La guerra - Progetto Fahrenheit

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La guerra - Progetto Fahrenheit
Editoriale
Se le Bombe Possono Far Pensare
Parafrasiamo, un po’ liberamente, Julian Beck. Se le bombe non possono far pensare, come può farlo la Filosofia? Se la lunga linea di
corpi lacerati prodotta dall’intera storia non può insegnare, come può
farlo la Filosofia? Se le grida inquietanti delle voci incenerite di tanta
popolazione del nostro tempo, le convulsioni del carro bestiame che
ondeggia avanti ed indietro, torturati da scariche elettriche, povertà,
disperazione psicologica, violenze, incapacità d’amare, crepe della famiglia, demonologia politica, idioti al timone, rovina dopo rovina,
ognuno di noi trascinato come il corpo di Ettore intorno alla città in
fiamme in segno di sconfitta, tutta la gloria trasformata in letame, se
l’angoscia accumulata della storia nella sua tragedia senza pari non
può far pensare, come può farlo una rivista di Filosofia?
In passato alla guerra si riconosceva una sua, tremenda sacralità:
ogni fase aveva le sue forme rituali, dalla dichiarazione alla pace. La
Filosofia è nata in un tentativo di desacralizzazione del mondo – un
processo interrotto e ben lungi dal compiersi. Anche il superamento
della guerra, come forma di relazione intraspecifica, è stato un tema
ricorrente della tradizione filosofica – e non a caso: anche se non è
stata sempre all’altezza di questo compito, è stata in questa tradizione
culturale che l’umanità ha individuato e si è proposta di superare la
logica ferina ed irrazionale della volontà di potere.
In ogni caso, quest’appello di PORTA DI MASSA – Laboratorio Autogestito di Filosofia... è stato quello che ha riscosso il
maggior numero di consensi, di articoli proposti, di articoli portati a termine, al punto tale che siamo stati costretti a fare, sul tema
“guerra” non uno ma ben due numeri. In questo numero, il secondo, si accompagna alla serie di saggi della rivista la raccolta dei
pezzi giornalistici di Karl Marx scritti nei primi due anni della
Guerra di Secessione Americana.
Infine, ancora una volta, un ricordo per Toni Ferro, artista e docente di scenografia all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro (di cui
era stato per quasi un ventennio il Direttore), morto pochi mesi prima del primo numero di questa rivista dedicato al tema guerra. Protagonista del sessantotto napoletano (e non solo) nonché della sua
scena culturale, è stato vicino negli ultimi anni all’esperienza di PORTA DI MASSA – Laboratorio Autogestito di Filosofia... e tutti noi lo
ricordiamo con estremo affetto. Questo numero è dedicato a lui ed
alla sua esperienza di uomo di cultura e pacifista militante.
2
P
orta di Massa – Laboratorio
Autogestito di Filosofia... costituisce un momento comunitario di
lavoro collettivo e di confronto tematico – un “laboratorio” – in vista di
un rinnovamento extraistituzionale
del dibattito e della ricerca filosofica.
Il progetto parte da alcune constatazioni. Innanzitutto, uno stato sociale di marginalità culturale delle
discipline filosofiche trova oggi riflesso nella cultura che di esse si occupa in modo specialistico, in una
forma di autocomprensione della
Filosofia, che tende a racchiudere le
attività filosofiche nel circolo delle
attività solitarie della riflessione, della
lettura e della scrittura, e a circoscrivere il loro momento pubblico nei
luoghi, istituzionalmente predisposti,
dell’insegnamento scolastico/
universitario e del convegno tra esperti. Ora, ciò che rischia di andare
perduto e/o occultato in queste immagini della Filosofia è proprio una
caratteristica che è stata matrice essenziale per la nascita stessa di questa
disciplina. Tale caratteristica va individuata nella pretesa della Filosofia
di essere una modalità di partecipazione diretta alle forme di comprensione dell’essere e della vita sociale,
nonché di revoca di quel consenso
che viene concesso, per autorità di
rivelazione o di tradizione, per timore della forza o per invidia, ai poteri
culturali e politici vigenti.
Il progetto di Porta di Massa –
Laboratorio Autogestito di Filosofia... è volto perciò alla costruzione
di un lavoro di ricerca non elitario ed
esoterico, ma che riscopra invece
quel ruolo sociale che la Filosofia
aveva all’atto della sua nascita e che
ne ha caratterizzato i suoi momenti
più fecondi. L’obiettivo è quello di
mostrare come la Filosofia possegga
la capacità di parlare in modo razionale e sensato, di offrire, in altre parole, validi momenti di riflessione ed
elaborazione di categorie e compor-
tamenti culturali, sui nodi cruciali dei
vari e diversi campi dell’esperienza
umana.
Al di là di ciò, non esiste una
“linea” culturale prefissata della pubblicazione, il che la rende simile ad
una sorta di matematico insieme di
Cantor: come questo, essa è definita
in modo esclusivo dai suoi elementi,
in altre parole dai testi che di volta in
volta, numero per numero, costituiranno l’ossatura del dibattito e del
lavoro collettivo. D’altronde la redazione stessa è costituita da persone
provenienti da esperienze culturali e
politiche eterogenee, che ritrovano
nell’autogestione culturale – in una
forma e non in un contenuto – il loro punto di incontro.
Scrivere su Porta di Massa – Laboratorio Autogestito di Filosofia...
significa, pertanto, riaffermare la volontà di mantenere uno spazio aperto
e totalmente autogestito di discussione e di dibattito. Ciò, ovviamente,
non implica affatto la corresponsabilità reciproca degli indirizzi d’indagine. Il ruolo e la responsabilità del
dibattito redazionale e, in ultima istanza, quello del direttore sono limitati perciò, nella piena libertà di indirizzi culturali dei singoli, alla garanzia
nei confronti del lettore della correttezza scientifica dei materiali presentati alla sua attenzione.
D’altro canto, la vita umana associata, nell’esperienza di ciascuno di
noi, è colma d’inutili sofferenze ed
irrazionalità, che rimandano ad una
riflessione sui meccanismi del loro
superamento. La rivista che avete tra
le mani, nei suoi limiti, è pertanto
anche un esperimento utopico: è il
tentativo di mostrare la possibilità di
fare Filosofia e, in generale, Scienza
in un luogo che non è quello degli
spazi istituzionali, attraverso un’esperienza redazionale comunitaria e libertaria che si pone come alternativa
alle gerarchie culturali e politiche della Filosofia ridotta a sapere morto ed
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istituzionalizzato, a mero “genere
letterario”.
La particolarità della rivista – ciò
che la rende un “laboratorio” – consiste in un particolare metodo di lavoro redazionale. La redazione è
composta, numero per numero, da
chi propone un articolo su una determinata parola-chiave: si può trattare
di chi partecipa in maniera fissa alla
redazione, così come di chi dà il suo
contributo solo per quello specifico
numero. In entrambi i casi, chi presenta un articolo s’impegna contestualmente a partecipare al lavoro
redazionale, che si svolge secondo
un’ottica comunitaria. In altri termini, non è possibile consegnare il proprio contributo e basta: chi presenta
un articolo s’impegna a leggere quelli
di tutti gli altri partecipanti al numero
ed a fornire loro spunti critici, nei
limiti ovviamente delle conoscenze
e/o possibilità di ognuno.
Il lavoro redazionale, inoltre, è
sottoposto ad una norma generale: in
linea di principio, non va criticata
l’idea di base, l’opzione culturale di
fondo del singolo, ma esclusivamente la sua espressione scientifica. Questo significa che chi si ritrova a leggere un contributo di cui non condivide l’impostazione di base, deve fare
lo sforzo concettuale di entrare all’interno di quelle idee – che possono
essere estremamente distanti dalle
sue – e pensare come queste stesse
idee potrebbero essere espresse con
maggiore incisività e coerenza logica.
Tale meccanismo fa sì che il collettivo redazionale si sostenga vicendevolmente in un’ottica libertaria, senza
cioè censurare in alcun modo le peculiarità concettuali dei singoli, ma, al
contrario, arricchire le sue potenzialità espressive. Questo, ovviamente,
cum grano salis: il ruolo del Comitato di Redazione e, in ultima istanza,
del Direttore Responsabile, consiste
anche nell’individuare quelle opzioni
culturali che appaiono loro irrimediabilmente contraddittorie e garantire,
quindi, il lettore della correttezza
scientifica dei materiali che, alla fine,
sono presentati alla sua attenzione.
Si tratta, evidentemente, di un
meccanismo redazionale coerente
con il tentativo di porsi al di fuori dei
luoghi e delle gerarchie del sapere
istituzionalizzato. La parola-chiave
serve da spunto per aprire un ricco
dibattito collettivo, che si sviluppa in
numerose riunioni redazionali, le
quali non hanno lo scopo di giungere
a definire una “linea” alla quale i redattori devono sottostare, bensì alla
presentazione di un ventaglio di proposte di ricerca diversificate, volte ad
offrire al lettore i problemi, i risultati, le ambiguità connesse al tentativo
di dare conto, secondo ragione, almeno parzialmente, degli svariati
mondi che una determinata parola ha
il dono di offrire alla riflessione degli
esseri umani.
Parallelamente a questo tipo di
lavoro redazionale, il collettivo lavora anche intorno all’edizione di un
“classico” della storia del pensiero
filosofico, congruente con la parola
chiave prescelta, che viene allegato
alla rivista. Il collettivo redazionale
lavora poi anche sul territorio, nel
tentativo di riportare il pensiero
concettuale nell’agorà, offrendo soprattutto al di fuori dei luoghi deputati istituzionalmente alla ricerca filosofica, numerosi spazi di conoscenza, di confronto e di dibattito.
Quest’ultimo genere d’attività è riuscito a coinvolgere centinaia di persone, mentre la stessa, più impegnativa, attività redazionale di
“laboratorio” è riuscita comunque
ad attrarre in questi anni l’attenzione
di decine di persone. Negli ultimi
tempi, inoltre, si sta cercando di esportare il progetto culturale sotteso
alla rivista anche al di fuori della città di Napoli, in cui questa esperienza
è nata e si è radicata. Lo strumento
principe che si utilizza al momento è
www.portadimassa.net, WEB-TV (e
non solo) di Filosofia.
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BECKMANN, Max, La Notte (particolare)
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Karl Marx
La Guerra
di Secessione Americana
Articoli scritti per Die Presse
(1861-1862)
Saggio introduttivo
“La Riflessione di Marx sulla Guerra di Secessione Americana”
e note al testo
di Enrico Voccia
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DIX, Otto, Il Cannone
7
Enrico Voccia
L a Riflessione di Marx sulla
Guerra di Secessione Americana
La Guerra di Secessione
Americana e la Questione
della Schiavitù
La Guerra di Secessione Americana,
detta anche Guerra Civile Americana,
iniziò il 12 aprile 1861 e terminò il 26
maggio (o il 6 novembre, se consideriamo la guerra sui mari) 1865 fra gli
Stati Uniti d'America e gli Stati Confederati d'America (CSA), entità politica
sorta dalla riunione confederale di Stati secessionisti dall'Unione (USA).
Questo a grandi linee, in quanto la reale composizione delle entità contrapposte non solo fu molto più complessa, ma subì notevoli modificazioni nel
corso del conflitto: si verificò persino
il caso di due Stati che per un certo
tempo appartennero formalmente ad
ambedue le entità politiche. Altri Stati,
inoltre, dichiararono inizialmente la
loro neutralità, anche se poi le vicende
del conflitto finirono per coinvolgerli
ugualmente. Vi è infine da ricordare
come numerose formazioni di volontari provenienti dagli Stati dell’Unione
abbiano combattuto nei ranghi confederati e viceversa, in base a motivazioni di natura ideologica che li portavano al “tradimento” delle Federazioni
di appartenenza.
La guerra in questione colpì moltissimo l’opinione pubblica del tempo,
per tre motivi fondamentali. Innanzitutto, si trattava della prima guerra
dove si vedevano all’opera – su larga
scala e per un periodo di tempo considerevole – le nuove dinamiche della
guerra conseguenti alle innovazioni
tecnologiche conseguenti alla Rivoluzione Industriale, che si dispiegarono
poi pienamente nella Prima Guerra
Mondiale. Poi, le potenze europee fu-
rono ripetutamente tentate di intervenirvi – a favore dell’una o dell’altra
delle due parti, secondo diverse considerazioni di carattere geopolitico –
rischiando di allargare il conflitto a
livello mondiale: solo lo sviluppo di un
forte movimento pacifista internazionale, sorretto soprattutto dal movimento operaio e socialista, ma anche
da determinate correnti di borghesia
“progressista”, impedì il disastro.
Infine, la Guerra di Secessione Americana aveva, davanti e dietro di sé, come una delle cause scatenanti e come
sottofondo ideologico, una questione
che dilaniava le coscienze a livello internazionale: la legittimità o meno, il
mantenimento o l’abrogazione, dell’istituto giuridico della schiavitù.
Negli Stati Uniti, fin dai suoi inizi, la
schiavitù influenzò fortemente lo sviluppo del suo sistema politico ed economico, non solo nell'aspetto maggiormente conosciuto della produzione
agricola, ma, agli inizi, anche per ciò
che concerne il settore industriale. Agli
inizi dell'Ottocento, dopo che la produzione industriale aveva abbandonato il
sistema schiavistico causa il maggior
vantaggio, in termini di “flessibilità”,
del lavoratore “libero”, la società americana si divise tra favorevoli e contrari
alla schiavitù, oramai diffusa solo come
manodopera a basso costo per la produzione agricola negli stati del Sud. Iniziò una tendenza di pensiero che riteneva inevitabile per questa istituzione
una progressiva estinzione di pari passo
con lo sviluppo socio-economico degli
Stati Uniti: l’argomento, comunque, per
anni rimase un tema su cui le forze politiche del paese difficilmente avevano
interesse a confrontarsi.
Negli Stati del Nord industrializzati
dove la schiavitù era già stata abolita,
1
Nell'uso comune ma anche
nella vasta letteratura dedicata a questa guerra ci si riferisce
ai contendenti con diverse espressioni:
• Unione, Unionisti, Nord,
Nordisti, Giacche Azzurre,
Federali o Yankees per gli
Stati Uniti;
• Confederazione, Confederati,
Sud, Sudisti, Secessionisti,
Ribelli, Dixies o Gentiluomini del Profondo Sud per gli
Stati Confederati.
2
Di questo movimento v’è
una traccia negli articoli di
Marx che qui presentiamo: vedi,
in particolare, “Un’Assemblea
Filoamericana”.
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VOCCIA, Enrico
gli schiavi fuggitivi erano accolti ed
impiegati nell'industria come manodopera a basso costo. Nel sud del paese,
che manteneva prevalenti scambi economici con la Gran Bretagna, lo schiavismo era ritenuto indispensabile al
sostentamento e allo sviluppo del modello di sistema economico, in cui la
produzione agricola dipende da coltivazioni quali cotone, canna da zucchero e tabacco. I milioni di schiavi neri
creavano una situazione concorrenziale
con analoghe produzioni nel resto del
mondo ove la schiavitù non era praticata. L'arricchimento dei proprietari
terrieri era proporzionale anche alle
risorse di schiavi disponibili, e nel contempo la loro ricchezza fu alla base del
loro potere politico non solo nel Sud
ma anche nel resto del paese. I principali personaggi politici – deputati, senatori e presidenti – furono spesso essi
stessi proprietari di numerosi schiavi.
D’altronde, la cosa valeva anche per
molti “Padri Fondatori” della nazione.
La questione della schiavitù dovette
essere affrontata quando l’espansione
territoriale degli Stati Uniti pose le questioni relative all’ammissione di nuovi
Stati: il dibattito sull’abolizione dello
schiavismo si radicalizzò gradatamente.
Da una parte, al Nord, i gruppi abolizionisti si organizzarono dapprima come Gruppi dell'Impero Filantropico,
successivamente in molti altri gruppi di
pressione politica e di azione sociale
diretta, volta allo scopo di organizzare
la fuga degli schiavi. Al Sud, invece,
oltre ad atteggiamenti assai violenti nei
confronti dei neri e degli “amici dei
neri”, la classe politica, espressione dei
grandi proprietari terrieri, sviluppò un
pensiero politico che legittimava lo
schiavismo a partire dai fondamenti
giuridici della stessa Costituzione degli
Stati Uniti d’America. I sudisti utilizzarono la Corte Suprema, che giunse a
legittimare l’idea che la Costituzione
valeva solo per una categoria di esseri
umani, i bianchi americani, precisando
che non era stata scritta per “i neri,
schiavi o liberi che fossero”.
Partiti antischiavisti come il Liberty
Party e il Free Soil Party costituirono
una novità nel sistema politico americano perché per la prima volta uno dei
due schieramenti diede luogo a partiti
politici apertamente antischiavisti, ma è
solo a partire dalla metà del XIX secolo
che lo scontro sullo schiavismo genera
due partiti internamente strutturati su
base sezionale che divisero di conseguenza anche il paese in due blocchi tali
da compromettere la stessa unità della
federazione. Da una parte gli abolizionisti nel Partito Repubblicano a Nord
(nelle cui file confluirono i resti dei partiti antischiavisti), dall’altra gli schiavisti
al Sud in quella parte del partito Democratico divisosi in modo insanabile nel
1860 tra la fazione del senatore Douglass (che non condannava apertamente
la schiavitù e demandava alla sovranità
popolare il compito di decidere in ogni
Stato l’eventuale abolizione della schiavitù) e i democratici del sud favorevoli
ad una legislazione federale complessivamente schiavista. Il Nord, inoltre, era
protezionista, volto verso un mercato
interno ed animato, in parte, da principi
egualitari, mentre il Sud da parte sua era
liberoscambista, orientato verso l'Europa per le sue esportazioni di materie
prime (cotone, tessili), mosso da uno
“spirito di tradizione”.
La questione, nel suo complesso, fu
largamente dibattuta all’interno dei giornali e periodici dell’epoca. Die Presse
vide numerosi interventi di un esule
tedesco a Londra, legato alle esperienze
del movimento operaio e socialista, che
rispondeva al nome di Karl Marx, che,
sia pure all’interno di un taglio
“giornalistico”, affrontò la questione
partendo da un’impostazione speculativa di carattere generale che gli era caratteristica e che aveva oramai completamente sviluppato già da tempo.
La “Filosofia della
Storia” di Karl Marx
“Filosofia della Storia”, riferito al pensiero di Karl Marx, è un termine che
forse non tutti accetteranno, ma che
qui, comunque, intendiamo nel senso
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La Riflessione di Marx sulla Guerra di Secessione Americana
delle riflessioni metacognitive sul divenire delle vicende storico-sociali della
specie umana. Questa parte maggiormente speculativa del pensiero di Karl
Marx è stata definita, già nella prima
metà del Novecento, “Materialismo
Storico-Dialettico”. Questa definizione venne ripresa dalle varie Accademie
dei paesi a regime marxista, divenne
tipica dei vari opuscoli e testi editi direttamente da esse o, negli altri paesi,
da autori che vi facevano riferimento.
Ebbe un notevole successo negli anni
che videro la massima potenza dei paesi del “socialismo reale”, mentre oggi,
con la decadenza di questi, gode di un
certo discredito: porta con se, infatti, il
ricordo di un’interpretazione burocratica e dogmatica del marxismo. La storia empirica di un concetto (nonostante la confusione odierna.) non ne
inficia però l’eventuale validità. Ci
sembra, infatti, che se si vuole introdurre il nucleo essenziale dell’interpretazione marxista delle vicende storicosociali dell’umanità, il concetto di
“Materialismo Storico-Dialettico”, per
definire la complessiva concezione di
Karl Marx, sia ancora utile. Pertanto,
lo utilizzeremo, cominciando a dare
un senso preciso ad ognuno di questi
tre termini.
MATERIALISMO. Esiste una tradizione filosofica materialistica ben prima di Marx: essa consiste, a grandi
linee, nella negazione dell’esistenza
della sostanza spirituale in quanto tale,
nella riduzione dei vari prodotti della
mente (e la mente stessa) ad epifenomeno della materia e, in particolare,
del corpo umano e, ancora più in particolare, del cervello. Marx denomina
queste forme di materialismo come
“materialismo volgare”: non perché
non vi si riconosca in linea di principio, ma in quanto egli ha elaborato un
concetto di “materialismo” diverso,
incentrato non sulla questione mente/
corpo bensì sulla caratteristica peculiare dei rapporti sociali.
Faremo qualche esempio per spiegarci. Prendiamo un paesaggio di
montagna nelle Alpi: ci troviamo di
fronte ad esso e vorremmo passare
dall’altra parte. Le montagne sono alte,
massiccie, e, nella loro materialità, ci
pongono un grosso problema al suo
attraversamento. Dovremo cercare un
valico o tornare indietro fino a che
non troviamo un mezzo di trasporto
che ci permetta di passare oltre.
Ripassiamo dopo alcuni anni e tutto sembra più facile: hanno costruito
un traforo in una montagna ed ora
possiamo passare con la nostra motocicletta, giungendo in pochi minuti
dall’altra parte. C’è solo il piccolo ingombro di una sbarra, ma la nostra
motocicletta è stretta e possiamo facilmente farla passare lateralmente.
Invece no: tutto è diventato molto
più difficile di prima. Quella piccola
sbarra ci blocca il passo molto più della gigantesca montagna. È il segno dell’instaurazione di un confine: siamo di
fronte ad una relazione umana, ad un
rapporto sociale. Di lato della sbarra ci
sono persone – le Guardie di Confine
– che, se cercassimo di passare oltre
senza alcun permesso (un permesso
che si chiama “passaporto”, che loro
devono ritenere in regola con la legge)
ci sequestrerebbero e ci ucciderebbero
persino se cercassimo di sfuggirgli.
Non solo possono sequestrarci e ucciderci, ma se lo facessero nessun giudice li condannerà. Probabilmente verrebbero anche elogiate e fors’anche
premiate per aver compiuto egregiamente il loro dovere.
Passiamo ora ad un paesaggio marino. Il Mediterraneo da sempre unisce i
luoghi che vi si affacciano. Un tempo,
traversarlo era un’impresa e chi si accingeva a farlo, spesso, prima di partire, faceva testamento: era, con le tecnologie antiche e medievali, molto più
difficile e pericoloso da attraversare di
una montagna. Oggi, con le nuove
tecnologie del trasporto marittimo,
traversarlo è una banalità: ci si avvia
anche con condizioni di mare che, un
tempo, avrebbero ucciso i marinai delle migliori navi.
Non ci sono nemmeno sbarre, per
mare. Chiunque lo attraversi, lo trova
materialmente libero da ogni parte.
1
Per una critica approfondita
a tale confusione, vedi –
all’interno di una rivalutazione
della Filosofia “forte” contro
l’irrazionalismo dominante come
“principio dell’opinione pubblica”, HÖSLE, Vittorio,
“Questioni di Fondazione dell’Idealismo Oggettivo”, in HÖSLE,
Vittorio, Hegel e la Fondazione
dell’Idealismo Oggettivo, Milano, Guerini ed Associati, 1991,
pp. 13-69.
VOCCIA, Enrico
10
Eppure, il rapporto sociale che si chiama “nazionalità” riporta i navigatori
che non hanno ricevuto il “permesso
di soggiorno” alle condizioni di un
tempo: se avessero qualcosa da lasciare, farebbero anch’essi testamento come un tempo prima di partire. Non
possono utilizzare le tratte normali e
devono affidarsi alle “carrette del mare”, rischiando, come un tempo, la
vita. Per loro le nuove tecnologie del
trasporto è come non esistessero.
Il senso del materialismo di Marx è
qui: nella vita concreta degli individui,
la materialità dei rapporti sociali è
fortissima e, spesso, supera gli stessi
impedimenti materiali in senso stretto.
Un simile materialismo – legato alla
materialità dei rapporti sociali – è
quello che Marx ha elaborato: un materialismo che implica l’analisi delle
forze sociali che dirigono, condizionano, ingabbiano la vita degli individui.
In un certo senso, che li costruiscono
in quanto tali, partendo dal momento
della loro nascita che avviene sempre e
comunque in ben determinati rapporti
storico-sociali.
1
2
Vedi, p. e., EISLER, Riane,
Il Calice e la Spada, Milano,
Frassinelli, 2006.
Il punto più noto, benché
assai sintetico, è all’inizio di
“Borghesi e Proletari”, il capitolo
iniziale del celebre Manifesto del
Partito Comunista.
STORICO. La catena delle Alpi ed il
Mar Mediterraneo sono lì da decine di
millenni. Certo, sono cambiati anch’essi, ma i ritmi del loro cambiamento
superano di gran lunga quelli delle vicende storiche e persino preistoriche
umane. L’homo sapiens sapiens esiste,
forse, anche da duecentomila anni. Un
tempo che ci sembra enorme, ma per
il paesaggio alpino e per il Mediterraneo sono quasi stati un soffio dall’oggi
al domani. Per le frontiere, invece, no.
Fino a diecimila anni fa, l’uomo era
nomade ed esse non esistevano. Anche nei primi cinquemila anni di stanzialità successivi alla Rivoluzione Agricola, pare non ci siano stati problemi
di frontiere e di nazionalità. Quel peculiare rapporto umano che si chiama
“appartenere ad una nazione” è nato
con la formazione, cinquemila anni fa,
dei primi Stati. Da allora, una lunga
storia di guerre ha portato i confini e
le nazionalità ad essere una cosa labile,
quasi parole scritte sulla sabbia. I
“confini sacri ed inviolabili” sono stati,
tutti, profanati e violati. Anzi, sono
pressoché tutti distrutti e scomparsi,
dando vita a quelli attuali.
Ma ciò non accade solo per le frontiere: accade per leggi, forme di stato,
strutture economiche, religioni, ecc. I
tempi della materialità dei rapporti
sociali, in genere, sono tempi storici,
molto più rapidi, in genere, dei tempi
della natura inorganica. La materialità
dei rapporti sociali ne implica, costitutivamente, la storicità.
DIALETTICO. Il termine
“dialettico” deriva dal greco dialeghein: legare insieme. Ogni evento
del mondo non è mai slegato dal resto,
non si può vivere in una “torre d’avorio”. Non si può non nel senso che
non è giusto farlo, ma che proprio è
impossibile da fare. Di conseguenza,
dal punto di vista della conoscenza
scientifica, è impossibile capire quale
sarà lo sviluppo di un materialistico
rapporto storico-sociale focalizzandosi
esclusivamente su di esso.
Torniamo all’esempio delle nostre
frontiere. Esse servono a separare,
mantenere una distanza fra due
“nazioni”, impedire le “contaminazioni”. Se ci concentrassimo solo su di
esse, potremmo pensare che la loro
esistenza cristallizzerà in eterno la distanza “nazionale” che sanciscono. Ma
le frontiere non esistono nel vuoto: la
loro azione di separazione si riversa
sul resto dei rapporti sociali ed innesca
reazioni complesse, dagli esiti spesso
paradossali.
Le tante piccole frontiere interne
medievali, di fronte allo svilupparsi
delle prime forme della borghesia
commerciale, hanno, in questo contesto, innescato un movimento che ha
portato alla nascita degli stati nazionali
moderni. Si tratta di un fenomeno che
è analizzato dallo stesso Marx. In
tempi più recenti, le frontiere alpine,
nell’immediato secondo dopoguerra,
con la loro presenza separante Stati
che avevano combattuto una guerra
sanguinosa, barbarica e terminata nel
La riflessione di Marx sulla Guerra di Secessione Americana
terrore nucleare, hanno, in questo
contesto, dato forza ad un movimento
politico che ha portato alla loro scomparsa.
Una concezione dialettica – come
quella di Marx – dei rapporti sociali
invita a cercare ed analizzare con attenzione le interazioni tra i fenomeni
ed a non lasciarsi prendere da definizioni ideologiche che tendono a sancire l’immobilità delle relazioni storicosociali, a farci credere, insomma, alla
loro sacralità.
U
n altro punto chiave della riflessione speculativa di Marx sulle
vicende storico-sociali è la distinzione
tra “Struttura” e “Sovrastruttura”.
Un essere umano è estremamente
devoto alla sua religione: vi si dedica
completamente, ha organizzato tutta la
sua esistenza intorno ad essa. Un altro
è dedito alla ricerca scientifica: è per
lui sia una professione sia una passione. Un altro ancora è un politico: è
convinto delle sue idee e vuole tradurle in un apparato legislativo. Un altro
ancora è un romanziere: racconta con
le parole storie inventate ma significative, che toccano i sentimenti. Ognuno
di questi è dedito ad un’attività intellettuale diversa, ma hanno qualcosa in
comune: vivono in una società dotata
di una struttura economica che produce un surplus di beni di sussistenza. Se
la struttura economica in cui vivono
non fosse in grado di farli vivere senza
lavorare intorno alla produzione di
beni e servizi, non potrebbero dedicarsi alle loro attività – in questo senso –
sovrastrutturali.
Insomma, per Marx la Struttura –
la forma della produzione materiale
dell’esistenza – condiziona ogni altra
forma dei rapporti storico-sociali umani che “si elevano” necessariamente
sopra di essi – sono in altri termini
Sovrastrutturali. Questo non implica
necessariamente – anche se non sempre Marx è chiaro su questo punto –
che una forma sovrastrutturale, una
volta creatasi, non abbia una sua autonomia e possa giungere anche a retro-
agire dialetticamente con la struttura,
determinandola a sua volta. Per esempio, una legge può condizionare certamente le forme della produzione materiale dell’esistenza. Ma alla struttura
resta comunque il ruolo di “principio
motore” dell’intero sistema storicosociale: d’altronde, mentre su di una
struttura in grado di produrre un surplus di beni di sussistenza si possono
formare innumerevoli forme sovrastrutturali, non può avvenire il contrario: le forme della produzione materiale dell’esistenza non possono variare all’infinito, sono ristrette, di fatto, in
pochi schemi base, su cui la sovrastruttura ha un campo d’azione assai
limitato.
Insomma, per Marx la struttura –
la forma della produzione materiale
dell’esistenza – condiziona ogni altra
forma dei rapporti storico-sociali umani che “si elevano” necessariamente
sopra di essi – sono in altri termini
sovrastrutturali.
concezioni di Marx del diveQ ueste
nire storico, in sé, sono dati oggettivi, difficilmente contestabili in
linea generale. Nel caso della distinzione Struttura-Sovrastruttura, però, credo che Marx commetta un errore di
valutazione, restringendo la forma Stato, sempre e comunque, ad una semplice forma sovrastrutturale. Andrebbe, infatti, effettuata una distinzione
tra forme di produzione paritarie e
forme di produzione gerarchiche.
Queste ultime si caratterizzano per
una distribuzione ineguale dei beni
prodotti: la maggior parte della popolazione – le classi subalterne – lavora
ma il prodotto della loro attività è quasi per intero depredato dalle minoritarie classi dominanti.
Le società schiavistiche, feudali,
capitalistiche sono di questo tipo. In
una simile condizione, il monopolio
della forza armata, della decisione politica, delle strutture educative e degli
strumenti di propaganda non possono
essere considerate sovrastrutturali.
Senza questo imperium, infatti, la
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VOCCIA, Enrico
struttura produttiva non potrebbe reggersi. Lo Stato, insomma, è il fondamento strutturale delle forme di produzione gerarchiche – capitalismo
compreso, nonostante le finzioni ideologiche del “libero mercato”, del
“predominio della “società” civile.
In qualche modo Marx ci sembra anch’esso vittima di queste finzioni ideologiche: la sua sottovalutazione della
funzione strutturale dello Stato – ben
visibile in alcune sue indicazioni politiche come la “fase di transizione” statale ad una società senza classi e senza
Stato – ne sono il risultato. Da questo
punto di vista, altre tradizioni del movimento operaio e socialista – con cui
Marx entrò in polemica proprio su
questo punto – sembrano, specie oggi,
essere state più accorte ed andrebbero
rivisitate con maggiore attenzione.
Gli articoli di Marx sulla
Guerra di Secessione
Americana
Gli articoli che qui presentiamo sono
stati scritti da Marx durante i primi
due anni della Guerra di Secessione
Americana. Lo scontro tra gli interessi
particolari dei diversi Stati della momentaneamente ex Unione, l’ambiguità dell’atteggiamento della Gran Bretagna ed i vari infingimenti ideologici
1
Vedi, p. e., le dettagliate
analisi presenti in LOSURDO, Domenico, Controstoria
del Liberalismo, Bari-Roma, Laterza, 2005.
ROUSSEAU, Henry, Gli Artiglieri
dietro i quali nasconde la sua simpatia
per gli Stati schiavisti, la simpatia popolare verso il nord a causa delle sue
posizioni antischiaviste, l’analisi degli
eventi bellici e la previsione della vittoria dell’Unione: alla luce dei parametri
interpretativi che gli sono tipici e che
abbiamo appena descritto e commentato, compaiono, sotto la sua penna,
per i lettori di Die Presse, i dati chiave
dell’evento che si svolge.
L’analisi di Marx, sia pure nei limiti
“giornalistici”, è lucida e stringente,
salvo che in un punto: la sua simpatia
per le posizioni antischiaviste del
Nord lo porta a leggere in maniera
eccessivamente idealistica la figura e le
posizioni politiche di Lincoln, del Partito Repubblicano e, in generale, dell’Unione degli Stati del Nord. Oggi
abbiamo informazioni probabilmente
migliori delle sue che ci permettono
analisi più specifiche e meno oleografiche; va detto, però, che all’epoca dei
fatti, era assai più difficile di oggi controllare i dettagli delle notizie. Nel
complesso, comunque, gli articoli di
Marx sono probabilmente quanto di
meglio all’epoca esistesse per comprendere un evento bellico che prefigurava, sotto molti punti di vista, le
disastrose novità che la Rivoluzione
Industriale stava per inserire nelle dinamiche belliche che il dominio dell’uomo sull’uomo impone alla stragrande maggioranza dell’umanità.
13
Karl Marx
L a Guerra di Secessione Americana
Crisi per la questione della schiavitù
Die Presse, 11 dicembre 1861
Londra, 10 dicembre 1861
Indubbiamente gli Stati Uniti hanno
raggiunto un punto critico nella questione che sta alla radice di tutta la
guerra civile: la questione della schiavitù. Il generale Frèmont è stato destituito dalle sue funzioni perché aveva dichiarato liberi gli schiavi appartenenti
ai ribelli. Poco tempo dopo il governo
di Washington ha reso note le istruzioni impartite al generale Sherman – capo del corpo di spedizione nella Carolina Meridionale. In base a tali istruzioni, che vanno più in là del proclama di
Frèmont, gli schiavi fuggiaschi, anche
quelli appartenenti agli schiavisti lealisti, dovranno esser equiparati a lavoratori salariati e, in certe condizioni, dovranno essere armati; in tal caso, i proprietari “lealisti” si consoleranno alla
prospettiva di ricevere in futuro un
adeguato indennizzo. Il colonnello
Cochrane si spinge anche oltre Frèmont e reclama l’armamento generale
degli schiavi come misura bellica. Il
segretario alla Guerra Cameron ha dato l’approvazione ufficiale allo
“spirito” delle proposte di Cochrane.
Nel frattempo, il segretario agli Interni smentisce per conto del governo
le dichiarazioni del segretario alla
Guerra. Quest’ultimo ribadisce la sua
“opinione” con energia ed enfasi ancora maggiori in una conferenza ufficiale, ed afferma di voler dibattere la
questione in una comunicazione al
Congresso. Il generale Halleck, succes-
sore di Frèmont sul fronte del Missouri, e il generale Dix nella Virginia orientale cacciano gli schiavi fuggiaschi
dagli accampamenti dell’esercito e
proibiscono loro di riapparire in futuro in prossimità delle posizioni occupate dall’esercito. Contemporaneamente, comunque, il generale Wool
accoglie a braccia aperte il “contrabbando nero” a Forte Monroe. I vecchi
capi del Partito democratico, i senatori
Dickinson e Crosswell (ex membri
della cosiddetta reggenza democratica)
approvano l’operato di Cochrane e
Cameron, mentre nel Kansas il colonnello Jennison scavalca tutti i suoi superiori e predecessori facendo un discorso alle sue truppe, in cui dichiara
fra l’altro:
Nessuna esitazione nei confronti dei ribelli e di chi parteggia per loro (...) Ho dichiarato al generale Frèmont che non avrei impugnato le armi, se avessi creduto
che lo schiavismo sarebbe sopravvissuto
anche dopo la guerra. Gli schiavi che appartenevano ai ribelli continuano a cercare
rifugio nel nostro accampamento e noi li
difenderemo fino all’estremo, fino all’ultimo uomo e all’ultima cartuccia. Non voglio nelle mie truppe uomini che non siano abolizionisti; non vi è posto per loro,
ed io spero che non ve ne siano affatto,
poiché sappiamo tutti che la questione
della schiavitù è alla radice di questa guerra maledetta, ne costituisce l’essenza e
l’idea (...). E se il governo non approva la
mia condotta, potrà anche revocarmi dal
mio incarico – ma in tal caso continuerò
ad agire per mio conto, anche se all’inizio
non disporrò che di mezza dozzina di
uomini.
Negli stati di confine schiavisti, soprattutto nel Maryland e in minor misura
nel Kentucky, la questione degli schia-
1
Gruppo dirigente del Partito
democratico nello stato di
New York. Rimase in vita sino al
1854 e si riuniva ad Albany, che
era allora il centro amministrativo dello stato di New York.
MARX, Karl
14
vi in pratica è già in via di soluzione. È
stato osservato un immenso flusso e
riflusso di schiavi; si calcola, ad esempio, che vi si trovino circa cinquantamila schiavi provenienti dal Missouri,
in parte fuggiaschi, in parte deportati
dagli schiavisti degli stati del
“profondo Sud”. Un evento quanto
mai importante e significativo non trova alcuna eco in nessun quotidiano
inglese – e ciò non ci sorprende affatto. Il 18 novembre nell’isola di Hatteras si sono incontrati i rappresentanti
di 45 contee della Carolina Settentrionale, che si sono costituiti un governo
provvisorio, hanno sconfessato l’atto
di secessione e proclamato il ritorno
della Carolina Settentrionale in seno
all’Unione. I membri dei collegi elettorali della parte dello stato rappresenta
in tale assemblea sono invitati ad eleggere i propri rappresentanti al Congresso di Washington.
Il governo di Washington
e le potenze occidentali
Die Presse, 25 dicembre 1861
Londra, 20 dicembre 1861
Una delle maggiori sorprese di una
guerra così ricca di sorprese come la
guerra anglo-franco-russa è stata senza dubbio la dichiarazione sul diritto
marittimo concordata a Parigi nella
primavera del 1856. Quando iniziò la
guerra contro la Russia, l’Inghilterra
tenne in sospeso le armi più formidabili di cui disponeva: la confisca della
merce di proprietà del nemico su navi
neutrali e la guerra con navi corsare.
Alla fine delle ostilità, l’Inghilterra faceva scempio delle sue armi e ne sacrificava i miseri resti sull’altare della pace. La Russia, il paese ufficialmente
vinto, riceveva una concessione che
sin dai tempi di Caterina II aveva tentato invano di estorcere con tutta una
serie di “neutralità armate”, di guerre e
di intrighi diplomatici. L’Inghilterra
ufficialmente vittoriosa rinunziava invece ai grandi mezzi di attacco e di
difesa che erano stati sviluppati dalla
sua potenza marittima e che aveva
mantenuto per un secolo e mezzo
contro un mondo in armi.
I motivi umanitari che sono serviti
da pretesto alla Dichiarazione del 1856
perdono ogni valore anche all’esame
più superficiale. La pirateria non è una
barbarie maggiore dell’azione di corpi
volontari o di guerriglieri nella guerra
terrestre. Le requisizioni militari, per
esempio, colpiscono solo le casse del
governo nemico, risparmiando le proprietà dei privati? La natura della guerra terrestre salvaguarda i possedimenti
nemici che si trovano in zona neutrale,
e quindi sotto la sovranità di una potenza neutrale. La natura della guerra
per mare elimina queste barriere, dal
momento che il mare, come grande
via di comunicazione delle nazioni,
non può cadere sotto la sovranità di
nessuna potenza neutrale.
Sta di fatto comunque che la Dichiarazione del 1856 ammanta di espressioni filantropiche una grande
mancanza di umanità. In linea di principio, essa trasforma la guerra da guerra
di popoli in guerra di governi; concede
alla proprietà un’inviolabilità che nega
alle persone; libera il commercio dagli
orrori della guerra e così facendo rende
insensibili ad essi le classi che esercitano il commercio e l’industria. Per il resto è fin troppo evidente che i pretesti
umanitari della Dichiarazione del 1856
erano diretti soltanto agli spettatori europei, non diversamente dai pretesti
religiosi della Santa Alleanza!
