoga la sua collera in un secondo editoriale, nel quale Gilpin, membro del governo, capo del Board of Trade nonché sostenitore della scuola di Manchester, è giudicato indegno della sua carica ministeriale. Perché martedì scorso in una pubblica riunione a Northampton, di cui egli è rappresentante in Parlamento, Gilpin, ex libraio, demagogo ed apostolo della moderazione che nessuno prenderà 22 MARX, Karl mai per eroe, ha commesso il crimine di esortare il popolo inglese ad impedire con dimostrazioni pubbliche un riconoscimento quanto mai inopportuno della Confederazione sudista, che egli ha sconsideratamente bollato come figlia della schiavitù. Come se, esclama sdegnato il Times, come se Palmerston e Russell – adesso il Times si ricorda improvvisamente dell’esistenza di Lord John Russell – non si fossero sempre battuti per distruggere la schiavitù! Sicuramente è stata un’indiscrezione, un’indiscrezione calcolata da parte di Gilpin, invitare il popolo inglese a scendere in campo contro le idee schiaviste di un governo al quale egli stesso appartiene. Ora Gilpin, come si è detto, non è un eroe. Tutta la sua carriera rivela scarsa attitudine al martirio. La sua indiscrezione è avvenuta lo stesso giorno in cui Lord John Russell ha fatto il suo coup de main. Pertanto possiamo concludere che il governo non è una “famiglia felice” e che alcuni dei suoi membri si sono già assuefatti all’idea di una “separazione”. L’epilogo russo del dramma del Trent è non meno interessante delle sue ripercussioni nel governo. La Russia, che in tutto questo baccano è rimasta silenziosa, in disparte, a braccia conserte, ora balza sulla scena, dà a Seward un buffetto sulla spalla – e dichiara che è arrivato alfine il momento di regolare definitivamente i diritti marittimi dei paesi neutrali. La Russia, come si sa, si considera investita del compito di fissare all’ordine del giorno della storia del mondo, al momento giusto e nel posto giusto, le questioni urgenti della civiltà. La Russia si pone al riparo da qualsiasi attacco delle potenze marittime nel momento in cui queste rinunziano, con i loro diritti di belligeranti contro i paesi neutrali, alla loro influenza sulle esportazioni russe. La Convenzione di Parigi del 16 aprile 1856, che è in parte una copia letterale del trattato russo di neutralità armata del 1870 contro l’Inghilterra, non è ancora legge in Inghilterra. Che scherzo del destino sarebbe se la disputa anglo-americana finisse con la sanzio- ne, da parte del Parlamento e della Corona inglesi, della concessione che due ministri britannici hanno fatto alla Russia, sotto la loro personale responsabilità, alla fine della guerra anglorussa! Tendenza anti-interventista Die Presse, 4 febbraio 1862 Londra, 31 gennaio 1862 La grandezza commerciale di Liverpool trae le sue origini dalla tratta degli schiavi. Gli unici contributi di Liverpool alla letteratura ed alla poesia inglese sono le odi alla tratta degli schiavi. Cinquant’anni fa Wilberforce potè metter piede a Liverpool solo a rischio della propria vita. Come nel secolo precedente il commercio degli schiavi, così in questo secolo il commercio del prodotto dello schiavismo, il cotone, ha costituito il fondamento essenziale della grandezza di Liverpool. Nessuna meraviglia, dunque, se Liverpool è il centro degli inglesi filo-secessionisti: infatti è l’unica città del Regno Unito dove durante la recente crisi sia stato possibile organizzare un convegno quasi pubblico in favore di una guerra contro gli Stati Uniti. Che dice ora Liverpool? Ascoltiamo con attenzione uno dei suoi maggiori quotidiani, il Daily Post. In un articolo di fondo intitolato “Gli astuti yankees” si dichiara tra l’altro: Gli yankees, con la loro solita furbizia, sono riusciti a tramutare una perdita in guadagno. Per la verità hanno fatto in modo di servirsi dell’Inghilterra per il proprio tornaconto (...). La Gran Bretagna ha il vantaggio di fare sfoggio della sua potenza (...) (ma a che pro?). Gli yankees sono sempre stati favorevoli ai privilegi illimitati dei neutrali, ma la Gran Bretagna vi si opponeva (privilegi che sono stati contestati soprattutto durante la guerra anti-giacobina, la guerra anglo-americana del 1812-14, ed anche, più recentemente, 23 La Guerra di Secessione Americana nel 1842, durante i negoziati tra Lord Ashburton ed il segretario di Stato americano Daniel Webster). Ora la nostra opposizione deve cessare. Il principio degli yankees è virtualmente riconosciuto. E Seward ne dà la conferma (...) (dichiara che l’Inghilterra ha accondisceso in linea di massima e che con il caso Trent gli Stati Uniti hanno ottenuto una concessione per assicurarsi la quale finora avevano fatto invano ricorso ad ogni mezzo diplomatico e bellico). Ancora più importante è l’ammissione dell’improvviso mutamento dell’opinione pubblica, anche a Liverpool, che troviamo sul Daily Post. I confederati – dice – non hanno fatto assolutamente nulla per smentire la buona opinione che si aveva di loro, al contrario. Hanno combattuto coraggiosamente e compiuto sacrifici enormi. Se non otterranno la loro indipendenza, tutti dovranno ammettere che se la meritano (...). L’opinione pubblica tuttavia adesso è contraria alle loro rivendicazioni: essi non sono più quelle brave persone che erano sei mesi fa, e quando si parla di loro si dice implicitamente che sono gente molto sgradevole. (...) In pratica è iniziata una reazione. Gli anti-schiavisti che, ci si perdoni l’espressione volgare, calavano le brache davanti all’eccitazione popolare, ora se ne vengono a condannare con paroloni altisonanti la vendita dei negri e i proprietari schiavisti degli stati del Sud (...). Ieri le mura della città erano coperte da un grande manifesto pieno di denunzie ed irate invettive, e un giornale londinese della sera, il Sun, ricordava qualcosa che andava a scapito di Mason (...) “l’autore dell’esecranda legge sugli schiavi fuggiaschi” (...). I confederati hanno pagato le spese del caso Trent: doveva tornare a loro vantaggio, invece è risultato la loro rovina. I favori di questo paese vengono loro meno, ed essi dovranno rendersi conto quanto prima di tale singolare situazione. Sono stati gravemente maltrattati, ma non avranno risarcimento alcuno. Dopo un’ammissione simile da parte di un simpatizzante della secessione quale era il quotidiano di Liverpool, è facile intendere il mutato linguaggio che ora ostentano improvvisamente alcuni importanti giornali di Palmer- ston prima dell’apertura dei lavori parlamentari. L’Economist di sabato scorso presenta un articolo intitolato “Sarà rispettato il blocco?” Prima di tutto parte dell’assioma che il blocco è soltanto un blocco sulla carta e che perciò il diritto internazionale permette di violarlo. La Francia ha richiesto che il blocco sia rimosso con la forza. In pratica la soluzione della questione sta quindi nelle mani dell’Inghilterra, che ha un motivo grave ed imperioso per compiere tale passo: per la precisione, ha bisogno del cotone americano. Si può far notare, incidentalmente, che non è ben chiaro in che modo un “blocco che esiste solo sulla carta” possa impedire la spedizione del cotone. “Ciò nonostante – esclama l’Economist – l’Inghilterra deve rispettare il blocco”. Avendo motivato questo giudizio con una serie di sofismi, alla fine arriva al nocciolo della questione. Non sarebbe auspicabile in un caso del genere – scrive – che il nostro governo compisse qualche passo o intraprendesse qualche azione sulla quale l’intero paese non si trovasse sinceramente e spontaneamente d’accordo (...). Ora noi dubitiamo che la massa del popolo britannico sia già preparata a qualche intervento che abbia la minima parvenza di spalleggiare una repubblica schiavista o di contribuire alla sua costituzione. Il sistema sociale degli stati confederati è basato sulla schiavitù; i federalisti hanno fatto quanto potevano (...) per persuaderci che la schiavitù sta alla radice del movimento di secessione, e che loro, i federalisti, erano ostili alla schiavitù; e la schiavitù suscita il nostro più vivo orrore ed abominio. Ma il vero errore del movimento popolare consiste in questo: (...) non lo scioglimento dell’Unione, ma il suo ripristino equivarrebbe a rinsaldare e perpetuare la schiavitù dei negri, ed è l’indipendenza del Sud e non la sua sconfitta che noi dobbiamo auspicare con fiducia per un pronto miglioramento ed una definitiva scomparsa della schiavitù da noi aborrita (...) noi abbiamo la speranza di chiarire presto questo punto ai nostri lettori. Ma non è ancora chiaro. La maggioranza degli inglesi pensa ancora diversamente; e finché si penserà così, qualunque intervento da parte del nostro governo per metterci in una posizione di vera op- 1 Liverpool Daily Post, 13 gennaio 1862. 24 MARX, Karl posizione al Nord, e di conseguente alleanza con il Sud, sarebbe sostenuto ben poco dalla sincera collaborazione della nazione britannica. In altre parole: il tentativo di un intervento del genere provocherebbe la caduta del governo. E questo spiega anche perché il Times si pronunzi tanto decisamente contro qualsiasi intervento e in favore della neutralità dell’Inghilterra. La crisi del cotone Die Presse, 8 febbraio 1862 Londra, 3 febbraio 1862 1 Alcuni giorni fa ha avuto luogo l’assemblea annuale della Camera di Commercio di Manchester. Essa rappresenta il Lancashire, la più grande regione industriale del Regno Unito e il centro più importante dell’industria cotoniera britannica. C. Potter, presidente dell’assemblea, Bazly e Turner, i principali oratori, rappresentano Manchester ed una parte del Lancashire alla Camera Bassa. Perciò dai verbali dell’assemblea apprendiamo ufficialmente quale sarà l’atteggiamento del grande centro dell’industria cotoniera inglese al “Senato della nazione” riguardo alla crisi americana. L’anno scorso all’assemblea della Camera di Commercio Ashworth, uno dei più grandi magnati del cotone di tutta l’Inghilterra, aveva esaltato con fantasia degna di Pindaro l’espansione senza precedenti dell’industria del cotone nell’ultimo decennio. In particolare egli faceva rilevare che nemmeno le crisi commerciali del 1847 e del 1857 avevano provocato la diminuzione delle esportazioni dei filati di cotone e dei tessuti inglesi. Egli spiegava il fenomeno con le mirabolanti possibilità del sistema di libero scambio introdotEconomist, 25 gennaio to nel 1846. Già allora parve strano 1862. che questo sistema, che non era riusci- to a risparmiare all’Inghilterra le crisi del 1847 e del 1857, potesse sottrarre un settore particolare dell’industria inglese all’influenza delle crisi. Ma cosa sentiamo dire oggi? Tutti gli oratori, Ashworth compreso, ammettono che, a partire dal 1858, ha avuto luogo una saturazione senza precedenti dei mercati d’oltre Atlantico e che per effetto di una continua sovrapproduzione su larga scala l’attuale ristagno era inevitabile, anche senza la guerra civile americana, la tariffa Morrill e il blocco. Che anche senza queste circostanze aggravanti la diminuzione delle esportazioni dell’anno scorso sarebbe stata di ben sei milioni di sterline è naturalmente una questione controversa; ma non sembra cosa improbabile dal momento che sentiamo che i principali mercati dell’Asia e dell’Australia hanno provviste di manufatti di cotone inglesi sufficienti per dodici mesi. Quindi, per ammissione della Camera di commercio di Manchester, che è autorità in materia, la crisi dell’industria cotoniera inglese fino ad ora non è stata il risultato del blocco americano, bensì della sovrapproduzione inglese. Ma quali sarebbero le conseguenze, se continuasse la guerra civile americana? A questa domanda riceviamo ancora una volta una risposta unanime: sofferenze smisurate per la classe lavoratrice e rovina per i piccoli produttori. Cheatham ha osservato: A Londra si dice che hanno ancora molto cotone per andare avanti; ma non si tratta soltanto di cotone, si tratta anche e soprattutto di prezzo, e con i prezzi attuali il capitale dei proprietari di cotonifici si sta riducendo a zero. Ad ogni modo la Camera di commercio si dichiara decisamente contraria a qualsiasi intervento negli Stati Uniti, benché la maggior parte dei suoi membri siano dal Times indotti a considerare inevitabile lo scioglimento dell’Unione. L’ultima cosa che dovremmo fare – dice Porter – è raccomandare qualsiasi cosa che somigli ad un intervento. L’ultimo La Guerra di Secessione Americana posto dove una cosa simile potesse esser presa in considerazione era Manchester. Niente ci avrebbe indotti a raccomandare qualcosa che fosse moralmente sbagliata”. Bazley: “Nella questione americana si deve osservare il principio del nonintervento. Il popolo di quel grande paese deve veramente risolvere le proprie faccende da sé “. Cheatham: “L’opinione generale in questa regione è del tutto contraria all’intervento nella disputa americana. E’ necessario parlar chiaro a questo riguardo, perché se vi fosse qualche dubbio il governo si troverebbe sottoposto a forti pressioni. Cosa consiglia allora la Camera di Commercio? Il governo inglese dovrebbe rimuovere ogni ostacolo di carattere amministrativo che si frappone all’importazione del cotone in India. In particolare dovrebbe eliminare la tassa di importazione del 10% che grava sui filati e sui tessuti di cotone inglesi in India. Il regime della East India Company era stato appena abolito, l’India era appena entrata a far parte dell’Impero Britannico, quando Palmerston introduceva questa tassa d’importazione sui prodotti inglesi tramite Wilson, e questo nello stesso tempo in cui vendeva la Savoia e Nizza per il trattato commerciale anglofrancese. Mentre il mercato francese veniva in una certa misura aperto all’industria inglese, il mercato della Indie Orientali era ad essa precluso in misura decisamente maggiore. A questo proposito, Bazley ha rilevato che da quando è stata introdotta questa tassa sono state esportate grandi quantità di macchinari inglesi a Calcutta e a Bombay e che vi sono state impiantate fabbriche di tipo inglese. Queste si preparavano a sottrarre loro il miglior cotone indiano. Se al 10% della tassa d’importazione si aggiungeva il 15% per le spese di trasporto, i rivali generati artificialmente dall’iniziativa del governo inglese venivano a godere di una tariffa di protezione del 25%. In generale l’assemblea ha espresso la fiera opposizione dei magnati dell’industria inglese alla tendenza protezio- 25 nistica che si sta sviluppando sempre più nelle colonie, e particolarmente in Australia. Questi signori dimenticano che per un secolo e mezzo le colonie hanno protestato invano contro il “sistema coloniale” della madre-patria. A quel tempo le colonie chiedevano il libero scambio, e l’Inghilterra teneva fermo il suo divieto. Adesso l’Inghilterra predica il libero scambio, e le colonie ritengono il protezionismo nei confronti dell’Inghilterra più conforme ai loro interessi. Il dibattito parlamentare sul discorso della Corona Die Presse, 12 febbraio 1862 Londra, 7 febbraio 1862 L’apertura dei lavori del Parlamento è stata una cerimonia senza lustro. L’assenza della Regina e la lettura del discorso della Corona da parte del Lord Cancelliere hanno bandito ogni effetto spettacolare. Anche il discorso della Corona è stato breve senza essere incisivo; ha riassunto i faits accomplis della politica estera e per una valutazione di essi ha fatto riferimento ai documenti presentati al Parlamento. Solo una frase ha destato un certo scalpore, la frase nella quale si dice che la Regina “confida che non vi sia ragione di temere alcun turbamento della pace in Europa”. Questa frase implica infatti che la pace europea è relegata nel regno della speranza e della fede. Secondo la prassi parlamentare, i signori che dovevano rispondere al discorso della Corona alle due Camere erano già stati designati dai ministri tre settimane prima. Conformemente alla procedura abituale, la loro replica riecheggia largamente il discorso della Corona e abbonda delle stucchevoli lodi che i ministri profondono su se stessi in nome del Parlamento. Quando Sir Francis Burdett nel 1811 pre- MARX, Karl 26 venne quelli che erano stati incaricati ufficialmente di rispondere e colse l’occasione per sottoporre il discorso della Corona agli strali della critica, la stessa Magna Carta sembrò messa in pericolo. Da quella volta non si è più ripetuta una simile enormità. L’interesse al dibattito sul discorso della Corona perciò è limitato alle “allusioni” del circolo ufficiale di opposizione ed alle “reazioni allusive” dei ministri. Questa volta però l’interesse è stato più accademico che politico. Si è assistito alla migliore orazione funebre del principe Alberto, che durante la sua vita non ha trovato affatto leggero il giogo dell’oligarchia inglese. Secondo la vox populi, Derby e Disraeli hanno conquistato la palma accademica, l’uno per la sua facondia naturale, l’altro per la sua teorica. La parte “tecnica” del dibattito verteva sugli Stati Uniti, il Messico e il Marocco. Riguardo agli Stati Uniti, l’opposizione (gli Outs) ha elogiato la politica del partito al potere (gli Ins o beati possidentes). Derby, capo dei conservatori alla Camera dei Lords, e Disraeli, capo dei conservatori alla Camera dei Comuni, non si sono opposti al governo, ma l’uno all’altro. Derby prima di tutto ha espresso il suo malcontento per l’assenza di “pressione dall’esterno”. Egli “ammirava”, ha detto, il comportamento stoico e dignitoso dei lavoratori delle industrie. Per quanto riguardava i proprietari dei cotonifici, però, doveva escluderli dalle sue lodi. Per loro le agitazioni americane si erano rivelate straordinariamente opportune, dal momento che la sovrapproduzione e la saturazione di tutti i mercati avrebbero imposto, in ogni caso, restrizioni commerciali. Derby ha sferrato poi un violento attacco al governo dell’Unione, “che aveva esposto se stesso ed il suo popolo alla più indegna umiliazione”, e non aveva agito da gentleman perché non aveva preso l’iniziativa di rilasciare spontaneamente Mason, Slidell e compagni e non aveva fatto debita ammenda. Disraeli, il suo sostenitore alla Camera Bassa, ha capito immediatamente quanto l’attacco furibondo di Derby fosse nocivo per le speranze dei conservatori. Perciò ha dichiarato, al contrario: Considerando le grandi difficoltà che incontrano gli uomini di stato del Nordamerica (...) oserei dire che essi le hanno fronteggiate con risolutezza e coraggio”. D’altro canto – con la coerenza che gli è solita – Derby ha protestato contro “le nuove dottrine” del diritto marittimo. L’Inghilterra aveva sempre sostenuto i diritti dei belligeranti contro le pretese dei neutrali. Vero è che Lord Clarendon aveva fatto una “pericolosa” concessione nel 1856 a Parigi; fortunatamente questa non era ancora stata ratificata dalla Corona, cosicché “non alterava la posizione del diritto internazionale”. Disraeli invece, chiaramente in collusione con il governo a tale riguardo, ha evitato accuratamente di toccare questo problema. Derby approvava la politica di nonintervento del governo. Non è ancora giunto il momento di riconoscere la Confederazione sudista, ma egli ha chiesto documenti autentici per giudicare “fino a che punto il blocco sia reale ed efficace e (...) se il blocco è stato tale da dover essere riconosciuto e rispettato dal diritto delle genti”. Lord John Russell, d’altro canto, ha dichiarato che il governo dell’Unione aveva impiegato nel blocco un numero sufficiente di navi, ma non lo aveva fatto dappertutto allo stesso modo. Disraeli ha detto di non permettersi di giudicare la natura del blocco, ma ha chiesto documenti governativi come chiarimento. Egli ha messo in guardia con enfasi da un prematuro riconoscimento della Confederazione, dal momento che attualmente l’Inghilterra si sta già compromettendo minacciando uno stato americano (il Messico), del quale è stata la prima a riconoscere l’indipendenza. Dopo gli Stati Uniti è stata la volta del Messico. Nessun membro del Parlamento ha condannato una guerra senza previa dichiarazione, ma i parla1 La Guerra di Secessione Americana mentari hanno condannato l’ingerenza nelle relazioni interne di un paese con la parola d’ordine di una “politica di non-intervento”, e la coalizione dell’Inghilterra, della Francia e della Spagna nell’intimidire una terra pressoché indifesa. In realtà l’opposizione ha semplicemente rivelato di riservarsi il Messico per manovre di partito. Derby ha chiesto documenti sia sulla Convenzione fra le tre potenze che sul modo in cui essa veniva attuata. Egli ha detto di approvare la Convenzione perché – secondo il suo punto di vista – per ciascuna delle parti la giusta via consisteva nel far valere i propri diritti indipendentemente dalle altre. Le voci che correvano gli facevano temere che almeno una delle potenze – la Spagna – si proponesse di agire al limite del tradimento. Quasi che Derby ritenesse veramente quella grande potenza che è la Spagna capace dell’audacia di agire in opposizione alla volontà di Inghilterra e Francia! Lord John Russell ha risposto che le tre potenze perseguivano il medesimo scopo e avrebbero evitato con cura di ostacolare i messicani nel risolvere le loro questioni. Alla Camera Bassa Disraeli ha rinviato qualsiasi giudizio fino a quando non avrà esaminato i documenti presentatigli. Comunque ha trovato “sospetto l’annunzio del governo”. L’indipendenza del Messico è stata riconosciuta prima di tutti dall’Inghilterra. Questo riconoscimento richiama una politica memorabile – la politica contraria alla Santa Alleanza – ed un insigne statista, Canning. Quale singolare occasione dunque ha spinto l’Inghilterra a vibrare il primo colpo contro questa indipendenza? Inoltre l’intervento non ha tardato molto a mutar pretesto. Originariamente si trattava di ottenere riparazione dei torti patiti dai cittadini britannici. Ora si dice che vengano introdotti nuovo princìpi governativi e che venga fondata una nuova dinastia. Lord Palmerston ha detto ai parlamentari di esaminare i documenti loro sottoposti e di considerare che la Convenzione proibisce agli alleati di “assoggettare” il Messico o di imporre una forma di governo non gradita al popolo. Allo stesso tempo però egli ha rivelato un segreto diplomatico: egli sa per sentito dire che nel Messico un partito desidera che la repubblica venga trasformata in monarchia, ma ignora quale sia la consistenza di tale partito”. Da parte sua egli desidera soltanto che venga stabilita nel Messico una qualche forma di governo con cui possano trattare i governi stranieri”. Palmerston ha dichiarato che il governo in carica non esisteva, rivendicando così per l’alleanza fra l’Inghilterra, Francia e Spagna la prerogativa della Santa Alleanza di decidere dell’esistenza o meno dei governi stranieri. “Questo è il massimo” – ha soggiunto modestamente – “che il governo della Gran Bretagna desideri ottenere”. Nient’altro! L’ultima “questione controversa” della politica estera riguardava il Marocco. Il governo inglese ha concluso un accordo con il Marocco che gli consente di estinguere il suo debito nei confronti della Spagna, debito che la Spagna non avrebbe mai potuto imporre al Marocco senza il consenso dell’Inghilterra. Sembra che certe persone abbiano anticipato denaro al Marocco per pagare le sue quote alla Spagna, togliendole così il pretesto per occupare anche Tetuan e per rinnovare la guerra. Il governo inglese, in un modo o nell’altro, ha garantito a queste persone l’interesse sul loro prestito, ed ha avocato a sé come garanzia il controllo dell’amministrazione delle dogane del Marocco. Derby ha trovato “piuttosto strano” questo modo di assicurare l’indipendenza del Marocco, ma non ha sollecitato alcuna risposta dai ministri. Alla Camera dei Comuni Disraeli si è addentrato più decisamente nella questione: era “in una certa qual misura incostituzionale”, dal momento che il governo aveva gravato l’Inghilterra di nuovi obblighi finanziari agendo alle spalle del Parlamento. Palmerston gli ha risposto semplicemente di esaminare i “documenti” presentati. 27 28 MARX, Karl Gli affari interni sono stati appena accennati. Derby ha soltanto ammonito i parlamentari, per riguardo “allo stato d’animo della Regina”, a non sollevare questioni controverse “disturbatrici” quali la riforma parlamentare. Egli è pronto a versare regolarmente il suo tributo di ammirazione alla classe lavoratrice inglese, a patto che essa tolleri di essere esclusa dalla rappresentanza popolare con lo stesso stoicismo con il quale sopporta il blocco americano. Sarebbe un errore prevedere un futuro idillico in seguito all’apertura idillica del Parlamento: al contrario! Scioglimento del Parlamento o scioglimento del governo è la parola d’ordine della sessione di quest’anno. Si troverà poi l’opportunità di precisare meglio tale alternativa. Vicende americane Die Presse, 3 marzo 1862 Londra, 26 febbraio 1862 1 L’11 gennaio 1862 Lincoln destituiva Cameron dalla carica di ministro della Guerra e lo nominava ambasciatore in Russia. Il presidente Lincoln azzarda un passo avanti soltanto quando il corso degli eventi e le richieste generali dell’opinione pubblica non consentono ulteriori indugi. Ma una volta che old Abe si è convinto di essere arrivato a quel momento critico, allora sorprende in egual misura amici e nemici, con un’azione improvvisa eseguita nel modo più silenzioso possibile. Così, nel modo meno appariscente, recentemente ha fatto un colpo che sei mesi prima gli sarebbe costato la carica presidenziale e che, anche pochi mesi fa, avrebbe suscitato una marea di discussioni. Intendiamo parlare della destituzione di McClellan dal suo posto di comandante in capo di tutti gli eserciti dell’Unione. Prima di tutto Lincoln ha sostituito il ministro della Guerra, Cameron, con un giurista energico e spietato, Edwin Stanton. Questi emanò un or- dine del giorno ai generali Buell, Halleck, Butler, Sherman ed altri comandanti di interi settori o capi di spedizione, con il quale veniva comunicato loro che in futuro avrebbero ricevuto tutti gli ordini, in chiaro e segreti, direttamente dal ministro della Guerra. Infine Lincoln emanò degli ordini dove si firmò come “Comandante in capo dell’esercito e della marina”, un attributo che gli spettava, secondo la Costituzione. In questo modo “tranquillo”, “il giovane Napoleone” fu privato del comando supremo che aveva tenuto sino ad allora su tutti gli eserciti e la sua azione di comando fu limitata all’armata del Potomac, benché gli restasse il titolo di “comandante in capo”. Le vittorie conseguite nel Kentucky, nel Tennessee e sulla costa atlantica erano i primi avvenimenti favorevoli che segnavano l’assunzione del comando supremo da parte del presidente Lincoln. La carica di comandante in capo, detenuta sino allora da McClellan, è stata istituita negli Stati Uniti sulla scorta del modello inglese e corrisponde approssimativamente alla carica di Gran Connestabile dell’antico esercito francese. Durante la guerra di Crimea anche l’Inghilterra scoprì l’inutilità di tale istituzione ormai superata. Di conseguenza fu concluso un compromesso per il quale parte degli attributi sino allora spettanti al comandante in capo venivano trasferiti al ministro della Guerra. Mancano ancora gli elementi necessari per poter valutare la tattica temporeggiatrice di McClellan sul Potomac; comunque è fuori di dubbio che la sua influenza ha agito da freno sull’andamento generale della guerra. Si può ripetere per McClellan quello che Macaulay dice di Essex: “Gli errori militari di Essex furono dovuti per lo più a scrupolo politico. Era fedele alla causa del Parlamento, ma senza alcun ardore, ed una grande disfatta era la sola cosa che temesse più di una grande vittoria”. McClellan e la maggior parte degli ufficiali dell’esercito regolare usciti da West Point sono più o meno La Guerra di Secessione Americana legati dall’esprit de corps ai loro vecchi camerati militanti in campo avverso. Nutrono la stessa gelosia per i parvenus che sono per loro i “militari civili”. A loro avviso la guerra deve essere condotta in modo rigorosamente tecnico, mirando continuamente alla restaurazione dell’Unione sulla sua vecchia base, e perciò deve soprattutto rimanere estranea a tendenze rivoluzionarie che tocchino le questioni di principio. Bella concezione, per una guerra che è essenzialmente una guerra di princìpi! I primi generali del Parlamento inglese caddero nello stesso errore. “Ma – dice Cromwell – come cambiò tutto, non appena la guida fu presa da uomini che professavano princìpi di fede e di religiosità!”. Il Washington Star, il giornale particolare di McClellan, in uno dei suoi ultimi numeri dichiara: “Lo scopo di tutti gli accordi militari del generale Mcclellan è di restaurare completamente l’Unione, esattamente com’era prima dello scoppio della ribellione.” Nessuna meraviglia, dunque, se sul Potomac, sotto gli occhi del generale supremo, l’esercito era addestrato a catturare gli schiavi! Ancora poco tempo fa, con un ordine speciale, McClellan ha cacciato dall’accampamento gli Hutchinson, una famiglia di musicisti, perché cantavano canzoni antischiaviste! A parte tali dimostrazioni “antitendenzialistiche”, McClellan ha protetto con il suo scudo i traditori dell’Unione. Così, per esempio, ha promosso Maynard ad una carica più elevata, benché costui – e lo dimostrano i documenti resi pubblici dal comitè d’inchiesta della Camera dei Deputati – lavorasse come agente al soldo dei secessionisti. A partire dal generale Patterson, il cui tradimento fu la causa della sconfitta di Manassas, fino al generale Stone, che predispose la sconfitta di Ball’s Bluff con un accordo diretto con il nemico, McClellan sapeva tenere ogni traditore militare lontano dalla corte marziale, e, in moltissimi casi, anche dall’espulsione dall’esercito. Il comitè d’inchiesta del Congres- 29 so, a questo proposito, ha rivelato i fatti più sorprendenti. Lincoln decise di prendere provvedimenti energici per dimostrare che con l’assunzione del comando supremo da parte sua era suonata l’ora per i traditori con le spalline e che era giunto il momento cruciale nella conduzione delle operazioni. Per suo ordine il generale Stone fu arrestato nel suo letto alle due di notte del 10 febbraio e portato a Forte Lafayette. Poche ore dopo fu reso noto l’ordine del suo arresto, firmato da Stanton, in cui si formula l’accusa di alto tradimento, che dovrà essere giudicata da una corte marziale. Stone venne arrestato e messo sotto accusa senza comunicare nulla al generale McClellan. Finché rimaneva inattivo e si cullava sugli allori prima di guadagnarseli, McClellan era naturalmente deciso a non permettere ad alcun altro generale di prevenirlo. I generali Halleck e Pope avevano deciso una mossa combinata per costringere ad una battaglia decisiva il generale Price, che già una volta era sfuggito a Frémont grazie all’intervento di Washington. Un telegramma di McClellan proibì loro di vibrare il colpo. Il generale Halleck, richiamato con un telegramma analogo, dovette desistere dall’attacco di Forte Columbus, in un momento in cui il forte era pressoché allagato. McClellan aveva chiaramente proibito ai generali dell’Ovest di corrispondere uno con l’altro. Ognuno di loro doveva per prima cosa rivolgersi a Washington appena veniva proposta un’azione combinata. Ora il presidente Lincoln ha ridato loro la necessaria libertà di azione. Quanto fosse vantaggiosa per la secessione la politica militare del generale McClellan, è dimostrato oltre ogni dubbio dai continui panegirici che gli dedica il New York Herald. Per i gusti dell’Herald, egli è un eroe. Il famoso Bennet, proprietario e redattore capo dell’Herald, prima aveva tenuto in pugno i governi di Pierce e di Buchanan Marx cita il discorso di per mezzo dei suoi “rappresentanti Cromwell al Parlamento del speciali”, ossia i suoi corrispondenti a 4 luglio 1653. 