Tirocinio - UniCusano
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Tirocinio - UniCusano
Docenza Tirocinio a.a. 2013/2014 Dottoressa Romina De Cicco Premessa Per sostenere l’esame, anziché porre domande sull’esperienza di tirocinio, preferirei che lo studente elaborasse una documentazione; vorrei che la documentazione venisse fornita con anticipo di almeno un mese rispetto alla data di esame per consentirmi di leggerla e, l’esame invece verterà sul contenuto delle dispense relative agli argomenti trattati. Per tutti coloro che svolgono il tirocinio Ogni attività di tirocinio deve essere articolata nel seguente modo: conoscenza della struttura; osservazione (sia libera che strutturata); elaborazione, con gli operatori della struttura e in accordo con essi, di una ipotesi di piano di lavoro secondo lo schema indicato di seguito; attuazione del piano di lavoro che può essere svolto con un gruppo o con una persona; analisi e studio di un caso scelto in accordo con la struttura e gli operatori; partecipazione al lavoro d’équipe; partecipazione ai lavori di supervisione se presenti nella struttura. La documentazione richiesta ai fini dell’esame é la seguente: diario di tirocinio; piano di lavoro e sua attuazione; relazione sulla struttura. Questa documentazione potrà essere la base dalla quale partire per l’elaborazione della tesi finale del corso di laurea. Occorre aver cura della salvaguardia dell’anonimato rispetto alle persone, anche nel rispetto della legge sulla privacy e al mantenimento del segreto professionale. Le notizie raccolte serviranno esclusivamente ad uso didattico e potranno essere oggetto di discussione solamente con gli operatori della struttura. Per la tranquillità degli operatori e nel rispetto delle persone, si suggerisce di sottoscrivere un documento con gli impegni di cui sopra all’inizio dell’attività. Progetto formativo e/o piano di lavoro Per progetto formativo o piano di lavoro si intendono tutti i metodi, gli strumenti e le tecniche necessari che si utilizzeranno per raggiungere determinati obiettivi educativi. Gli strumenti di verifica a breve, medio e lungo termine; gli spazi e i tempi in cui si svolgeranno le attività progettate, le figure professionali coinvolte, ecc. Il piano di lavoro Il piano di lavoro è uno strumento essenziale per l’esercizio professionale ed è opportuno che gli allievi inizino quanto prima possibile a sperimentarsi con l’elaborazione di ipotesi di piani di intervento da attuare nelle sedi scelte per il tirocinio professionale. Dette ipotesi di piani di intervento hanno la caratteristica, in rapporto soprattutto alle sedi di tirocinio, di: proposta, nel senso che per essere operativa và discussa con le persone referenti delle sedi di tirocinio e, se necessario o richiesto, và modificata alla luce delle esigenze rappresentate; flessibilità, nel senso che trattasi di ipotesi che vanno costantemente riviste e riformulate alla luce delle conoscenze della struttura in cui si opera e delle difficoltà che emergono nel corso del tirocinio. Per quanto concerne i contenuti del piano di lavoro, oltre che quanto previsto e richiesto nel programma inserito nel piano di studi, l’allievo avrà cura di evidenziare, anche mediante uno schema agile e facilmente aggiornabile quanto segue: - obiettivi; - metodi; - strumenti e mezzi; - tempi (a breve, medio e lungo termine); - verifica (qualitativa e quantitativa); - nuove ipotesi di obiettivi e / o riconduzione a coerenza di uno o più punti del piano di lavoro di cui si è verificata l’eventuale inadeguatezza. Struttura del piano di lavoro Per ogni tirocinante è opportuno elaborare un progetto che contenga in linea di massima quanto segue: 1. analisi del contesto con la esplorazione selettiva della realtà, scelte prioritarie e definizione degli obiettivi, con riferimento sia agli allievi educatori che ai soggetti di cui gli stessi si occupano; 2. definizione degli obiettivi specifici che potranno essere individuati dopo una prima fase di approccio e osservazione del contesto in cui andranno ad operare i tirocinanti; 3. per ogni obiettivo sarà indicato un metodo possibilmente supportato da riferimenti teorici e bibliografia adeguata; 4. strumenti e mezzi, questi elementi costitutivi del piano di lavoro potranno e dovranno in parte essere forniti dall’Università e laddove e quando possibile dalle strutture di accoglienza, in particolare i mezzi pratici (supporti cartacei ed il necessario per attività espressive) oltre a supporti tecnologici (video, cassette) per la documentazione dell’attività svolta; 5. tempi: per i vari obiettivi vanno indicati i tempi di attuazione che potranno essere a breve, medio e lungo termine in relazione alla durata prevista del tirocinio; 6. pianificazione della valutazione: si tratta di ipotizzare una verifica del progetto di tirocinio in particolare al perseguimento degli obiettivi e dei punti di cui sopra; particolare attenzione va dedicata al metodo utilizzato con i singoli, con i gruppi e con le organizzazioni; 7. nuove ipotesi operative e riconduzione a coerenza di quella parte del PDL che risulta inadeguata. Ciò presuppone un’analisi puntuale delle difficoltà incontrate, nei punti di cui sopra, con la correzione e la modifica di quanto è risultato inadeguato; 8. questa parte del piano di lavoro deve permettere di giungere ad un piano operativo specifico e personalizzato che deve mirare alla realizzazione degli interventi (chi fa, cosa, quando); 9. valutazione dei risultati da effettuare in maniera congiunta tra struttura universitaria e strutture operative; 10. ulteriore analisi del contesto quando sono state individuate consistenti modifiche strutturali e organizzative nella sede di tirocinio. La proposta di ipotesi di piano di lavoro potrà essere modificata tutte le volte ritenute necessarie dagli operatori e / o da tirocinante, previa reciproca informazione e accordo, in armonia con i problemi emergenti della struttura e che emergono dal diario di tirocinio. L’ipotesi di piano di lavoro e tutta l’attività, qualora non esista un lavoro di supervisione per tutta la struttura, potranno essere supervisionati da un educatore professionale disponibile e più esperto che opera nella struttura stessa. Il Piano di lavoro deve essere preceduto da una scheda informativa contenete: DATI ANAGRAFICI MODALITÁ DI INTERVENTO TIPOLOGIA ATTIVITA’ PIANO DI LAVORO INDIVIDUALIZZATO (Operatori coinvolti e tempi di attuazione) VERIFICA Ipotesi di un piano di lavoro flessibile Per ogni tirocinante è opportuno elaborare un progetto che contenga in linea di massima quanto segue: 1. analisi del contesto con la esplorazione selettiva della realtà, scelte prioritarie e definizione degli obiettivi, con riferimento sia agli allievi educatori che ai soggetti di cui gli stessi si occupano; 2. definizione degli obiettivi specifici che potranno essere individuati dopo una prima fase di approccio e osservazione del contesto in cui andranno ad operare i tirocinanti; 3. per ogni obiettivo sarà indicato un metodo possibilmente supportato da riferimenti teorici e bibliografia adeguata; 4. strumenti e mezzi, questi elementi costitutivi del piano di lavoro potranno e dovranno in parte essere forniti dall’Università e laddove e quando possibile dalle strutture di accoglienza, in particolare i mezzi pratici (supporti cartacei ed il necessario per attività espressive) oltre a supporti tecnologici (video, cassette) per la documentazione dell’attività svolta; 5. tempi: per i vari obiettivi vanno indicati i tempi di attuazione che potranno essere a breve, medio e lungo termine in relazione alla durata prevista del tirocinio; 6. pianificazione della valutazione: si tratta di ipotizzare una verifica del progetto di tirocinio in particolare al perseguimento degli obiettivi e dei punti di cui sopra; particolare attenzione va dedicata al metodo utilizzato con i singoli, con i gruppi e con le organizzazioni; 7. nuove ipotesi operative e riconduzione a coerenza di quella parte del PDL che risulta inadeguata. Ciò presuppone un’analisi puntuale delle difficoltà incontrate, nei punti di cui sopra, con la correzione e la modifica di quanto è risultato inadeguato; 8. questa parte del piano di lavoro deve permettere di giungere ad un piano operativo specifico e personalizzato che deve mirare alla realizzazione degli interventi (chi fa, cosa, quando); 9. valutazione dei risultati da effettuare in maniera congiunta tra struttura universitaria e strutture operative; 10. ulteriore analisi del contesto quando sono