Falce martello e lasagne

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Falce martello e lasagne
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Tiziano Arlotti Giuliano Ghirardelli
Mario Pasquinelli
Falce, martello
e lasagne
IL TURISMO ROMAGNOLO
DAL DOPOGUERRA A OGGI
Introduzione di
Giovannino Montanari
Marzo 2010
Edizione digitale: settembre 2014
ISBN digitale: 978-88-7472-238-9
In copertina: foto di Paolo Miccoli, estate 1990
© 2010 Panozzo Editore, Rimini
Via Clodia 25, tel. e fax 0541/24580
e-mail: [email protected]
www.panozzoeditore.com
Introduzione
di Giovannino Montanari
L’obiettivo di questa collana è già tutto nel titolo: “francamente – nuove guide per gli ospiti”, che riassume la nostra
volontà di raccontare la Romagna del Turismo (e non solo
quella) con sufficiente sincerità. Raccontarla soprattutto ai
nostri ospiti che, nella stragrande maggioranza, da decenni
tornano a trovarci: che ci conoscono bene e sono così legati a
noi da essere interessati anche ai retroscena della nostra
realtà… a patto che ci siano ancora segreti per loro!?
Quando i nostri ospiti, i nostri clienti più affezionati, ti guardano fisso negli occhi, con quel leggero sorriso, non c’è neppure bisogno che parlino… tu capisci che loro hanno già
capito tutto; ad esempio, di come ci siamo arricchiti, col passare del tempo; e di come ora, in piena depressione economica, viviamo come accerchiati dalle nostre contraddizioni.
In passato ci hanno visto con la parananza addosso aggirarci
nelle cucine degli alberghi o a scaricare le cassette di frutta
dopo esser stati, all’alba, ai mercati generali; poi ci hanno
ammirato alla guida di una fiammante Mercedes, successivamente hanno conosciuto e visto crescere i nostri figli che,
diventati notai o commercialisti, ora non ne vogliono più
sapere di metter piede negli hotels o nei ristoranti del babbo
e della mamma…
E, così, siamo giunti ai nostri giorni, in una società in cui
sembrano troppi coloro che non sono più disposti a “sporcarsi le mani” nelle gestioni o nelle attività produttive.
Come dire: siamo più “ricchi” di quello… che l’economia turistica richiederebbe.
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Non solo. Sotto sotto ci sono anche vecchie contraddizioni
politiche, di cui è giusto parlare, con serenità. Eravamo una
terra di comunisti, di rivoluzionari, di furiosi e ferventi anticapitalisti (solo ideologicamente? solo di facciata?). Anche di
tutto ciò dovremmo – e vogliamo – parlare. In questo libro iniziamo a farlo, con una serie di piccoli racconti che fanno leva
anche su di un altro versante, quello… sessuale. Anch’esso
imbarazzante. E leggermente meschino, in molte vicende narrate in questo libro.
Verrebbe da chiedersi: grazie al turismo potremmo parlare
di emancipazione, di un processo di liberazione sessuale, per
la nostra gioventù di quei tempi?
Non è il caso, su questo terreno, di avanzare troppe conclusioni: oltretutto, chi potrebbe – alla luce di quanto accade
oggi in Italia – sostenere che costumi più morigerati appartengono ad un passato da retrogradi?
Tra l’altro sembra che il sesso non costituisca più un tabù:
si può parlare di tutto, o quasi, senza incorrere negli strali
dell’establishment.
Quello che invece, soprattutto da noi, appare ancora come
sconveniente è il racconto della politica, quella terra-terra
innanzitutto. Si deve lasciar perdere. In fondo nelle nostre
“regioni rosse” il dileggio è sempre stato riservato agli altri!
Quindi, un po’ di autoironia non ci farà che bene!
Il compito di realizzare questa antologia di episodi è stato
affidato a tre pubblicisti riminesi (veri testimoni, attenti e
privilegiati, della vita sociale e politica della nostra realtà):
dall’insieme dei racconti e delle storie, scritte da Tiziano
Arlotti, Giuliano Ghirardelli e Mario Pasquinelli, scaturisce
sicuramente una guida affidabile e divertente (si spera) alla
nostra storia più importante: quella dell’industria dell’ospitalità in Romagna, dal dopoguerra ai nostri giorni.
Ma ora vorrei parlare del “coro degli amici”, a cui dedico
questo nuovo ritratto della Romagna. Appartengono a quella
classe d’età che ha già maturato la pensione (così si diceva
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una volta)… e che amano trascorrere le proprie vacanze in
Romagna, magari aderendo alle mie proposte di soggiorno.
Attenzione, però, l’Italia è cambiata profondamente negli
ultimi vent’anni: grosse novità sono intervenute e stanno
intervenendo anche nel mondo della terza età; viviamo in
una società post-industriale, in cui non è più il caso di dividere la popolazione tra chi è “in pensione” e chi no…
Mettendo a frutto la mia esperienza più che trentennale –
nel mondo delle vacanze specializzate per la cosiddetta terza
età e nell’ambito di quello che è stato definito come turismo
sociale – credo sia giunto il momento di prendere definitivamente atto di tutte le novità sopraggiunte nella popolazione
italiana: prenderne coscienza, per poi formulare proposte di
vacanza veramente all’altezza delle nuove aspettative.
Ma vediamo cos’è successo, e qual è stata l’evoluzione di
questo grande fenomeno sociale e turistico: tutto lascia intendere che il ruolo della “terza età” diventerà preponderante,
assumendo un’importanza considerevole, fuori da ogni marginalità. Gli appartenenti a queste fasce d’età stanno progressivamente rifiutando – e sempre più coscientemente – la “ghettizzazione” sociale nella quale, in parte, ancora vivono: è un
retaggio del passato, e se ne vogliono sbarazzare quanto prima.
Sembra quasi, volendo usare una metafora, che il “mondo
dei pensionati” uscito dalla porta stia rientrando dalla finestra! Come dire: invitati dalla società tradizionale ad uscire
di scena, stanno recuperando progressivamente il centro dell’attenzione, a tutti i livelli:
– sempre più impegnati nelle famiglie, per cercare di supplire
alle carenze economiche e “gestionali” delle nuove generazioni
– impegnando la propria esperienza in tante attività di consulenza (non si accantonano più le proprie competenze)
– proseguendo ad oltranza la propria attività di lavoratori
autonomi (e non solo per ragioni economiche)
– impegnati a soddisfare la propria sete di conoscenza, o
finalmente liberi di esercitare la propria creatività
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– interessati a svolgere attività politiche e associative, sotto
il segno della “saggezza” e del volontariato.
E, così, pure dal Turismo si attendono grosse novità: oggi
la terza età non vuole “più essere condotta per mano” sui sentieri della vacanza! Ama, sì, sempre la vacanza di gruppo
(come antidoto alla solitudine o come riscoperta della socializzazione, intesa come scelta di maturità), ma aspira a partecipare, sempre di più, in prima persona all’elaborazione e alla
realizzazione dei programmi.
È necessario ribadirlo: proprio in questa componente
della società emergono gli aspetti più “rivoluzionari” delle
inevitabili metamorfosi sociali. E, poi, diciamolo: sembra che
gli over 60, in alcuni passaggi, abbiano addirittura “tolto la
scena” ai giovani.
L’intero Paese potrebbe trarre grandi benefici: non a caso
l’attivismo nel volontariato è già un primo positivo segnale di
una loro “discesa in campo”!
E noi cosa possiamo fare?
Sul nostro versante – che è quello dell’offerta turistica –
possiamo, anzi dobbiamo, tutti assieme, offrire la massima
disponibilità per creare occasioni di vacanza all’altezza di
queste nuove e grandi aspettative: iniziando a parlare di noi
stessi, della nostra realtà, con coraggio, in profondità, e con
quella sincerità obbligatoria tra veri amici.
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Un posto al sole, conquistato pacificamente
di Giuliano Ghirardelli
Premessa
Giovannino Montanari era un po’ perplesso, quasi preoccupato quando gli prospettai l’idea di aggiungere, a quelli già
pubblicati nella collana di guide dedicate alla Romagna, da
lui promossa, un volume con un titolo dal sapore blasfemo.
Blasfemo… almeno dalle nostre parti. Ma, nonostante tutto,
alla fine si è convinto. Il libro si può fare e avrà proprio quel
titolo che inizialmente l’aveva tanto spaventato (si fa per
dire): Falce, martello e lasagne.
Lui è nato e cresciuto in un ambiente decisamente
“rosso”, nonché fermamente ortodosso nei confronti di
quella fede e, soprattutto, del partito che la custodisce. Un
ambiente, quindi, che non ha mai reciso i legami con quel
grande partito comunista che – visto da qui, dalla Romagna
– sembra eterno, onnipresente, grande dispensatore di felicità e di multiformi favori. Potente anche quando cambia
nome e si allea, si fonde, con metà di ciò che è rimasto della
Democrazia Cristiana: la formazione politica che per cinquant’anni fu il suo principale avversario!
Per provocarlo, ultimamente gli facevo notare: “… ma,
come, non hai visto? anche i pensionati che prestano servizio davanti alle scuole, per garantire la sicurezza dei bambini, sono collocati lì dal partito, appartengono ad una
delle innumerevoli cooperative rosse!?”
Giovannino ascolta e sorride, sa bene che è tanta la gente
soddisfatta e ammaliata da quella mastodontica rete di con9
senso e di potere creata dal partito, nella quale si sente avvolta
e protetta, rassicurata… e che in fondo rispecchia esattamente
quello che altre formazioni politiche realizzano e praticano
altrove (ma anche qui non scherzano), ieri come oggi. L’Italia è
fatta così. Noi siamo fatti così. Negli ultimi anni, però, è caduto
il muro dell’ipocrisia. Finalmente, le cose ce le possiamo raccontare, pubblicamente… nella speranza che un domani…
Una storia su tre piani
Ma, per raccontare bene la nostra storia – che poi è
quella del turismo romagnolo dal dopoguerra ad oggi –,
per spiegarne la genesi, bisognerebbe sviscerare tre vicende
fondamentali che, intrecciandosi fra loro, ne costituiscono
le fondamenta. Una storia, quindi, con tre radici: quella
turistica, quella politica (tinta soprattutto di rosso, e molto
più “sovrastrutturale” di quanto non si pensi) e quella
legata alle caratteristiche speciali di un popolo, quello
romagnolo, che seppe dare il meglio di sé – indipendentemente dalla politica – a partire dall’immediato dopoguerra.
E parliamo, naturalmente, di quello che accadde dopo
la seconda guerra mondiale. La Romagna e la nostra città,
in particolare, erano state coinvolte in ogni tipo di bufera e
di distruzione. Rimini, a partire da quel fatidico 1° Novembre 1943, subì, in meno di un anno, 396 bombardamenti
aerei. Ma anche navali e terrestri. Fu quasi rasa al suolo.
Una storia che inizia con la città quasi completamente
distrutta dalla guerra. Si ricominciò da zero, con tutti
d’accordo – rossi, bianchi e neri – nel ricostruirla puntando
sul turismo. Più o meno popolare, ma sempre turismo.
Nell’immediato dopoguerra ho abitato per pochissimi
anni a Fiumicino di Roma (ce l’ho fatta, poi, a diventare riminese a tempo pieno), una località sul Tevere e sul Tirreno. Lì,
negli anni Quaranta – subito dopo il conflitto – costruirono
sul lungomare tutta una bella sfilza di “case popolari”, ben
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presto fatiscenti. Avrebbero potuto costruirle da un’altra
parte, se avessero capito quanto lavoro offrono le attività
legate alle vacanze, al mare, al sole.
Rimini quegli errori non li ha fatti... perché aveva già
assaporato, prima della guerra, i frutti di quel turismo di
massa inaugurato, di fatto, durante il fascismo. Rimini, già
allora, disponeva di un centinaio di discreti alberghi, per
non parlare delle pensioni familiari, delle case in affitto,
delle grandiose colonie, affollate di ospiti grandi e piccini.
Merito del “regime”?
Perché, il boom turistico dopo la guerra è tutto merito
delle “giunte rosse”?
Diciamo che in ambedue i periodi la città ha creduto –
podestà o sindaci in testa – a questa grande risorsa. L’ha assecondata, ha cercato di promuoverla, ma soprattutto ha tentato in tutti i modi di non porre ostacoli al suo sfruttamento...
Rimini, allora, è stata lungimirante? Adesso non esageriamo. Nessuno è “padreterno” su questa terra. Tanto
meno noi italo-riminesi. Infatti, se pensiamo a come è stata
costruita la nostra città delle vacanze, scopriremo – ad
esempio – che non ha mai avuto un Piano regolatore. Il
primo arrivò nel 1965. Quando... i buoi erano già scappati!
E pensare che già nel ’45 l’Amministrazione comunale –
allora, e sempre, socialcomunista – aveva commissionato un
piano completo per la ricostruzione! Qualcosa di avanzatissimo, che, però, richiedeva troppo coraggio per essere adottato. Pensate, prevedeva anche lo spostamento a monte della
ferrovia!
Il “rosso”, che piaceva tanto al Borgo,
agli Inglesi andava di traverso!
Gli Alleati liberarono Rimini nel Settembre del 1944:
una delle città più distrutte dalla guerra, in Italia. Erano
stati loro – gli Alleati – a bombardarla, considerandola un
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nodo strategico, importantissimo sul piano logistico: un
presidio indispensabile da attaccare per sconfiggere gli
eserciti di Hitler e, quelli più piccoli, di Mussolini. Solo
dopo si scoprirà che Churchill – a differenza di Roosevelt –
aveva fretta di avanzare, di travolgere la Linea Gotica, non
solo per sconfiggere il nazismo ma anche per fermare
l’avanzata da est delle truppe di Stalin. Lui, il Grande
Inglese, aveva le idee molto chiare sulla natura del comunismo sovietico… a differenza di noi italiani, di noi riminesi:
nella nostra città lo schieramento socialcomunista conquistò, nelle prime elezioni amministrative del 1946, ben 34
consiglieri comunali, sui 50 previsti! Tutti allora devoti al
piccolo padre sovietico.
Ma quello, dal 1944 al 1947, fu un periodo speciale.
Non era ancora scoppiata la guerra fredda. C’era un clima
di collaborazione fra tutte le forze politiche (e fra queste e
i militari dell’VIII Armata Alleata) difficile da rintracciare
nella storia successiva. Complice, naturalmente, la necessità grave ed impellente di uscire dalle macerie. La diffidenza fra le varie componenti, tuttavia, non mancava. Fra
democristiani e comunisti, naturalmente. Ma anche gli
inglesi non scherzavano: non avevano alcuna simpatia per
quello che si agitava all’insegna del rosso… e non solo
metaforicamente, come si deduce dai ricordi di Dino Spadoni, un riminese del Borgo San Giuliano (la nostra “Trastevere”, fatte le debite proporzioni); basta questo piccolissimo episodio per capire che aria tirasse…
(…) i militari inglesi nel Borgo non erano solo di passaggio:
avevano organizzato, tra l’altro, un locale da ballo, da Semprini (sul viale Tiberio, dove ora c’è la filiale di una banca).
Da un forno, ripulito adeguatamente, i militari avevano
ricavato una sala da ballo e, tutte le domeniche, con
un’orchestrina si facevano due salti. I borghigiani più grandi
di noi frequentavano quel locale, rispettando le condizioni
poste dagli inglesi: era ammesso l’ingresso, a patto che ogni
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giovane portasse con sé due ragazze. Con un simile stratagemma c’era da ballare per tutti!
Aldo, a questo proposito, mi ha raccontato un episodio
curioso. Si presentò, in una di quelle domeniche, all’ingresso
del locale, accompagnato da due ragazze, com’era nei patti.
Le due giovani accompagnatrici furono fatte entrare, mentre su di lui, gli inglesi, formularono un netto rifiuto: «Tu,
niente! Via! Via!».
Fu, insomma, cacciato dal locale. Aldo, rimasto fuori, non si
dava pace. Si mise a riflettere sull’accaduto. E pian piano
scoprì il motivo di quell’esclusione. A quei tempi andava di
moda portare sotto la giacca una sciarpa, anche per ripararsi
dal freddo… sennonché, in quella occasione, la sciarpa era
rossa. E, agli inglesi, il “rosso” non piaceva! Allora se la tolse,
si ripresentò all’ingresso e fu tranquillamente fatto entrare.
I misteri del dopoguerra riminese
E così, una volta liberate, alla città e alla nazione furono
restituite non solo l’indipendenza, ma anche il regime democratico.
Eravamo pronti ad assumerci delle responsabilità così
grandi? Eravamo all’altezza del compito richiesto, cioè
quello di ridisegnare il volto e l’assetto della città, con un
moderno Piano Regolatore?
Ci voleva, in quei frangenti, quella dote chiamata lungimiranza, che include coraggio ed intelligenza. Il popolo
riminese si buttò a lavorare a testa bassa; dalle campagne
tantissime famiglie di contadini scesero verso la costa,
attratti dal rinascente turismo e dal lavoro diffusissimo nell’edilizia. Fu veramente un’epopea!
Rimboccarsi le maniche fu più facile che dotarsi di una
politica avveduta e di un progetto valido per la città.
Infatti non ci fu preveggenza, addirittura si fece a meno
di un Piano Regolatore, dopo aver rinnegato quello firmato
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dall’ing. Alessandroni. Quest’ultimo era un Piano sponsorizzato, o meglio benedetto, dagli Alleati, rappresentati in
questa vicenda dal Tenente Peter Natale. Quel progetto
prevedeva una marina moderna e più vivibile (stile Miami),
lo spostamento a monte della ferrovia (miracolo!), ampi
viali, quartieri residenziali, produttivi e direzionali...
Non se ne fece niente, a dimostrazione ulteriore che la lungimiranza non è una dote umana, né tanto meno riminese...
La storia, purtroppo, si ripete. Senza farcelo sapere. In
tutti i periodi della storia si rischia di vedere le cose non
oltre la punta del proprio naso. Per averne un esempio,
riferito a tempi più vicini a noi, basta riflettere su quello
che abbiamo tollerato e permesso negli anni Ottanta,
soprattutto: sottoponendo i nostri giovani a drammi, rischi
e pericoli incredibili. Pensate allo sballo notturno, alla
droga di tutti i tipi, alle stragi continue di giovani sulle
strade... quante vite umane spezzate o compromesse in
quella guerra all’insegna del degrado umano!
Siamo stati gente avveduta?
Di più, o di meno, di quei nostri concittadini che oggi
hanno superato abbondantemente la soglia dei settant’anni
(o degli ottanta?) e che, ieri, furono chiamati improvvisamente a ideare e riprogettare la città?
Quello che successe allora, nel bene e nel male, è sotto
gli occhi di tutti. Manca ancora, però, la possibilità di
capire a fondo le ragioni di quanto accadde. Non neghiamoci, pure, questa soddisfazione!
Perché il Piano Alessandroni fu rigettato? Perché il sindaco comunista di allora, Cesare Bianchini, grande sostenitore di quel progetto, lasciò tutto e se ne andò in America
Latina? Lui che quel Piano l’aveva difeso contro gli attacchi
della piccola proprietà edilizia. Un sindaco che, però, prima
di andarsene fece in tempo ad ordinare l’abbattimento del
Kursaal... Forse non sono grandi misteri. Studiando il tutto
attentamente, con libero spirito di ricerca, forse, verranno alla
luce tanti di quegli intrecci, utili a spiegare il nostro proble14
Il progresso di lamiera
Lungomare di Rimini, alla fine degli anni Cinquanta. Tutto è pronto
in attesa di quel grande spettacolo umano rappresentato dalla stagione turistica. Qui siamo in bassa, bassissima stagione. Le cabine di
legno e le tende coi picchetti sono già al loro posto. Sono presenti
anche i primi bagnanti. Mancano, però, quasi del tutto, le auto! E,
per come siamo fatti oggi, la città sembra nuda…
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matico presente: dominato fino al parossismo da una lotta...
che molti si ostinano a chiamare ancora politica.
E, così, niente Piano, niente regole rigide: si lasciò fare
alla piccola, piccolissima, iniziativa privata. A quella piccola impresa che oggi tutti dicono sia la ricetta miracolosa
dell’Italia che sta in piedi. In quegli anni, dalla Prefettura
alla Questura, dal Comune al Sindacato, tutti chiusero un
occhio. Anzi tutt’e due! Fu un atteggiamento tra il benevolo e il saggio, ma anche sottilmente ricattatorio...
Chi ebbe voglia di lavorare sodo e di emanciparsi trovò,
così, un posto al sole. Un proletariato di campagna e di
borgata travasò in quel nuovo lavoro tutte le proprie doti:
grande capacità di fare, la voglia di stare con gli altri, di servirli... Fu un successo che si tradusse – negli anni – in
milioni e milioni di ospiti, da tutta Europa. E nella nascita
di migliaia e migliaia di attività sulla riviera – alberghi, pensioni, negozi, chioschi... – che regalarono un benessere che
nessuno aveva, neppure, sognato.
Quattro pomodori in gratin
Si parla tanto della nostra ospitalità... saggi, convegni,
ricerche per stabilire qual è l’origine di questa decantata
virtù! Tanti discorsi. A volte tanta retorica. Forse vale di più
un piccolo racconto per comprendere le radici della nostra
storia, del nostro successo turistico… e dell’esodo dalle campagne. Quello che è riuscito all’amico Francesco Bianchi,
trattorista e autore di commedie e racconti. Ascoltiamolo.
Qualche sera fa. Sorseggiando una birra al bar. Con alle
spalle il mare e davanti la strada con tutto l’andirivieni di turisti e di residenti, che stavano godendosi la passeggiata serale.
Al di sopra delle loro teste si profilava la sconfinata linea
degli alberghi, lo sfavillar delle luci, i balconi fioriti e tanta
allegria nel pur piccolo spazio a disposizione degli ospiti.
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All’improvviso… senza un preciso motivo, mi ritrovai a pensare ad un piccolo episodio accaduto nientemeno che
trent’anni fa. Mi trovavo a San Lorenzo Monte, oltre Covignano. Stavo dissodando un terreno adibito a vigna: era
ormai buio, e col fascio di luce dei fanali vidi Giuseppe, mio
compagno di lavoro, che in mezzo alla carraia stava parlando
con l’anziano contadino e con una ragazzina di circa dieci o
dodici anni. Quando arrivai vicino a loro, Giuseppe fece un
segno a me ben noto: con la mano aperta si colpiva la pancia
da un lato. Capii che era ora di mangiare; mi fermai, scesi dal
trattore e mi unii a loro. Il mio amico con grande soddisfazione disse: «L’è oura ad greppia». Guardai prima il contadino, male in arnese, poi la ragazzina… con una punta di scetticismo. “Non aspettatevi grandi cose” disse la quasi-bambina, mostrando due simpatiche fossette sulle guance. «Nu
bazila burdela, per nun e va ben tot», la rincuorò il mio amico.
Quando le dissi che saremmo andati uno alla volta, per non
perdere molto tempo, la ragazzina mi guardò con
un’espressione delusa, poi sulle sue guance affiorarono le due
fossette: «No, fermatevi un po’, è meglio mangiare assieme».
Guardai il mio amico e con un cenno d’intesa decidemmo di
fermare il trattore. «Allora fra dieci minuti venite su, che è
pronto. Andema ba». Padre e figlia si allontanarono, lui lentamente e lei con passo lesto scomparvero nel buio.
Guardai Giuseppe e grattandomi la testa gli dissi: «Sa vut
che us magna sa un vec e una burdela? E pù um per che
iabia poch a che fè sla pulizì».
«Nu dai tent pes, quel che un’astroza l’ingrasa».
Quando arrivammo sotto il portico la ragazza era sull’uscio
ad attenderci, e con la disinvoltura e la gentilezza di una persona adulta ci invitò ad entrare. Io ed il mio amico ci guardammo intorno stupiti e sbalorditi. Abbassai lo sguardo in
terra e notai il pavimento di mattoni rossi, sconnessi e screpolati, ma sorprendentemente lucidi, tanto da fermarmi per
paura di sporcare. Tutto intorno era pulito e l’aria profumava di fiori di campo. Il tavolo era ricoperto da una tova-
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glia fresca di bucato; i rispettivi tovaglioli allineati perfettamente con le posate di metallo. In mezzo al tavolo un boccale, di quelli che si comprano nelle feste parrocchiali o
sagre campestri, era traboccante di fiori multicolori. La
ragazza ci assegnò il posto con una grazia incredibile e noi ci
sedemmo sbigottiti più che mai. In quel momento arrivò il
contadino che nel frattempo si era cambiato per la cena. Ci
rendemmo conto che questo cambiamento non era solo
“ospitalità”, ma tutto faceva supporre che per loro, il pranzo
e la cena, erano momenti importanti, quasi un rito. Le
occhiate di approvazione, tra me e Giuseppe, non avevano
pausa. Anche le sorprese non finivano mai. La ragazza portò
sul tavolo una padella di pomodori col pane grattato (ora si
dice gratin). «Spero vi piacciano», poi sollevò un tovagliolo:
«Ho pensato di fare la piada». Io ed il mio amico guardammo quella pila di piada, e lui mi anticipò «Ta l’è fata te
tota cla pieda?». La ragazza sembrò aspettarsi quella
domanda perché, drizzandosi sul busto, disse con orgoglio
«La faccio tutte le sere».
Poi senza dire altro riempì il bicchiere di suo padre e i
nostri. Quella ragazzina non finiva mai di stupirci: mentre
noi mangiavamo i pomodori ci portò dei sottaceti fatti in
casa, che noi gustammo senza farci pregare tanto. Infine,
fra una chiacchiera e l’altra, ci accorgemmo che non c’era
rimasto più nulla. L’anziano contadino si alzò per andare a
prendere una bottiglia del loro miglior vino e la ragazza ci
mise davanti un enorme piatto di ciambella. «Col vino
bianco è buona». Non avevamo più dubbi sulle capacità di
quella bambina grande. Gustato il vino e la ciambella
facemmo i complimenti alla ragazza che a testa bassa e
rossa in viso, ma sicuramente felice si limitò a dire «Grazie,
avrei voluto fare di più».
«Più di così? Avem magnè cumè i sgnur». Commentò il mio
amico. Il padre orgoglioso ci disse che aveva una vera predisposizione per la cucina, con poco riusciva a preparare piatti
deliziosi, e che da grande avrebbe desiderato fare la cuoca in
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un albergo. La ragazza, sempre rossa in viso, rimproverò il
padre dicendo che stava esagerando, ma noi tutti eravamo
convinti di no. Quando ci salutammo, oltre i ringraziamenti,
dissi alla ragazza che sarebbe diventata la cuoca più brava
della Romagna. Mi ringraziò con un sorriso, e sfiorandole le
due fossette le dissi: «Con queste sarai anche la più bella».