1 30 MARX, Karl Washington. Sotto la presidenza di Lincoln egli cercò di conquistarsi lo stesso potere per vie traverse, facendo sì che il suo “rappresentante speciale”, il dottor Joes, un uomo del Sud e fratello di un ufficiale che aveva disertato dall’Unione, entrasse nei favori di McClellan. Sotto il patrocinio di McClellan, devono essere state permesse grandi libertà a questo Joes quando Cameron era a capo del dicastero della Guerra. Evidentemente egli si aspettava che Stanton gli garantisse gli stessi privilegi, e pertanto l’8 febbraio si presentava al ministero della Guerra dove il ministro della Guerra, il suo segretario in capo e alcuni membri del congresso si stavano consultando appunto sui provvedimenti bellici necessari. Messo alla porta, Joes si inalberò, e quando finalmente battè in ritirata, minacciò che l’Herald avrebbe sparato a zero sull’attuale dicastero della Guerra nel caso che gli avesse rifiutato lo “speciale privilegio” di confidargli, in particolare, le deliberazioni del Gabinetto, i telegrammi, le comunicazioni pubbliche e le notizie belliche. La mattina dopo, il 9 febbraio, il dottor Joes aveva riunito tutto lo stato maggiore di McClellan a bere champagne a colazione con lui. Le disgrazie, però, fanno presto ad arrivare. Un sottufficiale entrò con sei uomini, prese il potente Joes e lo portò a Forte McHenry dove, come stabiliva chiaramente l’ordine del ministro della Guerra, doveva essere tenuto sotto stretto controllo come spia. I filo-secessionisti alla camera bassa. Riconoscimento del blocco americano Die Presse, 12 marzo 1862 Londra, 8 marzo 1862 Parturing montes! Fin dall’apertura del Parlamento gli inglesi filo- secessionisti avevano minacciato una “mozione” sul blocco americano. La risoluzione è stata presentata infine alla Camera Bassa nella veste assai modesta di una mozione che esorta il governo a “presentare altri documenti sullo stato del blocco” e anche questa mozione insignificante è stata respinta, senza la formalità della votazione. La risoluzione era proposta da Gregory, il rappresentante di Galway, che nella sessione parlamentare dell’anno scorso, subito dopo lo scoppio della guerra civile, aveva già presentato una mozione mirante al riconoscimento della Confederazione degli Stati del Sud. Nel suo discorso di quest’anno è innegabile una certa abilità sofistica. Il discorso risente soltanto del fatto di essere sfortunatamente diviso in due parti, che si annullano a vicenda. Una parte descrive gli effetti disastrosi del blocco dell’industria cotoniera inglese e di conseguenza chiede la rimozione del blocco stesso. L’altra parte dimostra, sulla base dei documenti presentati dal governo, tra i quali due memoriali di Yancey e Mann e di Mason, che il blocco non esiste affatto, tranne che sulla carta, e che di conseguenza non dovrebbe più essere riconosciuto. Gregory ha condito il suo discorso con una citazione dietro l’altra di articoli del Times. Il Times, per il quale è molto seccante sentirsi ricordare in questo momento le sue dichiarazioni profetiche, ringrazia Gregory con un articolo di fondo nel quale lo espone al pubblico ludibrio. La mozione di Gregory era appoggiata da Bentick, un Tory a oltranza che per due anni si è sforzato invano di allontanare da Disraeli parte dei conservatori. È stato uno spettacolo ridicolo in sé e per sé vedere i presunti interessi dell’industria inglese sostenuti da Gregory, rappresentante di Galway, un posto di mare senza importanza dell’Irlanda occidentale, e da Bentinck, rappresentante del Norfolk, una zona puramente agricola. Forster, rappresentante di Bradford, un centro industriale inglese, si La Guerra di Secessione Americana è opposto ad entrambi. Il discorso di Forster merita un esame più attento, dal momento che dimostra in modo singolare, l’inconsistenza delle voci sul blocco americano propalate in Europa dagli amici della secessione. In primo luogo, ha detto, gli Stati Uniti hanno osservato tutte le formalità richieste dal diritto internazionale. Non hanno dichiarato alcun porto in stato di blocco senza il dovuto proclama, senza preavviso del momento del suo inizio o senza aver fissato i quindici giorni allo scadere dei quali sarebbe stato proibito alle navi straniere neutrali di entrare ed uscire dal porto. Il discorso sulla “inefficacia” legale del blocco si basa quindi soltanto sui casi, a quanto pare frequenti, in cui sarebbe stato violato. Prima dell’apertura del Parlamento è stato detto che era stato violato da 600 navi. Gregory ora riduce il numero a 400. La sua asserzione si basa su due elenchi forniti al governo, uno il 30 novembre dai rappresentanti del Sud Yancey e Mann, l’altro, l’elenco supplementare, da Mason. Secondo Yancey e Mann più di 400 navi – in partenza e in arrivo – hanno rotto il blocco, tra la proclamazione e il 20 agosto. Secondo i rapporti della dogana, comunque, il numero totale delle navi ammonta soltanto a 322. Di queste, 119 sono partite prima della dichiarazione del blocco, 56 prima della scadenza dei quindici giorni di preavviso. Restano 147 navi. Di queste 147 navi, 25 erano battelli fluviali che andavano nell’entroterra a New Orleans, dove sono rimasti fermi; 106 erano navi costiere; ad eccezione di tre vascelli, erano tutte navi “quasi interne”, secondo quanto ha detto lo stesso Mason. Di queste 106, 66 sono salpate tra Mobile e New Orleans. Chiunque conosca questa costa sa quanto sia assurdo chiamare violazione del blocco il passaggio di un battello dietro le lagune, toccando appena il mare aperto e scivolando lungo la costa. Lo stesso vale per i battelli tra Savannah e Charleston, dove si insinuano tra le isole tra strette lingue di terra. Secondo la dichiarazione del console inglese Bunch, queste chiatte comparvero solo per alcuni giorni sul mare aperto. Dopo avere detratto 106 battelli costieri, restano 16 partenze per porti stranieri; di queste 15 erano porti americani, soprattutto per Cuba, e una per Liverpool. La “nave” che attraccò a Liverpool era una goletta, come tutte le altre “navi”, ad eccezione di una corvetta. Si è parlato molto, ha esclamato Forster, di blocchi fittizi. Quest’elenco di Yancey e Mann non è un elenco fittizio? Egli ha sottoposto l’elenco supplementare di Mason ad un esame analogo, e ha ulteriormente dimostrato che solamente tre o quattro incrociatori sono sfuggiti dal blocco, mentre nell’ultima guerra anglo-americana non meno di 516 incrociatori americani forzarono il blocco inglese e si spinsero sino alle coste inglesi. “Il blocco, al contrario, è stato straordinariamente efficace sin dall’inizio”. Un’ulteriore prova è fornita dalle relazioni dei consoli inglesi; soprattutto, comunque, dalle liste dei prezzi del Sud. L’11 gennaio il prezzo del cotone a New Orleans offriva un aggio del 100% per l’esportazione in Inghilterra; il guadagno sull’importazione del sale ammontava al 1500% e il guadagno sul contrabbando di guerra era incomparabilmente superiore. Malgrado questa allettante prospettiva di guadagno, era impossibile tanto spedire cotone in Inghilterra quanto spedire il sale a New Orleans o a Charleston. Di fatto, comunque, Gregory non si lamentava dell’inefficacia del blocco, bensì della sua eccessiva efficacia. Ci esorta a porre termine al blocco e con esso alla paralisi dell’industria e del commercio. Basta una risposta: chi esorta questa camera a violare il blocco? I rappresentanti delle zone che ne risentono negativamente? Quest’appello viene da Manchester, dove le fabbriche hanno dovuto chiudere, o da Liverpool, dove per mancanza di carichi le navi stanno ferme nei bacini? Al contrario, viene da Galway, ed è sostenuta dal Norfolk. Tra gli amici dei secessionisti si è messo in vista Lindsay, un grosso armato- 31 32 MARX, Karl re di North Shields. Lindsay aveva offerto all’Unione i suoi cantieri navali, e all’uopo era andato a Washington, dove ha avuto il dispiacere di veder rifiutare le sue proposte d’affari. Da allora le sue simpatie sono andate tutte ai secessionisti. Il dibattito si concludeva con un discorso molto circostanziato di Sir R. Palmer, il vice-procuratore generale, che parlava a nome del governo. Egli ha fornito convincenti prove giuridiche sulla forza e la validità del blocco secondo il diritto internazionale. In tale occasione egli ha fatto scempio – e di questo l’ha accusato Lord Cecil – dei “nuovi princìpi” proclamati nella Convenzione di Parigi del 1856. Tra l’altro ha espresso la sua meraviglia per il fatto che nel Parlamento britannico Gregory ed i suoi alleati osassero fare appello all’autorità di Monsieur de Hautefeuille. Quest’ultimo è senza dubbio una “autorità” di nuovo conio del partito bonapartista. Gli articoli di Hautefeuille nella Revue Contemporaine sui diritti marittimi dei neutrali dimostrano la più completa ignoranza o mauvaise foi per ordine superiore. Con il fallimento dei parlamentari filo-secessionisti sulla questione del blocco viene eliminata ogni eventualità di rottura fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti. La guerra civile americana (1) Die Presse, 26 marzo 1862 Londra, 21 marzo 1862 Da qualunque punto di vista la si consideri, la guerra civile americana presenta uno spettacolo senza confronti negli annali della storia militare. L’immensa ampiezza del territorio conteso; la vasta estensione del fronte e delle linee di operazione; la consistenza numerica degli eserciti nemici, la cui or- ganizzazione trovava ben poco sostegno in una precedente struttura organizzativa; il costo favoloso di questi eserciti; il modo do guidarli e i princìpi tattici e strategici generali secondo i quali viene fatta la guerra, sono tutti elementi nuovi agli occhi dello spettatore europeo. La congiura secessionista, organizzata, patrocinata e sostenuta, fin da molto tempo prima del suo scoppio, dal governo Buchanan, ha dato al Sud un vantaggio che era la sola cosa con la quale poteva sperare di raggiungere il suo scopo. Per il Sud – compromesso dalla sua popolazione di schiavi e da un elemento fortemente unionista fra gli stessi bianchi, con un numero di uomini liberi di due terzi inferiore al Nord, ma più pronto all’attacco, grazie alla moltitudine di avventurieri e sfaccendati cui dà ricetto – tutto dipendeva da un’offensiva rapida, audace, anche temeraria. Se i sudisti fossero riusciti a prendere Saint-Louis, Cincinnati, Washington, Baltimora e forse Filadelfia, avrebbero potuto far leva sul panico, e poi con la diplomazia e la corruzione avrebbero potuto assicurarsi il riconoscimento dell’indipendenza di tutti gli stati schiavisti. Se questo primo furibondo attacco fosse fallito, almeno nei punti essenziali, la loro posizione fatalmente sarebbe diventata ogni giorno peggiore, mentre contemporaneamente sarebbe aumentata la forza del Nord. Questo punto è stato ben compreso dagli uomini che avevano organizzato la congiura secessionista con spirito veramente bonapartista. Essi hanno iniziato la campagna secondo i piani; le loro bande di avventurieri si sono riversate nel Missouri e nel Tennessee, mentre le loro truppe più organizzate invadevano la Virginia orientale e preparavano un colpo di mano contro Washington. Con il fallimento di questo colpo, sul piano militare, la campagna sudista era perduta in partenza. Il Nord è salito pigramente, con riluttanza sulla scena di guerra, com’era da prevedersi dato il suo maggiore La Guerra di Secessione Americana sviluppo industriale e commerciale. Il meccanismo sociale qui era di gran lunga più complesso che nel Sud, e si richiedeva molto più tempo per imprimere questa insolita direzione al suo movimento. L’arruolamento dei volontari per tre mesi è stato un errore grande, ma forse inevitabile. La politica del Nord consisteva nel rimanere inizialmente sulla difensiva in tutti i punti cruciali, organizzare le sue forze, addestrarle con operazioni su piccola scala e senza correre il rischio di battaglie decisive, e appena l’organizzazione si fosse sufficientemente consolidata e l’elemento traditore fosse stato in qualche modo allontanato dall’esercito, passare finalmente ad un’offensiva energica e martellante, e soprattutto riconquistare il Kentucky, il Tennessee, la Virginia e la Carolina Settentrionale. La trasformazione dei civili in soldati richiedeva necessariamente più tempo nel Nord che nel Sud, ma una volta che si fosse compiuta si poteva contare sulla superiorità individuale dell’uomo del Nord. Nell’insieme, tenendo conto anche degli errori di origine politica più che militare, il Nord ha agito secondo quei princìpi. La guerriglia nel Missouri e nella Virginia Occidentale, mentre proteggeva le popolazioni unioniste, abituava le truppe al servizio al fronte ed agli scontri a fuoco, senza esporle a sconfitte decisive. La grande disfatta di Bull Run è stata in un certo senso il risultato dell’errore precedente di arruolare volontari per tre mesi. Era assurdo permettere che una posizione forte, su terreno difficile ed in possesso di un nemico di poco inferiore di numero fosse attaccata frontalmente da un esercito la cui prima linea era costituita da elementi inesperti. Il panico che si è impadronito dell’esercito dell’Unione al momento decisivo, per motivi ancora oscuri, non poteva sorprendere nessuno che avesse una conoscenza anche approssimativa della storia delle guerre popolari. Episodi analoghi accaddero molto spesso alle truppe francesi dal 1792 al 1795; tuttavia non impedirono a quelle stesse truppe di vincere le battaglie di Jemappes e Fleurus, Montenotte, Castiglione e Rivoli. I motteggi della stampa europea per il panico di Bull Run avevano una sola scusante alla loro stupidaggine: la millanteria di una parte della stampa americana del Nord prima della battaglia. La tregua di sei mesi che è seguita alla sconfitta di Manassas è stata sfruttata dal Nord meglio che dal Sud. Non solo le file del Nord sono state rafforzate in misura maggiore che non quelle del Sud, ma anche gli ufficiali hanno ricevuto una migliore formazione, e la disciplina e l’addestramento delle truppe non ha incontrato nel Nord gli stessi ostacoli del Sud. I tradimenti e le intromissioni incompetenti sono stati eliminati progressivamente, e il periodo del panico di Bull Run appartiene già al passato. Ovviamente, gli eserciti di entrambe le parti non devono essere misurati secondo il metro dei grandi eserciti europei e nemmeno del primo esercito regolare degli Stati Uniti. Infatti Napoleone poteva addestrare battaglioni di reclute nelle caserme durante il primo mese, iniziare a marciare durante il secondo e guidarli contro il nemico nel terzo; ma allora ogni battaglione riceveva un rinforzo sufficiente di ufficiali e sottufficiali, ogni compagnia alcuni vecchi soldati, ed il giorno della battaglia le nuove truppe erano unite in brigate insieme ai veterani che, per così dire, ne costituivano il nerbo. In America non esistevano tutte queste condizioni. Senza la considerevole massa dotata di esperienza militare che era emigrata in America in seguito ai moti rivoluzionari europei del 1848-1849, l’organizzazione dell’esercito dell’Unione avrebbe richiesto molto più tempo ancora. Il numero minimo dei morti e dei feriti in proporzione al totale delle truppe (di solito uno su venti) dimostra che la maggior parte delle battaglie, anche le più recenti, nel Kentucky e nel Tennessee, sono state combattute prevalentemente con armi da fuoco a raggio abbastanza lungo e che le cariche all’arma bianca, quando vi sono state, o si sono 33 34 MARX, Karl arrestate subito di fronte al fuoco nemico o hanno volto il nemico in fuga prima che si arrivasse al combattimento a corpo a corpo. Nel frattempo la nuova campagna è stata iniziata sotto auspici più favorevoli con l’avanzata di Buell e Halleck attraverso il Kentucky fino al Tennessee. Dopo la riconquista del Missouri e della Virginia Occidentale, l’Unione ha iniziato la campagna con l’avanzata nel Kentucky. Qui i secessionisti tenevano tre forti posizioni: i campi fortificati di Columbus sul Mississipi a sinistra, di Bowling Green al centro e di Mill Springs sul fiume Cumberland a destra. La loro linea si estendeva per trecento miglia da ovest ad est. L’estensione di questa linea non consentiva ai tre corpi di sostenersi a vicenda e offriva alle truppe dell’Unione l’opportunità di attaccarle separatamente con forze superiori. Il grande errore nella disposizione dei secessionisti era dovuto al loro tentativo di proteggere tutto quello che avevano occupato. Un solo campo centrale ben munito e fortificato, scelto come terreno di battaglia per uno scontro decisivo e tenuto dal grosso dell’esercito, avrebbe difeso molto meglio il Kentucky. Esso avrebbe dovuto metterle in una posizione pericolosa, qualora avessero tentato di avanzare ugualmente contro una concentrazione di truppe così forte. Date le circostanze, gli unionisti hanno deciso di attaccare quei tre campi uno dopo l’altro, di fare uscire il nemico dalle sue postazioni e costringerlo ad accettare battaglia in campo aperto. Questo piano, conforme a tutte le regole dell’arte della guerra, è stato attuato con decisione e rapidità. Verso la metà di gennaio un corpo di circa 15 mila unionisti marciava su Mill Springs, che era tenuto da 20 mila secessionisti. Gli unionisti hanno manovrato in modo da far credere al nemico di avere a che fare soltanto con un debole corpo di ricognizione. Il generale Zollicoffer è caduto immediatamente nella trappola, è uscito dal suo campo fortificato e ha attaccato gli unionisti. Si è subito reso conto di a- vere di fronte una forza superiore: è caduto sul campo, mentre le sue truppe subivano una completa disfatta, pari a quella degli unionisti a Bull Run. Questa volta però la vittoria è stata sfruttata in ben altro modo. L’esercito sconfitto è stato incalzato da presso finché non è arrivato, sfinito, demoralizzato, senza artiglieria da campo né salmerie, al suo accampamento a Mill Springs. Questo campo si trovava sulla riva settentrionale del Cumberland, cosicché nel caso di un’altra sconfitta le truppe non avevano aperta altra ritirata se non attraverso il fiume, con pochi battelli a vapore e chiatte fluviali. In genere troviamo che quasi tutti gli accampamenti dei secessionisti erano dislocati sulla sponda nemica del fiume. Occupare simili posizioni non solo è secondo le regole, ma è molto utile se si ha un ponte alle spalle. In tal caso l’accampamento serve da testa di ponte e dà a chi lo occupa il modo di impegnare le proprie forze a suo piacimento su entrambe le rive del corso d’acqua, mantenendo così il controllo assoluto del fiume. Senza un ponte alle spalle, invece, un accampamento sulla sponda nemica di un fiume taglia la ritirata dopo uno scontro sfortunato e costringe le truppe a capitolare, o le espone al massacro e all’annegamento, la sorte che è toccata agli unionisti a Ball’s Bluff sulla sponda nemica del Potomac, dove li aveva spinti il tradimento del generale Stone. Quando i secessionisti sconfitti avevano impiantato il loro accampamento a Mill Springs, avevano capito subito di dover respingere un attacco nemico contro le loro fortificazioni, altrimenti ne sarebbe seguita necessariamente la capitolazione entro brevissimo tempo. Dopo l’esperienza della mattinata avevano perduto fiducia nelle loro capacità di resistenza. Di conseguenza, quando il giorno dopo gli unionisti sono avanzati per attaccare l’accampamento, si son resi conto che il nemico aveva profittato della notte per abbandonare il campo, portando con sé, dall’altra parte del fiume, le salmerie, l’artiglieria e le munizioni. In La Guerra di Secessione Americana tal modo l’estrema destra della linea secessionista si è ritirata verso il Tennessee, e il Kentucky orientale, dove la massa della popolazione è ostile al partito schiavista, è stato riconquistato all’Unione. Nello stesso periodo – verso la metà di gennaio – sono iniziati i preparativi per cacciare i secessionisti da Columbus e da Bowling Green. Si teneva pronta una grande flottiglia di cannoniere corazzate e di battelli-mortaio, e si sparse ovunque la voce che essa doveva servire da scorta ad un forte esercito in marcia lungo il Mississipi da Cairo a Memphis e New Orleans. Ad ogni modo, tutte le azioni sul Mississpi erano semplicemente manovre diversive. Al momento decisivo le cannoniere furono portate sul fiume Ohio e da lì sul Tennessee, che risalirono fino a Forte Henry. Questo posto, insieme a Forte Donelson sul Cumberland, costituiva la seconda linea di difesa dei secessionisti nel Tennessee. La posizione era scelta bene, perché nel caso di una ritirata dietro al Cumberland, questo fiume ne avrebbe coperto il fronte, ed il Tennessee il fianco sinistro, mentre la sottile lingua di terra tra i due fiumi era protetta a sufficienza dai due forti stessi. La rapida azione degli unionisti, comunque, faceva breccia nella seconda linea prima ancora di attaccare l’ala sinistra e il centro della prima linea. Nella prima settimana di febbraio le cannoniere degli unionisti comparvero davanti a Forte Henry, che si arrese dopo un breve bombardamento. La guarnigione fuggì a Forte Donelson, dal momento che le forze terrestri della spedizione non erano abbastanza consistenti da circondare la posizione. Allora le cannoniere ridiscesero il Tennessee, risalirono l’Ohio e di lì, lungo il Cumberland, arrivarono a Forte Donelson. Una sola cannoniera si avventurò audacemente su per il Tennessee, costeggiando lo stato del Mississipi e spingendosi fino a Florance nell’Alabama settentrionale, dove una serie di acquitrini e di secche (note col nome di Muscle Shoals) le impedirono di proseguire la navigazione. Il fatto che una sola cannoniera abbia compiuto questo lungo viaggio di almeno 150 miglia e poi sia ritornata, senza essere attaccata, dimostra come il sentimento unionista prevalga lungo il fiume – cosa che sarà molto utile alle truppe unioniste se dovranno spingersi tanto lontano. La spedizione fluviale lungo il Cumberland coordinò allora i suoi movimenti con quelli delle forze di terra al comando dei generali Halleck e Grant. I secessionisti dislocati a Bowling Green si ingannarono sui movimenti degli unionisti. Di conseguenza rimasero tranquillamente nel loro accampamento per tutta la settimana successiva alla caduta di Forte Henry, mentre Forte Donelson veniva circondato dalla parte di terra da 40 mila unionisti e dalla parte del fiume veniva minacciato da una poderosa flottiglia di cannoniere. Come il campo di Mill Springs e Forte Henry, Forte Donelson aveva il fiume alle spalle, senza un ponte per la ritirata. Era la postazione più forte che gli unionisti avessero attaccato fino allora: le fortificazioni erano state predisposte con la massima cura, inoltre il luogo era abbastanza grande da ospitare i 20 mila uomini che l’occupavano. Il primo giorno dell’attacco le cannoniere fecero tacere il fuoco delle batterie puntate verso il fiume e bombardarono l’interno delle opere di difesa, mentre le truppe di terra respingevano il grosso dei secessionisti a cercare rifugio proprio sotto il tiro delle proprie opere di difesa. Il secondo giorno sembra che le cannoniere, che il giorno prima avevano subìto gravi danni, non abbiano fatto molto. Le truppe di terra, invece, dovettero sostenere uno scontro lungo e molto accanito con le colonne della guarnigione, che cercavano di sfondare l’ala destra del nemico per assicurarsi la linea di ritirata verso Nashville. Comunque, un vigoroso attacco sferrato dall’ala destra degli unionisti contro l’ala sinistra dei secessionisti, e i notevoli rinforzi che ricevette l’ala sinistra degli unionisti, decisero le sorti 35 36 MARX, Karl dello scontro in favore degli attaccanti. Parecchie opere avanzate erano state travolte; la guarnigione, costretta entro le sue linee di difesa interne, senza possibilità di ritirata e chiaramente incapace di resistere ad un ulteriore assalto, il giorno dopo si piegava ad una resa senza condizioni. La guerra civile americana (2) Die Presse, 27 marzo 1862 Londra, 22 marzo 1862 Con Forte Donelson l’artiglieria, le salmerie e i rifornimenti militari del nemico caddero nelle mani degli unionisti; 13 mila secessionisti si arresero il giorno della sua caduta; altri mille il giorno dopo, e appena l’avanguardia dei vincitori comparve davanti a Clarcksville, che si trova più a monte sulle rive del Cumberland, la città aprì le porte. Anche qui erano stati ammassati notevoli rifornimenti dei secessionisti. La presa di Forte Donelson presenta un solo enigma: la fuga del generale Floyd con cinquemila uomini il secondo giorno di bombardamento. Questi fuggiaschi erano troppi per essere portati via di nascosto su battelli a vapore durante la notte; qualche misura di precauzione da parte degli assalitori avrebbe dovuto impedire tale fuga. Sette giorno dopo la resa di Forte Donelson, Nashville fu occupata dai federali. La distanza tra i due luoghi è di circa 100 miglia inglesi, e una marcia di 15 miglia al giorno, su strade pessime e nella stagione più sfavorevole dell’anno, torna ad onore delle truppe unioniste. Ricevuta la notizia della caduta di Forte Donelson, i secessionisti evacuarono Bowling Grenn; una settimana dopo abbandonarono Columbus e si ritirarono su un’isola del Mississipi, 45 miglia a sud. Così il Kentucky è stato completamente riconquistato dall’Unione. Il Tennessee potrà rimanere nelle mani dei secessionisti sol- tanto se attaccheranno e vinceranno una grande battaglia; a tal fine, si dice che abbiano concentrato 65 mila uomini. Nel frattempo niente impedisce agli unionisti di contrapporre loro forze soverchianti. Il comando delle operazioni nella campagna del Kentucky da Somerset a Nashville merita il massimo elogio. La riconquista di un territorio così vasto, l’avanzata in un solo mese dal fiume Ohio al Cumberland, dimostrano un’energia, una risolutezza e una velocità d’azione quali raramente sono state raggiunte da eserciti regolari in Europa. Per esempio, si può fare il confronto con la lenta avanzata degli alleati da Magenta a Solferino nel 1859 – senza l’inseguimento del nemico in ritirata e senza il tentativo di tagliar fuori i suoi dispersi o di aggirare ed accerchiare in alcun modo interi corpi delle sue truppe. Halleck e Grant in particolare offrono un buon esempio di comando militare forte e deciso. Senza considerare minimamente Columbus né Bowling Green, essi hanno concentrato le loro forze nei punti decisivi, cioè Forte Henry e Forte Donelson, hanno lanciato su questi un attacco rapido e violento, e proprio per questo la posizione di Columbus e Bowling Green diveniva insostenibile. Poi hanno subito marciato su Clarksville e Nashville, senza dare ai secessionisti in ritirata il tempo di occupare nuove posizioni nel Tennessee settentrionale. Durante questo rapido inseguimento il grosso delle truppe secessioniste a Columbus è rimasto completamente tagliato fuori dal centro e dall’ala destra del suo esercito. I giornali inglesi hanno criticato ingiustamente questa operazione. Anche se l’attacco su Forte Donelson fosse fallito, i secessionisti, impegnati dal generale Buell a Bowling Green, non avrebbero potuto inviare abbastanza uomini da permettere alla guarnigione di inseguire gli unionisti respinti in campo aperto o da minacciare la loro ritirata. D’altro canto, Columbus è così lontana che i suoi uomini non avrebbero mai potuto interferire nei movimenti di Grant. La Guerra di Secessione Americana Di fatto, dopo che gli unionisti cacciarono i secessionisti dal Missouri, Columbus divenne una opposizione del tutto inutile. Le truppe che formavano la guarnigione di Columbus dovettero ritirarsi in tutta fretta a Memphis o addirittura nell’Arkansas, per sfuggire al pericolo di dover ingloriosamente deporre le armi. In seguito all’evacuazione del Missouri e alla riconquista del Kentucky, il teatro di guerra si è tanto ristretto che i diversi eserciti possono collaborare, entro certi limiti, lungo tutta la linea delle operazioni ed agire per il conseguimento dei risultati stabiliti. In altre parole, la guerra assume ora per la prima volta un carattere strategico, e la configurazione geografica del paese acquista nuovo interesse; ora è compito dei generali nordisti trovare il tallone d’Achille degli stati del cotone. Fino all’occupazione di Nashville non era stata possibile alcuna strategia combinata fra l’esercito del Kentucky e quello del Potomac: erano troppo distanti l’uno dall’altro; si trovavano sulla stessa linea del fronte, ma le loro linee d’operazione erano completamente diverse. I movimenti dell’esercito del Kentucky diventano importanti per l’intero teatro di guerra solo con l’avanzata vittoriosa nel Tennessee. I giornali americani, influenzati da McClellan, non fanno che parlare della teoria dell’avvolgimento dell’anaconda. Secondo tale teoria un’enorme linea di eserciti dovrà avvolgersi attorno ai ribelli, stringere gradualmente le sue spire, ed infine strangolare il nemico. Questa è una puerilità bella e buona, una riesumazione del cosiddetto “sistema del cordone” ideato in Austria verso il 1770, e messo in atto contro i francesi dal 1792 al 1797 con enorme ostinazione e con altrettanto insuccesso. Il colpo definitivo a questo sistema fu vibrato a Jemappes, a Fleurus e più particolarmente a Montenotte, a Millesimo, a Dego, a Castiglione e a Rivoli. I francesi tagliavano in due “l’anaconda” attaccando in un punto dove avevano concentrato forze superiori; le spire dell’anaconda venivano quindi stritolate una dopo l’altra. Negli stati popolosi e più o meno centralizzati, vi è sempre un punto che rappresenta il cuore della resistenza nazionale; questa si spezza se quello cade in mano al nemico. Parigi offre un