È ben noto che Lord Clarendon,
che ha firmato il documento di trasferimento dei diritti marittimi al Congresso di Parigi, ha agito, come ha poi
confessato alla Camera Alta, all’insaputa della Corona, senza riceverne direttiva alcuna. La sua unica autorità
consisteva in una lettera privata di
Lord Palmerston. Fino ad ora Palmerston non ha osato chiedere al Parlamento inglese di approvare la Dichiarazione di Parigi e la firma che vi ha
apposto Clarendon. A parte le discus-
La Guerra di Secessione Americana
sioni sul contenuto della Dichiarazione, si temevano discussioni sulla questione se, indipendentemente dalla
Corona e dal Parlamento, un ministro
inglese potesse arrogarsi il diritto di
spazzar via le antiche fondamenta della potenza marittima inglese con un
colpo di penna. Se questo coup d’état
ministeriale non ha portato un uragano di interpellanze, ma, piuttosto, è
stato tacitamente accettato come fait
accompli, Palmerston lo deve all’influenza della scuola liberista di Manchester. Secondo quella scuola, coincideva con gli interessi da lei rappresentati, e perciò con la filantropia, la
civiltà ed anche il progresso, un’innovazione che avrebbe permesso al commercio inglese di continuare a fare indisturbato i suoi affari con il nemico
su navi neutrali, mentre i marinai e
soldati combattevano per l’onore della
nazione. I liberisti di Manchester esultavano per il fatto che con un incostituzionale coup de main il ministro aveva legato l’Inghilterra alle concessioni internazionali cui era del tutto improbabile addivenire secondo la procedura parlamentare costituzionale. Di
qui l’attuale indignazione del gruppo
di Manchester in Inghilterra per le rivelazioni del “libro azzurro” parlamentare presentato da Seward al Congresso di Washington!
Come è noto, gli Stati Uniti sono
stati l’unica grande potenza che si è
rifiutata di aderire alla Dichiarazione di
Parigi del 1856. Se rinunciavano alla
pirateria, allora avrebbero dovuto creare una grande marina di stato. Qualsiasi indebolimento dei loro mezzi di
guerra sul mare li minacciava contemporaneamente con l’incubo di un esercito di terra permanente, secondo i
criteri europei. Ciò nonostante il presidente Buchanan ha dichiarato di essere pronto ad accettare la Dichiarazione
di Parigi, purché la stessa inviolabilità
venisse assicurata per ogni proprietà,
nemica o neutrale, trovata sulle navi,
ad eccezione del contrabbando di
guerra. La sua proposta è stata respinta. Dal libro azzurro di Seward ora si
apprende che Lincoln, subito dopo
15
aver assunto la presidenza, ha offerto
all’Inghilterra e alla Francia l’adesione
degli Stati Uniti alla Dichiarazione di
Parigi, per quanto riguarda la pirateria,
a condizione che la proibizione della
pirateria venisse estesa alle parti degli
Stati Uniti in rivolta, cioè alla Confederazione sudista. Ha avuto una risposta che in pratica equivaleva al riconoscimento dei diritti dei belligeranti alla
Confederazione sudista.
“Umanità, progresso e civiltà” hanno suggerito ai governi di San Giacomo e delle Tuileries che la proibizione
della pirateria avrebbe ridotto enormemente le possibilità di secessione e
perciò di dissoluzione degli Stati Uniti.
Perciò la Confederazione è stata riconosciuta in tutta fretta come parte belligerante, per poter poi rispondere al
gabinetto di Washington che l’Inghilterra e la Francia naturalmente non
potevano riconoscere la proposta di
una parte belligerante come legge vincolante per l’altra parte belligerante.
La stessa “nobile rettitudine” ha ispirato tutti i negoziati diplomatici dell’Inghilterra e della Francia con il governo dell’Unione fin dallo scoppio
della guerra civile, e se il San Jacinto
non avesse fermato il Trent nello
stretto delle Bahamas, qualsiasi altro
incidente sarebbe stato sufficiente a
fornire un pretesto per il conflitto al
quale mirava Lord Palmerston.
L’opinione della stampa
e l’opinione popolare
Die Presse, 31 dicembre 1861
Londra, 25 dicembre 1861
Gli uomini politici del continente, che
pensano di avere nella stampa di Londra
un termometro dell’umore del popolo
inglese, al momento attuale traggono
inevitabilmente conclusioni fallaci.
Alle prime notizie del caso Trent
l’orgoglio nazionale inglese ha preso
fuoco ed il grido di guerra agli Stati
1
La scuola di Manchester
coniugava il liberismo ed il
libero scambio: in questa nota
ironica, Marx mostra come il
liberismo, nella sua prassi concreta, si appoggia largamente allo
Stato e non disdegna affatto il
dirigismo.
2
La Gran Bretagna, nonostante la sua legislazione
antischiavistica e l'opinione pubblica contraria, di fatto appoggiava i Confederati, dal momento
che gli Stati del sud le fornivano,
grazie al sistema schiavile, il cotone grezzo a prezzi concorrenziali.
MARX, Karl
16
Uniti è risuonato quasi da ogni parte.
La stampa di Londra, d’altro canto , ha
ostentato grande moderazione, e perfino il Times ha dubitato dell’esistenza
di un casus belli.
A che cosa è dovuto questo fenomeno? Palmerston non era sicuro che
i giuristi della Corona fossero in posizione tale da escogitare qualche pretesto legale per la guerra. Infatti, una
settimana e mezza prima dell’arrivo
del La Plata a Southampton, i rappresentanti della Confederazione sudista
da Liverpool si erano rivolti al gabinetto inglese, avevano denunziato l’intenzione degli incrociatori americani di
cacciare Mason, Slidell. e soci dai porti
inglesi e di intercettarli in alto mare, e
avevano richiesto l’intervento del governo inglese.
Seguendo il parere dei consiglieri
giuridici della Corona, il governo inglese ha respinto la richiesta. Di qui il
tono inizialmente pacifico e moderato
della stampa di Londra in contrasto
con l’impazienza bellicosa del popolo.
Comunque, appena i giuristi della Corona – il procuratore generale e il vice
procuratore generale, entrambi membri del gabinetto – hanno scovato un
pretesto tecnico per un contrasto con
gli Stati Uniti, le relazioni fra il popolo
e la stampa si sono capovolte. La febbre della guerra aumentava nella stampa nella stessa misura in cui diminuiva
nel popolo. Attualmente una guerra
con l’America incontra in tutti gli strati
sociali, esclusi gli amici del “re cotone”
ed i Krautjunker[NOTA - Letteralmente “mangiatori di cavoli”, termine
dispregiativo per indicare i signorotti
di campagna.], un’ostilità pari al fragoroso grido di guerra della stampa.
Ma considerate adesso la stampa di
Londra! Alla sua testa è il Times, il cui
redattore capo, Bob Lowe, prima faceva il demagogo in Australia, dove creava agitazioni per la separazione dall’Inghilterra. È un membro subordinato
del governo, una specie di ministro
della Pubblica Istruzione, una creatura
di Palmerston. Il Punch è il giullare di
corte del Times e trasforma i sesquipe-
dalia verba in scherzi forbiti e caricature senza mordente. Un importante
redattore del Punch ha avuto da Palmerston un posto al ministero della
Sanità e un appannaggio annuo di mille sterline.
Il Morning Post è in parte proprietà
privata di Palmerston, mentre un’altra
parte di questa singolare istituzione è
stata venduta all’ambasciata di Francia;
il resto appartiene alla haute volèe] e
fornisce le cronache più precise ai lacchè di corte ed ai sarti delle signore.
Agli inglesi il è quindi noto come il
Jenkins, il lacchè della stampa.
Il Morning Advertiser è proprietà
comune dei “bettolieri”, cioè dei pubs,
che oltre alla birra possono vendere
anche alcolici. È anche l’organo dei
bigotti anglicani e degli allibratori, gente che fa affari con le corse dei cavalli,
le scommesse, il pugilato. Il redattore
di questo quotidiano, Grant, che prima faceva lo stenografo per i giornali
ed è del tutto sprovveduto sul piano
letterario, ha avuto l’onore di esser
invitato alle soirèes private di Palmerston. Da allora è entusiasta del
“ministro veramente inglese”, che allo
scoppio della guerra con la Russia aveva denunziato come “agente russo”. Si
deve aggiungere che i pii patrocinatori
di questo giornale da osteria sono guidati a bacchetta dal conte di Shaftesbury, e che Shaftesbury è il genero di
Palmerston. Shaftesbury è il papa dei
seguaci della Chiesa Bassa, che confonde lo spiritus sanctus con il profano dell’onesto Advertiser.
Il Morning Chronicle! Quantum
mutatus ab illo! Per quasi mezzo secolo è stato la voce possente del partito whig e il non sfortunato rivale
del Times, ma dopo la guerra dei
whigs la sua stella si è offuscata. È
passato attraverso metamorfosi di
ogni genere: è diventato un giornale
da pochi soldi ed ha cercato di vivere
di “notizie a sensazione”, come, per
esempio, prendendo le difese dell’avvelenatore Palmer. In seguito si è
venduto all’ambasciata francese, che,
La Guerra di Secessione Americana
ad ogni modo, si è ben presto dispiaciuta di gettar via il suo denaro. Allora si è dato all’antibonapartismo, ma
con risultati altrettanto insoddisfacenti. Infine ha trovato l’acquirente
che cercava da tanto tempo in Yancey e Mann – i rappresentanti della
Confederazione sudista a Londra.
Il Daily Telegraph è proprietà privata di un certo Lloyd, ed è bollato
dalla stessa stampa inglese come il
giornale popolare di Palmerston. Oltre
a questa funzione esso offre anche una
chronique scandaleuse. È caratteristico
che questo Telegraph, all’arrivo della
notizia del Trent, per ordini superiori
abbia dichiarato che la guerra era impossibile. La dignità e la moderazione
impostagli parevano così insolite anche ad esso, che da allora ha pubblicato una mezza dozzina di articoli su tale
esempio luminoso di moderazione e di
dignità. Comunque appena ha ricevuto
l’ordre di cambiare opinione, il Telegraph ha cercato un compenso alla
coercizione esercitata su di esso superando tutti i suoi compagni nel levare
clamore di guerra.
Il Globe è il giornale governativo
della sera che riceve sussidi ufficiali da
tutti i ministeri whig.
I giornali dei tories, il Morning Heralds e l’Evening standard, che appartengono entrambi alla stessa boutique,
sono guidati da un duplice scopo: sfogare l’odio ereditario per le “colonie
inglesi in rivolta”, e fronteggiare la crisi
cronica delle loro finanze. Essi sanno
che una guerra con l’America distruggerebbe inevitabilmente l’attuale governo di coalizione ed aprirebbe la strada
ad un governo tory. Con i tories al potere ritornerebbero i sussidi ufficiali
all’Herald e allo Standard. La conseguenza è che lupi famelici in cerca di
preda non potrebbero ululare più forte
di quanto facciano questi giornali dei
tories alla caccia di una guerra americana e della susseguente pioggia d’oro!
Fra i quotidiani londinesi, gli unici
altri giornali degni di nota sono il
Daily News ed il Morning Star, che si
oppongono entrambi ai tamburi di
guerra. Il Daily News è limitato nei
suoi movimenti per i contatti con
Lord John Russell; il Morning Star, il
foglio di Bright e Cobden, ha un’influenza circoscritta per il fatto di essere un “giornale per la pace ad ogni
costo”.
Per la maggior parte i settimanali
londinesi sono semplicemente echi
della stampa quotidiana, e son quindi
estremamente bellicosi. L’Observer è
al soldo del governo; il Saturday Review cerca di fare dello spirito e crede
di raggiungere il suo intento affettando
una cinica superiorità, inattaccabile ai
pregiudizi “umanitari”. Per far mostra
di bello spirito, gli avvocati, i preti e i
maestri di scuola corrotti che scrivono
su questo giornale hanno elargito sorrisetti d’approvazione agli schiavisti fin
dall’inizio della guerra civile americana.
Naturalmente poi hanno suonato le
trombe di guerra insieme al Times.
Ora stanno già facendo progetti per
una campagna contro gli Stati Uniti,
dimostrando un’ignoranza da far rizzare i capelli. Lo Spectator, l’Examiner e
soprattutto il MacMillan’s Magazine
sono da ricordare come eccezioni più
o meno lodevoli.
È palese pertanto che nell’insieme
la stampa di Londra – ad eccezione
degli organi dei commercianti del
cotone, i giornali provinciali offrono
un contrasto encomiabile – non rappresenta niente altro che Palmerston, ancora e sempre Palmerston.
Palmerston vuole la guerra; gli inglesi non la vogliono. I prossimi avvenimenti mostreranno chi vincerà
questo duello, se Palmerston o il popolo. Comunque Palmerston sta facendo un gioco più pericoloso di
quello che faceva Luigi Bonaparte
all’inizio del 1859.
17
MARX, Karl
18
Un’assemblea filo-americana
Die Presse, 5 gennaio 1862
care l’offesa. Un simile modo di agire non
ci bollerebbe come vigliacchi agli occhi
del mondo civile?
Ha detto Cunningham:
Londra, 1 gennaio 1862
1
Fin dallo scoppio della guerra si presentò il problema
della sua classificazione, anche
allo scopo di definire se ad essa si
potessero applicare le norme del
Diritto bellico consuetudinario e
delle (poche) convenzioni internazionali in vigore. Gli Stati Uniti
sostennero che gli stati secessionisti avevano violato la Costituzione, che al primo comma della
Sez. 10 dell'Art. I, vieta la partecipazione degli stati a trattati, alleanze o patti confederali. Avevano
inoltre tutto l'interesse a mantenere la questione nell'ambito del
diritto interno, per evitare indesiderate interferenze da parte degli
stati europei. Gli Stati Confederati per contro propugnavano fermamente il loro diritto ad essere
stati liberi e indipendenti, richiamando la frase conclusiva della
Dichiarazione di indipendenza
degli Stati Uniti d'America e forti
del fatto che la Costituzione degli
Stati Uniti d'America fosse un
vero e proprio trattato internazionale e quindi soggetto non
solo a ratifica ma anche a denuncia. Dalla loro parte stavano quasi
tutti gli stati europei, e il Regno
Unito aveva addirittura emanato
un proclama di neutralità che
riconobbe la sovranità della Confederazione, documento assolutamente inutile se il conflitto avesse
avuto un carattere esclusivamente
interno.
In Inghilterra il movimento contrario
alla guerra aumenta di giorno in giorno di energia e proporzioni. Pubbliche
assemblee nelle parti più diverse del
paese sollecitano un arbitrato della
disputa fra Inghilterra e America. In
questo senso piovono note sul capo
del governo e la stampa provinciale
indipendente è quasi unanime nella
sua opposizione al grido di guerra della stampa di Londra.
Qui accluso c’è un resoconto dettagliato della riunione tenuta lunedì
scorso a Brighton, poiché si trattava di
una riunione della classe lavoratrice, e i
due oratori principali, Cunnigham e
White, sono membri influenti del Parlamento e siedono entrambi nel partito di maggioranza alla Camera. Wood
(un lavoratore) ha proposto la prima
mozione, secondo cui
la disputa fra Inghilterra e America nasceva da un’errata interpretazione del diritto
internazionale, e non da un affronto intenzionale alla bandiera britannica; che di
conseguenza questa assemblea è del parere che tutta la questione controversa sia
da riferire ad una potenza neutrale che sia
arbitra della decisione; che nelle attuali
circostanze una guerra con l’America non
è giustificabile, ma merita piuttosto la
condanna del popolo inglese.
Per sostenere la sua istanza Wood fra
l’altro ha fatto rilevare:
Si dice che questa nuova offesa sia semplicemente l’ultimo anello di una catena di
offese che l’America ha inflitto all’Inghilterra. Ammettiamo che sia vero: che cosa
dimostrerebbe per quanto riguarda il grido di guerra del momento attuale? Dimostrerebbe che finché l’America è stata forte e unita, noi abbiamo subìto le sue offese senza battere ciglio; ma ora, nel momento in cui è in pericolo, ci avvaliamo di
una posizione a noi favorevole per vendi-
(...) In questo momento si sta sviluppando in seno all’Unione una dichiarata politica di emancipazione (applausi), ed io
esprimo la grande speranza che non si
permetta alcun intervento da parte del
governo inglese (applausi) (...) Voi, inglesi
nati liberi, permettereste che vi si coinvolga in una guerra anti-repubblicana? Poiché è l’intenzione del Times e del partito
che sta dietro le sue spalle(...) Faccio appello ai lavoratori d’Inghilterra, che hanno il maggiore interesse a conservare la
pace, perché facciano sentire la loro voce
e, se necessario, entrino in azione per
impedire un crimine così grande (applausi
scroscianti) (...) Il Times ha fatto ogni
sforzo per eccitare l’animo del paese alla
guerra e per suscitare negli americani un
senso di ostilità fomentando rancori e
discordie (...) io non appartengo al cosiddetto partito della pace. Il Times ha favorito la politica della Russia e (nel 1853) ha
fatto pesare tutta la sua potenza per portare il nostro paese ad osservare tranquillamente l’invadenza militare della barbarie
russa in oriente. Io ero tra quelli che hanno alzato la voce contro questa falsa politica. Al tempo della presentazione del
progetto di legge contro la cospirazione,
che aveva lo scopo di facilitare l’estradizione dei rifugiati politici, al Times nessuno sforzo è sembrato troppo grande pur
di farlo approvare alla Camera Bassa. Io
sono stato uno dei novantanove membri
della Camera che si sono opposti a questa
prevaricazione della libertà del popolo
inglese, ed hanno causato la caduta del
ministro (applausi). Ora quel ministro è a
capo del governo. Io gli predìco che se
dovesse cercare di immischiare il nostro
paese in una guerra con l’America senza
ragioni valide e sufficienti, il suo piano
fallirà ignominiosamente. Io gli prometto
un’altra ignominiosa sconfitta, ancora
peggiore di quella che gli è toccata in occasione del progetto di legge contro la
cospirazione (applausi scroscianti) (...)
Non conosco la comunicazione ufficiale
che è stata fatta a Washington; ma l’opinione prevalente è che i consiglieri giuridici della Corona abbiano raccomandato
al governo di prendere posizione in base
La Guerra di Secessione Americana
19
al limitatissimo pretesto legale secondo il
quale i rappresentanti sudisti non avrebbero potuto esser catturati senza la nave
che li ha trasportati. Di conseguenza il
rilascio di Slidell e Mason è da richiedersi
come conditio sine qua non. Supponiamo che il popolo dell’altra parte dell’oceano Atlantico non permetta al suo governo di rilasciarli. Farete la guerra per la
persona di questi due inviati degli aguzzini schiavisti? (...) esiste in questo paese un
partito che vuole la guerra contro la repubblica americana. Ricordate l’ultima
guerra russa. Dai dispacci segreti pubblicati a Pietroburgo era chiaro oltre ogni
possibile dubbio che gli articoli pubblicati
dal Times nel 1855 erano stati scritti da
una persona che aveva accesso alle carte e
ai documenti di Stato segreti della Russia.
A quel tempo Layard lesse i passi salienti
alla Camera Bassa, e il Times, costernato,
cambiò subito tono e la mattina seguente
suonò la tromba di guerra (...) Il Times
ha più volte attaccato l’imperatore Napoleone e sostenuto il nostro governo nella
sua richiesta di crediti illimitati per le fortificazioni di terra e per le batterie galleggianti. Dopo di che, dopo aver fatto risuonare il grido di allarme contro la Francia, ora il Times desidera lasciare le nostre
coste esposte all’imperatore francese
coinvolgendo il nostro paese in una guerra oltre Atlantico? (...) Dobbiamo temere
che i grandi preparativi attuali non siano
fatti solo per il caso Trent ma anche per
l’eventualità di un riconoscimento degli
stati schiavisti da parte del nostro governo. Se l’Inghilterra lo farà, allora si ricoprirà di perpetua vergogna.
sudisti la primavera prossima. In quel periodo la Gran Bretagna avrà una flotta più
forte nelle acque americane, e il Canada
sarà perfettamente preparato alla difesa.
Quindi, se gli stati del Nord sono decisi a
fare del riconoscimento degli stati del Sud
un casus belli, la Gran Bretagna sarà
pronta (...).
Ha detto White:
Il caso Trent, che era morto e sepolto,
è stato riesumato – questa volta, però,
come casus belli non l’Inghilterra e gli
Stati Uniti, ma tra il popolo inglese ed
il suo governo. Il nuovo casus belli
sarà esaminato dal Parlamento, che si
riunirà il mese prossimo. Senza dubbio
avrete già preso nota della polemica
del Daily News e dello Star contro il
Morning Post riguardo alla soppressione e alla smentita del messaggio di pace di Seward del 30 novembre, che il
19 dicembre è stato letto a Lord John
Russell dall’ambasciatore americano
Adams. Permettetemi ora di ritornare
su questa faccenda.
Si deve dare atto alla classe lavoratrice di
esser stata la promotrice di quest’assemblea e di aver sostenuto tutte le spese organizzative tramite il suo comitato (...)
L’attuale governo non ha mai avuto il
buon senso di trattare con onestà e franchezza con il popolo (...) Non ho mai creduto nemmeno per un attimo che vi fosse
la più remota possibilità di guerra per via
del caso Trent. Ho dichiarato alla presenza di molti membri del governo che neppure un ministro credeva alla possibilità di
una guerra per via del caso Trent. Perché
allora tutti questi preparativi? Io credo che
Inghilterra e Francia si siano accordate
per riconoscere l’indipendenza degli stati
L’oratore quindi ha continuato a parlare dei pericoli di una guerra con gli
Stati Uniti, ha ricordato la solidarietà
che aveva dimostrato l’America alla
morte del generale Havelock, l’aiuto
che i marinai americani avevano dato
alle navi inglesi nello sfortunato scontro di Pehio, ed altri episodi. Ha concluso facendo osservare che la guerra
civile sarebbe finita con l’abolizione
della schiavitù, e che di conseguenza
l’Inghilterra doveva dare il suo appoggio incondizionato al Nord.
Approvata all’unanimità la proposta iniziale, è stato presentato all’assemblea un promemoria per Palmerston, che è stato anch’esso discusso ed
approvato.
La storia del dispaccio
soppresso di Seward
Die Presse, 18 gennaio 1862
Londra, 4 gennaio 1862
MARX, Karl
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Con l’assicurazione del Morning
Post che il dispaccio di Seward non
aveva il benché minimo rapporto con
il caso Trent, i titoli di borsa sono
crollati e proprietà del valore di parecchi milioni hanno cambiato mano,
perse da una parte, vinte dall’altra.
Perciò negli ambienti finanziari e industriali l’ingiustificabile menzogna di
un organo semi-ufficiale quale il Morning Post, smascherato dalla pubblicazione del dispaccio di Seward del
30 novembre, ha suscitato la più viva
indignazione.
Il pomeriggio del 9 gennaio sono
giunte a Londra notizie di pace; la sera
stessa l’Evening Star (l’edizione serale
del Morning Star) ha interpellato il
governo sulla soppressione del dispaccio di Seward del 30 novembre. La
mattina seguente, il 10 gennaio, il Morning Post ha replicato:
Naturalmente ci si domanderà perché non
ne abbiamo sentito parlare prima, dal momento che il dispaccio di Seward deve
essere pervenuto ad Adams in dicembre.
La spiegazione è molto semplice: il dispaccio ricevuto da Adams non è stato
comunicato al governo inglese.
La sera di quello stesso giorno lo Star
ha smentito decisamente il Post e ha
dichiarato che la sua “rettifica” era un
meschino sotterfugio: infatti il dispaccio non era stato “comunicato”, perché era stato “letto” da Adams a Lord
Palmerston e Lord Russell.
La mattina dopo, sabato 11 gennaio, il Daily News è sceso in campo,
e in base all’articolo del Morning Post
del 21 dicembre ha dimostrato che sia
il giornale che il governo erano perfettamente a conoscenza del dispaccio di
Seward e lo avevano deliberatamente
contraffatto. Il governo allora si è preparato alla ritirata. La sera dell’11 gennaio il giornale semi-ufficiale Globe
dichiarava che Adams aveva comunicato al governo il dispaccio di Seward
il 19 dicembre; esso peraltro
1
Globe, 11 gennaio 1862.
non conteneva alcuna offerta del genere
che Lord Russell supponeva che il gover-
no federale sarebbe stato disposto a fare,
oltre a non presentare scuse immediate
per l’oltraggio che il capitano Wilkes aveva inflitto alla nostra bandiera.
Questa vergognosa confessione di aver deliberatamente ingannato il popolo inglese per tre settimane ha attizzato il fuoco invece di spegnerlo. Su tutti
i giornali delle zone industriali della
Gran Bretagna è risuonato un grido
furibondo, che ieri ha finalmente trovato un eco anche sui giornali dei tories. Tutta la questione, si è osservato
senza mezzi termini, è stata posta all’ordine del giorno non dai politici, ma
dal mondo del commercio. Il Morning
Star di oggi nota in proposito:
Lord John Russell si è reso complice
di quel nascondere la verità che è virtuale indizio di falsità: ha permesso al
Morning Post di affermare senza tema
di smentita proprio l’opposto della
verità, ma non può aver dettato quell’articolo mendace ed estremamente
pernicioso che è apparso il 21 dicembre (...) Solo un uomo ha una carica
abbastanza elevata ed un carattere abbastanza meschino da poter ispirare
l’atroce scritto (...) Il ministro che ha
contraffatto i dispacci afgani è l’unica
persona capace di sopprimere il messaggio di pace di Seward (...) La stolta
indulgenza della Camera dei Comuni
ha perdonato quell’offesa. Il Parlamento ed il popolo non si uniranno
per infliggergli la pena per l’altra?
Un coup d’ètat di
Lord John Russell
Die Presse, 21 gennaio 1862
Londra, 17 gennaio 1862
L’atteggiamento di Lord John Russell
durante la recente crisi è stato davvero irritante, anche per un uomo la cui
intera vita parlamentare dimostra co-
La Guerra di Secessione Americana
me abbia esitato raramente a sacrificare il potere effettivo alla posizione
ufficiale.
Nessuno ha dimenticato che Lord
John Russell ha perduto la carica di primo ministro che è stata assunta da Palmerston, ma sembra che nessuno ricordi
che egli ha avuto da Palmerston il ministero degli Esteri. Tutto il mondo ha
considerato assiomatico che Palmerston
dirigesse il gabinetto sotto il proprio nome e la politica estera sotto il nome di
Russell. All’arrivo delle prime notizie di
pace da New York, whigs e tories han
fatto a gara a cantare le lodi dell’arte di
governo di Palmerston, mentre il ministro degli Esteri, Lord John Russell, non
era nemmeno oggetto di encomio come
suo assistente. È stato completamente
ignorato. Comunque, era appena scoppiato lo scandalo causato dalla soppressione del dispaccio americano del 30
novembre, quando il nome di Russell è
stato riportato in vita.
Accusa e difesa allora hanno scoperto che il ministro degli esteri responsabile si chiamava Lord John
Russell! Ma a quel punto anche Russell
ha perduto la pazienza. Senza aspettare l’apertura dei lavori del Parlamento
e contrariamente a tutte le usanze ministeriali, egli ha immediatamente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12
gennaio la propria corrispondenza con
Lord Lyons. Tali lettere dimostrano
che il dispaccio del 30 novembre di
Seward è stato letto a Lord John Russell il 19 dicembre da Adams; che Russell ha riconosciuto esplicitamente che
quel dispaccio presentava le scuse per
l’atto del capitano Wilkes, e che Adams, dopo le parole di Russell, considerava sicura la soluzione pacifica della disputa. Dopo questa rivelazione
ufficiale, che ne è del Morning Post
del 21 dicembre, che negava l’arrivo di
qualsiasi dispaccio di Seward che si
riferisse al caso Trent? Che ne è del
Morning Post del 10 gennaio, che accusava Adams della soppressione del
Dispaccio? Che ne è di tutto il rumore
di guerra della stampa di Palmerston
dal 19 dicembre 1861 all’8 gennaio
1862?
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E vi è di più! Il messaggio di Lord
John Russell a Lord Lyons del 9 dicembre 1861 dimostra che il gabinetto inglese non ha presentato alcun
ultimatum di guerra; che Lord Lyons
non ha ricevuto l’ordine di lasciare
Washington sette giorni dopo la consegna dell’ultimatum; che Lord Russell ha ordinato all’ambasciatore di
evitare ogni parvenza di minaccia e,
infine, che il gabinetto inglese aveva
stabilito di prendere una decisione
definitiva solo dopo aver ricevuto la
risposta americana. Tutta la politica
strombazzata dalla stampa di Palmerston, che ha trovato tanta eco servile
sul continente, è quindi soltanto una
chimera. Non è mai stata messa in
atto in realtà. Dimostra soltanto, come asserisce un giornale di Londra di
oggi, che Palmerston “ha cercato di
frustrare la linea di condotta dichiarata e vincolante dei consiglieri responsabili della Corona (...)”.
Che il coup de main di Lord John
Russell sia piombato sulla stampa di
Palmerston come un fulmine a ciel
sereno, è un fatto incontrovertibile. Il
Times di ieri ha soppresso la corrispondenza di Russell e non ne ha fatto
menzione alcuna. Soltanto oggi figura
nelle sue colonne una ristampa della
London Gazette, con un articolo di
fondo che funge da presentazione e
commento e che evita accuratamente
il problema reale, il contrasto fra il popolo inglese ed il governo inglese, e
che lo sfiora soltanto nell’espressione
stizzosa: “Lord Russell ha dovuto
spiegare tutto il suo ingegno per trovare un accenno di scuse” nel dispaccio
di Seward del 30 novembre. D’altra
parte il Giove tonante di Printing
House Square sfoga la sua collera in
un secondo editoriale, nel quale Gilpin, membro del governo, capo del
Board of Trade nonché sostenitore
della scuola di Manchester, è giudicato
indegno della sua carica ministeriale.
Perché martedì scorso in una pubblica
riunione a Northampton, di cui egli è
rappresentante in Parlamento, Gilpin,
ex libraio, demagogo ed apostolo della
moderazione che nessuno prenderà
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MARX, Karl
mai per eroe, ha commesso il crimine
di esortare il popolo inglese ad impedire con dimostrazioni pubbliche un
riconoscimento quanto mai inopportuno della Confederazione sudista, che
egli ha sconsideratamente bollato come figlia della schiavitù. Come se, esclama sdegnato il Times, come se Palmerston e Russell – adesso il Times si
ricorda improvvisamente dell’esistenza
di Lord John Russell – non si fossero
sempre battuti per distruggere la schiavitù! Sicuramente è stata un’indiscrezione, un’indiscrezione calcolata da
parte di Gilpin, invitare il popolo inglese a scendere in campo contro le
idee schiaviste di un governo al quale
egli stesso appartiene. Ora Gilpin, come si è detto, non è un eroe. Tutta la
sua carriera rivela scarsa attitudine al
martirio. La sua indiscrezione è avvenuta lo stesso giorno in cui Lord John
Russell ha fatto il suo coup de main.
Pertanto possiamo concludere che il
governo non è una “famiglia felice” e
che alcuni dei suoi membri si sono già
assuefatti all’idea di una “separazione”.
L’epilogo russo del dramma del
Trent è non meno interessante delle
sue ripercussioni nel governo. La Russia, che in tutto questo baccano è rimasta silenziosa, in disparte, a braccia
conserte, ora balza sulla scena, dà a
Seward un buffetto sulla spalla – e dichiara che è arrivato alfine il momento
di regolare definitivamente i diritti marittimi dei paesi neutrali. La Russia,
come si sa, si considera investita del
compito di fissare all’ordine del giorno
della storia del mondo, al momento
giusto e nel posto giusto, le questioni
urgenti della civiltà. La Russia si pone
al riparo da qualsiasi attacco delle potenze marittime nel momento in cui
queste rinunziano, con i loro diritti di
belligeranti contro i paesi neutrali, alla
loro influenza sulle esportazioni russe.
La Convenzione di Parigi del 16 aprile
1856, che è in parte una copia letterale
del trattato russo di neutralità armata
del 1870 contro l’Inghilterra, non è
ancora legge in Inghilterra. Che scherzo del destino sarebbe se la disputa
anglo-americana finisse con la sanzio-
ne, da parte del Parlamento e della
Corona inglesi, della concessione che
due ministri britannici hanno fatto alla
Russia, sotto la loro personale responsabilità, alla fine della guerra anglorussa!
Tendenza anti-interventista
Die Presse, 4 febbraio 1862
Londra, 31 gennaio 1862
La grandezza commerciale di Liverpool trae le sue origini dalla tratta degli
schiavi. Gli unici contributi di Liverpool alla letteratura ed alla poesia inglese sono le odi alla tratta degli schiavi. Cinquant’anni fa Wilberforce potè
metter piede a Liverpool solo a rischio
della propria vita. Come nel secolo
precedente il commercio degli schiavi,
così in questo secolo il commercio del
prodotto dello schiavismo, il cotone,
ha costituito il fondamento essenziale
della grandezza di Liverpool. Nessuna
meraviglia, dunque, se Liverpool è il
centro degli inglesi filo-secessionisti:
infatti è l’unica città del Regno Unito
dove durante la recente crisi sia stato
possibile organizzare un convegno
quasi pubblico in favore di una guerra
contro gli Stati Uniti. Che dice ora Liverpool? Ascoltiamo con attenzione
uno dei suoi maggiori quotidiani, il
Daily Post. In un articolo di fondo
intitolato “Gli astuti yankees” si dichiara tra l’altro:
Gli yankees, con la loro solita furbizia,
sono riusciti a tramutare una perdita in
guadagno. Per la verità hanno fatto in
modo di servirsi dell’Inghilterra per il proprio tornaconto (...). La Gran Bretagna ha
il vantaggio di fare sfoggio della sua potenza (...) (ma a che pro?). Gli yankees
sono sempre stati favorevoli ai privilegi
illimitati dei neutrali, ma la Gran Bretagna
vi si opponeva (privilegi che sono stati
contestati soprattutto durante la guerra
anti-giacobina, la guerra anglo-americana
del 1812-14, ed anche, più recentemente,
23
La Guerra di Secessione Americana
nel 1842, durante i negoziati tra Lord Ashburton ed il segretario di Stato americano Daniel Webster). Ora la nostra opposizione deve cessare. Il principio degli yankees è virtualmente riconosciuto. E Seward ne dà la conferma (...) (dichiara che
l’Inghilterra ha accondisceso in linea di
massima e che con il caso Trent gli Stati
Uniti hanno ottenuto una concessione per
assicurarsi la quale finora avevano fatto
invano ricorso ad ogni mezzo diplomatico
e bellico).
Ancora più importante è l’ammissione
dell’improvviso mutamento dell’opinione pubblica, anche a Liverpool, che
troviamo sul Daily Post.
I confederati – dice – non hanno fatto
assolutamente nulla per smentire la buona
opinione che si aveva di loro, al contrario.
Hanno combattuto coraggiosamente e
compiuto sacrifici enormi. Se non otterranno la loro indipendenza, tutti dovranno ammettere che se la meritano (...). L’opinione pubblica tuttavia adesso è contraria alle loro rivendicazioni: essi non sono
più quelle brave persone che erano sei
mesi fa, e quando si parla di loro si dice
implicitamente che sono gente molto
sgradevole. (...) In pratica è iniziata una
reazione. Gli anti-schiavisti che, ci si perdoni l’espressione volgare, calavano le
brache davanti all’eccitazione popolare,
ora se ne vengono a condannare con paroloni altisonanti la vendita dei negri e i
proprietari schiavisti degli stati del Sud
(...). Ieri le mura della città erano coperte
da un grande manifesto pieno di denunzie
ed irate invettive, e un giornale londinese
della sera, il Sun, ricordava qualcosa che
andava a scapito di Mason (...) “l’autore
dell’esecranda legge sugli schiavi fuggiaschi” (...). I confederati hanno pagato le
spese del caso Trent: doveva tornare a
loro vantaggio, invece è risultato la loro
rovina. I favori di questo paese vengono
loro meno, ed essi dovranno rendersi conto quanto prima di tale singolare situazione. Sono stati gravemente maltrattati, ma
non avranno risarcimento alcuno.
Dopo un’ammissione simile da parte
di un simpatizzante della secessione
quale era il quotidiano di Liverpool, è
facile intendere il mutato linguaggio
che ora ostentano improvvisamente
alcuni importanti giornali di Palmer-
ston prima dell’apertura dei lavori parlamentari. L’Economist di sabato scorso presenta un articolo intitolato “Sarà
rispettato il blocco?” Prima di tutto
parte dell’assioma che il blocco è soltanto un blocco sulla carta e che perciò il diritto internazionale permette di
violarlo. La Francia ha richiesto che il
blocco sia rimosso con la forza. In
pratica la soluzione della questione sta
quindi nelle mani dell’Inghilterra, che
ha un motivo grave ed imperioso per
compiere tale passo: per la precisione,
ha bisogno del cotone americano. Si
può far notare, incidentalmente, che
non è ben chiaro in che modo un
“blocco che esiste solo sulla carta”
possa impedire la spedizione del cotone. “Ciò nonostante – esclama l’Economist – l’Inghilterra deve rispettare il
blocco”. Avendo motivato questo giudizio con una serie di sofismi, alla fine
arriva al nocciolo della questione.
Non sarebbe auspicabile in un caso del
genere – scrive – che il nostro governo
compisse qualche passo o intraprendesse
qualche azione sulla quale l’intero paese
non si trovasse sinceramente e spontaneamente d’accordo (...). Ora noi dubitiamo
che la massa del popolo britannico sia già
preparata a qualche intervento che abbia
la minima parvenza di spalleggiare una
repubblica schiavista o di contribuire alla
sua costituzione. Il sistema sociale degli
stati confederati è basato sulla schiavitù; i
federalisti hanno fatto quanto potevano
(...) per persuaderci che la schiavitù sta alla
radice del movimento di secessione, e che
loro, i federalisti, erano ostili alla schiavitù; e la schiavitù suscita il nostro più vivo
orrore ed abominio. Ma il vero errore del
movimento popolare consiste in questo:
(...) non lo scioglimento dell’Unione, ma il
suo ripristino equivarrebbe a rinsaldare e
perpetuare la schiavitù dei negri, ed è l’indipendenza del Sud e non la sua sconfitta
che noi dobbiamo auspicare con fiducia
per un pronto miglioramento ed una definitiva scomparsa della schiavitù da noi
aborrita (...) noi abbiamo la speranza di
chiarire presto questo punto ai nostri lettori. Ma non è ancora chiaro. La maggioranza degli inglesi pensa ancora diversamente; e finché si penserà così, qualunque
intervento da parte del nostro governo
per metterci in una posizione di vera op-
1
Liverpool Daily Post, 13
gennaio 1862.
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MARX, Karl
posizione al Nord, e di conseguente alleanza con il Sud, sarebbe sostenuto ben
poco dalla sincera collaborazione della
nazione britannica.
In altre parole: il tentativo di un intervento del genere provocherebbe la
caduta del governo. E questo spiega
anche perché il Times si pronunzi tanto decisamente contro qualsiasi intervento e in favore della neutralità dell’Inghilterra.
La crisi del cotone
Die Presse, 8 febbraio 1862
Londra, 3 febbraio 1862
1
Alcuni giorni fa ha avuto luogo l’assemblea annuale della Camera di
Commercio di Manchester. Essa rappresenta il Lancashire, la più grande
regione industriale del Regno Unito e
il centro più importante dell’industria
cotoniera britannica. C. Potter, presidente dell’assemblea, Bazly e Turner, i
principali oratori, rappresentano Manchester ed una parte del Lancashire
alla Camera Bassa. Perciò dai verbali
dell’assemblea apprendiamo ufficialmente quale sarà l’atteggiamento del
grande centro dell’industria cotoniera
inglese al “Senato della nazione” riguardo alla crisi americana.
L’anno scorso all’assemblea della
Camera di Commercio Ashworth, uno
dei più grandi magnati del cotone di
tutta l’Inghilterra, aveva esaltato con
fantasia degna di Pindaro l’espansione
senza precedenti dell’industria del cotone nell’ultimo decennio. In particolare egli faceva rilevare che nemmeno
le crisi commerciali del 1847 e del 1857 avevano provocato la diminuzione
delle esportazioni dei filati di cotone e
dei tessuti inglesi. Egli spiegava il fenomeno con le mirabolanti possibilità
del sistema di libero scambio introdotEconomist, 25 gennaio to nel 1846. Già allora parve strano
1862.
che questo sistema, che non era riusci-
to a risparmiare all’Inghilterra le crisi
del 1847 e del 1857, potesse sottrarre
un settore particolare dell’industria
inglese all’influenza delle crisi. Ma cosa
sentiamo dire oggi? Tutti gli oratori,
Ashworth compreso, ammettono che,
a partire dal 1858, ha avuto luogo una
saturazione senza precedenti dei mercati d’oltre Atlantico e che per effetto
di una continua sovrapproduzione su
larga scala l’attuale ristagno era inevitabile, anche senza la guerra civile americana, la tariffa Morrill e il blocco. Che
anche senza queste circostanze aggravanti la diminuzione delle esportazioni
dell’anno scorso sarebbe stata di ben
sei milioni di sterline è naturalmente
una questione controversa; ma non
sembra cosa improbabile dal momento che sentiamo che i principali mercati dell’Asia e dell’Australia hanno
provviste di manufatti di cotone inglesi sufficienti per dodici mesi.