Non ebbi più occasione di rivedere quella piccola famiglia. Chissà se quella ragazzina ha realizzato il suo sogno,
quella ragazzina che aveva dimostrato un gran senso di
ospitalità? Io sono convinto di sì. Mi fa piacere pensare
che quella piccola donna, ormai cresciuta, possa essere lì,
in uno di quegli alberghi di fronte a me. [Da Quella vitamina chiamata allegria, edizioni Chiamami Città, 1997]
E poi, la storia del nostro turismo come prosegue?
In un secondo tempo tutto sarà un po’ più complicato
e difficile, a partire dagli anni Settanta: arriverà la concorrenza vincente delle nuove proposte di vacanza, dei nuovi
paesi, arriverà il degrado con le alghe e le mucillagini, la
notte lugubre sui lungomari e gli “sballi” del sabato sera.
La nostra comunità non si riconoscerà più unanimemente
nel vecchio spirito dell’accoglienza e dell’ospitalità,
rischiando più volte di smarrire la propria strada. Ma ogni
volta la città avrà la forza di reagire.
Ma veniamo alla nostra storia più imbarazzante:
quella politica!
Partiamo, appunto, dalla Politica, che in Italia rappresenta l’anello debole di tutta la situazione. E non di meno
da noi. Pensate solo a questo aspetto: dal ’45 in avanti,
abbiamo registrato, anno dopo anno, un periodo di pace
mai verificatosi prima: un miracolo, nella storia! Ebbene,
tutto ciò, non è mai stato apertamente, adeguatamente ed
ufficialmente apprezzato, magnificato, esaltato… almeno
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dal grosso del ceto politico, dai personaggi pubblici e dagli
addetti alla politica; mentre la gente, cosiddetta “normale”,
la pace, forse, l’ha apprezzata, e come!
E il perché di tutto questo?
Una giustificazione la troviamo nella storia del nostro
paese, in una sua costante che viene da lontano: siamo sempre stati un popolo di “estremisti” (almeno nella componente affascinata e sedotta dalla politica), sempre alla
ricerca di qualcosa di più importante della tranquilla e semplice quotidianità, qualcosa di più elettrizzante di quel
modesto “buon senso” che l’esistenza pacifica suggeriva.
E tutto questo, soprattutto, in Romagna: una terra che
le vicende italiane dell’ultimo secolo le riassume interamente!
L’Italia del Novecento deve molto alla Romagna,
nel bene e nel male
Infatti, l’Italia del Novecento deve molto alla Romagna,
nel bene e nel male: politicamente, socialmente ed economicamente. La nostra Regione fu laboratorio di vicende ed
esperienze straordinarie. A fine Ottocento nacquero qui,
nell’alveo mazziniano, le prime società di mutuo soccorso e
le prime cooperative. Anche l’Internazionalismo Socialista
iniziò il suo proselitismo, in Italia, a partire dalla Romagna,
e non a caso il suo primo congresso si tenne a Rimini nel
1872.
La Romagna possiede una storia ben più forte e più
omogenea di tante altre regioni. Un tantino più imbarazzante, però, se è vero che il suo protagonista più importante – o, meglio, più ingombrante – risponde al nome di
Mussolini (con tutto quello che ne segue). Ma vogliamo
conoscerla e guardarla in faccia questa storia, e da vicino?
La nostra è una regione particolarmente densa di
vicende storiche, rilevanti per capire la realtà attuale, per
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comprendere l’Italia del Terzo Millennio: a partire dalla
storica “politicofilia” romagnola, indispensabile per capire
meglio la genesi di un amore collettivo per la politica, la cui
diffusione ha riguardato l’intera nazione. Lo storico
Roberto Balzani (oggi, anche, Sindaco di Forlì) sostiene
che: «… il rapporto fra i romagnoli e la politica è, da
tempo, un elemento consolidato del “carattere” regionale:
non è un uomo valutabile – scriveva Antonio Beltramelli
già nei primi anni del Novecento – colui che non sia
ascritto a un partito qualsiasi; chi non si proclamerà, gridando, strenuo propugnatore di qualche forma politica
non godrà mai piena stima in Romagna (…). V’è un solo
Dio: la Politica; questo è il verbo che guida gli uomini rossi
nella loro vita irruenta. La letteratura sulla “politicofilia”
romagnola è amplissima, suffragata da precoci forme di
partecipazione collettiva alla vita pubblica, dall’emersione
di grandi “domatori di folle” (basti pensare ad Andrea
Costa, a Mussolini, a Nenni), dallo stesso compiacimento
con cui i regionali hanno guardato e ancora guardano a
questa loro tradizione (…)».
Balzani ha ragione, la politica qui è sempre stata come
una sorta di corazza che ognuno portava addosso per combattere meglio tutti gli altri: vivere schierati, armati, equipaggiati… non solo, ma la politica con le sue semplificazioni e schematismi offriva a tutti la possibilità e la sicurezza di interpretare il mondo, di non sentirsi inferiori a nessuno. Il “massimalismo italiano” ha trovato in Romagna una
culla formidabile (e il suo terreno di coltura è l’Ottocento).
Ma è necessario, al contempo, mettere in evidenza
un’altra caratteristica romagnola: la convivialità, la capacità
di “mettersi assieme”, la dimensione associativa… Si ha
quasi l’impressione – sintetizzando – che dentro la corazza
facinorosa e massimalista, quasi obbligatoria qui da noi, ci
sia sempre stata una visione più pragmatica e ragionevole
delle cose: i romagnoli, sospinti a seguire esteriormente i
“domatori di folle”, hanno offerto, invece, il meglio di sé in
21
tante altre cose più ragionevoli e positive (la laboriosità, le
cooperative, l’intraprendenza economica, l’emancipazione
femminile, la libertà sessuale, la voglia di vivere pienamente, di divertirsi… e, soprattutto, la grande industria
dell’accoglienza!).
È la schizofrenia di una Romagna socialfascista, che in
realtà avrebbe saputo fare e produrre – avendone la vocazione – ben altre cose, sul piano della prassi e della teoria.
Basta guardare cos’è successo sulla costa: un popolo che
voleva rivoluzionare il mondo… ha finito più saggiamente
per ospitarlo! Continuando, però, a conservare una
“corazza” ideologica di vecchio stampo.
Si tratta di una felice stagione, di una straordinaria esperienza – quella della Romagna maestra di ospitalità –, che
può collegarsi a certe premesse, addirittura, ottocentesche.
Sovvertire, ribellarsi, seminare odio, dovevasi…
Siamo stati un “popolo di estremisti” (soprattutto a
parole, soprattutto in Romagna), sprezzanti nei confronti
di quel monotono tran-tran, tipico della pacata e ordinata
vita democratica; c’era sempre qualcosa che valeva più
della pace e della rispettosa, grigia e pacifica democrazia:
ora c’era la “giustizia” che valeva più della libertà, oppure
c’era il mito dell’ordine, in nome del quale era preferibile
l’approdo alla dittatura dei militari o di quant’altri si fossero fatti sotto…
E poi c’era il fenomeno del trasformismo che, motivato
essenzialmente dall’opportunismo, aveva dato vita ad una
sorta di continuità tra fascismo realizzato e comunismo
professato, tra estremisti neri e rossi, nel crogiolo incandescente del dopoguerra. Un fenomeno che ha spinto qualcuno a parlare di una Romagna, in blocco, prima “mussoliniana” e poi “stalinista”, con gli stessi protagonisti (e non
tutti di secondo piano) ad interpretare sia la prima che la
22
seconda Romagna. Ed è ancora Dino Spadoni a regalarci
un quadro attendibile di cosa successe – a proposito, e
sempre negli anni Quaranta – nel microcosmo di un borgo
popolare, a Rimini.
All’epoca la politica contava moltissimo, e occupava buona
parte del nostro tempo libero. Nel Borgo San Giuliano prevaleva nettamente il partito comunista: eravamo tutti
iscritti, anche noi giovanissimi, “i ragazzi degli anni
Trenta”. C’era, però, molta gente adulta che prima era stata
ardentemente fascista… che avrebbe fatto meglio a non
occuparsi subito di politica, saltando dall’altra parte:
sarebbe stato più corretto, e più onesto, se queste persone
avessero fatto con calma un esame di coscienza, avessero
riflettuto bene, cercando di capire. E invece no, si sono buttati subito dove c’erano le nuove poltrone! Mio padre, successivamente, lasciò il partito anche per questo motivo. Ci
vedeva un opportunismo dilagante. «In ogni ufficio che
vado, ci trovo quelli di prima!», diceva.
Senza aver fatto un minimo di autocritica, molti personaggi erano passati alla posizione politica opposta: e,
magari, erano diventati i più cattivi contro i fascisti, contro quelli che erano rimasti delle vecchie idee o avevano
ricoperto cariche più alte.
Io ho sempre sostenuto che quando una persona “dura ed
ignorante” mette la divisa sono guai! Era successo, precedentemente, anche nella Repubblica Sociale.
Nel Borgo c’èra un’espressione che si usava in questi casi,
si diceva, allora, che… «È dura da scorticare!».
Io li ho visti questi personaggi. Anche tra i giovani. Erano
quelli che, pur non avendo titoli, si comportavano nella
maniera più dura contro i fascisti: nella vendetta, come la
chiamavano loro.
Voglio essere più preciso: chi lavorava in Ferrovia e
durante la Repubblica Sociale aveva giurato fedeltà al
regime e preso la tessera, non avrebbe dovuto essere, poi,
23
così intransigente, così violento nei confronti di chi era
rimasto fascista.
Comunque – e bisogna dirlo – le vendette non hanno
comportato, da noi, episodi di particolare gravità.
Anche nei confronti delle donne i soliti violenti (perché
questa era la loro caratteristica “politica” dominante:
erano, soprattutto, dei violenti!) si misero ben in evidenza! Prima nei confronti delle donne colpevoli di aver
frequentato i tedeschi, poi verso quelle accusate di avere
avuto rapporti e contatti con le truppe inglesi. A queste
donne, bloccate ed aggredite, venivano tagliati i capelli!
Anche da questi episodi si può capire come, pure, gli
Inglesi non fossero visti con simpatia da chi si professava
antifascista: prima, sotto il regime di Mussolini, erano
considerati i nemici di sempre, poi, nel dopoguerra, dalla
sinistra, erano considerati i rappresentanti del “grande
capitale”. Disprezzati prima e dopo: Dio stramaledica gli
inglesi!
Quel secolo avrebbe pure dovuto insegnarci qualcosa
Tutto il secolo che si è chiuso da poco ha dimostrato che
gli uomini avrebbero fatto meglio a dubitare piuttosto che
a credere: hanno creduto a Mussolini, alla guerra giusta e
vinta in partenza, a Stalin chiamato amichevolmente
“Baffone”, al grande partito comunista “che sa lui dove ci
deve portare”, alla Chiesa in maniera fideistica e cieca... È
chiaro che “credere”, in molti casi, ripaga in contanti. Lì
per lì. Ma intacca la libertà degli individui, rendendoli più
meschini a se stessi e agli altri.
Con questo spirito ho cercato di raccogliere fatti e testimonianze utili a ricostruire la storia romagnola, riminese e
turistica, dal dopoguerra ad oggi. È un contributo, che nasce
sul filo di alcune considerazioni di fondo, frutto di una
visione un po’ sintetica. Magari anche estrema. Speriamo
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Abbiamo un grande futuro alle spalle (da recuperare, logicamente)
L’aeroporto di Miramare nel 1965 riuscì a battere ogni record: nei
primi due mesi della stagione registrò l’arrivo di più di 1200 aerei,
per un totale di centomila passeggeri, senza tener conto di quelli
“dirottati” su altri aeroporti. Sono turisti che giungevano a Rimini
dalla Gran Bretagna, dalla Scandinavia, ma anche dal resto dell’Europa. Gli svedesi arriveranno, per la prima volta, quell’estate, anche
con treni speciali, Stoccolma-Rimini. [Foto Davide Minghini]
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non grossolana. Ma che, soprattutto, mi auguro giusta.
Cos’è successo di tanto importante, a Rimini, in questo
mezzo secolo?
La città, quasi completamente distrutta dalla Seconda
Guerra Mondiale, è stata ricostruita totalmente, anzi si è
sviluppata in maniera straordinaria e impensabile, sia sotto
l’aspetto quantitativo che qualitativo.
La gente da queste parti, prima della guerra e subito
dopo, viveva – nella stragrande maggioranza dei casi – di
un lavoro durissimo e povero: nel comune di Rimini quasi
la metà della popolazione attiva era impegnata nell’agricoltura, e questo in un comune altamente urbanizzato come il
nostro. Rimane facile immaginare la percentuale molto più
alta nei comuni limitrofi, nell’entroterra.
Noi piccolissimi borghesi di città non potremo mai
capire cosa volesse dire vivere e lavorare in campagna come
mezzadri, coltivando un ettaro, un ettaro e mezzo, ma il più
delle volte anche meno... Era una vita durissima, al limite
dell’abbrutimento, che costringeva alla “convivenza forzata” vasti gruppi famigliari, figli, nuore, nipoti... Chi oggi
vive, o vorrebbe vivere, da “single”, rifletta su questo aspetto,
soltanto.
Tutto il ricavato di quel lavoro estenuante lo si doveva
dividere con il proprietario del terreno: il signor padrone.
Ma gli altri lavori non è che fossero più facili: pensate ai
pescatori, agli operai delle fucine, ai manovali... Pensate al
livello di istruzione della popolazione di allora: a Rimini,
ancora nel 1951, più del 70% dei residenti era analfabeta o
aveva solo il titolo di scuola elementare. Ancora quarant’anni fa, il nostro piccolo mondo era fatto di gente il cui
lavoro sconfinava nella dura fatica, nello sfinimento. Attività manuali, duramente manuali. Questa era la vita di
buona parte della popolazione: da sempre, l’umanità aveva
vissuto incatenata ad una vita dura, brutale, legata alla terra
e al faticoso lavoro manuale!
Quello che è successo nella seconda metà del Nove26
cento è qualcosa di veramente rivoluzionario. Nei paesi
dell’Occidente, diciamo così, il popolo ha rotto le catene
che lo legavano alla brutalità del lavoro, soprattutto nei
campi, ha rotto con la miseria nera. Si è riversato nella città,
nelle industrie, nel commercio: travaso e capovolgimento
assieme. Uno stacco storico formidabile, avvenuto o prima
o dopo quasi ovunque. Da noi questa rivoluzione... si è
chiamata Turismo.
Giuseppe, mezzadro di Sant’Aquilina
E per capire come nel giro di tre generazioni sia successo
l’incredibile, ecco una storia, quella di Giuseppe, che vale per
tutte le altre. Da una vita da mezzadri siamo passati, nel volgere di poco tempo, alla condizione… di laureati!
Giuseppe, che 50 anni or sono, figlio di un mezzadro di
Sant’Aquilina, accompagnava a piedi i buoi al mercato, oggi
ha un piccolo albergo a Rivabella. Vale qualche miliardo. Se
lo è costruito quasi da solo, quella volta, assieme alla moglie
e ai figli. Quest’ultimi lo hanno gestito negli ultimi
vent’anni, ora i nipoti o sono laureati o stanno per diventarlo. E sono ancora incerti se buttarsi nella libera professione o proseguire nell’attività dei genitori (e più facile pensare che opteranno per la prima…).
Giuseppe, che continua a dare una mano nell’albergo
(non ne può fare a meno), frequenta un centro sociale per
anziani e non disdegna di seguire qualche conferenza organizzata dall’università della terza età.
In pochi decenni ne è passata di acqua sotto i ponti!
Nel 1950 Rimini contava meno di 200 esercizi alberghieri (comprese, logicamente, anche le pensioni e le
locande); dopo dieci anni saranno più di 1000 e arriveranno, all’inizio degli anni ’70, a superare le 1600 unità! Un
parametro, quello alberghiero, che parla da solo.
Attorno, e insieme agli alberghi, sono sorti come funghi,
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negozi, gelaterie, ristoranti, dancing... il tutto sostenuto da
una spinta crescente: la sete di vacanze degli europei e degli
italiani del nord che, come una “forza della natura”, travolse la nostra riviera. L’apoteosi delle prime vacanze in
albergo: una realtà, magari vista e sognata al cinema, diventava improvvisamente accessibile a larghissimi strati delle
popolazioni europee.
Le nostre spiagge risultavano facilmente raggiungibili
ed erano le uniche ad offrire posti-letto per tutti, a prezzi
straordinariamente bassi. È la grande stagione dell’albergo
e della pensione familiare, alimentata sia dal turismo individuale che da quello promosso dalle grandi Agenzie di
Viaggio europee: i famosi, e temibili, Tour Operator. Una
domanda di vacanza così prorompente – che si presentava
spontaneamente senza sollecitazione alcuna agli ingressi
degli alberghi – non poteva impensierire gli operatori turistici locali. All’estero i tour operator vendevano e organizzavano le vacanze sulla nostra Riviera con impegno e alacrità, inviando turisti a partire dal mese di maggio. Furono
anni senza preoccupazioni, cioè senza concorrenti temibili:
infatti l‘impero alberghiero spagnolo doveva ancora
nascere. Quando diede i primi segni di vita, iniziammo a
perdere clientela straniera, anno dopo anno.
Un’epoca che non aveva avuto bisogno di protagonisti
Finì, così, l’epoca dei successi facili e spontanei.
Un’epoca che non aveva avuto bisogno di protagonisti,
o di particolari “invenzioni”. Ognuno aveva lavorato sodo
nella propria attività, a testa bassa, e aveva raccolto i frutti
di tanti sacrifici.
Ora suonavano, però, dei campanelli di allarme. Siamo
alla fine degli anni Sessanta: inizia una nuova fase.
Personaggi e personalità interessanti cominciano ad emergere: saranno loro ad imprimere una svolta al turismo, con
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soluzioni innovative. Nascono le prime cooperative alberghiere, la Fiera si presta ad ospitare i primi grandi congressi, gli enti turistici si associano fra di loro per realizzare
una promozione più efficace, magari a sostegno della commercializzazione sviluppata dalle stesse cooperative. Tutto
questo serviva ad arginare una situazione che vedeva i
grandi “fabbricanti di vacanze” – i tour operator europei –
privilegiare altre mete turistiche nel Mediterraneo, a discapito della nostra riviera.
Finita la fase “spontanea”, alcune persone di buona
volontà e intelligenza diventarono determinanti per smuovere dalle secche il nostro turismo. Pensiamo a Marco
Arpesella, Nicola Sanese, Luciano Chicchi... e a tanti altri;
a chi inventò prestigiose cooperative alberghiere, il turismo
dei congressi e delle fiere, manifestazioni di successo, o
locali notturni, di cui parla tuttora il mondo intero.
Quella del nostro turismo è una storia grossa ed importante, con luci ed ombre, come il degrado venuto a galla
negli anni Ottanta e Novanta, e piena anche di contraddizioni interessanti, come quella rappresentata dal partito
comunista, che dal dopoguerra – con alleati diversi e con
denominazioni varie – ha sempre governato la città, tranne
brevi stacchi.
Un partito, paladino di ideali collettivistici, che ha sempre amministrato la città senza particolare imbarazzo di
fronte a tanta esplosione di iniziativa individuale e privata,
praticata dai suoi sostenitori. Fin dalle prime libere elezioni, il partito comunista risultò in testa. Quel 6 ottobre
1946 ottenne più del 37% dei voti. I socialisti di allora, che
la pensavano allo stesso modo e gli erano alleati, superarono il 22%. A votarli c’erano innanzitutto quei contadini,
quei mezzadri, che speravano di diventare proprietari del
loro piccolo pezzo di terra. Così, dicevano, era già avvenuto in Russia. Non potevano immaginare che, invece, là
c’erano state soprattutto deportazioni e persecuzioni.
La vita era troppo dura per coltivare dubbi!
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Si doveva arrivare a dare anche una spallata, se fosse
stata necessaria. Ma le cose andarono, per fortuna, in
maniera più tranquilla.
Non diventarono, allora, proprietari del podere e non ci
fu nessuna rivoluzione politica. Tutti, o quasi, conquistarono “un posto al sole” nel turismo di massa nascente: emigrando, come Giuseppe, in riva al mare. Fu altra fatica, ma
con risultati più che apprezzabili.
Nessuno regalò niente. Tutti, però, si adoperarono:
dalle parrocchie alle camere del lavoro, dalle amministrazioni comunali al partito... Anche da noi la realtà cambiò
faccia, a modo suo. Non ci fu bisogno della FIAT o di qualche altro grosso complesso industriale.
Fu una storia tutta nostra, che si può orgogliosamente
raccontare. Compresi tutti i suoi errori.
Quella del Turismo è una nostra bella storia. Non ci
sono dubbi. Una sorta di grande travaso. Tutto il meglio di
una civiltà contadina e popolare è stato trasfuso nella realtà
del turismo nascente, all’epoca del dopoguerra. Gente
forte, capace in tutto, socievole ed allegra, che ha costruito
la nostra ricchezza. Nessun partito, o ideologia, può appropriarsi di quel grande fenomeno. Avvenuto spontaneamente, senza programmazione alcuna. Era la grande
opportunità del dopoguerra, erano le aspettative di mezza
Europa che voleva tornare a vivere, lavorare e ballare. E
magari fare le vacanze al mare, come facevano “i signori”
che si vedevano al cinema.
Il popolo romagnolo seppe mettere in scena questo
“spettacolo”: offrì un’estate a tutti, e alla portata di tutti! Si
trattò di un successo, con il quale vive ancora di rendita!
Un anno che ne valeva dieci
Ma nella storia degli ultimi cinquant’anni c’è un altro
grosso fenomeno, largamente spontaneo, che nessuno aveva
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previsto e che scosse non poco la politica e il costume di
questa città. Fu qualcosa, però, che avvenne dappertutto, in
Italia ed in Europa, come si trattasse di un grande evento
naturale. Sto parlando del ’68, il mitico Sessantotto, l’anno
della contestazione, del movimento studentesco, della ribellione giovanile… Sembrava che tutto fosse legato esclusivamente alla politica, in realtà fu qualcosa che cambiò i rapporti fra i sessi, i ruoli nella famiglia, l’autonomia dei giovani… Ma cosa c’era da cambiare di così grave ed importante? Potrebbero chiedersi i giovanissimi e le giovanissime
d’oggi… E rivolgendomi ad una di loro, tanto per capirci,
potrei dirle: «Tu sei stata una ragazza sempre libera, fin dall’adolescenza; a casa dei tuoi genitori – dove vivrai ancora
per diversi anni – porti chi vuoi, senza problemi; fai le
vacanze con un gruppo di amiche e di amici e nessuno più
si scandalizza se non pensi al fidanzamento (ma quale
fidanzamento?!) o al matrimonio… tutte cose che si
vedranno con calma, e che, comunque, non devono intaccare la tua autonomia, la tua dignità, il tuo lavoro. Dico
bene? Beh, sappi che fino a pochi anni la musica era ben
diversa».
Voglio raccontare, a questo proposito, tre piccoli episodi (veri veri), che ho ben in mente, e che riguardano – e
illustrano – la vita di tutti i giorni di un passato recente,
quello degli anni ’50 e ’60, prima del fatidico Sessantotto.
Il “pacchetto” Anna
Il primo episodio riguarda una ragazza, che per correttezza chiamerò con un altro nome: Anna. A quei tempi
aveva pressappoco vent’anni. Anna si era da poco diplomata, come ragioniere, al “Valturio”. Aveva sempre fatto
fatica ad uscire di casa, i suoi la controllavano ossessivamente, come accadeva in tantissime altre famiglie. Mai
fuori la sera, e se tornava dieci minuti più tardi iniziavano
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gli interrogatori. Tutto era molto penoso, soprattutto per il
senso di colpa e di imbarazzo che si diffondeva fra tutti.
Accadde, e non poteva andare diversamente, che il
primo ragazzo – che portò a conoscenza dei suoi – fu
quello che dovette sposare, dopo il rituale fidanzamento.
Dico “dovette” perché Anna, qualche mese prima del
matrimonio, si dimostrò pentita di quella scelta. Cercò di
puntare i piedi, di far leva sulla piccola fiaccola di autonomia che covava dentro di lei. In casa fu il finimondo. Forse
la morte di un parente stretto sarebbe stata accolta meno
drammaticamente. Anna sposò colui che… doveva sposare. I genitori tirarono un sospiro di sollievo.
Dopo qualche anno quel matrimonio naufragò, alla grande.
Allora le cose andavano così: le ragazze erano come dei
“pacchetti”, da trasferire dalla famiglia originaria a quella
nuova, messa in piedi dal marito; le giovani dovevano passare da una tutela all’altra, senza intervalli di autonomia, di
vita libera. Lo spettro della libertà sessuale agitava le
coscienze inquiete dei poveri genitori di quei tempi.
Quelle spedizioni punitive,
di notte, dopo Piazza Tripoli
Anche il secondo episodio ha a che fare con il sesso (e
con il turismo), ed è collocabile alla fine degli anni ’50.
Alcuni giovani, neppure ventenni, tutti riminesi, si vantavano – e questo accadeva nei mesi estivi – di partecipare a
dei raid punitivi contro gli omosessuali che stazionavano
solitamente nei pressi di Piazzale Tripoli.
Logicamente, i baldi giovani usavano altri termini: parlavano di “froci”, di “checche”, di “finocchi” da mettere in
riga… Teatro di queste operazioni notturne era la marina,
sicuramente la spiaggia, a due passi da Piazza Tripoli, dove
allora terminava il lungomare. E il giorno dopo, quegli indomiti giustizieri, mostravano agli amici – quelli meno corag32
giosi, che non partecipavano – i segni delle varie colluttazioni. Era la prova della loro virilità e spregiudicatezza. Si
trattava di lividi, e anche di morsi (così dicevano loro).
Anche se, agli ignari osservatori dei postumi di quelle bravate, rimanevano sempre dei dubbi sulla dinamica di quegli
incontri-scontri. E al di là di come fossero andate veramente
le cose, veniva sancito e rafforzato il principio e la regola che
i “froci” andavano picchiati e calpestati come vermi.
Un particolare: non si trattava di giovani riminesi appartenenti alla classi emarginate, ma di buoni figli della media
e piccola borghesia.
Alla Chiesa del Suffragio,
come in un film di Alberto Sordi
La terza scena ha, invece, come protagonista un altro
tema fondamentale di quel periodo: il posto fisso in un ente
locale, in un ente pubblico o in una banca. C’era chi, per
raggiungere questo obiettivo, puntualmente tutte le domeniche mattina andava a messa nella Chiesa del Suffragio. A
pregare? No. A mettersi in bella mostra, e a farsi notare
dall’immancabile direttore del personale del maggiore istituto di credito cittadino (che fosse la Cassa di Risparmio?).