magnifico esempio al riguardo. Gli stati schiavisti tuttavia non possiedono tale centro; sono scarsamente popolati, con poche grandi città, e quelle poche situate tutte lungo la costa. Quindi, ci si chiede: esiste ciò malgrado un centro di gravità militare, la cui occupazione spezzerà la spina dorsale della resistenza, oppure quegli stati sono come era ancora la Russia nel 1812, cioè non si possono conquistare se non occupando ogni villaggio, ogni podere, insomma, tutta la periferia? Diamo uno sguardo alla formazione geografica della terra dei secessionisti, con la sua lunga striscia di costa sia sull’oceano Atlantico che sul golfo del Messico. Finché i confederati tenevano il Kentucky e il Tennessee, il tutto formava una grande massa compatta. La perdita di tutti e due quegli stati ha aperto un immenso squarcio nel loro territorio, separando come un cuneo gli stati dell’oceano Atlantico settentrionale dagli stati del golfo del Messico. La linea diretta dalla Virginia e le due Caroline al Texas, la Louisiana, il Mississipi e anche parte dell’Alabama passa attraverso il Tennessee, che ora è occupato dagli unionisti. L’unica strada che dopo la conquista completa del Tennessee da parte degli unionisti unisce ancora i due gruppi di stati schiavisti passa attraverso la Georgia. Questo dimostra che la Georgia è la chiave per arrivare alla terra dei secessionisti. Con la perdita della Georgia la Confederazione sarebbe tagliata in due parti prive di qualsiasi collegamento. Una riconquista della Georgia da parte dei secessionisti sarebbe addirittura inconcepibile, perché le forze militari degli unionisti sarebbero radunate in una posizione centrale, mentre i loro avversari, divisi in due campi, avrebbero forze appena sufficienti per sferrare un attacco coordinato. La conquista di tutta la Georgia, con la costa della Florida, sarebbe in- 37 38 MARX, Karl dispensabile per una tale operazione? Niente affatto. In una terra dove le comunicazioni, particolarmente fra posti lontani, dipendono più dalle ferrovie che dalle strade, è sufficiente occupare le ferrovie. La linea ferroviaria più meridionale fra gli stati del golfo del Messico e la costa atlantica passa per Macon e Gordon, nei pressi di Milledgeville. L’occupazione di questi due punti, di conseguenza, taglierebbe in due la terra dei secessionisti e metterebbe gli unionisti in grado di sconfiggere le due parti una dopo l’altra. Ne consegue anche che senza il possesso del Tennessee non può esistere una repubblica sudista. Senza il Tennessee il punto vitale della Georgia dista solo otto o dieci giorni di marcia dalla frontiera; il Nord terrebbe costantemente le mani alla gola del Sud, e alla minima pressione il Sud dovrebbe cedere o riprendere a combattere per la sopravvivenza, in circostanze in cui una sola sconfitta eliminerebbe ogni prospettiva di successo. Dalle precedenti considerazioni si deduce quanto segue: Il Potomac non è la posizione più importante del teatro d’operazione. La presa di Richmond e l’avanzata dell’armata del Potomac verso sud – difficile per via dei molti fiumiciattoli che tagliano la linea di marcia – potrebbero dare una spinta psicologica formidabile, ma da un punto di vista puramente militare non deciderebbero un bel nulla. Le sorti della campagna dipendono dall’esercito del Kentucky, che ora è nel Tennessee. Da una parte questo esercito è vicinissimo ai punti nevralgici, dall’altra occupa un territorio senza il quale la secessione non può sopravvivere. Di conseguenza questa armata dovrebbe essere rafforzata a spese di tutte le altre, sacrificando tutte le operazioni minori. I suoi prossimi punti di attacco sarebbero Chattanooga e Dalton sull’alto corso del Tennessee, i due nodi ferroviari più importanti di tutto il Sud. Dopo la loro occupazione il collegamento tra gli stati orientali e quelli occidentali del territorio seces- sionista sarebbe limitato alle linee convergenti della Georgia. Quindi si affronterebbe il problema di tagliare un’altra linea ferroviaria fra Atlanta e la Georgia, ed infine di eliminare l’ultimo collegamento tra le due regioni occupando Macon e Gordon. Altrimenti, se dovesse esser messo in atto il piano dell’anaconda, malgrado tutti i successi nei singoli scontri, e anche sul Potomac, la guerra potrebbe prolungarsi all’infinito, mentre le difficoltà finanziarie e le complicazioni diplomatiche potrebbero dare al Sud maggiore libertà di manovra. La stampa inglese e la caduta di New Orleans Die Presse, 20 maggio 1862 Londra, 16 maggio 1862 All’arrivo delle prime notizie della caduta di New Orleans, il Times, l’Herald, lo Standard, il Morning Post, il Daily Telegraph e altri inglesi “simpatizzanti” per i “negrieri” sudisti dimostrarono con argomenti strategici, tattici, filosofici, esegetici, politici, morali molto eloquenti che la notizia era una delle “voci tendenziose” che Reuter, Havas, Wolff ed i loro tirapiedi mettevano tanto spesso in circolazione. I mezzi di difesa naturali di New Orleans, si diceva, erano stati potenziati non solo con forti di nuova costruzione, ma anche con infernali congegni sottomarini di ogni genere e con cannoniere corazzate. A questo si aggiungeva il carattere spartano della gente di New Orleans e il suo odio mortale per i mercenari di Lincoln. Infine, non era davanti a New Orleans che l’Inghilterra aveva subito la sconfitta che portò ad una fine ignominiosa la sua seconda guerra contro gli Stati Uniti (dal 1812 al 1814)? Di conseguenza non vi era ragione di dubitare che New Orleans avrebbe rinnovato La Guerra di Secessione Americana l’epopea di Mosca e Saragozza. Inoltre aveva 15 mila balle di cotone con le quali era molto facile accendere un inestinguibile fuoco autodistruttore, a parte il fatto che nel 1814 le balle di cotone debitamente bagnate si erano dimostrate indistruttibili alle cannonate ancor più delle fortezze di Sebastopoli. Perciò era chiaro come il sole che la caduta di New Orleans era un parto della solita millanteria yankee. Quando due giorni dopo le prime notizie venivano confermate dalle navi che arrivavano da New York, la massa della stampa inglese filoschiavista conservava il suo scetticismo. L’Evening Standard in particolare era così sicuro nella sua incredulità che nello stesso numero pubblicò un primo articolo di fondo che dimostrava al colto ed all’inclita l’inespugnabilità della città a forma di mezza luna, mentre le sue “ultime notizie” annunziavano a tutte lettere la caduta della città inespugnabile. Il Times, comunque, che ha sempre considerato la prudenza il miglior coraggio, cambiava atteggiamento. Pur dubitando ancora della notizia, si teneva pronto ad ogni eventualità, dal momento che New Orleans era una città di “facinorosi” e non di eroi. In quell’occasione il Times aveva ragione. New Orleans è una colonia della feccia della bohème francese, una colonia di galeotti francesi nel vero senso della parola e, con il mutare dei tempi, non ha mai smentito la sua origine. Soltanto che il Times è arrivato buon ultimo, quando la cosa era di dominio pubblico. Comunque alla fine il fait accompli ha colpito persino Thomas, il più ostinato dei ciechi. Che fare? La stampa inglese filo-schiavista dimostrava ora che la caduta di New Orleans era un vantaggio per i confederati ed una sconfitta per i federali. La caduta di New Orleans permetteva al generale Lovell di rinforzare con le sue truppe l’esercito di Beauregard; Beauregard era quello che più aveva bisogno di rinforzi, in quanto si diceva che 160.000 uomini (una enor- 39 me esagerazione) fossero stati concentrati sul suo fronte da Halleck e, d’altro canto, il generale Mitchell aveva tagliato le comunicazioni di Beauregard con l’est, interrompendo i collegamenti ferroviari tra Memphis e Chattanooga, cioè la linea di Richmond, Charleston e Savannah. Quando gli fu tagliata questa via di comunicazione (cosa che abbiamo indicato come la mossa strategica necessaria molto tempo prima della battaglia di Corinth), Beauregard non aveva più alcun collegamento ferroviario con Corinth se non la linea di Mobile e New Orleans. Dopo la caduta di New Orleans si era trovato a dipendere dalla sola ferrovia che porta a Mobile, e naturalmente non poteva più procurare le vettovaglie necessarie per le sue truppe; per questo motivo ripiegò su Memphis e, secondo la stampa inglese filo-schiavista, le sue possibilità di approvvigionamento sono naturalmente aumentate con l’arrivo delle truppe di Lovell! D’altro canto, notavano gli stessi oracoli, la febbre gialla falcidierà i federalisti a New Orleans, e infine, se la città non è Mosca, il suo sindaco è un emulo di Bruto. Basta leggere (sul New York Herald) la sua epistola melodrammaticamente valorosa al commodoro Farragut: “Nobili parole, signore, belle parole!” Ma le parole, per quanto dure, non rompono le ossa. I giornali degli schiavisti del Sud tuttavia non commentano la caduta di New Orleans con lo stesso ottimismo dei loro consolatori inglesi. Questo si vede dai brani seguenti: Il Richmond Dispatch dice: Che è successo delle cannoniere corazzate, la Mississipi e la Louisiana, dalle quali ci aspettavamo la salvezza della città a mezza luna? Per l’effetto che hanno avuto sul nemico, queste navi potevano anche essere di vetro. È inutile negare che la caduta di New Orleans è per noi un grave colpo. Il governo confederato resta tagliato fuori dalla Louisiana occidentale, dal Texas, dal Missouri e dall’Arkansas. 40 MARX, Karl Il Norfolk Day Book osserva: Questa è la sconfitta più grave dall’inizio della guerra. Preannunzia privazioni e ristrettezze a tutte le classi sociali e, quel che è peggio, minaccia i rifornimenti del nostro esercito. L’Atlantic Intelligencer deplora: Ci aspettavamo una conclusione diversa. L’avvicinarsi del nemico non è stato un attacco di sorpresa; era stato previsto da tanto tempo, e ci era stato promesso che anche se fosse passato per Forte Jackson, spaventosi dispositivi di artiglieria lo avrebbero costretto a battere in ritirata oppure avrebbero provocato il suo annientamento. In tutto questo ci siamo ingannati, come è accaduto sempre quando si supponeva che le difese garantissero la sicurezza di una postazione o di una città. Ne risulta che le invenzioni moderne hanno annientato la capacità difensiva delle fortificazioni. Le cannoniere corazzate le distruggono o passano oltre, senza fare tante cerimonie. Memphis, temiamo, seguirà la stessa sorte di New Orleans. Non sarebbe follia ingannare noi stessi con la speranza? Infine il Petersburg Express: La presa di New Orleans da parte dei federali è l’avvenimento più straordinario e più decisivo di tutta la guerra. Un trattato contro il traffico degli schiavi Die Presse, 22 maggio 1862 Londra, 18 maggio 1862 Il trattato per la soppressione della tratta degli schiavi stipulato fra Stati Uniti ed Inghilterra il 7 aprile di quest’anno a Washington ci è ora comunicato in extenso dai giornali americani. I punti essenziali di questo importante documento sono i seguenti: il diritto di perquisizione è reciproco, ma potrà essere esercitato soltanto da quelle na- vi da guerra, di entrambe le parti, che avranno ricevuto una speciale autorizzazione a farlo da una delle potenze firmatarie. Periodicamente le potenze aderenti al trattato si forniranno vicendevolmente statistiche complete sulle unità delle loro flotte incaricate di sorvegliare il traffico dei negri. Il diritto di perquisizione potrà essere esercitato solo sui mercantili che si troveranno entro un raggio di 200 miglia dalla costa africana e a sud di 32 gradi di latitudine nord, e entro 30 miglia nautiche dalla costa di Cuba. La perquisizione, sia di navi inglesi da parte di incrociatori americani sia di navi americane da parte di incrociatori inglesi, non avrà luogo in quella parte di mare compresa nelle acque territoriali inglesi o americane (cioè entro 3 miglia nautiche dalla costa), né davanti ai porti o alle colonie di potenze straniere. Tribunali delle prede formati per metà da inglesi e per metà da americani e residenti della Sierra Leone, a Città del Capo e a New York, pronunzieranno le sentenze relative alle navi catturate. In caso di condanna di una nave, la ciurma sarà consegnata alle autorità della nazione di cui la nave batteva bandiera, finché questo sarà possibile senza affrontare spese esorbitanti. Non solo la ciurma (compreso il capitano, il secondo, ecc.) ma anche i proprietari della nave incorreranno nelle sanzioni penali in vigore nel paese. L’indennizzo dei proprietari dei mercantili assolti dai tribunali misti dovrà essere pagato entro un anno dalla potenza sotto la cui bandiera viaggiava la nave da guerra assalitrice. Si considera motivo legale per la cattura delle navi non solo la presenza di schiavi negri a bordo, ma anche di accorgimenti apportati nella costruzione della nave al fine di facilitare la tratta dei negri, manette, catene e altri strumenti per tenere in custodia i negri e, infine, riserve di provviste che non siano in relazione alle esigenze dell’equipaggio. Una nave sulla quale vengano trovate tali cose sospette dovrà provare la sua innocenza, e anche nel caso di assoluzione non potrà reclamare alcun indennizzo. La Guerra di Secessione Americana I comandanti degli incrociatori che abusino della autorità loro conferita dal trattato dovranno esser puniti dai rispettivi governi. Se il comandante di un incrociatore di una delle potenze firmatarie dovesse avere il sospetto che un mercantile scortato da una o più navi da guerra dell’altra potenza firmataria abbia negri a bordo, o sia implicato nella tratta di schiavi africani, o sia attrezzato per tale commercio, dovrà comunicare i suoi sospetti al comandante della scorta e perquisire in sua compagnia la nave sospetta; se rientrerà nella categoria prevista dal trattato, tale nave dovrà esser portata fino al luogo di residenza di uno dei tribunali misti. I negri trovati a bordo delle navi condannate saranno messi a disposizione del governo di cui batte bandiera la nave che avrà operato la cattura. Essi dovranno essere messi immediatamente in libertà e rimanere liberi sotto la garanzia del governo nel cui territorio si trovano. Il trattato potrà essere denunziato solo dopo dieci anni e resterà in vigore per una anno intero a partire dalla denunzia di una delle parti contraenti. La tratta dei negri ha ricevuto un colpo mortale da questo trattato anglo-americano, conseguenza della guerra civile americana. Il trattato acquisterà un’efficacia ancora maggiore con l’approvazione del disegno di legge presentato recentemente dal senatore Sumner, che revoca la legge del 1808 sul traffico dei negri sulle coste degli Stati Uniti. Tale disegno di legge paralizzerà in larga misura il commercio che gli stati che allevano negri (gli stati schiavisti di frontiera) esercitano con gli stati che si servono di mano d’opera negra (gli stati schiavisti propriamente detti). Avvenimenti nordamericani Die Presse, 12 ottobre 1862 Londra, 7 ottobre 1862 La breve incursione dei sudisti nel Maryland ha deciso le sorti della guerra civile americana, anche se per un certo periodo la fortuna delle armi potrà arridere in egual misura all’uno e all’altro contendente. Abbiamo già accennato su queste colonne che la lotta per gli stati schiavisti di confine è anche una lotta per il dominio dell’Unione. Ebbene, la Confederazione è stata sconfitta in questa lotta, che pure aveva iniziato nelle circostanze più favorevoli che le si potessero presentare. Si ritiene, e con ragione, che il Maryland sia la testa ed il Kentucky il braccio del partito schiavista negli stati di confine. La capitale del Maryland, Baltimora, sinora è rimasta fedele all’Unione esclusivamente perché era tenuta in stato d’assedio. Era fermo convincimento di tutti, nel Sud come nel Nord, che la comparsa delle truppe confederate nel Maryland avrebbe suonato la diana di una rivoluzione popolare contro “i satelliti di Lincoln”. Di conseguenza, non si trattava soltanto di riportare un successo militare, ma anche e soprattutto di dare a tutti una dimostrazione morale tale da galvanizzare gli elementi filo-sudisti in tutti gli stati di confine e da attrarli con forza irresistibile nel turbine degli eventi. L’occupazione del Maryland doveva significare la caduta di Washington e costituire una minaccia per Filadelfia ed anche per New York. L’invasione tentata contemporaneamente nel Kentucky – il più importante di tutti gli stati di confine, per la densità della popolazione, la posizione geografica e le risorse economiche – presa a sé, appare soltanto una manovra diversiva. Tuttavia, coincidendo con una vittoria decisiva nel Maryland, avrebbe potuto provocare lo stroncamento del partito unionista nel Tennessee e permettere di colpire di fianco lo stato del Missouri, assicurando il dominio dell’Arkansas e del Texas, minacciando New Orleans, e soprattutto spingendo la guerra nell’Ohio – lo stato centrale del Nord, il cui possesso assicurerebbe il controllo di tutto il Nord, così come il possesso della 41 42 1 MARX, Karl In Italiano nel testo originale. Georgia assicurerebbe il dominio del Sud. Un esercito confederato nell’Ohio avrebbe tagliato i collegamenti fra gli stati nordisti dell’Est e quelli dell’Ovest, avrebbe potuto attaccarli di volta in volta sfruttando la sua posizione centrale, e avrebbe messo in rotta il nemico. Una volta fallito l’attacco del grosso dell’esercito ribelle nel Maryland, l’invasione del Kentucky, compiuta senza il vigore necessario e senza il previsto appoggio popolare, si è ridotta ad una serie di scontri di guerriglia privi di significato. Anche la conquista di Louisville a questo punto non avrebbe altra conseguenza che quella di amalgamare ancor più i “giganti dell’Ovest” – i volontari dell’Iowa, dell’Illinois, dell’Indiana e dell’Ohio – in una valanga formidabile come quella che precipitò sul Sud all’epoca della prima, gloriosa campagna del Kentucky. L’invasione del Maryland ha dimostrato quindi che l’ondata secessionistica non aveva l’impeto necessario per dilagare oltre il Potomac e raggiungere l’Ohio. Il Sud si trova costretto alla difensiva in un momento in cui solo l’attacco poteva dargli la vittoria. Privo degli stati di confine, chiuso in una morsa fra il Mississipi ad ovest e l’Atlantico ad est, con le sue manovre il Sud non ha concluso nulla e si è scavato la fossa. Non si deve dimenticare neppure per un attimo che i sudisti sventolando lo stendardo della rivolta avevano preso immediatamente possesso degli stati di confine e li dominavano politicamente. Volevano anche i Territori: adesso oltre ai Territori hanno perso anche gli stati di confine. Eppure l’invasione del Maryland era iniziata sotto gli auspici più favorevoli per il Sud: una sequela di infamanti sconfitte del Nord. Lo scoraggiamento degli eserciti federali, il prestigio di Stonewall Jackson, l’eroe del momento, il recente rafforzamento del Partito democratico nel Nord – per cui si prospettava persino la possibilità di eleggere Jefferson Davis alla presidenza – il riconoscimento del governo schiavista da parte di Inghilterra e Francia, ben felici di proclamare la legittimità interna della Confederazione! Eppur si muove! Ma la ragione trionfa, ad ogni buon conto, nella storia universale. Il proclama di Lincoln presenta un’importanza ancora maggiore dell’invasione del Maryland. Lincoln è una figura sui generis negli annali della storia. Non ha pathos, non posa a grand’uomo, non si drappeggia nella toga della storia, non spiega la sua eloquenza in voli pindarici. Dà sempre la forma più comune ai suoi gesti più importanti. Laddove chiunque altro, battendosi per un “palmo di terra”, dichiara di “battersi per un’idea”, Lincoln anche quando si batte per un’idea si esprime soltanto in termini di “palmi di terra”. Indeciso e riluttante, canta a malincuore l’aria di bravura del suo personaggio, quasi scusandosi del fatto che le circostanze lo costringano a “fare l’eroe”. I decreti più formidabili che egli lancia contro il nemico, e che non perderanno mai la loro importanza storica, somigliano – e tale è l’intenzione del loro autore – a comuni citazioni inviate da un legale alla parte opposta, con tutti i cavilli giuridici e le intricate motivazioni dell’actio iuris. Ed è proprio questa caratteristica del recente proclama, il documento più importante della storia americana dopo la fondazione dell’unione, un documento che deroga decisamente dalla Costituzione americana: il manifesto per l’abolizione della schiavitù. Non vi è nulla di più facile che rilevare nelle azioni di Lincoln elementi contrastanti con l’estetica e apparentemente privi di logica, forme burlesche e contraddittorie: i cantori della schiavitù, Times, Saturday Review e tutti quanti non si fan certo pregare. Eppure, nella storia degli Stati Uniti come nella storia dell’umanità, Lincoln occupa un posto a fianco di Washington. In realtà, in un’epoca in cui qualsiasi bagatella sulla sponda europea dell’Atlantico assume un’aria melodrammati- La Guerra di Secessione Americana ca e strabiliante, non ci dice nulla il fatto che nel Nuovo Mondo gli avvenimenti importanti si presentino in termini così anodini? Lincoln non è figlio di una rivoluzione popolare. Il normale operato del sistema elettorale, del tutto ignaro delle grandi imprese storiche che era chiamato a compiere, ha portato al vertice dello stato proprio lui – un plebeo che si è fatto strada, da spaccapietre a rappresentante dell’Illinois, un uomo privo di acume intellettuale e di particolare grandezza di carattere, senza doti sensazionali – semplicemente un uomo di buona volontà. Eppure, il Nuovo Mondo ha conseguito così la sua più grande vittoria, dimostrando che grazie al suo alto livello di organizzazione politica e sociale persone comuni animate da buona volontà sono in grado di adempiere compiti per cui nel Vecchio Continente ci vorrebbe un eroe! Ai suoi tempi Hegel faceva notare che in realtà la commedia è superiore al pathos. Se non ha il dono del pathos dell’azione storica, Lincoln ha invece, come uomo comune figlio del popolo, il dono dello humour. In quale momento Lincoln ha promulgato il suo proclama per l’abolizione della schiavitù nei territori della Confederazione, che entrerà in vigore il 1° gennaio 1863? Proprio nel momento in cui la Confederazione decideva alla Convenzione di Richmond di intavolare “trattative di pace” come stato indipendente. Proprio nel momento in cui gli schiavisti degli stati di confine credevano che con l’incursione dei sudisti nel Kentucky la “peculiare istituzione” fosse ormai invincibile – invincibile come il loro controllo sul loro concittadino, il presidente insediato a Washington, Abramo Lincoln. La situazione del Nordamerica Die Presse, 10 novembre 1862 Londra, 4 novembre 1862 Il generale Bragg, comandante dell’esercito sudista nel Kentucky – le altre forze combattenti del Sud che lo stanno devastando sono solo bande di guerriglieri – entrando da invasore in questo stato di confine ha emanato un proclama che rivela ora con estrema chiarezza il fallimento delle più recenti iniziative della Confederazione. Il proclama di Bragg, indirizzato agli stati del Nord-Ovest, dà per scontata la sua vittoria nel Kentucky, e specula evidentemente sulla possibilità di un’avanzata vittoriosa nell’Ohio, lo stato centrale del Nord. Bragg dichiara innanzi tutto che la Confederazione è pronta a garantire la libertà di navigazione sul Mississipi e sull’Ohio. Tale garanzia avrà una ragion d’essere soltanto se e quando gli schiavisti si troveranno in possesso degli stati di confine. Perciò a Richmond si dava per certo che le incursioni simultanee di Lee nel Maryland e di Bragg nel Kentucky avrebbero assicurato d’un colpo il possesso degli stati di confine ai sudisti. Bragg passa quindi ad illustrare le giuste pretese del Sud, che combatte soltanto per la sua indipendenza, ma per il resto vuole la pace. Ed ecco il punto culminante e più significativo di tutto il proclama: l’offerta di una pace separata con gli stati del Nord-Ovest, invitandoli a staccarsi dall’Unione e ad unirsi alla Confederazione, dal momento che gli interessi economici del Nord-Ovest e del Sud sono concordi quanto quelli del Nord-Ovest e del Nord-Est sono opposti e contrari. È evidente: non appena immaginava di avere saldamente in suo possesso gli stati di confine, il Sud dichiarava ufficialmente il suo fine recondito di ricostruire l’Unione escludendo gli stati del New England. Come l’invasione del Maryland, anche quella del Kentucky è fallita miseramente; la prima è sfumata con la battaglia di Antietam Creek, la seconda con la battaglia di Perryville, nei pressi di Louisville. Anche a Perryville i confederati si sono lanciati all’offensiva, dopo aver attaccato l’avanguardia, che malgrado la schiacciante supe- 43 44 1 MARX, Karl riorità numerica del nemico ha tenuto la posizione, dando a Buell il tempo di scendere in campo con il grosso delle sue forze. Non sussiste il minimo dubbio che la sconfitta di Perryville avrà come conseguenza l’evacuazione del Kentucky. Quasi contemporaneamente la banda più numerosa di guerriglieri, costituita dai più fanatici sostenitori dello schiavismo nel Kentucky e guidata dal generale Morgan, è stata annientata a Frankfurt, tra Louisville e Lexington. Infine, la vittoria decisiva di Rosencrans a Corinth costringe l’esercito sconfitto del generale Bragg ad una precipitosa ritirata. La campagna dei confederati per riconquistare gli stati schiavisti di confine, che pure era stata intrapresa con operazioni su larga scala, con abilità militare e sotto gli auspici più favorevoli, si è risolta quindi in un completo fallimento. A parte i risultati militari immediati, questi combattimenti contribuiscono anche in un altro modo ad eliminare le maggiori difficoltà. Il dominio che gli stati schiavisti veri e propri esercitano su quelli di confine si basa naturalmente sugli elementi schiavisti di questi ultimi – gli stessi elementi che impongono considerazioni diplomatiche e costituzionali al governo dell’Unione nella sua lotta contro lo schiavismo. Negli stati di confine, il più importante teatro di operazioni della guerra civile, tali elementi in pratica vengono ridotti a zero dalla guerra civile stessa. Una massa di proprietari di schiavi migra continuamente verso Sud con il suo “Bestiame nero” per portare al sicuro la sua proprietà. Ad ogni sconfitta dei confederati questa migrazione si rinnova su più vasta scala. Un mio amico, un ufficiale tedesco che ha combattuto sotto la bandiera stellata di volta in volta nel Missouri, nell’Arkansas, nel Kentucky e nel Tennessee, mi scrive che questa migrazione ricorda proprio l’esodo dall’Irlanda nel 1847 e nel 1848. Nel frattempo, gli schiavisti più forti e risoluti, i giovani In francese nel testo. All’in- da una parte e i capi politici e militari vadenza, alla concorrenza. dall’altra, si separano dal grosso della loro classe, per costituire bande di guerriglieri nei loro stati (che vengono regolarmente distrutte), oppure per arruolarsi nell’esercito o entrare nell’amministrazione della Confederazione. Ne risulta da un lato un’enorme diminuzione dell’elemento schiavista negli stati di confine, dove esso ha sempre dovuto far fronte agli encroachments dei lavoratori liberi suoi rivali; dall’altro, l’eliminazione della parte più attiva degli schiavisti e dei loro seguaci bianchi. Dietro di loro resta soltanto uno strato di schiavisti “moderati”, che ben presto allungheranno avidamente le mani sul cumulo di denaro loro offerto da Washington per il riscatto del loro “Bestiame nero” – il cui valore andrà comunque perduto non appena il mercato del Sud sarà chiuso alla vendita degli schiavi. Così, la guerra porta essa stessa ad una soluzione, provocando una vera e propria rivoluzione nella struttura sociale degli stati di confine. Per il Sud la stagione propizia alla guerra è ormai finita; per il Nord sta cominciando ora, dal momento che i fiumi interni tornano ad essere navigabili e la guerra combinata per terra e per mare, già tentata con tanto successo, è di nuovo possibile. Il Nord si è prontamente avvantaggiato della tregua. Le “corazzate” – dieci di numero – per i fiumi dell’Ovest vengono terminate rapidamente; ad esse si debbono aggiungere venti navi semicorazzate per operazioni in acque poco profonde. Gli arsenali dell’Est hanno già varato numerose corazzate, mentre altre sono in costruzione: saranno tutte pronte per il 1° gennaio 1863. Ericsson, l’ideatore e costruttore della Monitor, sta dirigendo la costruzione di altre nove navi dello stesso modello. Quattro di esse sono già pronte a prendere il mare. Sul Potomac, nel Tennessee e in Virginia come in diversi centri del Sud – Norfolk, New Bern, Port Royal, Pensacola, New Orleans – l’esercito riceve ogni giorno nuovi rinforzi. Il primo contingente di leva di trecentomila uomini, che Lincoln aveva chia- La Guerra di Secessione Americana 45 Londra, 7 novembre 1862 mentre ostenta il più roseo ottimismo per quanto riguarda il paese dei “negri”. Si dà il caso però che gli stati schiavisti non partecipino minimamente alla “euforia di vittoria” che sembra travolgere il Times. La stampa sudista ha risposto con un coro di lamentele e di critiche alla sconfitta di Corinth, accusando “d’incapacità e presunzione” i generali Price e Van Dorn. Il Mobile Advertiser cita l’esempio del 42° reggimento dell’Alabama, che il venerdì precedente la battaglia contava cinquecentotrenta uomini, ed il sabato sera era ridotto a dieci unità: tutti gli altri uomini erano morti, feriti, prigionieri o dispersi. I giornali della Virginia suonano la stessa solfa. Scrive il Richmond Whig: “È evidente che l’obiettivo immediato della nostra campagna nel Mississipi è ormai fallito.” Gli fa eco il Richmond Enquirer: “È da temere che l’esito di questa battaglia abbia nefaste conseguenze sulla nostra campagna nell’Ovest.” Tale previsione non ha tardato ad avverarsi: la evacuazione dell’esercito di Bragg dal Kentucky e la sconfitta dei confederati presso Nashville, nel Tennessee, ne sono la riprova. La stessa fonte sudista – i giornali della Virginia, della Georgia e dell’Alabama – ci fornisce interessanti chiarimenti sul conflitto esistente fra il governo centrale di Richmond e i governi dei singoli stati schiavisti. La causa occasionale è la recente legge sulla coscrizione, con cui il Congresso prolungava il periodo di leva molto al di là dei normali limiti d’età. In Georgia un tale Levingood è stato arruolato in base a questa legge; poiché si rifiutava di raggiungere il suo reggimento, è stato arrestato da un agente della Confederazione, J. P. Bruce. Levingood si è appellato al tribunale supremo di Elbert County, in Georgia, che ha decretato la sua immediata liberazione. Nella lunga motivazione della sentenza, i