state individuate consistenti modifiche strutturali e organizzative nella sede di tirocinio. La proposta di ipotesi di piano di lavoro flessibile potrà essere modificata tutte le volte ritenute necessarie dagli operatori e / o da tirocinante, previa reciproca informazione e accordo, in armonia con i problemi emergenti della struttura e che emergono dal diario di tirocinio. L’ipotesi di piano di lavoro e tutta l’attività, qualora non esista un lavoro di supervisione per tutta la struttura, potranno essere supervisionati da un educatore professionale disponibile e più esperto che opera nella struttura stessa. La supervisione Nel lavoro educativo esistono un diffuso bisogno e una diffusa pratica di supervisione educativa. Cosa si intende per attività di supervisione? Il rapporto con qualcuno, il quale, in virtù della sua esperienza, della formazione e delle competenze consolidate può esprimere un fondato e non vincolante parere rispetto a qualcosa nel quale l’operatore è impegnato. La supervisione, oltre a presupporre un’asimmetria di conoscenze e di esperienze, presuppone una diversità di posizione rispetto al coinvolgimento diretto e alla responsabilità. La supervisione, per essere tale, non può vedere il supervisore direttamente impegnato nella gestione del caso oggetto di supervisione. È necessaria, dunque, una posizione di distacco. Nell’ambito educativo, si pone la questione della distinzione e del rapporto che intercorre tra la supervisione di tipo pedagogico e di tipo psicologico, anche per ridurre i rischi che l’insieme delle supervisioni siano ridotte al secondo tipo. La supervisione psicologica può essere rivolta ad un gruppo di lavoro composto da pari, o come supervisione individuale. La supervisione rivolta ad un gruppo di lavoro può affrontare le dinamiche interne al gruppo, il vissuto degli interventi, il rapporto con le altre figure professionali e gli altri livelli gerarchici. La supervisione psicologica si interroga (e spinge ad interrogarsi) rispetto al vissuto individuale o collettivo dell’esperienza operativa, indipendentemente dalla sua collocazione nel progetto di intervento. La supervisione pedagogica, ha lo scopo di favorire la lettura pedagogica dei fatti educativi e presenta diverse sfumature che si esplicitano in specifiche domande relative a situazioni critiche e meno o per nulla critiche. In particolare è una supervisione finalizzata a: individuare e scegliere alcune situazioni intoppo che non consentono, a una prima analisi, l’auspicato procedere del progetto; favorire la realizzazione di progetti educativi condivisi basandosi sull’idea della rete interna ed esterna al gruppo di lavoro; favorire il confronto tra le dichiarazioni di intenti educativi con gli effetti educativi, quando tra i due momenti sembra esistere uno iato non ritenuto non fisiologico ma patologico. Diario di lavoro Il diario di lavoro è lo strumento che documenta le azioni svolte dall’allievo che svolge l’attività di tirocinio. Il diario può contenere le seguenti informazioni. a) Descrizione dei fatti osservati La descrizione dei fatti, obbligatoria, rappresenta il punto di partenza per consentire all’allievo stesso, e al supervisore, una riflessione continua sull’attività svolta. Ciò offre l’abitudine a osservare i fatti e riportarli prima di esprimere opinioni o giudizi. Con questa attività sistematica si intende fare sviluppare una capacità di attenzione verso il contesto di lavoro finalizzata all’azione nel suo complesso. b) Emozioni e vissuti Nello svolgimento delle attività ciascun allievo è chiamato a partecipare e quindi a distinguere l’operato svolto dalle emozioni e dai vissuti che l’accompagnano. Si è potuto verificare che la “oggettivazione” delle emozioni, riportate nel diario, genera nell’allievo una riduzione della tensione emotiva stessa, favorendo una più facile consapevolezza della situazione reale e una migliore gestione delle eventuali difficoltà. c) Giudizi e valutazioni La descrizione dei “giudizi” professionali e personali sui fatti e sulle emozioni vissute intende favorire un esercizio di costante critica razionale che, pur non negando le emozioni ed i rapporti interpersonali con utenti e colleghi, permetta al supervisore, attraverso la lettura di stimolare l’allievo di accettare anche giudizi diversi dai propri. d) Problemi emergenti Attraverso l’individuazione di possibili problemi emergenti dalle attività svolte, l’allievo apprende a sintetizzare quanto ha carattere prioritario, con l’impegno a riproporre in équipe e in gruppo detti problemi. A volte gli allievi riportano descrizioni di situazioni molto dettagliate e prolisse tali da far passare in secondo piano problemi che meritano un’attenzione particolare. Ovviamente non si tratta di ripetere quanto già descritto, ma di elencare uno o più punti su cui si richiama la propria e l’altrui attenzione, per una valutazione che vada anche oltre le situazioni contingenti. e) Quesiti e rapporti con la conoscenza teorica Questa descrizione ha lo scopo di aiutare lo studente a porsi domande che possono non trovare immediata risposta nell’ambito del lavoro, ma la cui risposta permette un approfondimento teorico necessario al consolidamento della conoscenza. Attraverso le domande e i quesiti che l’allievo pone a sé stesso e agli altri con cui lavora, nonché ai docenti degli insegnamenti teorici e di tirocinio professionale, si favorisce un maggior e più funzionale collegamento teoria / prassi per una migliore comprensione dei fabbisogni conoscitivi con risposte sempre più mirate e professionali, in grado di superare le improvvisazioni e il “contingente”, rischi che sono sempre in agguato per tutti gli operatori. Il tirocinio può essere effettuato presso strutture e servizi di tipo specialistico e /o educativo quali: strutture che si occupano il disagio psichico; comunità terapeutiche; scuole dell’infanzia; asili nido; strutture per disabili; centri diurni di riabilitazione; case famiglia; case di accoglienza; gruppi appartamento. (A volte le tipologie possono assumere diverse denominazioni in rapporto alla normativa regionale) tossicodipendenze e AIDS; comunità terapeutiche; centri di reinserimento sociale; centri diurni, ecc.; Per le carceri possono essere considerati tirocini in: carcere minorile; carcere per adulti; manicomi giudiziari; centri antiviolenza per donne e bambini; centri per minori maltrattati e abusati. La scelta va fatta in rapporto alla propria preparazione precedente e alla propria disponibilità ad affrontare le problematiche specifiche. Sono da privilegiare sempre le strutture che hanno un superiore (se possibile un tutor interno che sia educatore) e il lavoro di équipe. Consiglio di visionare le seguenti leggi: Legge 13 maggio 1978 180 Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori; DPR 22 Settembre 1988 448 Approvazione Delle Disposizioni Sul Processo Penale A Carico Di Imputati Minorenni; D. Lgs. 28 Luglio 1989 272 Norme Di Attuazione Sul Decreto Del Presidente Della Repubblica Sui Procedimenti Penali Per I Minori; Legge 19 Luglio 1991 216 Primi Interventi In Favore Dei Minori Soggetti A Rischio Di Coinvolgimento In Attività Criminose; Legge 3 Agosto 1998 269 Norme Contro Lo Sfruttamento Della Prostituzione Della Pornografia Del Turismo Sessuale In Danno Di Minori Quali Nuove Forme Di Riduzione In Schiavitù; Legge 28 Ottobre 2002 38 Garante infanzia e adolescenza; Legge 14 luglio 1993 222 Conversione in legge con modificazione del decreto legge 14 maggio 1993 N. 139 recante disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da infezione da HIV e di tossicodipendenti; Legge 8 Marzo 2001 40 Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori; Legge 5 febbraio 1992 104 Legge-quadro per l'assistenza l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate; Legge 1998 162 Interventi per l'handicap grave; Legge 1997 284 Interventi per ciechi pluriminorati. Alcuni consigli di natura pratica La scelta della struttura deve essere sempre ponderata, gli aspetti più importanti da osservare sono: - la disponibilità del responsabile a seguirvi nel percorso formativo; - la presenza di almeno un educatore professionale (se non c’è una figura professionale che conosce il vostro ruolo, difficilmente saprà dirvi cosa e come fare il vostro lavoro); - assicurarvi che la struttura sia extrascolastica e non scolastica (tranne scuola dell’infanzia e nido); - presentarvi con una idea ben precisa, senza avere l’aria di chi non sa cosa deve fare (è così che molte strutture sfruttano i tirocinanti