Lo stesso personaggio, per rafforzare la propria posizione,
aveva preso anche la tessera della Democrazia Cristiana.
Ora, attenzione, anche le tessere degli altri partiti potevano essere utili per entrare in qualche ente locale o statale
o parastatale. Infatti molti giovani, non sapendo che pesci
pigliare, non avendo un’idea precisa su come sistemarsi
nella vita, ricorsero alle “vie della politica”: comunisti,
socialisti, repubblicani, socialdemocratici, ecc. ecc. ma
anche alla parrocchia, al vescovo, insomma, tutti potevano,
volendo, fare qualcosa.
La corruzione, la piccola raccomandazione, la “lottizzazione” dei posti pubblici (cioè quelli garantiti, meglio
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remunerati e assai meno faticosi rispetto ai posti nelle
aziende private) era una pratica diffusa come l’aria da
respirare. Tutti lo sapevano e ognuno faceva finta di niente.
La nostra generazione fu coinvolta massicciamente da questa prassi (salvo, poi cercare di riscattarsi, o scrollarsi di
dosso il condizionamento, il sottile ricatto politico…).
Con questi tre episodi – utili, forse, ai più giovani per
farsi un’idea della nostra realtà negli anni ’50 e ’60 – mi
auguro, anche, che la vita d’oggi sia meno meschina di
quella che capitò di vivere a noi in quel periodo. Se così è,
un modesto ringraziamento lo si deve rivolgere anche al
movimento di ribellione del Sessantotto, che rese insopportabili quelle ed altre situazioni (ringraziamento si fa per
dire, perché il Movimento ben presto fece proprio quell’estremismo che il partito comunista cercava lentamente di
scrollarsi di dosso).
Le ragazze uscirono, comunque, dal loro guscio, prepotentemente: un movimento giovanile di massa le incoraggiava a non farsi considerare come “pacchetti”. Anche i
meno giovani furono coinvolti nella rivendicazione di una
vita fatta di scelte più dignitose e più radicali. E senza
discriminazioni sessuali.
Fu come un incendio che puntò ad investire – uscendo
dalla scuola – ogni aspetto negativo della nostra società.
Non c’era tabù che potesse fermarlo. Perfino la speculazione edilizia fu presa di mira, con tanto di nomi e
cognomi. Logicamente fu solo sfiorata, ma nulla rimase più
come prima: quel velo di ipocrisia che aveva da sempre
ricoperto la corruzione, e il clientelismo, era diventato
molto più sottile.
Si trattò, in sintesi, di una vera e propria “rivoluzione
culturale”, di costume, che accelerò l’emancipazione femminile e giovanile, soprattutto.
Lo sviluppo economico e sociale avrebbe, forse, portato
gli stessi risultati, ma con qualche anno o decennio di
ritardo. Il ’68 fu un corso accelerato di liberazione (e di
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Eravamo – semplicemente, modestamente, serenamente – una meta
internazionale!
Già nel 1956 si comincia a registrare il “tutto esaurito” per gran parte
della stagione. E nel periodo 1955-60 si avrà un sostanziale equilibrio
tra ospiti italiani e stranieri, presenti negli esercizi alberghieri. Oggi
la presenza internazionale non supera, complessivamente, il quindici
per cento! [Foto Moretti film]
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radicalizzazione, contemporaneamente), una scarica di
adrenalina che produsse, in chi vi partecipò, una crescita
del proprio “tasso di coraggio” senza precedenti.
Ma se mi fermassi qui, avrei dato di quegli anni una versione edulcorata: anzi, fondamentalmente falsa.
Bisogna riconoscere che, durante gli “anni caldi”, benché la Politica fosse nel cuore di molti, ad impegnarsi e ad
agitarsi era pur sempre una minoranza. Molto rumorosa,
ma egualmente una minoranza, a fronte della stragrande
maggioranza delle persone che continuavano il loro trantran normale. Nonostante questo, il movimento del ’68
abbracciò, ben presto, una visione politica rivoluzionaria,
estremistica. I militanti di allora non erano preoccupati del
silenzio delle masse: quel “silenzio” veniva interpretato
come una sfida, che loro, le avanguardie, dovevano accettare. E invece si trattava di una sconfessione. Alla gente piaceva l’idea di rinnovare la società, così come era stata avanzata nella primissima fase del Sessantotto: chi non avrebbe
voluto cambiare la vecchia scuola, o denunciare e sconfiggere la corruzione, o annullare le assurde discriminazioni
sessuali o mettere alle corde la speculazione edilizia?
Agli italiani e ai riminesi, nella loro stragrande maggioranza, non piaceva, invece, la prospettiva di raggiungere
tutto ciò attraverso continue violenze o risse politiche.
E così, ancora una volta, riemerse in Italia la vocazione
massimalista, quella vocazione che nella storia nazionale
aveva già procurato tanti guai.
Ma, fortunatamente, i giovani d’oggi – quelli che si affacciarono alla vita con il nuovo secolo – sono arrivati quando
tutto era finito.
La libertà, la loro libertà, nessuno la metterà più in
discussione. La democrazia neppure. Nessuno di questi
giovani – si spera – offrirà facilmente il fianco alle tesi politiche estremistiche, anti-democratiche e fanatiche, qualora
dovessero ripresentarsi. Sono vaccinati. Ecco perché considero la loro generazione migliore delle precedenti.
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Perché – quindi – non ne approfittano per completare
quell’opera di rinnovamento della società, che a noi riuscì
solo parzialmente e in maniera molto maldestra?
Sono, forse, la prima generazione veramente ed interamente democratica di questo paese. Quelle che l’hanno
preceduta non hanno saputo, o potuto, scegliere una via
altrettanto giusta: non erano in possesso dell’unica bussola
che consente di orientarsi nella vita.
Penso a quei ragazzi, anche riminesi, che nel ’43 e nel
’44 chiesero di andare a combattere come volontari nella
Repubblica Sociale Italiana, accanto ai nazisti, convinti,
così, di fare eroicamente il proprio dovere: servire la Patria,
salvandone l’onore. Sì, l’onore, quello che altri avevano
infangato passando dalla parte del nemico.
Molti di quei giovani, durante le peripezie belliche, presero, però, coscienza di quale orribile guerra avessero scatenato Hitler e Mussolini.
Entrarono in crisi, ed in tanti, allora, aderirono ad una
nuova ideologia, che sembrava implacabile nella lotta al
nazi-fascismo: si trattava del comunismo di Stalin! Che
importanza potevano avere le critiche mosse da molti,
soprattutto nel dopoguerra, alla grande Unione Sovietica?
«Non c’è la libertà? Embé? Quello che conta è la giustizia,
la fine dello sfruttamento, cosa vuoi che importi alla povera
gente del parlamento, o della libertà politica o di pensiero…».
Senza una bussola (quella giusta), si sbanda gravemente
da tutte le parti. La bussola è la cultura democratica, liberale, quella che non semina odio, né fanatismo, né livore
sociale, che non demonizza l’avversario, che è rispettosa
degli altri, che non rinuncia ai propri obiettivi ma intende
realizzarli pacificamente, cercando di convincere gli altri a
collaborare e a cooperare!
I giovani d’oggi sono nati con questa bussola in tasca!
Faranno fatica a sbagliare. Sono sicuro che prima, o poi,
decideranno di impegnarsi di più anche in politica… Poli37
tica che nel frattempo, dovrà assomigliare (grazie anche a
loro), sempre di più, ad una sorta di partita amichevole fra
le diverse componenti, fra i vari partiti che puntano, alternandosi, via via, alla guida della città, e del paese.
Il nostro biglietto da visita
Ma noi, al di là della politica, chi siamo? Vogliamo presentarci senza cedere, per una volta tanto, al vizio della
falsa modestia?
Una volta gli italiani, sul biglietto da visita, si fregiavano
del titolo di “cavaliere” o di “commendatore”, spesso e
volentieri. Oggi ci si fa belli con roboanti “markerting consultant” o “project leader”… E Rimini come potrebbe sinteticamente presentarsi se volesse – senza bluffare, però –
stupire qualcuno?
Rimini, “capitale del turismo”? Forse bisognerebbe essere
più coraggiosi e pragmatici, venendo subito al sodo, come
fanno quegli americani che tanto scimmiottiamo, e… sparare:
“Rimini, 1312 alberghi”. È questo il nostro migliore biglietto
da visita. Il ritratto più fedele della città che il Novecento ci
ha lasciato in eredità. Un dato che fa di Rimini una città-primato, con più hotels di qualsiasi altro comune italiano; un
quarto di quelli che può offrire l’intera Emilia Romagna. 521
alberghi a 3 stelle, 34 a 4 e 5 stelle, il resto a 2 e a 1 stella, più
36 alberghi residenziali. Tutto il resto, nella città, è modellato
sulla base di questo primato: centinaia e centinaia di bar, pub,
stabilimenti balneari e ristoranti. Non solo: palacongressi,
padiglioni fieristici, darsena, aeroporto, università del turismo, agenzie di viaggio, organismi alberghieri di ogni tipo,
parchi tematici, organizzazioni di eventi… rappresentano il
corollario “avanzato” dell’ospitalità alberghiera. In più, a
voler essere precisi, c’è anche la ricettività extralberghiera:
migliaia di appartamenti (in non pochi residence) e, perfino, quattro campeggi (a Viserba, a Viserbella, a Torre
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Pedrera e a Miramare). Una città – e questa è una novità
degli ultimi anni – che tiene aperte le porte dell’ospitalità
tutto l’anno; non c’è solo la frenesia del Luglio e dell’Agosto, qui per le festività natalizie o pasquali, o per capodanno, si respira l’ottimismo dell’alta stagione.
Questa è Rimini. Per ottenere, invece, il peso e lo spessore dell’intera costa romagnola è sufficiente moltiplicare il
tutto per tre!
In realtà, c’è poco da essere trionfalisti …
Purtroppo non possiamo, oggi come oggi, abbandonarci a nessun tipo di ottimismo, anzi…
Ma per arrivare alle questioni dei nostri giorni, alle
delusioni accumulate recentemente per una città che sembra aver smarrito la sua “vocazione”, mi sia permesso di
rievocare gli anni d’oro del turismo riminese; mi riferisco a
quelli a cavallo fra gli anni ’50 e ’60, quando Rimini e la
Riviera assaporarono e registrarono il massimo del successo, con naturalezza e con spontaneità, senza offrire il
fianco a quel cinismo e a quella volgarità che oggi, spesso,
accompagnano la conquista di nuovi traguardi economici.
Nel parlarvi di quell’età dell’oro, cercherò di metterci
tutto l’impegno e l’obiettività possibile: non voglio ingenerare il sospetto che io sovrapponga la nostalgia per gli anni
della mia gioventù alla visione realistica di una fase della
nostra storia turistica.
Comunque, giovane ero e, come tutti i ragazzi di allora,
“invitato” a lavorare l’estate negli alberghi, nei chioschi o
nei ristoranti. Era naturale – come il sole – all’età di 14 anni
(suppergiù), finita la scuola, ritrovarsi come piccolo cameriere o aiuto-barista tra i tavoli o dietro il bancone di un
locale pubblico. Non c’era nessun problema ad improvvisarsi “professionisti del turismo”: tutti, dal nulla, ricoprivano un ruolo nuovo ed inedito con il massimo dell’entu39
siasmo e della sana improvvisazione, nella più assoluta,
appunto, buona fede.
Poco più che adolescenti venivamo catapultati nel fantasmagorico mondo della pazza estate riminese, che andava in
scena, da maggio a settembre, in quella striscia di terra e di
sabbia compresa tra la linea ferroviaria e il mare Adriatico. Il
Mondo aveva tranquillamente – e senza dubbi – scelto
Rimini per le proprie vacanze. Svedesi, Inglesi, Tedeschi e
Austriaci, chi in aereo, chi con il “maggiolino” della Volkswagen, chi in torpedone, arrivavano e affollavano le nostre
spiagge e i nostri piccoli alberghi con la voglia “famelica” di
divertirsi, di abbronzarsi, di bagnarsi. Giungevano famiglie
alla spicciolata, o gruppi di turisti organizzati da piccoli
agenti di viaggio (quelli che diventeranno poi i grandi Tour
Operators, ma che allora, come si diceva, avevano ancora le
“toppe nel sedere”, e nessuno immaginava che da lì a pochi
anni avrebbero organizzato, in alternativa alle nostre destinazioni, grandi ponti aerei verso le Baleari e le Canarie). In quegli anni sembrava che solo noi potessimo soddisfare quella
valanga umana, festosa e variopinta; infatti, solo noi nel giro
di poco tempo avevamo creato dal nulla tanti posti letto:
quanti ne servivano alla nuova Europa, che aveva deciso ogni
estate di svuotarsi per raggiungere le coste più vicine del
Mediterraneo; per raggiungere località, come le nostre, dove
i prezzi erano più che convenienti, e dove ad attenderli c’era
gente cordiale e semplice, con in bocca un sorriso indubbiamente sincero. Occorrevano tanti posti letto, a prezzi accessibili per i nuovi ceti in vacanza; e ambienti che non fossero
così arcigni da mettere in difficoltà o intimidire chi andava in
vacanza per la prima volta. La nostra costa costruì – in
pochissimi anni – migliaia di piccoli alberghi, dove si offriva
agli ospiti la “pensione completa”, a prezzi contenutissmi, e
tanta sorridente e cordiale accoglienza. E qui non c’è retorica
che tenga: le cose andarono proprio così! Chi andava in
vacanza per la prima volta non soffriva nessun imbarazzo: era
accolto come fosse un piccolo nababbo!
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Una storia esaltante quella vissuta negli anni Cinquanta
e Sessanta (che giustifica anche la mia enfasi), una storia
che ha fatto la felicità dei suoi protagonisti: sia di chi quarant’anni fa si improvvisava albergatore, sia di chi a suo
modo si “improvvisava” turista. C’era sintonia tra quello
che Rimini nel suo insieme riusciva ad offrire (senza alcun
progetto) e le vaghe aspettative di milioni di stranieri e connazionali che da noi scoprivano una vacanza “giusta”,
all’insegna dell’euforia e della serenità.
Per spiegare questo “miracolo” bisogna riandare,
soprattutto, alle condizioni di vita precedenti, in quest’angolo di Romagna.
La gente – soprattutto negli anni cinquanta – aveva
deciso di cambiare la propria esistenza. Ed in particolare in
quelle collinette del nostro entroterra, regno incontrastato
di un’agricoltura grigia e povera, con lo sfondo sempre
uguale e scuro di San Marino. Lì le famiglie dei mezzadri
erano stanche di quella vita agra e mal sopportavano di
dover dividere il raccolto e gli animali con il “signor
padrone”. Senza dimenticare la claustrofobica vita patriarcale, allora imperante. Valeva la pena tentare l’avventura
della città. Magari cominciando a fare il muratore, anche il
manovale. Il lavoro non faceva paura, anzi... In fondo, erano
abituati – per guadagnare molto meno – a lavorare dall’alba
al tramonto. Si poteva tentare l’avventura: abbandonare il
podere, e con quella piccola liquidazione comprare un fazzoletto di terra – il lotto! – lungo la costa, dalle parti di Bellariva o di Viserbella. C’erano in quegli anni già tanti villeggianti in giro. Si trattava di un turismo – come dire – alla
buona, che non scoraggiava nessuno: né chi andava in
vacanza per la prima volta, né chi si avvicinava a Rimini
nella speranza di trovarvi un lavoretto stagionale. I nostri
s’improvvisarono camerieri, baristi, bagnini... La voglia di
impegnarsi non mancava a nessuno!
Operai di Monaco e impiegati di Milano in calzoncini
corti sul lungomare; mezzadri di Coriano e marinai del
41
Borgo dietro il bancone del bar o in cucina per far fronte
all’invasione più pacifica e sorridente della storia. Qualcuno
lo chiamò “turismo di massa”, ma non c’è definizione più
triste e arida per qualcosa che era – ed è tutt’ora – particolarmente allegro e felice. Si trattava di una vera e propria
esplosione di viaggi, scoperte, incontri, nuove amicizie.
Quelli della mia generazione hanno avuto, così, il privilegio di assistere al grande trapasso: da un’Italia dominata dal
lavoro duro nelle campagne, dalle ristrettezze, e molte volta
dalla miseria, ad un’Italia in cui tutto, improvvisamente,
diventava possibile. Eravamo alla fine degli anni ’50 o agli
inizi dei ’60? Fu euforia, soprattutto per chi aveva le radici
nella società precedente. Tutto divenne possibile, in modo
particolare nel Nord del paese: moltissimi si ritrovarono ad
abitare in una casa linda e moderna, magari con un’auto (seppure piccola) parcheggiata lì fuori; c’era lavoro per tutti i
componenti della famiglia; tantissimi genitori ebbero
l’incredibile ed inedita soddisfazione di mandare i figli all’università; e, finalmente, due soldi in tasca... Per milioni di italiani questo trapasso significò esodo, emigrazione dal Sud
verso il Nord, con una componente maggioritaria che passava
direttamente dalle campagne del Mezzogiorno alle grandi
città industriali del Settentrione: fu emancipazione e sradicamento assieme. Da noi, in quest’angolo di Romagna, le cose
andarono meglio. Non ci fu bisogno di esodi dolorosi. A portata di mano, scendendo verso il mare, o più semplicemente
cambiando mestiere, c’era qualcosa che ti permetteva di
approdare ad una vita diversa: il lavoro nel turismo.
E già, perché con quel benessere arrivò anche la voglia
e la possibilità di andare in vacanza, di viaggiare. Tutta
Europa – quella più avvantaggiata, logicamente – si mosse
alla ricerca di un sole e di un mare più caldi.
Inizia l’era moderna del turismo: un’era che aveva fatto
i suoi primi passi già fra le due guerre, quando il fenomeno
non era più di élite. Ed in questo secondo dopoguerra ad
essere privilegiate non sono più le vecchie località – “arse42
nico e vecchi merletti” – Baden-Baden, Deauville, Biarritz
o la Riviera Ligure... tutte località che non reggeranno
all’assalto di questa nuova e grandiosa ondata di turisti.
I risultati di questo successo? Nel solo comune di
Rimini, alla fine degli anni sessanta, per effetto di questa
“onda d’urto” si sfiora la quota dei 1600 esercizi alberghieri! Da Torre Pedrera a Miramare è un’esplosione di
piccolissimi, piccoli e medi alberghi (che possono anche
chiamarsi “pensioni” o “locande”); con stagioni turistiche
che iniziavano felicemente a maggio per terminare, a buon
ritmo, a fine settembre; con un aeroporto che durante il
1966 – un’annata record – vede arrivare 3.717 aerei che
sbarcano nella stagione più di 200.000 turisti stranieri!
Ma torno subito al mio noviziato, alla mia piccola testimonianza.
Mi ricordo il primo giorno in cui andai a lavorare in un
albergo, o meglio in una “pensione”. Tutti i ragazzi di
Rimini l’estate lavoravano nel turismo, con impegno e trepidazione: assomigliavamo a tanti “Carlo Rossmann”, il
protagonista dell’America di Kafka, sbalorditi di fronte ad
un mondo così nuovo e così intenso. Eravamo negli anni
Cinquanta, favolosi anche quelli: perché pieni di aspettative. L’albergo che mi aveva trovato mio padre era gestito
da una signora – una “ vera donna di Romagna”, tanto per
cambiare. E donne erano pure il personale alle camere,
quello in sala e in cucina. Attività intercambiabili, senza
una distinzione rigida di ruoli: quando “finivano le
camere” andavano ad aiutare in cucina. Io, invece, dovevo
lavorare al bureau, o meglio ad un piccolo banco posto
come ricevimento all’ingresso, e servire in tavola le bibite,
ma soprattutto il vino sangiovese o il trebbiano. In quel
primo giorno, finito il servizio – tutto molto frenetico ma
anche allegro, fatto di battute e sorrisi con i clienti – il personale si fermò a pranzare in cucina, come consuetudine.
Tutti insieme, con la signora-albergatrice a capotavola. Io
scambiai subito sguardi di simpatia con la giovane came43
riera, che veniva da Pennabilli. Le altre donne, parlando in
dialetto fra loro e con “la signora”, avevano colto al volo –
e spiritosamente – quell’interesse nascente. E non dimostravano né malizia, né ostilità.
Tutte lavoravano sodo durante la giornata, e qualcuna
aveva anche la forza la sera di andare a ballare, in giro. Nel
giardino davanti all’albergo i clienti italiani, tedeschi e
austriaci o inglesi, non avevano nulla in contrario a ridere e
a scherzare insieme (in fondo la guerra era finita da poco…
«ma quale guerra e guerra?»).
Dietro la cucina, nel piccolo cortile, capitava ogni tanto
di vedere un “barbone” – allora gli emarginati si chiamavano così – mangiare un piatto di lasagne. Era costume non
negare ai poveri di passaggio un piatto di pasta.
Io credo che in quegli anni “la gente di Romagna” abbia
dato il meglio di sé.
La maggioranza dei piccoli alberghi, delle “pensioncine”,
si trovavano a ridosso del viale principale – l’aristocratico
Viale Vespucci – e le stradine che li ospitavano presentavano
(e presentano tuttora, logicamente) una denominazione
legata all’epopea vittoriosa della prima guerra mondiale:
viale Trento, Trieste, Cormons, Pola… Come dire che tutto
aveva un suo prestigio, anche nella semplicità e nelle ristrettezze: in fondo gli alberghetti erano nuovi, puliti, lindi! E
solo dopo qualche anno si scoprì la loro inadeguatezza:
camere in prevalenza senza bagno, la carenza assoluta di sale
e di spazi comuni… All’epoca questi aspetti passavano in
second’ordine, come travolti da quella passione nel fare le
cose e nell’ospitare la gente che permeava tutto l’ambiente,
trascinato dai nostri nuovi operatori turistici. Il clima era
quello della festa continua. Esagero? Non credo.
Allora, ad esempio, le feste in albergo non erano programmate (e dovute), inserite rigidamente e obbligatoriamente nel “pacchetto”. Bastava lo spunto di qualcuno per
improvvisare, per trasformare la sala da pranzo in un piccolo locale da ballo; con il giradischi, naturalmente (i più
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Un successo certificato Walter Chiari
L’attore era di casa a Rimini fin dal dopoguerra, da quando si esibiva
alla Villa dei Pini a Viserba. Nella foto, il popolarissimo Walter Chiari
viene premiato durante la trasmissione televisiva “Mare contro mare”,
in diretta dal piazzale del Porto. Siamo a metà degli anni Sessanta e la
Riviera registra il massimo del consenso, nazionale ed internazionale.
Con lui ci sono Mario Pari, presidente dell’Ente Provinciale per il Turismo, e il sindaco Walter Ceccaroni, al centro, soddisfatto e sorridente.
(Da notare come l’attore ricevendo in dono medaglia e fiori restituisca
quest’ultimi, garbatamente, ma decisamente: da buon maschio latino,
nonché latin lover affermatissimo, curava con attenzione certi dettagli!)
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‘coraggiosi’ avevano preso l’abitudine di ballare anche di
pomeriggio!). Il tutto era molto informale. La vera eleganza
la si poteva trovare negli ambienti e nei locali di prima fila,
in quel Viale Vespucci ricco di caffè-concerti e di rinomati
dancing, di personaggi importanti e di abilissimi gestori.
Arrivarci a piedi, magari percorrendo i nostri vialetti, sembrava di salire sulla ribalta di una grandiosa rappresentazione. Lì si consumava un “rito” scintillante quanto difficile da definire, molto cosmopolita: sembrava di assistere
allo spettacolo di un mondo finalmente pacificato, in cui,
però, ognuno accettava di stare al proprio posto, di ricoprire, senza smaniare, il proprio ruolo, alto o basso che
fosse. Tutti contenti. In fondo ognuno di noi in pochi anni
aveva compiuto dei grandi passi in avanti. La passeggiata
terminava con l’ultimo locale, il “Sombrero”, un caffè-concerto tra i più prestigiosi, mai affollato, ma sempre frequentato da una borghesia – soprattutto nazionale – che, lì,
sfoggiava abiti luccicanti ed una compostezza ammirabile;
oltre la siepe, sul marciapiede, c’era ogni sera una piccola
folla di curiosi che, gelato in mano, assisteva (gratuitamente) agli spettacoli del locale: in silenzio e molto rispettosamente ammirava gli artisti ma, forse, ancor di più, i
mitici avventori del “Sombrero”. Il locale confinava con
l’area più riservata e solenne della Marina di Rimini: quella
del Grand Hotel e delle Palazzine Roma e Milano. Lì c’era
anche la sede della storica Azienda di Soggiorno, un ente
che governava le sorti del nostro turismo con uno stile da
piccolo ministero, in grado, però, all’occorrenza di trasformarsi in grande cerimoniere dell’estate riminese.
Questa età dell’oro incominciò a franare alla fine degli
anni sessanta. Il momento magico stava per finire: i turisti
stranieri volavano altrove; i nostri alberghetti non riuscirono ad aggiornarsi rapidamente; il degrado urbano iniziava ad imperversare (auto dappertutto!), la violenza
faceva capolino (crescerà progressivamente la droga, la
prostituzione e la malavita).
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Ma, poi, dopo decenni la città ce l’ha fatta ad uscire
dalla morsa del degrado, dando vita alla moderna Rimini
del turismo, con alberghi all’altezza delle grandi città,
aperti tutto l’anno. Domina su tutto un livello di professionalità impensabile quella volta, che in futuro sarà sospinto
ancor più avanti dalla nascente Università del Turismo. Di
quel passato memorabile sembra che non ci sia più nulla da
recuperare: cosa si dovrebbe rimpiangere? Le strutture inadeguate? L’impreparazione generalizzata o lo sfruttamento
dei lavoratori stagionali?
Se la politica si farà prendere la mano dal cinismo è logico
che “il passato” finirà tranquillamente, e per intero, nel bidone
della spazzatura. E accadrà, allora, sempre più frequentemente
quello che si è verificato – per la prima volta – nel 2001 quando
… il Mondo aveva chiesto a Rimini di organizzargli il congresso della FAO. Si trattava di ospitare e di lavorare alla realizzazione del momento più importante di questo organismo
dell’ONU, preposto ad arginare le carestia e la fame endemica
del nostra pianeta. Non se n’è fatto nulla, la situazione internazionale lo sconsigliava. Ma lo spettacolo offerto dalla nostra
città è stato deludente. Da più parti si sono levate voci nettamente contrarie alla realizzazione di questo evento. La sopravalutazione dei rischi (contestazioni no-global o incidenti vari)
aveva nettamente superato il vecchio spirito di ospitalità.
Ecco qualcosa che sicuramente non sarebbe successo nei lontani anni Cinquanta e Sessanta, quando un proletariato di città
e di campagna fu felice di trasferire tutta la propria voglia di
vivere, la propria antica sapienza, nel mestiere di ospitare e
servire gli altri.