Quindi, per ammissione della Camera di commercio di Manchester,
che è autorità in materia, la crisi dell’industria cotoniera inglese fino ad ora
non è stata il risultato del blocco americano, bensì della sovrapproduzione
inglese. Ma quali sarebbero le conseguenze, se continuasse la guerra civile
americana? A questa domanda riceviamo ancora una volta una risposta unanime: sofferenze smisurate per la classe lavoratrice e rovina per i piccoli
produttori. Cheatham ha osservato:
A Londra si dice che hanno ancora molto
cotone per andare avanti; ma non si tratta
soltanto di cotone, si tratta anche e soprattutto di prezzo, e con i prezzi attuali il
capitale dei proprietari di cotonifici si sta
riducendo a zero.
Ad ogni modo la Camera di commercio si dichiara decisamente contraria a qualsiasi intervento negli Stati Uniti, benché la maggior parte dei
suoi membri siano dal Times indotti
a considerare inevitabile lo scioglimento dell’Unione.
L’ultima cosa che dovremmo fare – dice
Porter – è raccomandare qualsiasi cosa
che somigli ad un intervento. L’ultimo
La Guerra di Secessione Americana
posto dove una cosa simile potesse esser
presa in considerazione era Manchester.
Niente ci avrebbe indotti a raccomandare
qualcosa che fosse moralmente sbagliata”.
Bazley: “Nella questione americana si deve osservare il principio del nonintervento. Il popolo di quel grande paese
deve veramente risolvere le proprie faccende da sé “. Cheatham: “L’opinione
generale in questa regione è del tutto contraria all’intervento nella disputa americana. E’ necessario parlar chiaro a questo
riguardo, perché se vi fosse qualche dubbio il governo si troverebbe sottoposto a
forti pressioni.
Cosa consiglia allora la Camera di
Commercio? Il governo inglese dovrebbe rimuovere ogni ostacolo di
carattere amministrativo che si frappone all’importazione del cotone in India. In particolare dovrebbe eliminare
la tassa di importazione del 10% che
grava sui filati e sui tessuti di cotone
inglesi in India. Il regime della East
India Company era stato appena abolito, l’India era appena entrata a far
parte dell’Impero Britannico, quando
Palmerston introduceva questa tassa
d’importazione sui prodotti inglesi
tramite Wilson, e questo nello stesso
tempo in cui vendeva la Savoia e Nizza per il trattato commerciale anglofrancese. Mentre il mercato francese
veniva in una certa misura aperto all’industria inglese, il mercato della Indie Orientali era ad essa precluso in
misura decisamente maggiore.
A questo proposito, Bazley ha rilevato che da quando è stata introdotta
questa tassa sono state esportate
grandi quantità di macchinari inglesi a
Calcutta e a Bombay e che vi sono
state impiantate fabbriche di tipo inglese. Queste si preparavano a sottrarre loro il miglior cotone indiano.
Se al 10% della tassa d’importazione
si aggiungeva il 15% per le spese di
trasporto, i rivali generati artificialmente dall’iniziativa del governo inglese venivano a godere di una tariffa
di protezione del 25%.
In generale l’assemblea ha espresso la
fiera opposizione dei magnati dell’industria inglese alla tendenza protezio-
25
nistica che si sta sviluppando sempre
più nelle colonie, e particolarmente in
Australia. Questi signori dimenticano
che per un secolo e mezzo le colonie
hanno protestato invano contro il
“sistema coloniale” della madre-patria.
A quel tempo le colonie chiedevano il
libero scambio, e l’Inghilterra teneva
fermo il suo divieto. Adesso l’Inghilterra predica il libero scambio, e le colonie ritengono il protezionismo nei
confronti dell’Inghilterra più conforme ai loro interessi.
Il dibattito parlamentare
sul discorso della Corona
Die Presse, 12 febbraio 1862
Londra, 7 febbraio 1862
L’apertura dei lavori del Parlamento è
stata una cerimonia senza lustro. L’assenza della Regina e la lettura del discorso della Corona da parte del Lord
Cancelliere hanno bandito ogni effetto
spettacolare. Anche il discorso della
Corona è stato breve senza essere incisivo; ha riassunto i faits accomplis della politica estera e per una valutazione
di essi ha fatto riferimento ai documenti presentati al Parlamento. Solo
una frase ha destato un certo scalpore,
la frase nella quale si dice che la Regina “confida che non vi sia ragione di
temere alcun turbamento della pace in
Europa”. Questa frase implica infatti
che la pace europea è relegata nel regno della speranza e della fede.
Secondo la prassi parlamentare, i
signori che dovevano rispondere al
discorso della Corona alle due Camere
erano già stati designati dai ministri tre
settimane prima. Conformemente alla
procedura abituale, la loro replica riecheggia largamente il discorso della
Corona e abbonda delle stucchevoli
lodi che i ministri profondono su se
stessi in nome del Parlamento. Quando Sir Francis Burdett nel 1811 pre-
MARX, Karl
26
venne quelli che erano stati incaricati
ufficialmente di rispondere e colse l’occasione per sottoporre il discorso
della Corona agli strali della critica, la
stessa Magna Carta sembrò messa in
pericolo. Da quella volta non si è più
ripetuta una simile enormità.
L’interesse al dibattito sul discorso della Corona perciò è limitato alle
“allusioni” del circolo ufficiale di opposizione ed alle “reazioni allusive”
dei ministri. Questa volta però l’interesse è stato più accademico che politico. Si è assistito alla migliore orazione funebre del principe Alberto,
che durante la sua vita non ha trovato affatto leggero il giogo dell’oligarchia inglese. Secondo la vox populi,
Derby e Disraeli hanno conquistato
la palma accademica, l’uno per la sua
facondia naturale, l’altro per la sua
teorica.
La parte “tecnica” del dibattito verteva sugli Stati Uniti, il Messico e il
Marocco. Riguardo agli Stati Uniti,
l’opposizione (gli Outs) ha elogiato la
politica del partito al potere (gli Ins o
beati possidentes). Derby, capo dei
conservatori alla Camera dei Lords, e
Disraeli, capo dei conservatori alla Camera dei Comuni, non si sono opposti
al governo, ma l’uno all’altro. Derby
prima di tutto ha espresso il suo malcontento per l’assenza di “pressione
dall’esterno”. Egli “ammirava”, ha detto, il comportamento stoico e dignitoso dei lavoratori delle industrie. Per
quanto riguardava i proprietari dei cotonifici, però, doveva escluderli dalle
sue lodi. Per loro le agitazioni americane si erano rivelate straordinariamente
opportune, dal momento che la sovrapproduzione e la saturazione di
tutti i mercati avrebbero imposto, in
ogni caso, restrizioni commerciali.
Derby ha sferrato poi un violento attacco al governo dell’Unione, “che
aveva esposto se stesso ed il suo popolo alla più indegna umiliazione”, e
non aveva agito da gentleman perché
non aveva preso l’iniziativa di rilasciare spontaneamente Mason, Slidell e
compagni e non aveva fatto debita
ammenda.
Disraeli, il suo sostenitore alla Camera Bassa, ha capito immediatamente
quanto l’attacco furibondo di Derby
fosse nocivo per le speranze dei conservatori. Perciò ha dichiarato, al contrario: Considerando le grandi difficoltà che incontrano gli uomini di stato
del Nordamerica (...) oserei dire che
essi le hanno fronteggiate con risolutezza e coraggio”. D’altro canto – con
la coerenza che gli è solita – Derby ha
protestato contro “le nuove dottrine”
del diritto marittimo. L’Inghilterra aveva sempre sostenuto i diritti dei belligeranti contro le pretese dei neutrali.
Vero è che Lord Clarendon aveva fatto una “pericolosa” concessione nel
1856 a Parigi; fortunatamente questa
non era ancora stata ratificata dalla
Corona, cosicché “non alterava la posizione del diritto internazionale”. Disraeli invece, chiaramente in collusione
con il governo a tale riguardo, ha evitato accuratamente di toccare questo
problema.
Derby approvava la politica di nonintervento del governo. Non è ancora
giunto il momento di riconoscere la
Confederazione sudista, ma egli ha
chiesto documenti autentici per giudicare “fino a che punto il blocco sia
reale ed efficace e (...) se il blocco è
stato tale da dover essere riconosciuto
e rispettato dal diritto delle genti”.
Lord John Russell, d’altro canto, ha
dichiarato che il governo dell’Unione
aveva impiegato nel blocco un numero
sufficiente di navi, ma non lo aveva
fatto dappertutto allo stesso modo.
Disraeli ha detto di non permettersi
di giudicare la natura del blocco, ma
ha chiesto documenti governativi come chiarimento. Egli ha messo in
guardia con enfasi da un prematuro
riconoscimento della Confederazione,
dal momento che attualmente l’Inghilterra si sta già compromettendo minacciando uno stato americano (il
Messico), del quale è stata la prima a
riconoscere l’indipendenza.
Dopo gli Stati Uniti è stata la volta
del Messico. Nessun membro del Parlamento ha condannato una guerra
senza previa dichiarazione, ma i parla1
La Guerra di Secessione Americana
mentari hanno condannato l’ingerenza
nelle relazioni interne di un paese con
la parola d’ordine di una “politica di
non-intervento”, e la coalizione dell’Inghilterra, della Francia e della Spagna nell’intimidire una terra pressoché
indifesa. In realtà l’opposizione ha
semplicemente rivelato di riservarsi il
Messico per manovre di partito. Derby
ha chiesto documenti sia sulla Convenzione fra le tre potenze che sul
modo in cui essa veniva attuata. Egli
ha detto di approvare la Convenzione
perché – secondo il suo punto di vista
– per ciascuna delle parti la giusta via
consisteva nel far valere i propri diritti
indipendentemente dalle altre. Le voci
che correvano gli facevano temere che
almeno una delle potenze – la Spagna
– si proponesse di agire al limite del
tradimento. Quasi che Derby ritenesse
veramente quella grande potenza che è
la Spagna capace dell’audacia di agire
in opposizione alla volontà di Inghilterra e Francia! Lord John Russell ha
risposto che le tre potenze perseguivano il medesimo scopo e avrebbero
evitato con cura di ostacolare i messicani nel risolvere le loro questioni.
Alla Camera Bassa Disraeli ha rinviato qualsiasi giudizio fino a quando
non avrà esaminato i documenti presentatigli. Comunque ha trovato
“sospetto l’annunzio del governo”.
L’indipendenza del Messico è stata
riconosciuta prima di tutti dall’Inghilterra. Questo riconoscimento richiama
una politica memorabile – la politica
contraria alla Santa Alleanza – ed un
insigne statista, Canning. Quale singolare occasione dunque ha spinto l’Inghilterra a vibrare il primo colpo contro questa indipendenza? Inoltre l’intervento non ha tardato molto a mutar
pretesto. Originariamente si trattava di
ottenere riparazione dei torti patiti dai
cittadini britannici. Ora si dice che
vengano introdotti nuovo princìpi governativi e che venga fondata una
nuova dinastia.
Lord Palmerston ha detto ai parlamentari di esaminare i documenti loro
sottoposti e di considerare che la Convenzione proibisce agli alleati di
“assoggettare” il Messico o di imporre
una forma di governo non gradita al
popolo. Allo stesso tempo però egli ha
rivelato un segreto diplomatico: egli sa
per sentito dire che nel Messico un
partito desidera che la repubblica venga trasformata in monarchia, ma ignora quale sia la consistenza di tale partito”. Da parte sua egli desidera soltanto
che venga stabilita nel Messico una
qualche forma di governo con cui possano trattare i governi stranieri”. Palmerston ha dichiarato che il governo
in carica non esisteva, rivendicando
così per l’alleanza fra l’Inghilterra,
Francia e Spagna la prerogativa della
Santa Alleanza di decidere dell’esistenza o meno dei governi stranieri.
“Questo è il massimo” – ha soggiunto
modestamente – “che il governo della
Gran Bretagna desideri ottenere”.
Nient’altro!
L’ultima “questione controversa”
della politica estera riguardava il Marocco. Il governo inglese ha concluso
un accordo con il Marocco che gli
consente di estinguere il suo debito nei
confronti della Spagna, debito che la
Spagna non avrebbe mai potuto imporre al Marocco senza il consenso
dell’Inghilterra. Sembra che certe persone abbiano anticipato denaro al Marocco per pagare le sue quote alla Spagna, togliendole così il pretesto per
occupare anche Tetuan e per rinnovare la guerra. Il governo inglese, in un
modo o nell’altro, ha garantito a queste persone l’interesse sul loro prestito,
ed ha avocato a sé come garanzia il
controllo dell’amministrazione delle
dogane del Marocco.
Derby ha trovato “piuttosto strano” questo modo di assicurare l’indipendenza del Marocco, ma non ha
sollecitato alcuna risposta dai ministri.
Alla Camera dei Comuni Disraeli si è
addentrato più decisamente nella questione: era “in una certa qual misura
incostituzionale”, dal momento che il
governo aveva gravato l’Inghilterra di
nuovi obblighi finanziari agendo alle
spalle del Parlamento. Palmerston gli
ha risposto semplicemente di esaminare i “documenti” presentati.
27
28
MARX, Karl
Gli affari interni sono stati appena
accennati. Derby ha soltanto ammonito i parlamentari, per riguardo “allo
stato d’animo della Regina”, a non sollevare questioni controverse
“disturbatrici” quali la riforma parlamentare. Egli è pronto a versare regolarmente il suo tributo di ammirazione
alla classe lavoratrice inglese, a patto
che essa tolleri di essere esclusa dalla
rappresentanza popolare con lo stesso
stoicismo con il quale sopporta il blocco americano.
Sarebbe un errore prevedere un
futuro idillico in seguito all’apertura
idillica del Parlamento: al contrario!
Scioglimento del Parlamento o scioglimento del governo è la parola d’ordine
della sessione di quest’anno. Si troverà
poi l’opportunità di precisare meglio
tale alternativa.
Vicende americane
Die Presse, 3 marzo 1862
Londra, 26 febbraio 1862
1
L’11 gennaio 1862 Lincoln
destituiva Cameron dalla
carica di ministro della Guerra e
lo nominava ambasciatore in
Russia.
Il presidente Lincoln azzarda un passo
avanti soltanto quando il corso degli
eventi e le richieste generali dell’opinione pubblica non consentono ulteriori indugi. Ma una volta che old Abe
si è convinto di essere arrivato a quel
momento critico, allora sorprende in
egual misura amici e nemici, con un’azione improvvisa eseguita nel modo
più silenzioso possibile. Così, nel modo meno appariscente, recentemente
ha fatto un colpo che sei mesi prima
gli sarebbe costato la carica presidenziale e che, anche pochi mesi fa, avrebbe suscitato una marea di discussioni. Intendiamo parlare della destituzione di McClellan dal suo posto di
comandante in capo di tutti gli eserciti
dell’Unione.
Prima di tutto Lincoln ha sostituito
il ministro della Guerra, Cameron,
con un giurista energico e spietato,
Edwin Stanton. Questi emanò un or-
dine del giorno ai generali Buell, Halleck, Butler, Sherman ed altri comandanti di interi settori o capi di spedizione, con il quale veniva comunicato
loro che in futuro avrebbero ricevuto
tutti gli ordini, in chiaro e segreti, direttamente dal ministro della Guerra.
Infine Lincoln emanò degli ordini dove si firmò come “Comandante in capo dell’esercito e della marina”, un
attributo che gli spettava, secondo la
Costituzione. In questo modo
“tranquillo”, “il giovane Napoleone”
fu privato del comando supremo che
aveva tenuto sino ad allora su tutti gli
eserciti e la sua azione di comando fu
limitata all’armata del Potomac, benché gli restasse il titolo di “comandante in capo”. Le vittorie conseguite
nel Kentucky, nel Tennessee e sulla
costa atlantica erano i primi avvenimenti favorevoli che segnavano l’assunzione del comando supremo da
parte del presidente Lincoln.
La carica di comandante in capo,
detenuta sino allora da McClellan, è
stata istituita negli Stati Uniti sulla
scorta del modello inglese e corrisponde approssimativamente alla carica di
Gran Connestabile dell’antico esercito
francese. Durante la guerra di Crimea
anche l’Inghilterra scoprì l’inutilità di
tale istituzione ormai superata. Di conseguenza fu concluso un compromesso per il quale parte degli attributi sino
allora spettanti al comandante in capo
venivano trasferiti al ministro della
Guerra.
Mancano ancora gli elementi necessari per poter valutare la tattica temporeggiatrice di McClellan sul Potomac;
comunque è fuori di dubbio che la sua
influenza ha agito da freno sull’andamento generale della guerra. Si può
ripetere per McClellan quello che Macaulay dice di Essex: “Gli errori militari di Essex furono dovuti per lo più a
scrupolo politico. Era fedele alla causa
del Parlamento, ma senza alcun ardore, ed una grande disfatta era la sola
cosa che temesse più di una grande
vittoria”. McClellan e la maggior parte
degli ufficiali dell’esercito regolare usciti da West Point sono più o meno
La Guerra di Secessione Americana
legati dall’esprit de corps ai loro vecchi
camerati militanti in campo avverso.
Nutrono la stessa gelosia per i parvenus che sono per loro i “militari civili”. A loro avviso la guerra deve essere
condotta in modo rigorosamente tecnico, mirando continuamente alla restaurazione dell’Unione sulla sua vecchia base, e perciò deve soprattutto
rimanere estranea a tendenze rivoluzionarie che tocchino le questioni di
principio. Bella concezione, per una
guerra che è essenzialmente una guerra di princìpi! I primi generali del Parlamento inglese caddero nello stesso
errore. “Ma – dice Cromwell – come
cambiò tutto, non appena la guida fu
presa da uomini che professavano
princìpi di fede e di religiosità!”.
Il Washington Star, il giornale particolare di McClellan, in uno dei suoi
ultimi numeri dichiara: “Lo scopo di
tutti gli accordi militari del generale
Mcclellan è di restaurare completamente l’Unione, esattamente com’era
prima dello scoppio della ribellione.”
Nessuna meraviglia, dunque, se sul
Potomac, sotto gli occhi del generale
supremo, l’esercito era addestrato a
catturare gli schiavi! Ancora poco
tempo fa, con un ordine speciale,
McClellan ha cacciato dall’accampamento gli Hutchinson, una famiglia di
musicisti, perché cantavano canzoni
antischiaviste!
A parte tali dimostrazioni “antitendenzialistiche”, McClellan ha protetto con il suo scudo i traditori dell’Unione. Così, per esempio, ha promosso Maynard ad una carica più elevata, benché costui – e lo dimostrano i
documenti resi pubblici dal comitè
d’inchiesta della Camera dei Deputati
– lavorasse come agente al soldo dei
secessionisti. A partire dal generale
Patterson, il cui tradimento fu la causa
della sconfitta di Manassas, fino al generale Stone, che predispose la sconfitta di Ball’s Bluff con un accordo
diretto con il nemico, McClellan sapeva tenere ogni traditore militare lontano dalla corte marziale, e, in moltissimi casi, anche dall’espulsione dall’esercito. Il comitè d’inchiesta del Congres-
29
so, a questo proposito, ha rivelato i
fatti più sorprendenti. Lincoln decise
di prendere provvedimenti energici
per dimostrare che con l’assunzione
del comando supremo da parte sua era
suonata l’ora per i traditori con le spalline e che era giunto il momento cruciale nella conduzione delle operazioni. Per suo ordine il generale Stone fu
arrestato nel suo letto alle due di notte
del 10 febbraio e portato a Forte Lafayette. Poche ore dopo fu reso noto
l’ordine del suo arresto, firmato da
Stanton, in cui si formula l’accusa di
alto tradimento, che dovrà essere giudicata da una corte marziale. Stone
venne arrestato e messo sotto accusa
senza comunicare nulla al generale
McClellan.
Finché rimaneva inattivo e si cullava sugli allori prima di guadagnarseli,
McClellan era naturalmente deciso a
non permettere ad alcun altro generale
di prevenirlo. I generali Halleck e Pope avevano deciso una mossa combinata per costringere ad una battaglia
decisiva il generale Price, che già una
volta era sfuggito a Frémont grazie
all’intervento di Washington. Un telegramma di McClellan proibì loro di
vibrare il colpo. Il generale Halleck,
richiamato con un telegramma analogo, dovette desistere dall’attacco di
Forte Columbus, in un momento in
cui il forte era pressoché allagato.
McClellan aveva chiaramente proibito
ai generali dell’Ovest di corrispondere
uno con l’altro. Ognuno di loro doveva per prima cosa rivolgersi a Washington appena veniva proposta un’azione combinata. Ora il presidente Lincoln ha ridato loro la necessaria libertà
di azione.
Quanto fosse vantaggiosa per la
secessione la politica militare del generale McClellan, è dimostrato oltre ogni
dubbio dai continui panegirici che gli
dedica il New York Herald. Per i gusti
dell’Herald, egli è un eroe. Il famoso
Bennet, proprietario e redattore capo
dell’Herald, prima aveva tenuto in pugno i governi di Pierce e di Buchanan
Marx cita il discorso di
per mezzo dei suoi “rappresentanti
Cromwell al Parlamento del
speciali”, ossia i suoi corrispondenti a 4 luglio 1653.
1
30
MARX, Karl
Washington. Sotto la presidenza di
Lincoln egli cercò di conquistarsi lo
stesso potere per vie traverse, facendo
sì che il suo “rappresentante speciale”,
il dottor Joes, un uomo del Sud e fratello di un ufficiale che aveva disertato
dall’Unione, entrasse nei favori di
McClellan.
Sotto il patrocinio di McClellan,
devono essere state permesse grandi
libertà a questo Joes quando Cameron
era a capo del dicastero della Guerra.
Evidentemente egli si aspettava che
Stanton gli garantisse gli stessi privilegi,
e pertanto l’8 febbraio si presentava al
ministero della Guerra dove il ministro
della Guerra, il suo segretario in capo e
alcuni membri del congresso si stavano
consultando appunto sui provvedimenti bellici necessari. Messo alla porta, Joes si inalberò, e quando finalmente battè in ritirata, minacciò che l’Herald avrebbe sparato a zero sull’attuale
dicastero della Guerra nel caso che gli
avesse rifiutato lo “speciale privilegio”
di confidargli, in particolare, le deliberazioni del Gabinetto, i telegrammi, le
comunicazioni pubbliche e le notizie
belliche. La mattina dopo, il 9 febbraio,
il dottor Joes aveva riunito tutto lo stato maggiore di McClellan a bere champagne a colazione con lui. Le disgrazie,
però, fanno presto ad arrivare. Un sottufficiale entrò con sei uomini, prese il
potente Joes e lo portò a Forte
McHenry dove, come stabiliva chiaramente l’ordine del ministro della Guerra, doveva essere tenuto sotto stretto
controllo come spia.
I filo-secessionisti alla camera
bassa. Riconoscimento del
blocco americano
Die Presse, 12 marzo 1862
Londra, 8 marzo 1862
Parturing montes! Fin dall’apertura
del Parlamento gli inglesi filo-
secessionisti avevano minacciato una
“mozione” sul blocco americano. La
risoluzione è stata presentata infine
alla Camera Bassa nella veste assai modesta di una mozione che esorta il governo a “presentare altri documenti
sullo stato del blocco” e anche questa
mozione insignificante è stata respinta,
senza la formalità della votazione.
La risoluzione era proposta da
Gregory, il rappresentante di Galway,
che nella sessione parlamentare dell’anno scorso, subito dopo lo scoppio
della guerra civile, aveva già presentato una mozione mirante al riconoscimento della Confederazione degli Stati del Sud. Nel suo discorso di quest’anno è innegabile una certa abilità
sofistica. Il discorso risente soltanto
del fatto di essere sfortunatamente
diviso in due parti, che si annullano a
vicenda. Una parte descrive gli effetti
disastrosi del blocco dell’industria
cotoniera inglese e di conseguenza
chiede la rimozione del blocco stesso.
L’altra parte dimostra, sulla base dei
documenti presentati dal governo, tra
i quali due memoriali di Yancey e
Mann e di Mason, che il blocco non
esiste affatto, tranne che sulla carta, e
che di conseguenza non dovrebbe più
essere riconosciuto. Gregory ha condito il suo discorso con una citazione
dietro l’altra di articoli del Times. Il
Times, per il quale è molto seccante
sentirsi ricordare in questo momento
le sue dichiarazioni profetiche, ringrazia Gregory con un articolo di fondo
nel quale lo espone al pubblico ludibrio. La mozione di Gregory era appoggiata da Bentick, un Tory a oltranza che per due anni si è sforzato invano di allontanare da Disraeli parte dei
conservatori.
È stato uno spettacolo ridicolo in
sé e per sé vedere i presunti interessi
dell’industria inglese sostenuti da Gregory, rappresentante di Galway, un
posto di mare senza importanza dell’Irlanda occidentale, e da Bentinck,
rappresentante del Norfolk, una zona
puramente agricola.
Forster, rappresentante di Bradford, un centro industriale inglese, si
La Guerra di Secessione Americana
è opposto ad entrambi. Il discorso di
Forster merita un esame più attento,
dal momento che dimostra in modo
singolare, l’inconsistenza delle voci sul
blocco americano propalate in Europa
dagli amici della secessione. In primo
luogo, ha detto, gli Stati Uniti hanno
osservato tutte le formalità richieste
dal diritto internazionale. Non hanno
dichiarato alcun porto in stato di blocco senza il dovuto proclama, senza
preavviso del momento del suo inizio
o senza aver fissato i quindici giorni
allo scadere dei quali sarebbe stato
proibito alle navi straniere neutrali di
entrare ed uscire dal porto.
Il discorso sulla “inefficacia” legale
del blocco si basa quindi soltanto sui
casi, a quanto pare frequenti, in cui
sarebbe stato violato. Prima dell’apertura del Parlamento è stato detto che
era stato violato da 600 navi. Gregory
ora riduce il numero a 400. La sua asserzione si basa su due elenchi forniti
al governo, uno il 30 novembre dai
rappresentanti del Sud Yancey e Mann,
l’altro, l’elenco supplementare, da Mason. Secondo Yancey e Mann più di
400 navi – in partenza e in arrivo –
hanno rotto il blocco, tra la proclamazione e il 20 agosto. Secondo i rapporti
della dogana, comunque, il numero
totale delle navi ammonta soltanto a
322. Di queste, 119 sono partite prima
della dichiarazione del blocco, 56 prima della scadenza dei quindici giorni di
preavviso. Restano 147 navi. Di queste
147 navi, 25 erano battelli fluviali che
andavano nell’entroterra a New Orleans, dove sono rimasti fermi; 106 erano navi costiere; ad eccezione di tre
vascelli, erano tutte navi “quasi interne”, secondo quanto ha detto lo stesso
Mason. Di queste 106, 66 sono salpate
tra Mobile e New Orleans.
Chiunque conosca questa costa sa
quanto sia assurdo chiamare violazione del blocco il passaggio di un battello dietro le lagune, toccando appena il
mare aperto e scivolando lungo la costa. Lo stesso vale per i battelli tra Savannah e Charleston, dove si insinuano tra le isole tra strette lingue di terra.
Secondo la dichiarazione del console
inglese Bunch, queste chiatte comparvero solo per alcuni giorni sul mare
aperto. Dopo avere detratto 106 battelli costieri, restano 16 partenze per
porti stranieri; di queste 15 erano porti
americani, soprattutto per Cuba, e una
per Liverpool. La “nave” che attraccò
a Liverpool era una goletta, come tutte
le altre “navi”, ad eccezione di una
corvetta.
Si è parlato molto, ha esclamato
Forster, di blocchi fittizi. Quest’elenco
di Yancey e Mann non è un elenco
fittizio? Egli ha sottoposto l’elenco
supplementare di Mason ad un esame
analogo, e ha ulteriormente dimostrato
che solamente tre o quattro incrociatori sono sfuggiti dal blocco, mentre
nell’ultima guerra anglo-americana
non meno di 516 incrociatori americani forzarono il blocco inglese e si spinsero sino alle coste inglesi. “Il blocco,
al contrario, è stato straordinariamente
efficace sin dall’inizio”.
Un’ulteriore prova è fornita dalle
relazioni dei consoli inglesi; soprattutto, comunque, dalle liste dei prezzi del
Sud. L’11 gennaio il prezzo del cotone
a New Orleans offriva un aggio del
100% per l’esportazione in Inghilterra;
il guadagno sull’importazione del sale
ammontava al 1500% e il guadagno
sul contrabbando di guerra era incomparabilmente superiore. Malgrado questa allettante prospettiva di guadagno,
era impossibile tanto spedire cotone in
Inghilterra quanto spedire il sale a
New Orleans o a Charleston.
Di fatto, comunque, Gregory non si lamentava dell’inefficacia del blocco, bensì della
sua eccessiva efficacia. Ci esorta a porre termine al blocco e con esso alla paralisi dell’industria e del commercio. Basta una risposta:
chi esorta questa camera a violare il blocco?
I rappresentanti delle zone che ne risentono
negativamente? Quest’appello viene da
Manchester, dove le fabbriche hanno dovuto chiudere, o da Liverpool, dove per mancanza di carichi le navi stanno ferme nei
bacini? Al contrario, viene da Galway, ed è
sostenuta dal Norfolk.
Tra gli amici dei secessionisti si è messo in vista Lindsay, un grosso armato-
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32
MARX, Karl
re di North Shields. Lindsay aveva offerto all’Unione i suoi cantieri navali, e
all’uopo era andato a Washington, dove ha avuto il dispiacere di veder rifiutare le sue proposte d’affari. Da allora
le sue simpatie sono andate tutte ai
secessionisti.
Il dibattito si concludeva con un
discorso molto circostanziato di Sir
R. Palmer, il vice-procuratore generale, che parlava a nome del governo.
Egli ha fornito convincenti prove
giuridiche sulla forza e la validità del
blocco secondo il diritto internazionale. In tale occasione egli ha fatto
scempio – e di questo l’ha accusato
Lord Cecil – dei “nuovi princìpi”
proclamati nella Convenzione di Parigi del 1856. Tra l’altro ha espresso
la sua meraviglia per il fatto che nel
Parlamento britannico Gregory ed i
suoi alleati osassero fare appello all’autorità di Monsieur de Hautefeuille.
Quest’ultimo è senza dubbio una
“autorità” di nuovo conio del partito
bonapartista. Gli articoli di Hautefeuille nella Revue Contemporaine
sui diritti marittimi dei neutrali dimostrano la più completa ignoranza o
mauvaise foi per ordine superiore.
Con il fallimento dei parlamentari
filo-secessionisti sulla questione del
blocco viene eliminata ogni eventualità di rottura fra l’Inghilterra e gli
Stati Uniti.
La guerra civile americana (1)
Die Presse, 26 marzo 1862
Londra, 21 marzo 1862
Da qualunque punto di vista la si consideri, la guerra civile americana presenta uno spettacolo senza confronti
negli annali della storia militare. L’immensa ampiezza del territorio conteso;
la vasta estensione del fronte e delle
linee di operazione; la consistenza numerica degli eserciti nemici, la cui or-
ganizzazione trovava ben poco sostegno in una precedente struttura organizzativa; il costo favoloso di questi
eserciti; il modo do guidarli e i princìpi
tattici e strategici generali secondo i
quali viene fatta la guerra, sono tutti
elementi nuovi agli occhi dello spettatore europeo.
La congiura secessionista, organizzata, patrocinata e sostenuta, fin da
molto tempo prima del suo scoppio,
dal governo Buchanan, ha dato al Sud
un vantaggio che era la sola cosa con
la quale poteva sperare di raggiungere
il suo scopo.
Per il Sud – compromesso dalla sua
popolazione di schiavi e da un elemento fortemente unionista fra gli stessi
bianchi, con un numero di uomini liberi di due terzi inferiore al Nord, ma
più pronto all’attacco, grazie alla moltitudine di avventurieri e sfaccendati
cui dà ricetto – tutto dipendeva da un’offensiva rapida, audace, anche temeraria. Se i sudisti fossero riusciti a
prendere Saint-Louis, Cincinnati, Washington, Baltimora e forse Filadelfia,
avrebbero potuto far leva sul panico, e
poi con la diplomazia e la corruzione
avrebbero potuto assicurarsi il riconoscimento dell’indipendenza di tutti gli
stati schiavisti. Se questo primo furibondo attacco fosse fallito, almeno nei
punti essenziali, la loro posizione fatalmente sarebbe diventata ogni giorno
peggiore, mentre contemporaneamente sarebbe aumentata la forza del
Nord. Questo punto è stato ben compreso dagli uomini che avevano organizzato la congiura secessionista con
spirito veramente bonapartista. Essi
hanno iniziato la campagna secondo i
piani; le loro bande di avventurieri si
sono riversate nel Missouri e nel Tennessee, mentre le loro truppe più organizzate invadevano la Virginia orientale e preparavano un colpo di mano
contro Washington. Con il fallimento
di questo colpo, sul piano militare, la
campagna sudista era perduta in partenza.
Il Nord è salito pigramente, con
riluttanza sulla scena di guerra, com’era da prevedersi dato il suo maggiore
La Guerra di Secessione Americana
sviluppo industriale e commerciale. Il
meccanismo sociale qui era di gran
lunga più complesso che nel Sud, e si
richiedeva molto più tempo per imprimere questa insolita direzione al suo
movimento. L’arruolamento dei volontari per tre mesi è stato un errore
grande, ma forse inevitabile. La politica del Nord consisteva nel rimanere
inizialmente sulla difensiva in tutti i
punti cruciali, organizzare le sue forze,
addestrarle con operazioni su piccola
scala e senza correre il rischio di battaglie decisive, e appena l’organizzazione
si fosse sufficientemente consolidata e
l’elemento traditore fosse stato in
qualche modo allontanato dall’esercito, passare finalmente ad un’offensiva
energica e martellante, e soprattutto
riconquistare il Kentucky, il Tennessee, la Virginia e la Carolina Settentrionale. La trasformazione dei civili in
soldati richiedeva necessariamente più
tempo nel Nord che nel Sud, ma una
volta che si fosse compiuta si poteva
contare sulla superiorità individuale
dell’uomo del Nord.
Nell’insieme, tenendo conto anche
degli errori di origine politica più che
militare, il Nord ha agito secondo quei
princìpi. La guerriglia nel Missouri e
nella Virginia Occidentale, mentre
proteggeva le popolazioni unioniste,
abituava le truppe al servizio al fronte
ed agli scontri a fuoco, senza esporle a
sconfitte decisive. La grande disfatta di
Bull Run è stata in un certo senso il
risultato dell’errore precedente di arruolare volontari per tre mesi. Era assurdo permettere che una posizione
forte, su terreno difficile ed in possesso di un nemico di poco inferiore di
numero fosse attaccata frontalmente
da un esercito la cui prima linea era
costituita da elementi inesperti. Il panico che si è impadronito dell’esercito
dell’Unione al momento decisivo, per
motivi ancora oscuri, non poteva sorprendere nessuno che avesse una conoscenza anche approssimativa della
storia delle guerre popolari. Episodi
analoghi accaddero molto spesso alle
truppe francesi dal 1792 al 1795; tuttavia non impedirono a quelle stesse
truppe di vincere le battaglie di Jemappes e Fleurus, Montenotte, Castiglione
e Rivoli. I motteggi della stampa europea per il panico di Bull Run avevano
una sola scusante alla loro stupidaggine: la millanteria di una parte della
stampa americana del Nord prima della battaglia.
La tregua di sei mesi che è seguita
alla sconfitta di Manassas è stata sfruttata dal Nord meglio che dal Sud. Non
solo le file del Nord sono state rafforzate in misura maggiore che non quelle del Sud, ma anche gli ufficiali hanno
ricevuto una migliore formazione, e la
disciplina e l’addestramento delle truppe non ha incontrato nel Nord gli
stessi ostacoli del Sud. I tradimenti e le
intromissioni incompetenti sono stati
eliminati progressivamente, e il periodo del panico di Bull Run appartiene
già al passato. Ovviamente, gli eserciti
di entrambe le parti non devono essere misurati secondo il metro dei grandi
eserciti europei e nemmeno del primo
esercito regolare degli Stati Uniti. Infatti Napoleone poteva addestrare battaglioni di reclute nelle caserme durante il primo mese, iniziare a marciare
durante il secondo e guidarli contro il
nemico nel terzo; ma allora ogni battaglione riceveva un rinforzo sufficiente
di ufficiali e sottufficiali, ogni compagnia alcuni vecchi soldati, ed il giorno
della battaglia le nuove truppe erano
unite in brigate insieme ai veterani che,
per così dire, ne costituivano il nerbo.
In America non esistevano tutte
queste condizioni. Senza la considerevole massa dotata di esperienza militare che era emigrata in America in seguito ai moti rivoluzionari europei del
1848-1849, l’organizzazione dell’esercito dell’Unione avrebbe richiesto
molto più tempo ancora. Il numero
minimo dei morti e dei feriti in proporzione al totale delle truppe (di solito uno su venti) dimostra che la maggior parte delle battaglie, anche le più
recenti, nel Kentucky e nel Tennessee,
sono state combattute prevalentemente con armi da fuoco a raggio abbastanza lungo e che le cariche all’arma
bianca, quando vi sono state, o si sono
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34
MARX, Karl
arrestate subito di fronte al fuoco nemico o hanno volto il nemico in fuga
prima che si arrivasse al combattimento a corpo a corpo. Nel frattempo la
nuova campagna è stata iniziata sotto
auspici più favorevoli con l’avanzata di
Buell e Halleck attraverso il Kentucky
fino al Tennessee.
Dopo la riconquista del Missouri e
della Virginia Occidentale, l’Unione ha
iniziato la campagna con l’avanzata nel
Kentucky. Qui i secessionisti tenevano
tre forti posizioni: i campi fortificati di
Columbus sul Mississipi a sinistra, di
Bowling Green al centro e di Mill
Springs sul fiume Cumberland a destra. La loro linea si estendeva per trecento miglia da ovest ad est. L’estensione di questa linea non consentiva ai
tre corpi di sostenersi a vicenda e offriva alle truppe dell’Unione l’opportunità di attaccarle separatamente con
forze superiori. Il grande errore nella
disposizione dei secessionisti era dovuto al loro tentativo di proteggere
tutto quello che avevano occupato. Un
solo campo centrale ben munito e fortificato, scelto come terreno di battaglia per uno scontro decisivo e tenuto
dal grosso dell’esercito, avrebbe difeso
molto meglio il Kentucky. Esso avrebbe dovuto metterle in una posizione
pericolosa, qualora avessero tentato di
avanzare ugualmente contro una concentrazione di truppe così forte.
Date le circostanze, gli unionisti
hanno deciso di attaccare quei tre
campi uno dopo l’altro, di fare uscire il
nemico dalle sue postazioni e costringerlo ad accettare battaglia in campo
aperto. Questo piano, conforme a tutte le regole dell’arte della guerra, è stato attuato con decisione e rapidità.
Verso la metà di gennaio un corpo di
circa 15 mila unionisti marciava su
Mill Springs, che era tenuto da 20 mila
secessionisti. Gli unionisti hanno manovrato in modo da far credere al nemico di avere a che fare soltanto con
un debole corpo di ricognizione. Il
generale Zollicoffer è caduto immediatamente nella trappola, è uscito dal suo
campo fortificato e ha attaccato gli
unionisti. Si è subito reso conto di a-
vere di fronte una forza superiore: è
caduto sul campo, mentre le sue truppe subivano una completa disfatta,
pari a quella degli unionisti a Bull Run.
Questa volta però la vittoria è stata
sfruttata in ben altro modo. L’esercito
sconfitto è stato incalzato da presso
finché non è arrivato, sfinito, demoralizzato, senza artiglieria da campo né
salmerie, al suo accampamento a Mill
Springs. Questo campo si trovava sulla
riva settentrionale del Cumberland,
cosicché nel caso di un’altra sconfitta
le truppe non avevano aperta altra ritirata se non attraverso il fiume, con
pochi battelli a vapore e chiatte fluviali. In genere troviamo che quasi tutti
gli accampamenti dei secessionisti erano dislocati sulla sponda nemica del
fiume. Occupare simili posizioni non
solo è secondo le regole, ma è molto
utile se si ha un ponte alle spalle. In tal
caso l’accampamento serve da testa di
ponte e dà a chi lo occupa il modo di
impegnare le proprie forze a suo piacimento su entrambe le rive del corso
d’acqua, mantenendo così il controllo
assoluto del fiume. Senza un ponte alle
spalle, invece, un accampamento sulla
sponda nemica di un fiume taglia la
ritirata dopo uno scontro sfortunato e
costringe le truppe a capitolare, o le
espone al massacro e all’annegamento,
la sorte che è toccata agli unionisti a
Ball’s Bluff sulla sponda nemica del
Potomac, dove li aveva spinti il tradimento del generale Stone.