senza insegnare loro nulla); - leggere le dispense prima di recarvi alla struttura; - leggere le dispense anche mentre svolgete il tirocinio; - documentarvi sul servizio che offre la struttura scelta (ogni servizio alla persona è diverso); - fare domande, pretendere attenzione, formazione, risposte esaustive e non evasive, ricordatevi che il tirocinio e tutto ciò che scriverete di questa esperienza è finalizzato all’esame. Cosa scrivere nel diario di bordo e nella relazione finale La prova scritta del tirocinio, il diario di bordo in sostanza serve a dimostrare quanto e cosa avete compreso durante la vostra esperienza nella struttura ospitante. Di conseguenza, è fondamentale spiegare per ogni attività il valore educativo-formativo e/o riabilitativo (a seconda del servizio in oggetto), di conseguenza, metterò in risalto il tipo di lavoro che andrò a svolgere e con quale tipo di utenza, narrerò in breve il problema sul quale opererò, la pianificazione del mio lavoro di osservazione, della metodologia che adotterò, degli strumenti che la struttura mette a disposizione, degli obiettivi a breve, medio e lungo termine, ecc. Troppo spesso nei lavori che leggo trovo tutt’altro. Il diario di bordo e la relazione finale hanno il valore di un esame scritto perché vengono esaminati e valutati come tali ecco perché insisto nel dire che sono migliori le strutture che offrono figure professionali disposte a seguirvi nel vostro percorso formativo; ecco perché prediligo alcune strutture piuttosto che altre; ecco perché preferisco che facciate un tipo di lavoro piuttosto che un altro, perché voglio che siate preparati al lavoro che vi aspetterà quando sarete laureati, quando sarete pronti a lavorare in strutture dove chi ha bisogno di voi si aspetta delle risposte e nessuna domanda. Per fare un breve esempio di errore che spesso trovo nel diario di bordo. Se ad esempio, in una giornata descritta nel diario di bordo trovo il racconto di una festa di compleanno con la descrizione del puro intrattenimento / divertimento dei bambini e di tutti i partecipanti senza nessun riferimento alla parte educativa di questo importante dettaglio che fa parte delle tante attività che si svolgono nella scuola dell’infanzia, l’unica cosa che si percepisce è il significato di piacere dei bambini, aspetto che per quanto importante non ha bisogno di essere esaminata da un docente; se nella relazione finale leggo quanto l’esperienza vi sia piaciuta e quanto il lavoro vi abbia entusiasmato non ho nessun elemento tecnico per assegnare un voto. Anche nella relazione finale ho bisogno di trovare aspetti riferiti ai risultati più o meno raggiunti, ad aspettative più o meno rispettate e leggere una vostra spiegazione delle motivazioni, delle criticità incontrate, ecc. Se in una comunità (di qualsiasi genere) descrivo l’attività di cucina che si svolge a turno dagli ospiti della cosa in realtà non ho spiegato niente del valore dell’attività ma ho solo descritto le attività svolte nel tempo e nello spazio. Con questi pochi e semplici esempi spero di avervi fatto comprendere che dietro ogni azione che vedrete c’è un progetto concordato e scritto e voi dovete sempre chiedere il significato di ogni azione per comprendere il senso del contenuto, perché si fa quella cosa piuttosto che un’altra. Ricordatevi sempre che siete in formazione e che è vostro diritto fare domande, chiedere approfondimenti, ulteriori riferimenti bibliografici ecc., perché il tirocinio è un accordo fra due istituzioni. Non dimenticatelo, e osate nei limiti del possibile e nel rispetto delle persone e degli utenti. Base teorica per affrontare l’esperienza del tirocinio e per sostenere la seconda prova d’esame Indice Prima parte 1. I servizi alla persona 1.1 Approccio fenomenologico e didattica 1.2 Concetto di disagio 1.3 Concetto di handicap 1.4 Dalla cura al prendersi cura (…e gli strumenti dell’auto-cura) 1.5 La presa in carico dell’utente 1.6 Relazione educatore-utente 1.7 Dalla guarigione alla qualità della vita Seconda parte 2. La pedagogia e gli orizzonti di senso contemporanei 2.1 Quando la comunicazione nei contesti educativi si ammala 2.2 La cultura della genitorialità 2.3 Colloquio e tecniche di ascolto per una comunicazione significativa 2.4 I Distinzione fra il colloquio e una conversazione 2.5 Protagonisti del colloquio 2.6 Interazione esperto utente 2.7 Cosa deve fare l’esperto 2.8 Tappe di un progetto di intervento Bibliografia essenziale per gli educatori Prima parte I servizi alla persona Operare nei servizi alla persona impone lo scopo di colmare la distanza tra chi ha il problema e chi lo percepisce ma per fare ciò, dobbiamo necessariamente comprendere la condizione di disagio che vive l’utente. Troppo spesso siamo portati a pensare il disagio come una condizione oggettiva e comunque oggettivabile. La “relazione d’aiuto” implica la capacità di “mettersi a disposizione” dell’altro e in situazione di ascolto, con il rischio, in alcuni casi, di essere professionalmente sottovalutato ed in altri di giungere ad un’interpretazione freddamente “professionistica” del ruolo che porta a rigidità di atteggiamenti e quindi alla sua stessa negazione. Le professioni delle relazioni d’aiuto hanno la necessità di essere considerate professioni, ma il loro rischio è quello di non ascoltare, di permettersi una disinvoltura che diviene possibile proprio in virtù del loro essere professione. L’interpretazione specialistica della professione non deve portare ad ignorare la dimensione degli “affetti” ed a valorizzare unicamente quella della “mente”. Si tratta, al contrario, di avere piena consapevolezza della necessità di cambiamenti che portino alla definizione di professionalità ri-educative specifiche e complementari, in grado di giocare un ruolo importante nel processo riabilitativo delle persone. Il passaggio dalla cura al prendersi cura implica un forte senso di responsabilità verso la vita umana; non può esistere la dimensione della cura senza responsabilità verso l’altro da noi. Questa dimensione si crea in ogni relazione riabilitativa; il darsi reciproco, il bisogno di uno scambio vicendevole si riempie di significazione umana. La cura segue la logica della comprensione, del dialogo, del sostegno, attraverso la forma comunicativa, ma è anche sostegno intenzionalmente rivolto dall’altro da sé. Rappresenta, fenomenologicamente il dono della vita stessa. Si attua nella pratica del rispetto, della reciprocità, della comunicazione autentica, dell’empatia. L’empatia è la capacità di comprendere le esperienze altrui, l’attenzione piena alla profondità propria e dell’altro, che solo, o quasi, nell’azione di cura riabilitativa possiamo toccare con mano. È fondamentale, inoltre, un progetto terapeutico e una strategia operativa che comprendano i vari aspetti della realtà della situazione di handicap. L’obiettivo non può essere quello di diagnosticare i problemi per poter offrire le soluzioni, bensì, anche nelle situazioni più difficili, quello di valorizzare le risorse della persona per poterla coinvolgere direttamente nella ricerca delle modalità di superamento delle difficoltà. Coloro che svolgono una professione educativa possono rispondere ai bisogni di uomini che non sanno più dare voce al proprio bisogno di incontro, di dialogo, di relazione: lo possono fare in un esercizio continuo e responsabile di cura verso se stessi, verso gli altri, verso il mondo. Approccio fenomenologico e didattica La fenomenologia è una corrente di pensiero che riconosce il suo filo diretto nella filosofia, seppure declinata poi nell'attenzione all'organizzazione dinamica, normale e patologica, della vita psichica. La prima e fondamentale illustrazione fenomenologica della psichiatria fu opera di Karl Jaspers, nel suo libro Psicopatologia generale" dei 1913'. Jaspers, rifacendosi alla distinzione tra spiegare e comprendere sostiene che il ruolo dello psicopatologo è entrare in empatica comprensione del disagio del paziente. L'obiettivo non è tanto quello di scoprire le cause della sofferenza, quanto di produrre un'esperienza condivisa del vissuto emotivo del paziente, per condurlo attraverso un percorso di consapevolezza. Quindi lo strumento principale del clinico, per Jaspers, è la capacità di ascoltare e di mettersi in relazione con il malato; l'attenzione è rivolta più alla forma dell'espressione mentale che ai suoi contenuti. Normale e patologico non sono mondi distinti, ma modalità diverse attraverso cui gli individui elaborano e progettano la foro vita nel