Ed ora non si può non parlare di lui,
un parente difficile quanto straordinario
Di Federico Fellini, naturalmente. Grazie a lui, Rimini è
nel cuore di tutti. Però, è vero, Fellini a Rimini ci tornava
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poco. Tra l’altro, se c’è qualcuno che ha dimostrato quanto
sia difficile vivere dentro la propria città d’origine, questi è
proprio Federico Fellini. A diciannove anni infatti lasciò la
sua, la nostra Rimini, per sempre: conservando però per
tutta la vita il sottile rimpianto di non essere stato capace di
riallacciare rapporti stabili, tranquilli e continuativi con la
sua città. Come accade con certi parenti, per i quali conservi il rimorso di averne perduto i contatti, oltretutto
senza un chiaro motivo: pian piano ogni rapporto viene
annullato per colpa di una scelta che non ricordi di aver
fatto, ma che forse non hai potuto evitare.
Lui era sempre attento a dove metteva i piedi, non voleva
farsi incastrare in rapporti falsi, formali, stucchevoli, inadeguati. In più c’era la netta consapevolezza da parte dei riminesi
che l’uomo fosse di una intelligenza… sovrumana, in grado di
leggerti dentro, di sottoporti ai raggi X ogni volta che
l’avvicinavi. Di qui l’imbarazzo ad incontrarlo, a coinvolgerlo
nelle vicende cittadine. E pensare che Fellini amava le persone
semplici, i rapporti franchi, la gente del popolo! Quante occasioni perse, quindi. A volte lo si vedeva, appunto, in Viale
Vespucci, al Caffè delle Rose da Quarto, che gli era diventato
amico, come Elio dell’Embassy; oppure attento di fronte ad
un banco di libri, magari accompagnato da Giulietta Masina,
in una delle sue rare uscite dal Grand Hotel. Rispondeva ai
saluti, con calore. Ma poi finiva tutto lì. Come se la reciproca
timidezza fosse più forte della grande voglia di parlarsi, di
abbracciarsi. E come non abbracciarlo? In tutti i suoi film, dai
Vitelloni, alla Dolce vita, a Otto e mezzo, in tutti i suoi capolavori, c’è sempre la nostra città, magari nel confronto con
Roma, nel confronto tra i “due mondi”: quello della piccola e
composta Rimini e quello della permissiva, esuberante e decadente realtà romana. Per poi arrivare al 1973, quando Fellini
dirigerà un film che si presentava con un titolo, al suo esordio
quasi misterioso: Amarcord… Qualcuno, in Italia, pensò – per
assonanza – ad un luogo della Scandinavia… Si trattava invece
di una piccola frase (accorpata in un’unica parola) in dialetto
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romagnolo, che in italiano si traduce così: “io mi ricordo”. Un
film-capolavoro, dedicato esclusivamente a Rimini, alla sua
Rimini degli anni Trenta. Un omaggio straordinario alla città.
Federico Fellini con i suoi film ha offerto, inoltre, lo
spunto anche per suggerire nuovi percorsi nella sua città
d’origine: dal Grand Hotel al Palazzo Gambalunga (dove
ha frequentato il Ginnasio), dal Cinema Fulgor al Borgo
San Giuliano, dalla casa di Titta (l’amico d’infanzia, riproposto come protagonista di Amarcord) al Corso d’Augusto
nel cuore della vecchia città, al vasto lungomare… Rivedrete, attraverso queste passeggiate, il favoloso “mondo
riminese” che il grande regista ha ricostruito, sognato e
rimpianto negli studi di Cinecittà.
Il 1965, un anno trionfale per Rimini
Quando i riminesi sposavano entusiaste ragazze svedesi,
quando il sindaco Ceccaroni (trepidando non poco) faceva
approvare il primo piano regolatore e…
Ma com’era veramente Rimini in quel 1965? Un anno
che torna a galla grazie alla rievocazione di un episodio
ancora tutto da decifrare, e cruciale nella strana storia dei
rapporti speciali (dire “difficili” forse sarebbe troppo) esistenti tra Federico Fellini e la sua città natale.
Il 1965 è, appunto, l’anno in cui il grande regista aveva
finalmente promesso di concedersi ufficialmente alla città,
per essere, giustamente, “celebrato”: l’avrebbe fatto offrendo
l’anteprima del suo ultimo film, “Giulietta degli spiriti”,
all’interno di un Festival riminese dedicato interamente a lui.
La città, con in testa il Sindaco Ceccaroni, si era impegnata alla grande, ma il film invece di arrivare qui finì in un
altro Festival, quello ben più importante di Venezia. Su pressione del produttore Rizzoli? Forse sì, forse no. La vicenda è
complessa, come la personalità del grande regista.
Quello, però, fu ugualmente un anno straordinario per
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Rimini: la città aveva festeggiato, quell’estate, il trionfo
della sua ascesa nell’olimpo del turismo internazionale.
Sarà bene ricordare qualcosa della Rimini che “stravedeva” per la sua attività turistica, e sarà bene farlo soprattutto oggi, cioè in tempi in cui anche i sondaggi ci dicono
che i riminesi sono sempre meno tolleranti nei confronti
del fenomeno. Quindi ricordare le “stagioni felici” non è
soltanto un esercizio retorico o puro passatismo; ritornare
a descrivere la carica di ospitalità che la nostra collettività –
istituzioni, operatori, cittadini – sapeva esprimere e mettere
in campo – in altre ere – non è un esercizio vano o neoromantico: chi lo sostiene, magari facendo sfoggio anche di
cinismo, non può lamentarsi, poi, se la città è dominata dal
“gelo”. Allora proviamo succintamente a descriverla, quell’annata piena di primati, quella città presa da assalto da
ospiti stranieri e da clienti italiani. L’aeroporto di Miramare, nel 1965, batte ogni record: nei primi due mesi della
stagione registra l’arrivo di più di 1200 aerei, per un totale
di centomila passeggeri, senza tener conto di quelli “dirottati” su altri aeroporti (Pisa, Venezia e Forlì): sono turisti
che giungono a Rimini dalla Gran Bretagna, dalla Scandinavia, ma anche dal resto dell’Europa. Gli svedesi arriveranno, per la prima volta, quell’estate, anche con treni speciali, Stoccolma-Rimini. Ad attenderli, nel 1965, c’è una
città che offre manifestazioni e grandi festeggiamenti a
getto continuo, con l’Azienda di Soggiorno nei panni del
patron e del grande anfitrione: organizzava festival, concorsi ippici, sfilate delle auto più eleganti, gran galà della
stampa, concorsi internazionali, ricevimenti per le
hostess… Con questo non si vuol sostenere, stupidamente,
che il calendario degli eventi di quella volta fosse più ricco
di quello attuale. Il clima di collaborazione generale, il
calore e la “devozione” agli ospiti, erano, però, nettamente
superiori, quanto meno di sapore diverso. Nessuno storceva il naso (almeno apertamente) di fronte a quella pacifica invasione. Il Turismo era la nostra via riminese all’e50
mancipazione, la nostra scala dorata verso i cieli del benessere, la strada per appagare la nostra esterofilia, accostando
quel Mondo che, gentilmente, veniva a trovarci ogni estate.
Tanti nostri amici sposarono entusiaste ragazze svedesi;
tanti poterono mettere insieme due soldi per studiare e per
viaggiare in Europa. Il clima era festoso e prestigioso. Poi,
a partire dal 1967 e dal 1968, tutto cambiò (in bene e in
male, logicamente). Gli stranieri, con le loro agenzie di
viaggio e i loro “charter”, ci abbandonarono progressivamente. E noi, tra insipienza e appagamento, lasciammo
correre. Il Turismo riminese, però, divenne pian piano –
anche grazie a quella crisi, per reazione – qualcosa di più
moderno, di più professionale. Ma sempre meno in grado
di coinvolgere la collettività, com’era successo nell’epopea
precedente. Ci sarebbe voluta una Politica lungimirante e
di grande generosità, e progettualità, per riuscire a cucire
tutto l’insieme, puntando ad un modello di città in cui prevalesse il primato dell’ospitalità.
La Politica allora aveva in mente i “massimi sistemi”, e
pensava a ben altri modelli!
Incominciava, tra l’altro, a prestare ascolto, proprio nel
1965, a quanto avveniva nel delta del Mekong, dove impavidi guerriglieri, chiamati Vietcong, attaccavano di notte gli
occupanti americani.
La Politica si innamorò solo di cose forti (e pericolose).
Il suo cuore non batteva solo per il turismo.
Nulla, però, è ancora perduto del tutto.
Quando il capofamiglia portava la gonna
Sulla Riviera Romagnola, quella che va da Cattolica a Bellaria, vi sono, senza soluzione di continuità, quasi 3500 fra
alberghi, case per ferie e residence. La stragrande maggioranza di questi esercizi sono a “conduzione familiare”. Questo tipo di impresa ha saputo negli anni consolidarsi, pro51
sperare fino a diventare un modello di accoglienza e di ospitalità per l’intera nazione. Il cuore dell’impresa, anche se piccola, è la famiglia, e non solo perché tutti i suoi membri vi
lavorano, stabilmente o saltuariamente. Alla base vi è la storia, la filosofia della gente della costa romagnola. Solidarietà,
ospitalità, gusto della vita e tenacia nel lavoro. Non era una
famiglia patriarcale pura, quella che veniva dalle campagne
limitrofe e aveva già una consuetudine con la città. Ognuno
dei suoi membri aveva un ruolo, e se c’era gerarchia, questa
risiedeva nel rispetto e nella saggezza del più anziano. Un
ruolo importante, spesso decisivo, era riservato alla donna.
Grande lavoratrice, era lei che si alzava per prima e si coricava per ultima, ma non vi era decisione importante che non
venisse discussa e influenzata da lei. Nelle nostre campagne
non era raro che fosse proprio una donna quella che con più
polso conduceva la piccola azienda agricola. Questo tipo di
“imprenditrice” ha anche un nome, “Azdora”.
Albergatori d’estate, muratori d’inverno
Le famiglie che per prime hanno iniziato l’avventura del
turismo – trasformando la loro casa prima in locanda, poi in
pensione e alla fine in albergo – hanno lo stesso retaggio, la
stessa storia, le stesse origine della famiglia contadina delle
nostre campagne, anche se da qualche generazione si erano
trasferite in città e il marito faceva il ferroviere, l’impiegato
comunale o ancora l’ortolano. Il segreto del successo di centinaia e centinaia di piccole e piccolissime aziende alberghiere
è da ricercarsi indiscutibilmente nel lavoro familiare, nella
conduzione collettiva dell’impresa, ognuno con il suo ruolo e
competenza. Il guadagno estivo veniva impiegato d’inverno
per l’ammodernamento e l’ampliamento della pensione.
Albergatori d’estate, muratori d’inverno. Ben presto queste
famiglie imprenditrici si accorsero che quello che avevano
intrapreso non era qualcosa di momentaneo, un lavoro secon52
dario al solo scopo di aumentare il reddito familiare. Stavano
cambiando il modo di “far turismo” in Italia ed in Europa.
Storie al femminile
Spesso, quindi, nelle campagne di Romagna, erano le
donne che contrattavano gli acquisti o la vendita dei prodotti del podere. Non perché avessero preso il posto del
capo famiglia. Erano semplicemente, in molti casi, più
capaci. Questa figura di “imprenditrice”, di “azdora”,
energica e concreta, sapeva accudire i figli e nello stesso
tempo decidere, in materia economica, con prudenza e fermezza. Questa tradizione dalle piccole aziende agricole si è
trasferita, quasi in modo naturale, in quelle turistiche. Sono
molti oggi gli alberghi gestiti da donne. Ospitare la gente
era, all’inizio, un lavoro che completava il reddito familiare,
il marito per lo più faceva anche un altro lavoro. Era la
donna, perciò, che aveva in mano la situazione. Quando il
turismo è aumentato e le case trasformate in pensioni e
alberghi, la donna ha mantenuto lo stesso ruolo centrale.
I turisti in casa, i riminesi nella capanna
Il nostro amico Paolo Crescentini, abile nello scrivere e
nel ricordare anche le storie minori dei pionieri del turismo
balneare (ad esempio, quelli del subaffitto), ci ha consegnato un ritratto realistico di quegli anni e di una particolare azdora.
Molti decenni orsono, quando le risorse economiche della
maggioranza delle famiglie erano piuttosto scarse, e talvolta precarie se il reddito non proveniva da un lavoro
fisso, per i riminesi residenti lungo la fascia costiera un
valido ausilio stagionale era dato dal subaffitto estivo agli
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ospiti che venivano a Rimini per le vacanze, “i bagnènt”, e
si era fortunati se si rimediava gente in casa per un paio di
mesi, luglio ed agosto di norma, ed un po’ di giugno e settembre se andava meglio.
Fin dai primi tepori primaverili si lavorava di buona lena
per rendere la casa accogliente, pur nella modestia dei
suoi arredi, imbiancando i vani (taluni addirittura abbelliti con la picchiettatura della tinta sopra uno stampo
traforato), riverniciando porte e finestre, sistemando il
fazzoletto di terra con pretese flori-orticole e poi si cominciava a sospirare attendendo l’arrivo dei bagnanti. C’era
chi passava parola ai fiaccheristi della stazione, promettendo una mancia per ogni bagnante condotto a casa, chi
si affidava ai mediatori, scaltri operatori ciclomontati con
molletta nell’orlo dei pantaloni per non sfilacciarli nella
catena, e poi si stava ad orecchie tese, accorrendo sulla
porta non appena si avvertiva lo zoccolio di un cavallo da
carrozza. Grande la gioia per chi “bollava” e grosso il
magone per chi restava a bocca asciutta!
DORMENDO IN COMPAGNIA DI FAMILIARI E CIPOLLE
Meno gioiose, anche se preventivate, le quotidiane conseguenze per la famiglia che aveva “bollato”, perché quasi
tutte le casine subaffittate erano carenti di vani ed arredamento (una o due camere, cucina, saletta, se c’era, ed un
piccolo luogo di decenza), che la famiglia doveva lasciare
immediatamente traslocando tla capana (uno stambugio
con pareti di mattoni, sovrapposti a curtlèda, e tetto in
eternit ondulato), solitamente usata come ripostiglio della
legna, biciclette, sedie spagliate, per le filze dei pomodori,
le sorbe, le mele, le reste dell’aglio e della cipolla, qualche
attrezzo ed altre cianfrusaglie; gli scarti non erano grassi in
quei tempi e per gettare via qualcosa bisognava proprio
che non servisse a niente! Nella capanna si teneva in serbo
qualche branda pieghevole, per occupare meno posto, che
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La capitale dell'estate italiana
C'è stato un periodo, fra quelli recenti, in cui l'Italia sembrava vivere
serena: eravamo agli inizi degli anni Sessanta (non si aveva sentore della
tormenta che avvolgerà la nazione a partire dal decennio successivo). E
la nostra spiaggia, nella foto di Davide Minghini, rifletteva in pieno quel
clima di vaghe aspettative.
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con rigidi materassi ad créina – i buoni erano lasciati agli
ospiti – costituiva un giaciglio alla meno peggio. Per cuocere i cibi un furnèl a carbone di legna, esterno alla
capanna, sotto la pergola di un paio di nodose viti, fungeva da punto di cottura ed un tavolo malfermo riuniva la
famiglia nell’ora di pranzo e cena. Col tempo buono tutto
funzionava bene; i guai cominciavano se pioveva, perché
non si poteva più utilizzare lo scoperto. Si doveva quindi
cucinare dentro la capanna, sempre con e furnèl, in una
fumara indescrivibile, e poi apparecchiare una branda per
posare i piatti e farne sedile collettivo.
Il problema più complicato era quello riguardante il servizio igienico di fortuna, non sempre disponibile nell’orticello di casa, ed era avvantaggiato chi, per contiguità con
gli orti, i fossi od i canneti, aveva a tiro un angolino dove
appartarsi all’occorrenza. Certo non erano poche né semplici le difficoltà di ogni giorno, ma riporre sotto la pila dei
lenzuoli alcuni fogli da 50 e 100 lire, coi quali affrontare
meglio gli imprevisti dell’inverno, dava una forza che superava ogni ostacolo. Il momento del rientro a casa era particolarmente festoso, celebrato con pentole e tegami traboccanti cibo fuori ordinanza; completavano la parcèda un
paio di filoni di ciambella da inzuppare a fette nel vino!
Molti dei pionieri del “turismo fatto in casa” hanno poi
compiuto un salto di qualità, facendo anche pensione
completa per i furiscér e successivamente, con montagne
di cambiali e tanto lavoro, hanno riscattato la casina della
quale erano affittuari, l’hanno allargata, sopraelevata, dilatata, dando avvio alla ospitalità a gestione famigliare a cui
ha arriso grande successo fino a pochi anni orsono.
Oggi pare che questo modello non vada più bene e sicuramente avranno ragione gli specialisti delle nuove scienze di
mercato (con nomi difficili che finiscono tutti in... ing!) a
suggerire strutture e tecniche ospitaliere più evolute. A me
piace però ricordare i pionieri “ruspanti”, non solo per il
coraggio dimostrato, l’intraprendenza e le sudate giornate,
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ma perché con loro, anche se non avevano studiato ad Harvard e non sapevano niente di marketing, il rapporto umano
con gli ospiti aveva un calore ed una spontaneità non avvertibili in una asettica hall, con cristalli fumé, maître in marsina
e camerieri pinguiniformi!
Tante le storie di quei tempi: ne ricorderò una raccontatami dall’amico Guglielmo.
ALBERGATORI MADE IN CASTLAZA
La storia di Guglielmo è ambientata in via Ducale, tla
Castlaza, dove è nato e dove vive, rione di tipi ameni e
burle feroci. Sapendo che una vicina di casa, moglie di un
fiaccherista, smaniava dalla voglia di subaffittare, assieme
ad un amico vetturale congegnò una bella burla. Per non
farsi riconoscere indossò gli abiti paterni, un cappellaccio
sugli occhi, un paio d’occhiali scuri e si mise due mezze
susine in bocca per gonfiare le guance; con la carrozza si
fece condurre fino alla porta della brava donna, facendola
avvertire dal complice che disotto c’era un signore interessato ad affittare la stanza per un mese. La poveretta
lanciò un urlo di gioia alla notizia e poi pregò “il signore”
di salire per vedere il vano. Guglielmo, con valigione
appesantite da mezzi mattoni, salì di sopra e dopo avere
guardato con simulato interesse la disadorna stanza,
espresse il suo gradimento e, lasciando la valigia a conferma, disse che sarebbe tornato nel pomeriggio per occuparla e pagare in anticipo l’affitto pattuito. Poi con sussiego discese le scale e salì in una carrozza che partì al piccolo trotto. La brava donna, che non stava più nei panni
dalla gioia, rassettò la stanza che credeva affittata, cambiò
la biancheria, mise l’acqua fresca nella brocca del lavabo
ed allestì un giaciglio, alla meno peggio, per sé ed il
marito, tla camera dl’erba (stanzino del foraggio), adiacente alla stalla dove il marito teneva il cavallo. Quando il
brav’uomo rientrò per il pranzo fu perentoriamente infor-
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mato dall’arzdora che la stanza da letto era affittata per un
mese e che loro, in quel periodo, avrebbero dormito sul
fieno! A nulla valsero le proteste del marito – checché ne
dicano gli uomini, le arzdore nostrane hanno sempre
deciso loro ogni cosa – e solo a sera avanzata gli autori
della burla, smesso il travestimento, fecero balenare il
dubbio che l’affitto fosse stato uno scherzo che, purtroppo, trovò conferma nel rinvenimento di mezzi mattoni nella valigia lasciata in garanzia! La poveretta quasi
svenne per la delusione e rimase senza parole per un paio
di giorni! E non fu dolore da poco se fu capace di ammutolire una autentica popolana dla Castlaza!
La politica in bassa Romagna
Ma se dovessi, infine, raccontare un episodio – uno soltanto – che ci rappresenta compiutamente, sul versante del
lavoro e della politica, non avrei dubbi…
C’è un piccolo fatto che riguarda la nostra Romagna e
risale agli “infuocati” anni Settanta: può essere emblematico del modo di vivere e delle peculiarità della regione. Il
famoso Dario Fo – attore ed autore di un teatro eminentemente politico – era solito trascorrere le vacanze sulla
costa, a Cesenatico (come fa tuttora). Le sue posizioni ideologiche – collocabili all’estrema sinistra – facevano di lui, in
quegli anni, un punto di riferimento: non c’era lotta, occupazione, movimento che non richiedesse la sua presenza
come uomo di spettacolo, come intellettuale che potesse
dar lustro e in qualche modo avvallare tante iniziative, tutte
di sapore libertario ed anticapitalista...
Neanche le vacanze o il diritto a qualche giorno di ferie,
allora, consentivano di anteporre il riposo alla politica...
quindi tranquillamente qualcuno andò a trovare Dario Fo,
nel suo alloggio estivo a Cesenatico, per invitarlo a tenere
uno spettacolo, di lì a qualche giorno, in un paese dell’en58
troterra: l’attore non avrebbe potuto rifiutarsi, si trattava di
sostenere una lotta operaia, di celebrare uno dei suoi spettacoli in una fabbrica in crisi occupata dai lavoratori,
appunto, in lotta.
Fo, generosamente, disse subito di sì. Lo spettacolo si
tenne, all’aperto, nel piazzale della fabbrica dove i lavoratori e le maestranze avevano dato vita ad una grande festa.
Fu una bella, calda e calorosa serata d’estate.
Ci fu solo un piccolo particolare, che non corrispondeva
a quanto frettolosamente era stato prospettato all’attore: la
fabbrica in crisi non era stata occupata ma, bensì... acquistata dai lavoratori! E per realizzare questa operazione era
stata costituita, proprio in quei giorni, una cooperativa.
L’ideologia quella sera non aveva trionfato (la lotta di
classe aveva ceduto il passo a qualcosa di molto più ragionevole), in compenso, tutto fu straordinariamente piacevole: la
convivialità dei commensali, la concretezza e la competenza
emersa nei discorsi dei lavoratori e dei dirigenti, la bontà dei
cibi cotti al momento, il sorriso e l’accoglienza riservata agli
ospiti tra quelle tavolate all’aria aperta...
Naturalmente tutti ringraziarono Dario Fo, anche se –
al posto di quel recital dedicato alla rivoluzione culturale
cinese – avrebbero preferito ascoltare (e ballare) i valzer
dell’orchestra Casadei…
Un piccolo episodio che ci rinvia a tante altre situazioni
di questa Romagna in cui l’iniziativa privata presenta spiccate caratteristiche sociali, una regione laboriosa e civile
allo stesso tempo...
Questa Romagna poco ideologica ma molto pragmatica
ha più cose da dire di quanto non si pensi, oggi più di ieri.
Conclusioni
Caro Giovannino Montanari, è domenica sera e solo ora
trovo il tempo per completare questa riflessione sulla nostra
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vicenda turistica, sulla nostra storia. Su dove stiamo andando
e su chi siamo diventati…
Quando sento parlare di identità, di valori, di tipicità…
a volte sarei tentato di chiedere – a chi fa uso di questi termini, per lo più in maniera retorica, ma non è spero il
nostro caso – a cosa alludano concretamente: “cosa vi
preme veramente conservare, di cosa vi preoccupate realmente, quale città vorreste?”
È chiaro come il sole – venendo a noi – che Rimini era,
che Rimini fu… e che non saremmo riusciti – neanche
volendo, in nessun caso – ad arrestarne la profonda trasformazione sociale ed economica, comprensiva – appunto
– del nostro status sociale…
Veniamo al sodo. Noi non eravamo, noi non siamo stati
in grado, neppure in versione più aggiornata, di ricoprire il
ruolo svolto dai nostri genitori, dai nostri nonni… diventati,
così come siamo, supponenti, con “la puzza sotto il naso”,
non più in grado di essere umili, accoglienti e “serventi”
gestori di bar, pizzerie o piccoli alberghi. Ma neppure semplici cittadini gentili e sorridenti. Né abbiamo più il diritto di
piangere sul “latte versato”, perché non abbiamo fatto abbastanza – sul piano politico – per salvare il salvabile…
Per spiegarmi meglio, ti racconto solo una piccola
vicenda (spero inerente). Come sai, frequento il Borgo San
Giuliano da decenni, quasi come un appassionato e devoto
spettatore. Tra le varie trasformazioni – non tutte negative,
anzi – subite da quell’ambiente ce n’è una che mi torna in
mente ogni tanto: riguarda l’Osteria del Ponte, che si trovava lungo il canale, all’estremo limite del Borgo, ai confini
col Ponte dei Mille, appunto.
Era una grande osteria, e trattoria insieme, meta a tutte
le ore di operai, ex-rivoluzionari, artisti e giocatori di
bocce… infatti, proprio a bordo fiume, aveva un magnifico
campo di bocce immerso nel verde dei tigli e degli ippocastani. Un mondo caldo e affettuoso, dove tutti potevano
sentirsi a proprio agio. Perfino i più recenti lavori di siste60
mazione del Marecchia avevano rispettato quell’ambiente,
creando un “sette” che potesse ospitare, come in un balcone, quel secolare gioco di bocce.
Poi un bel giorno, negli anni Ottanta… tutto svanì nel
nulla, e di lì a poco sorse in quel locale un ristorante cinese.
E al posto del campo di bocce i nuovi gestori ricavarono un
piccolo parcheggio. Con tutta la simpatia che possiamo – e
dovremmo – avere per gli immigrati (e per la loro capacità
di rivitalizzare la nostra asfittica economia imprenditoriale), non dobbiamo nascondere la delusione per la scomparsa di quel “monumento”. Sì, perché a pensarci bene,
quello era un “monumento di vita”… di una vita, però, che
non esiste più. Non esistono più gli operai, non esiste più il
popolo (di bevitori e non), non esistono più (fortunatamente) i rivoluzionari che predicavano al popolo, non esistono più gli osti e i banconisti (quanto meno quelli di
nazionalità italiana).
La vicenda finisce qui. Morale: a pensarci bene, non
sarebbe stato giusto o realistico fare una battaglia – che
bello, però, se ci fosse stata – per conservare in vita quello
che era svanito per sempre e completamente…
Volevo dirti, caro Giovannino, che se tutto è cambiato
profondamente, alle radici, dobbiamo prenderne atto fino
in fondo, soprattutto nel nostro Turismo.
Se ci sono sempre meno riminesi e romagnoli disposti a
gestire l’accoglienza, a lavorare sodo, a piegarsi, ad “umiliarsi”, a rischiare, è arrivato il momento di parlarne apertamente, evitando di lasciare il tema, il problema, al marketing turistico soltanto.