giudici dichiarano tra l’altro: La stampa inglese è più sudista del Sud, dato che vede tutto nero al Nord Nel paragrafo del preambolo della Costituzione della Confederazione si ribadisce mato alle armi in luglio, è stato interamente incorporato ed è già in gran parte al fronte, mentre si sta formando il secondo contingente di trecentomila uomini da reclutare per nove mesi. In alcuni stati si è preferito sostituire l’arruolamento volontario alla coscrizione, che però non incontra gravi difficoltà in nessuno stato. L’ignoranza e l’odio hanno spinto a criticare aspramente la coscrizione, presentandola come un fatto senza precedenti nella storia degli Stati Uniti. Nulla di più falso. Durante la guerra d’indipendenza e la seconda guerra contro l’Inghilterra (1812-14), la coscrizione servì per arruolare forti contingenti di truppe, e così pure persino in occasione di varie guerricciole con gli indiani, senza incontrare mai un’opposizione degna di rilievo. È significativo notare che nell’anno in corso l’Europa ha fornito agli Stati Uniti un contingente di emigranti di circa centomila anime, e che metà di questi emigranti proviene dall’Irlanda e dalla Gran Bretagna. Al recente congresso della Association for the Advancement of Science tenuto a Cambridge, l’economista inglese Merivale si è sentito in dovere di ricordare ai suoi concittadini un fatto che il Times, il Saturday Review, il Morning Post e il Morning Herald, per non parlare degli dei minorum gentium, hanno completamente ignorato, e che forse l’Inghilterra stessa vorrebbe dimenticare: e cioè che la maggior parte della popolazione in eccesso in Inghilterra trova una nuova patria negli Stati Uniti. Sintomi di dissoluzione della Confederazione Sudista Die Presse, 14 novembre 1862 46 MARX, Karl esplicitamente che i diversi stati sono stati indipendenti e sovrani. In che senso sarà possibile sostenerlo nel caso della Georgia, se qualsiasi miliziano potrà esser sottratto di forza al controllo del comandante supremo di tale stato? Se il Congresso di Richmond emana una legge che ammette talune eccezioni alla coscrizione, che cosa gli impedisce di emanar leggi che non ammettono eccezione alcuna, in modo da vincolare la responsabilità del governatore, dell’Assemblea legislativa e del personale giudiziario, ponendo termine quindi all’autonomia di tutti gli organi governativi del singolo stato? (...) Per questi motivi essenziali noi riteniamo e ordiniamo con la presente sentenza che la legge di coscrizione del Congresso è nulla e inesistente, e non ha alcun valore legale (...). In Virginia si riscontra lo stesso contrasto fra “il singolo stato” e la “Confederazione degli stati”. Motivo del conflitto è il rifiuto del governo virginiano di riconoscere agli agenti di Jefferson Davis il diritto di reclutare i miliziani virginiani e di incorporarli nell’esercito confederato. In proposito si è scatenata una polemica tra il ministro della Guerra e il sinistro generale J. B. Floyd, che sotto la presidenza di Buchanan rivestì la carica di ministro della Guerra dell’Unione, che preparo la secessione e per giunta “alleggerì” il pubblico erario di ingenti somme, che andarono ad impinguare i suoi forzieri personali. Questo famigerato leader secessionista, soprannominato nel Nord Floyd il ladro, adesso si atteggia a paladino dei diritti della Virginia contro la Confederazione. In merito alla corrispondenza tra Floyd e il ministro della Guerra, il Richmond Examiner rileva tra l’altro: Tutta questa corrispondenza illustra adeguatamente come il nostro stato (la Virginia) ed il suo esercito siano astiosamente, tenacemente presi di mira da coloro che a Richmond abusano del potere della Confederazione. La Virginia è schiacciata sotto il peso da oneri insopportabili. Ma vi è un limite a tutto: per quanto paziente, lo stato non sopporterà ulteriormente il ripetersi di tali abusi di potere (...). La Virginia ha procurato da sola praticamente tutte le armi, le munizioni e le forniture militari che hanno permesso di conseguire la vittoria sui campi di Methel e Manassas. Ha messo a disposizione dei confederati settantatremila fucili e moschetti, duecentotrentatre pezzi di artiglieria ed un armamento formidabile, che facevano parte dei suoi arsenali, dei suoi depositi. Ha messo a disposizione della Confederazione fino all’ultimo uomo in grado di combattere; ebbene, ha dovuto ricacciare il nemico dal suo confine occidentale con i suoi propri mezzi. Non è disgustoso constatare che i responsabili del governo confederato osano farsi beffe di lei? Anche nel Texas le continue spedizioni dei suoi uomini sul fronte dell’Est hanno suscitato opposizione alla Confederazione. Il 30 settembre Oldham, il rappresentante del Texas, ha fatto sentire le sue proteste al Congresso di Richmond: Per la spedizione Wildgans di Subley, tremilacinquecento soldati scelti texani sono stati mandati incontro alla morte nelle aride pianure del Nuovo Messico – con la conseguenza di attirare il nemico verso i nostri confini, che esso si ripromette di varcare durante l’inverno. Avete dislocato le forze più valide del Texas ad est del Mississipi, le avete trascinate in Virginia, le avete utilizzate nelle zone più pericolose del fronte, dove sono state decimate. I tre quarti degli uomini di ogni reggimento texano riposano nella tomba; quei pochi che son tornati nelle loro case, sono in licenza di convalescenza. Se questo governo continuerà ad attingere fra gli uomini validi del Texas per mantenere tutti i reggimenti al loro effettivo normale, il Texas sarà rovinato, rovinato irrimediabilmente. È ingiusto e poco politico. Questi uomini devono difendere la loro famiglia, la loro patria. A loro nome, io protesto contro l’operato del governo, che invia questi uomini dall’ovest del Mississipi verso i fronti dell’est e da ovest. In base agli elementi forniti dai giornalisti sudisti possiamo trarre due conclusioni. In primo luogo, gli sforzi imposti dal governo confederato per colmare i vuoti dell’esercito e far fronte alle perdite superano i limiti della sopportazione; le risorse militari si esauriscono. In secondo luogo, ed è questo 47 La Guerra di Secessione Americana il punto determinante, la dottrina degli state rights di cui gli usurpatori si erano avvalsi per dare alla secessione una parvenza di costituzionalità, adesso minaccia di ritorcersi a loro danno. Jefferson Davis non è riuscito a “fare del Sud una nazione”, contrariamente a quanto proclama in Inghilterra il suo ammiratore Gladstone. I risultati delle elezioni negli Stati del Nord Die Presse, 23 novembre 1862 Londra, 18 novembre 1862 Le elezioni rappresentano in pratica una sconfitta del governo di Washington. I vecchi leaders del Partito democratico hanno sfruttato abilmente il malcontento dovuto alle difficoltà finanziarie e all’inesperienza militare, e non vi è dubbio che nelle mani dei vari Seymour, Wood e Bennet lo stato di New York potrà divenire il centro di pericolosi intrighi. Dobbiamo evitare però di esagerare l’importanza pratica di tale reazione. L’attuale Camera dei Rappresentanti repubblicana continua le sue sedute, ed i parlamentari neo-eletti entreranno in carica soltanto nel dicembre dell’anno prossimo. Per quanto riguarda il Congresso di Washington, le elezioni per il momento hanno un carattere puramente dimostrativo. In nessuno stato, ad eccezione di quello di New York, è stato eletto il governatore, e il Partito repubblicano rimane quindi a capo dei vari stati. I successi elettorali dei repubblicani nel Massachusetts, nell’Iowa, nel Michigan e nell’Illinois equilibrano in un certo qual modo i voti perduti a New York, in Pennsylvania, nell’Ohio e nell’Indiana. Un’analisi un minimo approfondita del progresso dei “democratici” porta a conclusioni ben diverse da quelle strombazzate dai giornali inglesi. La città di New York, gravemente corrot- ta dalla plebaglia irlandese, da qualche tempo in qua prende parte attiva alla tratta degli schiavi e costituisce il centro del mercato finanziario americano, oltre a rappresentare il creditore ipotecario di tutte le piantagioni del Sud. Da sempre è decisamente “democratica”, così come Liverpool è ancora adesso un centro conservatore. Come già avvenne dopo le elezioni del 1856, i distretti rurali dello stato di New York hanno votato anche questa volta per i repubblicani, anche se non con l’entusiasmo dimostrato nel 1860. D’altronde, gran parte degli uomini che hanno l’età per votare si trova in campagna. Se si considerano i voti dei distretti urbani e rurali, la maggioranza democratica nello stato di New York è di appena otto o diecimila voti. In Pennsylvania, stato conteso prima fra whigs e democratici, poi tra democratici e repubblicani, la maggioranza democratica si limita a tremilacinquecento voti, nell’Indiana è ancora più esigua e nell’Ohio, in cui tocca gli ottomila voti, i leaders democratici noti per le loro simpatie per il Sud – quali ad esempio l’odioso Wallandigham – hanno perduto il seggio al Congresso. L’irlandese vede nel nero un pericoloso concorrente. I contadini dell’Indiana e dell’Ohio detestano i neri quasi quanto detestano la schiavitù. I neri sono per loro il simbolo della schiavitù e della degradazione della classe lavoratrice, e la stampa democratica agita continuamente dinanzi ai loro occhi la stessa minaccia: i neri che si riversano in massa nei loro territori. A tutto questo si aggiunga ancora che gli stati che hanno fornito i contingenti più numerosi di volontari sono quelli dove è più vivo il malcontento per l’inettitudine che ha condannato al fallimento l’offensiva in Virginia. Pure, non è questo il punto essenziale. Quando Lincoln venne eletto alla presidenza, nel 1860, la guerra civile non era ancora scoppiata, e la questione dell’emancipazione dei neri non era ancora all’ordine del giorno. EsLa dottrina federalistica sendo ancora separato completamente della sovranità dei singoli dal Partito abolizionista, il Partito Re- stati dell’Unione. 1 48 MARX, Karl pubblicano nel 1860 si limitava a protestare soltanto contro l’estensione della schiavitù ai Territori, e contemporaneamente proclamava di non avere alcuna intenzione di interferire nell’istituzione della schiavitù in quegli stati dove già esisteva legalmente. Se avesse lanciato il grido di guerra dell’emancipazione degli schiavi, Lincoln sarebbe stato sicuramente sconfitto nelle elezioni del 1860, perché la maggioranza non l’avrebbe appoggiato affatto. Ben diversa è la situazione delle lezioni più recenti. I repubblicani han fatto causa comune con gli abolizionisti, e si sono dichiarati a chiare note favorevoli all’emancipazione immediata, sia come fine in sé che come mezzo per fare cessare la ribellione. Tenendo conto di tale elemento, la maggioranza governativa nel Michigan, nell’Illinois, nel Massachu- DELACROIX, Eugène, Il Massacro di Scio setts, nello Iowa e nel Delaware è non meno sorprendente dei voti numerosissimi, per quanto minoritari, riportati negli stati di New York, dello Ohio e della Pennsylvania. Un risultato simile prima della guerra era assolutamente inconcepibile, anche nel Massachusetts. È bastato che il governo e il Congresso (convocato per il mese prossimo) dessero prova di una certa energia perché gli abolizionisti, che si identificano ormai con i repubblicani, prendessero ovunque il sopravvento, dal punto di vista morale come da quello numerico. Le velleità interventiste di Luigi Bonaparte forniscono loro un valido sostegno “esterno”. L’unico pericolo rimasto è legato alla permanenza nelle alte gerarchie di generali quali McClellan, che, a prescindere dalla loro inettitudine, sono sostenitori dichiarati dello schiavismo. 49 Barbara Marte La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte Nulla c’è che nasca e non meriti di finire disfatto. (…) Così tutto quello che dite Peccato, o Distruzione, Male insomma, è il mio elemento vero. 1. La pulsione di morte Le guerre tra Stati ossia i conflitti internazionali, le guerre civili determinate da fattori religiosi o sociali, le persecuzioni di minoranze razziali dimostrano che l’aggressività umana opera in condizioni e in modi diversi. Distruzione e autodistruzione appaiono immediatamente, dunque, avere un ruolo innegabile nella vita degli uomini. Infatti come potremmo spiegare altrimenti il fatto che una minoranza che detiene il potere e che vede nella guerra la possibilità di ampliarlo o in ogni caso l’occasione per conseguire vantaggi personali riesca a strumentalizzare per i suoi scopi le masse, che da tutto ciò possono ricavare solo sofferenza, morte e distruzione? Allora che il desiderio e il piacere di distruggere e di autodistruggersi alberghi nell’animo umano è confermato dalla storia e dalla vita quotidiana, ma come giustificarlo dal punto di vista teoretico? Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire – da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso in cui Platone usa il termine “eros” nel Simposio) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità – e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva. In Al di là del principio di piacere (Jenseits des Lustprinzip, 1920), tra i suoi scritti il più pregnante sotto il profilo filosofico, viene formulata da Freud una teoria dualistica della dialettica pulsionale: accanto alle pulsioni di vita che rappresentano gli sforzi compiuti dall’eros per tenere coesa la sostanza vivente fino a costituire unità sempre più vaste, troviamo le pulsioni distruttive o di morte, che conducono ogni sostanza organica verso la decomposizione inorganica, trascinando ogni sforzo di vita verso il nulla della morte. Questo testo può essere considerato la “meta” filosofica, a cui Freud approda negli anni della piena maturità dopo una ricerca filosofica pluriventennale. In esso egli ripercorre l’intero arco delle sue esperienze intellettuali alla luce di una meditazione filosofica sul tema della morte di tutto ciò che è vivente. La portata innovatrice della sua riflessione concerne la messa in questione della validità esclusiva ed universale della legge del principio di piacere, Lustprinzip, come principio regolatore della vita psichica, al quale si contrappone, risultando irriducibile ad esso, una tendenza ancora più primordiale e profonda: si tratta della “coazione a ripetere”, Wiederholungszwang, esperienze e atti spiacevoli del passato. Le stesse peculiarità di tale coazione mettono Freud sulle tracce di quella che egli ritiene una proprietà universale delle pulsioni: la tendenza conservatrice, o meglio regressiva, che mira a ripristinare uno stato precedente, a restaurare le forme originarie dell’esistenza. Incontrovertibili rilievi clinici condotti sulle nevrosi traumatiche e sulle 1 GOETHE, Johann Wolfgang, Faust, pt. 1, scena dello Studio (I); trad. it. Franco Fortini, Milano, Mondadori, 1970. 2 FREUD, Sigmund, Opere, 1930-1938 volume 11, Perché la guerra? (1932), Torino, Boringhieri, 1979, p. 298. 50 1 Il gioco del rocchetto viene descritto e interpretato da Freud in alcune pagine di Al di là del principio di piacere, Torino, Boringhieri, 1990, pp. 27-32. 2 FREUD, Sigmund, Al di là del principio di piacere, op. cit., p. 63 MARTE, Barbara nevrosi di traslazione testimoniano l’esistenza di tale coazione a ripetere, afferma Freud. Essa si evidenzia anche nel giuoco infantile, di cui ricordiamo il celebre esempio, riportato in Al di là del principio di piacere, del gioco del fort-da condotto dal nipotino di Freud. Chiaramente anche i sogni presenti nelle nevrosi traumatiche hanno come fondamento tale coazione a ripetere. Essa è peraltro riscontrabile nella stereotipia dei comportamenti biologici più elementari di tutti gli esseri viventi. Nella nevrosi ossessiva, Zwangsneurose, si può vedere chiaramente che la coazione a ripetere non fa altro che rimettere in essere esperienze passate sotto altre forme, che costituiscono i sintomi. Tali esperienze, nella maggior parte dei casi escludono qualsiasi possibilità di piacere, né possono aver procurato alcun soddisfacimento di moti pulsionali che sono stati rimossi da quel momento in poi. Anche nella traslazione i nevrotici ripetono queste esperienze negative e i loro dolorosi stati affettivi; inoltre può succedere che le loro relazioni umane si concludano ripetutamente con una delusione. La coazione del nevrotico a ripetere ostinatamente, tramite i suoi sintomi e le esperienze affettive, gli eventi dell’infanzia (che gli hanno recato dolore o lo hanno portato ad un mancato soddisfacimento), non tiene in alcun conto il principio di piacere. Questo “eterno ritorno dell’uguale” ci rivela che nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere, che si afferma anche contro il principio di piacere. Ora l’interrogativo che con Freud ci poniamo è quale sia la connessione esistente tra la pulsionalità e la coazione a ripetere. Freud ipotizza che sia insita nell’organismo vivente una pulsione avente come proprietà quella di ripristinare uno stato precedente, al quale l’organismo ha rinunciato sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno, si tratta cioè di una manifestazione dell’inerzia propria dell’organismo vivente. Quindi egli suppone che tutte le pulsioni organiche siano conservatrici e che tendano alla regressione, alla restaurazione di una stato di cose precedente e che i fenomeni dello sviluppo organico dovranno essere ascritti all’influenza perturbatrice e deviante delle circostanze esterne. Freud ne inferisce che l’organismo elementare non avrebbe cambiato il suo stato iniziale, se non fossero intervenuti fattori esterni. Egli afferma: Se possiamo considerare come un fatto sperimentale assolutamente certo e senza eccezioni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di tutto ciò che è vivo è la morte, e, considerando le cose a ritroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi. In Al di là del principio di piacere Freud conclude la sua riflessione filosofica asserendo che si può attribuire un carattere conservatore cioè regressivo, quindi tale da corrispondere a una coazione a ripetere, solo alle “pulsioni dell’Io”, le quali traggono origine dal farsi vivente della materia inanimata, e il loro scopo è quello di ripristinare lo stato privo di vita. Ritiene invece che le pulsioni sessuali, pur ripetendo stati primitivi dell’organismo, hanno come obiettivo quello di fondere insieme due cellule germinative; soltanto a tale condizione la funzione sessuale può dare alla vita una parvenza di immortalità. Ma se tale unione non viene realizzata, la cellula germinativa muore come tutti gli altri elementi dell’organismo pluricellulare. Ora di tutte le parti della teoria analitica, la dottrina delle pulsioni è quella che è stata sviluppata con più fatica da Freud. Nel 1915, nello scritto Pulsioni e loro destini, Triebe und Triebschicksale, egli compie per la prima volta una trattazione sistematica delle conoscenze a cui era giunto riguardo la natura delle pulsioni e il loro modo di operare e di trasformarsi nel corso della vita. Freud suddivide le pulsioni, che rappresentano “un concetto limite tra La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte lo psichico e il somatico”, in due gruppi fondamentali: quello delle pulsioni dell’Io o di autoconservazione, Ichtriebe o Selbsterhaltungstriebe, e quello delle pulsioni sessuali, Sexualtriebe. Freud, grazie all’analisi clinica constata i diversi destini in cui possono incorrere le pulsioni, in particolare, sottolineamo al fine della nostra trattazione, come una pulsione può trasformarsi nel suo contrario dal punto di vista del “contenuto”, ossia come l’amore può convertirsi in odio. Freud si convincerà poi che amore e odio non derivano da un’originaria unità e che anzi l’odio precorre psicologicamente l’amore. D’altro canto già nell’accurata disamina della coppia pulsionale antitetica sadismo– masochismo, che troviamo in Pulsioni e loro destini, Freud è costretto ad ammettere che all’interno di quelle che vengono dette pulsioni libidiche o sessuali o oggettuali la pulsione sadica si distingue per la sua meta tutt’altro che amorosa e presenta invece molti lati in comune con le pulsioni dell’Io. In un primo tempo Freud era dunque propenso a considerare primario il sadismo, successivamente però, dopo avere elaborato, in Al di là del principio di piacere, la dottrina della pulsio- MARC, Franz, Forme in Lotta 51 ne di morte, considerò primario il masochismo. In Pulsioni e loro destini troviamo infatti latente la dialettica pulsionale che verrà sviluppata a partire da Al di là del principio di piacere, dove infatti Freud dichiara: La nostra concezione è stata dualistica fin dall’inizio, e oggi – da che i termini opposti non sono più chiamati pulsioni dell’Io e pulsioni sessuali, ma pulsioni di vita e pulsioni di morte – lo è più decisamente che mai. Le pulsioni di morte, Todestriebe, designano una categoria fondamentale delle pulsioni che si oppongono alle pulsioni di vita, Lebenstriebe, e tendono alla riduzione completa delle tensioni, cioè a ricondurre l’essere vivente allo stato inorganico. Esse possono essere rivolte verso l’interno e tendere di conseguenza all’autodistruzione, Selbstdestruktion, oppure verso l’esterno, manifestandosi allora sotto forma di pulsione di aggressione o di distruzione, Aggressionstrieb o Destruktionstrieb. Nonostante le forti resistenze incontrate in ambito scientifico, Freud era convinto che soltanto la cooperazione e il contrasto tra §D@H e 2V<"J@H potessero consentire di spiegare i 1 FREUD, Sigmund, Al di là del principio di piacere, op. cit., p. 85. 52 MARTE, Barbara molteplici e variegati fenomeni della vita. Certo Freud stesso ammette che la pulsione di vita si palesa in modo molto più chiaro della pulsione di morte. Quest’ultima, asservita alla prima, induce l’essere vivente a distruggere qualcosa che sia posto all’esterno invece di se stesso. Al contrario la limitazione di tale aggressività verso l’esterno porta ad una introflessione della pulsione di morte, che acquista appunto un carattere autodistruttivo. Sembra quindi che le due specie di pulsioni raramente appaiano isolate, ma che spesso agiscano congiuntamente, rendendosi così difficilmente riconoscibili. Il sadismo sembrerebbe essere il prodotto dell’unione della brama amorosa con la pulsione distruttiva, mentre il masochismo sembrerebbe il risultato dell’unione della distruttività rivolta all’interno con la sessualità. Tali leghe pulsionali impedirono a lungo a Freud di focalizzare l’attenzione sulla presenza della pulsione aggressiva e distruttiva non erotica e di riconoscerle il ruolo che ha nella vita dell’uomo. Nel sadismo, la pulsione di morte piega al suo significato la meta erotica da una parte e dall’altra soddisfa completamente il desiderio sessuale. Anche laddove compare indipendentemente dalla meta erotica non si può negare che al soddisfacimento della pulsione di morte si riallacci un godimento narcisistico elevatissimo, poiché l’Io sente che viene appagato in un suo antico desiderio di onnipotenza. La tendenza aggressiva è allora nell’uomo una disposizione pulsionale 1 FREUD, Sigmund, Die endliche und die unendliche Analyse, 1937, in LAPLANCHE e PONTALIS, Enciclopedia della psicoanalisi, Bari, Editori Laterza, 2000, pp. 487-488. BECKMANN, Max, La Notte (particolare) originaria e indipendente, che costituisce un grave ostacolo per la civiltà. Quest’ultima vuole che il genere umano trovi l’unità: l’§D@H infatti raccoglie prima singoli individui, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni. La necessità, i vantaggi del lavoro in comune non bastano a tenerli insieme, è necessaria l’azione della libido. A questo scopo della civiltà si oppone la pulsione aggressiva dell’uomo. Tale pulsione di aggressività o di distruzione costituisce la massima rappresentante della pulsione di morte. Dunque la lotta tra §D@H e 2V<"J@H costituisce l’esistenza, pulsione di vita e pulsione di distruzione si contendono il dominio del mondo. Sebbene Freud sostenga fino alla fine della sua opera la pulsione di morte, essa rimane per lui da un lato il prodotto di un’esigenza speculativa fondamentale e dall’altro gli sembra ricavabile da fatti precisi e irriducibili che hanno un ruolo crescente nell’esperienza clinica e nella cura: Considerando il quadro d’insieme nel quale convergono le manifestazioni derivanti dall’immanente masochismo di tanta gente, dalla reazione terapeutica negativa, e dal senso di colpa dei nevrotici, non si potrà più continuare a dar credito alla tesi che gli eventi psichici siano dominati esclusivamente dalla spinta al piacere. Questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e che consideriamo derivata dall’originaria pulsione di morte insita nella materia vivente. La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte Viceversa Melanie Klein sostiene con forza il dualismo costituito dalle pulsioni di morte e dalle pulsioni di vita, attribuendo un ruolo fondamentale alle pulsioni di morte già all’origine dell’esistenza umana, non solo in quanto dirette verso l’oggetto esterno, ma anche in quanto operano nell’organismo e suscitano l’angoscia di essere disintegrati e annientati. I due tipi di pulsione sono per la Klein antagonisti rispetto allo scopo, ma riguardo il loro funzionamento non vi è una differenza fondamentale. Freud estende l’analogia di queste due pulsioni fondamentali al di là del campo del vivente fino a raggiungere la sfera inorganica dominata dalla coppia di opposti attrazione-repulsione e attribuisce pertanto un carattere universale alle pulsioni, come si può vedere dal riferimento che egli fa a concezioni filosofiche come quelle di Empedocle e di Schopenhauer. Freud si rallegra di aver trovato conferma alla sua teoria nel pensiero di Empedocle di Agrigento, secondo il quale due sono i principi che governano la vita dell’universo e sono in continua lotta tra loro: n48 ι′α (amore, amicizia) e <,Ã6@H (discordia, odio). Questi due principi sono sia per il nome sia per la funzione che assolvono la stessa cosa delle due pulsioni originarie, pulsione di vita e pulsione di morte, §D@H e 2V<"J@H. Le due dottrine sono simili tranne che per il fatto che quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, mentre quella freudiana aspira ad uno statuto scientifico. Freud giunge a supporre che durante il corso dell’evoluzione, che ha condotto dall’uomo primitivo all’uomo civile, abbia avuto luogo una notevole interiorizzazione dell’aggressività; per cui i conflitti interni degli uomini costituirebbero l’equivalente delle lotte esterne che, col tempo, si sono andate attenuando. 2. 53 “L’eresia freudiana di aver fatto derivare la morale dall’istinto di morte” Nello scritto Il disagio della civiltà (1929) Freud si chiede quali strumenti usi la civiltà per frenare la pulsione di aggressione (Aggressionstrieb) dell’individuo, la risposta è che ad essa si oppone un’istanza morale. Una delle più profonde intuizioni di Freud fu, come egli stesso la definisce, “l’eresia di aver fatto derivare la morale dall’istinto di morte”. L’aggressività viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata là donde è venuta, ossia è volta contro il proprio Io. Qui viene assunta da una parte dell’Io, che si contrappone come Superio al rimanente, e ora come “coscienza” è pronto a dimostrare contro l’Io la stessa inesorabile aggressività che l’Io avrebbe volentieri soddisfatto contro altri individui estranei. Chiamiamo coscienza della propria colpa la tensione tra il rigido Super-io e l’Io ad esso soggetto; essa si manifesta come bisogno di punizione. È importante a questo punto chiedersi quale sia la dinamica psichica che dà origine al senso di colpa, che cosa lo determina. L’esperienza clinica mostra che non solo si sente colpevole chi ha fatto qualcosa che riconosce come un “male”, ma anche chi non ha commesso questo male, chi a livello cosciente o inconscio abbia nutrito solo l’intenzione di commetterlo. Posta la capacità di discernere tra ciò che è bene e ciò che è male fare, l’uomo considera o può considerare l’intenzione di compiere il male simile alla sua attuazione. Premettendo che spesso il male non è affatto ciò che danneggia o mette in pericolo l’Io, ma al contrario può coincidere con ciò che l’Io vuole, desidera e da cui trae gratificazione, godimento, dobbiamo chiederci se l’uomo possegga una naturale capacità di discernere tra bene e male. Naturalmente Freud e noi con lui escludiamo questa possibilità. Qui l’uomo evidente- 1 Qui Freud usa il termine Gewissen, che indica la “coscienza morale”; mentre usa il termine Bewußtsein per indicare la coscienza nell’accezione di “consapevolezza”. 2 FREUD, Sigmund, Opere. Il disagio della civiltà (1929), volume 10, Torino, Boringhieri, 1979, p. 610. 54 mente si subordina ad un motivo estraneo, in base a cui qualcosa è definito “essere bene” o “essere male”, che Freud indica come paura di perdere l’amore. Perdere l’amore degli altri, da cui dipende, può significare per l’uomo essere privato della protezione contro pericoli esterni ed esporsi al pericolo di una punizione. Di conseguenza ha poco rilievo il fatto di avere compiuto o avere soltanto intenzione di compiere il male: il pericolo è costituito soltanto dal fatto che l’autorità possa scoprirlo, perché in entrambi i casi essa si comporterebbe nello stesso modo. Se ne inferisce che “il male è originariamente tutto ciò a causa di cui si è minacciati della perdita d’amore” e che perciò bisogna evitarlo. Nei bambini piccoli e anche in molte persone adulte, per le quali al posto del padre o dei genitori vige la autorità della più vasta comunità, il senso di colpa è chiaramente soltanto ciò che abbiamo detto sopra cioè “angoscia sociale”. In realtà possiamo parlare di “coscienza morale” e di “senso di colpa” solo quando l’autorità esterna viene interiorizzata attraverso l’erigersi del Super-io. In questo stadio dovrebbe venir meno totalmente la paura di essere scoperti e la differenza tra intenzione e attuazione, perché nulla può essere occultato al Super-io. Tale autorità tormenta l’Io, al quale pure appartiene intimamente, facendogli provare le medesime paure che potrebbe suscitare un’autorità posta fuori di esso e cogliendo ogni occasione per farlo punire dal mondo esterno. Anzi si può osservare che tanto maggiore è il rigore di questa istanza morale, quanto più l’uomo è virtuoso. In conclusione l’origine del senso di colpa può essere duplice: il timore che suscita l’autorità, il successivo timore che suscita il Super-io. Entrambe obbligano l’individuo a rinunciare al soddisfacimento libidico, ma il secondo, al quale peraltro è impossibile nascondere EURIPIDE, Medea, Ippoli- i desideri proibiti, che pur non essendo to, Milano, Oscar Mondado- soddisfatti continuano a persistere, si ri, 1990, v. 317. adopera anche per la punizione. 