mondo. Dopo di lui, l'impostazione fenomenologica fu ripresa e ampliata da Ludwig Binswanger. Nei suoi scritti Binswanger criticava l'impostazione della psichiatria tradizionale consistente nella descrizione di oggetti esterni (i sintomi), separati dal vissuto integrato dei malato, e proponeva una psicopatologia basata su una conoscenza immediata, intuitiva, dei vissuti soggettivi interni. Per Binswanger, la psicologia non deve essere lo studio della coscienza e dei comportamento in astratto, ma lo studio delle modalità di essere dell'uomo nel mondo, della sua visione originale della vita, e dei suo progetto di espressione concreta di sé. La psichiatria fenomenologica fu molto diffusa negli anni '60, si poneva come alternativa critica alla psicoanalisi, e fornì una base teorica importante per i movimenti antipsichiatrici degli anni 70. Nell'applicare il metodo fenomenologico la psichiatria spostò lo sguardo dal corpo – oggetto, inteso come dimora di sintomi e per questo ridotto ad oggetto di studio, al corpo-soggetto visto nella sua totalità di persona. Questo metodo rivoluzionò completamente il modo di cogliere le manifestazioni psicopatologiche non più considerate esclusivamente segni della malattia ma rivelatrici dei modi essenziali in cui un'esistenza riceve, trasforma e si progetta nel mondo. In questo senso si modificò (col passare degli anni) anche la modalità di fare e di considerare una diagnosi che, nel caso della schizofrenia, all'epoca dei nazionalsocialismo tedesco, significava una vera e propria condanna a morte. Oggi, nella moderna società, la diagnosi psichiatrica, anche se adeguata scientificamente e clinicamente, trascina con sé cascate di angoscia e di intolleranza che è necessario tenere presenti; non per modificare o falsare una diagnosi ma per smorzare la loro risonanza utilizzando articolazioni diagnostiche alleggerite, che si limitino a tematizzare ciò che si manifesta nel contesto della sintomatologia clinica. È fondamentale ricordare il peso e le conseguenze di una diagnosi sbagliata che può segnare, senza possibilità di rimedio, la vita di una persona sia psicologicamente sia socialmente. Cosa si nasconde in ogni anima che sia ferita e lacerata dal dolore, è difficile e complesso da decifrare: sia nella vita di ogni giorno sia in psicologia e in psichiatria: scienze umane queste, che hanno dinanzi a sé orizzonti oscuri e talora incomprensibili. La psichiatria, come scienza umana, si confronta con circoli tematici non solo biologici ma anche, e forse soprattutto, psicologici e umani; fra questi, le emozioni, i loro modi d'essere e la loro fenomenologia si costituiscono come un'area conoscitiva alla quale non è possibile sfuggire né nella vita di ogni giorno né in quella psicopatologica. Ogni esperienza psicotica si nasconde e si mimetizza nei suoi significati e nelle sue allusioni se non viene ascoltata e decifrata fenomenologicamente. La psichiatria clinica ci consente di fare la diagnosi della malattia, di coglierne i sintomi e i momenti evolutivi, ma non ci consente di cogliere gli aspetti strutturali, psicologici e antropologici: i suoi modi d'essere radicali. Il primato della clinica è fuori discussione in psichiatria come in una qualsiasi patologia, ma a questa deve affiancarsi un altro orizzonte di conoscenza: quello fenomenologico e antropologico, solo cosi la dilemmatica ragione d'essere della psichiatria, che si confronta con gli aspetti biologici e sintomatologici delle esperienze psicotiche, e contestualmente nei loro aspetti psicologici e umani, non viene contaminata e viene rispettata. La fenomenologia esistenziale si propone di precisare la natura dell'esperienza che si ha del proprio ambiente e di se stessi. Non si tratta tanto di descrivere i diversi oggetti particolari di questa esperienza, quanto di porre tutte le varie esperienze singole entro il contesto di un globale essere nel mondo. È così facendo che la psichiatria come le altre scienze si sottrae alle rigide maglie dell'indifferenza emozionale e della distanza e diviene, allora, psichiatria aperta al confronto con i problemi radenti e incandescenti della vita e della sofferenza umana. La dimensione dell'educatore si caratterizza proprio per la sua naturale inclinazione verso questo tipo di approccio; poiché la fenomenologia è lo studio delle cose stesse, delle mille possibili causalità e ragioni che determinano un corpo ed una psiche, non è dogmatica, non è un modello di riflessione sull'uomo come oggetto della psicologia, della biologia, della sociologia, la fenomenologia è una filosofia, anzi uno studio delle essenze, ... Questo nuovo modo di rivolgere lo sguardo verso l’utente, è alla ricerca del suo modo di essere e dì vivere , che non si può decifrare fino in fondo avvalendosi esclusivamente degli strumenti della conoscenza razionale, perché essi, si rivelano nella loro autentica e complessa dimensione psicologica e umana, solo se ci avvaliamo anche di una conoscenza intuitiva che nasce dalle ragioni del cuore. La follia, il disagio non sono qualcosa di estraneo alla condizione umana bensì un modo diverso di vivere e dare senso alla propria vita; non è possibile descriverle come forma di vita, con le sue ombre e le sue inquietudini, attraverso delle classificazioni che comprimono e pietrificano stati d'animo fluttuanti e mutevoli che non lasciano spazio all'ascolto dei pazienti nel l'immediatezza del loro linguaggio e della loro angoscia, trasformando il "segno" in "sintomo" cioè in un determinato segno di malattia. Gli studi fenomenologici hanno dimostrato quanto sia ingannevole ad esempio l'incomprensibilità dei mondo schizofrenico: in esso si intravedono linee autonome e strutture di organizzazione interna e di interna articolazione nelle quali è possibile cogliere un nodo, disperato e torturato, di significazioni. Come questo nodo di significazioni possa essere scandagliato e portato alla luce del senso è l'area di ricerca della fenomenologia con il rovesciamento radicale di atteggiamento conoscitivo che essa trascina con sé. L'individuo ha allontanato da sé l'idea della morte, della sofferenza, il rischio delle catastrofi naturali, dì quelle politico-economiche della guerra. Il progresso scientifico-tecnologico, economico e culturale ha concesso all'uomo di appropriarsi di un senso d'immortalità che è solo apparente. L’individuo che non conosce il dolore, le difficoltà, la morte è un individuo debole; chi non ha mai avuto modo di sperimentare il suo essere "mortale" per cui fragile, imperfetto, insicuro, timoroso, è più a rischio nella moderna società. Inerme, l'uomo si affaccia in un mondo che non terrà conto della sua disarmante ingenuità. L'esperienza della vita mette alla prova costantemente gli aspetti fragili dell'essere umano, e quando ciò accade gli equilibri sballano, con il risultato di provocare un senso di smarrimento, angoscia, paura. Per affrontare tali accadimenti non esistono manne né pozioni miracolose se non all'interno di ognuno di noi; allora solo chi avrà conosciuto se stesso saprà affrontare e superare l'empasse, chi no, si perderà nelle trame della sua anima e (forse, nella migliore delle ipotesi) cercherà sostegno presso gli specialisti del settore i quali lo aiuteranno a calarsi e ad esplorare l'intimità dei suo io. I Gesuiti, nelle loro pratiche, erano noti per definire "gli esercizi spirituali le attività che esercitavano nei trenta giorni ad essi dedicati: esse comprendevano momenti di meditazione, preghiera e isolamento che aiutavano i fedeli a riconciliarsi con loro stessi, conoscersi meglio, cercare debolezze e virtù. Si praticava una vera e propria decostruzione dell'io per poi erigere le solide fondamenta della consapevolezza dei sé. Tali pratiche erano ritenuti indispensabili perla formazione dei Gesuita, come lo sono oggi per la sopravvivenza psico – emotiva dell'uomo; diceva infatti Ignazio di Loyola: Una vita che ci è ignota non vale la pena di essere vissuta, le paure, gli impulsi e i vincoli che si celano nell'animo umano riescono a influenzare le nostre decisioni e azioni; e ancora: "si può stare soli, e bene, soprattutto con se stessi, e assaporare l'emozione del ricordo, il piacere della nostalgia e della malinconia ma per comunicare poi, quel che la solitudine insegna. Noi individui della modernità, invece di riappropriarci di noi stessi, dei nostri significati personali e collettivi attraverso la valorizzazione dell'io interiore, ci perdiamo e ci confondiamo con il rumore, la superficialità e l'uniformità. La sfida è quella