Il successo travolgente del nostro Turismo (quello, soprattutto, targato anni ’50 e anni ’60) era legato a due aspetti, in
particolare: alla capacità di sacrificio posseduta dalle generazioni che ci hanno preceduto e alla simpatia umana
(spontanea e necessaria, allo stesso tempo) che sapevano
emanare e trasmettere agli ospiti.
Vorrei dirti che la vera eredità di quell’epoca, quella che
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non sappiamo più spendere perché non sappiamo più riconoscere… la vera eredità che quelle generazioni ci hanno
lasciato consiste in qualcosa che ora rischia di apparire
“misterioso”. L’eredità più significativa non è costituita da
quel migliaio di alberghi (un patrimonio, beninteso, unico
e straordinario!), di cui ora rischiamo di non trovare più
chi voglia gestirli, ma bensì dalla testimonianza… collettiva. O, meglio, dal ricordo di quello che eravamo. Eravamo capaci di mescolare la nostra vita con quella degli
altri, di andargli incontro fiduciosi e curiosi, di considerare
gli ospiti – indistintamente – portatori, non solo di denaro,
ma di chissà quali messaggi interessanti innovativi e affascinanti. L’incontro con gli altri, con questi visitatori era
un’esperienza abbagliante, gratificante. C’era in quegli anni
smaglianti una fiducia nel mondo (ricordi Kennedy, Krusciov, Giovanni XXIII, Martin Luther King?) che noi avevamo declinato a nostro modo: ospitando il mondo, con un
sorriso aperto, irresistibile.
Caro Giovannino, non ti sto parlando di fermare la
macchina del tempo o, addirittura, di tornare indietro
(come qualche cinico potrebbe subito sentenziare…): sto
parlando di una politica per il futuro; sto parlando di dare
uno scopo al nostro futuro, di ritornare coscientemente a
quella vocazione – cittadina – smarrita per strada e che
neppure quella volta – negli anni del boom – riuscimmo ad
intendere fino in fondo. Una Rimini che nel suo insieme,
nella sua totalità, punta a diventare un modello di ospitalità, nelle cose e nei modi fare. Bella quanto gentile. Il
mondo può aver bisogno della nostra offerta di vacanze…
ma ha ancor più necessità – drammatica necessità – di
esempi di amichevole e cordiale convivenza, ovvero di una
città, di una riviera che sappia coniugare l’industria del
tempo libero con la festosa accoglienza rivolta ad ogni visitatore, ricco o povero che sia.
Finisco col ricordarti ciò che mi disse un agente di viaggio
cagliaritano (anche lui appartenente alla terza età), incontrato
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in Fiera durante la prima edizione del TTG, parlando della
nostra città e, sicuramente, dei suoi ricordi:
«Dovete tener presente che Rimini è nel cuore di tutti
gli italiani!».
Chissà – poi mi sono chiesto – se Rimini, quella Rimini
così calorosa, è ancora nel cuore di tutti i riminesi.
I nostri concittadini devono chiederselo, ma soprattutto
dovrebbero tornare a riscoprire quella vocazione che ci
procurò tanto affetto… e tanti ospiti.
La politica, quella vera, è fatta di coraggio e di umanità.
Nel nostro caso la questione non è neppure tanto impegnativa: basta riaffermare con chiarezza e decisione che al
centro del nostro destino cittadino e collettivo c’è la cultura
e l’economia dell’accoglienza (e che i soldi si guadagnano
con le imprese turistiche e non con la speculazione immobiliare).
Se il Turismo, da grande vocazione cittadina qual era,
dovesse diventare un segmento economico come tanti altri
non ci rimarrebbe che assistere, giorno dopo giorno, al suo
progressivo logoramento. O mi sbaglio?
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La svolta
di Tiziano Arlotti
Quella sera del 1967 la mamma era più nervosa del solito.
Avevo capito da come stava tirando le piadine sul tagliere e
dal vigore che imprimeva al matterello (e’ s-ciadùr) che il
ritardo del babbo la preoccupava.
Di solito, quando c’era brutto tempo, il vecchio Aermacchi spesso si bloccava perché la pioggia bagnava le candele e
probabilmente anche quella sera aveva fatto le bizze.
L’Aermacchi era il primo motore che il babbo aveva
comprato alla fine degli anni ’50. Prima al lavoro andava in
bicicletta: 15 chilometri di mattina presto e altrettanti di
ritorno a sera, dopo una giornata di duro lavoro come
manovale nei cantieri edili che costruivano in prevalenza
alberghi o ampliamenti di abitazioni di privati che poi
diventavano pensioncine.
Se al mattino discendeva dalle coste di Sgrigna verso la
marina di Rimini con una certa facilità, al ritorno doveva
inerpicarsi fino a San Paolo.
Ma alle fatiche era avvezzo, così come alle levatacce a
notte fonda, quando – da mezzadro – attaccava l’aratro ai
buoi per arare il terreno del misero podere. Di quella vita si
era stancato e, grazie allo zio Armando che gli trovò quel lavoretto a Rimini, finalmente potè iniziare il riscatto per sé e per la
sua famigliola che già aveva tre pargoli.
A mia mamma Vina, che fin da bambina faticava nel
fiume Marecchia col nonno Aurelio a caricare la ghiaia col
cavallo e col biroccio, venne in eredità la casetta dei nonni
col suo fazzoletto di terra annesso.
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Di lì a qualche anno nacqui io, quartogenito: era il 1959,
babbo Luigi aveva 37 anni e la mamma 35.
Mamma Vina era una autentica arzdora (reggitrice della
casa). Accudiva tutti noi, preparava da mangiare, lavava,
stirava, badava alle galline e ai conigli, preparava la broda
al maiale, zappava, piantava ceci, fagioli per l’inverno...
insomma un trattore!
«Va a fè l’erba mi cunej», «va e tò la legna», «spaza l’èra»...
(vai a fare l’erba ai conigli, va a prendere la legna, spazza
l’aia...) erano gli ordini che ci impartiva quotidianamente,
come quando d’estate di buonora svegliava me e Giovannino
per andare a spigare. Sbuffavamo, ma alla fine obbedivamo.
Anche quella sera, spazientita, mi aveva ordinato di
andare a prendere la legna da ardere per la stufa, distogliendomi dal mio hobby preferito: quello di tenere i piedi
sullo sportello aperto del forno.
Il rombo dell’Aermacchi l’acquietò.
Il babbo entrò in casa, si sedette vicino alla stufa per
riscaldarsi e poi , sfregandosi le mani sbottò: «Ho vandù la
chesa!» (Ho venduto la casa!).
La mamma abbozzò un sorriso, ma quando il babbo
ribadì che aveva venduto la casa, il tono della discussione si
fece più serrato: «L’an è mega la tu!» (Non è mica la tua!).
Cenammo in fretta e ci avviammo a nanna. Corrado e
Rino nella loro cameretta al piano terra e io e Giovannino
nel nostro lettone di fianco alla stanza di mamma e babbo
al primo piano.
Tutte le sere sentivamo mamma e babbo, a letto, parlare
di noi, del lavoro, del campo, dei vicini...
Quella sera la conversazione fu più lunga del previsto e
mi addormentai solamente quando sentii che il tono si fece
più disteso.
Il babbo raccontò che aveva venduto la casa per acquistare un terreno a S. Ermete. Era un lotto un piano come una
tavola, si sarebbe potuto costruire una casetta tutta nuova e
coltivare fragole e pomodori che erano molto richiesti.
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Saremmo stati più vicini alla città, dove lui e i miei fratelli
lavoravano, e alla sera, il sabato, la domenica mattina,
avremmo lavorato l’orto. La mamma ribatteva che sarebbe
stato un salto nel buio, che i soldi non sarebbero bastati e ci
saremmo indebitati troppo, che io ero ancora piccolo, che
avremmo rischiato di finire in mezzo a una strada...
Il babbo rilanciava sostenendo che avremmo fatto una
bella casa con due appartamenti (così Corrado avrebbe
potuto sposarsi), con la cantina, con una bella scala di
marmo, che le fondamenta le avremmo fatte da soli, che
Corrado e Giovannino – che erano idraulici – avrebbero
fatto gli impianti, che l’impresa edile dove lavorava gli
avrebbe fatto il grezzo con pagamenti agevolati, che i pavimenti li avrebbe fatti il suo amico Squadrani...
Fu convincente e, qualche giorno dopo, con la mamma
si recò dal notaio per concludere l’affare.
Iniziammo i lavori come da programma, con gli amici
Cinoun e Sivroin che con vanga e badile aiutavano a scavare
le fondamenta.
Non vedevo l’ora che arrivasse il sabato per andare al
lavoro col babbo e coi miei fratelli e sentivo l’orgoglio di
essere partecipe di quel grande progetto che avrebbe dato
una migliore prospettiva a tutta la famiglia.
Tutte le sere drizzavo le orecchie per ascoltare i discorsi
di babbo e mamma che commentavano l’andamento dei
lavori, pianificavano i pagamenti, la scadenza delle cambiali. A volte erano preoccupati e io mi rabbuiavo, ma il
babbo era sempre rassicurante.
Mi spiaceva lasciare gli amici della pluriclasse di San
Paolo, ma non vedevo l’ora di poter andare ad abitare a S.
Ermete, nella nostra casa nuova!
Il nostro ’68
Quando tornava, alla sera, dopo la lunga giornata di
67
lavoro, cenavamo in fretta e il babbo, prima di coricarsi,
accendeva la radio per ascoltare gli ultimi notiziari.
Le stazioni radio più gettonate erano Radio Praga e
Radio Capodistria.
I notiziari non mancavano mai di dare ampio risalto alla
guerra in Vietnam, ai fatti di politica mondiale con le inevitabili tensioni fra USA e URSS.
Quei resoconti gli servivano per stare aggiornato e poi
commentare coi compagni con colorite espressioni prevalentemente rivolte a quei “delinquenti” di guerrafondai
americani, ai fascisti sempre duri a morire e a quella manica
di “culi gialli” che governava l’Italia.
Eravamo alla fine del ’67 e mio padre non mancava di
partecipare agli appuntamenti più importanti.
Uno di questi gli venne preannunciato dal caro amico
Gasparaun, il quale, una sera, bussò alla porta di casa per invitarlo al comizio che il compagno Sindaco di Rimini Walter
Ceccaroni avrebbe tenuto sullo spiazzo esterno alla scuola di
San Paolo.
Il resoconto della serata lo origliai la mattina successiva,
quando una anziana del posto (la Marcéla) si precipitò a
casa per lagnarsi con la mamma del comportamento del
babbo che durante la serata avrebbe urlato più volte
“guerra” (agli americani ovviamente) e che, essendo padre
di quattro creature, avrebbe dovuto essere più prudente.
San Paolo era un paese di case sparse e luoghi di ritrovo
non ce n’erano, per cui la barbieria di Quinto, ricavata da
una vecchia cabina di legno comprata da un amico bagnino,
rappresentava il luogo ideale per scambiare quattro chiacchiere che inevitabilmente toccavano la politica.
Una di quelle domeniche mattine, ero sotto le grinfie di
Quinto quando la radiolina dette notizia di una incursione
di aerei americani che avevano fatto numerose vittime
civili: partì un moccolo e una sforbiciata che mi fece portare per alcune settimane un vistoso scalino sul coppetto.
L’orecchio fu salvo, ma presi un bello spavento!
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Dalla collina alla pianura
Al fermento politico di quel momento, che sarebbe poi
sfociato nelle contestazioni del ’68, in casa Arlotti si
aggiungeva la costruzione della nuova casa a S. Ermete.
Quando la domenica pomeriggio col babbo andavo da
Rinaldi, a pochi passi da casa, per vederlo giocare a bocce,
mi ricordo che gli amici lo sfottevano dandogli del “capitalista”, ma in fondo gli volevano bene e ci ridevano sopra
con una bevuta.
I lavori procedevano celermente fino a quando, nel settembre ’69, furono ultimati.
Il trasloco venne fatto con l’Ape di mio zio Aldino e per
le botti e il tino si provvide con un trattore.
Il primo ottobre iniziai la quinta elementare nella scuola
di S. Ermete: fu un trauma perché, provenendo da una pluriclasse, ero molto indietro. Quando la maestra mi chiamava per correggere i compiti mi dovevo sorbire continue
umiliazioni e il quaderno volava in fondo all’aula.
Furono mesi terribili e ogni mattina avevo il terrore di
andare a scuola.
Mi arrabattai e fui promosso con una stringata sufficienza. In primavera, oltre a studiare, davo una mano nel
campo, così come in estate.
Approssimandosi la conclusione dell’anno scolastico,
nel maggio 1972 il babbo mi comunicò che aveva trovato
un lavoretto estivo per me giù al mare. Dovevo fare il garzone in una pasticceria.
Ero contento come una Pasqua perché finalmente mi
sentivo grande. Pensavo che avrei potuto guadagnare i soldi
e aiutare la famiglia a pagare i debiti, che avrei visto il mare
da vicino, che sarei sfuggito ai continui richiami della
mamma...
Tutte le mattine il babbo mi svegliava alle 6.30 e mi caricava sulla Vespa per portarmi in pasticceria; alle 18 passava
a prendermi per rincasare.
69
Mi tolsi la voglia di bomboloni, pesche e diplomatici,
ma ricordo l’insopportabile caldo che i forni emanavano e
lo “spellamento” dei polpastrelli dovuto alle bollenti molle
che dovevo togliere alla sfoglia dei cannoli appena sfornati.
L’estate successiva il babbo mi portò a lavorare in una
pescheria così avrei patito di meno il caldo.
Dormivo in un garage e il babbo mi portava a casa il
sabato, ma trovai una famiglia che mi trattò molto bene e
poi, coi soldi delle mance, la sera potevo permettermi di
andare al Luna Park di Via Pascoli.
In pescheria fui notato da una corpulenta signora, la
Livia, che mi prenotò come cameriere nella sua pensioncina per la stagione successiva.
Era la terza “stagione” al mare e le 150.000 lire che portai
a casa fecero felici tutti, ma fu anche l’ultima col babbo vivo.
Un tragico volo da una armatura ce lo portò via a 52 anni
nel febbraio del ’75. La mamma fece in tempo a fargli vedere
l’ultima cambiale pagata. Un anziano del paese ricordò un
antico detto: Nid fat e gaza morta (Nido fatto e gazza morta).
Quel giorno terminò la mia breve adolescenza.
L’estate al mare
Ero al secondo anno di scuola superiore, deciso a completare gli studi. Tramite mio cugino Agostino, trovai un lavoro
estivo al centralissimo Hotel Atlantico di Marina Centro.
Iniziai a fare qualche servizio come barista a fine aprile,
alternando scuola e lavoro, e ultimai la stagione ai primi di
ottobre, a lezioni già iniziate.
Alla prima busta paga della mia vita, rischiai di svenire:
avevo preso 160.000 lire, più del totale dell’anno precedente!
Le mance abbondavano e le utilizzavo per lo spillatico
(sigarette, abbigliamento, discoteca....); insomma, si lavorava
tanto, ma ci si divertiva altrettanto poiché le turiste arrivavano a frotte, con regolari avvicendamenti bisettimanali.
70
Un altro grande mito del paleoturismo: la Miss!
Qui siamo al Garden Ceschi, prestigioso locale notturno di Viserba,
night che chiuse i battenti nel ’79. Il mondo dei locali notturni è cambiato: allora non c'erano art-director di discoteche, public relations e
tanto sfoggio di professionalità… in compenso però! [Foto Angelini,
Viserba]
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Ad ogni cambio c’era una frenetica attività per abbordare con tempestività.
Chi tardi arriva, male alloggia usava dire Pietro da Perticara, il portiere di notte, per ricordarci che se volevamo
“battere chiodo” dovevamo “menare” per primi altrimenti
alla prima uscita serale ci avrebbero pensato gli esterni,
cioè i “vitelloni” di cui più avanti vi racconterò.
Lavorando nel baretto interno avevo però il vantaggio
di giocare di “ritorno”.
Quando una turista rientrava presto, significava che col
tipo con cui era uscita non era andata a buon fine.
Questo era il momento in cui il “ritornista” entrava in
azione. Se la tipa si avvicinava al banco la cosa era più facile
e offrirle un drink era un buon argomento per attaccare
bottone: uno, sveglio e presentabile, poteva far breccia, e
allora Pietro sentenziava «cl’ ust-ciacia e prumèt bein!».
Diceva cioè che tutto sommato prometteva bene.
Quando la serata era “fiacca”, era il momento in cui gli
“anziani” mi spiegavano le tecniche di “imbarco”, la loro
filosofia sul rapporto coi turisti in generale e con le turiste in
particolare, distillando pillole di saggezza accumulate in tanti
anni.
Ma la raccomandazione che mi facevano era che più eri
disinvolto e sapevi “raccontarle”, maggiore erano le possibilità di fare breccia. Però aggiungevano subito che «e’
busèrd l’ha d’avè una bona memoria», ovvero che per raccontare bugie occorreva avere una buona memoria, altrimenti si faceva la figura del pataca! Comunque, concordavano tutti sul fatto che quando si è in vacanza cadono le inibizioni e che le ragazze nordiche in generale erano più emancipate delle “nostrane” («l’in fa tent pugneti!», non fanno
tante storie... sanno che bisogna andare al sodo) anche se in
fatto di arte amatoria erano molto inferiori alle italiane, mentre le francesi erano in assoluto le migliori.
Infine, non mancavano mai di evidenziare che «se non
ci fossero stati “i birri”, col cazzo che il turismo balneare
72
avrebbe avuto un futuro così roseo per la nostra economia».
E per sottolineare questo aspetto fondamentale, ricordavano sempre la storia di quel birro di S. Lorenzo a Monte che
fu pedinato e “tanato” dalla moglie mentre era con una
turista. Indignato, la affrontò a brutto muso, rinfacciandole
che lui stava contribuendo allo sviluppo del turismo! In
compenso si prese un carico di botte dal cognato e fu uno
dei primi casi di divorzio nel riminese, ma nonostante questi dettagli era ancora sulla “piazza”.
I “vitelloni” di campagna, ovvero “i birri”
Giunti a questo punto, non posso esimermi dal soffermarmi sulla mitica figura del “birro”.
Il “vitellone” in salsa riminese, in dialetto si chiama e’
bér (il birro). E’ bér è il montone, il maschio delle pecore
che agisce in maniera pressoché analoga al gallo.
Sicuramente è stato così definito perché questo tipo di
“conquistatore” di solito bada più alla quantità che alla qualità. Per il birro “l’imbarco” è una sorta di missione a cui si
dedica con impegno, un modo per esprimere la sua personalità, per affermarsi in termini di prestigio, sul gruppo, nel bar.
Infatti il birro – salvo rarissime eccezioni – non vede l’ora
di “farsi” una donna per raccontarlo agli amici, e per vantarsene. L’esatto contrario del Don Giovanni, dell’amante gentiluomo. Il birro, con le sue avventure, si riscatta socialmente, si sente il padrone del mondo.
Raramente celibe, il punto di appoggio del birro era il bar
del paese. Da lì partivano i suoi raid o le sue scorribande, con
destinazione i locali della riviera (Garden Ceschi di Viserba,
La Casina del Bosco, La Lanterna, La Capannina di San Giuliano, il Las Vegas, il Confidential...).
La tipologia del birro è molto vasta, perché si va dal birro
sposato a quello celibe, da quello “specializzato” su specifici
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filoni (tedesche, svedesi, bolognesi, milanesi, piemontesi..) a
quello più incline ai “generi” (magre, tardone...): insomma,
è difficile tracciare un profilo unico del birro.
Tuttavia, alcuni di questi birri ho avuto modo di incontrarli e di vederli in azione, e mi fanno venire in mente
alcuni aneddoti.
Bobby Solo,, che gli anziani del bar chiamavano e’ sulitèri (il
solitario) era il birro che agiva senza “spalla” perché sosteneva
che «i sturni in brenc in ingrasa» (gli storni in branco non
ingrassano) per cui meno si era e meglio si “imbarcava”. Dal
carattere ombroso, anche nel bar parlava per monosillabi e
raramente diceva dove “batteva”. L’ho incontrato alcune volte
all’Embassy. Appollaiato sullo sgabello del bar, bicchiere di
whisky con ghiaccio (così durava di più) nella mano destra e
Marlboro in quella sinistra (nei giorni feriali fumava le Nazionali senza filtro), Ray-Ban scuri (quelli col “mirino” per intenderci), occhio attento ad ogni piccolo movimento, e orecchie
dritte in attesa che si abbassassero le luci e partisse “il lento”.
Era quello il momento topico: Bobby partiva a razzo, diretto
verso le più avvenenti e, se queste non accettavano l’invito,
senza battere ciglio si dirigeva altrove, fino ad arrivare, dopo
ripetuti dinieghi, allo scachèr (donna bruttoccia).
Come diceva Gusto, al bar, era di “bocca buona”, ovvero
non guardava tanto per il sottile. Contrariamente agli altri
birri, era poco vanitoso, ma gli piaceva portarsi addosso
quell’alone di mistero che lo rendeva originale.
Mimì, l’ho conosciuto l’estate che ho lavorato, come barista, al caffè-concerto Sombrero di Marina Centro (tanto per
intenderci il locale in cui si esibì anche Silvio Berlusconi).
Lavorava in un ente statale e alla sera “arrotondava” facendo
il cameriere. Cinquantenne meridionale col baffo da sparviero, Mimì si era specializzato sulle tardone fra i 60-70 anni.
Per questo motivo lo avevamo soprannominato INPS, perché
dava la caccia alle pensionate. Lui si difendeva sostenendo
che così non c’era il rischio di ingravidarle, e noi, per sfotterlo,
ogni tanto gli regalavamo un tubetto di vaselina. Una sera
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Mimì, fra una portata e l’altra, si “lavorò” contemporaneamente due tardone su tavoli distinti. Verso l’una, concluso lo
spettacolo, Mimì si cambiò e si avviò verso l’uscita. Udendo
urla e ingiurie provenire dal marciapiede, ci precipitammo
fuori mentre una di queste “giovincelle” lo stava picchiando
col bastone (proprio quello che usano i nonnini!) dandogli
dell’imbroglione. Se ne andò claudicante, apostrofando
quella “puttana” di una rubacuori che, inebetita, non sapeva
più che pesci prendere. Anche in quell’occasione Mimì dette
il meglio di sè. Spiegò alla “attendente” che la “zuoppa” era
matta e che lo stava pedinando da tempo. Si voltò verso noi,
per approvazione, che confermammo rincarando la dose.
Contribuimmo a salvargli la serata e di questo ci fu grato.
Il fagiano (E’ fasèn) era un altro di quei birri che non
andava tanto per il sottile. Sposato, tutte le sere, verso le venti,
usciva di casa in pantaloncini corti, infradito e canottiera
per “andare al bar”. L’abbigliamento non destava sospetti,
ma Il fagiano, nel baule della sua Fiat 128 rally di terza mano,
aveva già pronta la camicetta bianca coi becchi lunghi, i pantaloni neri e le scarpe. In un attimo era già pronto per fiondarsi nella bolgia della riviera. Lo vidi all’opera perché, con la
scusa che mi conosceva, aveva fatto dell’Hotel Atlantico il suo
punto d’appoggio. Infatti, al massimo entro mezzanotte
doveva rincasare, per cui aveva tempi molto stretti per agire.
La bevuta era scroccata, con la scusa di conoscermi si piazzava
al bar e io lo coprivo. Avevamo concordato che di mestiere
faceva il rappresentante e tutte le mattine doveva alzarsi prestissimo per recarsi a Milano, Firenze... Il sabato pomeriggio
lo dedicava alle escursioni a Gradara o San Marino e così a
fine stagione la sua ventina di avventure le aveva messe in carniere. Per compensarmi, l’inverno, visto che non avevo ancora
la patente, mi scariolava in macchina per discoteche.
Il birro di campagna era abbastanza distinguibile da
quelli di città, dall’abbigliamento, dai modi spicci, dalla tecnica di “imbarco”, dal linguaggio e dalla scarsissima conoscenza delle lingue, tanto che si barcamenava ruotando
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attorno a pochissime parole. Ricordo ancora quella sera che
Guido (detto E’ cobra perché era micidiale negli approcci) di
fronte ad una inglese che gli dava del Casanova, rispose che
stava in una house vecchia, ma graziosa, che si poteva vedere
da San Marino. Visto che l’inglesina rimase interdetta, la
caricò sulla Vespa e la portò a “vedere”.
Salvo qualche rara eccezione – come Il fagiano – , i birri
sposati o fidanzati erano più portati a buttarsi sulle italiane,
con particolare preferenza per le lombarde o le piemontesi
sposate. Il perché era abbastanza ovvio.
Infatti erano molte le turiste con prole che venivano al
mare perché “faceva bene ai bambini”, mentre i mariti
lavoravano nelle grandi fabbriche. Questi arrivavano col
treno del venerdì sera (fu soprannominato “il treno dei
becchi”) e se ne ripartivano con quello della domenica sera.
La tempistica era ideale per tutti: il birro il sabato e la
domenica stava con la famigliola, la turista si curava il
marito e durante la settimana riprendeva “la cura”.
Così vivevano contenti e felici!
Il bar
La socialità e i momenti di aggregazione in periferia
sono vissuti in modo differente dalla città, perché i luoghi
di incontro sono pochi: l’oratorio della chiesa, il campetto
da calcio, la scuola elementare, l’osteria, il bar.
La mia generazione, ma anche quelli che avevano una
decina di anni in più, avevano fatto del circolo Acli il loro
primo punto di appoggio. Probabilmente perché a pochi
passi, oltre alla chiesa e all’oratorio, c’era il campo da calcio, ma anche perché era un luogo frequentato dai più giovani rispetto all’osteria di Casale.
Inoltre, l’ampio spiazzo esterno al circolo permetteva di
stare anche di fuori nei periodi in cui il clima lo permetteva.
L’Acli era aperto tutte le sere e tutte le domeniche, salvo
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Cosa volevamo di più?
Fred Buscaglione, con il suo gruppo, si esibiva – per l'intera stagione –
all'Embassy, mentre Silvio Berlusconi cantava al Sombrero, dove oggi
sorge il Caffè delle Rose.
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nell’orario delle SS. Messe, quando il barista Minghin prendeva per le orecchie i più recalcitranti prima di abbassare
la serranda. Stavamo bene, ma quando venne ristrutturata
l’osteria di Casale e fu impiantato un bar aperto tutti i
giorni, sciamammo come le api.
Ebbe così inizio l’avventura del Bar Casale, di cui ho già
ampiamente scritto, che aveva la caratteristica di essere un bar
in cui convivevano più generazioni senza problemi, dove
l’appartenenza politica all’allora partito comunista era sentita
e forte, ma ampio spazio avevano il gioco delle carte, le discussioni di sport (calcio e ciclismo su tutti) , i motori e... le donne.
Era nel bar che i birri avevano la loro base.