Quando i secessionisti sconfitti avevano impiantato il loro accampamento a Mill Springs, avevano capito
subito di dover respingere un attacco
nemico contro le loro fortificazioni,
altrimenti ne sarebbe seguita necessariamente la capitolazione entro brevissimo tempo. Dopo l’esperienza della
mattinata avevano perduto fiducia nelle loro capacità di resistenza. Di conseguenza, quando il giorno dopo gli
unionisti sono avanzati per attaccare
l’accampamento, si son resi conto che
il nemico aveva profittato della notte
per abbandonare il campo, portando
con sé, dall’altra parte del fiume, le
salmerie, l’artiglieria e le munizioni. In
La Guerra di Secessione Americana
tal modo l’estrema destra della linea
secessionista si è ritirata verso il Tennessee, e il Kentucky orientale, dove la
massa della popolazione è ostile al partito schiavista, è stato riconquistato
all’Unione.
Nello stesso periodo – verso la metà di gennaio – sono iniziati i preparativi per cacciare i secessionisti da Columbus e da Bowling Green. Si teneva
pronta una grande flottiglia di cannoniere corazzate e di battelli-mortaio, e
si sparse ovunque la voce che essa doveva servire da scorta ad un forte esercito in marcia lungo il Mississipi da
Cairo a Memphis e New Orleans. Ad
ogni modo, tutte le azioni sul Mississpi
erano semplicemente manovre diversive. Al momento decisivo le cannoniere furono portate sul fiume Ohio e da
lì sul Tennessee, che risalirono fino a
Forte Henry. Questo posto, insieme a
Forte Donelson sul Cumberland, costituiva la seconda linea di difesa dei
secessionisti nel Tennessee. La posizione era scelta bene, perché nel caso
di una ritirata dietro al Cumberland,
questo fiume ne avrebbe coperto il
fronte, ed il Tennessee il fianco sinistro, mentre la sottile lingua di terra tra
i due fiumi era protetta a sufficienza
dai due forti stessi. La rapida azione
degli unionisti, comunque, faceva
breccia nella seconda linea prima ancora di attaccare l’ala sinistra e il centro della prima linea.
Nella prima settimana di febbraio le
cannoniere degli unionisti comparvero
davanti a Forte Henry, che si arrese
dopo un breve bombardamento. La
guarnigione fuggì a Forte Donelson,
dal momento che le forze terrestri della spedizione non erano abbastanza
consistenti da circondare la posizione.
Allora le cannoniere ridiscesero il Tennessee, risalirono l’Ohio e di lì, lungo
il Cumberland, arrivarono a Forte Donelson. Una sola cannoniera si avventurò audacemente su per il Tennessee,
costeggiando lo stato del Mississipi e
spingendosi fino a Florance nell’Alabama settentrionale, dove una serie di
acquitrini e di secche (note col nome
di Muscle Shoals) le impedirono di
proseguire la navigazione. Il fatto che
una sola cannoniera abbia compiuto
questo lungo viaggio di almeno 150
miglia e poi sia ritornata, senza essere
attaccata, dimostra come il sentimento
unionista prevalga lungo il fiume –
cosa che sarà molto utile alle truppe
unioniste se dovranno spingersi tanto
lontano.
La spedizione fluviale lungo il
Cumberland coordinò allora i suoi
movimenti con quelli delle forze di
terra al comando dei generali Halleck e
Grant. I secessionisti dislocati a Bowling Green si ingannarono sui movimenti degli unionisti. Di conseguenza
rimasero tranquillamente nel loro accampamento per tutta la settimana
successiva alla caduta di Forte Henry,
mentre Forte Donelson veniva circondato dalla parte di terra da 40 mila unionisti e dalla parte del fiume veniva
minacciato da una poderosa flottiglia
di cannoniere. Come il campo di Mill
Springs e Forte Henry, Forte Donelson aveva il fiume alle spalle, senza un
ponte per la ritirata. Era la postazione
più forte che gli unionisti avessero attaccato fino allora: le fortificazioni erano state predisposte con la massima
cura, inoltre il luogo era abbastanza
grande da ospitare i 20 mila uomini
che l’occupavano. Il primo giorno dell’attacco le cannoniere fecero tacere il
fuoco delle batterie puntate verso il
fiume e bombardarono l’interno delle
opere di difesa, mentre le truppe di
terra respingevano il grosso dei secessionisti a cercare rifugio proprio sotto
il tiro delle proprie opere di difesa. Il
secondo giorno sembra che le cannoniere, che il giorno prima avevano subìto gravi danni, non abbiano fatto
molto. Le truppe di terra, invece, dovettero sostenere uno scontro lungo e
molto accanito con le colonne della
guarnigione, che cercavano di sfondare l’ala destra del nemico per assicurarsi la linea di ritirata verso Nashville.
Comunque, un vigoroso attacco sferrato dall’ala destra degli unionisti contro l’ala sinistra dei secessionisti, e i
notevoli rinforzi che ricevette l’ala sinistra degli unionisti, decisero le sorti
35
36
MARX, Karl
dello scontro in favore degli attaccanti.
Parecchie opere avanzate erano state
travolte; la guarnigione, costretta entro
le sue linee di difesa interne, senza
possibilità di ritirata e chiaramente incapace di resistere ad un ulteriore assalto, il giorno dopo si piegava ad una
resa senza condizioni.
La guerra civile americana (2)
Die Presse, 27 marzo 1862
Londra, 22 marzo 1862
Con Forte Donelson l’artiglieria, le salmerie e i rifornimenti militari del nemico caddero nelle mani degli unionisti;
13 mila secessionisti si arresero il giorno della sua caduta; altri mille il giorno
dopo, e appena l’avanguardia dei vincitori comparve davanti a Clarcksville,
che si trova più a monte sulle rive del
Cumberland, la città aprì le porte. Anche qui erano stati ammassati notevoli
rifornimenti dei secessionisti.
La presa di Forte Donelson presenta un solo enigma: la fuga del generale
Floyd con cinquemila uomini il secondo giorno di bombardamento. Questi
fuggiaschi erano troppi per essere portati via di nascosto su battelli a vapore
durante la notte; qualche misura di
precauzione da parte degli assalitori
avrebbe dovuto impedire tale fuga.
Sette giorno dopo la resa di Forte
Donelson, Nashville fu occupata dai
federali. La distanza tra i due luoghi è
di circa 100 miglia inglesi, e una marcia
di 15 miglia al giorno, su strade pessime e nella stagione più sfavorevole
dell’anno, torna ad onore delle truppe
unioniste. Ricevuta la notizia della caduta di Forte Donelson, i secessionisti
evacuarono Bowling Grenn; una settimana dopo abbandonarono Columbus
e si ritirarono su un’isola del Mississipi, 45 miglia a sud. Così il Kentucky è
stato completamente riconquistato
dall’Unione. Il Tennessee potrà rimanere nelle mani dei secessionisti sol-
tanto se attaccheranno e vinceranno
una grande battaglia; a tal fine, si dice
che abbiano concentrato 65 mila uomini. Nel frattempo niente impedisce
agli unionisti di contrapporre loro forze soverchianti.
Il comando delle operazioni nella
campagna del Kentucky da Somerset a
Nashville merita il massimo elogio. La
riconquista di un territorio così vasto,
l’avanzata in un solo mese dal fiume Ohio al Cumberland, dimostrano un’energia, una risolutezza e una velocità d’azione quali raramente sono state raggiunte
da eserciti regolari in Europa. Per esempio, si può fare il confronto con la lenta
avanzata degli alleati da Magenta a Solferino nel 1859 – senza l’inseguimento del
nemico in ritirata e senza il tentativo di
tagliar fuori i suoi dispersi o di aggirare
ed accerchiare in alcun modo interi corpi
delle sue truppe.
Halleck e Grant in particolare offrono un buon esempio di comando
militare forte e deciso. Senza considerare minimamente Columbus né Bowling Green, essi hanno concentrato
le loro forze nei punti decisivi, cioè
Forte Henry e Forte Donelson, hanno
lanciato su questi un attacco rapido e
violento, e proprio per questo la posizione di Columbus e Bowling Green
diveniva insostenibile. Poi hanno subito marciato su Clarksville e Nashville,
senza dare ai secessionisti in ritirata il
tempo di occupare nuove posizioni
nel Tennessee settentrionale. Durante
questo rapido inseguimento il grosso
delle truppe secessioniste a Columbus
è rimasto completamente tagliato fuori
dal centro e dall’ala destra del suo esercito. I giornali inglesi hanno criticato ingiustamente questa operazione.
Anche se l’attacco su Forte Donelson
fosse fallito, i secessionisti, impegnati
dal generale Buell a Bowling Green,
non avrebbero potuto inviare abbastanza uomini da permettere alla guarnigione di inseguire gli unionisti respinti in campo aperto o da minacciare
la loro ritirata. D’altro canto, Columbus è così lontana che i suoi uomini
non avrebbero mai potuto interferire
nei movimenti di Grant.
La Guerra di Secessione Americana
Di fatto, dopo che gli unionisti cacciarono i secessionisti dal Missouri,
Columbus divenne una opposizione
del tutto inutile. Le truppe che formavano la guarnigione di Columbus dovettero ritirarsi in tutta fretta a Memphis o addirittura nell’Arkansas, per
sfuggire al pericolo di dover ingloriosamente deporre le armi.
In seguito all’evacuazione del Missouri e alla riconquista del Kentucky, il
teatro di guerra si è tanto ristretto che
i diversi eserciti possono collaborare,
entro certi limiti, lungo tutta la linea
delle operazioni ed agire per il conseguimento dei risultati stabiliti. In altre
parole, la guerra assume ora per la prima volta un carattere strategico, e la
configurazione geografica del paese
acquista nuovo interesse; ora è compito dei generali nordisti trovare il tallone d’Achille degli stati del cotone.
Fino all’occupazione di Nashville
non era stata possibile alcuna strategia
combinata fra l’esercito del Kentucky
e quello del Potomac: erano troppo
distanti l’uno dall’altro; si trovavano
sulla stessa linea del fronte, ma le loro
linee d’operazione erano completamente diverse. I movimenti dell’esercito del Kentucky diventano importanti
per l’intero teatro di guerra solo con
l’avanzata vittoriosa nel Tennessee.
I giornali americani, influenzati da
McClellan, non fanno che parlare della
teoria dell’avvolgimento dell’anaconda.
Secondo tale teoria un’enorme linea di
eserciti dovrà avvolgersi attorno ai ribelli, stringere gradualmente le sue spire, ed
infine strangolare il nemico. Questa è
una puerilità bella e buona, una riesumazione del cosiddetto “sistema del cordone” ideato in Austria verso il 1770, e
messo in atto contro i francesi dal 1792
al 1797 con enorme ostinazione e con
altrettanto insuccesso. Il colpo definitivo
a questo sistema fu vibrato a Jemappes,
a Fleurus e più particolarmente a Montenotte, a Millesimo, a Dego, a Castiglione
e a Rivoli. I francesi tagliavano in due
“l’anaconda” attaccando in un punto
dove avevano concentrato forze superiori; le spire dell’anaconda venivano
quindi stritolate una dopo l’altra.
Negli stati popolosi e più o meno
centralizzati, vi è sempre un punto che
rappresenta il cuore della resistenza
nazionale; questa si spezza se quello
cade in mano al nemico. Parigi offre
un magnifico esempio al riguardo. Gli
stati schiavisti tuttavia non possiedono
tale centro; sono scarsamente popolati, con poche grandi città, e quelle poche situate tutte lungo la costa. Quindi, ci si chiede: esiste ciò malgrado un
centro di gravità militare, la cui occupazione spezzerà la spina dorsale della
resistenza, oppure quegli stati sono
come era ancora la Russia nel 1812,
cioè non si possono conquistare se
non occupando ogni villaggio, ogni
podere, insomma, tutta la periferia?
Diamo uno sguardo alla formazione
geografica della terra dei secessionisti,
con la sua lunga striscia di costa sia
sull’oceano Atlantico che sul golfo del
Messico. Finché i confederati tenevano il Kentucky e il Tennessee, il tutto
formava una grande massa compatta.
La perdita di tutti e due quegli stati
ha aperto un immenso squarcio nel
loro territorio, separando come un cuneo gli stati dell’oceano Atlantico settentrionale dagli stati del golfo del
Messico. La linea diretta dalla Virginia
e le due Caroline al Texas, la Louisiana,
il Mississipi e anche parte dell’Alabama
passa attraverso il Tennessee, che ora è
occupato dagli unionisti. L’unica strada
che dopo la conquista completa del
Tennessee da parte degli unionisti unisce ancora i due gruppi di stati schiavisti passa attraverso la Georgia. Questo
dimostra che la Georgia è la chiave per
arrivare alla terra dei secessionisti. Con
la perdita della Georgia la Confederazione sarebbe tagliata in due parti prive
di qualsiasi collegamento. Una riconquista della Georgia da parte dei secessionisti sarebbe addirittura inconcepibile, perché le forze militari degli unionisti sarebbero radunate in una posizione centrale, mentre i loro avversari,
divisi in due campi, avrebbero forze
appena sufficienti per sferrare un attacco coordinato.
La conquista di tutta la Georgia,
con la costa della Florida, sarebbe in-
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38
MARX, Karl
dispensabile per una tale operazione?
Niente affatto. In una terra dove le
comunicazioni, particolarmente fra
posti lontani, dipendono più dalle ferrovie che dalle strade, è sufficiente
occupare le ferrovie. La linea ferroviaria più meridionale fra gli stati del golfo del Messico e la costa atlantica passa per Macon e Gordon, nei pressi di
Milledgeville. L’occupazione di questi
due punti, di conseguenza, taglierebbe
in due la terra dei secessionisti e metterebbe gli unionisti in grado di sconfiggere le due parti una dopo l’altra.
Ne consegue anche che senza il possesso del Tennessee non può esistere
una repubblica sudista. Senza il Tennessee il punto vitale della Georgia
dista solo otto o dieci giorni di marcia
dalla frontiera; il Nord terrebbe costantemente le mani alla gola del Sud,
e alla minima pressione il Sud dovrebbe cedere o riprendere a combattere
per la sopravvivenza, in circostanze in
cui una sola sconfitta eliminerebbe
ogni prospettiva di successo. Dalle
precedenti considerazioni si deduce
quanto segue:
Il Potomac non è la posizione più
importante del teatro d’operazione. La
presa di Richmond e l’avanzata dell’armata del Potomac verso sud – difficile per via dei molti fiumiciattoli che
tagliano la linea di marcia – potrebbero dare una spinta psicologica formidabile, ma da un punto di vista puramente militare non deciderebbero un
bel nulla.
Le sorti della campagna dipendono
dall’esercito del Kentucky, che ora è
nel Tennessee. Da una parte questo
esercito è vicinissimo ai punti nevralgici, dall’altra occupa un territorio senza
il quale la secessione non può sopravvivere. Di conseguenza questa armata
dovrebbe essere rafforzata a spese di
tutte le altre, sacrificando tutte le operazioni minori. I suoi prossimi punti di
attacco sarebbero Chattanooga e Dalton sull’alto corso del Tennessee, i due
nodi ferroviari più importanti di tutto
il Sud. Dopo la loro occupazione il
collegamento tra gli stati orientali e
quelli occidentali del territorio seces-
sionista sarebbe limitato alle linee convergenti della Georgia. Quindi si affronterebbe il problema di tagliare un’altra linea ferroviaria fra Atlanta e la
Georgia, ed infine di eliminare l’ultimo
collegamento tra le due regioni occupando Macon e Gordon.
Altrimenti, se dovesse esser messo
in atto il piano dell’anaconda, malgrado tutti i successi nei singoli scontri, e
anche sul Potomac, la guerra potrebbe
prolungarsi all’infinito, mentre le difficoltà finanziarie e le complicazioni
diplomatiche potrebbero dare al Sud
maggiore libertà di manovra.
La stampa inglese e la
caduta di New Orleans
Die Presse, 20 maggio 1862
Londra, 16 maggio 1862
All’arrivo delle prime notizie della caduta di New Orleans, il Times, l’Herald, lo Standard, il Morning Post, il
Daily Telegraph e altri inglesi
“simpatizzanti” per i “negrieri” sudisti
dimostrarono con argomenti strategici,
tattici, filosofici, esegetici, politici, morali molto eloquenti che la notizia era
una delle “voci tendenziose” che Reuter, Havas, Wolff ed i loro tirapiedi
mettevano tanto spesso in circolazione. I mezzi di difesa naturali di New
Orleans, si diceva, erano stati potenziati non solo con forti di nuova costruzione, ma anche con infernali congegni sottomarini di ogni genere e con
cannoniere corazzate. A questo si aggiungeva il carattere spartano della
gente di New Orleans e il suo odio
mortale per i mercenari di Lincoln.
Infine, non era davanti a New Orleans
che l’Inghilterra aveva subito la sconfitta che portò ad una fine ignominiosa la sua seconda guerra contro gli Stati Uniti (dal 1812 al 1814)? Di conseguenza non vi era ragione di dubitare
che New Orleans avrebbe rinnovato
La Guerra di Secessione Americana
l’epopea di Mosca e Saragozza. Inoltre
aveva 15 mila balle di cotone con le
quali era molto facile accendere un
inestinguibile fuoco autodistruttore, a
parte il fatto che nel 1814 le balle di
cotone debitamente bagnate si erano
dimostrate indistruttibili alle cannonate ancor più delle fortezze di Sebastopoli. Perciò era chiaro come il sole che
la caduta di New Orleans era un parto
della solita millanteria yankee.
Quando due giorni dopo le prime
notizie venivano confermate dalle navi che arrivavano da New York, la
massa della stampa inglese filoschiavista conservava il suo scetticismo. L’Evening Standard in particolare era così sicuro nella sua incredulità che nello stesso numero pubblicò
un primo articolo di fondo che dimostrava al colto ed all’inclita l’inespugnabilità della città a forma di mezza
luna, mentre le sue “ultime notizie”
annunziavano a tutte lettere la caduta
della città inespugnabile. Il Times, comunque, che ha sempre considerato la
prudenza il miglior coraggio, cambiava atteggiamento. Pur dubitando ancora della notizia, si teneva pronto ad
ogni eventualità, dal momento che
New Orleans era una città di
“facinorosi” e non di eroi. In quell’occasione il Times aveva ragione. New
Orleans è una colonia della feccia della bohème francese, una colonia di
galeotti francesi nel vero senso della
parola e, con il mutare dei tempi, non
ha mai smentito la sua origine. Soltanto che il Times è arrivato buon ultimo, quando la cosa era di dominio
pubblico.
Comunque alla fine il fait accompli
ha colpito persino Thomas, il più ostinato dei ciechi. Che fare? La stampa
inglese filo-schiavista dimostrava ora
che la caduta di New Orleans era un
vantaggio per i confederati ed una
sconfitta per i federali.
La caduta di New Orleans permetteva al generale Lovell di rinforzare
con le sue truppe l’esercito di Beauregard; Beauregard era quello che più
aveva bisogno di rinforzi, in quanto si
diceva che 160.000 uomini (una enor-
39
me esagerazione) fossero stati concentrati sul suo fronte da Halleck e, d’altro canto, il generale Mitchell aveva
tagliato le comunicazioni di Beauregard con l’est, interrompendo i collegamenti ferroviari tra Memphis e
Chattanooga, cioè la linea di Richmond, Charleston e Savannah.
Quando gli fu tagliata questa via di
comunicazione (cosa che abbiamo indicato come la mossa strategica necessaria molto tempo prima della battaglia di Corinth), Beauregard non aveva
più alcun collegamento ferroviario con
Corinth se non la linea di Mobile e
New Orleans.
Dopo la caduta di New Orleans si
era trovato a dipendere dalla sola ferrovia che porta a Mobile, e naturalmente non poteva più procurare le
vettovaglie necessarie per le sue truppe; per questo motivo ripiegò su
Memphis e, secondo la stampa inglese
filo-schiavista, le sue possibilità di approvvigionamento sono naturalmente
aumentate con l’arrivo delle truppe di
Lovell!
D’altro canto, notavano gli stessi
oracoli, la febbre gialla falcidierà i federalisti a New Orleans, e infine, se la
città non è Mosca, il suo sindaco è un
emulo di Bruto. Basta leggere (sul
New York Herald) la sua epistola melodrammaticamente valorosa al commodoro Farragut: “Nobili parole, signore, belle parole!” Ma le parole, per
quanto dure, non rompono le ossa.
I giornali degli schiavisti del Sud
tuttavia non commentano la caduta di
New Orleans con lo stesso ottimismo
dei loro consolatori inglesi. Questo si
vede dai brani seguenti:
Il Richmond Dispatch dice:
Che è successo delle cannoniere corazzate, la Mississipi e la Louisiana, dalle quali
ci aspettavamo la salvezza della città a
mezza luna? Per l’effetto che hanno avuto
sul nemico, queste navi potevano anche
essere di vetro. È inutile negare che la
caduta di New Orleans è per noi un grave
colpo. Il governo confederato resta tagliato fuori dalla Louisiana occidentale, dal
Texas, dal Missouri e dall’Arkansas.
40
MARX, Karl
Il Norfolk Day Book osserva:
Questa è la sconfitta più grave dall’inizio
della guerra. Preannunzia privazioni e ristrettezze a tutte le classi sociali e, quel
che è peggio, minaccia i rifornimenti del
nostro esercito.
L’Atlantic Intelligencer deplora:
Ci aspettavamo una conclusione diversa.
L’avvicinarsi del nemico non è stato un
attacco di sorpresa; era stato previsto da
tanto tempo, e ci era stato promesso che
anche se fosse passato per Forte Jackson,
spaventosi dispositivi di artiglieria lo avrebbero costretto a battere in ritirata oppure avrebbero provocato il suo annientamento. In tutto questo ci siamo ingannati,
come è accaduto sempre quando si supponeva che le difese garantissero la sicurezza di una postazione o di una città. Ne
risulta che le invenzioni moderne hanno
annientato la capacità difensiva delle fortificazioni. Le cannoniere corazzate le distruggono o passano oltre, senza fare tante cerimonie. Memphis, temiamo, seguirà
la stessa sorte di New Orleans. Non sarebbe follia ingannare noi stessi con la
speranza?
Infine il Petersburg Express:
La presa di New Orleans da parte dei federali è l’avvenimento più straordinario e
più decisivo di tutta la guerra.
Un trattato contro il
traffico degli schiavi
Die Presse, 22 maggio 1862
Londra, 18 maggio 1862
Il trattato per la soppressione della
tratta degli schiavi stipulato fra Stati
Uniti ed Inghilterra il 7 aprile di quest’anno a Washington ci è ora comunicato in extenso dai giornali americani.
I punti essenziali di questo importante
documento sono i seguenti: il diritto di
perquisizione è reciproco, ma potrà
essere esercitato soltanto da quelle na-
vi da guerra, di entrambe le parti, che
avranno ricevuto una speciale autorizzazione a farlo da una delle potenze
firmatarie. Periodicamente le potenze
aderenti al trattato si forniranno vicendevolmente statistiche complete sulle
unità delle loro flotte incaricate di sorvegliare il traffico dei negri. Il diritto di
perquisizione potrà essere esercitato
solo sui mercantili che si troveranno
entro un raggio di 200 miglia dalla costa africana e a sud di 32 gradi di latitudine nord, e entro 30 miglia nautiche
dalla costa di Cuba. La perquisizione,
sia di navi inglesi da parte di incrociatori americani sia di navi americane da
parte di incrociatori inglesi, non avrà
luogo in quella parte di mare compresa
nelle acque territoriali inglesi o americane (cioè entro 3 miglia nautiche dalla
costa), né davanti ai porti o alle colonie di potenze straniere.
Tribunali delle prede formati per
metà da inglesi e per metà da americani e residenti della Sierra Leone, a Città del Capo e a New York, pronunzieranno le sentenze relative alle navi catturate. In caso di condanna di una nave, la ciurma sarà consegnata alle autorità della nazione di cui la nave batteva
bandiera, finché questo sarà possibile
senza affrontare spese esorbitanti.
Non solo la ciurma (compreso il capitano, il secondo, ecc.) ma anche i proprietari della nave incorreranno nelle
sanzioni penali in vigore nel paese.
L’indennizzo dei proprietari dei mercantili assolti dai tribunali misti dovrà
essere pagato entro un anno dalla potenza sotto la cui bandiera viaggiava la
nave da guerra assalitrice. Si considera
motivo legale per la cattura delle navi
non solo la presenza di schiavi negri a
bordo, ma anche di accorgimenti apportati nella costruzione della nave al
fine di facilitare la tratta dei negri, manette, catene e altri strumenti per tenere in custodia i negri e, infine, riserve
di provviste che non siano in relazione
alle esigenze dell’equipaggio. Una nave
sulla quale vengano trovate tali cose
sospette dovrà provare la sua innocenza, e anche nel caso di assoluzione
non potrà reclamare alcun indennizzo.
La Guerra di Secessione Americana
I comandanti degli incrociatori che
abusino della autorità loro conferita
dal trattato dovranno esser puniti dai
rispettivi governi. Se il comandante di
un incrociatore di una delle potenze
firmatarie dovesse avere il sospetto
che un mercantile scortato da una o
più navi da guerra dell’altra potenza
firmataria abbia negri a bordo, o sia
implicato nella tratta di schiavi africani, o sia attrezzato per tale commercio,
dovrà comunicare i suoi sospetti al
comandante della scorta e perquisire
in sua compagnia la nave sospetta; se
rientrerà nella categoria prevista dal
trattato, tale nave dovrà esser portata
fino al luogo di residenza di uno dei
tribunali misti. I negri trovati a bordo
delle navi condannate saranno messi a
disposizione del governo di cui batte
bandiera la nave che avrà operato la
cattura. Essi dovranno essere messi
immediatamente in libertà e rimanere
liberi sotto la garanzia del governo nel
cui territorio si trovano. Il trattato potrà essere denunziato solo dopo dieci
anni e resterà in vigore per una anno
intero a partire dalla denunzia di una
delle parti contraenti.
La tratta dei negri ha ricevuto un
colpo mortale da questo trattato anglo-americano, conseguenza della
guerra civile americana. Il trattato acquisterà un’efficacia ancora maggiore
con l’approvazione del disegno di legge presentato recentemente dal senatore Sumner, che revoca la legge del
1808 sul traffico dei negri sulle coste
degli Stati Uniti. Tale disegno di legge
paralizzerà in larga misura il commercio che gli stati che allevano negri (gli
stati schiavisti di frontiera) esercitano
con gli stati che si servono di mano
d’opera negra (gli stati schiavisti propriamente detti).
Avvenimenti nordamericani
Die Presse, 12 ottobre 1862
Londra, 7 ottobre 1862
La breve incursione dei sudisti nel
Maryland ha deciso le sorti della guerra
civile americana, anche se per un certo
periodo la fortuna delle armi potrà arridere in egual misura all’uno e all’altro
contendente. Abbiamo già accennato
su queste colonne che la lotta per gli
stati schiavisti di confine è anche una
lotta per il dominio dell’Unione. Ebbene, la Confederazione è stata sconfitta
in questa lotta, che pure aveva iniziato
nelle circostanze più favorevoli che le
si potessero presentare.
Si ritiene, e con ragione, che il Maryland sia la testa ed il Kentucky il braccio del partito schiavista negli stati di
confine. La capitale del Maryland, Baltimora, sinora è rimasta fedele all’Unione esclusivamente perché era tenuta in stato d’assedio. Era fermo convincimento di tutti, nel Sud come nel
Nord, che la comparsa delle truppe
confederate nel Maryland avrebbe
suonato la diana di una rivoluzione
popolare contro “i satelliti di Lincoln”.
Di conseguenza, non si trattava soltanto di riportare un successo militare,
ma anche e soprattutto di dare a tutti
una dimostrazione morale tale da galvanizzare gli elementi filo-sudisti in
tutti gli stati di confine e da attrarli con
forza irresistibile nel turbine degli eventi. L’occupazione del Maryland
doveva significare la caduta di Washington e costituire una minaccia per Filadelfia ed anche per New York.
L’invasione tentata contemporaneamente nel Kentucky – il più importante di tutti gli stati di confine, per la
densità della popolazione, la posizione
geografica e le risorse economiche –
presa a sé, appare soltanto una manovra diversiva. Tuttavia, coincidendo
con una vittoria decisiva nel Maryland,
avrebbe potuto provocare lo stroncamento del partito unionista nel Tennessee e permettere di colpire di fianco lo stato del Missouri, assicurando il
dominio dell’Arkansas e del Texas,
minacciando New Orleans, e soprattutto spingendo la guerra nell’Ohio –
lo stato centrale del Nord, il cui possesso assicurerebbe il controllo di tutto il Nord, così come il possesso della
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MARX, Karl
In Italiano nel testo originale.
Georgia assicurerebbe il dominio del
Sud. Un esercito confederato nell’Ohio avrebbe tagliato i collegamenti fra
gli stati nordisti dell’Est e quelli dell’Ovest, avrebbe potuto attaccarli di
volta in volta sfruttando la sua posizione centrale, e avrebbe messo in rotta il nemico.
Una volta fallito l’attacco del grosso dell’esercito ribelle nel Maryland,
l’invasione del Kentucky, compiuta
senza il vigore necessario e senza il
previsto appoggio popolare, si è ridotta ad una serie di scontri di guerriglia
privi di significato. Anche la conquista
di Louisville a questo punto non avrebbe altra conseguenza che quella di
amalgamare ancor più i “giganti dell’Ovest” – i volontari dell’Iowa, dell’Illinois, dell’Indiana e dell’Ohio – in una
valanga formidabile come quella che
precipitò sul Sud all’epoca della prima,
gloriosa campagna del Kentucky.
L’invasione del Maryland ha dimostrato quindi che l’ondata secessionistica non aveva l’impeto necessario
per dilagare oltre il Potomac e raggiungere l’Ohio. Il Sud si trova costretto
alla difensiva in un momento in cui
solo l’attacco poteva dargli la vittoria.
Privo degli stati di confine, chiuso in
una morsa fra il Mississipi ad ovest e
l’Atlantico ad est, con le sue manovre
il Sud non ha concluso nulla e si è scavato la fossa.
Non si deve dimenticare neppure
per un attimo che i sudisti sventolando
lo stendardo della rivolta avevano preso immediatamente possesso degli stati di confine e li dominavano politicamente. Volevano anche i Territori:
adesso oltre ai Territori hanno perso
anche gli stati di confine.
Eppure l’invasione del Maryland
era iniziata sotto gli auspici più favorevoli per il Sud: una sequela di infamanti sconfitte del Nord. Lo scoraggiamento degli eserciti federali, il prestigio di Stonewall Jackson, l’eroe del
momento, il recente rafforzamento del
Partito democratico nel Nord – per
cui si prospettava persino la possibilità
di eleggere Jefferson Davis alla presidenza – il riconoscimento del governo
schiavista da parte di Inghilterra e
Francia, ben felici di proclamare la
legittimità interna della Confederazione! Eppur si muove!
Ma la ragione trionfa, ad ogni
buon conto, nella storia universale.
Il proclama di Lincoln presenta
un’importanza ancora maggiore dell’invasione del Maryland. Lincoln è
una figura sui generis negli annali della
storia. Non ha pathos, non posa a
grand’uomo, non si drappeggia nella
toga della storia, non spiega la sua eloquenza in voli pindarici. Dà sempre la
forma più comune ai suoi gesti più
importanti. Laddove chiunque altro,
battendosi per un “palmo di terra”,
dichiara di “battersi per un’idea”, Lincoln anche quando si batte per un’idea
si esprime soltanto in termini di
“palmi di terra”.
Indeciso e riluttante, canta a malincuore l’aria di bravura del suo personaggio, quasi scusandosi del fatto che
le circostanze lo costringano a “fare
l’eroe”. I decreti più formidabili che
egli lancia contro il nemico, e che non
perderanno mai la loro importanza
storica, somigliano – e tale è l’intenzione del loro autore – a comuni citazioni inviate da un legale alla parte opposta, con tutti i cavilli giuridici e le
intricate motivazioni dell’actio iuris.
Ed è proprio questa caratteristica del
recente proclama, il documento più
importante della storia americana dopo la fondazione dell’unione, un documento che deroga decisamente dalla
Costituzione americana: il manifesto
per l’abolizione della schiavitù.
Non vi è nulla di più facile che rilevare nelle azioni di Lincoln elementi
contrastanti con l’estetica e apparentemente privi di logica, forme burlesche
e contraddittorie: i cantori della schiavitù, Times, Saturday Review e tutti
quanti non si fan certo pregare. Eppure, nella storia degli Stati Uniti come
nella storia dell’umanità, Lincoln occupa un posto a fianco di Washington.
In realtà, in un’epoca in cui qualsiasi
bagatella sulla sponda europea dell’Atlantico assume un’aria melodrammati-
La Guerra di Secessione Americana
ca e strabiliante, non ci dice nulla il
fatto che nel Nuovo Mondo gli avvenimenti importanti si presentino in
termini così anodini? Lincoln non è
figlio di una rivoluzione popolare. Il
normale operato del sistema elettorale,
del tutto ignaro delle grandi imprese
storiche che era chiamato a compiere,
ha portato al vertice dello stato proprio lui – un plebeo che si è fatto strada, da spaccapietre a rappresentante
dell’Illinois, un uomo privo di acume
intellettuale e di particolare grandezza
di carattere, senza doti sensazionali –
semplicemente un uomo di buona volontà. Eppure, il Nuovo Mondo ha
conseguito così la sua più grande vittoria, dimostrando che grazie al suo
alto livello di organizzazione politica e
sociale persone comuni animate da
buona volontà sono in grado di adempiere compiti per cui nel Vecchio
Continente ci vorrebbe un eroe!
Ai suoi tempi Hegel faceva notare
che in realtà la commedia è superiore
al pathos. Se non ha il dono del pathos
dell’azione storica, Lincoln ha invece,
come uomo comune figlio del popolo,
il dono dello humour. In quale momento Lincoln ha promulgato il suo
proclama per l’abolizione della schiavitù nei territori della Confederazione,
che entrerà in vigore il 1° gennaio 1863? Proprio nel momento in cui la Confederazione decideva alla Convenzione
di Richmond di intavolare “trattative
di pace” come stato indipendente.
Proprio nel momento in cui gli schiavisti degli stati di confine credevano
che con l’incursione dei sudisti nel
Kentucky la “peculiare istituzione”
fosse ormai invincibile – invincibile
come il loro controllo sul loro concittadino, il presidente insediato a Washington, Abramo Lincoln.
La situazione del Nordamerica
Die Presse, 10 novembre 1862
Londra, 4 novembre 1862
Il generale Bragg, comandante dell’esercito sudista nel Kentucky – le altre
forze combattenti del Sud che lo stanno devastando sono solo bande di
guerriglieri – entrando da invasore in
questo stato di confine ha emanato un
proclama che rivela ora con estrema
chiarezza il fallimento delle più recenti
iniziative della Confederazione. Il proclama di Bragg, indirizzato agli stati
del Nord-Ovest, dà per scontata la sua
vittoria nel Kentucky, e specula evidentemente sulla possibilità di un’avanzata vittoriosa nell’Ohio, lo stato
centrale del Nord. Bragg dichiara innanzi tutto che la Confederazione è
pronta a garantire la libertà di navigazione sul Mississipi e sull’Ohio. Tale
garanzia avrà una ragion d’essere soltanto se e quando gli schiavisti si troveranno in possesso degli stati di confine. Perciò a Richmond si dava per
certo che le incursioni simultanee di
Lee nel Maryland e di Bragg nel Kentucky avrebbero assicurato d’un colpo
il possesso degli stati di confine ai sudisti. Bragg passa quindi ad illustrare le
giuste pretese del Sud, che combatte
soltanto per la sua indipendenza, ma
per il resto vuole la pace. Ed ecco il
punto culminante e più significativo di
tutto il proclama: l’offerta di una pace
separata con gli stati del Nord-Ovest,
invitandoli a staccarsi dall’Unione e ad
unirsi alla Confederazione, dal momento che gli interessi economici del
Nord-Ovest e del Sud sono concordi
quanto quelli del Nord-Ovest e del
Nord-Est sono opposti e contrari. È
evidente: non appena immaginava di
avere saldamente in suo possesso gli
stati di confine, il Sud dichiarava ufficialmente il suo fine recondito di ricostruire l’Unione escludendo gli stati del
New England.
Come l’invasione del Maryland,
anche quella del Kentucky è fallita miseramente; la prima è sfumata con la
battaglia di Antietam Creek, la seconda con la battaglia di Perryville, nei
pressi di Louisville. Anche a Perryville
i confederati si sono lanciati all’offensiva, dopo aver attaccato l’avanguardia, che malgrado la schiacciante supe-
43
44
1
MARX, Karl
riorità numerica del nemico ha tenuto
la posizione, dando a Buell il tempo di
scendere in campo con il grosso delle
sue forze. Non sussiste il minimo dubbio che la sconfitta di Perryville avrà
come conseguenza l’evacuazione del
Kentucky. Quasi contemporaneamente la banda più numerosa di guerriglieri, costituita dai più fanatici sostenitori
dello schiavismo nel Kentucky e guidata dal generale Morgan, è stata annientata a Frankfurt, tra Louisville e
Lexington. Infine, la vittoria decisiva
di Rosencrans a Corinth costringe l’esercito sconfitto del generale Bragg ad
una precipitosa ritirata.
La campagna dei confederati per
riconquistare gli stati schiavisti di confine, che pure era stata intrapresa con
operazioni su larga scala, con abilità
militare e sotto gli auspici più favorevoli, si è risolta quindi in un completo
fallimento. A parte i risultati militari
immediati, questi combattimenti contribuiscono anche in un altro modo ad
eliminare le maggiori difficoltà. Il dominio che gli stati schiavisti veri e propri esercitano su quelli di confine si
basa naturalmente sugli elementi
schiavisti di questi ultimi – gli stessi
elementi che impongono considerazioni diplomatiche e costituzionali al
governo dell’Unione nella sua lotta
contro lo schiavismo. Negli stati di
confine, il più importante teatro di
operazioni della guerra civile, tali elementi in pratica vengono ridotti a zero
dalla guerra civile stessa. Una massa di
proprietari di schiavi migra continuamente verso Sud con il suo “Bestiame
nero” per portare al sicuro la sua proprietà. Ad ogni sconfitta dei confederati questa migrazione si rinnova su
più vasta scala.
Un mio amico, un ufficiale tedesco
che ha combattuto sotto la bandiera
stellata di volta in volta nel Missouri,
nell’Arkansas, nel Kentucky e nel Tennessee, mi scrive che questa migrazione ricorda proprio l’esodo dall’Irlanda
nel 1847 e nel 1848. Nel frattempo, gli
schiavisti più forti e risoluti, i giovani
In francese nel testo. All’in- da una parte e i capi politici e militari
vadenza, alla concorrenza.
dall’altra, si separano dal grosso della
loro classe, per costituire bande di
guerriglieri nei loro stati (che vengono
regolarmente distrutte), oppure per
arruolarsi nell’esercito o entrare nell’amministrazione della Confederazione. Ne risulta da un lato un’enorme
diminuzione dell’elemento schiavista
negli stati di confine, dove esso ha
sempre dovuto far fronte agli encroachments dei lavoratori liberi suoi
rivali; dall’altro, l’eliminazione della
parte più attiva degli schiavisti e dei
loro seguaci bianchi. Dietro di loro
resta soltanto uno strato di schiavisti
“moderati”, che ben presto allungheranno avidamente le mani sul cumulo
di denaro loro offerto da Washington
per il riscatto del loro “Bestiame nero”
– il cui valore andrà comunque perduto non appena il mercato del Sud sarà
chiuso alla vendita degli schiavi. Così,
la guerra porta essa stessa ad una soluzione, provocando una vera e propria
rivoluzione nella struttura sociale degli
stati di confine.
Per il Sud la stagione propizia alla
guerra è ormai finita; per il Nord sta
cominciando ora, dal momento che i
fiumi interni tornano ad essere navigabili e la guerra combinata per terra e
per mare, già tentata con tanto successo, è di nuovo possibile. Il Nord si è
prontamente avvantaggiato della tregua. Le “corazzate” – dieci di numero
– per i fiumi dell’Ovest vengono terminate rapidamente; ad esse si debbono aggiungere venti navi semicorazzate per operazioni in acque poco profonde. Gli arsenali dell’Est hanno già
varato numerose corazzate, mentre
altre sono in costruzione: saranno tutte pronte per il 1° gennaio 1863. Ericsson, l’ideatore e costruttore della
Monitor, sta dirigendo la costruzione
di altre nove navi dello stesso modello.
Quattro di esse sono già pronte a
prendere il mare.
Sul Potomac, nel Tennessee e in
Virginia come in diversi centri del Sud
– Norfolk, New Bern, Port Royal,
Pensacola, New Orleans – l’esercito
riceve ogni giorno nuovi rinforzi. Il
primo contingente di leva di trecentomila uomini, che Lincoln aveva chia-
La Guerra di Secessione Americana
45
Londra, 7 novembre 1862
mentre ostenta il più roseo ottimismo
per quanto riguarda il paese dei
“negri”. Si dà il caso però che gli stati
schiavisti non partecipino minimamente alla “euforia di vittoria” che
sembra travolgere il Times.