1 MARTE, Barbara Ora se rispetto all’autorità esterna la rinuncia pulsionale dovrebbe bastare a evitare il rischio della perdita d’amore, come pure il senso di colpa, con l’istanza interna le cose procedono in modo assai più complicato. La rinuncia pulsionale non è affatto sufficiente, perché il desiderio rimane e non si lascia occultare di fronte al Super-io. Pertanto sopraggiunge ugualmente il senso di colpa. La scansione temporale consta di due momenti: il primo consiste nella rinuncia pulsionale per timore dell’aggressione da parte dell’autorità esterna (la perdita d’amore comporterebbe l’aggressione come punizione), “angoscia sociale”; il secondo momento consiste nella rinuncia pulsionale per il timore dell’autorità interna, “angoscia morale”. In quest’ultimo caso tanto l’azione cattiva quanto l’intenzione cattiva determinano il senso di colpa e quindi il bisogno di essere puniti cioè di ricevere un’aggressione da parte dell’istanza interna. L’intenzione e l’attuazione del male si equivalgono, come già i tragici antichi sapevano. Infatti nell’Ippolito di Euripide Fedra così si esprime riferendosi alla sua “insana” passione per il figliastro Ippolito: Le mani son pure, ma l’anima è contaminata. Fedra innamorata di Ippolito, una sorta di santo orfico, resiste alla sua passione adulterina e quasi incestuosa; pur essendo ella consapevole che le sue mani sono pure di sangue, dichiara che “la sua mente (nDZ<) è contaminata da una colpa (:ι′ασ:")”. L’aggressione del Super-io non fa che perpetuare l’aggressione dell’autorità. Ora il punto è che all’inizio la coscienza morale (Gewissen) o più precisamente l’angoscia che poi diventa coscienza costituisce la causa e la rinuncia pulsionale l’effetto, successivamente il rapporto causa-effetto diviene inverso. Infatti ogni rinuncia pulsionale accresce la severità e l’intolleranza del Gewissen, insomma diviene La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte SEVERINO, Gino, Guerra (particolare) essa stessa una fonte dinamica della coscienza. La prima aggressività si sviluppa nell’individuo quando, ancora bambino, deve rinunciare a importanti soddisfacimenti; da qui una notevole dose di aggressività contro l’autorità che ha impedito tali soddisfacimenti. La necessità induce il bambino a rinunciare alla soddisfazione dei suoi desideri di vendetta contro l’autorità stessa. Dovendo risolvere problemi di natura economica (ökonomisch), il bambino s’identifica con l’autorità paterna, che interiorizzata viene a costituire il Super-io e s’impossessa di tutta l’aggressività che il bambino vorrebbe in realtà dirigergli contro. L’aggressività si trasforma in senso di colpa (Schuldgefühl), quando viene repressa e trasferita al Super-io. Infatti se una tendenza pulsionale è oggetto di rimozione, le sue parti libidiche assumono la forma di sintomi, le sue componenti aggressive quella di senso di colpa. Se osserviamo il quadro clinico del nevrotico ossessivo possiamo chiaramente seguire tale sviluppo. La lotta tra pulsione di vita e pulsione di morte contraddistingue tanto lo sviluppo dell’individuo, quanto l’incivilimento dell’umanità. Secondo Freud si tratta di processi assai simili o forse si tratta dello stesso processo applicato a oggetti diversi: le mete sono simili, nel primo caso l’inserimento di un individuo in una massa umana; nel secondo la creazione di un’unità di massa partendo da una molteplicità di individui, per cui i mezzi impiegati ri- sultano simili, come pure la somiglianza dei fenomeni. Nel corso dello sviluppo individuale troviamo un conflitto tra la tendenza egoistica dell’uomo alla felicità e quella altruistica che vuole l’unione con i membri della comunità. Lo stesso possiamo affermare per quanto concerne il processo d’incivilimento, in cui la meta più importante è realizzare un’unità degli individui e la felicità rimane relegata sullo sfondo. Si può affermare che pure la comunità umana sviluppi un Super-io, sotto la cui azione si attua la comunità civile. Se ne inferisce che anche in questo ambito sarà difficile padroneggiare i turbamenti della vita collettiva, che vengono provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli individui. 3. Il richiamo alla responsabilità morale individuale Posta come premessa che l’aggressività individuale si distingue da quella che ha come spazio privilegiato la guerra, in quanto la finalità soggettiva è diversa, sottolineamo che la guerra consiste in una lotta armata e organizzata, avente un carattere etico-giuridico cogente per tutti gli individui del gruppo. A tal proposito è importante ricordare che l’eresia freudiana di far derivare la morale dall’istinto di morte, quindi di collegare il <`:@H col 2V<"J@H, ci induce a ricondurre alla stessa fonte sia la guerra che le leggi morali che dovrebbero impedirla. 55 56 MARTE, Barbara La psicoanalisi permette di escludere che le cause della guerra siano da rintracciare in quell’insieme di razionalizzazioni giuridiche che in ogni epoca mirano a elaborare teorie che legalizzano la guerra, ossia legittimano gli individui a compiere ciò che in tempi di pace è loro vietato. Pertanto nella storia del diritto internazionale troviamo motivazioni della guerra di ordine teologico e successivamente di ordine politico legate ora all’apoteosi della sovranità, ora al diritto di conquista, ora al principio dinastico/oligarchico/ democratico, infine all’ipostatizzazione della nazione e della razza. Ricordiamo a questo proposito la posizione hegeliana, secondo la quale lo Stato attraverso la guerra giunge “alla più alta coscienza di se stesso”. Dunque lo Stato proibisce all’individuo di compiere atti iniqui non perché intenda davvero eliminarli, ma perché vuole averne il monopolio. In altri termini possiamo dire che lo Stato intende capitalizzare l’istinto di morte degli individui allo scopo di far prosperare la sua industria della morte che è la guerra. Nel suo scritto L’uomo è antiquato (1956) Günther Anders a proposito della guerra atomica parla di alienazione, alienazione della violenza privata dei cittadini nello Stato. Mettiamo l’accento sul fatto che tale alienazione è pure alienazione morale, che consente allo Stato sovrano di porre contro di noi i nostri stessi risparmi di violenza inflazionati appunto dallo Stato, che diviene l’industriale della violenza privata risparmiata dai cittadini. Quindi ripetiamo ciò che Anders afferma a proposito della bomba atomica: 1 ANDERS, Günther, L‘uomo è antiquato, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 266. 2 SCHILLER, Friedrich, citato in FREUD, Sigmund, Opere. Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), volume 9, Torino, Boringhieri, 1977, p. 267. Non soltanto gli eventuali assassini sono colpevoli, ma anche noi, gli eventuali morituri. Lo Stato si trova al di fuori delle leggi e conseguentemente al di fuori della responsabilità morale, in quanto la sua sovranità è legibus soluta potestas. Sarebbe pertanto più costruttivo incentrare il nostro discorso sulla responsa- bilità morale individuale e porre l’accento sul fatto che attribuire la responsabilità della guerra ai soli governanti è una posizione ipocrita o quanto meno ottimistica. La psicoanalisi ha il privilegio di poter osservare l’influenza che l’inconscio esercita sulle modalità individuali di elaborazione delle esperienze politiche, sociali, e le modalità in cui gli uomini fantasticano la guerra. Col fenomeno guerra la strutturazione delle tre istanze, Io, Es e Superio, muta: Es e Super-io coincidono, ci troviamo cioè dinanzi ad un rovesciamento delle leggi morali. Parallelo ad esso è il rovesciamento delle leggi economiche (data l’enorme mole di distruzione di beni). Cerchiamo ora di enucleare gli aspetti psicologici fondamentali dell’individuo in guerra: la crisi dell’istinto di conservazione; l’idealizzazione della necessità del sacrificio; l’idealizzazione del capo. Come afferma Franco Fornari in Psicoanalisi della guerra (1966) tutti questi fenomeni possono realizzarsi in virtù del fatto che gl’individui formano un gruppo che s’identifica con un oggetto d’amore comune. Freud sostiene che il gruppo si scioglie quando l’oggetto d’amore e d’identificazione comune viene perduto, quindi la vita del gruppo è impensabile senza un oggetto d’amore, in quanto oggetto d’identificazione comune. A questo punto dobbiamo, in primo luogo, chiederci che cos’è un gruppo ossia più precisamente da dove gli viene il potere di esercitare la propria influenza sull’individuo e in che cosa consistono le modificazioni psichiche che esso impone all’individuo? Freud ci ricorda un distico di Schiller: Ognuno, veduto da solo, è passabilmente perspicace e assennato; Ma, una volta in corpore, eccotelo trasformato di colpo in un somaro. Vale a dire che il gruppo si distingue per due caratteristiche fondamentali: l’esaltazione dell’affettività e l’abbassamento del livello intellettuale degli indi- La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte vidui che lo compongono. Esse trovano origine nella libido cioè nell’energia dell’insieme delle tendenze che vengono riportate sotto il termine amore. In Psicologia delle masse e analisi dell’Io (Massenpsychologie und IchAnalyse, 1921) Freud analizza due gruppi aventi un grado di organizzazione molto elevato: la chiesa e l’esercito. A questo proposito vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che presso i romani vi erano riti specifici riguardanti la sacralizzazione del soldato e la sua desacralizzazione quando abbandonava l’esercito; tale condizione costituisce ancora oggi una rilevante affinità tra i membri dell’esercito e i membri della chiesa. Entrambi questi gruppi si raccolgono intorno ad un capo, il Cristo nella chiesa cattolica, il comandante in capo nell’esercito. Naturalmente il capo sta in entrambi i gruppi per il padre, che amerebbe allo stesso modo i membri del gruppo; il rapporto che lega il gruppo al padre lega pure gl’individui che compongono il gruppo. In altri termini la libido lega i membri del gruppo al capo e tra loro. I legami libidici spiegano la mancanza d’indipendenza e d’iniziativa degli individui all’interno del gruppo, l’identità delle loro reazioni, insomma quel che Freud definisce “l’abbassamento del singolo – per così dire – a individuo massificato.” Egli sostiene: È chiaro che i contributi che abbiamo potuto fornire alla spiegazione della struttura libidica di una massa si riallacciano alla distinzione tra l’Io e l’ideale dell’Io e al duplice tipo di legame reso in tal modo 57 possibile (identificazione e collocazione dell’oggetto al posto dell’Io). Allora tornando ai nostri esempi osserveremo che per quanto concerne l’esercito il capo si pone per i soldati come l’ideale, mentre il legame tra gli individui è costituito dall’identificazione. Stessa cosa dicasi per quanto riguarda i cristiani: il Cristo rappresenta l’ideale ed il legame reciproco è dato dall’identificazione. Sappiamo che la virtù principale del soldato consiste nella sua assoluta dipendenza dal capo, cosa che presuppone l’idealizzaione del capo. Lo spirito di sacrificio a sua volta ha una relazione con uno scopo ideologico, nel quale alienarsi, donde la guerra come dispensatrice del martirio. Un altro fenomeno che possiamo osservare nell’ambito dell’azione bellica è a sua volta collegato a quest’ultimo: il comportamento fanatico, laddove la guerra stessa può assurgere a valore fine a se stesso, perché ciò che conta è la prospettiva di partecipare all’azione bellica, in quanto attraverso essa si può dare e ricevere il martirio. Durante il processo, che ebbe luogo a Gerusalemme nel 1961, così si espresse O. A. Eichmann a proposito dell’8 maggio 1945, data ufficiale della sconfitta della Germania: “Sentivo che la vita mi sarebbe stata difficile, senza un capo; non avrei più ricevuto direttive da nessuno, non mi sarebbero più stati trasmessi ordini e comandi, non avrei più potuto consultare regolamenti – in breve mi aspettava una vita che non avevo mai provato.” 1 FREUD, Sigmund, Opere. Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), op. cit., p. 317. CARRÀ, Carlo, I Funerali dell’Anarchico Galli (particolare) 2 ARENDT, Hannah, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 40. 58 MARTE, Barbara Del resto Eichmann già prima di entrare a far parte del partito e delle SS aveva mostrato di avere la mentalità del gregario. Da ragazzo per iniziativa dei genitori era entrato nell’Associazione dei giovani cristiani; successivamente aveva fatto parte dei Wandervogeln, il Movimento giovanile tedesco. Durante gli anni delle scuole superiori era stato membro dello Jungfrontkämpfverband, la sezione giovanile, violentemente filotedesca e antirepubblicana, di un’organizzazione di veterani di guerra. Stava per aderire ad una società completamente diversa, la Loggia massonica Schlaraffia (da Schlaraffenland, paese della cuccagna), quando Ernst Kaltenbrunner (poi divenuto capo del Reichssicherheitshauptamt) gli propose di entrare nelle SS. Essendo indeciso tra le due organizzazioni fu poi la stessa Schlaraffia a sottrarlo all’indecisione per “un motivo che lo faceva ancora arrossire nella prigione d’Israele”: “Contrariamente ai principi a cui ero stato educato da ragazzo, avevo osato invitare i miei compagni a bere un bicchiere di vino.” Eichmann, condotto dinanzi al tribunale distrettuale di Gerusalemme l’11 aprile 1961, “doveva rispondere di quindici imputazioni, avendo commesso, ‘in concorso con altri’, crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista”. E Richiesto su ciascun punto se si considerasse colpevole, Eichmann rispose: “Non colpevole nel senso dell’atto d’accusa.” 1 2 ARENDT, Hannah, La banalità del male, op. cit., p. 40. ARENDT, Hannah, La banalità del male, op. cit., p. 29. Grunberger ha messo in rilievo come, durante il processo, Eichmann ascoltasse tutte le accuse indirizzate a lui quasi fossero affermazioni prive di senso, mentre paradossalmente arrossì e sembrò trovarsi in una condizione di grave disagio, quando gli si fece notare che non osservava una banalissima regola di buona educazione: non si alzava in piedi quando parlava con il presidente. Quanto abbiamo detto su Eichmann mette in luce che la sua responsabilità morale individuale, rispetto ai crimini di cui era stato accusato, appare chiaramente alienata nello Stato, infatti le norme morali non sembrano essere a lui sconosciute; la stessa Arendt in Banalità del male, riporta il giudizio di una mezza dozzina di psichiatri, che lo avevano osservato e che tra le altre cose avevano detto di lui, che “tutto il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, verso la madre, il padre, i fratelli, le sorelle e gli amici era “non solo normale, ma ideale.” 4. Il primato dell’episteme nel seno dell’etica Freud ha responsabilizzato gli uomini dei loro lapsus, dei loro sogni, delle loro nevrosi, persino della loro morte; ha fatto sì che l’uomo non potesse più ignorare lo straniero che ha dentro di sé, l’inconscio. Ciò pone l’uomo nella condizione di dover riconoscere la sua intenzionalità distruttiva e quindi la sua responsabilità morale rispetto alla guerra. In tal modo la psicoanalisi ha aperto all’etica umana un territorio che gli uomini ignoravano completamente: essa può costituire il punto di partenza di una ricerca che indaghi le modalità e le cause di alienazione morale dell’individuo nello Stato, attraverso la conoscenza del proprio inconscio. Lo scopo della psicoanalisi deve essere cioè quello di instaurare nell’etica il primato dell’¦B4FJZ:0, secondo il modello socratico-platonico, in base al quale è meglio compiere il male sapendo di farlo, anziché non commettere il male senza sapere di farlo, perché se uno non sa di commettere il male non potrà mai evitare di farlo. Lungo questa direzione potremmo seguire il cammino percorso dall’etica greca. Nella piccola colonia di Olbia sul Mar Nero sono state trovate tre tavolette d’osso di ambiente orfico, pubblicate nel 1978. Esse mostrano l’altro La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte aspetto della morale greca, spesso in contrasto con la cultura della B`84H. Una di queste tavolette reca questo scritto: PACE GUERRA (,ÆDZ<0 / B`8,:@H) VERITÀ MENZOGNA (•8Z2,4"/ R,Ø*@H) DION(ISO) (West 2) Vediamo che la tavoletta contiene due colonne, una delle polarità positive, l’altra delle polarità negative. Dioniso è posto sotto le polarità positive, pertanto come conferma pure un verso delle Baccanti di Euripide (419), egli è il dio che ama la pace, che quindi si oppone alla violenza bellica che connota l’universo della B`84H. Sappiamo pure che il movimento orfico si colloca sotto l’insegna di Dioniso. Sin dalla metà del VI secolo appare ben documentata la presenza in Grecia di un movimento che si richiama al culto di Dioniso e all’insegnamento di Orfeo. Se da una parte il rito dionisiaco culmina nell’uccisione dell’animale selvatico, le cui carni vengono dilaniate con le mani e divorate crude; dall’altra presso gli orfici e i pitagorici, che si pongono sotto l’egida di Apollo purificatore (6"2"DJZH), troviamo il rifiuto di uccidere e la pratica del vegetarianismo. Quindi sembra esservi una sorta di dicotomia tra l’estasi dionisiaca e la pratica di vita rigorosamente ascetica GROSZ, George, Funerale (particolare) vigente tra orfici e pitagorici. Malgrado queste ed altre differenze, restano delle affinità fondamentali tra questi movimenti, che ci vengono segnalate da Erodoto. In primo luogo il carattere unitario di queste esperienze religiose è dato dal fatto che esse non tendono a rassicurare l’individuo, ma a trasformarne in modo radicale l’esistenza anche nella sua dimensione collettiva. Altro tratto comune è la loro capacità di creare comunità, forme di aggregazione, liberamente scelte, quindi autonome e tangenziali rispetto agli ordini sociali – l’ §2<@H, la famiglia, la città – tradizionali. Questi movimenti religiosi si oppongono in primo luogo al sistema del tempo e della corporeità, in secondo luogo alla B`84H e alla religione che la B`84H ha integrato, ufficializzandola, ma più in generale all’intera impostazione politica, con i suoi valori violenti. Nelle Baccanti di Euripide Dioniso si presenta come divinità radicalmente eversiva: egli evoca tutti i gruppi sociali marginalizzati o esclusi dalla città, cioè solleva l’esercito menadico delle donne, proclama l’uguaglianza del ricco e del povero, del greco e del barbaro. In questo scompiglio delle gerarchie Dioniso è seguito dall’orfismo. 59 60 MARTE, Barbara I pitagorici si oppongono alla proprietà privata legata all’@É6@H familiare. Dunque il delirio delle orge dionisiache come pure l’ascetismo orficopitagorico si contrappongono all’ordine istituzionale della città. Tale posizione di rottura è visibile già nel movimento dionisiaco, ma svolge un ruolo centrale presso gli orfici e i pitagorici assumendo la forma specifica del rifiuto della violenza, che la città ha incorporato nel sistema della propria razionalità politica, in altri termini il rifiuto di quel B`8,:@H, cui viene contrapposto Dioniso, “l’amico della pace”. In particolare essi rifiutano il n`<@H, l’uccisione. Le leggi della città sono contaminate, contengono un :ι′ασ:", in quanto legalizzano e sacralizzano l’assassinio; contaminata è la religione stessa. Il n`<@H è allora coesteso alla città, alla sua legge, alla sua religione. Il rifiuto di ogni uccisione è alla base della scelta di vita del settarismo orfico e pitagorico, ma tale scelta è troppo radicale ed eversiva per poter essere tollerata dalla città. Con Socrate ha luogo un tentativo di mediazione tra la cultura iniziatica di queste sette religiose e il contesto della B`84H attraverso quella soggettivazione morale che sembra realizzarsi tramite l’anima. Il motto delfico “conosci te stesso” non può significare altro che “conosci la tua RLPZ”, perché l’uomo nella sua essenza individuale non è altro che la sua anima. Nel Protagora Socrate afferma che l’•D,JZ PLATONE, Tutte le opere. coincide con l’¦B4FJZ:0. Si tratta Protagora, Roma, 1997, cioè della capacità razionale di conoNewton, 345e. scere il bene e il male. 1 2 SOFOCLE, Edipo a Colono, Milano, Oscar Mondadori, 1990, vv. 962-977. 3 4 SOFOCLE, Edipo a Colono, op. cit., vv. 545-549. … che nessuno dei sapienti ritiene che qualcuno volontariamente sbagli (©6`<J" ¦>":"DJV<,4<) e commetta azioni turpi e cattive… Socrate e con lui Platone propone ANDERS, Günther, L‘uomo una soggettivazione morale forte, è antiquato, op. cit., p. 293. che renda non necessario il ricorso a norme che facciano parte dell’ordine della B`84H o di un ordine ultraterreno. Egli fa appello all’anima come fondamento soggettivo della moralità, si richiama cioè a una moralità soggettiva, che si fonda sulla conoscenza, che è conoscenza di sé. Altro esempio di tale intellettualismo etico è l’autoassoluzione che Edipo pronuncia nell’Edipo a Colono di Sofocle: … Mi rinfacciasti dalla tua bocca uccisioni (n`<@LH) e nozze e sventure, che io misero subii non volendo (³<,(6@< –6T<): così piacque agli dei, forse irati da tempo contro la mia stirpe. Quanto a me non potresti trovare nessuna macchia di colpa (:"DJι′"H)…E se io…venni alle mani con mio padre e lo uccisi, senza comprendere che cosa facevo e a chi lo facevo, come puoi ragionevolmente rimproverarmi l’atto involontario? Uccisi. Ma la cosa (…) ha per me qualche giustificazione… sono puro di fronte alla legge (<`:å *¥ 6"2"D`H): ignaro giunsi a tanto. Il rapporto episteme/etica potrebbe essere ribaltato cioè potrebbe essere la nostra posizione morale a decidere della nostra comprensione o incomprensione delle dinamiche psichiche individuali che generano il fenomeno guerra, al di là dell’imprescindibile contributo conoscitivo che la psicoanalisi può e deve darci riguardo le nostre inconsce pulsioni distruttive. Concludo perciò con le parole di Anders, ancora una volta a proposito della bomba atomica, il quale sostiene: Che è la posizione morale in cui ci troviamo di fronte a un oggetto (una faccenda, una situazione) a decidere se afferriamo o meno l’oggetto; che la nostra capacità di vedere o la nostra cecità dipende dal fatto se l’oggetto “ci riguarda” o no; che vediamo soltanto ciò che ci riguarda. 61 Maddalena Alini Dalla Guerra come Privilegio dello Stato in Hegel alla Pace come Rivolta Libertaria in Camus CASSANDRA … qual nome serba la fonte un tempo sacra bacia la terra la roccia indovina … serrata la porta del tempio da fiotti di sangue e neve che nessun tempo scioglie suoi tuoi occhi gelano corrispondenze di morte previste la bocca non bacia la terra Inaudita la parola s’avvera Nessuna misura separa la vita e la morte la strage si compie senza scandalo La tua voce è un sudario di dolore senza volto Tamburi di guerra percuotono ossa perplesse sollevano amputazioni da macerie durate millenni Mutilazioni in cerca di corpi abbracciano Mutilazioni Il tuo respiro le unisce per l’ultima volta Aperta la porta del tempio belve danzano entrando il passo è leggero come piuma nella sabbia della memoria non lasciano tracce non v’è più traccia Stendardi di vittoria tra colonne senz’anima Cantano Inni Elevano Glorie Altissime Ubriachi nella gola di sangue freddo come ferro l’Assassinio trionfa e si chiama Vittoria Qual punto terrestre respira senz’inganno? La tua voce è un sudario di dolore senza testimoni. 62 ALINI, Maddalena La storia è facile da pensare ma è difficile da vedere per tutti coloro che la subiscono sulla propria carne. 1 CAMUS, Albert, La rivolta libertaria, a cura di A. Bresolin, Milano, Elèuthera, 1998, p. 9. 2 DELEUZE, Gilles e GUATTARI, Felix, Che cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 1996, p. 101. 3 HEGEL, George Wilhelm Friedrich, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1990, p. 14. 4 HEGEL, George Wilhelm Friedrich, Lineamenti di filosofia del diritto, op. cit., p. 15 5 CAMUS, Albert, L’uomo in rivolta, Milano, Bompiani, 2000, p. 771. 6 Cfr. MASULLO, Aldo, Filosofie del soggetto e diritto del senso, Genova, Marietti, 1990, p. 84. 7 Cfr. MASULLO, Aldo, Filosofie del soggetto e diritto del senso, op. cit., p. 85] Con queste brevi parole Albert Camus ci restituisce tutto il senso di una rinnovata responsabilità nel momento stesso in cui sceglie di rimanere nella storia. Bisogna essere chiari e dire subito: Camus sta dalla parte di chi vede il dolore, è dal di dentro del dolore che egli vede la storia, ed è per questo che può sottrarsi alla sua logica, alle alternative che la storia violentemente impone quando non si tiene conto delle vittime. Guardare la storia diventa una questione etica nel momento in cui l’etica diventa un modo di guardare in faccia il dolore, non si tratta qui di sentirsi responsabili delle vittime, ma come dicono Deleuze e Guattari, “di essere responsabili di fronte alle vittime”, essere davanti alla sofferenza diventa l’estremo gesto di appartenenza al mondo e al contempo il rifiuto più radicale dell’orrore del mondo. Chi invece pensa la storia, inevitabilmente dimenticherà le sue vittime. Qui un’altra etica s’impone, quella del sacrificio del singolo in nome dell’universale, è lo Spirito della Storia che si fa Carne ma che non si trattiene a lungo nella sua lacerazione, anzi grazie ad essa la Carne diventa Spirito, lo strappo è presto colmato. Non c’è il tempo di guardare la ferita, di sostare presso i lembi che si perdono per strada, meri accidenti di cui lo Spirito può fare a meno,. La Storia deve fare il suo corso. L’ha già fatto. Si tratta solo di comprendere che la razionalità del suo cammino è uguale alla realtà. Nessuno scarto tra il razionale e il reale, nessun salto che potrebbe togliere il fiato e farci inorridire perché “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”. Così Hegel, il filosofo del “disincanto” che non crede al mondo come dovrebbe essere ma solo a “ciò che è (...) poiché ciò che è, è la ragione.”, sembra non abbia dubbi. Non ci sono alternative. La ragione trionfa in una realtà senza residui o, il che è lo stesso, come dice Camus commentando Hegel, “Il vincitore ha sempre ragione, è questa una delle lezioni che si possono trarre dal massimo sistema tedesco dell’Ottocento.” È come se in Hegel al pessimismo della realtà umana fatta di coscienze che lottano per il riconoscimento si aggiungesse uno strano ottimismo, quello della ragione che dà significato ad un mondo che non ha bisogno di senso. Ma il problema è che tipo di conciliazione avviene tra reale e razionale, quale conciliazione è possibile tra il mondo oggettivo delle istituzioni storiche e lo Spirito. Qual è il rapporto tra la Ragione, lo Spirito, la coscienza e le istituzioni reali in cui essa si incarna? Il compito della ragione è quello di incarnarsi in istituzioni concrete, le quali però non hanno coscienza. Il tragico consiste nel fatto che la storia oggettivamente è senza coscienza, e la coscienza in quanto tale nega l’oggettività della storia. Per concepire storia e coscienza conciliate, occorrerebbe immaginare che la coscienza nell’individualità del suo atto si allargasse ad abbracciare tutta la storia o, il che è lo stesso, la storia si restringesse tutta nell’individuale atto della coscienza. [Insomma si tratterebbe di una] suprema arroganza teoretica di violentare la logica con l’immaginazione, in nome della logica. Ma aver trovato un’incrinatura tragica nel sistema hegeliano non concilia la nostra coscienza, come quella di Camus che cerca una via di uscita all’inconciliabile. In particolare quello che Hegel afferma sulla Guerra ci sembra non lasciare dubbi circa l’esito del suo Sistema. Il rapporto che ci interessa è quello tra Guerra e Stato. Che la conciliazione rimanga inconciliabile che la storia rimanga tragica non impedisce ad Hegel di superare il punto di vista della coscienza singolare a vantaggio del tutto oggettivo della Stato come incarnazione dello Spirito, anzi. Lo Stato nell’opera della maturità, nel sistema dello Spirito oggettivo è la realtà dell’idea etica, lo Spirito etico. “Lo La Guerra come Privilegio dello Stato... stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch’esso ha nell’autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé”. Lo stato ha supremo diritto sugli individui, i quali hanno supremo dovere di essere membri dello stato. Qui Hegel opera quell’esaltazione dello stato a spese delle coscienze degli individui che gli permette, con grande cinismo, di parlare della guerra come “momento etico in cui l’idealità del particolare ottiene il suo diritto e diviene realtà”. Grazie alla guerra la salute etica dei popoli viene mantenuta poiché l’individuo muore come accidente ma felice perché diventa universale salvando e incarnando in questo modo lo Stato. Tanto bisogna salvare la salute etica e non quella reale del popolo. La guerra è il momento della mediazione, dunque il secondo nella dialettica hegeliana che corrisponde al momento del negativo- 63 razionale dell’opposizione, essa diventa l’unica soluzione nella controversia tra stati perché ogni stato è sovrano e non vi è alcun organismo sovranazionale capace di mediare i rapporti esterni degli stati tra loro. Non c’è alcun pretore (sopra gli stati) la concezione kantiana di una pace perpetua grazie a una federazione di stati, la quale appianasse ogni controversia, (...) e con ciò rendesse impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone la concordia degli stati, la quale riposerebbe su fondamenti e riguardi morali, religiosi o quali siano, in genere sempre su volontà sovrane particolari, e grazie a ciò rimarrebbe affetta da accidentalità. Gli Stati tra di loro si trovano nella situazione dello status naturae e, nella guerra di tutti contro tutti come nella lotta delle autocoscienze per il riconoscimento, si manifesta lo Spirito, poiché tale guerra non è una semplice 1 HEGEL, George Wilhelm Friedrich, Lineamenti di filosofia del diritto, op. cit., p. 195. 2 HEGEL, George Wilhelm Friedrich, Lineamenti di filosofia del diritto, op. cit., p. 257. 3 LEJEUNE, Louis-Francois, La Battaglia di Somo-Sierra in Castiglia HEGEL, George Wilhelm Friedrich, Lineamenti di filosofia del diritto, op. cit., p. 262. 64 ALINI, Maddalena 1 CAMUS, Albert, La rivolta libertaria, a cura di A. Bresolin, Milano, Elèuthera, 1998, p. 196. 