Lì raccontavano le loro avventure, da lì partivano per
andare “a figa”, lì si faceva a gara a chi ne imbarcava di più,
e sempre lì venivano “vendute” avventure con sbugiardamenti e arrabbiature epiche.
Tanto che a un certo punto Ivo pensò bene di organizzare il “Torneo dei Birri”.
Una iniziativa che partì quasi per scherzo e che fece il
giro del mondo!
Il Festival del birro
Un personaggio originalissimo, eccentrico ed eclettico
che è sempre stato l’anima, il centro propulsivo del Bar
Casale è senza dubbio Ivo Mattioli. Dotato di carisma e di
autorevolezza, Ivo aveva fatto dell’ironia, dello stare
insieme una ragione di vita. Rappresentava l’anello di congiunzione fra le varie generazioni che animavano il Bar
Casale.
Con Ivo fondammo il club dei Baracuch Fans: Baracuch
era un personaggio immaginario che sapeva tutto di tutti
e le sue massime erano autentiche pillole di sapere che
dovevano essere distillate con parsimonia per non esaurirle.
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In particolare, quando si giocava a biliardo, la massima
era che la pala longa l’an è mai curta (la palla lunga non è
mai corta) e poi che era meglio soli che fai per tre. Cicchetti
si spingeva oltre, fino ad affermare che lo aveva conosciuto
di persona e che aveva barba lunga e capelli che arrivavano
all’ombelico e che era uno che la sapeva lunga.
La cosa durò per una invernata ed una primavera poi
ebbero inizio le discussioni fra “vecchi” e “giovani” dove i
primi rimproveravano ai secondi di “flanellare” invece di
andare al mare ad “imbarcare” le turiste.
A quel punto Ivo, fra il serio e il faceto, pensò bene di
organizzare il “Festival del birro”, per far vedere una volta
per tutte che anche i giovani sapevano calcare le orme di
chi aveva assiduamente frequentato le balere e la spiaggia
per cacciare le ambite prede di cui si sarebbe poi pavoneggiato con gli amici al bar.
Si approntò un tabellone dove vennero iscritti i dieci
partecipanti rigorosamente elencati con nome di battaglia,
perché altrimenti si sarebbe troncata qualche relazione collaudata o sfasciata qualche famiglia.
La parte più difficile della gara fu nel dare i punteggi
per ogni conquista: quale “preda” era giusto premiare di
più e quale da penalizzare? Come metodo si scelse di affibbiare punteggi in base all’esperienza maturata sul campo
anche dai più anziani e dopo ampie e rumorose discussioni,
durate alcune settimane, fu stilata la seguente graduatoria.
Straniere:
– per ogni tedesca, austriaca e svizzera punti 1,5;
– per le nordiche in generale quali finlandesi, svedesi...
punti 2,5;
– per una rumena, polacca, bulgara, ceca e ungherese
punti 4,5 (la motivazione di un punteggio così alto era
data dal fatto che erano rarissime le turiste di queste
nazionalità visto che ancora non era caduto il muro di
Berlino);
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– per una russa punti 5,5 (ovviamente erano ancora più
rare delle altre);
– per una francese 7,5 punti (sono le migliori ed inarrivabili per classe e arte amatoria);
– per una inglese veniva appioppato un malus con sottrazione di 6 punti (la motivazione addotta era sintetizzata
dalla battuta l’è cumè andè a tò e pen me forni, è come
andare a prendere il pane al forno); però se l’inglesina
dimostrava di essere simpatizzante per i laburisti si attribuiva mezzo punto e non si affibbiava il malus dei 6
punti, premiando così il forte senso di appartenenza
ideologica;
– per le restanti extracomunitarie veniva abbonato un
buono pizza per due persone alla pizzeria Il Gobbo.
Italiane:
– per una bresciana, comasca o bergamasca veniva conteggiato un malus di un punto, anche se la decisione ebbe
qualche problema nella fase conclusiva perché c’era qualcuno che aveva un buon filone consolidato nel tempo e
così pensava di fare il furbo partendo avvantaggiato nella
gara;
– trentine e bolzanine 2 punti, perché era raro imbattersi
in quanto quelle lande sono poco abitate;
– per una romana 5 punti, perché ritenuta difficile e altezzosa in quanto proveniente dalla capitale;
– per napoletane e pugliesi 4 punti, perché ritenute
romantiche e passionali oltre che calienti;
– sarde e siciliane 6 punti perché l’imbarco richiedeva più
tempo, ma Bulletti garantiva che una volta conquistate
uiè da sbiuntes da quant che li bol! (c’è da ustionarsi da
quanto sono calienti!);
– una bolognese o una reggiana contava la bellezza di 9
punti, in quanto portatrice di una esperienza del tutto
particolare e difficilmente riscontrabile su altre donne
(personalmente ho sempre ritenuto fosse il modo per
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vendicarsi degli emiliani che non vogliono concedere
l’autonomia alla Romagna);
– le locali residenti nella provincia di Forlì, Ravenna o
nella Repubblica di San Marino 3 punti perché abbastanza difficili (motivazione di Livela: «agliè trop tachedi
ma chesa e a la longa li po cumbinè di casoin se l’it rintracia» (abitano troppo vicine a casa e alla lunga, se ti
rintracciano, possono combinare dei casini), ma pur
sempre imbarcabili nell’arco dei dodici mesi;
– un ulteriore malus era previsto per le infermiere, parrucchiere e segretarie dei notai con una penalizzazione
di 5 punti, mentre per le baby sitter e le commesse la
penalizzazione era di 2 punti;
– un solo “bonus” di 3,5 punti era previsto per le mogli di
artigiani, perché la loro conquista era ritenuta particolarmente difficile e ambita. Infatti si trattava di donne
fortemente in apprensione, causa i frequenti rischi di
insolvenza dei rispettivi consorti, quindi meno inclini a
fantasie erotiche perché afflitte da ben altri pensieri.
Ogni sera che si iniziava la discussione lo spettacolo al
Bar Casale era garantito!
Parteciparono al primo torneo: Ramarro, Lince, Falco,
Farfallino, Cardellino, Zucchino, Leprotto, Squalo, Zingaro,
Formica.
Il torneo fu vinto dallo Squalo che aveva collezionato
nove conquiste, mentre il Ramarro si segnalò per essere
rimasto al palo senza aver fatto una conquista: disse che era
stata una stagione particolarmente sfortunata e che l’anno
successivo si sarebbe maggiormente impegnato! E’ spudarèd (Lo spudorato) commentò che sarebbe stato meglio
iscriverlo ad un torneo di “pugnette”: avrebbe vinto a mani
basse! Il ruolo più delicato per la riuscita del torneo l’aveva
la giuria. Ad essa spettava con giudizio insindacabile verificare la veridicità delle prove addotte a sostegno delle conquiste dichiarate.
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Si pensò così di far presiedere la giuria ad Ivo, affiancandogli Zani, che era un po’ il nerbo di ogni iniziativa che
veniva promossa da Ivo, e la barista Giovanna, perché
poteva controllare con maggiore certezza la veridicità della
conquista visto che le “prede” dovevano possibilmente
essere portate al Bar Casale. Ulteriori pezze giustificative
potevano essere le ricevute dei motel, qualche indumento
intimo…, mentre in situazioni ingarbugliate si procedeva
interrogando la stessa ragazza!
Per nove anni, dal 1984, a fine stagione veniva organizzata la festa dove si procedeva alla premiazione dei vincitori. Questi, accompagnati con auto e scorta, venivano fatti
salire sul palco incappucciati e, appena ricevuto il premio,
ripartivano facendo disperdere le tracce. Ogni anno veniva
anche consegnato un premio ad honorem ad un anziano del
paese per rendere ancora più divertente la serata.
L’apoteosi si ebbe nel 1992. Alba Parietti, che conduceva su Rai Tre il programma La piscina, fece arrivare a
Casale le troupe della Rai. Piombarono nel ghetto di Casale
5-6 grossi automezzi muniti di antenne paraboliche con un
seguito di circa 30 operatori per permettere la diretta televisiva.
Quella sera tutto il paese era in piazza e le vie Casale e
Martella furono interdette al traffico. Si narra che anche il
compassato gatto di Tobia, che da circa 10 anni presidiava la
porta di casa, calò nella piazzetta per godersi lo spettacolo.
Dopo la trasmissione, Casale fece il giro mediatico e
giornalisti e cameraman di tutto il mondo piombarono
come mosche per intervistare Ivo e gli avventori del bar.
Ad Ivo venne la sudarella solamente quando dovette
spiegare alle TV inglesi perché una conquista anglosassone
comportava un malus, ma anche le polemiche, che numerose
femministe scatenarono, finirono col far cessare l’esperienza
del “Torneo del birro”.
Ci provarono altri ma, come è noto, le copie sono sempre peggiori dell’originale!
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Il gallismo di borgata,
tra anni Cinquanta e Settanta
di Mario Pasquinelli
Adesso che tutto è passato, possiamo parlarne liberamente: smitizzando la leggenda del gallismo romagnolo. E
ci riferiamo alla fase precedente a quella interpretata dai
personaggi alla Zanza, eroi della stagione imperniata sulle
discoteche. Noi invece raccontiamo episodi legati all’era
pionieristica del cosiddetto gallismo, segnata dalla presenza
del bagnino e dall’ambiente di spiaggia. Già, perché allora,
nell’epoca dei soldi contati, quasi tutto si svolgeva sull’arenile, di giorno e di notte, dove la vita splendente era alla
portata anche dei proletari. Non per niente stiamo attraversando, con i ricordi, l’Italia dei poveri ma belli… Fu, a
quei tempi, e soprattutto a Rimini, un fenomeno che
potremmo definire di massa (se non altro per la sua visibilità), quasi da esportazione; sul quale si è anche giocata una
certa promozione turistica. L’identità riminese si confondeva con questa celebrazione del machismo da spiaggia.
C’erano, logicamente, anche le voci fuori dal coro… chi
non ricorda i personaggi ricreati da Fellini, e da lui immortalati, a partire dal prototipo interpretato da Franco Fabrizi
nei Vitelloni? Il grande regista irride, nel suo capolavoro
degli anni Cinquanta, alla vacuità e all’infantilismo del gallismo nostrano (riminese, diremmo).
Il gallismo, ora, si dice sia sostanzialmente finito: una
gioventù (maschile, logicamente) molto più equilibrata e
tranquilla – non più in competizione sfrenata nella conquista dei cuori femminili – ha preso il posto di quegli assatanati maschietti, sempre all’arrembaggio…
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Ma negli anni Cinquanta e Sessanta le “conquiste” rappresentavano anche una sorta di promozione sociale, sempre da ostentare: come tante medaglie sul petto! E spesso,
al lato meschino di certe vicende, si associavano aspetti di
umorismo e ridicolaggine. A volte di fronte a certi episodi
non si sapeva più se ridere o piangere… Il fenomeno raggiungeva la sua iperbole d’estate, quando a far le spese di
tanto gallismo erano, soprattutto, le ragazze straniere: più
ingenue, più aperte e più emancipate rispetto alle giovani
romagnole di quei tempi.
Si tramandano episodi e vicende che hanno dell’incredibile. Si racconta che negli anni ’60 gli alberghi, che ospitavano
comitive di ragazze nordiche (le mitiche svedesi!), fossero
prese d’assalto da torme di giovani “birri” locali, provenienti
anche dal contado. Per alcuni alberghi, che il tam tam di allora
indicava come specializzati nell’accoglienza di comitive di giovani straniere, si trattava di veri e propri assedi, in corrispondenza dell’arrivo delle “prede”. Il primo giorno era quello
decisivo. I giochi si decidevano proprio in quella serata,
quando le ragazze – solitamente dopo cena (la prima del loro
soggiorno) – uscivano a frotte, allegre e pronte a trascorrere
una divertente serata nel favoloso mondo della notte riminese:
inconsapevoli delle attese e delle aspettative spasmodiche
delle quali erano oggetto. Logicamente, ai giovani “cacciatori”
riminesi era precluso l’ingresso negli hotel. Dovevano stazionare fuori, sulla strada, attendere nella penombra. Quella
volta però erano in troppi intorno a quell’albergo di viale Tripoli. Una ressa. Quasi paurosa. Anche quelle ragazze, abituate
a girare il mondo, erano preoccupate. C’era un clima di tensione. Nulla di festoso… A quel punto l’albergatore chiese
l’intervento della Polizia per rompere l’accerchiamento.
Il gallismo nostrano aveva toccato il fondo.
Anche il Borgo a modo suo aveva contribuito a quella
grande epopea, arricchendola con suoi personaggi più popolari e creativi, e con spaccati di vita più vicini ai film di Totò
che a quelli di Fellini (Vitelloni in testa).
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In prima fila, sulla battigia
Gli episodi si sprecano, e alcuni fra questi fanno capo
ad Otello (limitiamoci, per correttezza, a mascherarlo sotto
falso nome – uno stratagemma che useremo per tutti gli
altri protagonisti dei nostri racconti… voi ci comprenderete!) e ai suoi parenti.
Otello per le sue conquiste faceva leva su due fattori: la
sua posizione geopolitica di marinaio di salvataggio in
spiaggia e la sua naturale simpatia; e puntava più su quest’ultima che sull’avvenenza fisica (era piccolo, paffutello e
con un leggero strabismo); però, bastava guardarlo per
capire che il suo calore umano e il suo umorismo erano
irresistibili; uomo semplice e modesto poteva attirare la
benevolenza di chiunque, soprattutto delle ragazze e delle
donne, che di lui si fidavano ciecamente, a prima vista. Chi
invece non si fidava – e questo era il grande handicap del
nostro Otello – era la moglie: donna energica e di buona
presenza, abituata a lavorare stagionalmente negli alberghi,
dalla mattina alla sera, dai quali tornava a casa stanca
morta, andandosene subito a letto. Otello ne approfittava
per rientrare tardi anche lui. Non che lavorasse! Anzi, in
quelle ore serali lui raccoglieva i frutti di tutte le pubbliche
relazioni svolte di giorno sotto il sole. Poi rincasava: la
moglie dormiva, e lui a luci spente si toglieva le scarpe e,
pian piano, silenziosamente, s’infilava nel letto. Se per caso
la sua compagna si svegliava, e da arrabbiata gli chiedeva:
«È questa l’ora di rientrare?!».
Otello aveva sempre la risposta pronta e, con fare disinvolto, replicava: «Ma se sono già a letto da due ore!!».
Otello continuava, comunque, imperterrito nelle sue
serate: poteva rinunciare a quella compagnia così piacevole
e disponibile? In quel piccolo bar di Rivabella, quasi sulla
spiaggia, era sempre lui a tenere banco; anche certe signore
tedesche o francesi ridevano a crepapelle, magari senza
capire granché delle sue battute in quell’italiano misto a
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dialetto del Borgo: bastava la mimica di Otello a riempire
con poco quelle ore indimenticabili!
In una di quelle notti, come al solito, rientrando, si era
tolto le scarpe e procedeva a piedi nudi, al buio: non aveva
però calcolato che la moglie aveva preparato la sua vendetta spargendo sul pavimento delle foglie di cactus, piene
di spine. Otello urlò e saltò come se avesse messo i piedi su
delle mine, inciampando e rovesciando tutto quello che
incontrava, nell’oscurità di quella notte infernale. Ci vollero ben due giorni per togliergli tutte le spine dai piedi!
Ma la punizione non fu sufficiente. Otello continuò a
fare il gallo della checca, sfidando la cattiva sorte. Non
poteva cambiare la sua vita, così ricca – su quel versante –
di gratificazioni e successi. Ed è proprio in una di quelle
serate, nel solito bar sulla spiaggia di Rivabella, che ci trovammo, nella sua cerchia, ad assistere ad una scena… che
ora ci piace ricordare.
Mentre, come al solito, Otello raccontava, ad un pubblico
(in gran parte femminile) estasiato, l’ennesima storiella, alle
sue spalle sopraggiunse, inaspettata, la moglie. Era arrivata di
corsa, in bicicletta e dopo averla scaraventata a terra, senza
alcun riguardo, aveva percorso gli ultimi metri sulla spiaggia,
come un felino, arrivando alle spalle di Otello senza farsi
notare. Appena gli fu addosso, sempre da dietro, lo colpì
appieno con uno schiaffo; e rivolgendosi alla compagnia femminile, seduta intorno al marito, cominciò a gridare: «E
vuielti andé a chesa! Dai vost marid! Broti puteni!» (E voialtre
andate a casa! Dai vostri mariti! Brutte puttane!).
Sull’allegra compagnia scese un silenzio penoso.
Per fortuna la moglie di Otello se ne andò via subito,
non senza, però, lanciare un’ultima minaccia al marito: «E,
poi, il resto te lo do a casa!» (questa volta, per farsi capire
da tutti, usò l’italiano).
A non perdere il buonumore ci fu solo Otello che, guardando negli occhi tutti i suoi convenuti e sorridendo, sentenziò subito: «Ragazzi, che grinta la mia moglie!».
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Anche in questo caso la realtà imitava i film di Fellini.
Nello Sceicco bianco Alberto Sordi sulla spiaggia di Fregene
riceve un’analoga visita inaspettata, e poca gradita, da parte
della moglie, mentre faceva lo sdolcinato con un’ingenua
ammiratrice e lettrice dei fotoromanzi da lui interpretati. A
favore di Otello, però, bisogna dire che la sua reazione fu
meno vigliacca! Infatti, Sordi, nei panni del vitellone infingardo, per discolparsi accusò decisamente la povera
ragazza…
Figli d’arte
Uno come Otello poteva avere dei concorrenti… solo
tra i fratelli, che come lui avevano nel sangue qualcosa di
speciale: erano attratti fatalmente dal gentil sesso, nei confronti del quale risultavano particolarmente divertenti e
socievoli.
Il fratello più piccolo, Antonio, benché dimostrasse la
stessa predisposizione, era ancora troppo “ragazzo” per
farsi strada da solo: doveva, necessariamente, usare Otello
come esca…
Frequentava, quindi, il fratello soprattutto di giorno, in
spiaggia, dove Otello svolgeva l’attività di salvataggio,
attorniato – anche lì – da simpatiche presenze femminili.
In una di quelle occasioni Otello gli presentò una signora
che, pur piacente, poteva considerarsi largamente attempata rispetto al nostro giovane eroe.
Il fratellino non smentì, anche quella volta, le doti familiari e tentò subito l’approccio. Non snobbando la preda,
anzi, tentando subito di “stringere” e di ottenere un appuntamento per la serata.
Antonio fu particolarmente insistente (uno degli insegnamenti del fratello era quello di non demordere mai).
La signora, piacente, gentile ed arguta, allora, cercò di
smarcarsi con un sorriso ed un consiglio quasi amichevoli:
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«Ascolta, sei giovane, ci sono tante belle ragazze in giro…
io non sono adatta per te! C’è troppa differenza d’età…».
Antonio per istinto non si arrese e, senza troppo tergiversare, cercò di parare il colpo con un’immagine ad
effetto: «… Ma, signora, sa come mi chiamano gli amici?
Lo spazzino dell’Adriatico!! Perché raccolgo su tutto
quello che capita…».
Antonio con la sua battuta pronta – che si rifaceva alla
filosofia del “basta che respiri” – pensava di aver fatto
breccia sulla “preda”; e non si spiegò come mai la signora
scuotendo la testa se ne fosse subito andata via…
Ma anche Antonio una volta dovette rassegnarsi a
lasciare il campo: fu quando il fratello lo chiamò a supporto
di una avventura galante. Successe che Otello aveva conosciuto in spiaggia – tanto per cambiare – due giovane
ragazze italiane, di bello aspetto e di buona cultura. Prendendo appuntamento per la sera, al solito bar, si presentò
con il sostegno del fratello Antonio, a cui aveva raccomandato – data l’occasione e il livello – di tenere un comportamento adeguato: cercando di darsi, almeno per quella
volta, un’aria un po’ più da intellettuale.
L’inizio risultò un po’ stentato, e allora Antonio per
rimediare – per alzare le sue quotazioni – s’inventò lì per lì
– senza tanto rifletterci – i suoi studi in medicina all’Università di Bologna. Combinazione volle che le ragazze fossero residenti proprio in quella città e, colmo della sfortuna, che frequentassero quella facoltà. Felicemente sorprese gli chiesero quali fossero i suoi professori e quali
esami avesse già superato. Inizialmente fece ricorso alla sua
faccia tosta e alla sua fantasia e s’inventò un cognome – tra
quelli molto diffusi – che secondo lui poteva rientrare nella
rosa dei docenti: «Il professor Rossi…».
Ma il gioco durò pochissimo, perché quando si passò a
parlare di specializzazioni, il nostro andò in confusione
totale. E, di fronte allo stupore e al disappunto delle
ragazze, non gli rimase che affrontare una vergognosa e
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subitanea ritirata. Le due giovani bolognesi non avevano
accettato di soprassedere alla mancanza di dignità di un
approccio del genere.
Anche in quella occasione la Riviera dei birri aveva
dimostrato di non saper nemmeno imbastire delle banali
bugie.
Le avventure di un giovane antico
Pure il borghigiano Valerio sapeva il fatto suo, anche se
era incappato in una storia di fidanzamento lunga e tribolata: doveva sposare una ragazza di Viserba, ma a pochi
giorni dal matrimonio tutto saltò in aria. Per incomprensioni familiari. Ma anche per lo zampino degli amici che –
pur di divertirsi – non badavano a spese!
Federico, Orlando ed altri compagni del Borgo, avendo
saputo che dietro quel tribolato fidanzamento c’era una
diatriba fra parenti riguardante un certo terreno… si portarono sul posto – a Viserba – con tutta la strumentazione
necessaria ad un geometra per la valutazione di un terreno
(picchetti, metri, carte…). Il loro scopo, reso soprattutto
evidente ai parenti della fidanzata, era quello di definire
cosa fosse spettato in dote all’amico Valerio. Lo scherzo
non piacque ai parenti della futura sposa. E così il fidanzamento, già traballante, naufragò completamente.
Valerio, a quel punto, si arrese al ruolo di giovane-antico;
e si mise, più di prima, a saltare la cavallina… comprando un
noleggio di mosconi (ovvero una licenza per l’affitto ad ore
dei pattini, sulla spiaggia); un’attività meno impegnativa e
meno redditizia di quella del bagnino che gestisce un intero
stabilimento balneare; spesso chi faceva il mosconaio cercava
di unire l’utile al dilettevole… in fondo, era in prima fila, sulla
battigia, a farsi bello di fronte all’universo femminile. Non
potevano vivere tutto l’anno di quel lavoro: o erano pensionati, oppure avevano anche una seconda attività invernale.
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Per quasi trent’anni fu un frequentatore assiduo di dancing (d’estate) e di balere (d’inverno), di Rimini e Riccione,
soprattutto. A lungo andare, però, l’interesse per quella
vita andava affievolendosi, e una sera Valerio, tornando dal
ballo, ce l’aveva scritto in faccia che le cose non erano
andate bene. E per noi, un po’ sadicamente, era il momento
di incalzarlo, di chiedergli i dettagli di una sconfitta… ben
evidente.
«Allora, Valerio, com’è andata?».
«Sta zitto va là, c’era una tristezza infinita, che se a
miteva in tuletta la mi ma’ i sla slampeva!» (che se vestivo a
festa la mia mamma, se la litigavano!)… e la sua mamma
all’epoca aveva più di ottant’anni.
E sempre per completare il quadro della serata, sicuramente depressa, con uno scenario femminile improntato
alla profonda amarezza, Valerio ci fornì un’ulteriore definizione: «A gli aveva e solc dla lacrima sla ganasa!» (avevano
il solco della lacrima sulla guancia!).
Valerio con due parole aveva tratteggiato gli umori delle
frequentatrici della sala da ballo, affollata, in quella sera
invernale, da divorziate, da separate e da vedove.
Stendiamo invece un velo pietoso su cosa pensasse, poi, il
pubblico femminile di questi improvvisati e attempati latin
lover!
Quella volta, Valerio, aveva avuto come partner, come
compagni di avventure, altri due borghigiani, Tino e Giovanni. Ma anche per loro la “caccia” era stata infruttuosa e
dispersiva. «Pensa, Tino l’à balé sa una cla pareva un murador!» (pensa, Tino ha ballato con una che sembrava un
muratore!).
«E Giovanni?», incalziamo noi.
«Stava ballando un lento e a so dovù andé a svigel perché
u s’era indurmanté!» (sono dovuto andare a svegliarlo perché mentre ballava si era addormentato!).
La misura era colma. Non tutte le serate saranno andate
così, ma la vita del birro di borgata – come si può ben
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I pionieri dell'epopea di spiaggia
Anni Cinquanta sulla spiaggia di Rimini. Lei – moglie di un ex marinaio, nei panni della “mosconaia” – interpreta alla perfezione il travaso di quel periodo, in cui i lavoratori del mare (naviganti e pescatori) diventano, quasi tutti, operatori di spiaggia (bagnini, marinai di
salvataggio, “mosconai”, “cutteristi”, “chioschisti”…). Anche il giovane, al suo fianco, rappresenta un passaggio quasi obbligato per i
ragazzi e studenti riminesi di quegli anni: d'estate si doveva andare a
lavorare… e cosa c’era di meglio delle piccole attività di spiaggia.
L'arenile era un palcoscenico ambito per successi frivoli e cosmopoliti; si trattava, in fondo, di unire l'utile al dilettevole!
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capire – non era tutta rose e fiori. E ci voleva una discreta
determinazione per interpretare quel ruolo…
E così, trent’anni dopo la rottura del suo fidanzamento,
il nostro Valerio venne a sapere da un amico di Viserba, che
la sua ex fidanzata era ancora libera.
Scattò, allora, in lui la decisione di ripresentarsi. Valerio, bisogna conoscerlo, è fatto così. E pur con qualche
chilo in più e con qualche capello in meno (parecchi), andò
a bussare alla porta della sua ex ragazza e, come se fosse la
cosa più naturale del mondo e il tempo non fosse passato,
si presentò con un bel «Ciao, sono io!».
«E allora?», rispose lei, quasi inebetita.
«Io ci avrei ripensato. Perché non riprendiamo il nostro
rapporto?».
Non ci credereste: di lì a poco si sposarono. E vissero –
anzi vivono – felici e contenti.
Qualche episodio però verremmo raccontarlo, sulla base
dei suoi ricordi, legati al peregrinare affannoso fra dancing e
balere, nel periodo precedente al matrimonio.
Valerio, poi, oltre ad essere un buon narratore è munito
di molta auto-ironia: non è il classico birro da bar che non
ammette mai una sconfitta.
La prima testimonianza riguarda una delle sue ultime
conquiste di spiaggia, che aveva come oggetto una signora
svizzera che aveva invitato, dopo svariati convenevoli… nel
capanno del compiacente amico bagnino. Accadeva anche
questo, di sera, in un’epoca in cui di soldi ce n’erano pochi:
era necessario ingegnarsi per trovare un riparo dagli sguardi
indiscreti.