La stampa sudista ha risposto con
un coro di lamentele e di critiche alla
sconfitta di Corinth, accusando
“d’incapacità e presunzione” i generali
Price e Van Dorn. Il Mobile Advertiser cita l’esempio del 42° reggimento
dell’Alabama, che il venerdì precedente la battaglia contava cinquecentotrenta uomini, ed il sabato sera era ridotto a dieci unità: tutti gli altri uomini
erano morti, feriti, prigionieri o dispersi. I giornali della Virginia suonano la
stessa solfa.
Scrive il Richmond Whig: “È evidente che l’obiettivo immediato della
nostra campagna nel Mississipi è ormai fallito.” Gli fa eco il Richmond
Enquirer: “È da temere che l’esito di
questa battaglia abbia nefaste conseguenze sulla nostra campagna nell’Ovest.” Tale previsione non ha tardato
ad avverarsi: la evacuazione dell’esercito di Bragg dal Kentucky e la sconfitta
dei confederati presso Nashville, nel
Tennessee, ne sono la riprova.
La stessa fonte sudista – i giornali
della Virginia, della Georgia e dell’Alabama – ci fornisce interessanti chiarimenti sul conflitto esistente fra il governo centrale di Richmond e i governi dei singoli stati schiavisti. La causa
occasionale è la recente legge sulla coscrizione, con cui il Congresso prolungava il periodo di leva molto al di là
dei normali limiti d’età. In Georgia un
tale Levingood è stato arruolato in
base a questa legge; poiché si rifiutava
di raggiungere il suo reggimento, è
stato arrestato da un agente della Confederazione, J. P. Bruce. Levingood si
è appellato al tribunale supremo di
Elbert County, in Georgia, che ha decretato la sua immediata liberazione.
Nella lunga motivazione della sentenza, i giudici dichiarano tra l’altro:
La stampa inglese è più sudista del
Sud, dato che vede tutto nero al Nord
Nel paragrafo del preambolo della Costituzione della Confederazione si ribadisce
mato alle armi in luglio, è stato interamente incorporato ed è già in gran
parte al fronte, mentre si sta formando
il secondo contingente di trecentomila
uomini da reclutare per nove mesi. In
alcuni stati si è preferito sostituire l’arruolamento volontario alla coscrizione, che però non incontra gravi difficoltà in nessuno stato. L’ignoranza e
l’odio hanno spinto a criticare aspramente la coscrizione, presentandola
come un fatto senza precedenti nella
storia degli Stati Uniti. Nulla di più
falso. Durante la guerra d’indipendenza e la seconda guerra contro l’Inghilterra (1812-14), la coscrizione servì per
arruolare forti contingenti di truppe, e
così pure persino in occasione di varie
guerricciole con gli indiani, senza incontrare mai un’opposizione degna di
rilievo.
È significativo notare che nell’anno
in corso l’Europa ha fornito agli Stati
Uniti un contingente di emigranti di
circa centomila anime, e che metà di
questi emigranti proviene dall’Irlanda e
dalla Gran Bretagna. Al recente congresso della Association for the Advancement of Science tenuto a Cambridge, l’economista inglese Merivale si
è sentito in dovere di ricordare ai suoi
concittadini un fatto che il Times, il
Saturday Review, il Morning Post e il
Morning Herald, per non parlare degli
dei minorum gentium, hanno completamente ignorato, e che forse l’Inghilterra stessa vorrebbe dimenticare: e
cioè che la maggior parte della popolazione in eccesso in Inghilterra trova
una nuova patria negli Stati Uniti.
Sintomi di dissoluzione della Confederazione Sudista
Die Presse, 14 novembre 1862
46
MARX, Karl
esplicitamente che i diversi stati sono stati
indipendenti e sovrani. In che senso sarà
possibile sostenerlo nel caso della Georgia,
se qualsiasi miliziano potrà esser sottratto
di forza al controllo del comandante supremo di tale stato? Se il Congresso di
Richmond emana una legge che ammette
talune eccezioni alla coscrizione, che cosa
gli impedisce di emanar leggi che non ammettono eccezione alcuna, in modo da
vincolare la responsabilità del governatore,
dell’Assemblea legislativa e del personale
giudiziario, ponendo termine quindi all’autonomia di tutti gli organi governativi del
singolo stato? (...) Per questi motivi essenziali noi riteniamo e ordiniamo con la presente sentenza che la legge di coscrizione
del Congresso è nulla e inesistente, e non
ha alcun valore legale (...).
In Virginia si riscontra lo stesso contrasto fra “il singolo stato” e la
“Confederazione degli stati”. Motivo
del conflitto è il rifiuto del governo
virginiano di riconoscere agli agenti di
Jefferson Davis il diritto di reclutare i
miliziani virginiani e di incorporarli
nell’esercito confederato. In proposito
si è scatenata una polemica tra il ministro della Guerra e il sinistro generale
J. B. Floyd, che sotto la presidenza di
Buchanan rivestì la carica di ministro
della Guerra dell’Unione, che preparo
la secessione e per giunta “alleggerì” il
pubblico erario di ingenti somme, che
andarono ad impinguare i suoi forzieri
personali. Questo famigerato leader
secessionista, soprannominato nel
Nord Floyd il ladro, adesso si atteggia
a paladino dei diritti della Virginia
contro la Confederazione. In merito
alla corrispondenza tra Floyd e il ministro della Guerra, il Richmond Examiner rileva tra l’altro:
Tutta questa corrispondenza illustra adeguatamente come il nostro stato (la Virginia) ed il suo esercito siano astiosamente,
tenacemente presi di mira da coloro che a
Richmond abusano del potere della Confederazione. La Virginia è schiacciata sotto il peso da oneri insopportabili. Ma vi è
un limite a tutto: per quanto paziente, lo
stato non sopporterà ulteriormente il ripetersi di tali abusi di potere (...). La Virginia
ha procurato da sola praticamente tutte le
armi, le munizioni e le forniture militari
che hanno permesso di conseguire la vittoria sui campi di Methel e Manassas. Ha
messo a disposizione dei confederati settantatremila fucili e moschetti, duecentotrentatre pezzi di artiglieria ed un armamento formidabile, che facevano parte dei
suoi arsenali, dei suoi depositi. Ha messo
a disposizione della Confederazione fino
all’ultimo uomo in grado di combattere;
ebbene, ha dovuto ricacciare il nemico dal
suo confine occidentale con i suoi propri
mezzi. Non è disgustoso constatare che i
responsabili del governo confederato osano farsi beffe di lei?
Anche nel Texas le continue spedizioni dei suoi uomini sul fronte dell’Est
hanno suscitato opposizione alla Confederazione. Il 30 settembre Oldham,
il rappresentante del Texas, ha fatto
sentire le sue proteste al Congresso di
Richmond:
Per la spedizione Wildgans di Subley, tremilacinquecento soldati scelti texani sono
stati mandati incontro alla morte nelle
aride pianure del Nuovo Messico – con la
conseguenza di attirare il nemico verso i
nostri confini, che esso si ripromette di
varcare durante l’inverno. Avete dislocato
le forze più valide del Texas ad est del
Mississipi, le avete trascinate in Virginia,
le avete utilizzate nelle zone più pericolose del fronte, dove sono state decimate. I
tre quarti degli uomini di ogni reggimento
texano riposano nella tomba; quei pochi
che son tornati nelle loro case, sono in
licenza di convalescenza. Se questo governo continuerà ad attingere fra gli uomini
validi del Texas per mantenere tutti i reggimenti al loro effettivo normale, il Texas
sarà rovinato, rovinato irrimediabilmente.
È ingiusto e poco politico. Questi uomini
devono difendere la loro famiglia, la loro
patria. A loro nome, io protesto contro
l’operato del governo, che invia questi
uomini dall’ovest del Mississipi verso i
fronti dell’est e da ovest.
In base agli elementi forniti dai giornalisti sudisti possiamo trarre due conclusioni. In primo luogo, gli sforzi imposti dal governo confederato per colmare i vuoti dell’esercito e far fronte
alle perdite superano i limiti della sopportazione; le risorse militari si esauriscono. In secondo luogo, ed è questo
47
La Guerra di Secessione Americana
il punto determinante, la dottrina degli
state rights di cui gli usurpatori si
erano avvalsi per dare alla secessione
una parvenza di costituzionalità, adesso minaccia di ritorcersi a loro danno.
Jefferson Davis non è riuscito a “fare
del Sud una nazione”, contrariamente
a quanto proclama in Inghilterra il suo
ammiratore Gladstone.
I risultati delle elezioni negli Stati del Nord
Die Presse, 23 novembre 1862
Londra, 18 novembre 1862
Le elezioni rappresentano in pratica
una sconfitta del governo di Washington. I vecchi leaders del Partito democratico hanno sfruttato abilmente il
malcontento dovuto alle difficoltà finanziarie e all’inesperienza militare, e
non vi è dubbio che nelle mani dei
vari Seymour, Wood e Bennet lo stato
di New York potrà divenire il centro
di pericolosi intrighi. Dobbiamo evitare però di esagerare l’importanza pratica di tale reazione. L’attuale Camera
dei Rappresentanti repubblicana continua le sue sedute, ed i parlamentari
neo-eletti entreranno in carica soltanto
nel dicembre dell’anno prossimo. Per
quanto riguarda il Congresso di Washington, le elezioni per il momento
hanno un carattere puramente dimostrativo. In nessuno stato, ad eccezione di quello di New York, è stato eletto il governatore, e il Partito repubblicano rimane quindi a capo dei vari
stati. I successi elettorali dei repubblicani nel Massachusetts, nell’Iowa, nel
Michigan e nell’Illinois equilibrano in
un certo qual modo i voti perduti a
New York, in Pennsylvania, nell’Ohio
e nell’Indiana.
Un’analisi un minimo approfondita
del progresso dei “democratici” porta
a conclusioni ben diverse da quelle
strombazzate dai giornali inglesi. La
città di New York, gravemente corrot-
ta dalla plebaglia irlandese, da qualche
tempo in qua prende parte attiva alla
tratta degli schiavi e costituisce il centro del mercato finanziario americano,
oltre a rappresentare il creditore ipotecario di tutte le piantagioni del Sud.
Da sempre è decisamente “democratica”, così come Liverpool è ancora adesso un centro conservatore. Come
già avvenne dopo le elezioni del 1856,
i distretti rurali dello stato di New
York hanno votato anche questa volta
per i repubblicani, anche se non con
l’entusiasmo dimostrato nel 1860. D’altronde, gran parte degli uomini che
hanno l’età per votare si trova in campagna. Se si considerano i voti dei distretti urbani e rurali, la maggioranza
democratica nello stato di New York è
di appena otto o diecimila voti. In
Pennsylvania, stato conteso prima fra
whigs e democratici, poi tra democratici e repubblicani, la maggioranza democratica si limita a tremilacinquecento voti, nell’Indiana è ancora più esigua e nell’Ohio, in cui tocca gli ottomila voti, i leaders democratici noti
per le loro simpatie per il Sud – quali
ad esempio l’odioso Wallandigham –
hanno perduto il seggio al Congresso.
L’irlandese vede nel nero un pericoloso concorrente. I contadini dell’Indiana e dell’Ohio detestano i neri
quasi quanto detestano la schiavitù. I
neri sono per loro il simbolo della
schiavitù e della degradazione della
classe lavoratrice, e la stampa democratica agita continuamente dinanzi ai
loro occhi la stessa minaccia: i neri che
si riversano in massa nei loro territori.
A tutto questo si aggiunga ancora che
gli stati che hanno fornito i contingenti più numerosi di volontari sono quelli dove è più vivo il malcontento per
l’inettitudine che ha condannato al
fallimento l’offensiva in Virginia.
Pure, non è questo il punto essenziale. Quando Lincoln venne eletto
alla presidenza, nel 1860, la guerra civile non era ancora scoppiata, e la questione dell’emancipazione dei neri non
era ancora all’ordine del giorno. EsLa dottrina federalistica
sendo ancora separato completamente
della sovranità dei singoli
dal Partito abolizionista, il Partito Re- stati dell’Unione.
1
48
MARX, Karl
pubblicano nel 1860 si limitava a protestare soltanto contro l’estensione
della schiavitù ai Territori, e contemporaneamente proclamava di non avere alcuna intenzione di interferire nell’istituzione della schiavitù in quegli
stati dove già esisteva legalmente. Se
avesse lanciato il grido di guerra dell’emancipazione degli schiavi, Lincoln
sarebbe stato sicuramente sconfitto
nelle elezioni del 1860, perché la maggioranza non l’avrebbe appoggiato
affatto.
Ben diversa è la situazione delle
lezioni più recenti. I repubblicani
han fatto causa comune con gli abolizionisti, e si sono dichiarati a chiare
note favorevoli all’emancipazione
immediata, sia come fine in sé che
come mezzo per fare cessare la ribellione. Tenendo conto di tale elemento, la maggioranza governativa nel
Michigan, nell’Illinois, nel Massachu-
DELACROIX, Eugène, Il Massacro di Scio
setts, nello Iowa e nel Delaware è
non meno sorprendente dei voti numerosissimi, per quanto minoritari,
riportati negli stati di New York, dello Ohio e della Pennsylvania. Un
risultato simile prima della guerra era
assolutamente inconcepibile, anche
nel Massachusetts. È bastato che il
governo e il Congresso (convocato
per il mese prossimo) dessero prova
di una certa energia perché gli abolizionisti, che si identificano ormai
con i repubblicani, prendessero ovunque il sopravvento, dal punto di
vista morale come da quello numerico. Le velleità interventiste di Luigi
Bonaparte forniscono loro un valido
sostegno “esterno”. L’unico pericolo
rimasto è legato alla permanenza nelle alte gerarchie di generali quali
McClellan, che, a prescindere dalla
loro inettitudine, sono sostenitori
dichiarati dello schiavismo.
49
Barbara Marte
La Guerra come Risposta
alla Pulsione di Morte
Nulla c’è che nasca e non
meriti di finire disfatto.
(…) Così tutto quello che
dite Peccato, o Distruzione,
Male insomma, è il mio
elemento vero.
1.
La pulsione di morte
Le guerre tra Stati ossia i conflitti internazionali, le guerre civili determinate da fattori religiosi o sociali, le persecuzioni di minoranze razziali dimostrano che l’aggressività umana opera
in condizioni e in modi diversi. Distruzione e autodistruzione appaiono immediatamente, dunque, avere un ruolo
innegabile nella vita degli uomini. Infatti come potremmo spiegare altrimenti il fatto che una minoranza che
detiene il potere e che vede nella guerra la possibilità di ampliarlo o in ogni
caso l’occasione per conseguire vantaggi personali riesca a strumentalizzare per i suoi scopi le masse, che da
tutto ciò possono ricavare solo sofferenza, morte e distruzione?
Allora che il desiderio e il piacere di
distruggere e di autodistruggersi alberghi nell’animo umano è confermato
dalla storia e dalla vita quotidiana, ma
come giustificarlo dal punto di vista
teoretico?
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle
che tendono a conservare e a unire – da
noi chiamate sia erotiche (esattamente nel
senso in cui Platone usa il termine “eros”
nel Simposio) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di
sessualità – e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le
comprendiamo tutte nella denominazione
di pulsione aggressiva o distruttiva.
In Al di là del principio di piacere
(Jenseits des Lustprinzip, 1920), tra i
suoi scritti il più pregnante sotto il
profilo filosofico, viene formulata da
Freud una teoria dualistica della dialettica pulsionale: accanto alle pulsioni di
vita che rappresentano gli sforzi compiuti dall’eros per tenere coesa la sostanza vivente fino a costituire unità
sempre più vaste, troviamo le pulsioni
distruttive o di morte, che conducono
ogni sostanza organica verso la decomposizione inorganica, trascinando
ogni sforzo di vita verso il nulla della
morte.
Questo testo può essere considerato la “meta” filosofica, a cui Freud
approda negli anni della piena maturità
dopo una ricerca filosofica pluriventennale. In esso egli ripercorre l’intero
arco delle sue esperienze intellettuali
alla luce di una meditazione filosofica
sul tema della morte di tutto ciò che è
vivente. La portata innovatrice della
sua riflessione concerne la messa in
questione della validità esclusiva ed
universale della legge del principio di
piacere, Lustprinzip, come principio
regolatore della vita psichica, al quale
si contrappone, risultando irriducibile
ad esso, una tendenza ancora più primordiale e profonda: si tratta della
“coazione a ripetere”, Wiederholungszwang, esperienze e atti spiacevoli
del passato. Le stesse peculiarità di tale
coazione mettono Freud sulle tracce di
quella che egli ritiene una proprietà
universale delle pulsioni: la tendenza
conservatrice, o meglio regressiva, che
mira a ripristinare uno stato precedente, a restaurare le forme originarie dell’esistenza.
Incontrovertibili rilievi clinici condotti sulle nevrosi traumatiche e sulle
1
GOETHE, Johann Wolfgang, Faust, pt. 1, scena dello Studio (I); trad. it. Franco Fortini, Milano, Mondadori, 1970.
2
FREUD, Sigmund, Opere,
1930-1938 volume 11, Perché la guerra? (1932), Torino,
Boringhieri, 1979, p. 298.
50
1
Il gioco del rocchetto viene
descritto e interpretato da
Freud in alcune pagine di Al di là
del principio di piacere, Torino,
Boringhieri, 1990, pp. 27-32.
2
FREUD, Sigmund, Al di là
del principio di piacere, op.
cit., p. 63
MARTE, Barbara
nevrosi di traslazione testimoniano
l’esistenza di tale coazione a ripetere,
afferma Freud. Essa si evidenzia anche
nel giuoco infantile, di cui ricordiamo
il celebre esempio, riportato in Al di là
del principio di piacere, del gioco del
fort-da condotto dal nipotino di
Freud. Chiaramente anche i sogni
presenti nelle nevrosi traumatiche hanno come fondamento tale coazione a
ripetere. Essa è peraltro riscontrabile
nella stereotipia dei comportamenti
biologici più elementari di tutti gli esseri viventi.
Nella nevrosi ossessiva, Zwangsneurose, si può vedere chiaramente
che la coazione a ripetere non fa altro
che rimettere in essere esperienze passate sotto altre forme, che costituiscono i sintomi. Tali esperienze, nella
maggior parte dei casi escludono qualsiasi possibilità di piacere, né possono
aver procurato alcun soddisfacimento
di moti pulsionali che sono stati rimossi da quel momento in poi. Anche
nella traslazione i nevrotici ripetono
queste esperienze negative e i loro dolorosi stati affettivi; inoltre può succedere che le loro relazioni umane si
concludano ripetutamente con una
delusione. La coazione del nevrotico a
ripetere ostinatamente, tramite i suoi
sintomi e le esperienze affettive, gli
eventi dell’infanzia (che gli hanno recato dolore o lo hanno portato ad un
mancato soddisfacimento), non tiene
in alcun conto il principio di piacere.
Questo “eterno ritorno dell’uguale”
ci rivela che nella vita psichica esiste
davvero una coazione a ripetere, che si
afferma anche contro il principio di
piacere. Ora l’interrogativo che con
Freud ci poniamo è quale sia la connessione esistente tra la pulsionalità e
la coazione a ripetere.
Freud ipotizza che sia insita nell’organismo vivente una pulsione avente
come proprietà quella di ripristinare
uno stato precedente, al quale l’organismo ha rinunciato sotto l’influsso di
forze perturbatrici provenienti dall’esterno, si tratta cioè di una manifestazione dell’inerzia propria dell’organismo vivente. Quindi egli suppone che
tutte le pulsioni organiche siano conservatrici e che tendano alla regressione, alla restaurazione di una stato di
cose precedente e che i fenomeni dello
sviluppo organico dovranno essere
ascritti all’influenza perturbatrice e
deviante delle circostanze esterne.
Freud ne inferisce che l’organismo
elementare non avrebbe cambiato il
suo stato iniziale, se non fossero intervenuti fattori esterni. Egli afferma:
Se possiamo considerare come un fatto
sperimentale assolutamente certo e senza
eccezioni che ogni essere vivente muore
(ritorna allo stato inorganico) per motivi
interni, ebbene, allora possiamo dire che
la meta di tutto ciò che è vivo è la morte,
e, considerando le cose a ritroso, che gli
esseri privi di vita sono esistiti prima di
quelli viventi.
In Al di là del principio di piacere
Freud conclude la sua riflessione filosofica asserendo che si può attribuire
un carattere conservatore cioè regressivo, quindi tale da corrispondere a
una coazione a ripetere, solo alle
“pulsioni dell’Io”, le quali traggono
origine dal farsi vivente della materia
inanimata, e il loro scopo è quello di
ripristinare lo stato privo di vita. Ritiene invece che le pulsioni sessuali, pur
ripetendo stati primitivi dell’organismo, hanno come obiettivo quello di
fondere insieme due cellule germinative; soltanto a tale condizione la funzione sessuale può dare alla vita una
parvenza di immortalità. Ma se tale
unione non viene realizzata, la cellula
germinativa muore come tutti gli altri
elementi dell’organismo pluricellulare.
Ora di tutte le parti della teoria analitica, la dottrina delle pulsioni è quella
che è stata sviluppata con più fatica da
Freud. Nel 1915, nello scritto Pulsioni
e loro destini, Triebe und Triebschicksale, egli compie per la prima volta
una trattazione sistematica delle conoscenze a cui era giunto riguardo la natura delle pulsioni e il loro modo di
operare e di trasformarsi nel corso della vita. Freud suddivide le pulsioni, che
rappresentano “un concetto limite tra
La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte
lo psichico e il somatico”, in due gruppi fondamentali: quello delle pulsioni
dell’Io o di autoconservazione, Ichtriebe o Selbsterhaltungstriebe, e quello
delle pulsioni sessuali, Sexualtriebe.
Freud, grazie all’analisi clinica constata
i diversi destini in cui possono incorrere le pulsioni, in particolare, sottolineamo al fine della nostra trattazione,
come una pulsione può trasformarsi
nel suo contrario dal punto di vista del
“contenuto”, ossia come l’amore può
convertirsi in odio.
Freud si convincerà poi che amore
e odio non derivano da un’originaria
unità e che anzi l’odio precorre psicologicamente l’amore. D’altro canto già
nell’accurata disamina della coppia
pulsionale antitetica sadismo–
masochismo, che troviamo in Pulsioni
e loro destini, Freud è costretto ad
ammettere che all’interno di quelle che
vengono dette pulsioni libidiche o sessuali o oggettuali la pulsione sadica si
distingue per la sua meta tutt’altro che
amorosa e presenta invece molti lati in
comune con le pulsioni dell’Io.
In un primo tempo Freud era dunque propenso a considerare primario il
sadismo, successivamente però, dopo
avere elaborato, in Al di là del principio di piacere, la dottrina della pulsio-
MARC, Franz, Forme in Lotta
51
ne di morte, considerò primario il masochismo.
In Pulsioni e loro destini troviamo
infatti latente la dialettica pulsionale
che verrà sviluppata a partire da Al di
là del principio di piacere, dove infatti
Freud dichiara:
La nostra concezione è stata dualistica fin
dall’inizio, e oggi – da che i termini opposti non sono più chiamati pulsioni dell’Io
e pulsioni sessuali, ma pulsioni di vita e
pulsioni di morte – lo è più decisamente
che mai.
Le pulsioni di morte, Todestriebe, designano una categoria fondamentale delle pulsioni che si oppongono alle pulsioni di vita, Lebenstriebe, e tendono
alla riduzione completa delle tensioni,
cioè a ricondurre l’essere vivente allo
stato inorganico. Esse possono essere
rivolte verso l’interno e tendere di conseguenza all’autodistruzione, Selbstdestruktion, oppure verso l’esterno, manifestandosi allora sotto forma di pulsione di aggressione o di distruzione,
Aggressionstrieb o Destruktionstrieb.
Nonostante le forti resistenze incontrate in ambito scientifico, Freud
era convinto che soltanto la cooperazione e il contrasto tra §D@H e 2V<"J@H potessero consentire di spiegare i
1
FREUD, Sigmund, Al di là
del principio di piacere, op.
cit., p. 85.
52
MARTE, Barbara
molteplici e variegati fenomeni della
vita.
Certo Freud stesso ammette che la
pulsione di vita si palesa in modo molto più chiaro della pulsione di morte.
Quest’ultima, asservita alla prima, induce l’essere vivente a distruggere
qualcosa che sia posto all’esterno invece di se stesso. Al contrario la limitazione di tale aggressività verso l’esterno porta ad una introflessione della
pulsione di morte, che acquista appunto un carattere autodistruttivo. Sembra
quindi che le due specie di pulsioni
raramente appaiano isolate, ma che
spesso agiscano congiuntamente, rendendosi così difficilmente riconoscibili. Il sadismo sembrerebbe essere il
prodotto dell’unione della brama amorosa con la pulsione distruttiva, mentre il masochismo sembrerebbe il risultato dell’unione della distruttività rivolta all’interno con la sessualità. Tali
leghe pulsionali impedirono a lungo a
Freud di focalizzare l’attenzione sulla
presenza della pulsione aggressiva e
distruttiva non erotica e di riconoscerle il ruolo che ha nella vita dell’uomo.
Nel sadismo, la pulsione di morte
piega al suo significato la meta erotica
da una parte e dall’altra soddisfa completamente il desiderio sessuale. Anche
laddove compare indipendentemente
dalla meta erotica non si può negare
che al soddisfacimento della pulsione
di morte si riallacci un godimento narcisistico elevatissimo, poiché l’Io sente
che viene appagato in un suo antico
desiderio di onnipotenza.
La tendenza aggressiva è allora nell’uomo una disposizione pulsionale
1
FREUD, Sigmund, Die
endliche und die unendliche
Analyse, 1937, in LAPLANCHE
e PONTALIS, Enciclopedia della psicoanalisi, Bari, Editori Laterza, 2000, pp. 487-488.
BECKMANN, Max, La Notte (particolare)
originaria e indipendente, che costituisce un grave ostacolo per la civiltà.
Quest’ultima vuole che il genere umano trovi l’unità: l’§D@H infatti raccoglie
prima singoli individui, poi famiglie,
poi stirpi, popoli, nazioni. La necessità,
i vantaggi del lavoro in comune non
bastano a tenerli insieme, è necessaria
l’azione della libido. A questo scopo
della civiltà si oppone la pulsione aggressiva dell’uomo. Tale pulsione di
aggressività o di distruzione costituisce
la massima rappresentante della pulsione di morte. Dunque la lotta tra §D@H e
2V<"J@H costituisce l’esistenza, pulsione di vita e pulsione di distruzione si
contendono il dominio del mondo.
Sebbene Freud sostenga fino alla
fine della sua opera la pulsione di morte, essa rimane per lui da un lato il
prodotto di un’esigenza speculativa
fondamentale e dall’altro gli sembra
ricavabile da fatti precisi e irriducibili
che hanno un ruolo crescente nell’esperienza clinica e nella cura:
Considerando il quadro d’insieme nel
quale convergono le manifestazioni derivanti dall’immanente masochismo di
tanta gente, dalla reazione terapeutica
negativa, e dal senso di colpa dei nevrotici, non si potrà più continuare a dar
credito alla tesi che gli eventi psichici
siano dominati esclusivamente dalla
spinta al piacere. Questi fenomeni costituiscono prove inequivocabili della presenza, nella vita psichica, di una forza
che per le sue mete denominiamo pulsione di aggressione o di distruzione, e
che consideriamo derivata dall’originaria
pulsione di morte insita nella materia
vivente.
La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte
Viceversa Melanie Klein sostiene
con forza il dualismo costituito
dalle pulsioni di morte e dalle pulsioni di vita, attribuendo un ruolo
fondamentale alle pulsioni di morte già all’origine dell’esistenza umana, non solo in quanto dirette verso l’oggetto esterno, ma anche in
quanto operano nell’organismo e
suscitano l’angoscia di essere disintegrati e annientati. I due tipi di
pulsione sono per la Klein antagonisti rispetto allo scopo, ma riguardo il loro funzionamento non vi è
una differenza fondamentale.
Freud estende l’analogia di queste due pulsioni fondamentali al di
là del campo del vivente fino a raggiungere la sfera inorganica dominata dalla coppia di opposti attrazione-repulsione e attribuisce pertanto un carattere universale alle
pulsioni, come si può vedere dal
riferimento che egli fa a concezioni
filosofiche come quelle di Empedocle e di Schopenhauer.
Freud si rallegra di aver trovato
conferma alla sua teoria nel pensiero di Empedocle di Agrigento, secondo il quale due sono i principi
che governano la vita dell’universo
e sono in continua lotta tra loro:
n48 ι′α (amore, amicizia) e <,Ã6@H
(discordia, odio). Questi due principi sono sia per il nome sia per la
funzione che assolvono la stessa
cosa delle due pulsioni originarie,
pulsione di vita e pulsione di morte, §D@H e 2V<"J@H. Le due dottrine sono simili tranne che per il
fatto che quella del filosofo greco
è una fantasia cosmica, mentre
quella freudiana aspira ad uno statuto scientifico.
Freud giunge a supporre che
durante il corso dell’evoluzione,
che ha condotto dall’uomo primitivo all’uomo civile, abbia avuto luogo una notevole interiorizzazione
dell’aggressività; per cui i conflitti
interni degli uomini costituirebbero l’equivalente delle lotte esterne
che, col tempo, si sono andate attenuando.
2.
53
“L’eresia freudiana di
aver fatto derivare
la morale dall’istinto
di morte”
Nello scritto Il disagio della civiltà
(1929) Freud si chiede quali strumenti
usi la civiltà per frenare la pulsione di
aggressione (Aggressionstrieb) dell’individuo, la risposta è che ad essa si
oppone un’istanza morale. Una delle
più profonde intuizioni di Freud fu,
come egli stesso la definisce, “l’eresia
di aver fatto derivare la morale dall’istinto di morte”.
L’aggressività viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata là
donde è venuta, ossia è volta contro il
proprio Io. Qui viene assunta da una parte dell’Io, che si contrappone come Superio al rimanente, e ora come “coscienza”
è pronto a dimostrare contro l’Io la stessa
inesorabile aggressività che l’Io avrebbe
volentieri soddisfatto contro altri individui
estranei. Chiamiamo coscienza della propria colpa la tensione tra il rigido Super-io
e l’Io ad esso soggetto; essa si manifesta
come bisogno di punizione.
È importante a questo punto chiedersi
quale sia la dinamica psichica che dà
origine al senso di colpa, che cosa lo
determina. L’esperienza clinica mostra
che non solo si sente colpevole chi ha
fatto qualcosa che riconosce come un
“male”, ma anche chi non ha commesso questo male, chi a livello cosciente
o inconscio abbia nutrito solo l’intenzione di commetterlo. Posta la capacità
di discernere tra ciò che è bene e ciò
che è male fare, l’uomo considera o
può considerare l’intenzione di compiere il male simile alla sua attuazione.
Premettendo che spesso il male
non è affatto ciò che danneggia o mette in pericolo l’Io, ma al contrario può
coincidere con ciò che l’Io vuole, desidera e da cui trae gratificazione, godimento, dobbiamo chiederci se l’uomo
possegga una naturale capacità di discernere tra bene e male. Naturalmente Freud e noi con lui escludiamo questa possibilità. Qui l’uomo evidente-
1
Qui Freud usa il termine
Gewissen, che indica la “coscienza morale”; mentre usa
il termine Bewußtsein per
indicare la coscienza nell’accezione di “consapevolezza”.
2
FREUD, Sigmund, Opere.
Il disagio della civiltà
(1929), volume 10, Torino, Boringhieri, 1979, p. 610.
54
mente si subordina ad un motivo estraneo, in base a cui qualcosa è definito “essere bene” o “essere male”, che
Freud indica come paura di perdere
l’amore. Perdere l’amore degli altri, da
cui dipende, può significare per l’uomo essere privato della protezione
contro pericoli esterni ed esporsi al
pericolo di una punizione. Di conseguenza ha poco rilievo il fatto di avere
compiuto o avere soltanto intenzione
di compiere il male: il pericolo è costituito soltanto dal fatto che l’autorità
possa scoprirlo, perché in entrambi i
casi essa si comporterebbe nello stesso
modo. Se ne inferisce che “il male è
originariamente tutto ciò a causa di cui
si è minacciati della perdita d’amore” e
che perciò bisogna evitarlo.
Nei bambini piccoli e anche in
molte persone adulte, per le quali al
posto del padre o dei genitori vige la
autorità della più vasta comunità, il
senso di colpa è chiaramente soltanto
ciò che abbiamo detto sopra cioè
“angoscia sociale”.
In realtà possiamo parlare di
“coscienza morale” e di “senso di colpa” solo quando l’autorità esterna viene interiorizzata attraverso l’erigersi
del Super-io. In questo stadio dovrebbe venir meno totalmente la paura di
essere scoperti e la differenza tra intenzione e attuazione, perché nulla
può essere occultato al Super-io. Tale
autorità tormenta l’Io, al quale pure
appartiene intimamente, facendogli
provare le medesime paure che potrebbe suscitare un’autorità posta fuori
di esso e cogliendo ogni occasione per
farlo punire dal mondo esterno. Anzi
si può osservare che tanto maggiore è
il rigore di questa istanza morale,
quanto più l’uomo è virtuoso.
In conclusione l’origine del senso di
colpa può essere duplice: il timore che
suscita l’autorità, il successivo timore
che suscita il Super-io. Entrambe obbligano l’individuo a rinunciare al soddisfacimento libidico, ma il secondo, al
quale peraltro è impossibile nascondere
EURIPIDE, Medea, Ippoli- i desideri proibiti, che pur non essendo
to, Milano, Oscar Mondado- soddisfatti continuano a persistere, si
ri, 1990, v. 317.
adopera anche per la punizione.
1
MARTE, Barbara
Ora se rispetto all’autorità esterna
la rinuncia pulsionale dovrebbe bastare a evitare il rischio della perdita d’amore, come pure il senso di colpa, con
l’istanza interna le cose procedono in
modo assai più complicato. La rinuncia pulsionale non è affatto sufficiente,
perché il desiderio rimane e non si lascia occultare di fronte al Super-io.
Pertanto sopraggiunge ugualmente il
senso di colpa.
La scansione temporale consta di
due momenti: il primo consiste nella
rinuncia pulsionale per timore dell’aggressione da parte dell’autorità esterna
(la perdita d’amore comporterebbe
l’aggressione come punizione),
“angoscia sociale”; il secondo momento consiste nella rinuncia pulsionale
per il timore dell’autorità interna,
“angoscia morale”. In quest’ultimo
caso tanto l’azione cattiva quanto l’intenzione cattiva determinano il senso
di colpa e quindi il bisogno di essere
puniti cioè di ricevere un’aggressione
da parte dell’istanza interna. L’intenzione e l’attuazione del male si equivalgono, come già i tragici antichi sapevano. Infatti nell’Ippolito di Euripide Fedra così si esprime riferendosi
alla sua “insana” passione per il figliastro Ippolito:
Le mani son pure, ma l’anima è contaminata.
Fedra innamorata di Ippolito, una sorta di santo orfico, resiste alla sua passione adulterina e quasi incestuosa;
pur essendo ella consapevole che le
sue mani sono pure di sangue, dichiara
che “la sua mente (nDZ<) è contaminata da una colpa (:ι′ασ:")”.
L’aggressione del Super-io non fa
che perpetuare l’aggressione dell’autorità. Ora il punto è che all’inizio la coscienza morale (Gewissen) o più precisamente l’angoscia che poi diventa
coscienza costituisce la causa e la rinuncia pulsionale l’effetto, successivamente il rapporto causa-effetto diviene inverso. Infatti ogni rinuncia pulsionale accresce la severità e l’intolleranza del Gewissen, insomma diviene
La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte
SEVERINO, Gino, Guerra (particolare)
essa stessa una fonte dinamica della
coscienza.
La prima aggressività si sviluppa
nell’individuo quando, ancora bambino, deve rinunciare a importanti soddisfacimenti; da qui una notevole dose
di aggressività contro l’autorità che ha
impedito tali soddisfacimenti. La necessità induce il bambino a rinunciare
alla soddisfazione dei suoi desideri di
vendetta contro l’autorità stessa. Dovendo risolvere problemi di natura
economica (ökonomisch), il bambino
s’identifica con l’autorità paterna, che
interiorizzata viene a costituire il Super-io e s’impossessa di tutta l’aggressività che il bambino vorrebbe in realtà dirigergli contro. L’aggressività si
trasforma in senso di colpa
(Schuldgefühl), quando viene repressa
e trasferita al Super-io. Infatti se una
tendenza pulsionale è oggetto di rimozione, le sue parti libidiche assumono
la forma di sintomi, le sue componenti
aggressive quella di senso di colpa. Se
osserviamo il quadro clinico del nevrotico ossessivo possiamo chiaramente seguire tale sviluppo.
La lotta tra pulsione di vita e pulsione di morte contraddistingue tanto
lo sviluppo dell’individuo, quanto l’incivilimento dell’umanità. Secondo
Freud si tratta di processi assai simili o
forse si tratta dello stesso processo
applicato a oggetti diversi: le mete sono simili, nel primo caso l’inserimento
di un individuo in una massa umana;
nel secondo la creazione di un’unità di
massa partendo da una molteplicità di
individui, per cui i mezzi impiegati ri-
sultano simili, come pure la somiglianza dei fenomeni. Nel corso dello sviluppo individuale troviamo un conflitto tra la tendenza egoistica dell’uomo
alla felicità e quella altruistica che vuole l’unione con i membri della comunità. Lo stesso possiamo affermare per
quanto concerne il processo d’incivilimento, in cui la meta più importante è
realizzare un’unità degli individui e la
felicità rimane relegata sullo sfondo. Si
può affermare che pure la comunità
umana sviluppi un Super-io, sotto la
cui azione si attua la comunità civile.
Se ne inferisce che anche in questo
ambito sarà difficile padroneggiare i
turbamenti della vita collettiva, che
vengono provocati dalla pulsione
aggressiva e autodistruttrice degli
individui.
3.
Il richiamo alla responsabilità morale individuale
Posta come premessa che l’aggressività
individuale si distingue da quella che
ha come spazio privilegiato la guerra,
in quanto la finalità soggettiva è diversa, sottolineamo che la guerra consiste
in una lotta armata e organizzata, avente un carattere etico-giuridico cogente per tutti gli individui del gruppo.
A tal proposito è importante ricordare
che l’eresia freudiana di far derivare la
morale dall’istinto di morte, quindi di
collegare il <`:@H col 2V<"J@H, ci
induce a ricondurre alla stessa fonte
sia la guerra che le leggi morali che
dovrebbero impedirla.
55
56
MARTE, Barbara
La psicoanalisi permette di escludere che le cause della guerra siano da
rintracciare in quell’insieme di razionalizzazioni giuridiche che in ogni epoca
mirano a elaborare teorie che legalizzano la guerra, ossia legittimano gli
individui a compiere ciò che in tempi
di pace è loro vietato. Pertanto nella
storia del diritto internazionale troviamo motivazioni della guerra di ordine
teologico e successivamente di ordine
politico legate ora all’apoteosi della
sovranità, ora al diritto di conquista,
ora al principio dinastico/oligarchico/
democratico, infine all’ipostatizzazione
della nazione e della razza. Ricordiamo
a questo proposito la posizione hegeliana, secondo la quale lo Stato attraverso la guerra giunge “alla più alta
coscienza di se stesso”.
Dunque lo Stato proibisce all’individuo di compiere atti iniqui non perché intenda davvero eliminarli, ma
perché vuole averne il monopolio. In
altri termini possiamo dire che lo Stato
intende capitalizzare l’istinto di morte
degli individui allo scopo di far prosperare la sua industria della morte che
è la guerra.
Nel suo scritto L’uomo è antiquato
(1956) Günther Anders a proposito
della guerra atomica parla di alienazione, alienazione della violenza privata
dei cittadini nello Stato. Mettiamo l’accento sul fatto che tale alienazione è
pure alienazione morale, che consente
allo Stato sovrano di porre contro di
noi i nostri stessi risparmi di violenza
inflazionati appunto dallo Stato, che
diviene l’industriale della violenza privata risparmiata dai cittadini. Quindi
ripetiamo ciò che Anders afferma a
proposito della bomba atomica:
1
ANDERS, Günther, L‘uomo è antiquato, Torino,
Bollati Boringhieri, 2003, p. 266.
2
SCHILLER, Friedrich, citato
in FREUD, Sigmund, Opere.
Psicologia delle masse e analisi
dell’Io (1921), volume 9, Torino,
Boringhieri, 1977, p. 267.
Non soltanto gli eventuali assassini sono
colpevoli, ma anche noi, gli eventuali morituri.