2 3 Cfr. WOLF, Christa, Cassandra, Roma, e/o, 1990, p. 146. Cfr. WOLF, Christa, Cassandra, op. cit., p. 170. lotta per la vita ma è lotta per essere riconosciuti, per dimostrare a sé e agli altri di essere autonomi. Quello che colpisce nell’analisi di Hegel, al di là delle sue intenzioni giustificatrici, è di avere smascherato l’appetito di potenza insito in ogni politica statuale, in realtà ogni stato è sempre potenzialmente in guerra con un altro, essendo la sete di riconoscimento infinita e anche qualora ci fosse un organismo sovranazionale (oggi questo sarebbe rappresentato dall’ONU), che Hegel comunque non accetta, si rivelerebbe non solo inutile, come tutti abbiamo visto negli ultimi anni, ma al servizio di qualche stato più potente degli altri, stabilendo così un nuovo diritto di fare guerra come “polizia internazionale” nel nome della civiltà democratica internazionale. Quindi ha ragione Hegel, non è l’ONU che può salvarci da questa dialettica sacrificale, da questa logica delle opposizioni. Ma allora qual è la via d’uscita? La dialettica delle opposizioni si fonda su identità preliminari di fronte alle quali bisogna scegliere. In realtà non c’è una vera alternativa o si uccide o si muore, le politiche statuali sono criminali. Con Hegel siamo imprigionati nella ricerca di una mediazione (che è esattamente il momento del conflitto) resa possibile per il fatto che gli opposti in realtà si equivalgono, l’uno ha bisogno dell’altro per esistere. Paradossalmente la via per la pace sta nello scavare più profondamente il solco che separa le opposizioni, solo così le differenze emergerebbero. Da una dialettica delle opposizioni si passerebbe ad una pratica delle differenze fondata sulla distanza che le separa. Ognuna per sé le differenze potrebbero vivere in pace, ma questo è impossibile nelle pratiche statuali, lo stato è sempre un’identità, anche quando come oggi sembra crollare il concetto di sovranità statale limitata territorialmente a favore di un impero sovranazionale senza confini, è sempre la stessa volontà di potenza semplicemente più estesa. Per questo dire no alla guerra è prima di tutto uscire dalle politiche sta- tuali. Camus infatti cerca in una pratica anarchica una possibilità di fare politica al di fuori delle politiche statali e contro la dialettica che essi impongono. Camus rifiuta il fatto che bisogna scegliere tra due alternative (o stare con l’URSS o con gli USA; o con i terroristi algerini o con la Francia colonialista) le quali sono poi reali, o solo apparenti? Anzi quest’obbligo della scelta tra due possibilità uniche è esso stesso una maniera di fare guerra alla libertà del singolo. Camus si tira fuori da questo gioco e scommette sulla pace.“È il mio genere di ottimismo” dice “ma è necessario fare qualcosa per la pace.È il mio pessimismo.” Camus insinua il dubbio tra il prendere il fucile e la voce di una coscienza in fondo molto poco felice e solare, anzi tormentata e oscura, che con forza disperata cerca una via d’uscita. È il problema sempre attuale, quello di trovare risposte differenti, autonome e nuove, e no reazione meccaniche antiche. Cosa che è sempre difficilissima da risolvere, ma Camus ha il merito di averlo posto in tempo di guerra, rimanendo nella terra algerina tanto amata e devastata. Allora il suo appello alla coscienza in un mondo in cui essa vacilla acquista tutto il senso di una nuova forma di resistenza, o per lo meno ci prova. Nessuna speranza è qui in gioco, ma solo tentativi, sperimentazioni, per molti versi impossibili. Camus rimarrà sempre dalla parte del dolore degli oppressi di qualsiasi schieramento essi siano, rimarrà sempre dalla parte della libertà e della giustizia sociale, del pane e della libertà perché senza libertà non ci può essere alcun comunismo. Gli fanno eco le parole di Cassandra che tra uccidere e morire sceglie la terza via: vivere. Cassandra sa che la guerra si fonda sulla menzogna, non voler essere ingannati allora diviene il gesto estremo di una coscienza che resiste alle orribili mistificazioni di una guerra senza odio e dolore. Nessuno può più dimenticare cosa è veramente la guerra perché è “il dolore che ci ricorderà di noi”. 65 Marco Celentano Hobbes, Sade e l’Anarchia. Riflessioni su Stato, Individui e G u e r r a d i Tu t t i c o n t r o Tu t t i 1. Machiavelli ed Hobbes: tra Smascheramento ed Apologia del Potere Statuale È possibile che la guerra nasconda in sé l’evento probabile che qualunque società primitiva tenta di scongiurare con ogni mezzo – vale a dire la divisione del corpo sociale in Signori (la minoranza dei guerrieri) e Sudditi (il resto della società)? (Pierre Clastres, Tristezza del guerriero selvaggio) La filosofia politica moderna, quale si viene delineando tra Cinquecento e Seicento, ha almeno due grandi matrici: il discorso “utopico”, che trova un archetipo nell’opera De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia (1516) di Thomas More, ed il filone che alcuni hanno chiamato del “realismo politico”, il cui primo modello è offerto da Niccolò Machiavelli nel libro De principatibus (1513). Il primo versante ripropone e rinnova, incentrandolo sul recupero degli 1 Si veda in tr. it. MORO, Tommaso, Utopia, Roma, Newton Compton, 1994. La trattazione del discorso utopico esula dagli intenti di questo articolo. A questo tema è dedicato il IV fascicolo di Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filosofia e, tra gli altri, il mio articolo “Metafisica, critica e utopia”, in esso contenuto. 2 D'AZEGLIO, Massimo, La Battaglia di Legnano Si veda MACHIAVELLI, Niccolò, Il principe e Discorsi, Milano, Feltrinelli, 1984, oppure MACHIAVELLI, Niccolò, Le opere, Roma, Editori Riuniti, 1981. Per un introduzione al dibattito sulla datazione dell’opera ed ai risultati che hanno confermato che essa venne composta tra luglio e dicembre del 1513, si veda la “Nota introduttiva”, di S. Bertelli, in MACHIAVELLI, Niccolò, Il principe e Discorsi, op. cit., pp. 3-10. 66 CELENTANO, Marco 1 VON GIERKE, O., Natural law and the theory of society, Cambridge, 1958, p. 37. A Machiavelli ed Hobbes, come ricorda Norberto Bobbio, in Diritto e Stato nel pensiero di Emanuele Kant (Torino, Giappichelli, 1969, pp. 11-14), si fa comunemente risalire quella “corrente dell’assolutismo statale (…) che è stata chiamata in senso spregiativo machiavellismo”, secondo la quale chi governa, o aspira a farlo, deve compiere le proprie scelte basandosi esclusivamente sulla “loro corrispondenza ai fini della conquista e del mantenimento dello Stato”, senza prendere in considerazione valori morali indipendenti dalla sfera politica e dalle sue regole. Bobbio avverte, giustamente, che “il machiavellismo è un’interpretazione del Principe di Machiavelli”. Esso, quindi, non riassume il pensiero politico complessivo di Machiavelli, e rappresenta, anche rispetto alla singola opera cui si richiama, solo una delle possibili chiavi di lettura. Machiavelli fu certamente un fautore dello Stato, e del suo rafforzamento, ma non può essere definito un “assolutista”. Nel 1513, dopo la caduta della repubblica fiorentina, e la restaurazione medicea, egli ritenne possibile e utile, per liberare l’Italia “spogliata” e “battuta” dal domino straniero, l’intervento di un principe che si ponesse a capo di una confederazione; e pensò di poter insegnare a questi, data la sua lunga esperienza di diplomatico, qualcosa sul funzionamento dei rapporti politici. Ma, nei Discorsi, espresse chiaramente la propria preferenza per il regime repubblicano, e al servizio della repubblica fiorentina, nata dalla ribellione popolare contro la signoria, spese gli anni migliori della sua vita. Nell’anno stesso in cui scrisse Il principe (1513), accusato di congiurare contro il restaurato potere dei Medici, fu imprigionato e torturato. Infine si adattò, ed ebbe dai Medici nuovi incarichi come diplomatico e storico, ma ancora rischiò il coinvolgimento in una sommossa antimedicea, nel 1522. Infine, nel 1527, quando Firenze tornò ad un governo repubblicano, prossimo alla morte che lo avrebbe colto il mese successivo, tornò in città per offrire la sua collaborazione. CURRY, Ken, I Mercenari Scozzesi originari valori cristiani, il tentativo che Platone aveva compiuto per il mondo greco: delineare i tratti di una “repubblica” ideale, in cui i soprusi e gli errori presenti nella società reale siano evitati, mediante il ricorso a modi di organizzazione sociale economica e politica più razionali. Attraverso molteplici differenziazioni, questa tradizione di discorso giunge fino a Rousseau e ai primi teorici democratici e socialisti. Essa assume come propria bandiera lo sforzo di pensare e descrivere un modello di società alternativo a quello vigente. L’altro ramo del pensiero politico moderno prende, invece, di mira l’uomo osservabile, i comportamenti storicamente verificabili, ed a partire da questi cerca di formulare astrazioni generali sulla natura umana e sull’organizzazione della società. Machiavelli ne è considerato il capostipite, ma esso ricevette, come ha osservato O. v. Gierke, “dalla radicale audacia di Hobbes una forma che costituì a un tempo il culmine del passato e il fondamento dei suoi sviluppi futuri” . E fu proprio questa audacia, ricorda Ma- 67 Hobbes, Sade e l’Anarchia... gri, che procurò, ad Hobbes “una reputazione paragonabile, nella storia delle dottrine politiche, solo a quella di Machiavelli”. Ma quali aspetti accomunano, al di là delle significative differenze biografiche, politiche e stilistiche, le posizioni filosofiche di questi due filosofi? In primo luogo, direi, il fatto che essi scelgono di attingere quasi esclusivamente dalla sfera empirica e storica i contenuti della propria trattazione, cioè, gli eventi e gli esempi discussi, e la coerenza con cui, in gran parte delle opere, si attengono a tale metodologia. Per entrambi, la riflessione sugli ordinamenti sociali deve fondarsi su un’ antropologia descrittiva: partendo da osservazioni empiriche e studi storici, occorre estrapolare caratteristiche generali che riguardano la natura dell’uomo, intesa come insieme degli impulsi che governano il sentire e le inclinazioni di ogni singolo individuo. Dall’illustrazione di tale “natura”, considerata da questi pensatori sostanzialmente immutabile, vanno poi dedotte le conseguenze pratiche basilari che riguardano l’organizzazione della società. I discorsi di Machiavelli e di Hobbes prendono avvio dalla pretesa teorica e dallo sforzo reale di descrivere gli uomini e le istituzioni, quali si presentano allo sguardo spregiudicato di un osservatore che abbia “lunga esperienza delle cose moderne” e profonda conoscenza “delle antique”. Machiavelli, rivendica questa impostazione nei noti passi del cap. XV del Principe, contrapponendosi ai “molti” che hanno immaginato “repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero”, e affermando di voler “andare drieto alla verità effettuale della cosa”, cioè della realtà umana e politica, piuttosto che “alla immaginazione di essa”. Ed ancora, nel proemio del libro primo dei Discorsi: “spinto da quel desiderio che fu sempre in me di operare senza alcun respetto quelle cose che io creda rechino benefizio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio”. Ancor più esplicitamente, le opere di Hobbes daranno origine ad una serie di discorsi sulle prerogative dell’“uomo naturale” e dell’“uomo artificiale”, ovvero dell’individuo umano e dello Stato, e sulle loro relazioni reciproche,che fungeranno da canone di riferimento per tutta la tradizione successiva. Un’altra novità, che i discorsi di entrambi presentano, consiste nel fatto che essi, opponendosi alla tradizione medioevale e a quella utopica, cercano di dimostrare l’inconciliabilità tra esercizio del potere e rispetto delle virtù cristiane. Il pensiero cristiano premoderno aveva posto le “virtù teologali”, fede, speranza e carità, all’apice della gerarchia delle virtù. Machiavelli si sforzò, in tutte le sue opere politiche, di dimostrare che tale gerarchia è inconciliabile con l’obiettivo della conquista e conservazione del potere politico. Uno dei passi più chiari, in tal senso, è nel cap. XVIII del Principe, in cui dopo aver sviluppato la famosa immagine del signore che deve essere insieme “golpe” e “lione”, egli conclude che il principe “non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione”. Hobbes, dal canto suo, nel De Cive e nel Leviathan, affrontò la questione in maniera sistematica, pervenendo alla conclusione che l’etica individuale, a prescindere dalla sua ispirazione religiosa o laica, ha libertà di esprimersi solo ove la legge non comandi né vieti nulla. In tutti gli altri casi, il comportamento individuale deve uniformarsi a quanto prescritto dalla legge vigente, e non ai valori etici del singolo. Entrambi questi pensatori, al di là delle loro profonde differenze di vita e di pensiero, assolsero a quello che era considerato, dalla letteratura ufficiale del tempo, il compito primo di ogni 1 MAGRI, T., “Prefazione” a HOBBES, Thomas, Leviatano, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 41. 2 3 4 MACHIAVELLI, Niccolò, Il Principe e i Discorsi, ed. cit., p. 13. MACHIAVELLI, Niccolò, Il Principe e i Discorsi, ed. cit., p. 65 MACHIAVELLI, Niccolò, Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, in MACHIAVELLI, Niccolò, Opere, ed. cit., p. 122. 5 Questa struttura argomentativa, fondata sul nesso antropologia-politica, è chiaramente leggibile nella ripartizione del tema adottata da Hobbes nella sua opera più nota, il Leviathan, che consta di quattro parti così ordinate: “L’uomo”; “Lo Stato”; “Lo Stato cristiano”; “Il regno delle tenebre”. Si veda in tr. it. HOBBES, Thomas, Leviatano, Roma-Bari, Laterza, 1989, a cura di A. Pacchi. Ma anche il De Cive, dedicato ad analogo argomento e tripartito nelle sezioni “Libertà”, “Potere”, “Religione”, segue, in effetti, una modalità di esposizione dell’argomento analoga. Si veda HOBBES, Thomas, De Cive, Roma, Editori Riuniti, 1987, a cura di T. Magri. 6 7 MACHIAVELLI, Niccolò, Il Principe e i Discorsi, ed. cit., p. 73. Si vedano, del Leviatano, in particolare, i cap. XXI, XXVI, XXVIII. In quest’ultimo, Hobbes colloca, al secondo posto, fra le “malattie dello Stato”, e fra le cause della sua rovina, il fatto che “ogni provato giudica delle azioni buone e cattive” (Leviatano, ed. cit. p. 264). 68 CELENTANO, Marco 1 MAGRI, T., “Introduzione”, in HOBBES, Thomas, De Cive, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 18. 2 MACHIAVELLI, Niccolò, Il principe e Discorsi, ed. cit. p. 70. dottrina politica, ovvero la legittimazione teorica di un potere sovrano esistente di fatto, in maniera profondamente innovativa. La loro innovazione consiste nell’ammettere, sul piano teorico, ciò che già allora era ammesso di fatto, ma non di diritto: che la sfera delle scelte politiche è dominata, all’interno delle organizzazioni statali, e nel rapporto reciproco tra queste, dalla logica del più forte, dall’ambizione al dominio, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, insomma da pratiche inconciliabili con qualunque interpretazione rigorosa della predicazione morale cristiana. Il loro “realismo” guadagnava, perciò, sul piano del contenuto di esperienza, una libertà più ampia. Libertà di non omissione, che consente di descrivere l’autorità sovrana, incarnata da un monarca o da assemblee di rappresentanti del popolo, senza occultare le pratiche violente, l’uso strumentale dell’informazione e degli organi giudiziari ed ogni altro dispositivo autoritario che essa impiega per affermarsi, conservarsi o espandersi. Il Principe di Machiavelli ed il Leviathan di Hobbes inaugurano, in tal senso, l’antropologia politica moderna, intesa come disciplina che riflette sui modi in cui il potere politico deve considerare e trattare gli uomini, per preservare e potenziare se stesso. Assumendo dichiaratamente questo compito, essi si concedono il lusso di descrivere le forme di appropriazione, conservazione ed espansione del potere politico, con crudo realismo ed ampie documentazioni storiche. Inizia, così, un genere di discorso sulle istituzioni statali che, pur restando apologetico, guadagna, in certi ambiti, il diritto ad una descrizione rigorosa dei rapporti politici, e delle loro conseguenze. La volontà e la capacità di sottrarsi a molte delle menzogne, tradizionalmente legate ai discorsi ufficiali sullo Stato e sulla guerra, sono parte incancellabile del modo di fare filosofia di Machiavelli e di Hobbes e del contributo che essi hanno fornito ad un rin- novamento della teoria politica. Questi pensatori si sforzano di comprendere le motivazioni che muovono gli individui e gli Stati, qualunque esse siano, attraverso il metodo di una paziente comparazione dell’antico e del moderno, delle diverse culture e tradizioni. Vi è, in tal senso, nel loro approccio un nucleo critico che consiste nel tentativo di far derivare l’ambito delle scelte pubbliche non da preferenze o appetiti soggettivi, non dalle tradizioni vigenti, né dalle credenze religiose, ma da una etologia della politica, cioè dal tentativo di operare una osservazione e una descrizione spassionate del comportamento individuale e sociale umano. Per Hobbes, osserva Magri, “la scienza politica deve fondarsi su principi ricavati analiticamente dalla reale natura umana”, e questi ultimi vanno, a loro volta, desunti dalla “evidenza empirica”. La rilevanza critica delle opere di questi autori deriva, dunque, dallo sforzo di osservazione e descrizione rigorosa delle società e degli individui che essi seppero infondervi. Ma tali opere mostrano il loro limite fondamentale nel fatalismo naturalistico che le pervade. Machiavelli ed Hobbes assolutizzano, arbitrariamente, e descrivono come condizione naturale e insuperabile per le società umane, caratteristiche comportamentali ed effetti politici che vanno intesi, invece, come inevitabili proprio all’interno del modello di organizzazione sociale che essi assumono e difendono. Per Machiavelli, infatti, “degli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno”. Hobbes pretende di fissare come dato naturale e inamovibile quella condizione che l’illuminismo intenderà invece come ciò che va superato: lo stato di minorità dell’individuo e delle comunità umane, che fa sì che essi debbano essere affidati al controllo di una autorità superiore. “Orgoglio”. “rivalità” e “diffidenza” sono, per Hobbes, Sade e l’Anarchia... l’autore del Leviathan, caratteristiche appartenenti alla “natura umana” e conducono, inevitabilmente, alla violenza reciproca. “Da ciò” – scrive il filosofo – “appare chiaramente che quando vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo”. E “la natura della guerra”, precisa, “non consiste nel combattimento in sé, ma nella disposizione dichiarata verso questo tipo di situazione, in cui per tutto il tempo in cui sussiste non vi è assicurazione del contrario”. 2. Stato e guerra Il militarismo è l’obbligo dell’impiego universale della violenza come mezzo ai fini dello Stato. (Walter Benjamin, Angelus Novus) Tra il 1519 e il 1520, Machiavelli scrive il dialogo Dell’arte della guerra. Tesi di fondo dell’opera è che uno Stato, per funzionare bene, non deve ammettere separazione professionale fra vita borghese e vita militare. Queste due funzioni devono essere interscambiabili fra loro, tradursi l’una nell’altra ogni volta che lo Stato lo ritenga opportuno. La loro separazione, lo dimostrano, secondo l’autore, in positivo la storia antica ed in negativo la moderna, è contraria all’essenza dello Stato stesso: “Se si considerassono gli antichi ordini non si troverebbono cose più unite , più conformi e che, di ne- 69 cessità, tanto l’una amasse l’altra, quanto queste”, poiché tutti “i buoni ordini, sanza il militare aiuto (…) si disordinano”. L’identificazione tra vita civile e militare appare necessaria “per mantenere gli uomini fedeli, pacifici e pieni del timor d’Iddio”. Per Hobbes, lo Stato nasce, non per scongiurare la guerra, come può sembrare ad una lettura non attenta delle sue opere politiche, ma per far sì che essa non sia di tutti contro tutti. I sudditi, sottomettendosi al potere sovrano, non trovano una pace duratura, poiché la storia degli Stati, l’autore non lo nega, è quasi ininterrottamente storia di guerre. Ad essi conviene, secondo il De Cive, sottomettersi “affinché, se si deve affrontare la guerra, non sia contro tutti, né senza aiuti”. Lo Stato non estingue la guerra, le impone delle regole. I rapporti tra gli Stati rimangono esattamente quelli vigenti tra gli uomini nello stato di natura, il destino dei sudditi resta, al loro interno, quello di essere coinvolti e schierati nella guerra di tutti gli Stati contro tutti gli Stati. Con Machiavelli ed Hobbes si afferma un modo di considerare la sfera politica che, differenziandosi della tradizione medioevale e da gran parte di quella utopica, pone una relazione inscindibile fra Stato e guerra. Entrambi sono esperti diplomatici e, mentre sul piano teorico pretendono di attingere le leggi universali della natura umana, sul piano pratico, si riconoscono e pongono come uomini di parte. Quali motivazioni e valutazioni li spingono alle rispettive, e diverse, prese di posizione? Nei confronti di che cosa prendono posizione? VASARI, Giorgio, La Conquista di Pisa (particolare) 1 2 3 HOBBES, Thomas, Leviatano, ed. cit. p. 101. MACHIAVELLI, Niccolò, Opere, ed. cit., p. 322. HOBBES, Thomas, De Cive, ed. cit., p. 87. Molto tempo dopo, il gene4 rale prussiano von Clausewitz conierà il motto secondo cui la guerra non è altro che “la politica continuata con altri mezzi” e, successivamente Foucault lo ribalterà, affermando che, piuttosto, “la politica è la guerra continuata con altri mezzi” (FOUCAULT, Michel, Difendere la società, tr. it. Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, Lezione terza, p. 43). 70 CELENTANO, Marco UCCELLO, Paolo, La Battaglia di San Romano (Tavola di Parigi) Sebbene trascorrano più di 130 anni, fra la stesura del Principe e quella del Leviathan, l’attenzione di entrambi gli autori è concentrata su due grandi processi storici, di cui vivono fasi differenti, ma contigue: • • 1 Si veda FOUCAULT, Michel, Difendere la società, ed. cit., pp. 78-81. 2 Si veda DE LA BOETIE, Ètienne, Discorso sulla servitù volontaria, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici – Porta di Massa. Laboratorio Autogestito di Filosofia, Napoli, 1995. l’aggressivo affacciarsi sullo scenario europeo e mondiale degli Stati nazionali, nell’epoca della prima grande colonizzazione degli altri continenti; il trasformarsi, nel cuore dell’Europa, delle tradizionali rivolte popolari in rivoluzioni repubblicane, ed i primi vagiti di una critica radicale del sistema statuale. Contro chi è rivolto il discorso di Hobbes? Qual è il bersaglio polemico della sua apologia della sovranità statale? Secondo una interpretazione tradizionale, egli difende l’assolutismo regio contro le pretese del parlamento inglese. Secondo Foucault, invece, le tesi di Hobbes, prima ancora dell’istanza parlamentarista, intendono rintuzzare un tipo di discorso che non trova eco nella letteratura ufficiale, che nasce e circola al di fuori di essa. La sua presa di posizione appare, in questa ottica, una risposta a quel nuovo tipo di discorsi che aveva fatto irruzione nella società inglese, attraverso i levellers e i diggers. Si tratta di un fenomeno che dovette avere dimensioni molto ampie, se la collezione di scritti rivoluzionari, pubblicati tra il 1640 e il 1661, oggi conservata al British Museum, che è certamente incompleta, annovera più di 20.000 opuscoli. Questi discorsi riscoprivano, dietro la sovranità statale, la guerra come sua origine e la sottomissione degli sconfitti come condizione permanente imposta dai poteri vigenti. Essi non si esprimevano in termini di classi sociali, ma distinguevano vincitori e vinti, dominanti e dominati. Non riassumevano, come altre voci del tempo, lo scontro politico nella sfera religiosa, ma, appellandosi al diritto divino, dichiaravano la libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini, e si contrapponevano sia all’assolutismo sia al parlamentarismo. Si affacciava, in alcuni testi dei diggers, un’idea che, quasi un secolo prima, era stata suggerita anche da Ètienne de La Boétie, nel Discorso sulla servitù volontaria: ogni accentramento dell’autorità e dei privilegi, ogni forma di governo, è usurpazione del potere; ogni sovranità politica e giuridica si fonda su una doppia guerra, combattuta contro i propri sudditi, e contro altri popoli o altri Stati. Hobbes risponde a questa critica assumendone in gran parte le premesse teoriche, accettando, cioè, di riconoscere nello Stato una organizzazione dell’intera società in funzione della guerra e del potere ed una forma di dominio che riduce al minimo le libertà umane. Egli, tuttavia, tenta di trarre, proprio da questo riconoscimento, una conferma della inevitabilità del potere statale. Hobbes, Sade e l’Anarchia... 3. Fra Hobbes e Sade Guerra è, come si è detto più sopra, una controversia tra sovrani che si risolve per mezzo delle armi (…). Dalla guerra nascono solo atti di brigantaggio e delitti, con essa procedono il terrore, la fame e la desolazione. (DE JACOURT, voce “guerra”, in Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri). Nel declinare le libertà drasticamente limitate concesse ai sudditi, Hobbes restò coerente, almeno in un punto, con il principio dell’autoconservazione individuale, da lui posto alla base della scelta politica: il patto sottoscritto non può obbligare l’individuo “a non resistere a chi gli reca morte, ferite o un altro danno fisico”, neanche se quest’ultimo è un rappresentante dello Stato, nell’esercizio legittimo delle sue funzioni. Su questa contraddizioni lavorerà, nel secolo successivo, il marchese de Sade per ribaltare l’assunto hobbesiano del dovere di obbedienza all’autorità sovrana nel suo contrario. Fra l’uno e l’altro, l’illuminismo e la rivoluzione francese. Di Hobbes, per cui nutriva una non celata ammirazione, Diderot scrisse: “Nessuno va avanti in maniera più ferma ed è più conseguente di lui. Guardatevi dall’accogliere i suoi primi princìpi, se non volete poi essere costretti ad andargli dietro dovunque gli piacerà condurvi”. Ma gli anelli più deboli della catena argomentativa hobbesiana furono individuati da alcuni protagonisti dell’illuminismo. Kant, senza citarlo direttamente, colse, in modo magistrale, una contraddizione inerente alla sua proposta teorica e pratica nella “tesi sesta” del breve saggio Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. Il discorso prende avvio da una considerazione che sembra avere molto di hobbesiano: “l’uomo è un animale che, se vive tra altri esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone”. Lasciato libero, poiché è mosso dal suo “egoistico istinto animale”, tende- 71 rà ad abusare della propria libertà ledendo quella degli altri. Ma, riflette il filosofo, occorre domandarsi “donde egli prenderà questo padrone? Da nessun altro luogo che dalla specie umana. Ma questo padrone è a sua volta un essere animale che ha bisogno di un padrone”. Dunque, “non si vede come possa crearsi un organo sovrano della pubblica giustizia che sia esso stesso giusto: tale organo può ricercarsi in una persona singola, o in un corpo di molte persone scelte a tale scopo. Comunque, ognuna di esse abuserà sempre della sua libertà (…). Il capo supremo deve essere giusto per sé stesso e tuttavia essere un uomo. Questo problema è quindi il più difficile di tutti e una soluzione perfetta di esso è impossibile”. Il ragionamento di Kant coglie il punto debole del discorso fondativo di Hobbes: questi ritiene che ogni individuo umano sia caratterizzato da un “appetito illimitato”, che lo porta ad inseguire incessantemente il possesso di nuovi beni, e a voler “assicurarsi per sempre il modo di soddisfare il proprio desiderio futuro”. Egli individua, perciò, “come inclinazione generale di tutti gli uomini, un desiderio perpetuo e senza tregua di potere e potere, che cessa solo con la morte”. Questa inclinazione conduce, se si permane nello stato di natura, ad una condizione di perenne conflitto intraspecifico in cui nulla, né la sopravvivenza, né la pace, né il godimento dei frutti del proprio lavoro, può essere garantito a nessuno. Per ovviare a questa guerra di tutti contro tutti, Hobbes propone un modello contrattuale in cui il sovrano non partecipa al patto originario. Questo impone a tutti gli altri uomini una rinuncia volontaria alla propria illimitata libertà, mentre, sovrano è quell’unico uomo, o gruppo di uomini, che permane nello stato di natura, e quindi nella completa libertà. Per rendere plausibile tale proposta politica, Hobbes “si sforza di dimostrare la perenne coincidenza degli interessi del sovrano e dei sudditi”, e di convincere che seb- 1 HOBBES, Thomas, Leviatano, ed. cit., p. 181. 2 DIDEROT, Denis, voce “Hobbismo o filosofia di Hobbes”, in Enciclopedia, antologia a cura di A. Soboul, Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 122. 3 Il saggio fu pubblicato dalla Rivista mensile di Berlino, nel 1784. In trad. it., lo si trova, insieme ad altri scritti minori kantiani, in varie edizioni fra cui KANT, Immanuel, La pace, la ragione e la storia, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 19-34. 4 KANT, Immanuel, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, ed. cit, p. 25. 5 HOBBES, Thomas, Leviatano, ed. cit., p. 63. CELENTANO, Marco 72 1 HOBBES, Thomas, De Cive, ed. cit., pp. 193-194. 2 Diderot e molti suoi contemporanei videro in Rousseau un anti-Hobbes: “La filosofia di Rousseau di Ginevra” – scrisse il curatore dell’Enciclopedia – “è quasi l’opposto di quella di Hobbes”; “Quello crede che l’uomo sia naturalmente buono, questi che sia cattivo. Secondo il filosofo di Ginevra lo stato di natura è uno stato di pace; secondo il filosofo di Malmesbury, è uno stato di guerra. Se si crede ad Hobbes, sono le leggi e la formazione della società che hanno reso l’uomo migliore, mentre, se si crede a Rousseau, lo hanno depravato” (DIDEROT, Denis, voce “Hobbismo, o filosofia di Hobbes”, ed. cit., p 122). 