di trovare il coraggio e la forza di rileggere la nostra storia e tentare di ricostruirla secondo una forma nuova densa di significato. Investire su noi stessi, conoscere le radici delle nostre emozioni, comprendere paure e debolezze, affrontarle, non dico che sia una cosa facile, anzi è un processo graduale che però deve avere un inizio. Questo appare un modo nuovo e particolarmente efficace per fare prevenzione e cura nello stesso tempo. Concetto di disagio Nella prospettiva fenomenologica, quella che prenderemo in esame, il disagio è prima di tutto un vissuto, e come tale può essere compreso soltanto a partire dal punto di vista del soggetto; non possiamo, noi operatori, dare per scontato che una certa situazione determini uno stato di disagio, né quale nome attribuire a quel “disagio”. In effetti, la parola “disagio” è ambigua, troppo vaga e generica: si limita a rilevare un’assenza, un’inadeguatezza. Non è un caso che abbia così tanti sinonimi: “sofferenza”, “crisi” , “disturbo”, “stress”, “malattia”, ma anche “tristezza”, “nostalgia” possono andare bene, in alcune situazioni per descrivere il nostro disagio. Dis-agio: l’origine etimologica conferma il senso di qualcosa che non c’è, un vuoto, un’assenza. Potremmo dire che il disagio è una mancata risposta ad un bisogno o anche ad un desiderio dell’essere umano. Ma esistono altre forme, più radicali, di disagio: per esempio il disagio di non aver più desideri o bisogni, di non sapere più chi sei, o di non averlo mai saputo. C’è uno stare male che è più assoluto del “sentirsi a disagio”. In questi casi è particolarmente evidente l’impossibilità di oggettivare il disagio e l’illusorietà di tante strategie che mirano a fornire una risposta concreta, immediata, diretta come se fosse possibile dare soluzione o sollievo a questo disagio attraverso un processo deterministico, lineare, causale. Un primo passo per comprendere il disagio, che rappresenta un modo di per sé per intervenire sul disagio, consiste proprio nel dargli un nome, dei confini, dei connotati che proprio perché soggettivi, hanno un’elevata probabilità d’incidere significativamente sull’esperienza, di dare forma all’esperienza. Nella nostra cultura, il disagio ha quasi sempre una connotazione negativa. Raramente, anche tra gli specialisti, se ne coglie il potenziale di scoperta, di apprendimento, di motivazione al vivere. Eppure, lo sappiamo bene, quando un essere umano è a disagio vorrebbe fare qualcosa per uscirne: secondo i teorici dell’apprendimento, diverse forme di disagio psicologico e/o fisico, dovuto allo piazzamento cognitivo, alla crisi, a forti emozioni, sono pre-condizioni per l’evoluzione di nuovi comportamenti, di nuove rappresentazioni di sé e del mondo, di strategie relazionali o cognitive in un dato soggetto. Se prendiamo in considerazione, in particolare, gli adulti, possiamo dire che solo il disagio dovuto a grandi spiazzamenti può diventare promotore di cambiamento. Qual è infatti l’adulto che, trovato un equilibrio vivibile nelle sue condizioni e abitudini, decide di cambiare? È rarissimo, anche perché sarebbe antieconomico. Ecco perché l’educazione degli adulti dà tanta importanza alla nozione di “crisi”. Se si eliminano le cause o le manifestazioni superficiali del disagio, resta il fatto che un intervento troppo rapido il più delle volte aggira la necessità vitale, per il soggetto, di dare senso all’esperienza, gli evita la fatica e il dolore di interrogarsi per comprendere il proprio disagio, e con esso una parte del senso della propria esistenza. Chi si occupa di servizi alla persona e di riabilitazione non dovrebbe considerare il disagio solo un nemico da combattere, ma una risorsa preziosa, un’esperienza da interrogare e addirittura da ricercare e provocare attivamente in qualche caso. Queste premesse sono importanti per comprendere la nozione di cura di sé. Se il disagio non è a priori, non è oggettivo ma soggettivo, se è un’occasione di apprendimento, allora l’unica cura possibile, il rimedio al disagio, è la cura di sé, intesa come ascolto dei propri bisogni e desideri, comprensione attiva dell’esistenza, riflessione, bilancio, progetto di vita. L’uomo ha inventato tanti modi per occuparsi dei propri disagi; modi antichi, come le tecnologie della cura di sè- Michel Foucault (1988) le aveva definite tout court “tecnologie del sé”- perché nel praticarle con una certa assiduità finiamo per affermare la nostra stessa esistenza, la nostra identità. Alcuni esempi: il diario, l’esame di coscienza, l’espressione letteraria e la poetica, una lettera o una telefonata ad una persona amica, una conversazione, uno scritto autobiografico. Concetto di handicap Di fronte ad una condizione di “malattia” le funzioni che appaiono maggiormente compromesse sono il ruolo lavorativo e quello sessuale, e, di seguito, le relazioni sociali, l’attività nel tempo libero, la partecipazione alla vita familiare e la cura di sé. La disabilità (derivata da una menomazione fisica o psichica) comporta direttamente, a causa della sua psicopatologia, e indirettamente, mediante meccanismi psicosociali di cronicità, un correlato sociale: l’handicap. La minore competitività rispetto alla collettività e lo stigma sociale determinano, uno svantaggio nei confronti degli altri, apportando una serie di ulteriori conseguenze sociali sfavorevoli. Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’handicap indica “una condizione di svantaggio per un determinato individuo, dovuta ad una menomazione o ad una disabilità che limita o impedisce l’esercizio del ruolo normale per quell’individuo (in relazione all’età, al sesso, ai fattori socio-culturali) ed evidenzia una discordanza fra l’attività e la condizione effettiva dell’individuo. È un fenomeno sociale che rappresenta la conseguenza, sul piano sociale e ambientale delle menomazioni e delle disabilità dalle quali il singolo individuo è affetto”. L’ICDH definisce l’handicap “una condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilita, che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona in relazione all’età, al sesso e ai fattori socio-culturali”. L’handicap costituisce, dunque, uno svantaggio vissuto che non sempre implica una precisa consapevolezza della propria ridotta competitività; la condizione di svantaggio dipende dall’interazione tra la componente personale e l’ambiente sociale. Le definizioni hanno avuto una sorta di evoluzione e cambiamenti fino ad oggi: - Menomazione: la mancanza di parte o di tutto un membro, o la presenza di un difetto ad un membro, o ad un organo, o ad una funzione organica; - Invalidità: la perdita o la riduzione delle capacità funzionali; - Handicap: la perdita o la limitazione di attività causate dall’invalidità; - Inabilità: l’impossibilità di esercitare un’attività lavorativa abituale. Tenendo presente che nel linguaggio corrente va acquisendo maggiore credibilità il concetto di “diversamente abili” in quanto accentua gli aspetti positivi e le abilità residue di una persona. Il concetto di handicap pertanto può applicarsi solo a quelle circostanze in cui il soggetto si trova a dover rispondere a specifici contesti e ad altrettante specifiche richieste alle quali non è in grado di far fronte. Questa focalizzazione sull’ handicap consente di programmare un’attività riabilitativa, che miri non solo al recupero delle abilità ridotte, ma soprattutto alla valorizzazione di quelle residue. Oggi quando parliamo di riabilitazione sociale intendiamo dire che la presa in carico da parte, dell’ente o del privato, è di tutto il nucleo familiare e della piccola comunità in cui vive l’utente. Spesso però quando parliamo di presa in carico non capiamo bene il significato, nel pratico, di come e cosa avviene. Dalla cura al prendersi cura Non è insolito accorgersi o sentirsi dire di essere diventati puri spettatori e non più attori della propria vita; è possibile che, inavvertitamente, senza sapere né come né quando, le redini del tempo ci siano sfuggite di mano e che il tempo sia trascorso lasciandoci inerti, in balia del succedersi degli eventi, senza la volontà di assumerci la responsabilità di intervenire: Quando non si assume questa responsabilità è inevitabile, prima o poi, esperire l’angoscia conseguente al sentire il tempo consumarsi in un susseguirsi immobile di attimi vuoti di senso. Mancare la ricerca della propria trascendenza significa rischiare l’ammalarsi dell’anima nelle forme desertificanti di un’esistenza 1 mancata» . Condivido il pensiero di Luigina Mortari perché una