Lo Stato si trova al di fuori delle leggi
e conseguentemente al di fuori della
responsabilità morale, in quanto la sua
sovranità è legibus soluta potestas. Sarebbe pertanto più costruttivo incentrare il nostro discorso sulla responsa-
bilità morale individuale e porre l’accento sul fatto che attribuire la responsabilità della guerra ai soli governanti è
una posizione ipocrita o quanto meno
ottimistica.
La psicoanalisi ha il privilegio di
poter osservare l’influenza che l’inconscio esercita sulle modalità individuali
di elaborazione delle esperienze politiche, sociali, e le modalità in cui gli uomini fantasticano la guerra.
Col fenomeno guerra la strutturazione delle tre istanze, Io, Es e Superio, muta: Es e Super-io coincidono, ci
troviamo cioè dinanzi ad un rovesciamento delle leggi morali. Parallelo ad
esso è il rovesciamento delle leggi economiche (data l’enorme mole di distruzione di beni).
Cerchiamo ora di enucleare gli aspetti psicologici fondamentali dell’individuo in guerra: la crisi dell’istinto di
conservazione; l’idealizzazione della
necessità del sacrificio; l’idealizzazione
del capo. Come afferma Franco Fornari in Psicoanalisi della guerra (1966)
tutti questi fenomeni possono realizzarsi in virtù del fatto che gl’individui
formano un gruppo che s’identifica
con un oggetto d’amore comune.
Freud sostiene che il gruppo si scioglie
quando l’oggetto d’amore e d’identificazione comune viene perduto, quindi
la vita del gruppo è impensabile senza
un oggetto d’amore, in quanto oggetto
d’identificazione comune.
A questo punto dobbiamo, in primo luogo, chiederci che cos’è un gruppo ossia più precisamente da dove gli
viene il potere di esercitare la propria
influenza sull’individuo e in che cosa
consistono le modificazioni psichiche
che esso impone all’individuo? Freud
ci ricorda un distico di Schiller:
Ognuno, veduto da solo, è passabilmente
perspicace e assennato;
Ma, una volta in corpore, eccotelo trasformato di colpo in un somaro.
Vale a dire che il gruppo si distingue
per due caratteristiche fondamentali:
l’esaltazione dell’affettività e l’abbassamento del livello intellettuale degli indi-
La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte
vidui che lo compongono. Esse trovano origine nella libido cioè nell’energia
dell’insieme delle tendenze che vengono riportate sotto il termine amore.
In Psicologia delle masse e analisi
dell’Io (Massenpsychologie und IchAnalyse, 1921) Freud analizza due
gruppi aventi un grado di organizzazione molto elevato: la chiesa e l’esercito. A questo proposito vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che presso i
romani vi erano riti specifici riguardanti la sacralizzazione del soldato e la
sua desacralizzazione quando abbandonava l’esercito; tale condizione costituisce ancora oggi una rilevante affinità tra i membri dell’esercito e i membri della chiesa.
Entrambi questi gruppi si raccolgono intorno ad un capo, il Cristo nella
chiesa cattolica, il comandante in capo
nell’esercito. Naturalmente il capo sta
in entrambi i gruppi per il padre, che
amerebbe allo stesso modo i membri
del gruppo; il rapporto che lega il
gruppo al padre lega pure gl’individui
che compongono il gruppo. In altri
termini la libido lega i membri del
gruppo al capo e tra loro. I legami libidici spiegano la mancanza d’indipendenza e d’iniziativa degli individui all’interno del gruppo, l’identità delle
loro reazioni, insomma quel che Freud
definisce “l’abbassamento del singolo
– per così dire – a individuo massificato.” Egli sostiene:
È chiaro che i contributi che abbiamo
potuto fornire alla spiegazione della struttura libidica di una massa si riallacciano
alla distinzione tra l’Io e l’ideale dell’Io e al
duplice tipo di legame reso in tal modo
57
possibile (identificazione e collocazione
dell’oggetto al posto dell’Io).
Allora tornando ai nostri esempi osserveremo che per quanto concerne
l’esercito il capo si pone per i soldati
come l’ideale, mentre il legame tra gli
individui è costituito dall’identificazione. Stessa cosa dicasi per quanto riguarda i cristiani: il Cristo rappresenta
l’ideale ed il legame reciproco è dato
dall’identificazione.
Sappiamo che la virtù principale del
soldato consiste nella sua assoluta dipendenza dal capo, cosa che presuppone l’idealizzaione del capo. Lo spirito di sacrificio a sua volta ha una relazione con uno scopo ideologico, nel
quale alienarsi, donde la guerra come
dispensatrice del martirio. Un altro
fenomeno che possiamo osservare
nell’ambito dell’azione bellica è a sua
volta collegato a quest’ultimo: il comportamento fanatico, laddove la guerra stessa può assurgere a valore fine a
se stesso, perché ciò che conta è la
prospettiva di partecipare all’azione
bellica, in quanto attraverso essa si
può dare e ricevere il martirio.
Durante il processo, che ebbe luogo a Gerusalemme nel 1961, così si
espresse O. A. Eichmann a proposito
dell’8 maggio 1945, data ufficiale della
sconfitta della Germania:
“Sentivo che la vita mi sarebbe stata difficile, senza un capo; non avrei più ricevuto
direttive da nessuno, non mi sarebbero
più stati trasmessi ordini e comandi, non
avrei più potuto consultare regolamenti –
in breve mi aspettava una vita che non
avevo mai provato.”
1
FREUD, Sigmund, Opere.
Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), op. cit., p. 317.
CARRÀ, Carlo, I Funerali dell’Anarchico Galli (particolare)
2
ARENDT, Hannah, La
banalità del male, Milano,
Feltrinelli, 2003, p. 40.
58
MARTE, Barbara
Del resto Eichmann già prima di entrare a far parte del partito e delle SS
aveva mostrato di avere la mentalità
del gregario. Da ragazzo per iniziativa
dei genitori era entrato nell’Associazione dei giovani cristiani; successivamente aveva fatto parte dei Wandervogeln, il Movimento giovanile tedesco. Durante gli anni delle scuole superiori era stato membro dello Jungfrontkämpfverband, la sezione giovanile, violentemente filotedesca e antirepubblicana, di un’organizzazione di
veterani di guerra. Stava per aderire ad
una società completamente diversa, la
Loggia massonica Schlaraffia (da
Schlaraffenland, paese della cuccagna), quando Ernst Kaltenbrunner
(poi divenuto capo del Reichssicherheitshauptamt) gli propose di entrare nelle SS. Essendo indeciso tra le due organizzazioni fu poi la stessa Schlaraffia
a sottrarlo all’indecisione per “un motivo che lo faceva ancora arrossire nella prigione d’Israele”:
“Contrariamente ai principi a cui ero
stato educato da ragazzo, avevo osato
invitare i miei compagni a bere un bicchiere di vino.”
Eichmann, condotto dinanzi al tribunale distrettuale di Gerusalemme l’11
aprile 1961, “doveva rispondere di
quindici imputazioni, avendo commesso, ‘in concorso con altri’, crimini
contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto
il regime nazista”. E
Richiesto su ciascun punto se si considerasse colpevole, Eichmann rispose: “Non
colpevole nel senso dell’atto d’accusa.”
1
2
ARENDT, Hannah, La banalità del male, op. cit., p. 40.
ARENDT, Hannah, La banalità del male, op. cit., p. 29.
Grunberger ha messo in rilievo come,
durante il processo, Eichmann ascoltasse tutte le accuse indirizzate a lui
quasi fossero affermazioni prive di
senso, mentre paradossalmente arrossì
e sembrò trovarsi in una condizione di
grave disagio, quando gli si fece notare
che non osservava una banalissima
regola di buona educazione: non si
alzava in piedi quando parlava con il
presidente. Quanto abbiamo detto su
Eichmann mette in luce che la sua responsabilità morale individuale, rispetto ai crimini di cui era stato accusato,
appare chiaramente alienata nello Stato, infatti le norme morali non sembrano essere a lui sconosciute; la stessa
Arendt in Banalità del male, riporta il
giudizio di una mezza dozzina di psichiatri, che lo avevano osservato e che
tra le altre cose avevano detto di lui,
che “tutto il suo atteggiamento verso
la moglie e i figli, verso la madre, il
padre, i fratelli, le sorelle e gli amici era
“non solo normale, ma ideale.”
4.
Il primato dell’episteme nel seno dell’etica
Freud ha responsabilizzato gli uomini
dei loro lapsus, dei loro sogni, delle
loro nevrosi, persino della loro morte;
ha fatto sì che l’uomo non potesse più
ignorare lo straniero che ha dentro di
sé, l’inconscio. Ciò pone l’uomo nella
condizione di dover riconoscere la sua
intenzionalità distruttiva e quindi la
sua responsabilità morale rispetto alla
guerra. In tal modo la psicoanalisi ha
aperto all’etica umana un territorio che
gli uomini ignoravano completamente:
essa può costituire il punto di partenza
di una ricerca che indaghi le modalità e
le cause di alienazione morale dell’individuo nello Stato, attraverso la conoscenza del proprio inconscio. Lo scopo della psicoanalisi deve essere cioè
quello di instaurare nell’etica il primato
dell’¦B4FJZ:0, secondo il modello
socratico-platonico, in base al quale è
meglio compiere il male sapendo di
farlo, anziché non commettere il male
senza sapere di farlo, perché se uno
non sa di commettere il male non potrà mai evitare di farlo.
Lungo questa direzione potremmo
seguire il cammino percorso dall’etica
greca.
Nella piccola colonia di Olbia sul
Mar Nero sono state trovate tre tavolette d’osso di ambiente orfico, pubblicate nel 1978. Esse mostrano l’altro
La Guerra come Risposta alla Pulsione di Morte
aspetto della morale greca, spesso in
contrasto con la cultura della B`84H.
Una di queste tavolette reca questo
scritto:
PACE GUERRA (,ÆDZ<0 / B`8,:@H)
VERITÀ MENZOGNA (•8Z2,4"/ R,Ø*@H)
DION(ISO) (West 2)
Vediamo che la tavoletta contiene due
colonne, una delle polarità positive,
l’altra delle polarità negative. Dioniso è
posto sotto le polarità positive, pertanto come conferma pure un verso delle
Baccanti di Euripide (419), egli è il dio
che ama la pace, che quindi si oppone
alla violenza bellica che connota l’universo della B`84H. Sappiamo pure che
il movimento orfico si colloca sotto
l’insegna di Dioniso.
Sin dalla metà del VI secolo appare
ben documentata la presenza in Grecia
di un movimento che si richiama al
culto di Dioniso e all’insegnamento di
Orfeo. Se da una parte il rito dionisiaco culmina nell’uccisione dell’animale
selvatico, le cui carni vengono dilaniate con le mani e divorate crude; dall’altra presso gli orfici e i pitagorici, che si
pongono sotto l’egida di Apollo purificatore (6"2"DJZH), troviamo il rifiuto
di uccidere e la pratica del vegetarianismo. Quindi sembra esservi una sorta
di dicotomia tra l’estasi dionisiaca e la
pratica di vita rigorosamente ascetica
GROSZ, George, Funerale (particolare)
vigente tra orfici e pitagorici. Malgrado
queste ed altre differenze, restano delle affinità fondamentali tra questi movimenti, che ci vengono segnalate da
Erodoto.
In primo luogo il carattere unitario
di queste esperienze religiose è dato dal
fatto che esse non tendono a rassicurare l’individuo, ma a trasformarne in
modo radicale l’esistenza anche nella
sua dimensione collettiva. Altro tratto
comune è la loro capacità di creare comunità, forme di aggregazione, liberamente scelte, quindi autonome e tangenziali rispetto agli ordini sociali – l’
§2<@H, la famiglia, la città – tradizionali.
Questi movimenti religiosi si oppongono in primo luogo al sistema
del tempo e della corporeità, in secondo luogo alla B`84H e alla religione che la B`84H ha integrato, ufficializzandola, ma più in generale all’intera impostazione politica, con i suoi
valori violenti.
Nelle Baccanti di Euripide Dioniso si presenta come divinità radicalmente eversiva: egli evoca tutti i
gruppi sociali marginalizzati o esclusi
dalla città, cioè solleva l’esercito menadico delle donne, proclama l’uguaglianza del ricco e del povero, del
greco e del barbaro. In questo scompiglio delle gerarchie Dioniso è seguito dall’orfismo.
59
60
MARTE, Barbara
I pitagorici si oppongono alla proprietà privata legata all’@É6@H familiare. Dunque il delirio delle orge dionisiache come pure l’ascetismo orficopitagorico si contrappongono all’ordine istituzionale della città. Tale posizione di rottura è visibile già nel movimento dionisiaco, ma svolge un ruolo
centrale presso gli orfici e i pitagorici
assumendo la forma specifica del rifiuto della violenza, che la città ha incorporato nel sistema della propria razionalità politica, in altri termini il rifiuto
di quel B`8,:@H, cui viene contrapposto Dioniso, “l’amico della pace”.
In particolare essi rifiutano il n`<@H,
l’uccisione. Le leggi della città sono
contaminate, contengono un :ι′ασ:",
in quanto legalizzano e sacralizzano l’assassinio; contaminata è la religione stessa.
Il n`<@H è allora coesteso alla
città, alla sua legge, alla sua religione. Il rifiuto di ogni uccisione
è alla base della scelta di vita del
settarismo orfico e pitagorico, ma
tale scelta è troppo radicale ed
eversiva per poter essere tollerata
dalla città.
Con Socrate ha luogo un tentativo
di mediazione tra la cultura iniziatica
di queste sette religiose e il contesto
della B`84H attraverso quella soggettivazione morale che sembra realizzarsi
tramite l’anima. Il motto delfico
“conosci te stesso” non può significare altro che “conosci la tua RLPZ”,
perché l’uomo nella sua essenza individuale non è altro che la sua anima. Nel
Protagora Socrate afferma che l’•D,JZ
PLATONE, Tutte le opere. coincide con l’¦B4FJZ:0. Si tratta
Protagora, Roma, 1997,
cioè della capacità razionale di conoNewton, 345e.
scere il bene e il male.
1
2
SOFOCLE, Edipo a Colono, Milano, Oscar Mondadori, 1990, vv. 962-977.
3
4
SOFOCLE, Edipo a Colono, op. cit., vv. 545-549.
… che nessuno dei sapienti ritiene che
qualcuno volontariamente sbagli (©6`<J"
¦>":"DJV<,4<) e commetta azioni turpi
e cattive…
Socrate e con lui Platone propone
ANDERS, Günther, L‘uomo una soggettivazione morale forte,
è antiquato, op. cit., p. 293.
che renda non necessario il ricorso
a norme che facciano parte dell’ordine della B`84H o di un ordine ultraterreno. Egli fa appello all’anima
come fondamento soggettivo della
moralità, si richiama cioè a una
moralità soggettiva, che si fonda
sulla conoscenza, che è conoscenza
di sé.
Altro esempio di tale intellettualismo etico è l’autoassoluzione che Edipo pronuncia nell’Edipo a Colono di
Sofocle:
… Mi rinfacciasti dalla tua bocca uccisioni
(n`<@LH) e nozze e sventure, che io misero subii non volendo (³<,(6@< –6T<):
così piacque agli dei, forse irati da tempo
contro la mia stirpe. Quanto a me non
potresti trovare nessuna macchia di colpa
(:"DJι′"H)…E se io…venni alle mani
con mio padre e lo uccisi, senza comprendere che cosa facevo e a chi lo facevo,
come puoi ragionevolmente rimproverarmi l’atto involontario?
Uccisi. Ma la cosa (…) ha per me qualche
giustificazione… sono puro di fronte alla
legge (<`:å *¥ 6"2"D`H): ignaro giunsi
a tanto.
Il rapporto episteme/etica potrebbe essere ribaltato cioè potrebbe
essere la nostra posizione morale a
decidere della nostra comprensione
o incomprensione delle dinamiche
psichiche individuali che generano
il fenomeno guerra, al di là dell’imprescindibile contributo conoscitivo che la psicoanalisi può e deve
darci riguardo le nostre inconsce
pulsioni distruttive. Concludo perciò con le parole di Anders, ancora
una volta a proposito della bomba
atomica, il quale sostiene:
Che è la posizione morale in cui ci troviamo di fronte a un oggetto (una faccenda,
una situazione) a decidere se afferriamo o
meno l’oggetto; che la nostra capacità di
vedere o la nostra cecità dipende dal fatto
se l’oggetto “ci riguarda” o no; che vediamo soltanto ciò che ci riguarda.
61
Maddalena Alini
Dalla Guerra come Privilegio
dello Stato in Hegel alla Pace
come Rivolta Libertaria
in Camus
CASSANDRA
… qual nome serba
la fonte un tempo sacra
bacia la terra
la roccia indovina
… serrata la porta del tempio
da fiotti di sangue e neve
che nessun tempo scioglie
suoi tuoi occhi gelano
corrispondenze di morte
previste
la bocca non bacia la terra
Inaudita
la parola s’avvera
Nessuna misura
separa la vita e la morte
la strage si compie
senza scandalo
La tua voce è
un sudario di dolore
senza volto
Tamburi di guerra
percuotono
ossa perplesse
sollevano amputazioni
da macerie
durate millenni
Mutilazioni
in cerca di
corpi
abbracciano
Mutilazioni
Il tuo respiro
le unisce
per l’ultima volta
Aperta la porta del tempio
belve danzano entrando
il passo è leggero
come piuma nella sabbia della
memoria
non lasciano tracce
non v’è più traccia
Stendardi di vittoria
tra colonne
senz’anima
Cantano
Inni
Elevano
Glorie
Altissime
Ubriachi
nella gola
di sangue
freddo
come ferro
l’Assassinio
trionfa
e si chiama
Vittoria
Qual punto terrestre
respira
senz’inganno?
La tua voce è
un sudario di dolore
senza testimoni.
62
ALINI, Maddalena
La storia è facile da pensare ma è difficile da vedere per tutti coloro che la
subiscono sulla propria carne.
1
CAMUS, Albert, La rivolta
libertaria, a cura di A. Bresolin, Milano, Elèuthera, 1998, p. 9.
2
DELEUZE, Gilles e
GUATTARI, Felix, Che
cos’è la filosofia?, Torino, Einaudi, 1996, p. 101.
3
HEGEL, George Wilhelm
Friedrich, Lineamenti di
filosofia del diritto, Bari, Laterza,
1990, p. 14.
4
HEGEL, George Wilhelm
Friedrich, Lineamenti di
filosofia del diritto, op. cit., p. 15
5
CAMUS, Albert, L’uomo in
rivolta, Milano, Bompiani,
2000, p. 771.
6
Cfr. MASULLO, Aldo, Filosofie del soggetto e diritto
del senso, Genova, Marietti, 1990,
p. 84.
7
Cfr. MASULLO, Aldo, Filosofie del soggetto e diritto
del senso, op. cit., p. 85]
Con queste brevi parole Albert Camus
ci restituisce tutto il senso di una rinnovata responsabilità nel momento
stesso in cui sceglie di rimanere nella
storia. Bisogna essere chiari e dire subito: Camus sta dalla parte di chi vede
il dolore, è dal di dentro del dolore che
egli vede la storia, ed è per questo che
può sottrarsi alla sua logica, alle alternative che la storia violentemente impone quando non si tiene conto delle
vittime. Guardare la storia diventa una
questione etica nel momento in cui
l’etica diventa un modo di guardare in
faccia il dolore, non si tratta qui di
sentirsi responsabili delle vittime, ma
come dicono Deleuze e Guattari, “di
essere responsabili di fronte alle vittime”, essere davanti alla sofferenza
diventa l’estremo gesto di appartenenza al mondo e al contempo il rifiuto
più radicale dell’orrore del mondo.
Chi invece pensa la storia, inevitabilmente dimenticherà le sue vittime.
Qui un’altra etica s’impone, quella del
sacrificio del singolo in nome dell’universale, è lo Spirito della Storia che si
fa Carne ma che non si trattiene a lungo nella sua lacerazione, anzi grazie ad
essa la Carne diventa Spirito, lo strappo è presto colmato. Non c’è il tempo
di guardare la ferita, di sostare presso i
lembi che si perdono per strada, meri
accidenti di cui lo Spirito può fare a
meno,. La Storia deve fare il suo corso. L’ha già fatto. Si tratta solo di comprendere che la razionalità del suo
cammino è uguale alla realtà. Nessuno
scarto tra il razionale e il reale, nessun
salto che potrebbe togliere il fiato e
farci inorridire perché “Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale”.
Così Hegel, il filosofo del “disincanto” che non crede al mondo come
dovrebbe essere ma solo a “ciò che è
(...) poiché ciò che è, è la ragione.”,
sembra non abbia dubbi. Non ci sono
alternative. La ragione trionfa in una
realtà senza residui o, il che è lo stesso,
come dice Camus commentando Hegel, “Il vincitore ha sempre ragione, è
questa una delle lezioni che si possono
trarre dal massimo sistema tedesco
dell’Ottocento.”
È come se in Hegel al pessimismo
della realtà umana fatta di coscienze
che lottano per il riconoscimento si
aggiungesse uno strano ottimismo,
quello della ragione che dà significato
ad un mondo che non ha bisogno di
senso. Ma il problema è che tipo di
conciliazione avviene tra reale e razionale, quale conciliazione è possibile tra
il mondo oggettivo delle istituzioni
storiche e lo Spirito. Qual è il rapporto
tra la Ragione, lo Spirito, la coscienza
e le istituzioni reali in cui essa si incarna? Il compito della ragione è quello di
incarnarsi in istituzioni concrete, le
quali però non hanno coscienza.
Il tragico consiste nel fatto che la storia
oggettivamente è senza coscienza, e la
coscienza in quanto tale nega l’oggettività
della storia. Per concepire storia e coscienza conciliate, occorrerebbe immaginare che la coscienza nell’individualità del
suo atto si allargasse ad abbracciare tutta
la storia o, il che è lo stesso, la storia si
restringesse tutta nell’individuale atto della
coscienza. [Insomma si tratterebbe di una]
suprema arroganza teoretica di violentare
la logica con l’immaginazione, in nome
della logica.
Ma aver trovato un’incrinatura tragica
nel sistema hegeliano non concilia la
nostra coscienza, come quella di Camus che cerca una via di uscita all’inconciliabile. In particolare quello che
Hegel afferma sulla Guerra ci sembra
non lasciare dubbi circa l’esito del suo
Sistema. Il rapporto che ci interessa è
quello tra Guerra e Stato. Che la conciliazione rimanga inconciliabile che la
storia rimanga tragica non impedisce
ad Hegel di superare il punto di vista
della coscienza singolare a vantaggio
del tutto oggettivo della Stato come
incarnazione dello Spirito, anzi. Lo
Stato nell’opera della maturità, nel sistema dello Spirito oggettivo è la realtà
dell’idea etica, lo Spirito etico. “Lo
La Guerra come Privilegio dello Stato...
stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch’esso ha nell’autocoscienza particolare innalzata alla
sua universalità, è il razionale in sé e
per sé”.
Lo stato ha supremo diritto sugli
individui, i quali hanno supremo dovere di essere membri dello stato. Qui
Hegel opera quell’esaltazione dello
stato a spese delle coscienze degli individui che gli permette, con grande cinismo, di parlare della guerra come
“momento etico in cui l’idealità del
particolare ottiene il suo diritto e diviene realtà”. Grazie alla guerra la salute
etica dei popoli viene mantenuta poiché
l’individuo muore come accidente ma
felice perché diventa universale salvando
e incarnando in questo modo lo Stato.
Tanto bisogna salvare la salute etica e
non quella reale del popolo. La guerra è
il momento della mediazione, dunque il
secondo nella dialettica hegeliana che
corrisponde al momento del negativo-
63
razionale dell’opposizione, essa diventa
l’unica soluzione nella controversia tra
stati perché ogni stato è sovrano e non
vi è alcun organismo sovranazionale capace di mediare i rapporti esterni degli
stati tra loro.
Non c’è alcun pretore (sopra gli stati) la
concezione kantiana di una pace perpetua
grazie a una federazione di stati, la quale
appianasse ogni controversia, (...) e con
ciò rendesse impossibile la decisione per
mezzo della guerra, presuppone la concordia degli stati, la quale riposerebbe su
fondamenti e riguardi morali, religiosi o
quali siano, in genere sempre su volontà
sovrane particolari, e grazie a ciò rimarrebbe affetta da accidentalità.
Gli Stati tra di loro si trovano nella
situazione dello status naturae e, nella
guerra di tutti contro tutti come nella
lotta delle autocoscienze per il riconoscimento, si manifesta lo Spirito, poiché tale guerra non è una semplice
1
HEGEL, George Wilhelm
Friedrich, Lineamenti di filosofia del diritto, op. cit., p. 195.
2
HEGEL, George Wilhelm
Friedrich, Lineamenti di
filosofia del diritto, op. cit., p.
257.
3
LEJEUNE, Louis-Francois, La Battaglia di Somo-Sierra in Castiglia
HEGEL, George Wilhelm
Friedrich, Lineamenti di
filosofia del diritto, op. cit., p.
262.
64
ALINI, Maddalena
1
CAMUS, Albert, La rivolta
libertaria, a cura di A. Bresolin,
Milano, Elèuthera, 1998, p. 196.
2
3
Cfr. WOLF, Christa, Cassandra, Roma, e/o, 1990, p. 146.
Cfr. WOLF, Christa, Cassandra, op. cit., p. 170.
lotta per la vita ma è lotta per essere
riconosciuti, per dimostrare a sé e agli
altri di essere autonomi.
Quello che colpisce nell’analisi di
Hegel, al di là delle sue intenzioni giustificatrici, è di avere smascherato l’appetito di potenza insito in ogni politica
statuale, in realtà ogni stato è sempre
potenzialmente in guerra con un altro,
essendo la sete di riconoscimento infinita e anche qualora ci fosse un organismo sovranazionale (oggi questo
sarebbe rappresentato dall’ONU), che
Hegel comunque non accetta, si rivelerebbe non solo inutile, come tutti abbiamo visto negli ultimi anni, ma al
servizio di qualche stato più potente
degli altri, stabilendo così un nuovo
diritto di fare guerra come “polizia
internazionale” nel nome della civiltà
democratica internazionale.
Quindi ha ragione Hegel, non è l’ONU che può salvarci da questa dialettica sacrificale, da questa logica delle
opposizioni. Ma allora qual è la via d’uscita? La dialettica delle opposizioni si
fonda su identità preliminari di fronte
alle quali bisogna scegliere. In realtà
non c’è una vera alternativa o si uccide
o si muore, le politiche statuali sono
criminali. Con Hegel siamo imprigionati nella ricerca di una mediazione
(che è esattamente il momento del
conflitto) resa possibile per il fatto che
gli opposti in realtà si equivalgono, l’uno ha bisogno dell’altro per esistere.
Paradossalmente la via per la pace sta
nello scavare più profondamente il solco che separa le opposizioni, solo così
le differenze emergerebbero. Da una
dialettica delle opposizioni si passerebbe ad una pratica delle differenze fondata sulla distanza che le separa. Ognuna per sé le differenze potrebbero vivere in pace, ma questo è impossibile
nelle pratiche statuali, lo stato è sempre
un’identità, anche quando come oggi
sembra crollare il concetto di sovranità
statale limitata territorialmente a favore
di un impero sovranazionale senza
confini, è sempre la stessa volontà di
potenza semplicemente più estesa.
Per questo dire no alla guerra è prima di tutto uscire dalle politiche sta-
tuali. Camus infatti cerca in una pratica anarchica una possibilità di fare politica al di fuori delle politiche statali e
contro la dialettica che essi impongono. Camus rifiuta il fatto che bisogna
scegliere tra due alternative (o stare
con l’URSS o con gli USA; o con i
terroristi algerini o con la Francia colonialista) le quali sono poi reali, o solo apparenti? Anzi quest’obbligo della
scelta tra due possibilità uniche è esso
stesso una maniera di fare guerra alla
libertà del singolo.
Camus si tira fuori da questo gioco
e scommette sulla pace.“È il mio genere di ottimismo” dice “ma è necessario
fare qualcosa per la pace.È il mio pessimismo.” Camus insinua il dubbio
tra il prendere il fucile e la voce di una
coscienza in fondo molto poco felice e
solare, anzi tormentata e oscura, che
con forza disperata cerca una via d’uscita. È il problema sempre attuale,
quello di trovare risposte differenti,
autonome e nuove, e no reazione
meccaniche antiche. Cosa che è sempre difficilissima da risolvere, ma Camus ha il merito di averlo posto in
tempo di guerra, rimanendo nella terra
algerina tanto amata e devastata. Allora il suo appello alla coscienza in un
mondo in cui essa vacilla acquista tutto il senso di una nuova forma di resistenza, o per lo meno ci prova. Nessuna speranza è qui in gioco, ma solo
tentativi, sperimentazioni, per molti
versi impossibili. Camus rimarrà sempre dalla parte del dolore degli oppressi di qualsiasi schieramento essi siano,
rimarrà sempre dalla parte della libertà
e della giustizia sociale, del pane e della libertà perché senza libertà non ci
può essere alcun comunismo.
Gli fanno eco le parole di Cassandra che tra uccidere e morire sceglie la
terza via: vivere. Cassandra sa che la
guerra si fonda sulla menzogna, non
voler essere ingannati allora diviene il
gesto estremo di una coscienza che
resiste alle orribili mistificazioni di una
guerra senza odio e dolore. Nessuno
può più dimenticare cosa è veramente
la guerra perché è “il dolore che ci ricorderà di noi”.
65
Marco Celentano
Hobbes, Sade e l’Anarchia.
Riflessioni su Stato, Individui e
G u e r r a d i Tu t t i c o n t r o Tu t t i
1.
Machiavelli ed Hobbes:
tra Smascheramento
ed Apologia del Potere
Statuale
È possibile che la guerra nasconda in sé
l’evento probabile che qualunque società
primitiva tenta di scongiurare con ogni
mezzo – vale a dire la divisione del corpo
sociale in Signori (la minoranza dei guerrieri) e Sudditi (il resto della società)?
(Pierre Clastres, Tristezza del guerriero
selvaggio)
La filosofia politica moderna, quale si
viene delineando tra Cinquecento e
Seicento, ha almeno due grandi matrici: il discorso “utopico”, che trova un
archetipo nell’opera De optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia
(1516) di Thomas More, ed il filone
che alcuni hanno chiamato del
“realismo politico”, il cui primo modello è offerto da Niccolò Machiavelli
nel libro De principatibus (1513).
Il primo versante ripropone e rinnova, incentrandolo sul recupero degli
1
Si veda in tr. it. MORO,
Tommaso, Utopia, Roma,
Newton Compton, 1994. La
trattazione del discorso utopico
esula dagli intenti di questo articolo. A questo tema è dedicato il
IV fascicolo di Porta di Massa.
Laboratorio Autogestito di Filosofia e, tra gli altri, il mio articolo
“Metafisica, critica e utopia”, in
esso contenuto.
2
D'AZEGLIO, Massimo, La Battaglia di Legnano
Si veda MACHIAVELLI,
Niccolò, Il principe e Discorsi, Milano, Feltrinelli, 1984,
oppure MACHIAVELLI, Niccolò, Le opere, Roma, Editori Riuniti, 1981. Per un introduzione al
dibattito sulla datazione dell’opera ed ai risultati che hanno confermato che essa venne composta tra luglio e dicembre del 1513,
si veda la “Nota introduttiva”, di
S. Bertelli, in MACHIAVELLI,
Niccolò, Il principe e Discorsi,
op. cit., pp. 3-10.
66
CELENTANO, Marco
1
VON GIERKE, O., Natural
law and the theory of society,
Cambridge, 1958, p. 37. A Machiavelli ed Hobbes, come ricorda
Norberto Bobbio, in Diritto e
Stato nel pensiero di Emanuele
Kant (Torino, Giappichelli, 1969,
pp. 11-14), si fa comunemente
risalire quella “corrente dell’assolutismo statale (…) che è stata chiamata in senso spregiativo machiavellismo”, secondo la quale chi
governa, o aspira a farlo, deve
compiere le proprie scelte basandosi esclusivamente sulla “loro
corrispondenza ai fini della conquista e del mantenimento dello Stato”, senza prendere in considerazione valori morali indipendenti
dalla sfera politica e dalle sue regole. Bobbio avverte, giustamente,
che “il machiavellismo è un’interpretazione del Principe di Machiavelli”. Esso, quindi, non riassume il
pensiero politico complessivo di
Machiavelli, e rappresenta, anche
rispetto alla singola opera cui si
richiama, solo una delle possibili
chiavi di lettura. Machiavelli fu
certamente un fautore dello Stato,
e del suo rafforzamento, ma non
può essere definito un “assolutista”. Nel 1513, dopo la caduta della
repubblica fiorentina, e la restaurazione medicea, egli ritenne possibile e utile, per liberare l’Italia “spogliata” e “battuta” dal domino
straniero, l’intervento di un principe che si ponesse a capo di una
confederazione; e pensò di poter
insegnare a questi, data la sua lunga
esperienza di diplomatico, qualcosa
sul funzionamento dei rapporti
politici. Ma, nei Discorsi, espresse
chiaramente la propria preferenza
per il regime repubblicano, e al
servizio della repubblica fiorentina,
nata dalla ribellione popolare contro la signoria, spese gli anni migliori della sua vita. Nell’anno stesso in cui scrisse Il principe (1513),
accusato di congiurare contro il
restaurato potere dei Medici, fu
imprigionato e torturato. Infine si
adattò, ed ebbe dai Medici nuovi
incarichi come diplomatico e storico, ma ancora rischiò il coinvolgimento in una sommossa antimedicea, nel 1522. Infine, nel 1527,
quando Firenze tornò ad un governo repubblicano, prossimo alla
morte che lo avrebbe colto il mese
successivo, tornò in città per offrire
la sua collaborazione.
CURRY, Ken, I Mercenari Scozzesi
originari valori cristiani, il tentativo
che Platone aveva compiuto per il
mondo greco: delineare i tratti di una
“repubblica” ideale, in cui i soprusi e
gli errori presenti nella società reale
siano evitati, mediante il ricorso a modi di organizzazione sociale economica
e politica più razionali. Attraverso
molteplici differenziazioni, questa tradizione di discorso giunge fino a
Rousseau e ai primi teorici democratici
e socialisti. Essa assume come propria
bandiera lo sforzo di pensare e descrivere un modello di società alternativo
a quello vigente. L’altro ramo del pensiero politico moderno prende, invece,
di mira l’uomo osservabile, i comportamenti storicamente verificabili, ed a
partire da questi cerca di formulare
astrazioni generali sulla natura umana
e sull’organizzazione della società. Machiavelli ne è considerato il capostipite, ma esso ricevette, come ha osservato O. v. Gierke, “dalla radicale audacia
di Hobbes una forma che costituì a un
tempo il culmine del passato e il fondamento dei suoi sviluppi futuri” . E
fu proprio questa audacia, ricorda Ma-
67
Hobbes, Sade e l’Anarchia...
gri, che procurò, ad Hobbes “una reputazione paragonabile, nella storia
delle dottrine politiche, solo a quella di
Machiavelli”. Ma quali aspetti accomunano, al di là delle significative differenze biografiche, politiche e stilistiche, le posizioni filosofiche di questi
due filosofi?
In primo luogo, direi, il fatto che
essi scelgono di attingere quasi esclusivamente dalla sfera empirica e storica i
contenuti della propria trattazione,
cioè, gli eventi e gli esempi discussi, e
la coerenza con cui, in gran parte delle
opere, si attengono a tale metodologia.
Per entrambi, la riflessione sugli ordinamenti sociali deve fondarsi su un’
antropologia descrittiva: partendo da
osservazioni empiriche e studi storici,
occorre estrapolare caratteristiche generali che riguardano la natura dell’uomo, intesa come insieme degli impulsi
che governano il sentire e le inclinazioni di ogni singolo individuo. Dall’illustrazione di tale “natura”, considerata da questi pensatori sostanzialmente
immutabile, vanno poi dedotte le conseguenze pratiche basilari che riguardano l’organizzazione della società. I
discorsi di Machiavelli e di Hobbes
prendono avvio dalla pretesa teorica e
dallo sforzo reale di descrivere gli uomini e le istituzioni, quali si presentano
allo sguardo spregiudicato di un osservatore che abbia “lunga esperienza
delle cose moderne” e profonda conoscenza “delle antique”.
Machiavelli, rivendica questa impostazione nei noti passi del cap. XV del
Principe, contrapponendosi ai “molti”
che hanno immaginato “repubbliche e
principati che non si sono mai visti né
conosciuti essere in vero”, e affermando di voler “andare drieto alla verità
effettuale della cosa”, cioè della realtà
umana e politica, piuttosto che “alla
immaginazione di essa”. Ed ancora,
nel proemio del libro primo dei Discorsi: “spinto da quel desiderio che fu
sempre in me di operare senza alcun
respetto quelle cose che io creda rechino benefizio a ciascuno, ho deliberato
entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la
mi arrecherà fastidio e difficultà, mi
potrebbe ancora arrecare premio”.
Ancor più esplicitamente, le opere di
Hobbes daranno origine ad una serie
di discorsi sulle prerogative dell’“uomo naturale” e dell’“uomo artificiale”, ovvero dell’individuo umano e
dello Stato, e sulle loro relazioni reciproche,che fungeranno da canone di
riferimento per tutta la tradizione successiva.
Un’altra novità, che i discorsi di
entrambi presentano, consiste nel fatto
che essi, opponendosi alla tradizione
medioevale e a quella utopica, cercano
di dimostrare l’inconciliabilità tra esercizio del potere e rispetto delle virtù
cristiane. Il pensiero cristiano premoderno aveva posto le “virtù teologali”,
fede, speranza e carità, all’apice della
gerarchia delle virtù. Machiavelli si
sforzò, in tutte le sue opere politiche, di
dimostrare che tale gerarchia è inconciliabile con l’obiettivo della conquista e
conservazione del potere politico.
Uno dei passi più chiari, in tal senso, è nel cap. XVIII del Principe, in
cui dopo aver sviluppato la famosa
immagine del signore che deve essere
insieme “golpe” e “lione”, egli conclude che il principe “non può osservare
tutte quelle cose per le quali li uomini
sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità,
contro alla umanità, contro alla religione”. Hobbes, dal canto suo, nel De
Cive e nel Leviathan, affrontò la questione in maniera sistematica, pervenendo alla conclusione che l’etica individuale, a prescindere dalla sua ispirazione religiosa o laica, ha libertà di esprimersi solo ove la legge non comandi né vieti nulla. In tutti gli altri
casi, il comportamento individuale
deve uniformarsi a quanto prescritto
dalla legge vigente, e non ai valori etici
del singolo.
Entrambi questi pensatori, al di là
delle loro profonde differenze di vita e
di pensiero, assolsero a quello che era
considerato, dalla letteratura ufficiale
del tempo, il compito primo di ogni
1
MAGRI, T., “Prefazione” a
HOBBES, Thomas, Leviatano,
Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 41.
2
3
4
MACHIAVELLI, Niccolò, Il
Principe e i Discorsi, ed. cit., p. 13.
MACHIAVELLI, Niccolò, Il
Principe e i Discorsi, ed. cit., p. 65
MACHIAVELLI, Niccolò,
Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio, in MACHIAVELLI, Niccolò, Opere,
ed. cit., p. 122.
5
Questa struttura argomentativa, fondata sul nesso antropologia-politica, è chiaramente
leggibile nella ripartizione del
tema adottata da Hobbes nella
sua opera più nota, il Leviathan,
che consta di quattro parti così
ordinate: “L’uomo”; “Lo Stato”;
“Lo Stato cristiano”; “Il regno
delle tenebre”. Si veda in tr. it.
HOBBES, Thomas, Leviatano,
Roma-Bari, Laterza, 1989, a cura
di A. Pacchi. Ma anche il De
Cive, dedicato ad analogo argomento e tripartito nelle sezioni
“Libertà”, “Potere”, “Religione”,
segue, in effetti, una modalità di
esposizione dell’argomento analoga. Si veda HOBBES, Thomas,
De Cive, Roma, Editori Riuniti,
1987, a cura di T. Magri.
6
7
MACHIAVELLI, Niccolò, Il
Principe e i Discorsi, ed. cit., p. 73.
Si vedano, del Leviatano, in
particolare, i cap. XXI,
XXVI, XXVIII. In quest’ultimo,
Hobbes colloca, al secondo posto, fra le “malattie dello Stato”,
e fra le cause della sua rovina, il
fatto che “ogni provato giudica
delle azioni buone e cattive” (Leviatano, ed. cit. p. 264).
68
CELENTANO, Marco
1
MAGRI, T., “Introduzione”, in HOBBES, Thomas,
De Cive, Roma, Editori
Riuniti, 1987, p. 18.
2
MACHIAVELLI, Niccolò, Il
principe e Discorsi, ed. cit. p. 70.
dottrina politica, ovvero la legittimazione teorica di un potere sovrano esistente di fatto, in maniera profondamente innovativa. La loro innovazione
consiste nell’ammettere, sul piano teorico, ciò che già allora era ammesso di
fatto, ma non di diritto: che la sfera
delle scelte politiche è dominata, all’interno delle organizzazioni statali, e nel
rapporto reciproco tra queste, dalla
logica del più forte, dall’ambizione al
dominio, dallo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo, insomma da pratiche inconciliabili con qualunque interpretazione rigorosa della predicazione morale cristiana.