3 bene “coloro che hanno il potere supremo fra gli uomini non possano essere sottomessi alle leggi (…) tuttavia è loro dovere obbedire in tutto, per quanto possono, alla retta ragione”, e comprendere che “tutti i doveri di chi ha il potere sono compresi in questo solo detto: la salute del popolo è la legge suprema”. Ma proprio in questo passaggio cruciale, il discorso hobbesiano non regge: date le premesse assunte, non si capisce come ci possa aspettare che un uomo, o gruppo di uomini, caratterizzati per natura dall’ appetito illimitato e dalla sete di potere, venendo insigniti dell’autorità sovrana, e avendo sui sudditi potere illimitato, limitino poi questi appetiti al fine di preservare e rispettare il bene del popolo. Anche Rousseau sviluppò, nelle sue prime opere, una critica radicale dell’antropologia e della filosofia politica hobbesiano. Nel Discorso sull’origiROUSSEAU, Jean Jacques, ne dell’ineguaglianza, egli afferma che Sull’origine dell’inegua- tutti “i filosofi che hanno esaminato i glianza, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 98. fondamenti della società (…) parlavano dell’uomo selvaggio e descrivevano l’uomo civile”. La prima parte dell’opera, infatti, intende chiarire che l’antropologia politica ha sempre concepito la natura umana come qualcosa di immutabile, mentre essa va pensata come qualcosa di intrinsecamente storico, una realtà che muta nel tempo, subendo le influenze esterne ed esercitando influenze a sua volta. Ragionando sull’origine dell’ineguaglianza, scrive Rousseau, i filosofi hanno spesso scambiato le cause con gli effetti, individuando, nell’accentramento del potere economico, giuridico e politico, il rimedio, mentre esso è piuttosto la causa dell’oppressione dell’ineguaglianza. Più tardi, nel Contratto sociale, il ginevrino si dichiarerà a favore dell’utopia democratica di uno Stato in cui la legge è al di sopra degli interessi individuali. Ma, come osserva Giarratana, “appena cinque anni dopo il Contratto sociale, in una lettera al marchese di Mirableu del 26 Si veda su questo anche 4 GIARRATANA, Vincenzo, “Introduzione” a ROUSSEAU, Jean Jacques, ed. cit., in particolare pp. 67-68. 5 Su un altro punto chiave, invece, il discorso del ginevrino non si distacca dalle posizioni di Hobbes: Rousseau fa proprio il mito razionalistico dell’individuo umano originariamente isolato, che solo in un secondo momento si unisce agli altri in società, di cui Hobbes aveva dato una drammatica rappresentazione. Invitando ad una attenta 6 lettura della sua più nota opera politica, Rousseau scriveva: “vi troverete dovunque la rivendicazione della libertà, ma sempre sotto l’autorità delle leggi (…) sotto le quali si è sempre liberi, in qualunque modo si sia governati”. “La legge al disopra degli uomini: è questa la soluzione di Rousseau”, osserva Giarratana, commentando questo passaggio. DELACROIX, Eugène, Ingresso dei Crociati a Costantinopoli Hobbes, Sade e l’Anarchia... luglio 1767, questa stessa formula ritorna con chiari accenti di sfiducia”. Rousseau scrive all’amico che “il grande problema in politica (…) è trovare una forma di governo che metta la legge al di sopra degli uomini” e confessa di ritenere irrealizzabile tale forma di governo. Dal radicale Rousseau al moderato Kant, l’Illuminismo fu percorso da questo dubbio nei confronti dell’autorità statale: che non vi fosse modo di arginarne la deriva autoritaria e guerrafondaia, che esso potesse fare della “guerra di tutti contro tutti” una regola universale. Singolare continuatore di un’altra tradizione di critica del potere statale, quella aristocratica, vivendo quel culmine in cui l’epoca illuministica traboccò in rivoluzione, il marchese de Sade provò, a suo modo, a trarre da questo dubbio le estreme conseguenze. 4. La Libertà Hobbesiana Restituita: il Marchese de Sade Estendendo la portata dei nostri diritti, abbiamo finalmente riconosciuto di essere perfettamente liberi. (De Sade D. A. F., La filosofia nel boudoir) Hobbes aveva svelato, quasi senza infingimenti, il ruolo liberticida dello Stato, il suo essere, al di là delle forme politiche che esso sceglie di darsi, sistema fondato sul sacrificio sistematico delle libertà individuali. Ma pretendeva di argomentare l’inevitabilità della sottomissione all’autorità statale, ipostatizzando la natura aggressiva e “l’appetito illimitato” degli uomini. Esemplare è il passaggio dall'etica hobbesiana a quella sadiana: le conseguenze che il marchese, lettore ed estimatore del filosofo inglese, ricava dall’antropologia hobbesiana coincidono, in realtà, con un completo rovesciamento dell'atteggiamento che l’autore del Leviathan raccomandava: “Come? Un sovrano ambizioso potrà distrug- 73 gere a suo piacimento e senza il minimo scrupolo i nemici che nuocciono ai suoi piani di grandezza (…) e noi, deboli e infelici creature, non potremmo sacrificare un solo essere alle nostre vendette e ai nostri capricci?. Sade rovescia l’assunto di Hobbes, secondo cui sottomettersi al potere statale è la cosa più conveniente, nel seguente: poiché lo Stato è un puro parassita dell’esistenza umana, poiché altrettanto si può dire di ogni istituzione religiosa, ogni individuo è autorizzato, a sua volta, a ritornare allo stato di natura hobbesiano, cioè alla “guerra di tutti contro tutti”, e comportarsi come parassita nei riguardi de gli altri uomini e delle istituzioni stesse. Sade è una punta estrema di quella critica del potere statale, di provenienza aristocratica, che aveva già avuto in Inghilterra e in Francia una sua tradizione. L’individuo sadiano non rispetta le leggi, ma neanche mette in discussione l’organizzazione gerarchica della società. Egli si limita a sfruttare, ovunque può, indiscriminatamente, gli altri a vantaggio del proprio piacere e potere. Ciò che Machiavelli consigliava al principe Lorenzo, “Bisogna non aver mai complici oppure disfarsene appena ce ne siamo serviti”, Sade lo suggerisce, senz’altro, ad ogni uomo, giudicando, o volendosi azzardare a far finta di ritenere, lo stato di guerra di tutti contro tutti come il migliore dei mondi possibili: “La crudeltà altro non è che l’energia dell’uomo non ancora intaccata dalla civiltà: è quindi una virtù, non un vizio”. Sade comprende la lezione di Machiavelli ed Hobbes, fino al punto di toglierle l’ultima maschera: “Ricordatevi che la sottomissione del popolo, quella sottomissione così necessaria al GIARRATANA, Vincenzo, sovrano che lo regge, è dovuta solo “Introduzione” a ROUSSEalla violenza e alla vastità dei supplizi” AU, Jean Jacques, ed. cit., p. 62. fa dire al vescovo libertino che torDE SADE, D. A. F., La fimenta Justine. Il popolo, “animale felosofia nel boudoir, Milano, roce”, “ha inevitabilmente bisogno di SE, 1986, p. 56. essere guidato con un bastone di ferro: sareste perduto, se gli lasciaste prender DE SADE, D. A. F. , La coscienza della propria forza”. E agfilosofia nel boudoir, ed. giunge in nota: “Vedendo in quale cit., p. 69. 1 2 3 CELENTANO, Marco 74 bocca mettiamo questi progetti di terrore e di dispotismo, i nostri lettori non ci accuseranno di aspirare a farli amare”. Il marchese poneva, dunque, con lucidità radicale, la domanda già implicita in Rousseau e in Kant: se davvero non si può evitare che ogni potere si trasformi in tirannia, non sarà meglio, per ognuno, sottrarsi ad ogni vincolo di obbedienza nei confronti dello Stato? In Machiavelli, Hobbes e Sade, sia pure nella forma limitata e limitante di una antropologia pessimistica, che finisce per diventare destinale giustificazione del potere, si fa avanti una descrizione rigorosa dei rapporti effettivamente esistenti tra sudditi e poteri politici, e tra i diversi poteri che danno origine allo Stato moderno. Più dell’utopista More, il ‘cinico’ Machiavelli comprende che, all’interno dell’organizzazione statale, la vita di ogni singolo deve essere formata e spesa in funzione della guerra. Più del liberale ed ottimista Locke, il crudo funzionario Hobbes dona ai posteri la consapevolezza del carattere strutturalmente autoritario dello Stato moderno. Portando alle estreme conseguenze le consapevolezze del prudente Kant, Sade rifiuta, infine, ogni sottomissione allo Stato ed insegue l’utopia negativa DE SADE, D. A. F., La di una restituzione della guerra alla Nouvelle Justine, III, dimensione privata, di una realizzazioMilano, Guanda, 1978, p. 221. ne concreta dello stato di natura hobbesiano. 1 2 NIETZSCHE, Friedrich, Genealogia della morale, Milano, Mondadori, 1983, p. 68. 3 NIETZSCHE, Friedrich, Così parlo Zarathustra; Al di là del bene e del male; L’Anticristo, Roma, Newton Compton, 1997, p. 50. 4 NIETZSCHE, Friedrich, Così parlo Zarathustra; Al di là del bene e del male; L’Anticristo, ed. cit., p. 51. 5. Punti di fuga Non uccidere mai più di quello che ti abbisogna. Uccidi soltanto per le tue immediate necessità. Allora ce ne sarà a sufficienza per tutti. (L’alce spirito del lago Perduto, leggenda Wasco) Dopo Sade, la critica aristocratica del 4NIETZSCHE, Friedrich, potere statuale troverà il suo culmine Così parlo Zarathustra; Al in Nietzsche, per il quale ogni presa di là del bene e del male; del potere ha origine da “un atto di L’Anticristo, ed. cit., p. 52. violenza”, e “soltanto con manifesti 5 atti di violenza” viene condotta a termine. Nel suo aristocraticismo senza veli, Nietszche preferisce l’antico Stato schiavista allo Stato moderno, capace di livellare le menti e mercificare ogni rapporto umano. Ma, nei confronti di entrambe queste forme statuali, egli non si concede alcuna illusione moralistica: se nella Genealogia della morale si afferma che “il più antico ‘Stato’ apparve come una spaventevole tirannide, un meccanismo stritolatore e senza scrupoli, e proseguì questa sua opera finché una tale materia grezza di popolo e di semianimalità non soltanto venne finalmente bene impastata e resa cedevole, ma anche dotata di una forma”. Gli esiti ultimi di questo processo, vale a dire, la formazione dello Stato moderno, sono descritti con accenti ancora più drammatici, nello Zarathustra: “Stato si chiama il più freddo di tutti i freddi mostri. Ed è freddo anche nel suo mentire; e dalla sua bocca striscia questa menzogna: ‘Io, lo Stato, sono il popolo (…). Ma lo Stato mente in tutte le lingue del bene e del male; e qualunque cosa dica, mente – e qualunque cosa abbia l’ha rubata”. Esso sa attrarre, confondendole, le “grandi anime”, e nel contempo mobilita intorno a sé coloro che vogliono potenza, “e innanzitutto il grimaldello della potenza, molto denaro”, e tutti “li fagocita e mastica e rimastica”. Perciò, conclude Zarathustra, “là dove lo Stato cessa, là incomincia l’uomo che non è superfluo”. Nei suoi colori più solari, la potenza di cui parla Zarathustra, pur accettando, sul piano individuale e sociale, la possibilità dello scontro violento, appare irriducibile al concetto di potere politico, da Nietzsche stesso delineato. Essa sembra, piuttosto, prefigurare una trasvalutazione della brama di “potere” e di “accumulo” che, secondo Hobbes e Sade, accompagna ogni individuo umano fino alla morte, in ricerca di una potenza liberatoria, cui compete il sapere ridere e far ridere, sorridere e calmare, amare e farsi amare, non meno del saper sfidare e rin- Hobbes, Sade e l’Anarchia... 75 HORNER, Winslow, Otto Campane tuzzare, ribellarsi e reggere lo scontro. Una potenza che aspira al saper dire “sì”, mantenendo indipendenza, non meno che alla forza di difendere e affermare le proprie libertà (Il “no” del leone, nelle tre metamorfosi di cui narra Zarathustra). La critica dello Stato moderno, l’esplicitazione del legame fra Stato e dominio e fra dominio e guerra raggiungono un apice negativo in Nietzsche, che vede nello Stato il potere violentemente separato dalla società e comprende che tale potere si regge, oltre che sulla forza, sull’appiattimento delle menti, sull’“interiorizzazione” della servitù volontaria. Ma il filosofo tedesco restò convinto che la società non potesse sopravvivere senza una rigida gerarchia, senza una minoranza di potenti che la guidi col pugno di ferro, senza che “ogni uomo sia soldato”. Le libertà che altri già reclamavano come diritto di ogni uomo, egli, come Sade, le riconobbe solo all’individuo eccezionale, che sa elevarsi al di sopra della massa e al di là del bene e del male. La servitù dei molti, resta, in questa ottica, un prezzo necessario per realizzare la piena libertà dei più elevati. E come la libertà resta privilegio di pochi, la guerra resta e deve restare mezzo inevitabile per chi ha o brama il potere. Nietzsche, come Sade, si emancipa dall’apologia dello Stato, ma non completamente dall’antropologia hobbesiana, rimanendo convinto che la disposizione alla guerra sia inseparabile dall’uomo, e forse perfino dall’oltreuomo. Con le possibilità di sottoporre a critica e superare questa visione destinale per cui, fuori e dentro lo Stato, gli uomini sembrano condannati alla guerra perpetua ed al governo dei più forti si sono misurati alcuni esponenti del pensiero anarchico, da Kropotkin a Malatesta, da Foucault a Clastres. La loro critica si articola, da un lato, sul piano del progetto sociale, dall’altro, sul piano storico-antropologico. A NIETZSCHE, Friedrich, quest’ultimo, in chiusura del mio artiCosì parlo Zarathustra; Al di là del bene e del male; colo, vorrei rapidamente rivolgere uno L’Anticristo, ed. cit., pp. 35-38. sguardo. 1 CELENTANO, Marco 76 6. Studi sulla “guerra” presso le popolazioni amerinde Bisogna evidenziare l’esistenza di società assai poco oppressive, in cui non ci sono né oppressori né oppressi, ossia non ci sono classi. Sono le società definite “selvagge”. Si è creduto a lungo che queste società avessero capi molto potenti, ma la scienza storica moderna si è resa conto che in esse il capo non aveva realmente autorità. (S. Weil, Lezioni di filosofia, 1933-34) 1 2 HOBBES, Thomas, Leviatano, ed. cit., pp. 102-103. CLASTRES, Pierre, Archeologia della violenza, Roma, Meltemi, 1998, p. 27. Si veda anche CLASTRES, Pierre, La società contro lo Stato, Milano, Feltrinelli, 1977, o, in nuova edizione, Ombre Corte, 2003. In effetti, alcune tra le prime testimonianze, presentavano gli indigeni amerindi come individui totalmente pacifici. Il fatto che, in alcuni casi, le popolazioni native si ribellassero al massacro compiuto dai bianchi, fu sufficiente a far cambiare idea a questi ultimi. Si veda TODOROV, Tristan, La conquista dell’America, Torino, Einaudi, 1984. Hobbes citava, esplicitamente, a sostegno della tesi che equipara la condizione naturale dell’uomo ad una “guerra di tutti contro tutti”, l’esempio degli amerindi: “Si può forse pensare che non vi sia mai stato un tempo e uno stato di guerra come questo, ed io credo che nel mondo non sia mai stato così in generale; ma vi sono molti luoghi ove attualmente si vive in tal modo. Infatti, in molti luoghi d’America i selvaggi, se si esclude il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo e vivono attualmente in quella maniera animalesca di cui ho prima parlato”. A partire dall’inizio della conquista delle Americhe e dell’Africa, il mito del “selvaggio feroce” e guerrafondaio trovò alimento in tutta la cultura europea. Tra i testimoni, diretti e indiretti, dei primi secoli di scoperta e dominazione, salvo poche eccezioni, “sui costumi dei Selvaggi ci fu unanimità. Esploratori o missionari, mercanti o 3 4 CLASTRES, Pierre, Archeologia della violenza, ed. cit. p. 27. LOWIE, R. H., Gli indiani delle pianure, tr. it. Milano, Mondadori, 1999, p.. 122. Si noti che il furto di cavalli poté divenire pratica diffusa, e quindi motivazione per una “guerra” fra tribù, solo dopo l’invasione dei bianchi, perché furono questi ultimi ad introdurre nelle Americhe il cavallo e il suo uso. BERTOLDO, Battaglia viaggiatori eruditi, dal XVI secolo sino al termine (recente) della conquista del mondo, tutti erano d’accordo su di un punto: fossero americani – dall’Alaska alla Terra del Fuoco – o africani, abitassero le steppe siberiane o le isole melanesiane, fossero i nomadi dei deserti australiani o gli agricoltori sedentari delle giungle della Nuova Guinea, i popoli primitivi erano tutti rappresentati come dediti irriducibilmente alla guerra”. “Ed è proprio l’apparente prevalenza della guerra nella vita dei popoli primitivi”, ha scritto Pierre Clastres, “a catturare sin dal primo istante l’attenzione dei teorici della società: così allo stato sociale che è rappresentato per lui dalla società statuale, Thomas Hobbes contrappone l’immagine dell’uomo nella sua condizione naturale – un’immagine non reale ma prodotta dalla logica oppositiva”. Lowie, docente di antropologia all’Università di California, dedicò gran parte dei suoi studi agli indiani delle pianure nordamericane. Egli scriveva in Indians of the Plains (1954): “La condotta di guerra degli Indiani delle Pianure, paragonata con quella dei popoli civilizzati, presenta molti tratti di differenziazione. Non esistevano guerre prolungate, né eserciti organizzati, né ufficiali che conservassero in permanenza il loro grado. L’obiettivo non era mai quello di conquistare un territorio. La vendetta, il furto di cavalli e la sete di gloria erano i motivi principali”. Quella praticata da questi popoli è, dunque, guerra, se la possiamo chiamar tale, senza eserciti, senza gerarchie e senza conquiste. Hobbes, Sade e l’Anarchia... Di questo argomento, l’etnologo Pierre Clastres (1934-1977) si è, in seguito, occupato in maniera approfondita. Egli operò soprattutto in Brasile, studiando le dinamiche della “violenza”, della “guerra” e del “potere” presso i Guayakì, i Guaranì, i Chulupi, popolazioni le cui civiltà erano state quasi totalmente distrutte dall’invasione europea. Nel saggio La società contro lo Stato, scritto prima di intraprendere un decennio di studi in Sudamerica, Clastres aveva sintetizzato il problema da affrontare: “si tratta di comprendere la strana persistenza di un ‘potere’ pressoché impotente, di capi senza autorità”. I risultati di questa ricerca furono raccolti, in parte, in Archéologie de la violence : la guerre dans les sociétés primitives, ricerca che l’autore lasciò incompleta alla sua morte. Clastres ha ulteriormente avvalorato ciò che altri studi, fin dagli anni Trenta, avevano suggerito: varie comunità, originarie delle Americhe, si strutturarono, non come “società senza Stato” o come gruppi pre-statali, secondo un pregiudizio evoluzionistico ed eurocentrico, bensì “come società contro lo Stato”, ovvero società che si erano dotate di specifici dispositivi volti ad impedire la concentrazione dei poteri, e l’accesso al potere di individui e gruppi con spiccate tendenze belliche. Società che insigniscono del titolo di “capo” chi ha prestigio spirituale, chi è ammirato da altri per le sue doti di coraggio o di saggezza, ma non gli conferiscono altro potere se non quello di consigliare, di esprimere un proprio giudizio, di far riaffiorare attraverso simboli gestuali e sonori, una memoria, in momenti cruciali per la comunità. Clastres si opponeva, attraverso questa ricostruzione, contemporaneamente, a due tendenze, allora prevalenti in ambito etnologico: • quella di ascendenza hobbesiana, secondo la quale “una società senza governo e senza stato non è una società” e vivere socialmente signi- 77 • fica, automaticamente, stare “sotto un potere comune”, dotato della forza necessaria a far rispettare le proprie volontà. quella prevalente fra gli antropologi di ispirazione marxista, che manifestavano la tendenza a rimuovere il fenomeno “violenza” e la dimensione “bellica” da ogni discorCLASTRES, Pierre, La socieso sull’umanità “primitiva”, pretà contro lo Stato, ed. cit., pp. sentando, così, un’immagine idea26.27. lizzata dell’umanità, poco attendibile dal punto di vista dell’indagine Si veda CLASTRES, Pierre, storica ed etnografica. Tristezza del guerriero selvag- 1 2 Clastres smarcava entrambe le posizioni, riconoscendo ciò che già uno studio di Maurice Davie, negli anni Trenta, aveva evidenziato: che, salvo rarissime eccezioni, come alcune popolazioni di Eschimesi, “nessuna società primitiva sfugge alla violenza” e a qualche forma di “guerra”. Ma, nel contempo, mostrando che alcune comunità amerinde, proprio perché seppero bloccare il processo di formazione e concentrazione del potere politico, lasciando invece che il potere fosse “diffuso nel corpo sociale” e proprio perché tennero separati potere e attività bellica, riuscirono ad evitare, finché la civiltà dei bianchi non le travolse, quel circolo infernale, quella saldatura micidiale fra Stato e guerra che ha segnato la storia delle istituzioni nel Vecchio Mondo. La critica storica di Foucault, applicata allo studio delle fasi sorgive delle società e degli Stati moderni, e la critica etnologica di Clastres, applicata allo studio delle dinamiche di guerra e di potere preso le popolazioni cosiddette “primitive”, si emancipavano, così, da ogni ottimismo consolatorio nei confronti della “natura umana”, e conducevano a riconoscere alcune connessioni storiche, parziali, ma significative: • Gli studi di Clastres e di altri etnologi hanno mostrato che, mentre il manifestarsi di comportamenti aggressivi intraspecifici, da parte di individui o gruppi, è quasi universalmente diffuso, nel genere uma- gio, in CLASTRES, Pierre, Archeologia della violenza, ed cit. oltre ai testi di Lo3 Siwieveda, e di Clastres, già citati, AA. VV., Potere senza stato, a cura di PASQUINELLI, C., Roma, Editori Riuniti, 1986. 4 Clastres apriva il saggio Archeologia della violenza registrando “la quasi totale assenza di una riflessione generale sulla violenza esercitata nella forma al tempo stesso più brutale e collettiva, più pura e sociale, la guerra” (ed. cit. p. 25). Egli faceva risalire questa mancanza all’influenza esercitata della teoria e dell’impostazione di ricerca di Claude Lévi Strauss, di cui evidenziava alcuni limiti. Clastres riteneva errati sia il modello hobbesiano, che universalizza la violenza, sia quello straussiano che la rimuove o cancella. 5 DAVIE, Maurice, La guerre dans le sociétés primitives, Parigi, Payot, 1931. 6 Per un primo approccio si veda EVANS PRITCHARD, E. E., I Nuer: Un’anarchia ordinata, Milano, Franco Angeli, 1975; EVANS PRITCHARD, E. E., African Political System, London, Oxford University Press, 1970. Nel già citato, AA. VV., Potere senza stato, si veda il saggio di BERNARDI, B., Il potere nelle società acefale; dello stesso autore si può consultare anche I sistemi delle classi di età, Torino, Loescher, 1984. 78 CELENTANO, Marco • no, la tendenza all’accaparramento privato o statale delle risorse ed alla conquista permanente di territori non lo è affatto. La pretesa individuazione di una connessione necessaria fra tendenza aggressiva e brama di accaparramento dei beni materiali e del potere politico, affermata dalle antropologie di matrice hobbesiana e poi rinnovata in chiave evoluzionistica, a partire dall’Ottocento, è, dunque, falsa. Essa rispecchia una saldatura che diventa insostituibile e insuperabile solo all’interno di uno specifico regime economico e politico: quello basato sull’intreccio fra Stato moderno ed economia capitalistica. Molte comunità umane, nel passato e nel presente, hanno basato il loro equilibrio dinamico proprio sulla capacità di separare queste sfere e di rifiutare e inibire le tendenze all’accumulo di beni e di potere. Gli studi storici, cui le ricerche di Foucault hanno dato avvio e impulso, mostrano che, lungi dal costituirne un superamento o una limitazione, la società-Stato, quale si è delineata nel mondo moderno, ha fatto aumentare in maniera esponenziale, la presenza del fenomeno “guerra” ed i suoi effetti oppressivi e distruttivi. Essa ha disposto l’intera vita dei singoli e delle comunità all’interno di due fronti, e in funzione di due ordini di conflitti, la cui esistenza, anche nei periodi di pace apparente, resta consustanziale all’organizzazione statuale: la guerra delle classi dominanti con- • tro le classi e i popoli dominati; la guerra fra gli Stati, e fra le loro classi dirigenti, per l’accaparramento delle risorse umane e naturali del pianeta. Contro quelle antropologie che propongono una gerarchia evolutiva che va dalle “aggressive” e “primitive” società non statuali alle più “evolute” società industriali, nonché contro quelle analisi politiche che individuano nelle moderne società-Stato, e nell’economia di libero scambio, gli unici possibili argini alle tendenze aggressive e cumulative umane, le ricerche di Clastres e Foucault, nei rispettivi ambiti, contribuirono a mostrare che le tendenze all’accentramento del potere, all’accumulo dei beni, alla conquista territoriale, vengono fissate come caratteristiche ineliminabili del comportamento umano e divengono in certa misura inevitabili per ognuno, proprio all’interno del sistema statuale e dei processi di accumulazione capitalistica. La brama di “potere e potere”, che Machiavelli ed Hobbes spostavano nell’inattingibile della natura umana, staticamente intesa, viene esasperata e tende a divenire un comportamento fisso e stereotipo, proprio sotto la pressione selettiva dei meccanismi economici e politici cui si è preteso di affidare il suo superamento. La “guerra di tutti contro tutti” che lo Stato e il Capitale pretendono di azzerare è resa da essi stessi, tendenzialmente, perpetua. GOYA, Francisco, Non C'è Nessuno che lo Soccorra (Disastri della guerra) - particolare 79 Amedeo Spagnuolo Il Totalitarismo Politico, il Totalitarismo Tecnologico e la Guerra Permanente Premessa Dopo il terribile attentato alle Twin Towers il mondo intero sembra ormai stretto nell’implacabile morsa guerra/ terrorismo. La tragedia di New York ha accelerato enormemente un processo cominciato ormai da tempo volto a dar vita ad un governo autoritario del mondo guidato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. L’obiettivo è quello di controllare con la forza l’economia globale in modo da continuare a tenere in una situazione di sfruttamento e di povertà il Sud del mondo e, allo stesso tempo, garantire il benessere economico dell’Occidente e, come dicevamo prima, dei suoi alleati vecchi e nuovi. Questa nuova Santa Alleanza ha tra i suoi obiettivi quello di colpire l’unico movimento, quello cosiddetto “antiglobalizzazione”, che seriamente può opporsi all’infame progetto di cui sopra. Nell’economia globale autoritaria si assiste alla riduzione dell’uomo a cosa, alla sua oggettivazione. L’uomo è ormai diventato un ingranaggio all’interno della società tecnologica contemporanea che deve garantire esclusivamente l’efficienza del sistema senza porsi alcuna domanda sulle conseguenze del suo operato. Più concretamente si può dire che il manager, ma anche l’operaio di una fabbrica di mine non sono tenuti a porsi il problema di quanti bambini salteranno in aria sugli ordigni da essi prodotti: manager ed operai non sono più soggetti, bensì oggetti che, come le macchine, devono garantire la qualità della produzione. Quando comincia tutto questo? Proveremo a dare una risposta partendo dal sistema totalitario inaugurato dalla Germania nazista. In quel terribile contesto il totalitarismo nazista è stato capace di ridurre l’uomo a cosa e questa oggettivazione dell’uomo è stata realizzata su due livelli. Il primo relativo ai nemici esterni del nazismo: sono ben noti gli atti di crudeltà commessi durante la seconda guerra mondiale dall’esercito tedesco. L’altro livello riguarda, invece, i nemici interni: ebrei, zingari, comunisti, omosessuali ecc. Proprio a questo livello si comprende meglio la terribile eredità lasciata dalla Germania nazista al mondo contemporaneo. Nei campi di sterminio e negli uffici dei vari ministeri tedeschi i burocrati come Eichmann non si posero assolutamente il problema delle terribili conseguenze determinate dalle loro azioni, perché il loro unico problema era l’efficienza: portare a termine il compito che era stato loro assegnato a qualunque costo e nel miglior modo possibile. Gli ebrei nel sistema nazista vengono disumanizzati e trasformati in cose pericolose da eliminare. La società tecnologicototalitaria contemporanea segue la stessa logica: prima di tutto la produzione, se poi, quello che si produce provoca effetti terribili, questo, riguarda esclusivamente chi quegli effetti li subisce. Dal Totalitarismo Politico al Totalitarismo Tecnologico Nel 1937 i professori universitari tedeschi con moglie ebrea furono costretti ad abbandonare l‘università. Tra questi c‘era Karl Jaspers che emigrò in SvizAttualmente in difficoltà in Italia, ma ancora ben presente zera; rientrerà in patria solo a guerra e forte nel resto del mondo. finita e terrà una serie di lezioni che 1 80 SPAGNUOLO, Amedeo avranno come oggetto: “La situazione spirituale della Germania - La questione della colpa” (semestre invernale 1945/46). Queste bellissime lezioni sono raccolte in un libro intitolato La questione della colpa che ha un sottotitolo molto esplicito: sulla responsabilità politica della Germania. In questo testo Jaspers delinea il concetto di colpa metafisica: i tedeschi sono colpevoli in quanto hanno lasciato che venissero compiuti nei confronti dei propri simili (ebrei, omosessuali, comunisti, zingari etc.) orrendi crimini, la vera colpa, dunque, è di essere ancora in vita nonostante questa gravissima responsabilità: La colpa metafisica consiste nel venir meno a quell’assoluta solidarietà con l’uomo in quanto uomo. è una pretesa incancellabile, anche quando le esigenze ragionevoli della morale sono già cessate. Questa solidarietà viene lesa quando io mi trovo a essere presente là dove si commettono ingiustizie e delitti. Non basta che io metta a rischio con ogni cautela la mia vita per impedirli. Una volta che quel male ha avuto luogo e io mi sono trovato presente e sopravvivo, dove un altro viene ucciso, in me parla una voce che mi dice che la mia colpa è di essere ancora vivo. 1 JASPERS, Karl, La questione della colpa, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996. 2 3 JASPERS, Karl, La questione della colpa, op. cit., p 73. KANT, Immanuel, Fondazione della metafisica dei costumi, Milano, Rusconi, 1994, p. 155. 