Quindi i primi approcci avvennero al buio, all’interno
di quel capanno ricolmo di attrezzi, lettini, salvagenti,
ombrelloni, ruote per trascinare i mosconi… C’era naturalmente poco spazio. Lei parlava poco l’italiano, lui niente il
tedesco. Cercarono di arrangiarsi a gesti.
Spostasti più in là…, abbassati…, piccole e grandi manovre per individuare una sistemazione agevole e… adeguata.
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Le nottate, da noi, si sa, sono un po’ umide. E così la
compagna, durante uno di quei movimenti un po’ troppo
bruschi, ebbe una spiacevole reazione rumorosa…
La signora – svizzera, tra l’altro – mortificata, tentò una
imbarazzata giustificazione: «Scusa, mai capitato! Scusa,
mai capitato!» andava ripetendo.
Valerio, che nel frattempo aveva perso il colpo in canna,
brontolò: «Vorrei vedere che ti capitasse sempre!».
Quella notte, tutto finì lì.
Mi aveva ridotto un “arciuomo”
Per conoscere Valerio bisogna conoscere il Borgo San
Giuliano degli anni Cinquanta e Sessanta. Un agglomerato
di case fatiscenti, a ridosso del Ponte di Tiberio, emarginato dalla città e abitato da una piccola comunità orgogliosa e ribelle… pur nella propria miseria.
Addirittura fino a poco prima non esistevano fognature.
E le case non avevano quasi mai un bagno o un gabinetto,
come lo intendiamo oggi. I più fortunati avevano, in cortile, una sorta di capanna con la turca (la latrina). Gli altri
dovevano accontentarsi dei gabinetti pubblici. Di due tipi.
I gabinetti veri e propri, costruzioni a se stanti, quasi piccoli edifici. E i cessi: inseriti lungo le schiere delle case. Piccoli e, solitamente, sporchi.
Anche Valerio, come tanti altri, non aveva né il cortile
né logicamente la latrina. Doveva servirsi del cesso di via
Padella, proprio davanti a casa (bella comodità, si potrebbe
dire…). Lui stesso racconta che una sera d’estate, dovendo
recarsi ad un appuntamento galante di prim’ordine (a suo
parere, naturalmente) aveva indossato il vestito nuovo,
acquistato per l’occasione. Bianco. Elegante e costoso. Ma
appena uscito di casa – forse per l’emozione, diciamo noi –
sentì il bisogno impellente di recarsi al cesso, lì di fronte. Il
cesso era piccolo, come al solito sporco, senza luce e con la
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turca. E con la porta senza chiusura. Da dentro, magari
accovacciati, si doveva bloccarne l’ingresso con una mano,
appoggiata alla porta. A Valerio, però, quella sera, le mani
servivano, tutt’e due, per salvaguardare il vestito di lino,
candido come la neve! Non poteva tenere serrato l’uscio.
Stava quasi per finire, quando Hombre – Mario Pedrizzi –
che abitava anche lui proprio lì di fronte, come tutte le sere,
raggiunse il cesso e aprì improvvisamente la porta, scaraventando all’interno il contenuto del vaso da notte, pieno
fino all’orlo. Senza guardare, come faceva sempre. Fu un
disastro!
Ancora adesso a Valerio vien da piangere: «e’ m’a ardot
un arciuomo!» (mi ha ridotto un arciuomo!).
Cosa significasse per lui arciuomo non lo sappiamo…
D’altronde per capirlo bisognava esserci!
Una serata tra birra e “birri”
A Valerio, e alla sua compagnia di giro, capitava anche
di frequentare gli ambienti riccionesi: uno in particolare, la
birreria Spatenbräu, sul portocanale; un locale oltremodo
popolare che, nell’atmosfera e nell’arredamento, si rifaceva
allo stile tedesco. E non poche erano le turiste provenienti
dalla Germania, dalla Svizzera o dall’Austria. Quel clima su
di giri, informale, piaceva molto a Valerio e ai suoi amici. Lì
si ballava, si cantava, si mangiava e si beveva. E si imbarcava! Nulla di facile e di scontato, però. La concorrenza,
infatti, era sempre in agguato… come nell’episodio in
oggetto. Valerio, in quella occasione, scese in campo con
Marco.
Trovarono subito da ballare, e Marco, più fortunato,
invitò al tavolo due signore svizzere di lingua italiana, che
accettarono ben volentieri. La serata era partita sotto i
migliori auspici. La conversazione risultava fluente e si prospettava realisticamente la nascita di una bella storia estiva.
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Erano passate già un paio d’ore, quando improvvisamente
apparve sulla scena Pietro, un collega di lavoro di Marco,
che quest’ultimo accolse con particolare piacere, invitandolo ad accomodarsi al loro tavolo. Valerio, invece, andò
subito in apprensione e guardò con sospetto questo Pietro,
personaggio a lui sconosciuto, che immediatamente riuscì a
conquistare la simpatia delle signore. Era disinvolto, simpatico, brillante nella conversazione.
Valerio, allora, lanciò un ‘messaggio’ a Marco, quasi sottovoce, in dialetto per non farsi capire dagli altri (in particolare da Pietro, che non era romagnolo). Una frase, quella
di Valerio, che voleva denunciare un pericolo e riaffermare
una regola valida sempre “nelle operazioni d’imbarco”:
«Marco, a ne voi e’ ber te tevul!» (Marco, non lo voglio il
birro al tavolo!”).
Ma, ormai, Pietro si era ben installato; anzi, chiese il
permesso a Marco di ballare con la turista svizzera che sembrava a lui interessata. Il permesso venne accordato, mentre Valerio danzava con l’altra. Il nuovo arrivato si dimostrò
anche un ottimo ballerino.
Tornando tutti al tavolo, proseguì il “protagonismo” di
Pietro, che sembrava aver fatto breccia definitiva presso le
due ospiti straniere. Addirittura, nella conversazione
diventata veramente amabile, Pietro accennò pure ad un
abbraccio alla “candidata” prescelta da Valerio; il quale
vide confermarsi ampiamente le sue preoccupazioni, e le
esternò – sempre sottovoce – a Marco: «S’un cheva cla mena,
aglia tai!» (Se non leva quella mano, io gliela trancio!).
Non solo, ma colse anche un tentavo di far piedino da
parte del solito e incontenibile Pietro: «Guerda cum che
sgaretta!» (Guarda che lavoro di piedi sta facendo!).
Marco sembrava quasi divertito da queste continue – e
sotterranee – proteste di Valerio, e decise, signorilmente, di
lasciare campo libero ai due contendenti, andando a cercarsi una nuova compagnia negli altri tavoli. Questa scelta
non servirà a favorire Valerio. Infatti, dopo poco, le due
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dame svizzere accoglieranno l’invito di Pietro, a proseguire
la serata altrove, e rifiutando di fatto – tutt’e due – la compagnia di Valerio, che rimase solo e costernato.
E il finale fu amaro anche per Marco, che dovette sorbirsi una lavata di testa da parte dell’amico abbandonato, il
quale gli ribadì quella sua regola collaudata (che la concorrenza non bisogna stupidamente favorirla): «Te l’avevo
detto che non si deve invitare il birro al tavolo!».
E per punizione il nostro lasciò a piedi l’amico. Valerio
ritornò a Rimini con la sua Cinquecento, mentre Marco
dovette rientrare in filobus.
Poche si concedevano!
Valerio, credeteci, è una delle persone più spassose che
conosciamo. Capace di sorridere di se stesso: anche le
sconfitte diventano occasioni per fare due risate al bar, con
gli amici. Sono racconti che lui ha ripetuto più volte nelle
serate d’inverno, nel bar Alba.
Eccone uno in presa diretta, con il suo linguaggio che,
seppur truculento, non vuole essere offensivo; fa parte
anche della voglia di strabiliare e di piacere al suo “pubblico”, e così come affossa e denigra se stesso fa altrettanto
con le conquiste femminili, nell’ambito della sua strampalata ed iperbolica comicità.
Anch’io ero finito nella categoria dei birri da quattro
soldi, anche se qualche struscia l’ho avuta. Non potevo
non raccogliere niente: mi sono sposato a cinquant’anni… e ho avuto i mosconi a marina. Da noi, tutti
raccontano delle grandi favole: in realtà, per tanti, si contano sulla punta delle dita quelle che si concedevano
completamente! Anche per me sono state poche le avventure veramente interessanti, le storie che valeva la pena
vivere. Quando ne parlavano al bar erano tutti bravi! Ma
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quando andavano a f… non trovavano mai niente! Io ero
il più umile, e nei locali da ballo, girando attorno alla
pista, iniziavo a corteggiare le più belle… e finivo per
accontentarmi degli scarti.
In quella stagione, dopo dieci serate andate a male, puntai sullo 007 di Rivazzura, in compagnia di Barbacello. Stavamo andando in bianco anche quella volta, quando
entrano nel locale due satanasse…che era fatica guardarle!
«Chi si mangia il maccherone, stasera?» faccio a Barbacello.
E lui, senza esitazione: «A me magn me!» (me lo mangio
io!).
Allora ci buttiamo. Io prendo l’altra Miss. Ci stava!
E dopo pochi convenevoli, e qualche ballo, le portiamo
subito in un bar di spiaggia, lì vicino.
Appena accomodati, attacco con un bacio sulle braccia,
risalendo pian piano verso il viso. Barbacello passa subito
a copiarmi. Io bacio la guancia e lui pure. La bacio sulla
bocca… e lui uguale.
Allora mi scappa questa infelice battuta, in dialetto per
non farmi capire dalle interessate: «Ta te soz te che ruspon?»
(Te lo ciucci te quel rospone?).
Scoppiamo a ridere a crepapelle… e ridi, ridi… è finita
che ci hanno buttato fuori dal bar!
All’arrembaggio senza un becco di un quattrino
Parte delle disavventure, a quei tempi, erano una conseguenza della mancanza di soldi. Capitava, spesso, di
dover uscire senza una lira in tasca, esponendosi così a vere
e proprie umiliazioni. Chi ha una certa età, e proviene dallo
stesso mondo (non quello dorato della Rimini bene, di
giorno e di notte), avrà qualche episodio da ricordare,
come quello che Valerio ci ha narrato.
Questa è una storia tutta vissuta all’interno della
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Barafonda, croce e delizia delle avventure galanti di Valerio
e dei suoi amici.
Siamo nel passaggio epocale, fra gli anni Cinquanta e
Sessanta: nell’aria c’era un’euforia tipica da boom imminente, ma i soldi in tasca erano quelli dell’Italia precedente.
Lui aveva conosciuto, in spiaggia, due signore bergamasche, non proprio ragazzine ma sicuramente piacenti ed
interessanti, presso le quali aveva ottenuto un discreto successo, alimentato dalla sua simpatia, dalle sue battute.
Occasione volle che la sera, proprio quella sera, Valerio,
passeggiando sul piccolo lungomare di via Ortigara, venne
notato dalle due signore, che in quel momento stavano
entrando alla Lucciola, un dancing sorto tra il lungomare
stesso e la spiaggia; immediatamente e con affabilità lo invitarono ad entrare con loro. La cosa, in teoria, era graditissima a
Valerio… solo che c’era un piccolissimo e irrisolvibile problema! Non aveva, letteralmente, il becco di un quattrino.
Non riuscì, però a dire di no, la tentazione era troppo
forte (quando mai gli sarebbe capitato un altro invito così
caloroso e promettente!): si accomodò quindi al tavolo con le
due accompagnatrici… senza poter fare a meno di ordinare
da bere.
Logicamente sarebbe toccato a lui pagare il relativo
conto. Valerio incominciò a sudar freddo, pensando a
come avrebbe potuto uscirne dignitosamente… Alla fine
prendendo coraggio decise di… consegnarsi al nemico: di
andare a trattare con i responsabili del dancing. In fondo in
fondo non era proprio uno sconosciuto. Il proprietario
qualche volta, a Valerio, l’aveva pur visto nel suo locale !?
Ma in quella occasione non ebbe nessuna forma di comprensione, il proprietario fu freddo, sbrigativo e lapidario,
di fronte al farfugliamento imbarazzato del nostro protagonista: «Io non voglio saper niente! Se dovessi far credito a
tutti…».
A questo punto, Valerio optò per la soluzione di riserva,
quella legata al giovane direttore del locale, un borghigiano
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Cosa non si faceva per attirare l'attenzione…
Capitava spesso di incontrare in spiaggia gruppi di giovani che si travestivano in maniera originale, con poca spesa e molta fantasia. Una
delle caratteristiche fondamentali – per la conquista dell'elemento
femminile – era la simpatia, che a volte valeva più dell'avvenenza
fisica. Qui, un gruppo borghigiano, in posa prima di partire per un
vero e proprio happening sull'arenile, fra lazzi e scherzi, bravate
ammiccamenti e battute… nella speranza di ottenere qualche appuntamento per la serata!
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come lui, frequentatore della stessa compagnia di bar.
«Ta me fat du pali…» (Mi hai proprio stancato, mi hai
fatto due p… così!). Questo fu l’esordio dell’amico, il quale
aggiunse categoricamente: «Vieni qui sempre senza soldi…
al massimo stasera ti abboniamo la tua consumazione, ma
quelle delle donne bisogna proprio pagarle!».
Non c’era nessuna via d’uscita. Valerio dovette tornare
al tavolo e spiegare l’imbarazzante situazione alla compagnia femminile.
Cosa disse di preciso non ce l’ha riferito. Possiamo solo
immaginarlo: «Scusate, ho dimenticato il portafogli a
casa…». Purtroppo tutti i movimenti precedenti, del
nostro Valerio, non potevano essere passati inosservati…
l’atmosfera che si era creata non lasciava presagire nulla di
buono.
Fatto sta che quella storia, conclusasi col pagamento da
parte delle signore, ebbe una fine immediata. Definitiva.
Con il passare degli anni, le delusioni rendono più
sfrontato il nostro Valerio. Ma anche con più disponibilità
economica. Basta questo episodio, che ci racconta direttamente (con il solito linguaggio crudo, senza inibizioni), per
capire come sia cambiato in tutti i sensi.
Era il periodo che uscivo in coppia con Barbacello. E
l’andamento di quelle serate era molto alterno. A volte si
imbarcava e a volte no. Quella sera, invece, prometteva
molto bene: le due che avevamo trovato ci stavano!
«Che culo abbiamo avuto stasera!», dicevamo fra noi.
Alla Locanda del Lupo avevamo ballato così avvinghiati…
che decidemmo di “rilanciare” la serata in un altro locale,
alla Capannina di San Giuliano a Mare. E lì abbiamo
offerto addirittura la cena, bevendo e ballando ancora
appassionatamente.
Alla fine, di comune accordo, ci portammo tutti in spiaggia, al buio. I baci furono tanti… ma la conclusione fu
negativa: non ci hanno fatto battere un chiodo!
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Allora siamo venuti su, dalla spiaggia, molto amareggiati.
Non solo, forse non avevo digerito bene… e pensavo: «Non
siamo mai stati così larghi di spesa… e queste ci mandano in
bianco!».
Fu in quel momento che, tra la volontà di vendicarmi e il
mal di pancia, sono esploso in una fragorosa emissione …
[ndr in realtà Valerio ha usato un altro termine, più esplicito].
Non ho mai visto due donne scappare così in fretta!
Finisce la guerra ed esplodono le sale da ballo!
Negli anni Cinquanta le occasioni di svago – come racconta Dino Spadoni – non erano tantissime, ma per noi giovani usciti dalla guerra, la voglia di vivere creava dal nulla
tante opportunità: anche solo stare insieme, in libertà e
senza paura, costituiva momenti di vera allegria. Quel clima
di euforia si riversava nei tre luoghi, mitici per quei tempi:
le sale da ballo, i cinema e il mare d’estate (straniere
incluse). I dancing e le balere rifiorirono impetuosamente,
aprendo le porte anche ai nuovi ceti popolari, dei quali noi
borghigiani facevamo parte a pieno titolo: i nostri genitori,
invece, avevano vissuto, in prima persona, la grande stagione del melodramma. Ci si divertiva al Floreal di viale Valturio (anche se lì ci ho preso i pidocchi!), da Pagnoc, alla
Lanterna Verde di Rivazzurra, mentre al Florida di Riccione,
gestito da Fabbri, noto calciatore, ci andavo con gli amici
della squadra di calcio. E quest’ultimo era già un locale di
riguardo, con tanto di orchestrina già affermata: “Franco e
i G 5”. Il tango, il valzer e il boogie-boogie erano spassosi
ma l’obiettivo di fondo era… l’imbarco! E l’amico Pippo
quella sera c’era riuscito. La preda era tedesca, giunonica e
allegra. Insieme lasciarono il ballo sulla moto che Pippo guidava spericolatamente. Lei montava la moto a cavalcioni da
maschiaccio, sul sellino posteriore: qualcosa di inusuale per
i tempi. All’altezza di via Tripoli, il nostro, anche per
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impressionare la sua recente conquista, tentò un sorpasso
più che azzardato, infilandosi tra due filobus che procedevano nei due sensi di marcia. Lo spazio per passare non
c’era… Dio solo sa come hanno fatto. E all’uscita del sorpasso i due non erano conciati molto bene: impalliditi, un
po’ scorticati, ma soprattutto entrambi quasi nudi, con
addosso le sole mutande. I loro abitini estivi se li erano portati via i filobus… Pippo si confermava il più strampalato e
creativo del nostro gruppo, sfrontato al punto da mascherarsi – in piena estate – da soldato tedesco, con baffetti,
elmetto, divisa e stivaloni: una via di mezzo fra Hitler e
Charlot. Così conciato e truccato affrontava il pubblico
della Capannina, alla Barafonda, spesso scontrandosi con i
gestori, i Plotkzi (al secolo i fratelli Buldrini).
Un altro con la faccia veramente tosta, in grado di tener
testa alla sparate di Pippo era Franco, anche lui frequentatore
degli stessi locali. Ricordo che Franco aveva “imbarcato” una
ragazza tedesca, raffinata ed elegante, proprio sulla spiaggia
di San Giuliano, che tutti allora chiamavano la spiagia di puret
(contrapposta a marina centro, che invece era la “spiaggia dei
signori”). L’appuntamento era per la sera stessa, davanti alla
Capannina. Lei si presentò puntuale (non a caso era tedesca).
Lui tardava, invece. La ragazza era già in imbarazzo con tutti
“i pappagalli” che le giravano intorno, con la moto o addirittura con la macchina. Finalmente arrivò Franco, che in mancanza di meglio, si presentò cavalcando un vecchio tandem.
Lui non aveva perso la solita allegria, lei invece…
“Ainemoment”
Non c’erano solo gli affamati e quelli un po’ grevi, dai
Borghi arrivavano anche dei personaggi con tratti quasi
signorili, molto rispettosi del gentil sesso, a differenza,
appunto, degli altri ‘cacciatori’. Ainemoment era uno di
questi. Veniva dalla Castellaccia e frequentava il Borgo San
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Giuliano, al di là del Ponte di Tiberio, e fu proprio un borghigiano ad affibbiargli quel soprannome.
Durante l’estate, il nostro, gran ballerino ma… sposatissimo, usciva regolarmente tutte le sere per andare a ballare.
Con le straniere, naturalmente. E tedesche, quasi sempre.
Frequentava, principalmente l’Oriental Park. Per lui, bell’uomo e dai tratti distinti, la conquista era facile. Ballava divinamente e la “preda” soggiaceva a lui come trasognata.
Arrivati al termine della serata era consuetudine per i
birri – ma soprattutto, loro grande aspirazione – portare la
“conquista” in spiaggia.
Dopo il ballo finale, quello che chiudeva la serata, il
nostro eroe, un attimo prima di uscire, si rivolgeva in questi termine alla compagna di turno, alla sua ballerina:
«Ainemoment!» (“un momento, prego”), alzando il dito,
come per assentarsi un attimo, per un bisogno improvviso.
Poi fuori del locale, imbracciava furtivamente il suo
motorino e scappava verso casa.
Non poteva, né voleva far tardi. Non intendeva tornare a
casa, dalla moglie, con la sabbia addosso. E poi… lui, già così,
si riteneva più che appagato. La conquista c’era stata. Il ballo
lo aveva ampiamente soddisfatto. Il resto contava molto
meno.
Decine di turiste tedesche stanno ancora cercando di
capire dove fosse finito, quella volta, l’affascinante l’italiano.
La gioventù dorata e i suoi locali
L’ambiente non era composto esclusivamente da giovani maldestri e velleitari, dei quali abbiamo già raccontato
un campionario di episodi tragicomici: esisteva un nucleo –
non maggioritario, però – di ragazzi che risultavano,
invece, ben accreditati nei migliori locali della Riviera,
quelli tutto sommato esclusivi, alla moda. Giovani riminesi
appartenenti alla media borghesia cittadina, figli di com103
mercianti, di professionisti, di benestanti in poche parole.
Erano sempre gli stessi che dominavano la scena, d’inverno
in piazza Tre Martiri e sul Corso, d’estate nei locali à la page
come l’Embassy, il Paradiso, il Savioli a Riccione o l’Eden
Rock a Gabicce Monte…
Ragazzi che allora, a differenza di tanti altri, avevano
potuto studiare, viaggiare e a cui non mancavano soldi,
automobili e abbigliamento adeguato. Anche per loro,
però, funzionavano le regole del gallismo, con le relative
difficoltà. Dovevano collezionare avventure… soprattutto
da raccontare durante la lunga pausa invernale.
Noi non facevamo parte di quella realtà e la nostra
conoscenza di quegli ambienti era abbastanza limitata. Ci
affidiamo, quindi, alla memoria e alla testimonianza di due
“osservatori” privilegiati: due operatori turistici che si trovarono al centro di quel mondo prestigioso… ricco di belle
donne, di glamour e di buona musica. Elio Tosi e Rodolfo
Ceschi.
Ecco i racconti che abbiamo registrato.
Elio Tosi: una vita all’ombra dell’Embassy
La mia famiglia è originaria di Riccione: eravamo mezzadri del Conte Mattioli, quelli della famosa e prestigiosa
Villa Mattioli (ora sede di rappresentanza della Cassa di
Risparmio di Rimini). Partì mia nonna, con un vitto e alloggio vicino alla Punta dell’Est, dove ho maturato le primissime esperienze nel turismo, unitamente al lavoro come
aiuto barista, assieme a mio cugino, nel “Bar Del Bianco”,
sempre a Riccione. Una breve esperienza che mi fu utile
durante il servizio militare. Il mio superiore vedendo che
me la cavavo bene con la macchina del caffè mi offrì la
responsabilità del circolo e della mensa Ufficiali, a Sabaudia. Eravamo negli anni 1950 e ’51 e la presenza di ufficiali
inglesi e americani (che insegnavano agli italiani l’uso dei
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radar) mi servì a migliorare il mestiere che andavo imparando. Lì ho organizzato anche feste da ballo.
Al ritorno, ho avuto la fortuna di lavorare all’Hotel De
Bains, dove la moglie del proprietario, Severio Savioli, una
signora svizzera aveva organizzato per noi una sorta di
scuola alberghiera (una novità assoluta per quei tempi),
frutto della sua esperienza, maturata nelle grandi scuole
professionali elvetiche. Da quell’ambiente nacquero i futuri
protagonisti dell’intrattenimento, i gestori dei migliori
locali notturni della Riviera: i Savioli, i Semprini, Guido
Mulazzani…
E proprio i Savioli mi portarono con loro all’Embassy di
Rimini, che in quegli anni avevano appena preso in
gestione, assieme a Pierino Mancini e a Porcellini.
Poi successivamente, ai Savioli, subentrarono due loro
dipendenti, Amerigo e Claudio Semprini, che iniziarono a
tenere aperto il locale anche d’inverno.
Il mio ruolo, nei primi tempi, fu quello di barman, a cui
si aggiunse la funzione di direttore del reparto concerto e
bar (mentre il ballo e la tavola calda vennero affidati a
Gianni Nicolò).
Furono anni strepitosi, soprattutto, a partire dal ’60:
l’Embassy era sempre pieno, dentro e fuori, nel locale da
ballo e nel piazzale adibito a caffè-concerto. La passeggiata e
la strada, molte volte, risultavano impraticabili a causa della
folla debordante, di clienti e di spettatori occasionali. Si
arrivò, addirittura, nel 1967, allo scontro con l’azienda pubblica trasporti (allora si chiamava ATAM), che non riusciva a
far transitare i suoi filobus lungo il viale Vespucci; ottenne,
quindi, dalle autorità la revoca della nostra licenza per i concerti all’aperto. E così nel ’68 i Semprini mi cedettero il
locale esterno che divenne la “mia prima impresa”: un ristorante-bar sulla principale passeggiata, a Marina Centro.
Nei cinque anni precedenti avevo lavorato anche al
Paradiso, il famoso locale sul colle di Covignano, che i titolari dell’Embassy gestivano assieme a Guido Mulazzani:
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chiesero il mio apporto, e quello di mia moglie come cuoca,
per raddrizzare una situazione che dal punto di vista gestionale faceva acqua.
Ho scelto il nuovo personale, e fra questi anche il giovane Gianni Fabbri, figlio della proprietaria di quella favolosa villa. In seguito, fu proprio Gianni che, grazie anche a
quell’esperienza, riuscì a portare il Paradiso ai vertici internazionali del grande intrattenimento notturno.
Ho gestito il ristorante dell’Embassy per quarant’anni.
L’ultima stagione è stata quella del 2007.
All’Embassy night club si sono esibiti i migliori cantanti e
le orchestre più affermate – soprattutto negli anni del boom
economico – con Buscaglione, Mina, Carosone, Adriano
Celentano, Rita Pavone, Gianni Morandi… Il pubblico era
selezionato, con grande discrezione e abilità.
Non contavano solo i soldi: bisognava sapersi comportare, avere modi gentili, vestirsi adeguatamente (giacca e
cravatta d’obbligo), essere dotati di una bella presenza. E
chi rispondeva a questi requisiti poteva anche entrare gratis. A quest’ultimi i Semprini a volte offrivano pure la consumazione.
Il locale mantenne sempre, per decenni, uno stile
inconfondibile, che tu percepivi immediatamente, fin dall’ingresso: o ti sentivi a tuo agio, oppure ne venivi come
respinto… Non era, quindi, un locale per tutti. Quasi tutti
i giovani riminesi sono entrati all’Embassy dei tempi d’oro
almeno una volta, molti meno sono diventati habitués.
Ma non c’erano solo i ragazzi. Allora non erano pochi i
mariti riminesi che di sera frequentavano l’Embassy all’insaputa delle mogli. Capitava che qualcuno, per confondere le
idee, usciva di casa in calzoncini e ciabatte (sal ciabati)… e
poi si cambiava a dovere in casa di amici scapoli; anch’io mi
prestavo, per quelli più fidati, che addirittura avevano gli
abiti di ricambio nella mia stanza di servizio, all’Embassy.