Il loro “realismo” guadagnava, perciò, sul piano del contenuto di esperienza, una libertà più ampia. Libertà
di non omissione, che consente di descrivere l’autorità sovrana, incarnata da
un monarca o da assemblee di rappresentanti del popolo, senza occultare le
pratiche violente, l’uso strumentale
dell’informazione e degli organi giudiziari ed ogni altro dispositivo autoritario che essa impiega per affermarsi,
conservarsi o espandersi. Il Principe di
Machiavelli ed il Leviathan di Hobbes
inaugurano, in tal senso, l’antropologia politica moderna, intesa come disciplina che riflette sui modi in cui il
potere politico deve considerare e trattare gli uomini, per preservare e potenziare se stesso. Assumendo dichiaratamente questo compito, essi si concedono il lusso di descrivere le forme di
appropriazione, conservazione ed espansione del potere politico, con crudo realismo ed ampie documentazioni
storiche. Inizia, così, un genere di discorso sulle istituzioni statali che, pur
restando apologetico, guadagna, in
certi ambiti, il diritto ad una descrizione rigorosa dei rapporti politici, e delle
loro conseguenze.
La volontà e la capacità di sottrarsi
a molte delle menzogne, tradizionalmente legate ai discorsi ufficiali sullo
Stato e sulla guerra, sono parte incancellabile del modo di fare filosofia di
Machiavelli e di Hobbes e del contributo che essi hanno fornito ad un rin-
novamento della teoria politica. Questi
pensatori si sforzano di comprendere
le motivazioni che muovono gli individui e gli Stati, qualunque esse siano,
attraverso il metodo di una paziente
comparazione dell’antico e del moderno, delle diverse culture e tradizioni.
Vi è, in tal senso, nel loro approccio
un nucleo critico che consiste nel tentativo di far derivare l’ambito delle
scelte pubbliche non da preferenze o
appetiti soggettivi, non dalle tradizioni
vigenti, né dalle credenze religiose, ma
da una etologia della politica, cioè dal
tentativo di operare una osservazione
e una descrizione spassionate del comportamento individuale e sociale umano. Per Hobbes, osserva Magri, “la
scienza politica deve fondarsi su principi ricavati analiticamente dalla reale
natura umana”, e questi ultimi vanno,
a loro volta, desunti dalla “evidenza
empirica”.
La rilevanza critica delle opere di
questi autori deriva, dunque, dallo
sforzo di osservazione e descrizione
rigorosa delle società e degli individui
che essi seppero infondervi. Ma tali
opere mostrano il loro limite fondamentale nel fatalismo naturalistico
che le pervade. Machiavelli ed Hobbes
assolutizzano, arbitrariamente, e descrivono come condizione naturale e
insuperabile per le società umane, caratteristiche comportamentali ed effetti politici che vanno intesi, invece, come inevitabili proprio all’interno del
modello di organizzazione sociale che
essi assumono e difendono. Per Machiavelli, infatti, “degli uomini si può
dire questo generalmente: che sieno
ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di
guadagno”.
Hobbes pretende di fissare come
dato naturale e inamovibile quella condizione che l’illuminismo intenderà
invece come ciò che va superato: lo
stato di minorità dell’individuo e delle comunità umane, che fa sì che essi
debbano essere affidati al controllo di
una autorità superiore. “Orgoglio”.
“rivalità” e “diffidenza” sono, per
Hobbes, Sade e l’Anarchia...
l’autore del Leviathan, caratteristiche
appartenenti alla “natura umana” e
conducono, inevitabilmente, alla violenza reciproca. “Da ciò” – scrive il
filosofo – “appare chiaramente che
quando vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi
si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo”. E
“la natura della guerra”, precisa, “non
consiste nel combattimento in sé, ma
nella disposizione dichiarata verso
questo tipo di situazione, in cui per
tutto il tempo in cui sussiste non vi è
assicurazione del contrario”.
2.
Stato e guerra
Il militarismo è l’obbligo dell’impiego universale della violenza come mezzo ai fini
dello Stato. (Walter Benjamin, Angelus
Novus)
Tra il 1519 e il 1520, Machiavelli scrive
il dialogo Dell’arte della guerra. Tesi
di fondo dell’opera è che uno Stato,
per funzionare bene, non deve ammettere separazione professionale fra
vita borghese e vita militare. Queste
due funzioni devono essere interscambiabili fra loro, tradursi l’una nell’altra
ogni volta che lo Stato lo ritenga opportuno. La loro separazione, lo dimostrano, secondo l’autore, in positivo la
storia antica ed in negativo la moderna, è contraria all’essenza dello Stato
stesso: “Se si considerassono gli antichi ordini non si troverebbono cose
più unite , più conformi e che, di ne-
69
cessità, tanto l’una amasse l’altra,
quanto queste”, poiché tutti “i buoni
ordini, sanza il militare aiuto (…) si
disordinano”. L’identificazione tra vita
civile e militare appare necessaria “per
mantenere gli uomini fedeli, pacifici e
pieni del timor d’Iddio”.
Per Hobbes, lo Stato nasce, non
per scongiurare la guerra, come può
sembrare ad una lettura non attenta
delle sue opere politiche, ma per far sì
che essa non sia di tutti contro tutti. I
sudditi, sottomettendosi al potere sovrano, non trovano una pace duratura,
poiché la storia degli Stati, l’autore non
lo nega, è quasi ininterrottamente storia di guerre. Ad essi conviene, secondo il De Cive, sottomettersi “affinché,
se si deve affrontare la guerra, non sia
contro tutti, né senza aiuti”. Lo Stato non estingue la guerra, le impone
delle regole. I rapporti tra gli Stati rimangono esattamente quelli vigenti tra
gli uomini nello stato di natura, il destino dei sudditi resta, al loro interno,
quello di essere coinvolti e schierati
nella guerra di tutti gli Stati contro
tutti gli Stati.
Con Machiavelli ed Hobbes si afferma un modo di considerare la sfera
politica che, differenziandosi della tradizione medioevale e da gran parte di
quella utopica, pone una relazione inscindibile fra Stato e guerra. Entrambi
sono esperti diplomatici e, mentre sul
piano teorico pretendono di attingere
le leggi universali della natura umana,
sul piano pratico, si riconoscono e
pongono come uomini di parte. Quali
motivazioni e valutazioni li spingono
alle rispettive, e diverse, prese di posizione? Nei confronti di che cosa prendono posizione?
VASARI, Giorgio, La Conquista di Pisa (particolare)
1
2
3
HOBBES, Thomas, Leviatano, ed. cit. p. 101.
MACHIAVELLI, Niccolò,
Opere, ed. cit., p. 322.
HOBBES, Thomas, De Cive, ed. cit., p. 87.
Molto tempo dopo, il gene4
rale prussiano von Clausewitz conierà il motto secondo cui
la guerra non è altro che “la politica continuata con altri mezzi” e,
successivamente Foucault lo
ribalterà, affermando che, piuttosto, “la politica è la guerra continuata con altri mezzi” (FOUCAULT, Michel, Difendere la società, tr. it. Firenze,
Ponte alle Grazie, 1990, Lezione
terza, p. 43).
70
CELENTANO, Marco
UCCELLO, Paolo, La Battaglia di San Romano (Tavola di Parigi)
Sebbene trascorrano più di 130 anni, fra la stesura del Principe e quella
del Leviathan, l’attenzione di entrambi gli autori è concentrata su due grandi processi storici, di cui vivono fasi
differenti, ma contigue:
•
•
1
Si veda FOUCAULT, Michel, Difendere la società,
ed. cit., pp. 78-81.
2
Si veda DE LA BOETIE,
Ètienne, Discorso sulla servitù volontaria, Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici – Porta di
Massa. Laboratorio Autogestito
di Filosofia, Napoli, 1995.
l’aggressivo affacciarsi sullo scenario europeo e mondiale degli
Stati nazionali, nell’epoca della
prima grande colonizzazione degli altri continenti;
il trasformarsi, nel cuore dell’Europa, delle tradizionali rivolte
popolari in rivoluzioni repubblicane, ed i primi vagiti di una critica radicale del sistema statuale.
Contro chi è rivolto il discorso di
Hobbes? Qual è il bersaglio polemico
della sua apologia della sovranità statale? Secondo una interpretazione tradizionale, egli difende l’assolutismo
regio contro le pretese del parlamento
inglese. Secondo Foucault, invece, le
tesi di Hobbes, prima ancora dell’istanza parlamentarista, intendono rintuzzare un tipo di discorso che non
trova eco nella letteratura ufficiale,
che nasce e circola al di fuori di essa.
La sua presa di posizione appare, in
questa ottica, una risposta a quel nuovo tipo di discorsi che aveva fatto irruzione nella società inglese, attraverso i levellers e i diggers. Si tratta di
un fenomeno che dovette avere dimensioni molto ampie, se la collezione di scritti rivoluzionari, pubblicati
tra il 1640 e il 1661, oggi conservata al
British Museum, che è certamente incompleta, annovera più di 20.000 opuscoli.
Questi discorsi riscoprivano, dietro
la sovranità statale, la guerra come sua
origine e la sottomissione degli sconfitti come condizione permanente imposta dai poteri vigenti. Essi non si
esprimevano in termini di classi sociali, ma distinguevano vincitori e vinti,
dominanti e dominati. Non riassumevano, come altre voci del tempo, lo
scontro politico nella sfera religiosa,
ma, appellandosi al diritto divino, dichiaravano la libertà e l’uguaglianza di
tutti gli uomini, e si contrapponevano
sia all’assolutismo sia al parlamentarismo. Si affacciava, in alcuni testi dei
diggers, un’idea che, quasi un secolo
prima, era stata suggerita anche da Ètienne de La Boétie, nel Discorso sulla
servitù volontaria: ogni accentramento dell’autorità e dei privilegi, ogni forma di governo, è usurpazione del potere; ogni sovranità politica e giuridica
si fonda su una doppia guerra, combattuta contro i propri sudditi, e contro altri popoli o altri Stati.
Hobbes risponde a questa critica
assumendone in gran parte le premesse teoriche, accettando, cioè, di
riconoscere nello Stato una organizzazione dell’intera società in funzione della guerra e del potere ed una
forma di dominio che riduce al minimo le libertà umane. Egli, tuttavia,
tenta di trarre, proprio da questo riconoscimento, una conferma della inevitabilità del potere statale.
Hobbes, Sade e l’Anarchia...
3.
Fra Hobbes e Sade
Guerra è, come si è detto più sopra, una
controversia tra sovrani che si risolve per
mezzo delle armi (…). Dalla guerra nascono solo atti di brigantaggio e delitti, con
essa procedono il terrore, la fame e la desolazione. (DE JACOURT, voce “guerra”,
in Enciclopedia o Dizionario ragionato
delle scienze, delle arti e dei mestieri).
Nel declinare le libertà drasticamente
limitate concesse ai sudditi, Hobbes
restò coerente, almeno in un punto,
con il principio dell’autoconservazione
individuale, da lui posto alla base della
scelta politica: il patto sottoscritto non
può obbligare l’individuo “a non resistere a chi gli reca morte, ferite o un
altro danno fisico”, neanche se quest’ultimo è un rappresentante dello
Stato, nell’esercizio legittimo delle sue
funzioni. Su questa contraddizioni
lavorerà, nel secolo successivo, il marchese de Sade per ribaltare l’assunto
hobbesiano del dovere di obbedienza
all’autorità sovrana nel suo contrario.
Fra l’uno e l’altro, l’illuminismo e la
rivoluzione francese.
Di Hobbes, per cui nutriva una non
celata ammirazione, Diderot scrisse:
“Nessuno va avanti in maniera più
ferma ed è più conseguente di lui.
Guardatevi dall’accogliere i suoi primi
princìpi, se non volete poi essere costretti ad andargli dietro dovunque gli
piacerà condurvi”. Ma gli anelli più
deboli della catena argomentativa hobbesiana furono individuati da alcuni
protagonisti dell’illuminismo.
Kant, senza citarlo direttamente,
colse, in modo magistrale, una contraddizione inerente alla sua proposta
teorica e pratica nella “tesi sesta” del
breve saggio Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. Il discorso prende avvio da una
considerazione che sembra avere molto di hobbesiano: “l’uomo è un animale che, se vive tra altri esseri della sua
specie, ha bisogno di un padrone”.
Lasciato libero, poiché è mosso dal
suo “egoistico istinto animale”, tende-
71
rà ad abusare della propria libertà ledendo quella degli altri. Ma, riflette il
filosofo, occorre domandarsi “donde
egli prenderà questo padrone? Da nessun altro luogo che dalla specie umana. Ma questo padrone è a sua volta
un essere animale che ha bisogno di
un padrone”. Dunque, “non si vede
come possa crearsi un organo sovrano
della pubblica giustizia che sia esso
stesso giusto: tale organo può ricercarsi in una persona singola, o in un corpo di molte persone scelte a tale scopo. Comunque, ognuna di esse abuserà sempre della sua libertà (…). Il capo
supremo deve essere giusto per sé
stesso e tuttavia essere un uomo. Questo problema è quindi il più difficile di
tutti e una soluzione perfetta di esso è
impossibile”.
Il ragionamento di Kant coglie il
punto debole del discorso fondativo di
Hobbes: questi ritiene che ogni individuo umano sia caratterizzato da un
“appetito illimitato”, che lo porta ad
inseguire incessantemente il possesso
di nuovi beni, e a voler “assicurarsi per
sempre il modo di soddisfare il proprio desiderio futuro”. Egli individua,
perciò, “come inclinazione generale di
tutti gli uomini, un desiderio perpetuo
e senza tregua di potere e potere, che
cessa solo con la morte”. Questa
inclinazione conduce, se si permane
nello stato di natura, ad una condizione di perenne conflitto intraspecifico
in cui nulla, né la sopravvivenza, né la
pace, né il godimento dei frutti del
proprio lavoro, può essere garantito a
nessuno.
Per ovviare a questa guerra di tutti
contro tutti, Hobbes propone un modello contrattuale in cui il sovrano non
partecipa al patto originario. Questo
impone a tutti gli altri uomini una rinuncia volontaria alla propria illimitata
libertà, mentre, sovrano è quell’unico
uomo, o gruppo di uomini, che permane nello stato di natura, e quindi
nella completa libertà. Per rendere
plausibile tale proposta politica, Hobbes “si sforza di dimostrare la perenne
coincidenza degli interessi del sovrano
e dei sudditi”, e di convincere che seb-
1
HOBBES, Thomas, Leviatano, ed. cit., p. 181.
2
DIDEROT, Denis, voce
“Hobbismo o filosofia di
Hobbes”, in Enciclopedia, antologia a cura di A. Soboul, Roma,
Editori Riuniti, 1968, p. 122.
3
Il saggio fu pubblicato dalla
Rivista mensile di Berlino,
nel 1784. In trad. it., lo si
trova, insieme ad altri scritti minori kantiani, in varie edizioni
fra cui KANT, Immanuel, La
pace, la ragione e la storia, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 19-34.
4
KANT, Immanuel, Idea di
una storia universale dal
punto di vista cosmopolitico, ed.
cit, p. 25.
5
HOBBES, Thomas, Leviatano, ed. cit., p. 63.
CELENTANO, Marco
72
1
HOBBES, Thomas, De
Cive, ed. cit., pp. 193-194.
2
Diderot e molti suoi contemporanei videro in Rousseau un anti-Hobbes: “La filosofia di Rousseau di Ginevra” –
scrisse il curatore dell’Enciclopedia – “è quasi l’opposto di quella
di Hobbes”; “Quello crede che
l’uomo sia naturalmente buono,
questi che sia cattivo. Secondo il
filosofo di Ginevra lo stato di
natura è uno stato di pace; secondo il filosofo di Malmesbury, è
uno stato di guerra. Se si crede ad
Hobbes, sono le leggi e la formazione della società che hanno
reso l’uomo migliore, mentre, se
si crede a Rousseau, lo hanno
depravato” (DIDEROT, Denis,
voce “Hobbismo, o filosofia di
Hobbes”, ed. cit., p 122).
3
bene “coloro che hanno il potere supremo fra gli uomini non possano essere sottomessi alle leggi (…) tuttavia
è loro dovere obbedire in tutto, per
quanto possono, alla retta ragione”, e
comprendere che “tutti i doveri di chi
ha il potere sono compresi in questo
solo detto: la salute del popolo è la
legge suprema”. Ma proprio in questo passaggio cruciale, il discorso hobbesiano non regge: date le premesse
assunte, non si capisce come ci possa
aspettare che un uomo, o gruppo di
uomini, caratterizzati per natura dall’
appetito illimitato e dalla sete di potere, venendo insigniti dell’autorità sovrana, e avendo sui sudditi potere illimitato, limitino poi questi appetiti al
fine di preservare e rispettare il bene
del popolo.
Anche Rousseau sviluppò, nelle sue
prime opere, una critica radicale dell’antropologia e della filosofia politica
hobbesiano. Nel Discorso sull’origiROUSSEAU, Jean Jacques, ne dell’ineguaglianza, egli afferma che
Sull’origine dell’inegua- tutti “i filosofi che hanno esaminato i
glianza, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 98.
fondamenti della società (…) parlavano dell’uomo selvaggio e descrivevano
l’uomo civile”. La prima parte dell’opera, infatti, intende chiarire che l’antropologia politica ha sempre concepito la natura umana come qualcosa di
immutabile, mentre essa va pensata
come qualcosa di intrinsecamente storico, una realtà che muta nel tempo,
subendo le influenze esterne ed esercitando influenze a sua volta.
Ragionando sull’origine dell’ineguaglianza, scrive Rousseau, i filosofi hanno spesso scambiato le cause con gli
effetti, individuando, nell’accentramento del potere economico, giuridico
e politico, il rimedio, mentre esso è
piuttosto la causa dell’oppressione dell’ineguaglianza. Più tardi, nel Contratto sociale, il ginevrino si dichiarerà
a favore dell’utopia democratica di
uno Stato in cui la legge è al di sopra
degli interessi individuali. Ma, come
osserva Giarratana, “appena cinque
anni dopo il Contratto sociale, in una
lettera al marchese di Mirableu del 26
Si veda su questo anche
4
GIARRATANA, Vincenzo,
“Introduzione” a ROUSSEAU,
Jean Jacques, ed. cit., in particolare pp. 67-68.
5
Su un altro punto chiave,
invece, il discorso del ginevrino non si distacca dalle posizioni di Hobbes: Rousseau fa
proprio il mito razionalistico
dell’individuo umano originariamente isolato, che solo in un
secondo momento si unisce agli
altri in società, di cui Hobbes
aveva dato una drammatica rappresentazione.
Invitando ad una attenta
6
lettura della sua più nota
opera politica, Rousseau scriveva:
“vi troverete dovunque la rivendicazione della libertà, ma sempre sotto l’autorità delle leggi (…)
sotto le quali si è sempre liberi, in
qualunque modo si sia governati”. “La legge al disopra degli
uomini: è questa la soluzione di
Rousseau”, osserva Giarratana,
commentando questo passaggio.
DELACROIX, Eugène, Ingresso dei Crociati a Costantinopoli
Hobbes, Sade e l’Anarchia...
luglio 1767, questa stessa formula ritorna con chiari accenti di sfiducia”.
Rousseau scrive all’amico che “il grande problema in politica (…) è trovare
una forma di governo che metta la
legge al di sopra degli uomini” e confessa di ritenere irrealizzabile tale forma di governo. Dal radicale Rousseau
al moderato Kant, l’Illuminismo fu
percorso da questo dubbio nei confronti dell’autorità statale: che non vi
fosse modo di arginarne la deriva autoritaria e guerrafondaia, che esso potesse fare della “guerra di tutti contro
tutti” una regola universale. Singolare
continuatore di un’altra tradizione di
critica del potere statale, quella aristocratica, vivendo quel culmine in cui
l’epoca illuministica traboccò in rivoluzione, il marchese de Sade provò, a
suo modo, a trarre da questo dubbio le
estreme conseguenze.
4.
La Libertà Hobbesiana
Restituita: il Marchese
de Sade
Estendendo la portata dei nostri diritti,
abbiamo finalmente riconosciuto di
essere perfettamente liberi. (De Sade
D. A. F., La filosofia nel boudoir)
Hobbes aveva svelato, quasi senza infingimenti, il ruolo liberticida dello
Stato, il suo essere, al di là delle forme
politiche che esso sceglie di darsi, sistema fondato sul sacrificio sistematico delle libertà individuali. Ma pretendeva di argomentare l’inevitabilità della sottomissione all’autorità statale,
ipostatizzando la natura aggressiva e
“l’appetito illimitato” degli uomini.
Esemplare è il passaggio dall'etica
hobbesiana a quella sadiana: le conseguenze che il marchese, lettore ed estimatore del filosofo inglese, ricava dall’antropologia hobbesiana coincidono,
in realtà, con un completo rovesciamento dell'atteggiamento che l’autore
del Leviathan raccomandava: “Come?
Un sovrano ambizioso potrà distrug-
73
gere a suo piacimento e senza il minimo scrupolo i nemici che nuocciono ai
suoi piani di grandezza (…) e noi, deboli e infelici creature, non potremmo
sacrificare un solo essere alle nostre
vendette e ai nostri capricci?.
Sade rovescia l’assunto di Hobbes,
secondo cui sottomettersi al potere
statale è la cosa più conveniente, nel
seguente: poiché lo Stato è un puro
parassita dell’esistenza umana, poiché
altrettanto si può dire di ogni istituzione religiosa, ogni individuo è autorizzato, a sua volta, a ritornare allo stato
di natura hobbesiano, cioè alla “guerra
di tutti contro tutti”, e comportarsi
come parassita nei riguardi de gli altri
uomini e delle istituzioni stesse. Sade è
una punta estrema di quella critica del
potere statale, di provenienza aristocratica, che aveva già avuto in Inghilterra e in Francia una sua tradizione.
L’individuo sadiano non rispetta le
leggi, ma neanche mette in discussione
l’organizzazione gerarchica della società. Egli si limita a sfruttare, ovunque
può, indiscriminatamente, gli altri a
vantaggio del proprio piacere e potere.
Ciò che Machiavelli consigliava al
principe Lorenzo, “Bisogna non aver
mai complici oppure disfarsene appena ce ne siamo serviti”, Sade lo suggerisce, senz’altro, ad ogni uomo, giudicando, o volendosi azzardare a far finta di ritenere, lo stato di guerra di tutti
contro tutti come il migliore dei mondi possibili: “La crudeltà altro non è
che l’energia dell’uomo non ancora
intaccata dalla civiltà: è quindi una virtù, non un vizio”.
Sade comprende la lezione di Machiavelli ed Hobbes, fino al punto di
toglierle l’ultima maschera: “Ricordatevi che la sottomissione del popolo,
quella sottomissione così necessaria al
GIARRATANA, Vincenzo,
sovrano che lo regge, è dovuta solo
“Introduzione” a ROUSSEalla violenza e alla vastità dei supplizi” AU, Jean Jacques, ed. cit., p. 62.
fa dire al vescovo libertino che torDE SADE, D. A. F., La fimenta Justine. Il popolo, “animale felosofia nel boudoir, Milano,
roce”, “ha inevitabilmente bisogno di SE, 1986, p. 56.
essere guidato con un bastone di ferro:
sareste perduto, se gli lasciaste prender
DE SADE, D. A. F. , La
coscienza della propria forza”. E agfilosofia nel boudoir, ed.
giunge in nota: “Vedendo in quale cit., p. 69.
1
2
3
CELENTANO, Marco
74
bocca mettiamo questi progetti di terrore e di dispotismo, i nostri lettori
non ci accuseranno di aspirare a farli
amare”.
Il marchese poneva, dunque, con
lucidità radicale, la domanda già implicita in Rousseau e in Kant: se davvero
non si può evitare che ogni potere si
trasformi in tirannia, non sarà meglio,
per ognuno, sottrarsi ad ogni vincolo di
obbedienza nei confronti dello Stato?
In Machiavelli, Hobbes e Sade, sia
pure nella forma limitata e limitante di
una antropologia pessimistica, che finisce per diventare destinale giustificazione del potere, si fa avanti una descrizione rigorosa dei rapporti effettivamente esistenti tra sudditi e poteri
politici, e tra i diversi poteri che danno
origine allo Stato moderno. Più dell’utopista More, il ‘cinico’ Machiavelli
comprende che, all’interno dell’organizzazione statale, la vita di ogni singolo deve essere formata e spesa in
funzione della guerra. Più del liberale
ed ottimista Locke, il crudo funzionario Hobbes dona ai posteri la consapevolezza del carattere strutturalmente
autoritario dello Stato moderno. Portando alle estreme conseguenze le
consapevolezze del prudente Kant,
Sade rifiuta, infine, ogni sottomissione
allo Stato ed insegue l’utopia negativa
DE SADE, D. A. F., La di una restituzione della guerra alla
Nouvelle Justine, III, dimensione privata, di una realizzazioMilano, Guanda, 1978, p. 221.
ne concreta dello stato di natura hobbesiano.
1
2
NIETZSCHE, Friedrich, Genealogia della morale, Milano,
Mondadori, 1983, p. 68.
3
NIETZSCHE, Friedrich,
Così parlo Zarathustra; Al
di là del bene e del male;
L’Anticristo, Roma, Newton
Compton, 1997, p. 50.
4
NIETZSCHE, Friedrich,
Così parlo Zarathustra; Al
di là del bene e del male;
L’Anticristo, ed. cit., p. 51.
5.
Punti di fuga
Non uccidere mai più di quello che ti abbisogna. Uccidi soltanto per le tue immediate necessità. Allora ce ne sarà a sufficienza per tutti. (L’alce spirito del lago
Perduto, leggenda Wasco)
Dopo Sade, la critica aristocratica del
4NIETZSCHE, Friedrich, potere statuale troverà il suo culmine
Così parlo Zarathustra; Al in Nietzsche, per il quale ogni presa
di là del bene e del male; del potere ha origine da “un atto di
L’Anticristo, ed. cit., p. 52.
violenza”, e “soltanto con manifesti
5
atti di violenza” viene condotta a termine. Nel suo aristocraticismo senza
veli, Nietszche preferisce l’antico Stato
schiavista allo Stato moderno, capace
di livellare le menti e mercificare ogni
rapporto umano. Ma, nei confronti di
entrambe queste forme statuali, egli
non si concede alcuna illusione moralistica: se nella Genealogia della morale
si afferma che “il più antico ‘Stato’
apparve come una spaventevole tirannide, un meccanismo stritolatore e
senza scrupoli, e proseguì questa sua
opera finché una tale materia grezza di
popolo e di semianimalità non soltanto venne finalmente bene impastata e
resa cedevole, ma anche dotata di una
forma”. Gli esiti ultimi di questo
processo, vale a dire, la formazione
dello Stato moderno, sono descritti
con accenti ancora più drammatici,
nello Zarathustra: “Stato si chiama il
più freddo di tutti i freddi mostri. Ed è
freddo anche nel suo mentire; e dalla
sua bocca striscia questa menzogna:
‘Io, lo Stato, sono il popolo (…). Ma
lo Stato mente in tutte le lingue del
bene e del male; e qualunque cosa dica, mente – e qualunque cosa abbia
l’ha rubata”. Esso sa attrarre, confondendole, le “grandi anime”, e nel
contempo mobilita intorno a sé coloro
che vogliono potenza, “e innanzitutto
il grimaldello della potenza, molto denaro”, e tutti “li fagocita e mastica e
rimastica”. Perciò, conclude Zarathustra, “là dove lo Stato cessa, là incomincia l’uomo che non è superfluo”.
Nei suoi colori più solari, la potenza di cui parla Zarathustra, pur accettando, sul piano individuale e sociale,
la possibilità dello scontro violento,
appare irriducibile al concetto di potere politico, da Nietzsche stesso delineato. Essa sembra, piuttosto, prefigurare una trasvalutazione della brama di
“potere” e di “accumulo” che, secondo Hobbes e Sade, accompagna ogni
individuo umano fino alla morte, in
ricerca di una potenza liberatoria, cui
compete il sapere ridere e far ridere,
sorridere e calmare, amare e farsi amare, non meno del saper sfidare e rin-
Hobbes, Sade e l’Anarchia...
75
HORNER, Winslow, Otto Campane
tuzzare, ribellarsi e reggere lo scontro.
Una potenza che aspira al saper dire
“sì”, mantenendo indipendenza, non
meno che alla forza di difendere e affermare le proprie libertà (Il “no” del
leone, nelle tre metamorfosi di cui narra Zarathustra).
La critica dello Stato moderno, l’esplicitazione del legame fra Stato e
dominio e fra dominio e guerra raggiungono un apice negativo in Nietzsche, che vede nello Stato il potere
violentemente separato dalla società e
comprende che tale potere si regge,
oltre che sulla forza, sull’appiattimento
delle menti, sull’“interiorizzazione”
della servitù volontaria. Ma il filosofo
tedesco restò convinto che la società
non potesse sopravvivere senza una
rigida gerarchia, senza una minoranza
di potenti che la guidi col pugno di
ferro, senza che “ogni uomo sia soldato”. Le libertà che altri già reclamavano come diritto di ogni uomo, egli,
come Sade, le riconobbe solo all’individuo eccezionale, che sa elevarsi al di
sopra della massa e al di là del bene e
del male. La servitù dei molti, resta, in
questa ottica, un prezzo necessario per
realizzare la piena libertà dei più elevati. E come la libertà resta privilegio di
pochi, la guerra resta e deve restare
mezzo inevitabile per chi ha o brama il
potere.
Nietzsche, come Sade, si emancipa
dall’apologia dello Stato, ma non completamente dall’antropologia hobbesiana, rimanendo convinto che la disposizione alla guerra sia inseparabile dall’uomo, e forse perfino dall’oltreuomo.
Con le possibilità di sottoporre a
critica e superare questa visione destinale per cui, fuori e dentro lo Stato, gli
uomini sembrano condannati alla
guerra perpetua ed al governo dei più
forti si sono misurati alcuni esponenti
del pensiero anarchico, da Kropotkin
a Malatesta, da Foucault a Clastres. La
loro critica si articola, da un lato, sul
piano del progetto sociale, dall’altro,
sul piano storico-antropologico. A
NIETZSCHE, Friedrich,
quest’ultimo, in chiusura del mio artiCosì parlo Zarathustra; Al
di là del bene e del male;
colo, vorrei rapidamente rivolgere uno
L’Anticristo, ed. cit., pp. 35-38.
sguardo.
1
CELENTANO, Marco
76
6.
Studi sulla “guerra”
presso le popolazioni
amerinde
Bisogna evidenziare l’esistenza di società
assai poco oppressive, in cui non ci sono
né oppressori né oppressi, ossia non ci
sono classi. Sono le società definite
“selvagge”. Si è creduto a lungo che queste società avessero capi molto potenti,
ma la scienza storica moderna si è resa
conto che in esse il capo non aveva realmente autorità. (S. Weil, Lezioni di filosofia, 1933-34)
1
2
HOBBES, Thomas, Leviatano, ed. cit., pp. 102-103.
CLASTRES, Pierre, Archeologia della violenza, Roma,
Meltemi, 1998, p. 27. Si veda anche CLASTRES, Pierre, La società contro lo Stato, Milano, Feltrinelli, 1977, o, in nuova edizione,
Ombre Corte, 2003. In effetti,
alcune tra le prime testimonianze,
presentavano gli indigeni amerindi come individui totalmente pacifici. Il fatto che, in alcuni casi,
le popolazioni native si ribellassero al massacro compiuto dai
bianchi, fu sufficiente a far cambiare idea a questi ultimi. Si veda
TODOROV, Tristan, La conquista dell’America, Torino, Einaudi, 1984.
Hobbes citava, esplicitamente, a sostegno della tesi che equipara la condizione naturale dell’uomo ad una “guerra
di tutti contro tutti”, l’esempio degli
amerindi: “Si può forse pensare che
non vi sia mai stato un tempo e uno
stato di guerra come questo, ed io credo che nel mondo non sia mai stato
così in generale; ma vi sono molti luoghi ove attualmente si vive in tal modo. Infatti, in molti luoghi d’America i
selvaggi, se si esclude il governo di
piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale,
non hanno affatto un governo e vivono attualmente in quella maniera animalesca di cui ho prima parlato”.
A partire dall’inizio della conquista
delle Americhe e dell’Africa, il mito
del “selvaggio feroce” e guerrafondaio
trovò alimento in tutta la cultura europea. Tra i testimoni, diretti e indiretti,
dei primi secoli di scoperta e dominazione, salvo poche eccezioni, “sui costumi dei Selvaggi ci fu unanimità. Esploratori o missionari, mercanti o
3
4
CLASTRES, Pierre, Archeologia della violenza, ed. cit. p. 27.
LOWIE, R. H., Gli indiani
delle pianure, tr. it. Milano,
Mondadori, 1999, p.. 122. Si noti
che il furto di cavalli poté divenire pratica diffusa, e quindi motivazione per una “guerra” fra
tribù, solo dopo l’invasione dei
bianchi, perché furono questi
ultimi ad introdurre nelle Americhe il cavallo e il suo uso.
BERTOLDO, Battaglia
viaggiatori eruditi, dal XVI secolo sino
al termine (recente) della conquista del
mondo, tutti erano d’accordo su di un
punto: fossero americani – dall’Alaska
alla Terra del Fuoco – o africani, abitassero le steppe siberiane o le isole
melanesiane, fossero i nomadi dei deserti australiani o gli agricoltori sedentari delle giungle della Nuova Guinea, i
popoli primitivi erano tutti rappresentati come dediti irriducibilmente alla
guerra”.
“Ed è proprio l’apparente prevalenza della guerra nella vita dei popoli
primitivi”, ha scritto Pierre Clastres, “a
catturare sin dal primo istante l’attenzione dei teorici della società: così allo
stato sociale che è rappresentato per
lui dalla società statuale, Thomas Hobbes contrappone l’immagine dell’uomo nella sua condizione naturale –
un’immagine non reale ma prodotta
dalla logica oppositiva”. Lowie, docente di antropologia all’Università di
California, dedicò gran parte dei suoi
studi agli indiani delle pianure nordamericane. Egli scriveva in Indians of
the Plains (1954): “La condotta di
guerra degli Indiani delle Pianure, paragonata con quella dei popoli civilizzati, presenta molti tratti di differenziazione. Non esistevano guerre prolungate, né eserciti organizzati, né ufficiali che conservassero in permanenza
il loro grado. L’obiettivo non era mai
quello di conquistare un territorio. La
vendetta, il furto di cavalli e la sete di
gloria erano i motivi principali”.
Quella praticata da questi popoli è,
dunque, guerra, se la possiamo chiamar tale, senza eserciti, senza gerarchie
e senza conquiste.
Hobbes, Sade e l’Anarchia...
Di questo argomento, l’etnologo
Pierre Clastres (1934-1977) si è, in seguito, occupato in maniera approfondita. Egli operò soprattutto in Brasile,
studiando le dinamiche della
“violenza”, della “guerra” e del
“potere” presso i Guayakì, i Guaranì, i
Chulupi, popolazioni le cui civiltà erano state quasi totalmente distrutte dall’invasione europea. Nel saggio La società contro lo Stato, scritto prima di
intraprendere un decennio di studi in
Sudamerica, Clastres aveva sintetizzato
il problema da affrontare: “si tratta di
comprendere la strana persistenza di
un ‘potere’ pressoché impotente, di
capi senza autorità”. I risultati di
questa ricerca furono raccolti, in parte,
in Archéologie de la violence : la guerre dans les sociétés primitives, ricerca
che l’autore lasciò incompleta alla sua
morte. Clastres ha ulteriormente avvalorato ciò che altri studi, fin dagli anni
Trenta, avevano suggerito: varie comunità, originarie delle Americhe, si
strutturarono, non come “società senza Stato” o come gruppi pre-statali,
secondo un pregiudizio evoluzionistico ed eurocentrico, bensì “come società contro lo Stato”, ovvero società che
si erano dotate di specifici dispositivi
volti ad impedire la concentrazione
dei poteri, e l’accesso al potere di individui e gruppi con spiccate tendenze
belliche. Società che insigniscono del
titolo di “capo” chi ha prestigio spirituale, chi è ammirato da altri per le sue
doti di coraggio o di saggezza, ma non
gli conferiscono altro potere se non
quello di consigliare, di esprimere un
proprio giudizio, di far riaffiorare attraverso simboli gestuali e sonori, una
memoria, in momenti cruciali per la
comunità.
Clastres si opponeva, attraverso
questa ricostruzione, contemporaneamente, a due tendenze, allora prevalenti in ambito etnologico:
•
quella di ascendenza hobbesiana,
secondo la quale “una società senza governo e senza stato non è una
società” e vivere socialmente signi-
77
•
fica, automaticamente, stare “sotto
un potere comune”, dotato della
forza necessaria a far rispettare le
proprie volontà.
quella prevalente fra gli antropologi di ispirazione marxista, che manifestavano la tendenza a rimuovere il fenomeno “violenza” e la dimensione “bellica” da ogni discorCLASTRES, Pierre, La socieso sull’umanità “primitiva”, pretà contro lo Stato, ed. cit., pp.
sentando, così, un’immagine idea26.27.
lizzata dell’umanità, poco attendibile dal punto di vista dell’indagine
Si veda CLASTRES, Pierre,
storica ed etnografica.
Tristezza del guerriero selvag-
1
2
Clastres smarcava entrambe le posizioni, riconoscendo ciò che già uno studio di Maurice Davie, negli anni Trenta, aveva evidenziato: che, salvo rarissime eccezioni, come alcune popolazioni di Eschimesi, “nessuna società
primitiva sfugge alla violenza” e a
qualche forma di “guerra”. Ma, nel
contempo, mostrando che alcune comunità amerinde, proprio perché seppero bloccare il processo di formazione e concentrazione del potere politico, lasciando invece che il potere fosse
“diffuso nel corpo sociale” e proprio
perché tennero separati potere e attività bellica, riuscirono ad evitare, finché
la civiltà dei bianchi non le travolse,
quel circolo infernale, quella saldatura
micidiale fra Stato e guerra che ha segnato la storia delle istituzioni nel Vecchio Mondo.
La critica storica di Foucault, applicata allo studio delle fasi sorgive delle
società e degli Stati moderni, e la critica
etnologica di Clastres, applicata allo
studio delle dinamiche di guerra e di
potere preso le popolazioni cosiddette
“primitive”, si emancipavano, così, da
ogni ottimismo consolatorio nei confronti della “natura umana”, e conducevano a riconoscere alcune connessioni storiche, parziali, ma significative:
•
Gli studi di Clastres e di altri etnologi hanno mostrato che, mentre
il manifestarsi di comportamenti
aggressivi intraspecifici, da parte di
individui o gruppi, è quasi universalmente diffuso, nel genere uma-
gio, in CLASTRES, Pierre,
Archeologia della violenza, ed cit.
oltre ai testi di Lo3 Siwieveda,
e di Clastres, già citati,
AA. VV., Potere senza stato, a
cura di PASQUINELLI, C., Roma, Editori Riuniti, 1986.
4
Clastres apriva il saggio Archeologia della violenza registrando “la quasi totale assenza
di una riflessione generale sulla
violenza esercitata nella forma al
tempo stesso più brutale e collettiva, più pura e sociale, la guerra” (ed. cit. p. 25). Egli faceva
risalire questa mancanza all’influenza esercitata della teoria e
dell’impostazione di ricerca di
Claude Lévi Strauss, di cui evidenziava alcuni limiti. Clastres
riteneva errati sia il modello hobbesiano, che universalizza la violenza, sia quello straussiano che
la rimuove o cancella.
5
DAVIE, Maurice, La guerre
dans le sociétés primitives,
Parigi, Payot, 1931.
6
Per un primo approccio si
veda EVANS PRITCHARD, E. E., I Nuer:
Un’anarchia ordinata, Milano,
Franco Angeli, 1975; EVANS
PRITCHARD, E. E., African
Political System, London, Oxford University Press, 1970. Nel
già citato, AA. VV., Potere senza
stato, si veda il saggio di BERNARDI, B., Il potere nelle società acefale; dello stesso autore si
può consultare anche I sistemi
delle classi di età, Torino, Loescher, 1984.
78
CELENTANO, Marco
•
no, la tendenza all’accaparramento
privato o statale delle risorse ed alla
conquista permanente di territori
non lo è affatto. La pretesa individuazione di una connessione necessaria fra tendenza aggressiva e
brama di accaparramento dei beni
materiali e del potere politico, affermata dalle antropologie di matrice hobbesiana e poi rinnovata in
chiave evoluzionistica, a partire
dall’Ottocento, è, dunque, falsa.
Essa rispecchia una saldatura che
diventa insostituibile e insuperabile
solo all’interno di uno specifico
regime economico e politico: quello basato sull’intreccio fra Stato
moderno ed economia capitalistica.