4 ANDERS, Gunther, Noi figli di Eichmann, Firenze, La Giuntina, 1995. In questo passaggio viene messo in risalto il cinico atteggiamento della stragrande maggioranza della popolazione tedesca che durante il nazismo assecondò con indifferenza e, a volte, con sadica partecipazione lo sterminio progettato dalla lucida follia di Hitler e dei suoi inquietanti collaboratori. La maggiore responsabilità dei nazisti non risiede, però, nella loro crudeltà; questa, purtroppo, è una componente che ha accompagnato sempre l'’uomo nelle sue vicende storiche; l‘aspetto più inquietante del nazismo è quello che riguarda il tentativo radicale e cosciente di trasformare l‘uomo da soggetto ad oggetto, ossia di averlo ridotto intenzionalmente a cosa, contravvenendo a quel principio fondamentale espresso in maniera esemplare già da Kant secondo il quale, “l’uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo”. La tesi fondamentale espressa da Jaspers nel suo libro è che la moderna società tecnologica ha ereditato tutto ciò, trasformando all‘interno della sua attività produttiva l‘uomo in cosa. Nei campi di sterminio nazista domina il culto dell‘efficienza: non è importante quante persone muoiano, è importante che questo accada nel minor tempo possibile e nel modo più efficace. Si sviluppa un’atroce mentalità manageriale per la quale i carnefici sviluppano un pensiero a breve scadenza, in altri termini non ci si pone il problema della conseguenze della propria azione. Gunther Anders nel suo libro Noi figli di Eichmann sostiene che possiamo considerarci figli del criminale nazista in quanto nella moderna società tecnologica operiamo come elementi di un ingranaggio, così come accadeva durante il nazismo nel quale il burocrate Eichmann massacrava migliaia di persone senza battere ciglio in quanto appartenente appunto a quell’apparato di distruzione. Il nazismo, insomma, ha creato quell’orribile discrepanza tra la nostra illimitata capacità di produzione e la nostra limitata capacità di percepire le conseguenze terribili di quella produzione. Coinvolti totalmente nel processo produttivo, gli uomini d’oggi hanno perso completamente la capacità di riflettere su quelle che saranno le conseguenze del proprio lavoro su migliaia di uomini che saranno destinati a subire gli effetti di quella cieca attività produttiva finalizzata esclusivamente ad aumentare il profitto di pochi privilegiati. Nella moderna società tecnologica questo accade, ad esempio, nella fabbriche d’armi o di mine antiuomo nelle quali tutti, dall’operaio al manager, non sono capaci più di prevedere le nefaste conseguenze del loro lavoro. In altri termini, Jaspers afferma che l’enorme potenza della tecnica usura la capacità previsionale dell‘uomo. La soluzione proposta da Jaspers ai problemi suindicati è la seguente: bisogna prendere coscienza delle conse- Totalitarismo Politico Totalitarismo Tecnologico Guerra Permanente guenze del nostro agire, è necessario portare sullo stesso livello il progresso tecnico e la capacità di riflettere sulle sue conseguenze. La moderna società tecnologica deve fornirsi di tutti quegli strumenti etici utili a realizzare ciò, la produzione non può escludere la riflessione sulle conseguenze che essa può determinare sugli uomini e sull’ ambiente. Il profitto, insomma, non può più essere considerato l’unico parametro di riferimento di tutti coloro che hanno la responsabilità di guidare l‘attività produttiva nei diversi paesi del mondo. Totalitarismo ed Oggettivazione dell'Uomo Per comprendere meglio il processo che porta il totalitarismo politico ad oggettivare l’uomo, è bene richiamare alla mente le penetranti osservazioni che Hannah Arendt sviluppa nella sua opera fondamentale: Le origini del totalitarismo. In questo libro la filosofa afferma che con il totalitarismo l’uomo dà vita per la prima volta ad un meccanismo politico mostruoso che si distacca nettamente dalle altre forme di governo autoritario che si erano sviluppate in precedenza. Dice, infatti, Arendt che il totalitarismo è essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura. Dovunque è giunto al potere, esso ha creato istituzioni assolutamente nuove e distrutto tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse, sostituito il sistema dei partiti non con la dittatura del partito unico, ma con un movimento di massa, trasferito il centro del potere dall‘esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio del mondo. Quando i sistemi monopartitici, da cui esso si è sviluppato, sono diventati veramente totalitari, hanno cominciato ad operare secondo una scala di valori così radicalmente diversa da ogni altra che nessuna delle categorie tradizio- 81 nali, giuridiche, morali o del buon senso, poteva più servire per giudicare, o prevedere, la loro azione. La differenza fondamentale tra il totalitarismo e le monarchie e le dittature che lo avevano preceduto, sta nel fatto che esso si sviluppa su tre capisaldi fondamentali: la volontà del capo, l’ideologia e il terrore. Colui che guida lo stato totalitario impone la sua volontà attraverso i dogmi ideologici del suo movimento politico che si arroga il diritto di indicare la strada da seguire in quanto unico depositario della verità che procurerà al proprio popolo la vittoria finale e la gloria. In questo contesto, il popolo si affida completamente alla volontà del capo, mentre nel caso di coloro che si rifiutassero di delegare al capo la propria volontà politica, subentrerebbe immediatamente il terrore con i suoi metodi molto persuasivi. L’aspetto più interessante della riflessione della Arendt, relativamente al problema che si sta affrontando in questo articolo, riguarda il concetto di estraneazione dell’individuo rispetto all’attività politica. In un sistema totalitario, infatti, l’individuo viene completamente privato delle sue facoltà critiche riguardanti le libere scelte politiche; egli, dopo il lavaggio mentale dell’ideologia totalitaria e i convincenti metodi di persuasione del terrore, viene trasformato in un automa obbediente e allo stesso tempo indifferente ai crimini commessi nei confronti dei suoi simili. La stessa obbedienza e indifferenza che caratterizza la società tecnologica contemporanea che cerca appunto d’inserire nel suo ciclo produttivo degli uomini – automi che non si pongano troppe domande sulle conseguenze derivanti dalla propria cieca obbedienza. 1 ARENDT, Hannah, Le origini del totalitarismo, Tecnologia ed Etica Torino, Edizioni di Comunità, 1999. della Responsabilità 2 ARENDT, Hannah, Le Un’altra voce autorevole che si è eorigini del totalitarismo, spressa relativamente ai problemi tipici op. cit., p. 630. 82 SPAGNUOLO, Amedeo della moderna società tecnologica è quella di Hans Jonas che, nel suo libro Il principio responsabilità. ha delineato con estrema chiarezza i rischi insiti in uno sviluppo non controllato della scienza e della tecnologia. La tesi centrale esposta nell’opera di Jonas sostiene la necessità di sviluppare una nuova etica per la moderna società tecnologica in quanto, per la prima volta nella storia dell’uomo, si è giunti ad un livello di sviluppo tecnologico talmente vasto da mettere in pericolo l‘esistenza del mondo intero. L’uomo con le sue terrificanti armi e con il suo mostruoso apparato produttivo sta mettendo in forse l’esistenza del mondo. Data questa situazione si rende necessaria la realizzazione di un’etica che si fondi principalmente sul concetto di responsabilità: la tecnica moderna ha introdotto azioni, oggetti e conseguenze di dimensioni così nuove che l’ambito dell’etica tradizionale non è più in grado di abbracciarli. Il Coro dell’Antigone sull’“enormità“, sulla stupefacente potenza dell’uomo, oggi, nel segno di un’enormità di tutt’altro tipo, dovrebbe acquistare un altro significato; e l’ammonimento rivolto al singolo di onorare le leggi non sarebbe più sufficiente. Anche gli dei, il cui invocato diritto poteva arginare il corso rovinoso dell’azione umana, sono da tempo scomparsi. Certo, le antiche norme dell’etica del “prossimo” – le norme di giustizia, misericordia, onestà ecc. – continuano ad essere valide, nella loro intrinseca immediatezza, per la sfera più prossima, quotidiana, dell’interazione umana. Ma questa sfera è oscurata dal crescere di quella dell’agire collettivo, nella quale l’attore, l’azione e l’effetto non sono più gli stessi: ed essa, a causa dell‘enormità delle sue forze, impone all’etica una nuova dimensione della responsabilità, mai prima immaginata. 1 JONAS, Hans, Il principio responsabilità, Torino, Einaudi, 1993. Non è più possibile continuare a produrre senza tener conto delle conseguenze che tale attività sta determinanJONAS, Hans, Il principio do sull’ambiente circostante. Bisogna responsabilizzarsi nel senso di preserresponsabilità, op. cit., p. 10. vare questo mondo in modo che posJONAS, Hans, Il principio sano goderne anche i nostri figli e niresponsabilità, op. cit., p. 55. poti; l’atteggiamento egoistico che ha 2 3 dominato fino a questo punto le società capitaliste non può più essere sostenuto, la natura non è il patrimonio di una parte di umanità, ma dell’umanità intera. Jonas non intende certo affermare la necessità di un blocco del progresso scientifico e tecnologico: l’attività produttiva dell‘uomo, però, deve essere portata avanti con cautela, bisogna sempre tener presenti i principi etici che si rifanno al concetto della responsabilità nei confronti delle generazioni future: anche per l’etica della responsabilità verso il futuro, di cui siamo alla ricerca in questa sede, vale quindi la distinzione kantiana, riferita all’etica della sincronicità, fra imperativo ipotetico e imperativo categorico. Quello ipotetico (di cui esistono molte varianti) suona: se in futuro ci saranno degli uomini – il che dipende dalla nostra paternità - allora varranno nei loro confronti questi e quei doveri che dobbiamo osservare in anticipo (...); l’imperativo categorico impone invece semplicemente che ci siano degli uomini, con l‘accento posto in egual misura sul che e sul che cosa del dover esistere. Per me, lo confesso, questo imperativo è l’unico per il quale valga veramente la determinazione kantiana del categorico, ossia dell‘assoluto. Ma poiché il suo principio non è, come per quello kantiano, l’autocoerenza della ragione che si dà leggi di condotta, cioè un’idea di azione (di cui si presupponga l’accadere in una forma o nell’altra), bensì l’idea (riposante sull’esistenza del suo contenuto) di possibili attori, che in quanto tale è un’idea ontologica, un’idea dell’essere, ne consegue che il primo principio di “un’etica del futuro” non è insito nell’etica stessa in quanto dottrina dell’azione (nella quale rientrano del resto tutti i doveri verso i posteri), ma nella metafisica in quanto dottrina dell’essere (di cui l’idea dell‘uomo costituisce una parte). Riepilogando possiamo, dunque, affermare che il sistema totalitario nazista, oltre che dar vita ad una mostruosa macchina di sterminio e di dominio, ci ha lasciato una triste eredità che sta producendo i suoi nefasti effetti oggi. La moderna società tecnologica si è strutturata in maniera tale da indurre gli uomini impe- 83 Totalitarismo Politico Totalitarismo Tecnologico Guerra Permanente CRALI, Tommaso, Aerocaccia II. gnati nel processo produttivo a diventare degli automi che hanno perso completamente la capacità critica volta a considerare gli effetti causati dal proprio lavoro sull’uomo e sull’ambiente circostante. Arendt ci ha permesso di comprendere meglio come si realizza tecnicamente questo asservimento dell’uomo nello stato totalitario attraverso tre diabolici strumenti fondamentali: la volontà del capo, l’indottrinamento ideologico ed il terrore. Grazie a queste illuminanti analisi non ci appare più impossibile un ritorno ad un tale sistema politico di dominio psicologico e materiale: questo ci deve indurre ad organizzare tutte le contromisure necessarie affinché ciò non accada. Infine, con Jonas, è stato posto l’accento sulla necessità di dar vita ad una nuova etica della responsabilità per arginare i pericoli insiti nell’attività propria della moderna società tecnologica, pericoli che abbiamo elencato in precedenza, ma che Jonas ha sintetizzato nel rischio che il genere umano sta correndo relativamente alla sua sopravvivenza. Guerra Permanente Fino a questo punto si è affrontato il problema del totalitarismo, politico e tecnologico, e delle sue nefaste conseguenze sul mondo attuale. Esso però per alimentarsi ha bisogno di un altro elemento fondamentale, che è stato definito stato di guerra permanente. Abbiamo iniziato parlando del nuovo progetto politico che hanno in mente i governanti americani relativamente all‘instaurazione di un sistema autoritario nel quale gli Stati Uniti assumerebbero la posizione prevalente e determinante. Lo scopo principale di questo nuovo governo mondiale, lo ribadiamo è quello di governare i processi di globalizzazione in atto in tutto il mondo in una prospettiva omologante, insomma affermare l’idea che si possa dar vita ad una società mondiale appiattita sugli stessi gusti commercial, formata da una moltitudine di consumatori incoscienti che abbiano come unico obiettivo quello di consumare le merci prodotte dalle industrie americane, per di più senza porsi domande sulle disastrose conseguenze di una produzione e di un consumo dissenna- 1 Si tratta di un progetto esplicito e non di un semplice dato di fatto: vedi AA. VV., Project for the New American Century (PNAC). Numerose traduzioni di questo documento dei neocons attualmente al governo degli Stati Uniti sono presenti in rete. 84 SPAGNUOLO, Amedeo to per quanto riguarda la salute dell’uomo e dell’ambiente. Detto questo, però, resta da chiarire il nesso tra la società tecnologica totalitaria moderna ed il concetto di guerra permanente. In parte il fatto è stato spiegato in precedenza: qualsiasi sistema totalitario, sia politico sia tecnologico (nel senso chiarito in precedenza) ha bisogno, per alimentarsi e per essere metabolizzato dalla popolazione di uno Stato, di una mobilitazione continua, bisogna indurre nella popolazione la convinzione che qualsiasi ribellione nei confronti della società tecnologica potrebbe sancire la sconfitta della propria nazione e addirittura della propria civiltà, questo perché, appunto, c’è un nemico di fronte a noi che dobbiamo assolutamente combattere e distruggere, In questo modo si riesce a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal vero nemico, che è poi un nemico interno e s’incarna nelle classi dominanti e nell’autoritarismo tipico delle moderne società tec- 1 BAUDRILLARD, Jean, Power Inferno, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003. BAJ, Enrico, Generale nologiche, prima fra tutte quella statunitense. Il nemico di turno del governo statunitense, oggi, può essere la resistenza irachena e l’Islam in generale, ma dopo ne verranno altri perché solo in questo modo si potrà giustificare l’atteggiamento autoritario ed aggressivo che caratterizza l’attuale politica estera degli USA. Parafrasando alcuni concetti presenti nell’ultima opera di Jean Baudrillard intitolata Power Inferno, possiamo dire che gli americani, dopo l’11 settembre, continuano ad esercitare una forza che usa questa immane tragedia come giustificazione ideologica, la cui potenza si alimenta della propria condizione di vittima, vera o presunta. Così facendo essi continuano a cercare il male altrove, invece di scovarlo in se stessi. Il male infatti, nasce fondamentalmente dall’incapacità di concepire l’altro da sé, di riuscire ad accettare sistemi che si differenzino in qualche modo dal mitico modello neoliberista. 85 Italo Nobile Guerra, Marxismo, Non Violenza Premessa terminologica Violenza — Aggressione da parte di un soggetto consistente nell’attacco fisico verso un altro soggetto o nella violazione dei diritti di quest’ultimo. Guerra — Forma del conflitto collettivo (tra Stati o più generalmente tra gruppi che rivendicano a sé un’autorità politica) che si esercita attraverso la violenza organizzata (in genere il conflitto armato). Guerra e filosofia Ancora oggi, 150 anni dopo Marx, il rapporto della filosofia con la guerra e la violenza rimane ambiguo, metaforico, dilettantesco. Da un lato, l’estensione almeno formale dei diritti e quella più concreta dei bisogni espandono l’ambito semantico del termine “violenza”. L’ambiguità della filosofia sta però nel considerare tale espansione già avvenuta ad infinitum e nel considerare tutte le forme di violenza sullo stesso piano, concorrendo così ad accrescere la violenza materiale, che, mimetizzandosi in un’indistinta ed onniabbracciante violenza della filosofia, guadagna quasi credibilità come forma schietta e viscerale, priva di qualsiasi ipocrita copertura, di quest’ultima. Emanuele Severino, ad es., subordinando la condanna della guerra alla detenzione della verità finisce per • Suggerire di nuovo la vecchia metafora eraclitea della guerra come metafora della stessa esistenza materiale. • Ridurre tutta la violenza a guerra. • Considerare la lotta che la civiltà fa alla violenza come violenza essa stessa. • Considerare ogni tipo ed ogni tentativo di dialogo come logo e dunque come violenza. • Concludere che “vita”, “pace” e “rispetto del prossimo” non differiscono nella loro essenza da “morte”, “guerra” e “violenza”. Come si vede, la procedura concettuale della coincidentia oppositorum ad infinitum, uno dei cardini della metafisica e dell’ontologia, viene utilizzata per dissolvere criteri di valutazione pratica che avrebbero avuto miglior sorte se si fosse partiti da prospettive più modeste e circoscritte, invece di scomodare la potenza di fuoco dell’Assoluto filosofico per annientare un affare umano… troppo umano. Del resto anche la strategia di Gianni Vattimo, che considera la verità non come il presupposto della condanna della violenza, ma come l’idea che invece favorisce la violenza stessa, compie il medesimo errore, cioè quello di pensare che dall’ontologia e dalle sue antinomie si possa dedurre un’etica, per cui ha comunque bisogno di togliere l’Assoluto (e fare così metafisica…) perché si possa delineare un’etica umana qualsiasi… debole che dir si voglia. Un altro tipo di guerra? Non meno avventati sembrano essere alcuni studi che vorrebbero individuare nei conflitti recenti una prova del fatto che la guerra sta radicalmente cambiando volto. Mary Kaldor, SEVERINO, Emanuele, La prendendo ad esempio le guerre in guerra, Milano, Rizzoli, Ruanda ed in Bosnia Erzegovina, teo- 1992, pp. 50-88. rizza che la guerra non sia più monoVATTIMO, Gianni, “Metapolio degli Stati nazionali. Quando fisica, violenza, secolarizzaperò affronta la prevedibile e sensata zione”, in Filosofia 86, Romaobiezione che trattasi di guerre civili, Bari, Laterza, 1987, pp. 71-94. nel rifiutare tale equivalenza riduce le “guerre civili” a “guerre locali”. Anche KALDOR, Mary, Le nuove guerre, Roma, Carocci, 1999. in questo caso l’enfasi sulla novità del- 1 2 3 86 1 ECO, Umberto, “Guerra diffusa”, in l’Espresso, 12 settembre 2002, pp. 44-50. 2 Per Prima Guerra del Golfo si intende qui la guerra del 1991 tra Usa (più Europa) ed Iraq e non la precedente guerra tra Iraq ed Iran. 3 GALLI, Carlo, La guerra globale, Roma-Bari, Laterza, 2002. Per una rassegna di casi che 4 mettono in questione categorie consolidate vedi KEEGAN, John, La grande storia della guerra, Milano, Mondatori, 1994. 5 LENIN, Vladimir Il’ic, L’ Imperialismo, fase suprema del capitalismo, Roma, Editori riuniti, 1974. p. 128. NOBILE, Italo l’evento ha come costo una definizione troppo povera delle categorie già note e degli eventi passati. Umberto Eco, invece, parla prima di neo-guerra (dove l’informazione invade il fronte riportando tutto all’opinione pubblica e mediatica mondiale) e poi di guerra diffusa (quella scatenata da Osama bin Laden e che non avrebbe fronte né possibilità di contrapposizione netta). Egli confonde la spettacolarizzazione mediatica di una guerra sin troppo certa nei suoi esiti con una vera trasparenza informativa (quando invece altri analisti concluderanno che, con la prima guerra del Golfo, il free flow of informations che aveva caratterizzato la guerra in Vietnam è stato solo apparente). Inoltre, pur denunciando l’inanità della risposta Usa all’attentato delle due torri, non ha nessun dubbio sul fatto che la guerra in Afghanistan sia una risposta all’attentato (che sarebbe dunque un atto di guerra) e non un conflitto del tutto autonomo, con specifici obiettivi strategici. Infine Carlo Galli sostiene (in parte analogamente ad Eco) che la globalizzazione rivoluziona le categorie della guerra e perciò anche della politica (la frontiera, il nemico, il telos dell’azione politica, ecc.). In realtà Galli sembra intendere per categorie della politica quelle elaborate da Karl Schmitt, per cui la sua meraviglia dinanzi al nuovo è forse un tantino provinciale… Queste analisi trascurano il fatto che le guerre sono difficilmente raggruppabili in una tipologia ed inoltre il fatto che si riferiscano a tre casi diversi (Prima guerra del Golfo, guerra bosniaca, attentato dell’11 Settembre) fa pensare al fatto che qualcuno interpreta il termine inglese news in maniera sin troppo letterale. Guerra e marxismo Per non sorprenderci troppo spesso e parlare di svolte epocali ad ogni apertura di giornale, ci rifaremo ad una tradizione cognitiva e politica che è quella marxista. Per questa tradizione le guerre come tutti i fenomeni storico-sociali sono storicamente determinate ed ognuna con la sua specificità, sono fortemente interrelate con la dimensione sociale ed economica della storia (da cui non si può prescindere) ed esigono una risposta politica di volta in volta appropriata. Queste premesse ci devono già rendere diffidenti verso l’utilizzo metaforico e generico di categorie filosofiche all’interno di analisi concrete fatte nel corso del dibattito pubblico. Tuttavia è possibile, con categorie marxiste, tentare di realizzare un’ipotesi complessiva sulle guerre del XX secolo e di questo scorcio di inizio millennio. Molte guerre del XX secolo sono legate a doppio filo con quello che si definisce imperialismo e cioè la fase del modo capitalistico di produzione (sorta negli ultimi decenni del XIX secolo) in cui: • Vi è una forte concentrazione della produzione e del capitale con conseguente formazione di monopoli. • Vi è una fusione del capitale bancario con il capitale industriale a formare il capitale finanziario con una sua oligarchia. • Una grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci. • La piena ripartizione del mondo tra le maggiori potenze capitalistiche. La guerra è lo sbocco necessario di questa spartizione, di questo conflitto tra potenze militari che supportano i capitali nazionali in via d’espansione. Il colonialismo e la prima guerra mondiale sono esempi da manuale della teoria di Lenin. La rivoluzione d’Ottobre e l’ascesa del nazismo in Germania riportano lo scenario mondiale in una situazione più inedita e difficile da analizzare: da un lato sembra di trovarsi di fronte all’alleanza di un paese teso verso la transizione al socialismo con la parte meno reazionaria dello schieramento capitalistico contro una dittatura terro- 87 Guerra, Marxismo e Non Violenza ristica aperta agli elementi più imperialistici del capitale finanziario. Eppure questa interpretazione è quanto meno incompleta e va integrata da un’analisi dell’esperienza sovietica che tenga conto della tesi che considera l’URSS un capitalismo di stato (o come in Charles Bettelheim, un capitalismo di partito): in questo modo anche la Seconda Guerra Mondiale potrebbe rientrare all’interno dei conflitti interimperialistici. La Guerra Fredda condusse ad una situazione ancora diversa: la sostanziale equivalenza militare tra i due blocchi e la presenza dell’atomica, costringeva a spostare in maniera permanente lo scenario del conflitto intercapitalistico in quello che verrà poi chiamato Terzo Mondo (si pensi alle guerre di Corea e Vietnam, alle guerre di liberazione coloniale ed a quelle in Medio Oriente). D’altro canto in livelli alti dello sviluppo capitalistico il compromesso tra capitale e frange della classe operaia europea ed americana (compromesso raggiunto con la lotta di classe, permesso dallo sviluppo imperialistico e garantito dalla potenza sovietica) dava origine al cosiddetto Welfare/Warfare State. La possibilità che uno Stato funzionale all’accumulazione capitalistica potesse realizzare il plusvalore attraverso anche e soprattutto la spesa militare fu intuita da Rosa Luxemburg ed elaborata più compiutamente da Michal Kalecki, Questa tesi però diventa famosa (sempre dopo la denuncia di Eisenhower) con Baran e Sweezy, per i quali nel capitalismo monopolistico si manifesta la tendenza crescente a produrre più plusvalore di quanto possa trovare convenienti sbocchi di investimento: negli anni del conflitto coreano venne presa la decisione di fare della produzione bellica una permanente caratteristica dell’economia americana. Baran e Sweezy nel loro scritto esprimono anche dubbi sull’efficacia della spesa militare come strumento di stimolo all’economia: la sempre nuova tecnologia di guerra non consentirebbe infatti un grande incremento occupazionale né un’ulte- riore espansione della spesa e dei consumi. I due autori riescono anche a prevedere lucidamente che comunque gli Usa avrebbero continuato ad effettuare spese militari a prescindere dalle emergenze e intuirono l’importanza, nonostante le apparenze, delle armi convenzionali (che in versioni raffinate sono state protagoniste nella Prima Guerra del Golfo). C’è da dire però che pur riconoscendo i limiti denunciati da Baran e Sweezy, tuttavia la spesa militare: • Svolge pur sempre una funzione di stimolo in periodi di recessione, anche se non risolutiva. • La parte del bilancio militare dedicata alle forniture, poiché versata in anticipo, favorisce gli investimenti privati dei fornitori stessi. • Incrementando la domanda di materie prime e semilavorati, incrementa gli investimenti delle industrie civili. • Consente comunque al mercato di consumo di assorbire il plusprodotto incorporato nella massa del plusvalore medesimo. Il crollo dell’Urss inaugura una fase di monopolarismo debole ad egemonia Usa che consente al capitale, venuti meno i vincoli della semiperiferia “socialista”, di circolare liberamente nel mondo. Accanto alla spesa militare di tipo keynesiano già descritta, si affianca l’intervento bellico effettivo (che per più di 10 anni, dal 1975 al 1986 era stato del tutto inibito, tranne il catastrofico tentativo in Iran), con la prima Guerra del golfo; l’intervento imperialistico in senso proprio riacquista incidenza; gli Usa riprendono più apertamente la loro guerra (al momento indiretta) con la nascente Europa ed un Giappone all’inizio del proprio rallentamento economico. La seconda Guerra del golfo, che si sta preparando in questi mesi, concilia • sia il tentativo di stimolare keynesianamente l’economia attraverso la spesa militare, • sia l’obiettivo di controllare il prezzo del petrolio, attraverso il controllo di giacimenti e circuiti di di- 1 DIMITROV, Georgij, “L’offensiva del fascismo e i compiti dell’IC nella lotta per l’unità della classe operaia contro il fascismo”, in SACCOMANI, Edda (a cura di), Le interpretazioni sociologiche del fascismo, Torino, Loescher, 1977 pp. 135-139. 2 GRILLI, Liliana, Amadeo Bordiga: capitalismo sovietico e comunismo, Milano, La Pietra, 1982, pp. 36-37. 3 Anche se risultò utopica l’alternativa Socialismo o morte; per questo vedi CORTESI, Luigi, Le armi della critica, Napoli, Cuen, 1991, pp. 43-62. 4 O’CONNOR, James, La crisi fiscale dello Stato, Torino, Einaudi, 1979, pp. 170-181. 5 LUXEMBURG, Rosa, L’accumulazione del capitale, Torino, Einaudi, 1968, p. 455. 6 CHILOSI, Alberto, “Introduzione” a KALECKI, Michal, Sul capitalismo contemporaneo, Roma, Editori Riuniti, 1975 pp. XI-XIII. 7 BARAN, Paul A., e SWEEZY, Paul M., Il capitale monopolistico,Torino, Einaudi, 1968, pp. 151-183. Clarence Y.H., “Le 8 LO, contrastanti funzioni della spesa militare Usa”, in AA.VV., Stato e accumulazione del capitale, Milano, Mazzotta, 1977, pp. 212-235. 9 CIUFO, Angelo, Crisi economica e Guerra del golfo, Pescara, Tracce, 1991, pp. 61-62. 88 NOBILE, Italo stribuzione e raffinazione del greggio, • sia il tentativo di mettere in difficoltà strategica ed economica i paesi europei ed il Giappone. Comunque il ricorso frequente alla guerra non è per gli Usa un dato solo positivo, ma anche il segnale di una difficoltà, quella degli Stati nazionali di controllare un processo capitalistico di produzione ormai transazionale. Marxismo, pacifismo e nonviolenza 1 AA.VV., Il gioco del capitale, Napoli, Lavorincorso, 2002, pp. 65-86. 2 CARARO, Sergio, “Union Sacreè contro il terrorismo o nuova forma delle contraddizioni imperialistiche?”, in AA.VV., Il mondo dopo Manhattan, Napoli, Città del Sole, 2002, pp. 32-41. 3 GRAZIANI, Augusto, “Un mondo globalizzato”, in l’ Ernesto, Cremona, Settembre/ Ottobre 2002 pp. 63-67. Madeleine, 4 REBERIOUX, “Il dibattito sulla guerra”, in AA.VV., Storia del marxismo, Torino, Einaudi, 1979, vol. II, pp. 897-935. 5 LENIN, Vladimir, Il’ic, “La guerra e la socialdemocrazia russa”, in LENIN, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1965, pp. 541-547. Il movimento operaio ha sempre combattuto contro la guerra, memore delle dichiarazioni fatte nel 1870 da Marx, secondo il quale la pace era la legge internazionale della società nuova, in quanto il lavoro ne era la legge nazionale. Tuttavia il presupposto di questa lotta non era per la tradizione marxista un pacifismo ingenuo (o ipocrita) e idealistico, ma il frutto di un’analisi e di una strategia che fu Lenin allo scoppio della Prima Guerra mondiale a chiarire articolatamente: bisognava trasformare la guerra imperialistica in guerra civile ed approfittare della guerra stessa per dare corpo a processi rivoluzionari. Come si vede si tratta semplicemente di portare la violenza al livello giusto ed opportuno per gli interessi della classe lavoratrice, non di pensare di allontanare guerra e violenza dalla storia. In realtà nonviolenza e marxismo appartengono ad universi di discorso molto diversi ed anche il tentativo di mediazione concettuale più interessante non tiene conto che il problema nel marxismo è alla fonte e consiste nel fatto se sia possibile inserire una dimen- sione etica nella prassi rivoluzionaria, senza ritornare a forme di socialismo utopistico. È comunque positivo il fatto che spesso, nel movimento pacifista, la tradizione marxista e quella nonviolenta abbiano lavorato fianco a fianco e questo ha creato un clima comune basato su concrete e quotidiane pratiche di lotta. Da un lato è plausibile credere che nei paesi dove la repressione del dissenso sia meno brutale, le pratiche nonviolente conquisteranno uno spazio crescente (anche se l’esperienza di Gandhi stesso, dei buddisti in Indocina e dei kosovari nella prima fase della loro lotta possono essere basi per più ambiziose speranze future). Al tempo stesso tali pratiche dovranno essere una variante all’interno di un ventaglio di opzioni che, pur tenendo presente la nonviolenza come ideale regolativo, comprenderanno pragmaticamente anche momenti di lotta cruenta quanto meno difensiva, ma soprattutto l’adattamento delle modalità di lotta alle circostanze storiche presenti in quella situazione. Infine perché nel marxismo si instauri il germoglio della nonviolenza ci vogliono essenzialmente due condizioni: • La crisi del sistema capitalistico deve essere talmente forte che la resistenza alla repressione possa essere vincente anche partendo da una forte asimmetria militare a favore degli avversari. • La fine del modo capitalistico di produzione, non essendo automaticamente l’instaurazione del socialismo, dovrà motivare la sussistenza di un problema di legittimazione e di consenso che qualifichi i processi politici successivi in senso pacifico e democratico, tali cioè da incoraggiare pratiche nonviolente di regolazione dei conflitti. 6 PONTARA, Giuliano, Antigone o Creonte, Roma, Editori Riuniti, 1990, pp. 75-119. 7 Per una discussione su tali pratiche GALTUNG, Johan, Gandhi oggi, Torino, ANONIMO, La Battaglia di Alessandro contro Darioi