vita fatta di atti impersonali, una vita in cui ci si lascia vivere secondo modi e ragioni decisi altrove e non si decide il proprio esserci a partire da sé possono generare un nichilismo emotivo. L’aver cura di sé, visto da questa prospettiva, significa cambiare la propria percezione del tempo; non si tratta più di viverlo ma di esistere nel tempo. Heidegger ci dice che la Cura è la stessa esistenza dell’uomo, e che essa non è altro che temporalità: tempo che si concretizza e che si esprime, effettivamente ma anche simbolicamente, il rapporto che l’uomo ha con se stesso e con il mondo, e nelle relazioni con gli altri. Così ci suggerisce anche che non è possibile considerare separatamente il coinvolgimento dell’uomo nel mondo e nelle relazioni con gli altri – in qualsiasi forma esso si possa manifestare – dal modo in cui egli individua se stesso, si rapporta a se stesso, alle proprie possibilità esistenziali2. In questo senso la cura è il processo attraverso cui ogni individuo assume un proprio modo di essere divenendo se stesso. L’uomo, sempre secondo gli studi di M. Heidegger, in modo particolare in Essere e tempo3, si forma in quanto essere nel mondo, dunque nel suo coinvolgimento con il mondo e con gli altri, anche con coloro che si prendono cura di lui. In questo diverso modo di percepire e comprendere la propria esistenza, egli può individuare se stesso a partire dalle cure che altri gli riservano, dalle possibilità che egli intravede nel mondo a partire dal sé; difatti, l’aspetto che caratterizza il modo di esistere dell’uomo è la sua temporalizzazione, il suo modo di esistere nel tempo, di 1 L. Mortari, op. citato, pag. 3. C. Palmieri, La cura educativa, Franco Angeli, Milano 2012, pag. 38. 3 M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. Longanesi, Milano 1976. 2 rapportarsi da un punto di vista fenomenologico con il proprio futuro, di orientarsi verso nuovi orizzonti progettuali oltrepassando i vecchi confini esistenziali. Il tempo prende forma dunque e assume un significato che si modifica con le azioni progettate, volute, desiderate, in relazione e/o in risposta all’accadere degli eventi. Di conseguenza, ricercare nei nostri ricordi gli aspetti più nebulosi per rielaborarli attraverso una lettura differente, più lucida, più matura, più cosciente, nasce dalla capacità di autoriflessione e dalla necessità di dare un ordine logico alla propria esistenza. Scelgo ancora le parole di C. Palmieri per definire la Cura in ambito formativo perché sono a mio avviso le più chiare e complete nella descrizione. La Cura è la più profonda e più completa intenzionalità umana costantemente in bilico tra la possibilità di esistere autenticamente o inautenticamente, mantenendo o meno la padronanza di sé. La Cura è temporalità, rapporto con l’essere che si traduce e si manifesta in una modalità di essere nel mondo e di essere se stessi: una modalità mai data, mai garantita, ma possibile, ogni volta da scegliere o non scegliere, ogni volta differente oppure determinante l’essere dell’uomo, la sua esistenza, la sua formazione. Ma tutto ciò non è che formazione, autoformazione4. Abbiamo letto e compreso quanto sia forte la relazione fra essere e dimensione temporale, poiché è nel tempo in cui l’uomo si autocomprende e si progetta nel tempo e nello svolgersi del tempo. Visto da questa prospettiva, il processo di cura sembra essere il tempo dell’incrocio dell’esistenza del singolo con le esistenze con cui da sempre vive. L’immagine di cura che abbiamo appreso da M. Heidegger ci guida verso la comprensione del senso dell’esistenza umana; in altre scienze, e in particolare nella psichiatria, attraverso le ricerche di L. Binswanger è possibile approfondire il significato di cura sia in relazione al modo di essere nel mondo del singolo individuo, sia in relazione alla terapia come condizione oggettiva e soggettiva. 4 C. Palmieri, La cura educativa, citato, pag. 39. Dagli studi fenomenologici il concetto di cura è molto più ampio e profondo: la cura è più di un’azione o di una pratica che si compie sull’uomo e per l’uomo; è qualcosa che ha a che fare con il modo in cui concretamente si legge il senso e il significato dell’esistenza di ogni singolo individuo. Dal punto di vista fenomenologico l’aver cura può realizzarsi in due modi possibili: si può aver cura dell’altro sostituendosi completamente all’altro nel suo prendersi cura di sé, e di conseguenza, nel suo essere nel mondo l’aver cura può in un certo modo sollevare gli altri dalla «cura», sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto. […] Gli altri risultano allora espulsi dal loro posto, retrocessi, per ricevere, a cose fatte e da altri, già pronto e disponibile, ciò di cui si prendevano cura, risultandone del tutto sgravati … Gli altri possono essere trasformati in dipendenti e in dominati, anche se il predominio è tacito e dissimulato5. Questi due approcci rivolti alla pratica della cura si differenziano sostanzialmente per un aspetto fondamentale: uno mette in discussione la capacità progettuale del soggetto interessato inibendo l’intenzionalità e l’espressività, l’altro invece predilige un metodo che aiuti il soggetto della cura senza sostituirsi ad esso. Secondo il primo approccio la relazione d’aiuto, così come la relazione educativa rischiano di assumere una connotazione di tipo assistenziale nell’occuparsi esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni primari e di rendere il destinatario della cura oggetto di essa. Dal mio punto di vista la cura educativa deve favorire la relazione facendo sì che il soggetto sia in grado di essere parte attiva nel suo processo di cura; solo in questo caso la cura può definirsi educativa perché favorisce la formazione esistenziale dell’altro nel prendersi cura di se stesso, nel conoscere se stesso, nell’essere se stesso. Questo genere di cura libera il sé e favorisce 5 M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. Longanesi, Milano 1976, pag. 157. l’autoformazione del soggetto affinché possa rispondere da sé al mondo in quanto possibile orizzonte esistenziale e a sé in quanto poter essere6. Chi svolge un lavoro autobiografico dialoga con se stesso, gioca e manipola i ricordi come se fossero un testo scritto, sperimenta nuove forme interpretative e il racconto di sé non è mai lo stesso; ogni volta omettiamo oppure aggiungiamo, modifichiamo qualcosa, ogni volta la percezione del ricordo cambia sulla base delle diverse interpretazioni e delle possibili spiegazioni. Possiamo, dunque, affermare che le tracce dell’esperienza e del significato del ricordo, se restano mute, possono anche rimanere identiche e immutabili; quelle stesse tracce hanno solo, in sostanza, due alternative possibili: cadere nel cerchio o nel vortice dell’oblio, oppure essere raccontate, confluire in un dialogo o in un monologo, perché l’uso e/o l’alterazione di parole porta a differenti interpretazioni, differenti angolazioni che permettono di vedere, scorgere, intravedere o prendere in considerazione aspetti mai notati prima o diversamente interpretati7. Sono le narrazioni, le identità, le memorie che elaborano la visione progettuale e offrono alle nuove generazioni le parole per capire e proiettarsi nei nuovi orizzonti di senso. […]La narrazione collettiva si fa orientamento oltre che elaborazione di testi, diventa lettura del sé e del noi oltre che interpretazione, diventa racconto filmico invece che racconto fotografico, diventa consapevolezza immediata di una partecipazione significativa invece che contributo da consegnare alla storia delle micro – narrazioni, diventa sede di progettualità plurale invece che racconto di una istantanea8. La narrazione è un atto comunicativo che può assumere forme diverse a seconda del contenuto e dello strumento che viene usato per comunicare. Come ho già rilevato in precedenza, 6 C. Palmieri, La cura educativa, citato, pag. 27. R. De Cicco, L’esperienza di sé, la cura di sé, le biografie del sé, Aemme, Roma 2013. 8 V. Piccione, Mappe educative e formative 1. I nuovi setting pedagogici, Aemme, Roma 2008, pagg. 110111. 