Molte comunità umane, nel passato
e nel presente, hanno basato il loro
equilibrio dinamico proprio sulla
capacità di separare queste sfere e
di rifiutare e inibire le tendenze
all’accumulo di beni e di potere.
Gli studi storici, cui le ricerche di
Foucault hanno dato avvio e impulso, mostrano che, lungi dal
costituirne un superamento o una
limitazione, la società-Stato, quale si è delineata nel mondo moderno, ha fatto aumentare in maniera esponenziale, la presenza
del fenomeno “guerra” ed i suoi
effetti oppressivi e distruttivi.
Essa ha disposto l’intera vita dei
singoli e delle comunità all’interno di due fronti, e in funzione di
due ordini di conflitti, la cui esistenza, anche nei periodi di pace
apparente, resta consustanziale
all’organizzazione statuale: la
guerra delle classi dominanti con-
•
tro le classi e i popoli dominati;
la guerra fra gli Stati, e fra le loro
classi dirigenti, per l’accaparramento delle risorse umane e naturali del pianeta.
Contro quelle antropologie che
propongono una gerarchia evolutiva che va dalle “aggressive” e
“primitive” società non statuali
alle più “evolute” società industriali, nonché contro quelle analisi politiche che individuano nelle moderne società-Stato, e nell’economia di libero scambio, gli
unici possibili argini alle tendenze
aggressive e cumulative umane, le
ricerche di Clastres e Foucault,
nei rispettivi ambiti, contribuirono a mostrare che le tendenze
all’accentramento del potere, all’accumulo dei beni, alla conquista
territoriale, vengono fissate come
caratteristiche ineliminabili del
comportamento umano e divengono in certa misura inevitabili
per ognuno, proprio all’interno
del sistema statuale e dei processi
di accumulazione capitalistica.
La brama di “potere e potere”,
che Machiavelli ed Hobbes spostavano nell’inattingibile della
natura umana, staticamente intesa, viene esasperata e tende a divenire un comportamento fisso e
stereotipo, proprio sotto la pressione selettiva dei meccanismi
economici e politici cui si è preteso di affidare il suo superamento.
La “guerra di tutti contro tutti”
che lo Stato e il Capitale pretendono di azzerare è resa da essi
stessi, tendenzialmente, perpetua.
GOYA, Francisco, Non C'è Nessuno che lo Soccorra (Disastri della guerra) - particolare
79
Amedeo Spagnuolo
Il Totalitarismo Politico, il Totalitarismo
Tecnologico e la Guerra Permanente
Premessa
Dopo il terribile attentato alle Twin
Towers il mondo intero sembra ormai
stretto nell’implacabile morsa guerra/
terrorismo. La tragedia di New York
ha accelerato enormemente un processo cominciato ormai da tempo volto a
dar vita ad un governo autoritario del
mondo guidato dagli Stati Uniti e dai
suoi alleati. L’obiettivo è quello di controllare con la forza l’economia globale in modo da continuare a tenere in
una situazione di sfruttamento e di
povertà il Sud del mondo e, allo stesso
tempo, garantire il benessere economico dell’Occidente e, come dicevamo
prima, dei suoi alleati vecchi e nuovi.
Questa nuova Santa Alleanza ha tra
i suoi obiettivi quello di colpire l’unico
movimento, quello cosiddetto
“antiglobalizzazione”, che seriamente può opporsi all’infame progetto di
cui sopra. Nell’economia globale autoritaria si assiste alla riduzione dell’uomo a cosa, alla sua oggettivazione.
L’uomo è ormai diventato un ingranaggio all’interno della società tecnologica contemporanea che deve garantire esclusivamente l’efficienza del sistema senza porsi alcuna domanda
sulle conseguenze del suo operato. Più
concretamente si può dire che il
manager, ma anche l’operaio di una
fabbrica di mine non sono tenuti a
porsi il problema di quanti bambini
salteranno in aria sugli ordigni da essi
prodotti: manager ed operai non sono
più soggetti, bensì oggetti che, come le
macchine, devono garantire la qualità
della produzione.
Quando comincia tutto questo?
Proveremo a dare una risposta partendo dal sistema totalitario inaugurato
dalla Germania nazista. In quel terribile contesto il totalitarismo nazista è
stato capace di ridurre l’uomo a cosa e
questa oggettivazione dell’uomo è stata
realizzata su due livelli. Il primo relativo ai nemici esterni del nazismo: sono
ben noti gli atti di crudeltà commessi
durante la seconda guerra mondiale
dall’esercito tedesco. L’altro livello riguarda, invece, i nemici interni: ebrei,
zingari, comunisti, omosessuali ecc.
Proprio a questo livello si comprende meglio la terribile eredità lasciata dalla Germania nazista al mondo contemporaneo. Nei campi di sterminio e negli uffici dei vari ministeri
tedeschi i burocrati come Eichmann
non si posero assolutamente il problema delle terribili conseguenze determinate dalle loro azioni, perché il loro
unico problema era l’efficienza: portare a termine il compito che era stato
loro assegnato a qualunque costo e nel
miglior modo possibile. Gli ebrei nel
sistema nazista vengono disumanizzati
e trasformati in cose pericolose da eliminare. La società tecnologicototalitaria contemporanea segue la
stessa logica: prima di tutto la produzione, se poi, quello che si produce
provoca effetti terribili, questo, riguarda esclusivamente chi quegli effetti li
subisce.
Dal Totalitarismo Politico al
Totalitarismo Tecnologico
Nel 1937 i professori universitari tedeschi con moglie ebrea furono costretti
ad abbandonare l‘università. Tra questi
c‘era Karl Jaspers che emigrò in SvizAttualmente in difficoltà in
Italia, ma ancora ben presente
zera; rientrerà in patria solo a guerra
e
forte
nel resto del mondo.
finita e terrà una serie di lezioni che
1
80
SPAGNUOLO, Amedeo
avranno come oggetto: “La situazione
spirituale della Germania - La questione della colpa” (semestre invernale
1945/46). Queste bellissime lezioni
sono raccolte in un libro intitolato La
questione della colpa che ha un sottotitolo molto esplicito: sulla responsabilità politica della Germania. In
questo testo Jaspers delinea il concetto
di colpa metafisica: i tedeschi sono
colpevoli in quanto hanno lasciato che
venissero compiuti nei confronti dei
propri simili (ebrei, omosessuali, comunisti, zingari etc.) orrendi crimini, la
vera colpa, dunque, è di essere ancora
in vita nonostante questa gravissima
responsabilità:
La colpa metafisica consiste nel venir meno a quell’assoluta solidarietà con l’uomo
in quanto uomo. è una pretesa incancellabile, anche quando le esigenze ragionevoli
della morale sono già cessate. Questa solidarietà viene lesa quando io mi trovo a
essere presente là dove si commettono
ingiustizie e delitti. Non basta che io metta a rischio con ogni cautela la mia vita
per impedirli. Una volta che quel male ha
avuto luogo e io mi sono trovato presente
e sopravvivo, dove un altro viene ucciso,
in me parla una voce che mi dice che la
mia colpa è di essere ancora vivo.
1
JASPERS, Karl, La questione della colpa, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1996.
2
3
JASPERS, Karl, La questione della colpa, op. cit., p 73.
KANT, Immanuel, Fondazione della metafisica dei
costumi, Milano, Rusconi, 1994,
p. 155.
4
ANDERS, Gunther, Noi
figli di Eichmann, Firenze,
La Giuntina, 1995.
In questo passaggio viene messo in
risalto il cinico atteggiamento della stragrande maggioranza della popolazione
tedesca che durante il nazismo assecondò con indifferenza e, a volte, con sadica partecipazione lo sterminio progettato dalla lucida follia di Hitler e dei
suoi inquietanti collaboratori. La maggiore responsabilità dei nazisti non risiede, però, nella loro crudeltà; questa,
purtroppo, è una componente che ha
accompagnato sempre l'’uomo nelle
sue vicende storiche; l‘aspetto più inquietante del nazismo è quello che riguarda il tentativo radicale e cosciente
di trasformare l‘uomo da soggetto ad
oggetto, ossia di averlo ridotto intenzionalmente a cosa, contravvenendo a quel
principio fondamentale espresso in maniera esemplare già da Kant secondo il
quale, “l’uomo va trattato sempre come
un fine e mai come un mezzo”.
La tesi fondamentale espressa da
Jaspers nel suo libro è che la moderna
società tecnologica ha ereditato tutto
ciò, trasformando all‘interno della sua
attività produttiva l‘uomo in cosa.
Nei campi di sterminio nazista domina il culto dell‘efficienza: non è importante quante persone muoiano, è
importante che questo accada nel minor tempo possibile e nel modo più
efficace. Si sviluppa un’atroce mentalità manageriale per la quale i carnefici
sviluppano un pensiero a breve scadenza, in altri termini non ci si pone il
problema della conseguenze della propria azione.
Gunther Anders nel suo libro Noi
figli di Eichmann sostiene che possiamo considerarci figli del criminale
nazista in quanto nella moderna società tecnologica operiamo come elementi di un ingranaggio, così come accadeva durante il nazismo nel quale il burocrate Eichmann massacrava migliaia
di persone senza battere ciglio in
quanto appartenente appunto a quell’apparato di distruzione.
Il nazismo, insomma, ha creato
quell’orribile discrepanza tra la nostra
illimitata capacità di produzione e la
nostra limitata capacità di percepire le
conseguenze terribili di quella produzione. Coinvolti totalmente nel processo produttivo, gli uomini d’oggi
hanno perso completamente la capacità di riflettere su quelle che saranno le
conseguenze del proprio lavoro su
migliaia di uomini che saranno destinati a subire gli effetti di quella cieca
attività produttiva finalizzata esclusivamente ad aumentare il profitto di pochi privilegiati. Nella moderna società
tecnologica questo accade, ad esempio, nella fabbriche d’armi o di mine
antiuomo nelle quali tutti, dall’operaio
al manager, non sono capaci più di
prevedere le nefaste conseguenze del
loro lavoro. In altri termini, Jaspers
afferma che l’enorme potenza della
tecnica usura la capacità previsionale
dell‘uomo.
La soluzione proposta da Jaspers ai
problemi suindicati è la seguente: bisogna prendere coscienza delle conse-
Totalitarismo Politico Totalitarismo Tecnologico Guerra Permanente
guenze del nostro agire, è necessario
portare sullo stesso livello il progresso
tecnico e la capacità di riflettere sulle
sue conseguenze. La moderna società
tecnologica deve fornirsi di tutti quegli
strumenti etici utili a realizzare ciò, la
produzione non può escludere la riflessione sulle conseguenze che essa
può determinare sugli uomini e sull’
ambiente. Il profitto, insomma, non
può più essere considerato l’unico parametro di riferimento di tutti coloro
che hanno la responsabilità di guidare
l‘attività produttiva nei diversi paesi
del mondo.
Totalitarismo ed Oggettivazione dell'Uomo
Per comprendere meglio il processo
che porta il totalitarismo politico ad
oggettivare l’uomo, è bene richiamare
alla mente le penetranti osservazioni
che Hannah Arendt sviluppa nella sua
opera fondamentale: Le origini del
totalitarismo. In questo libro la filosofa afferma che con il totalitarismo
l’uomo dà vita per la prima volta ad un
meccanismo politico mostruoso che si
distacca nettamente dalle altre forme
di governo autoritario che si erano
sviluppate in precedenza. Dice, infatti,
Arendt che il totalitarismo è
essenzialmente diverso da altre forme
conosciute di oppressione politica come il
dispotismo, la tirannide e la dittatura. Dovunque è giunto al potere, esso ha creato
istituzioni assolutamente nuove e distrutto
tutte le tradizioni sociali, giuridiche e politiche del paese. A prescindere dalla specifica matrice e dalla particolare fonte ideologica, ha trasformato le classi in masse,
sostituito il sistema dei partiti non con la
dittatura del partito unico, ma con un movimento di massa, trasferito il centro del
potere dall‘esercito alla polizia e perseguito una politica estera apertamente diretta
al dominio del mondo. Quando i sistemi
monopartitici, da cui esso si è sviluppato,
sono diventati veramente totalitari, hanno
cominciato ad operare secondo una scala
di valori così radicalmente diversa da ogni
altra che nessuna delle categorie tradizio-
81
nali, giuridiche, morali o del buon senso,
poteva più servire per giudicare, o prevedere, la loro azione.
La differenza fondamentale tra il totalitarismo e le monarchie e le dittature
che lo avevano preceduto, sta nel fatto
che esso si sviluppa su tre capisaldi
fondamentali: la volontà del capo, l’ideologia e il terrore. Colui che guida lo
stato totalitario impone la sua volontà
attraverso i dogmi ideologici del suo
movimento politico che si arroga il
diritto di indicare la strada da seguire
in quanto unico depositario della verità che procurerà al proprio popolo la
vittoria finale e la gloria. In questo
contesto, il popolo si affida completamente alla volontà del capo, mentre
nel caso di coloro che si rifiutassero di
delegare al capo la propria volontà
politica, subentrerebbe immediatamente il terrore con i suoi metodi
molto persuasivi.
L’aspetto più interessante della riflessione della Arendt, relativamente al
problema che si sta affrontando in
questo articolo, riguarda il concetto di
estraneazione dell’individuo rispetto
all’attività politica. In un sistema totalitario, infatti, l’individuo viene completamente privato delle sue facoltà critiche riguardanti le libere scelte politiche; egli, dopo il lavaggio mentale dell’ideologia totalitaria e i convincenti
metodi di persuasione del terrore, viene trasformato in un automa obbediente e allo stesso tempo indifferente
ai crimini commessi nei confronti dei
suoi simili. La stessa obbedienza e indifferenza che caratterizza la società
tecnologica contemporanea che cerca
appunto d’inserire nel suo ciclo produttivo degli uomini – automi che non
si pongano troppe domande sulle conseguenze derivanti dalla propria cieca
obbedienza.
1
ARENDT, Hannah, Le
origini del totalitarismo,
Tecnologia ed Etica Torino, Edizioni di Comunità,
1999.
della Responsabilità
2
ARENDT,
Hannah,
Le
Un’altra voce autorevole che si è eorigini del totalitarismo,
spressa relativamente ai problemi tipici op. cit., p. 630.
82
SPAGNUOLO, Amedeo
della moderna società tecnologica è
quella di Hans Jonas che, nel suo libro
Il principio responsabilità. ha delineato con estrema chiarezza i rischi
insiti in uno sviluppo non controllato
della scienza e della tecnologia. La tesi
centrale esposta nell’opera di Jonas
sostiene la necessità di sviluppare una
nuova etica per la moderna società
tecnologica in quanto, per la prima
volta nella storia dell’uomo, si è giunti
ad un livello di sviluppo tecnologico
talmente vasto da mettere in pericolo
l‘esistenza del mondo intero. L’uomo
con le sue terrificanti armi e con il suo
mostruoso apparato produttivo sta
mettendo in forse l’esistenza del mondo. Data questa situazione si rende
necessaria la realizzazione di un’etica
che si fondi principalmente sul concetto di responsabilità:
la tecnica moderna ha introdotto azioni,
oggetti e conseguenze di dimensioni così
nuove che l’ambito dell’etica tradizionale
non è più in grado di abbracciarli. Il Coro
dell’Antigone sull’“enormità“, sulla stupefacente potenza dell’uomo, oggi, nel segno di un’enormità di tutt’altro tipo, dovrebbe acquistare un altro significato; e
l’ammonimento rivolto al singolo di onorare le leggi non sarebbe più sufficiente.
Anche gli dei, il cui invocato diritto poteva arginare il corso rovinoso dell’azione
umana, sono da tempo scomparsi. Certo,
le antiche norme dell’etica del “prossimo”
– le norme di giustizia, misericordia, onestà ecc. – continuano ad essere valide,
nella loro intrinseca immediatezza, per la
sfera più prossima, quotidiana, dell’interazione umana. Ma questa sfera è oscurata
dal crescere di quella dell’agire collettivo,
nella quale l’attore, l’azione e l’effetto non
sono più gli stessi: ed essa, a causa
dell‘enormità delle sue forze, impone all’etica una nuova dimensione della responsabilità, mai prima immaginata.
1
JONAS, Hans, Il principio
responsabilità, Torino, Einaudi, 1993.
Non è più possibile continuare a produrre senza tener conto delle conseguenze che tale attività sta determinanJONAS, Hans, Il principio do sull’ambiente circostante. Bisogna
responsabilizzarsi nel senso di preserresponsabilità, op. cit., p. 10.
vare questo mondo in modo che posJONAS, Hans, Il principio sano goderne anche i nostri figli e niresponsabilità, op. cit., p. 55.
poti; l’atteggiamento egoistico che ha
2
3
dominato fino a questo punto le società capitaliste non può più essere sostenuto, la natura non è il patrimonio di
una parte di umanità, ma dell’umanità
intera. Jonas non intende certo affermare la necessità di un blocco del progresso scientifico e tecnologico: l’attività produttiva dell‘uomo, però, deve
essere portata avanti con cautela, bisogna sempre tener presenti i principi
etici che si rifanno al concetto della
responsabilità nei confronti delle generazioni future:
anche per l’etica della responsabilità verso
il futuro, di cui siamo alla ricerca in questa
sede, vale quindi la distinzione kantiana,
riferita all’etica della sincronicità, fra imperativo ipotetico e imperativo categorico.
Quello ipotetico (di cui esistono molte
varianti) suona: se in futuro ci saranno
degli uomini – il che dipende dalla nostra
paternità - allora varranno nei loro confronti questi e quei doveri che dobbiamo
osservare in anticipo (...); l’imperativo
categorico impone invece semplicemente
che ci siano degli uomini, con l‘accento
posto in egual misura sul che e sul che
cosa del dover esistere. Per me, lo confesso, questo imperativo è l’unico per il quale
valga veramente la determinazione kantiana del categorico, ossia dell‘assoluto. Ma
poiché il suo principio non è, come per
quello kantiano, l’autocoerenza della ragione che si dà leggi di condotta, cioè un’idea di azione (di cui si presupponga
l’accadere in una forma o nell’altra), bensì
l’idea (riposante sull’esistenza del suo contenuto) di possibili attori, che in quanto
tale è un’idea ontologica, un’idea dell’essere, ne consegue che il primo principio di
“un’etica del futuro” non è insito nell’etica
stessa in quanto dottrina dell’azione (nella
quale rientrano del resto tutti i doveri verso i posteri), ma nella metafisica in quanto
dottrina dell’essere (di cui l’idea dell‘uomo
costituisce una parte).
Riepilogando possiamo, dunque, affermare che il sistema totalitario nazista, oltre che dar vita ad una mostruosa macchina di sterminio e di
dominio, ci ha lasciato una triste eredità che sta producendo i suoi nefasti effetti oggi. La moderna società
tecnologica si è strutturata in maniera tale da indurre gli uomini impe-
83
Totalitarismo Politico Totalitarismo Tecnologico Guerra Permanente
CRALI, Tommaso, Aerocaccia II.
gnati nel processo produttivo a diventare degli automi che hanno perso completamente la capacità critica
volta a considerare gli effetti causati
dal proprio lavoro sull’uomo e sull’ambiente circostante.
Arendt ci ha permesso di comprendere meglio come si realizza tecnicamente questo asservimento dell’uomo nello stato totalitario attraverso tre diabolici strumenti fondamentali: la volontà del capo, l’indottrinamento ideologico ed il terrore.
Grazie a queste illuminanti analisi
non ci appare più impossibile un ritorno ad un tale sistema politico di
dominio psicologico e materiale:
questo ci deve indurre ad organizzare tutte le contromisure necessarie
affinché ciò non accada. Infine, con
Jonas, è stato posto l’accento sulla
necessità di dar vita ad una nuova
etica della responsabilità per arginare
i pericoli insiti nell’attività propria
della moderna società tecnologica,
pericoli che abbiamo elencato in precedenza, ma che Jonas ha sintetizzato nel rischio che il genere umano
sta correndo relativamente alla sua
sopravvivenza.
Guerra Permanente
Fino a questo punto si è affrontato il
problema del totalitarismo, politico e
tecnologico, e delle sue nefaste conseguenze sul mondo attuale. Esso però
per alimentarsi ha bisogno di un altro
elemento fondamentale, che è stato
definito stato di guerra permanente.
Abbiamo iniziato parlando del nuovo progetto politico che hanno in
mente i governanti americani relativamente all‘instaurazione di un sistema
autoritario nel quale gli Stati Uniti assumerebbero la posizione prevalente e
determinante. Lo scopo principale
di questo nuovo governo mondiale, lo
ribadiamo è quello di governare i processi di globalizzazione in atto in tutto
il mondo in una prospettiva omologante, insomma affermare l’idea che si
possa dar vita ad una società mondiale
appiattita sugli stessi gusti commercial,
formata da una moltitudine di consumatori incoscienti che abbiano come
unico obiettivo quello di consumare le
merci prodotte dalle industrie americane, per di più senza porsi domande
sulle disastrose conseguenze di una
produzione e di un consumo dissenna-
1
Si tratta di un progetto esplicito e non di un semplice dato
di fatto: vedi AA. VV., Project for
the New American Century
(PNAC). Numerose traduzioni di
questo documento dei neocons
attualmente al governo degli Stati
Uniti sono presenti in rete.
84
SPAGNUOLO, Amedeo
to per quanto riguarda la salute dell’uomo e dell’ambiente.
Detto questo, però, resta da chiarire il nesso tra la società tecnologica
totalitaria moderna ed il concetto di
guerra permanente. In parte il fatto è
stato spiegato in precedenza: qualsiasi
sistema totalitario, sia politico sia tecnologico (nel senso chiarito in precedenza) ha bisogno, per alimentarsi e
per essere metabolizzato dalla popolazione di uno Stato, di una mobilitazione continua, bisogna indurre nella popolazione la convinzione che qualsiasi
ribellione nei confronti della società
tecnologica potrebbe sancire la sconfitta della propria nazione e addirittura
della propria civiltà, questo perché,
appunto, c’è un nemico di fronte a noi
che dobbiamo assolutamente combattere e distruggere, In questo modo si
riesce a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal vero nemico, che
è poi un nemico interno e s’incarna
nelle classi dominanti e nell’autoritarismo tipico delle moderne società tec-
1
BAUDRILLARD, Jean,
Power Inferno, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003.
BAJ, Enrico, Generale
nologiche, prima fra tutte quella statunitense.
Il nemico di turno del governo statunitense, oggi, può essere la resistenza irachena e l’Islam in generale, ma
dopo ne verranno altri perché solo in
questo modo si potrà giustificare l’atteggiamento autoritario ed aggressivo
che caratterizza l’attuale politica estera
degli USA.
Parafrasando alcuni concetti presenti nell’ultima opera di Jean Baudrillard intitolata Power Inferno, possiamo dire che gli americani, dopo l’11
settembre, continuano ad esercitare
una forza che usa questa immane tragedia come giustificazione ideologica,
la cui potenza si alimenta della propria
condizione di vittima, vera o presunta.
Così facendo essi continuano a cercare
il male altrove, invece di scovarlo in se
stessi. Il male infatti, nasce fondamentalmente dall’incapacità di concepire
l’altro da sé, di riuscire ad accettare
sistemi che si differenzino in qualche
modo dal mitico modello neoliberista.
85
Italo Nobile
Guerra, Marxismo, Non Violenza
Premessa terminologica
Violenza — Aggressione da parte di un
soggetto consistente nell’attacco fisico
verso un altro soggetto o nella violazione
dei diritti di quest’ultimo.
Guerra — Forma del conflitto collettivo
(tra Stati o più generalmente tra gruppi
che rivendicano a sé un’autorità politica)
che si esercita attraverso la violenza organizzata (in genere il conflitto armato).
Guerra e filosofia
Ancora oggi, 150 anni dopo Marx, il
rapporto della filosofia con la guerra e
la violenza rimane ambiguo, metaforico, dilettantesco.
Da un lato, l’estensione almeno
formale dei diritti e quella più concreta
dei bisogni espandono l’ambito semantico del termine “violenza”. L’ambiguità della filosofia sta però nel considerare tale espansione già avvenuta
ad infinitum e nel considerare tutte le
forme di violenza sullo stesso piano,
concorrendo così ad accrescere la violenza materiale, che, mimetizzandosi
in un’indistinta ed onniabbracciante
violenza della filosofia, guadagna quasi
credibilità come forma schietta e viscerale, priva di qualsiasi ipocrita copertura, di quest’ultima.
Emanuele Severino, ad es., subordinando la condanna della guerra
alla detenzione della verità finisce per
• Suggerire di nuovo la vecchia metafora eraclitea della guerra come
metafora della stessa esistenza materiale.
• Ridurre tutta la violenza a guerra.
• Considerare la lotta che la civiltà fa alla
violenza come violenza essa stessa.
• Considerare ogni tipo ed ogni tentativo di dialogo come logo e dunque come violenza.
• Concludere che “vita”, “pace” e
“rispetto del prossimo” non differiscono nella loro essenza da
“morte”, “guerra” e “violenza”.
Come si vede, la procedura concettuale della coincidentia oppositorum ad
infinitum, uno dei cardini della metafisica e dell’ontologia, viene utilizzata
per dissolvere criteri di valutazione
pratica che avrebbero avuto miglior
sorte se si fosse partiti da prospettive
più modeste e circoscritte, invece di
scomodare la potenza di fuoco dell’Assoluto filosofico per annientare un
affare umano… troppo umano.
Del resto anche la strategia di Gianni Vattimo, che considera la verità
non come il presupposto della condanna della violenza, ma come l’idea
che invece favorisce la violenza stessa,
compie il medesimo errore, cioè quello
di pensare che dall’ontologia e dalle
sue antinomie si possa dedurre un’etica, per cui ha comunque bisogno di
togliere l’Assoluto (e fare così metafisica…) perché si possa delineare un’etica umana qualsiasi… debole che dir si
voglia.
Un altro tipo di guerra?
Non meno avventati sembrano essere
alcuni studi che vorrebbero individuare nei conflitti recenti una prova del
fatto che la guerra sta radicalmente
cambiando volto. Mary Kaldor,
SEVERINO, Emanuele, La
prendendo ad esempio le guerre in
guerra, Milano, Rizzoli,
Ruanda ed in Bosnia Erzegovina, teo- 1992, pp. 50-88.
rizza che la guerra non sia più monoVATTIMO, Gianni, “Metapolio degli Stati nazionali. Quando
fisica, violenza, secolarizzaperò affronta la prevedibile e sensata zione”, in Filosofia 86, Romaobiezione che trattasi di guerre civili, Bari, Laterza, 1987, pp. 71-94.
nel rifiutare tale equivalenza riduce le
“guerre civili” a “guerre locali”. Anche
KALDOR, Mary, Le nuove
guerre, Roma, Carocci, 1999.
in questo caso l’enfasi sulla novità del-
1
2
3
86
1
ECO, Umberto, “Guerra
diffusa”, in l’Espresso, 12
settembre 2002, pp. 44-50.
2
Per Prima Guerra del Golfo
si intende qui la guerra del
1991 tra Usa (più Europa) ed
Iraq e non la precedente guerra
tra Iraq ed Iran.
3
GALLI, Carlo, La guerra
globale, Roma-Bari, Laterza,
2002.
Per una rassegna di casi che
4
mettono in questione categorie consolidate vedi KEEGAN, John, La grande storia
della guerra, Milano, Mondatori,
1994.
5
LENIN, Vladimir Il’ic, L’
Imperialismo, fase suprema
del capitalismo, Roma, Editori
riuniti, 1974. p. 128.
NOBILE, Italo
l’evento ha come costo una definizione troppo povera delle categorie già
note e degli eventi passati.
Umberto Eco, invece, parla prima di neo-guerra (dove l’informazione invade il fronte riportando tutto
all’opinione pubblica e mediatica mondiale) e poi di guerra diffusa (quella
scatenata da Osama bin Laden e che
non avrebbe fronte né possibilità di
contrapposizione netta). Egli confonde la spettacolarizzazione mediatica di
una guerra sin troppo certa nei suoi
esiti con una vera trasparenza informativa (quando invece altri analisti
concluderanno che, con la prima guerra del Golfo, il free flow of informations che aveva caratterizzato la guerra
in Vietnam è stato solo apparente).
Inoltre, pur denunciando l’inanità della
risposta Usa all’attentato delle due torri, non ha nessun dubbio sul fatto che
la guerra in Afghanistan sia una risposta all’attentato (che sarebbe dunque
un atto di guerra) e non un conflitto
del tutto autonomo, con specifici obiettivi strategici.
Infine Carlo Galli sostiene (in parte
analogamente ad Eco) che la globalizzazione rivoluziona le categorie della guerra e perciò anche della politica (la frontiera, il nemico, il telos dell’azione politica, ecc.). In realtà Galli sembra intendere
per categorie della politica quelle elaborate da Karl Schmitt, per cui la sua meraviglia dinanzi al nuovo è forse un tantino
provinciale…
Queste analisi trascurano il fatto
che le guerre sono difficilmente raggruppabili in una tipologia ed inoltre
il fatto che si riferiscano a tre casi diversi (Prima guerra del Golfo, guerra
bosniaca, attentato dell’11 Settembre)
fa pensare al fatto che qualcuno interpreta il termine inglese news in maniera sin troppo letterale.
Guerra e marxismo
Per non sorprenderci troppo spesso e
parlare di svolte epocali ad ogni apertura di giornale, ci rifaremo ad una
tradizione cognitiva e politica che è
quella marxista.
Per questa tradizione le guerre come tutti i fenomeni storico-sociali sono storicamente determinate ed ognuna con la sua specificità, sono fortemente interrelate con la dimensione
sociale ed economica della storia (da
cui non si può prescindere) ed esigono
una risposta politica di volta in volta
appropriata.
Queste premesse ci devono già rendere diffidenti verso l’utilizzo metaforico e generico di categorie filosofiche
all’interno di analisi concrete fatte nel
corso del dibattito pubblico.
Tuttavia è possibile, con categorie
marxiste, tentare di realizzare un’ipotesi complessiva sulle guerre del XX
secolo e di questo scorcio di inizio
millennio. Molte guerre del XX secolo
sono legate a doppio filo con quello
che si definisce imperialismo e cioè la
fase del modo capitalistico di produzione (sorta negli ultimi decenni del
XIX secolo) in cui:
• Vi è una forte concentrazione della
produzione e del capitale con conseguente formazione di monopoli.
• Vi è una fusione del capitale bancario con il capitale industriale a formare il capitale finanziario con una
sua oligarchia.
• Una grande importanza acquistata
dall’esportazione di capitale rispetto
all’esportazione di merci.
• La piena ripartizione del mondo tra
le maggiori potenze capitalistiche.
La guerra è lo sbocco necessario di
questa spartizione, di questo conflitto
tra potenze militari che supportano i
capitali nazionali in via d’espansione. Il
colonialismo e la prima guerra mondiale sono esempi da manuale della
teoria di Lenin.
La rivoluzione d’Ottobre e l’ascesa
del nazismo in Germania riportano lo
scenario mondiale in una situazione
più inedita e difficile da analizzare: da
un lato sembra di trovarsi di fronte
all’alleanza di un paese teso verso la
transizione al socialismo con la parte
meno reazionaria dello schieramento
capitalistico contro una dittatura terro-
87
Guerra, Marxismo e Non Violenza
ristica aperta agli elementi più imperialistici del capitale finanziario. Eppure questa interpretazione è quanto meno incompleta e va integrata da un’analisi dell’esperienza sovietica che tenga conto della tesi che considera
l’URSS un capitalismo di stato
(o
come in Charles Bettelheim, un capitalismo di partito): in questo modo anche la Seconda Guerra Mondiale potrebbe rientrare all’interno dei conflitti
interimperialistici.
La Guerra Fredda condusse ad una
situazione ancora diversa: la sostanziale equivalenza militare tra i due blocchi
e la presenza dell’atomica, costringeva
a spostare in maniera permanente lo
scenario del conflitto intercapitalistico
in quello che verrà poi chiamato Terzo
Mondo (si pensi alle guerre di Corea e
Vietnam, alle guerre di liberazione coloniale ed a quelle in Medio Oriente).
D’altro canto in livelli alti dello sviluppo capitalistico il compromesso tra
capitale e frange della classe operaia
europea ed americana (compromesso
raggiunto con la lotta di classe, permesso dallo sviluppo imperialistico e
garantito dalla potenza sovietica) dava
origine al cosiddetto Welfare/Warfare
State. La possibilità che uno Stato
funzionale all’accumulazione capitalistica potesse realizzare il plusvalore
attraverso anche e soprattutto la spesa
militare fu intuita da Rosa Luxemburg
ed elaborata più compiutamente da
Michal Kalecki, Questa tesi però
diventa famosa (sempre dopo la denuncia di Eisenhower) con Baran e
Sweezy, per i quali nel capitalismo
monopolistico si manifesta la tendenza
crescente a produrre più plusvalore di
quanto possa trovare convenienti
sbocchi di investimento: negli anni del
conflitto coreano venne presa la decisione di fare della produzione bellica
una permanente caratteristica dell’economia americana. Baran e Sweezy nel
loro scritto esprimono anche dubbi
sull’efficacia della spesa militare come
strumento di stimolo all’economia: la
sempre nuova tecnologia di guerra
non consentirebbe infatti un grande
incremento occupazionale né un’ulte-
riore espansione della spesa e dei consumi. I due autori riescono anche a
prevedere lucidamente che comunque
gli Usa avrebbero continuato ad effettuare spese militari a prescindere dalle
emergenze e intuirono l’importanza,
nonostante le apparenze, delle armi
convenzionali (che in versioni raffinate sono state protagoniste nella Prima
Guerra del Golfo).
C’è da dire però che pur riconoscendo
i limiti denunciati da Baran e Sweezy,
tuttavia la spesa militare:
• Svolge pur sempre una funzione di
stimolo in periodi di recessione,
anche se non risolutiva.
• La parte del bilancio militare dedicata alle forniture, poiché versata in
anticipo, favorisce gli investimenti
privati dei fornitori stessi.
• Incrementando la domanda di materie prime e semilavorati, incrementa gli investimenti delle industrie civili.
• Consente comunque al mercato di
consumo di assorbire il plusprodotto incorporato nella massa del plusvalore medesimo.
Il crollo dell’Urss inaugura una fase di
monopolarismo debole ad egemonia
Usa che consente al capitale, venuti
meno i vincoli della semiperiferia
“socialista”, di circolare liberamente
nel mondo. Accanto alla spesa militare
di tipo keynesiano già descritta, si affianca l’intervento bellico effettivo
(che per più di 10 anni, dal 1975 al
1986 era stato del tutto inibito, tranne
il catastrofico tentativo in Iran), con la
prima Guerra del golfo; l’intervento
imperialistico in senso proprio riacquista incidenza; gli Usa riprendono più
apertamente la loro guerra (al momento indiretta) con la nascente Europa ed
un Giappone all’inizio del proprio rallentamento economico. La seconda
Guerra del golfo, che si sta preparando in questi mesi, concilia
• sia il tentativo di stimolare keynesianamente l’economia attraverso la
spesa militare,
• sia l’obiettivo di controllare il prezzo del petrolio, attraverso il controllo di giacimenti e circuiti di di-
1
DIMITROV, Georgij,
“L’offensiva del fascismo e i
compiti dell’IC nella lotta per
l’unità della classe operaia contro
il fascismo”, in SACCOMANI,
Edda (a cura di), Le interpretazioni sociologiche del fascismo, Torino, Loescher, 1977 pp. 135-139.
2
GRILLI, Liliana, Amadeo
Bordiga: capitalismo sovietico e comunismo, Milano, La
Pietra, 1982, pp. 36-37.
3
Anche se risultò utopica l’alternativa Socialismo o morte; per questo vedi CORTESI,
Luigi, Le armi della critica, Napoli, Cuen, 1991, pp. 43-62.
4
O’CONNOR, James, La
crisi fiscale dello Stato, Torino, Einaudi, 1979, pp. 170-181.
5
LUXEMBURG, Rosa, L’accumulazione del capitale,
Torino, Einaudi, 1968, p. 455.
6
CHILOSI, Alberto, “Introduzione” a KALECKI, Michal, Sul capitalismo contemporaneo, Roma, Editori Riuniti, 1975 pp. XI-XIII.
7
BARAN, Paul A., e SWEEZY, Paul M., Il capitale
monopolistico,Torino, Einaudi,
1968, pp. 151-183.
Clarence Y.H., “Le
8 LO,
contrastanti funzioni della
spesa militare Usa”, in AA.VV.,
Stato e accumulazione del capitale, Milano, Mazzotta, 1977, pp.
212-235.
9
CIUFO, Angelo, Crisi economica e Guerra del golfo,
Pescara, Tracce, 1991, pp. 61-62.
88
NOBILE, Italo
stribuzione e raffinazione del greggio,
• sia il tentativo di mettere in difficoltà strategica ed economica i paesi
europei ed il Giappone.
Comunque il ricorso frequente alla
guerra non è per gli Usa un dato solo
positivo, ma anche il segnale di una
difficoltà, quella degli Stati nazionali di
controllare un processo capitalistico di
produzione ormai transazionale.
Marxismo, pacifismo e nonviolenza
1
AA.VV., Il gioco del capitale, Napoli, Lavorincorso,
2002, pp. 65-86.
2
CARARO, Sergio, “Union
Sacreè contro il terrorismo o
nuova forma delle contraddizioni
imperialistiche?”, in AA.VV., Il
mondo dopo Manhattan, Napoli,
Città del Sole, 2002, pp. 32-41.
3
GRAZIANI, Augusto, “Un
mondo globalizzato”, in l’
Ernesto, Cremona, Settembre/
Ottobre 2002 pp. 63-67.
Madeleine,
4 REBERIOUX,
“Il dibattito sulla guerra”, in
AA.VV., Storia del marxismo,
Torino, Einaudi, 1979, vol. II,
pp. 897-935.
5
LENIN, Vladimir, Il’ic, “La
guerra e la socialdemocrazia
russa”, in LENIN, Opere, Roma,
Editori Riuniti, 1965, pp. 541-547.
Il movimento operaio ha sempre combattuto contro la guerra, memore delle
dichiarazioni fatte nel 1870 da Marx, secondo il quale la pace era la legge internazionale della società nuova, in quanto il
lavoro ne era la legge nazionale.
Tuttavia il presupposto di questa lotta non era per la tradizione marxista un
pacifismo ingenuo (o ipocrita) e idealistico, ma il frutto di un’analisi e di una strategia che fu Lenin allo scoppio della Prima Guerra mondiale a chiarire articolatamente:
bisognava trasformare la
guerra imperialistica in guerra civile ed
approfittare della guerra stessa per dare
corpo a processi rivoluzionari. Come si
vede si tratta semplicemente di portare la
violenza al livello giusto ed opportuno
per gli interessi della classe lavoratrice,
non di pensare di allontanare guerra e
violenza dalla storia.
In realtà nonviolenza e marxismo
appartengono ad universi di discorso
molto diversi ed anche il tentativo di
mediazione concettuale più interessante
non tiene conto che il problema nel
marxismo è alla fonte e consiste nel
fatto se sia possibile inserire una dimen-
sione etica nella prassi rivoluzionaria,
senza ritornare a forme di socialismo
utopistico. È comunque positivo il fatto
che spesso, nel movimento pacifista, la
tradizione marxista e quella nonviolenta
abbiano lavorato fianco a fianco e questo ha creato un clima comune basato
su concrete e quotidiane pratiche di
lotta. Da un lato è plausibile credere che
nei paesi dove la repressione del dissenso sia meno brutale, le pratiche nonviolente conquisteranno uno spazio crescente (anche se l’esperienza di Gandhi
stesso, dei buddisti in Indocina e dei
kosovari nella prima fase della loro lotta
possono essere basi per più ambiziose
speranze future). Al tempo stesso tali
pratiche dovranno essere una variante
all’interno di un ventaglio di opzioni
che, pur tenendo presente la nonviolenza come ideale regolativo, comprenderanno pragmaticamente anche momenti
di lotta cruenta quanto meno difensiva,
ma soprattutto l’adattamento delle modalità di lotta alle circostanze storiche
presenti in quella situazione.
Infine perché nel marxismo si instauri il germoglio della nonviolenza ci vogliono essenzialmente due condizioni:
• La crisi del sistema capitalistico deve
essere talmente forte che la resistenza
alla repressione possa essere vincente
anche partendo da una forte asimmetria militare a favore degli avversari.
• La fine del modo capitalistico di
produzione, non essendo automaticamente l’instaurazione del socialismo, dovrà motivare la sussistenza
di un problema di legittimazione e
di consenso che qualifichi i processi
politici successivi in senso pacifico e
democratico, tali cioè da incoraggiare pratiche nonviolente di regolazione dei conflitti.
6
PONTARA, Giuliano, Antigone o Creonte, Roma,
Editori Riuniti, 1990, pp. 75-119.
7
Per una discussione su tali
pratiche GALTUNG, Johan, Gandhi oggi, Torino,
ANONIMO, La Battaglia di Alessandro contro Darioi