A nessuno era consentito di stazionare in piedi, come
magari capitava altrove. Ognuno doveva avere il proprio
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Quelli che avevano una marcia in più
Le stagioni più favolose furono quelle del ’66 e del ’67. L'Embassy, il
prestigioso dancing all'aperto di Viale Vespucci, chiudeva il 15 ottobre
e apriva a Pasqua. Gli ospiti scandinavi erano quelli più soddisfatti, più
disinvolti e più casual. Nella foto, in alto, il pubblico attende pazientemente l'arrivo di Mina. [Entrambe le foto sono di Davide Minghini]
107
posto al tavolo, e lì arrivava il cameriere il cui compito era
solo quello di raccoglier l’ordine, trasferito, poi, al comì
Logicamente i “birri” più affermati erano i figli di papà:
avevano i soldi e la macchina, vestivano bene, studiavano
(magari all’università), conoscevano già le lingue… oggi,
molti di loro sono professionisti affermati nelle loro diverse
attività. Ma c’erano anche quelli che si arrangiavano, che
venivano dalle periferie o dai paesi, e molti di questi aspettavano fuori dal locale, entrando, magari, all’ultima mezz’ora,
quando il controllo si allentava. Ricordo un personaggio, fra
questi, che chiamavamo Purgatorio: andava con le signore più
anziane (che qualcuno volgarmente definiva “tardone”)…
Mentre un altro frequentatore abituale era famoso, tra
di noi, per una sua debolezza… soffriva di eiaculazione
precocissima: gli bastava, durante un ballo lento, stringere
la sua compagna un po’ più del solito… e gli si leggeva in
faccia il suo piccolo-grande dramma; il personaggio aveva,
allora, trovato una sua originale soluzione: prima del ballo
si recava al bagno per “proteggersi” con un preservativo,
evitando situazioni più imbarazzanti… e bagnate!
Ogni tanto, però, dovevamo intervenire – sempre con la
dovuta discrezione – nei confronti di chi, ballando, non
sapeva comportarsi a dovere, assumendo atteggiamenti
lascivi. Quelli troppo “avvinghiati”, non offrendo un grande
spettacolo, venivano avvicinati dal cameriere che, bussandogli educatamente sulla spalla, diceva loro: «Signore, la cercano al tavolo…».
Il personaggio, come se si svegliasse da uno stato di
trance, stupito magari replicava: «Proprio adesso che lei ci
stava!».
Ma non c’era niente da fare: l’invito veniva, se era il
caso, reiterato da altri camerieri. Non si derogava dallo stile
del nostro locale.
Erano gli anni del plaid, i lontani anni ’60: i birri
uscendo dall’Embassy accompagnavano le loro conquiste,
se appiedati, in spiaggia; con la Vespa (o la Lambretta) in
108
campagna, solitamente a Covignano; i più fortunati invece
raggiungevano Gabicce Monte con la propria auto.
Ma erano anche gli anni delle turiste straniere, soprattutto nordiche: emancipate e capaci di vivere tutte le situazioni; bevevano abbastanza, ma “lo tenevano”… era più
facile che proprio i nostri birri finissero per perdere la lucidità! Le svedesi, le ragazze più moderne, prendevano già la
pillola, la famosa tablette … che poteva diventare anche una
arma di difesa di fronte agli assalti scomposti dei nostri conquistatori: «Stasera, no tablette! No tablette! No possibile!».
E, fra loro, quelle più ricercate erano quelle… più bianche, cioè meno abbronzate: ragazze che avevano davanti a
loro un periodo di soggiorno, sulla nostra Riviera, più lungo.
In quel periodo, affollato da tante belle ragazze straniere, capitò che un nostro giovane cliente abituale (e abituato ad altre compagnie) si trovasse nel locale con la sua
fidanzata, bionda e “bianca” come una svedese… a quel
punto un amico, del nostro, che non la conosceva, gli si
avvicina dicendogli: «Sei andato a prenderla all’aeroporto,
così bianca?». La risposta fu lapidaria: «Quando ho bisogno di te, ti chiamo io!».
L’Embassy, però, ha collezionato anche storie serie ed
importanti. Lì sono nate relazioni durature, concluse
spesso con matrimoni e figli. E per finire vi voglio raccontare un episodio di cui sono stato testimone e protagonista.
Lui era un giovane maresciallo della Marina, aitante e spigliato; veniva da una cittadina dell’entroterra. Conobbe
all’Embassy una bellissima ragazza svedese. Fu amore e passione a prima vista. Tutte le sere si incontravano nel nostro
locale. Proprio una bella coppia. Le storie estive di solito si
esauriscono con la partenza dell’amata. Al suo ritorno in Svezia, la ragazza scoprì, però, di essere incinta. E per rintracciare
il suo latin lover, dopo la nascita di una bambina, scrisse e
telefonò all’Embassy e a me in particolare, inviandomi anche
la foto della figlia. La bambina era uguale al padre, mora e
bella come lui. Ma il nostro sottufficiale non era pronto per
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assumere legami: sarò proprio io a convincerlo, parlandogli
ripetutamente e mostrandogli la foto della bambina. Dopo un
iniziale periodo di riflessione, lui prese la decisione di recarsi
in Svezia. Da quel viaggio nacque, così, un matrimonio. Si stabilirono in Italia, dove avranno anche un altro figlio.
A Nord di Rimini
A Viserba di Rimini la guerra aveva provocato meno
distruzioni che in città, molte ville si erano salvate. E lì la
vita balneare riprese immediatamente. Così pure la vita
notturna, soprattutto con due locali che sono entrati nella
storia della notte riminese: la Villa dei Pini e il Garden
Ceschi, già attivi nell’estate 1946. I primi tempi non furono
facili: pochi gli stranieri e fra gli italiani quasi esclusivamente i proprietari delle ville, bolognesi ed emiliani soprattutto. Al Garden Ceschi – secondo il racconto di Rodolfo
Ceschi – si partì con il melodico all’italiana, interpretato da
Nilla Pizzi, Oscar Carboni, Giorgio Consolini…
Ma lasciamo la parola a Rodolfo, che fin da allora
affiancò il padre nella conduzione del locale, e che oggi
può essere considerato come la memoria storica del turismo in quella località.
Nell’immediato dopoguerra non era rilevante il fenomeno
dei birri, dei play boy; lo diventerà nel decennio successivo, quello che precede e prepara gli anni del boom.
Ricordo solo pochi personaggi dediti alla sistematica
ricerca di compagnia femminile, fra questi Solerte, un
camionista del Borgo, intraprendente, dalla parola facile e
dai modi accattivanti: era diventato un nostro cliente abituale, veniva con amici, offriva bottiglie alle signore,
sapeva comportarsi così bene che all’ingresso non gli facevamo neppure pagare il biglietto…
Ed è alla fine degli anni Cinquanta che inizia l’assalto dei
110
birri: venivano da Rimini, da San Vito, da Santarcangelo…
compresi i bagnini e i marinai di salvataggio che accompagnavano, o ritrovavano nel locale, le loro conquiste di
spiaggia.
La frenesia dei romagnoli non comprometteva assolutamente il clima di massimo rispetto e di serietà, che in particolare mio padre aveva inteso dare al nostro dancing;
ricordo di avergli proposto un primo complesso rock (“I
Satelliti” di Pistoia), che accettò, alla fine, con molta diffidenza. Ognuno doveva stare al proprio posto, a partire
dal sottoscritto: i camerieri e gli accompagnatori (i “buttadentro” di allora; ne avevamo ben quattro) durante il
lavoro non dovevano ballare e intrattenersi con il pubblico femminile; e solo a serata terminata, potevano frequentare le ragazze conosciute nel locale. Tutti, però, a
loro modo risultavano intraprendenti, con sguardi,
ammiccamenti e con quelle poche parole gentili concesse
dal ruolo. Tra questi, Roberto era il più fortunato, e gli
capitava spesso di concordare appuntamenti fuori del
locale… quando la serata non era guastata dall’improvvisa
comparsa della sua fidanzata!
I primi clienti stranieri, già dai primi anni Cinquanta,
furono gli Svizzeri: avevano i soldi e li spendevano facilmente. Poi arrivarono in massa i turisti tedeschi. Per loro,
in quegli anni si organizzavano le Feste dell’amicizia italosvizzera (compresa l’elezione di Miss Helvetia) e quella
italo-tedesca (con annessa la manifestazione di Miss Deuchtland). A questa clientela si aggiunse quella italiana:
Rimini e la Riviera erano all’apice del loro prestigio, mete
di un turismo travolgente e pieno di frenesia. Siamo in
pieno boom. Ad accogliere ragazze e signore straniere ed
italiane c’erano i nostri latin lover, con scarpe bianche e
nere, con pantaloni bianchi e giacche blu, la camicia
aperta sul collo, dove faceva bella mostra di sé la catena
d’oro (di prammatica) sul petto villoso…Quasi un abbigliamento d’ordinanza, per quei tempi.
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I costumi sono cambiati: se i birri nostrani, quelli sposati,
lasciavano a casa le mogli, altrettanto facevano molte turiste che – in vacanza da sole – frequentavano tutte le sere
il nostro locale. E non venivano solo per ballare. Avevano,
addirittura, il tavolo riservato. Giovani o non, sposate o
nubili. E tutte le sere facevano delle conquiste. Capitava
pure che un marito giungesse inaspettato… e per quella
sera nessuno si permetteva di invitarle a ballare.
Toccammo in quegli anni Sessanta (e in parte negli anni
Settanta) il record di affluenze, di successo e di ottimismo:
le nostre serate vedevano la partecipazione dei nomi più
prestigiosi della musica italiana, con Celentano, i Nomadi,
Battisti, Modugno, Lucio Dalla… e con i New Troll realizzammo la serata di maggior affluenza (1250 ingressi,
con i clienti seduti anche in pista). Sembrava che la fortuna girasse sempre a nostro favore.
Pian piano, la Riviera imboccò una storia diversa, arriveranno le discoteche, i pub, in massa i giovani (compreso
quelli del “sacco a pelo”), la crisi del turismo estero e qualche fenomeno di degrado…
Rodolfo ha chiuso il Garden Ceschi nel 1979, per aprire
nell’81 un piano-bar, il Bistroquet, nel centro storico della
città vecchia. Dal ’90, quando è andato definitivamente in
pensione, lo possiamo incontrare nei caffé del Corso
d’Augusto o di Piazza Tre Martiri: sempre disponibile, con
tutti, a ricordare le vicende di un’epoca e di quella serie di
stagioni irripetibili. Quando Rimini ha attraversato il massimo dello splendore.
L’altra faccia della gioventù romagnola di quei tempi
Non bisogna equivocare. Non tutti i giovani romagnoli
appartenevano alla categoria dei “guerrieri” di spiaggia:
c’era chi, possedendo equilibrio e maturità, si comportava
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con il gentil sesso in modo meno invadente; c’era, inoltre,
chi, meno sfacciato, meno sicuro di sé, evitava di confrontarsi in quella competizione sfrenata. Esisteva, quindi, una
sorta di maggioranza silenziosa, variegata e composita, che
non faceva notizia, che non appariva nei rotocalchi di
allora…pieni delle gesta dei nostri pappagalli!
Nella schiera di quelli che potremmo definire come
“anti-birri” troviamo di tutto, anche i più sprovveduti,
coloro che non avevano mai conosciuto una ragazza straniera, che non avevano mai varcato la soglia di un locale da
ballo, completamente estranei al “favoloso mondo” dell’estate riminese…
Di quest’ultima categoria offriamo la storia di un personaggio emblematico, quasi l’opposto dello stereotipo del
gallo romagnolo… tanto singolare da apparire irreale. E
invece Gigi l’abbiamo conosciuto in carne e ossa.
Gigi, l’antibirro (uno dei tanti)
Negli anni Sessanta, al Bar di Pierino, nelle lunghe
serate d’inverno, gli argomenti più dibattuti erano lo sport
(quasi esclusivamente calcio e ciclismo), le donne e la politica; anche se di politica si comincerà a parlarne maggiormente a partire dal mitico ’68: prima non c’era gusto, non
c’era competizione, gli avventori del bar votavano quasi
tutti PCI, così come nel resto del Borgo San Giuliano, dove
aveva sede quel locale.
E di donne ne parlavano, in particolare, quelli che venivano accreditati come “i birri” più affermati. Erano racconti che a volte mescolavano alla realtà una buona dose di
fantasia, ma nessuno ne rimarcava apertamente le contraddizioni, le incongruenze; in fondo, aiutavano comunque a
sognare, a sorridere e a ripensare all’estate, a quel periodo
su cui si accentrava – ieri più di oggi – tutta la vita della
nostra città. Da quelle storie emergeva la grande conside113
razione di se stessi e della superiorità del “maschio latino”
rispetto a tutti gli altri uomini; i riminesi, soprattutto – sempre secondo loro – erano i più capaci a risvegliare e a soddisfare le voglie represse di tante turiste, che venivano a
Rimini proprio per vivere un’avventura con i focosi latinlover di casa nostra. Così la pensavano in molti e spesso alla
fine dei racconti venivano emesse delle sentenze che apparivano inoppugnabili: “le donne sono tutte delle gran p…”,
sibilava qualcuno degli ascoltatori, “e i mariti sono tutti
cornuti!” rispondeva un altro. In quegli anni e in quegli
ambienti le generalizzazioni – anche le più grevi – erano
una costante; del resto era figlie della filosofia del gallismo
nostrano… Non a caso è proprio con l’evoluzione culturale
– accelerata dai movimenti del ’68 e del femminismo – che
inizia la decadenza di quel modo di pensare e anche del
relativo fenomeno dei maschi all’arrembaggio.
Anche Gigi andava in quel Bar, ma partecipava a quelle
serate soltanto come ascoltatore. Non interveniva mai,
neanche quando si parlava di sport (tra l’altro, in vita sua,
non aveva mai dato di calcio ad un pallone); neppure la
spiaggia lo vedeva come frequentatore, anche solo per
prendere un po’ di sole: non si sentiva a suo agio in
costume da bagno. Non aveva, insomma, un fisico aitante,
neppure una bella presenza, né tanto meno quella disinvoltura e quel po’ di faccia tosta che invece dimostravano di
possedere tanti altri ragazzi del bar. Però, in quelle serate, i
loro racconti li stava ad ascoltare quasi incantato, a bocca
aperta, lui che di esperienze erotiche non ne aveva affatto.
Gigi, nonostante tutto, si sentiva enormemente attratto
dall’altro sesso, ma non sapeva da che parte cominciare.
Inoltre, era un po’ terrorizzato dall’opinione corrente e da
quelle “sentenze” diffamatorie nei confronti delle donne e
dei mariti. Da poco si era fidanzato con una ragazza semplice come lui, senza tanti grilli per la testa e che era venuta
ad abitare vicino a casa sua; avevano già fatto dei progetti
per il futuro, e si accontentavano di innocenti carezze e di
114
qualche bacio appassionato. Tutto finiva lì, in sintonia con
la morale cattolica della ragazza… mentre nei discorsi dei
“birri” la donna andava risvegliata nelle sue voglie più
profonde e ampiamente appagata. Questo doveva essere
l’uomo! Gigi, frastornato e preoccupato, chiese allora consiglio ad un amico… non voleva rientrare, un domani, nella
categoria dei mariti cornuti, né che la futura moglie dovesse
cercare altrove quello che lui riteneva di non saperle dare.
«Caro Gigi, senza drammatizzare più di tanto la tua
situazione, vedi però di farti qualche esperienza; magari
anche con una donna compiacente… ce ne sono tante in
giro che aspettano clienti!», questi, più o meno, furono i
consigli dell’amico interpellato.
Il nostro Gigi prese in seria considerazione questo suggerimento. E, poco dopo, in una gelida serata d’inverno, si
ritrovò quasi solo al bar… e decise, così, di aspettare una di
quelle prostitute che solitamente arrivavano a tarda ora in
quel locale aperto tutta la notte. Nell’attesa si fece forza
con un paio di bicchierini di liquore… lui che era quasi
astemio. Il tempo fuori era particolarmente inclemente,
cadeva dal cielo un misto di pioggia e nevischio. I pochi
avventori rimasti presero uno alla volta la via di casa e il
barista guardando quel cielo cupo e minaccioso disse a
Gigi: «Se smette di piovere arriva una tormenta di neve…
io quasi quasi chiudo il locale!». Ma fu proprio allora che
arrivò Poppea, una anziana “signorina” che batteva vicino
al Ponte (lì aspettava i camionisti), e che abitava anche lei
nello stesso Borgo San Giuliano. Infreddolita chiese subito
qualcosa di caldo da bere. Gigi se ne stava raccolto in un
angolo, guardandola intensamente. Poppea capì al volo e gli
chiese, per rompere il ghiaccio, di scegliere – per lei – una
canzone nel juke box. L’approccio era fatto. Poppea comprò una bottiglia di cognac e disse al nostro di seguirla. Poi
insieme si incamminarono verso la casa della donna.
Il bar chiuse i battenti in mezzo ad un Borgo privo, in
quella notte torva, di ogni segno di vita. L’abitazione di Pop115
pea si trovava in una piazzetta distante un centinaio di metri
dal locale. La raggiunsero in fretta, con Gigi trafelato e furtivo al braccio di Poppea. Anche lei aveva voglia di scaldare il
proprio cuore. Non fece le cose con fretta, con quel ragazzo
così impaurito… E dopo un paio d’ore Gigi uscì, da quella
alcova, raggiante e trasognato, con i capelli scomposti, lo
sguardo felicemente perso nel vuoto… con in mano la bottiglia di cognac che si erano scolata. Nel frattempo il cielo si era
deciso a scaricare una valanga di neve sulla città e sul Borgo.
Di fronte agli occhi di Gigi apparve un manto bianco, incontaminato e fiabesco. E, così, esaltato ancora di più, dopo
quell’esperienza fino ad allora sconosciuta, cominciò in
maniera fanciullesca quasi a correre lungo la strada. Voleva,
senza saperlo, condividere quella gioia con qualcuno. E a chi,
meglio della sua morosa, poteva trasmettere la voglia di vivere
che lo aveva invaso? Invece di tornarsene a casa, quindi,
senza riflettere – annebbiato anche dall’alcol – si ritrovò a
bussare energicamente alla porta della fidanzata. Ad aprire
l’uscio, spaventata, fu invece la futura suocera. A vederlo così
alterato si preoccupò ancora di più, ed iniziò a tempestarlo di
domande: «Cosa hai fatto? Dove sei stato?…». Lui non
rispondeva. Continuava solo a sorridere, inebetito e confuso.
E come per darsi un contegno le mostrava la bottiglia che
aveva in mano. «Ma dove sei stato? Da dove vieni?».
La neve continuava a cadere, con meno insistenza però.
E le uniche impronte esistenti sulla strada – in quel candido mare di neve – appartenevano a Gigi. Erano nitide e
ben evidenti. Gigi continuava a non rispondere… mentre
parlavano chiaramente le impronte! La suocera lo prese
per mano, e insieme, a ritroso, ripercorsero il tragitto che il
ragazzo aveva appena fatto. Qualcuno nel Borgo, svegliandosi, seguì la scena: sentì la voce alterata della donna, e vide
i due che arrivavano di fronte alla vicina casa di Poppea…
Risultò così evidente come e dove Gigi avesse trascorso
il finale di serata. E per la suocera fu una spiacevole sorpresa… che, però, non compromise la futura unione.
116
Chi ha emancipato chi
Le storie che abbiamo raccontato hanno, in gran parte,
messo in rilievo gli aspetti più ridicoli – a volte anche
meschini – di una gioventù provinciale – la nostra – che
metteva in campo una voglia di vivere alquanto maldestra.
Si trattava, però, anche di un percorso di emancipazione – magari non lineare – fatto di mille incontri che
permettevano di conoscere per la prima volta culture e
stili di vita completamente diversi dai nostri. Le ragazze
nordiche ci facevano intravedere una civiltà profondamente democratica e socialmente all’avanguardia, le giovani francesi e tedesche che ci accordavano una fiducia
(compresa quella dei loro genitori) che non sempre, forse,
meritavamo…
Da parte nostra non mancava, per controbilanciare la
loro cultura avanzata, una buona dose di entusiasmo, di
simpatia e un gran desiderio di socializzazione.
Tante ragazze sono state conquistate dai nostri valori e
sono state coinvolte in storie durature. Si sono sposate con
riminesi, e ora vivono qui con i figli: rappresentano una
parte molto importante della nostra comunità.
Una stagione chiusa, in tutti i sensi
Ettore era andato in pensione da giovane. E a quel
punto decise di occupare l’estate gestendo un noleggio di
pattini (i famosi “mosconi”). Non lo faceva solo per arrotondare il suo reddito. C’erano interessi che lui coltivava da
sempre. In primo luogo quello per la componente femminile del nostro turismo! Non era secondario neppure il suo
piacere per la vita sulla spiaggia assieme agli amici e alle
personalità della città, che frequentavano proprio quella
zona: eravamo sull’arenile di Marina Centro. Il piacere di
stare in mezzo alla gente.
117
Non era poi un lavoro così stressante, spesso il mare agitato impediva il noleggio delle sue piccole imbarcazioni,
lasciandogli tutto il tempo di oziare sotto l’ombrellone.
Qualcosa in tasca, poi, a fine stagione se lo ritrovava… unitamente al piacer di aver conosciuto (e conquistato, a volte)
tante belle signore. Non gli mancavano né la verve, né la
simpatia per attirare l’attenzione di quelle turiste che in
spiaggia cercavano svago e compagnia. Attorno ai suoi
“mosconi” c’era sempre un piccolo gruppo di affezionati
amici e clienti, pronti a disquisire su tutto, dalla meteorologia alla politica, dalla gastronomia alla cronaca quotidiana… Aveva, così, collezionato tante belle stagioni, il
nostro Ettore!
Il tempo, però, passa per tutti e in lui l’interesse per
quella vita andava scemando. Non era più un ragazzino,
anzi la sessantina l’aveva già superata… Le conquiste andavano diradandosi, e le signore mature lo interessavano sempre di meno. Era arrivato a prendere in considerazione
l’opportunità di cedere la sua attività, ad un ragazzo che si
era fatto avanti. Ma forse non era ancora giunta l’ora. In
più, proprio durante quell’estate, una giovane donna aveva
dimostrato un qualche interesse nei suoi confronti. C’era
una grande simpatia. Un gioco di sguardi e di calorose allusioni che l’avevano messo di buon umore. Come ai bei
tempi. Lo tratteneva, però, la differenza di età, la preoccupazione di cadere nel ridicolo. Eppure quel rapporto sembrava, al nostro Ettore, divenire ogni giorno più promettente. Lei si comportava, nei suoi confronti, con estrema
libertà (era arrivata anche al punto di cambiarsi il reggiseno
del costume di fronte a lui… senza alcun imbarazzo, ma
anche senza particolare malizia). Ettore era incerto se tentare l’affondo o meno. Aspettava ancora un segnale più
esplicito. Finalmente una mattina lei si presentò raggiante
e sorridente, e già da lontano prese a salutarlo e ad andargli incontro a braccia aperte, quasi correndo. Ettore aveva
il cuore in gola. Il dado era tratto. Lei si era manifestata…
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ed anche lui si predispose ad abbracciarla. Se non che, alle
spalle di Ettore, sopraggiunse un giovane dal fisico atletico.
E sarà lui il destinatario di quello slancio così caloroso.
Ettore rimase impietrito e deluso fino alla punta dei piedi.
I due giovani sprizzavano felicità a piene mani, e se ne
andarono via a braccetto lungo la battigia.
In quel preciso momento Ettore decise, in maniera irrevocabile, di telefonare al ragazzo che si era offerto di comprare il suo noleggio. Lo farà dopo pochi minuti, con una
frase che ancora ricordiamo con simpatia: «Vieni giù, che ti
vendo la flotta!».
Ettore, così, all’istante, si dimise non solo da “mosconaio” ma anche dal ruolo, ampiamente collaudato, di birro
di spiaggia!
119
INDICE
INTRODUZIONE
di Govannino Montanari
5
UN POSTO AL SOLE, CONQUISTATO PACIFICAMENTE
9
9
10
Il “rosso”, che piaceva tanto al Borgo, agli Inglesi andava di traverso! 11
I misteri del dopoguerra riminese
13
Quattro pomodori in gratin
16
Ma veniamo alla nostra storia più imbarazzante: quella politica!
19
L’Italia del Novecento deve molto alla Romagna, nel bene e nel male 20
Sovvertire, ribellarsi, seminare odio, dovevasi…
22
Quel secolo avrebbe pure dovuto insegnarci qualcosa
24
Giuseppe, mezzadro di Sant’Aquilina
27
Un’epoca che non aveva avuto bisogno di protagonisti
28
Un anno che ne valeva dieci
30
Il “pacchetto” Anna
31
Quelle spedizioni punitive, di notte, dopo Piazza Tripoli
32
Alla Chiesa del Suffragio, come in un film di Alberto Sordi
33
Il nostro biglietto da visita
38
In realtà, c’è poco da essere trionfalisti …
39
Ed ora non si può non parlare di lui, un parente difficile,
quanto straordinario
47
Il 1965, un anno trionfale per Rimini
49
Quando il capofamiglia portava la gonna
51
Albergatori d’estate, muratori d’inverno
52
Storie al femminile
53
I turisti in casa, i riminesi nella capanna
53
di Giuliano Ghirardelli
Premessa
Una storia su tre piani
La politica in bassa Romagna
Conclusioni
58
59
LA SVOLTA
di Tiziano Arlotti
Il nostro ’68
Dalla collina alla pianura
L’estate al mare
I “vitelloni” di campagna, ovvero “i birri”
Il bar
Il Festival del birro
65
67
69
70
73
76
78
IL GALLISMO DI BORGATA, TRA ANNI CINQUANTA E SETTANTA
di Mario Pasquinelli
In prima fila, sulla battigia
Figli d’arte
Le avventure di un giovane antico
Mi aveva ridotto un “arciuomo”
Una serata tra birra e “birri”
Poche si concedevano!
All'arrembaggio senza un becco di un quattrino
Finisce la guerra ed esplodono le sale da ballo!
“Ainemoment”
La gioventù dorata e i suoi locali
Elio Tosi: una vita all'ombra dell’Embassy
A Nord di Rimini
L'altra faccia della gioventù romagnola di quei tempi
Gigi, l'antibirro (uno dei tanti)
Chi ha emancipato chi
Una stagione chiusa, in tutti i sensi
Finito di stampare nel mese di marzo 2010
per i tipi di Garattoni, Rimini
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85
87
89
93
94
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117
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