7 la narrazione è una delle esperienze più frequenti della nostra esistenza ed ha un ruolo rilevante nell’espressione dell’immaginazione e dei vissuti emotivi; inoltre, è al tempo stesso uno strumento interumano, trans-storico e transculturale. Il bambino si appropria precocemente dello strumento narrativo e ne fa uso nelle più semplici forme testuali: le paure, i conflitti e i primissimi insegnamenti sono veicolati molto spesso attraverso la fiaba e la favola; l’importanza della narrazione non si esaurisce comunque nell’età infantile: le favole, infatti, vengono pian piano sostituite da forme narrative più complesse, come i romanzi d’autore, il teatro e il cinema9. Gli strumenti dell’auto-cura La pedagogia è una scienza che possiamo definire senza frontiere perché negli anni ha dimostrato l’educabilità di ogni genere di soggetto, compreso il diverso, e si è impegnata a dimostrare e a diffondere i criteri di differenziazione metodologica, strategica e didattica più efficaci per offrire a ciascun allievo favorevoli occasioni di sviluppo. In questa parte di lavoro intendo spiegare la funzione della clinica nelle scienze dell’educazione e della formazione e come sia possibile avvalersi dell’autobiografia come strumento, come pratica terapeutica. Nelle scienze dell’educazione e della formazione la clinica si occupa di accertare quali modelli mentali taciti o espliciti, quali stili di apprendimento, quali consuetudini cognitive un individuo adotti nel rappresentarsi – nel dire “io sono questo” -, nell’attribuirsi un’immagine e un nome proprio10. È possibile per ognuno di noi vivere momenti delicati come ad esempio, le delusioni affettive, lo smarrimento identitario, uno stato depressivo successivo 9 R. De Cicco, Il cinema negli occhi dei ragazzi, Aemme, Roma 2009, pagg. 63-64. D. Demetrio, La scrittura clinica, già citato, pag. 323. 10 ad un lutto di una persona cara, un senso di vuoto e di sconfitta personale dopo una separazione; questi sono tutti eventi della vita rispetto ai quali diagnosi e farmaci sono rimedi assai sproporzionati e non affatto adeguati alla condizione di disagio che si sta vivendo. Difatti, questi stati emotivi ed esistenziali possono essere affrontati con strumenti clinici che enfatizzano la dimensione educativa e conoscitiva e non quello della guarigione. Perché, se di disagio stiamo parlando significa che l’utente è perfettamente in grado di partecipare attivamente al suo programma di auto-cura: insomma, è capace di usare lo strumento autobiografico come scrittura terapeutica. Tutti coloro impegnati in un lavoro autoanalitico di questo tipo, sono chiamati a riflettere sulle proprie forme mentali che usano per organizzare, memorizzare, decodificare i saperi. Riuscire a trovare il tempo per metterci in ascolto con noi stessi in un ambiente lontano dal rumore della società è già un primo passo per intraprendere un dialogo interiore, un muto ascoltarsi e rispondersi; riscoprire il valore della ragione, del ragionamento, della ponderazione, della meditazione, della contemplazione11. Scrivere di sé rappresenta il passo successivo per comprendere e per spiegare disagi, insoddisfazioni, malesseri interiori; narrarsi e scrivere di sé significa innanzitutto pensare, ragionare, riflettere, ricordare, argomentare, oltre che a sentire e a decifrare. C’è una zona oscura, abitata da contenuti di cui mai si parla, che va risvegliata e aiutata a crescere non solo perché possa trovare udienza. Piuttosto, perché possa contare su una guida che la educhi a sviluppare una pensosità maggiore, relativamente ai temi tabù che taluni ritengono sia ingenuo affrontare, mentre 11 Ovviamente, in questo contesto non mi riferisco alla contemplazione mistica. altri reputano troppo ardui non supportati da una cultura sufficiente, altri ancora del tutto inutili12. La scrittura di sé non deve essere confusa con il romanzo autobiografico presente in letteratura; poiché nella scrittura autobiografica la distanza dagli eventi inventati e della finzione è un aspetto determinante, mentre nel romanzo autobiografico il narratore gioca con verità che gli appartengono fino a modificarne il significato senza nessuna preoccupazione di rimanere fedele alla realtà. È opinione di R. Barthes che le immagini, il lessico, il fraseggiare di uno scrittore nascano dal suo corpo e dal suo passato; la scrittura sarebbe, per lo scrittore, una sorta di compromesso tra una libertà e un ricordo e la libertà si manifesterebbe esattamente nel momento stesso della scelta13. Secondo N. Gouiffès14 sarebbero almeno sette le motivazioni che spingono gli uomini e le donne a scrivere di sé: .1 la disposizione a confidarsi e/o confessarsi, a svelarsi senza alcuna remora; .2 la tendenza a voler giustificare le proprie azioni; .3 la tendenza a conoscersi, a raccontarsi, a tracciare un ritratto di sé; .4 la tendenza a testimoniare, a denunciare un’esperienza estrema vissuta; .5 la tendenza a riflettere sul proprio vissuto; .6 la tendenza a cercare un senso e un significato alla propria esistenza; .7 la tendenza a cercare autogratificazione, approvazione sociale e/o riconoscimento civile. 12 D. Demetrio, La scrittura clinica, citato, pag. 320. R. Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1984. 14 D.Demetrio, La scrittura clinica, citato. 13 In questo elenco non viene menzionato il bisogno di scrivere come cura di sé, ma possiamo dedurre che in questi sette punti l’aspetto auto-terapeutico sia trasversale a tutte le attività citate che compie l’utente. Da un punto di vista pedagogico possiamo affermare che la cura è un incontro fra il sé e il mondo, fra il sé e l’altro; in questo incontro che sembra profilarsi un’importante relazione tra il modo in cui un uomo si può rapportare a se stesso, scegliendo o meno la propria esistenza, e il modo in cui ha cura degli altri, come se in qualche modo nella cura dell’altro fosse implicitamente presente il modo di aver cura di sé, intendendo per cura di sé non tanto un comportamento specifico verso un sé astratto e isolabile dall’esistenza, ma quel costitutivo relazionarsi dell’uomo con le sue proprie possibilità esistenziali15. C’è da dire inoltre, che il modo di prendersi cura di qualcuno è strettamente collegato alla capacità di comprendere l’altro, di ascoltarlo empaticamente; si tratta di un comprendere che orienta lo sguardo sulla profonda e intima conoscenza dell’altro, sugli aspetti emotivo-affettivi, e, di conseguenza, sulla relazione con l’altro. Questa inclinazione speciale alla comprensione del nostro interlocutore forse genera già un cambiamento esistenziale, dunque una formazione. Dal punto di vista pedagogico, sembra essere condizione della formazione e al contempo la forma che la formazione individuale assume16. Nella relazione d’aiuto l’ascolto e soprattutto lo sguardo dell’educatore assumono un valore assoluto e prioritario per entrare in con-tatto con l’altro. È attraverso lo sguardo che l’educatore può cogliere bisogni inespressi, emozioni, aggressività, sofferenza, disagio. Comunicare tranquillità e sicurezza attraverso lo sguardo è la primissima fase della cura. Il primo contatto che abbiamo con l’utente è attraverso lo sguardo; in quei pochi secondi in cui si incrociano i nostri occhi con gli occhi dell’altro mettiamo in gioco la nostra sensibilità, la 15 16 M. Heidegger, Essere e tempo, citato, pag. 176, in C. Palmieri, La cura educativa, citato, pag. 28. C. Palmieri, La cura educativa,citato, pagg. 29-30. capacità empatica, relazionale, di accoglienza. Ogni relazione di cura è unica, esclusiva e, proprio per questo prestare la giusta attenzione alla qualità della relazione è già un prendersi cura, ed esige azioni, strumenti e metodi che valorizzino l’alterità e non l’omologazione; una predisposizione alla ricerca di diversi e innovativi orizzonti di senso progettuali, mai standardizzati, mai preconfezionati. La cura è quella condizione umana che dà vita al prendersi cura e all’aver cura di qualcuno; è un tipo di esperienza in cui l’uomo riflette per comprendere se stesso e le proprie possibilità esistenziali e progettuali: «pro-getto», essere «avanti a sé»17. La comprensione diventa possibile se si tengono in considerazione i condizionamenti che i vissuti hanno inevitabilmente innescato con il presente, la vita quotidiana che troppo spesso ci costringe in rigide maglie che hanno un susseguirsi automatizzato e dalle quali diventa sempre più difficile liberarsi. La cura è anche angoscia, espressione della ineludibile ambiguità e scivolosità dell’esistenza umana: come se ogni momento, ogni situazione non fosse altro che il teatro di una ricerca di sé in cui costantemente si gioca il proprio rapporto con se stessi, in bilico con le equivalenti possibilità di occultare ciò che più propriamente si è fuggendo da sé o di svelare a sé chi si è a partire da se stessi, di perdersi nel mondo o di appropriarsi del proprio mondo18. Riflettendo sulle parole di Palmieri dovremmo aggiungere, a mio avviso, che in questo complesso processo di cura è compreso il conflitto interiore fra ciò che si vorrebbe essere è quello che si è realmente. È inevitabile in questo processo la scelta fra due possibili modi di esistere: l’esistenza autentica, quella reale e libera oppure l’esistenza inautentica, de-formata, nascosta da una maschera che può essere conscia oppure inconscia e costruita sulla base di modelli sociali idealizzati. In questo senso possiamo parlare anche della relazione di cura. 17 18 C. Palmieri, La cura educativa,citato, pag. 30. Ibidem. La relazione non è qualcosa che possiamo costruire in autonomia perché prevede reciprocità, di conseguenza, dobbiamo fare i conti anche con quegli utenti che ci rivolgono sguardi cupi, mascherati, non disponibili al dialogo. Su di loro lo sguardo dell’educatore, il nostro sguardo, scivola via. Si tratta di persone con sguardi ingabbiati, impermeabili agli sguardi e ai giudizi altrui. Con questo genere di utenti la relazione di cura vissuta dagli educatori corrisponde all’attesa di una risposta da parte dell’altro che vive il disagio e che rimane inerte. Con loro la reciprocità relazionale appare impossibile da raggiungere: allora ha senso ascoltare, parlare, accogliere? Mi sembra che con questi utenti la dimensione della cura si trasformi in qualcosa che si avvicina di più ad un intervento strutturato che agisce in funzione di risultati attesi; l’ascolto assume un’importanza secondaria per lasciare che l’attenzione si concentri su ciò che alimenta il disagio e/o la sofferenza. Queste mi sembrano due modalità di cura e di prendersi cura completamente differenti ma entrambe utili, valide, necessarie. Nella pratica educativa, il corpo curato pare oscillare tra queste due rappresentazioni: l’essere presenza che intenziona e istituisce un mondo, e l’essere assenza di intenzioni, corpo intrappolato in un passato e in una conformazione che ostacolano ogni prospettiva di mutamento, ogni respiro progettuale. La discriminante è data dalla possibilità di leggere l’espressione del corpo curato come dotata di senso proprio, originale, che si porge alla comunicazione, piuttosto che come segno di un significato univoco, sintomo di una malattia, di una mancanza, di un bisogno, di un disagio che inghiotte l’altro, rendendo invisibile ogni sua altra componente, desiderio, intenzione19. Le parole di Palmieri mi suggeriscono che la cura il più delle volte dipenda dall’approccio e dallo sguardo educativo del professionista, dal valore che 19 C. Palmieri, La cura educativa,citato, pag. 114. riconosce al proprio compito educativo e riabilitativo e dalla qualità del suo modo di interpretare l’essere umano. Non bisogna dimenticare inoltre che egli è anch’esso influenzato dalla propria lettura e interpretazione del mondo e di sé nel mondo, della propria progettualità, della propria cura di sé. Di conseguenza, la presenza dell’altro è allo stesso tempo occasione per fare esperienza di sé in una relazione che nasce come cura e che si scopre con il tempo, con la conoscenza del sé. La presa in carico dell’utente: il ruolo dell’educatore professionale L'Associazione Nazionale Educatori20 si riconosce nella seguente definizione di profilo professionale: “L'Educatore professionale è l'operatore che, in base ad una specifica preparazione di carattere teorico e tecnico - pratico, svolge la propria attività mediante la formulazione e la realizzazione di progetti educativi, caratterizzati da intenzionalità e continuità, volti a promuovere lo sviluppo equilibrato della personalità e delle potenzialità, il recupero ed il reinserimento sociale di soggetti portatori di menomazioni psico - fisiche e di persone in situazione di disagio o esposte a rischio di emarginazione sociale o di devianza”. Per il perseguimento di tali obiettivi nell'ambito del sistema organizzato ed integrato delle risorse sanitarie e sociali l'Educatore professionale, utilizzando metodologie centrate sul rapporto interpersonale, svolge interventi mirati rivolti ai singoli, alle famiglie, ai gruppi ed al contesto ambientale territoriale, nell'ambito delle istituzioni e dei servizi sociali, sanitari ed educativi pubblici e privati. Gli strumenti di cui si avvale sono relativi a metodologie di operatività psicologica, pedagogico - educativa e di riabilitazione psico - sociale. Conduce inoltre attività di studio, ricerca, documentazione e attività formativo-didattica e di supervisione indirizzate alla globalità dei diversi contesti ed interventi educativi, ha funzioni particolari: 20 www.anep.it - funzione educativa propriamente detta, come stimolo alla crescita ed aiuto alla persona: - funzione assistenziale, in una accezione generica di prevenzione, cura e riabilitazione: - funzione di ricerca, studio e documentazione, nonché didattica. - L'Educatore professionale nell'ambito del sistema dei servizi ed in collaborazione con le altre figure professionali: - osserva, conosce e valuta, con gli specifici strumenti della professione, il soggetto nella sua realtà oggettiva, nella sua storia e nelle sue istanze evolutive, analizza i bisogni e rileva le risorse del contesto familiare e socio - ambientale; - programma, progetta, gestisce, realizza e verifica interventi educativi finalizzati ad psicosociale obiettivi verificabili formativi mediante terapeutici e metodologie di riabilitazione sistematiche e continuative, mirati al recupero e allo sviluppo del soggetto, alla gestione della quotidianità, alla progettualità nel tempo; - contribuisce a promuovere e ad organizzare la presa in carico clinica, sociale e riabilitativa del soggetto, le strutture e le risorse sociali e sanitarie al fine di realizzare progetti educativi di cui, in autonomia professionale, ha la titolarità; - opera nel contesto della prevenzione primaria sul territorio al fine di promuovere lo sviluppo delle relazioni di rete per favorire l'accoglienza e la gestione delle situazioni a rischio e delle patologie manifeste; - progetta, organizza, coordina, gestisce e verifica la propria attività professionale all'interno dei servizi e delle strutture socio - educative, educativo - culturali, socio- sanitarie, riabilitative e assistenziali; - svolge attività didattico, formative e di supervisione sia nell'ambito della formazione di base che della formazione permanente; - realizza attività di studio, ricerca e documentazione in ambito socio educativo21. L’intervento riabilitativo, contiene aspetti preventivi e riabilitativi. Ponendosi come un insieme di attività tese al recupero di abilità concrete (competenze sociali) e abilità affettive (competenze relazionali), la riabilitazione si fa carico di due linee strategiche: una mirante alla neutralizzazione dei processo di cronicizzazione (aspetto preventivo); l’altra tendente ad un’attività profondamente conoscitiva dell’utente, della sua storia, delle sue ridotte capacità relazionali, delle sue risposte da decodificare, dai suoi bisogni da accogliere (aspetto riabilitativo). Se il fine ultimo dell’intervento riabilitativo consiste nel pieno reinserimento sociale dei soggetto debole, attraverso un graduale recupero e sviluppo delle parti sane e delle capacità ancora integre dei soggetto, la presa in carico esige un’integrazione tra le funzioni tradizionali della comunità terapeutica o struttura protetta (cura) con quelle strategiche riabilitative e preventive. D’altra parte questa esigenza può essere soddisfatta non solo integrando più tecniche ma adottando una strategia operativa dei servizio capace di articolare le risposte tenendo conto dei bisogni espressi e inespressi dell’utente, di quelli dei suo contesto e della disponibilità dell’équipe terapeutica. Imprescindibile appare, la consapevolezza di sé, dell’operatore, che deve assumersi pienamente la responsabilità della relazione d’aiuto, mantenendo la dovuta distanza dall’utente; in caso contrario rischia un coinvolgimento eccessivo, fino alla seduzione o al plagio, che certo non promuovono l’autonomia e non costituiscono il fine di un coerente intervento riabilitativo. L’acquisizione della coscienza di sé, peraltro, non deve comportare in alcun modo una curvatura autoterapeutica. Il lavoro riabilitativo, infatti, non può “andare incontro a 21 www.anep.it strumentalizzazioni in direzione dell’autoterapia: la conoscenza di sé e la “destrutturazione” di sé non possono significare subordinazione delle istanze etiche alle esigenze dell’autorealizzazione, egoistica cura di sé e narcisistici percorsi di autogratificazione”. La competenza relazionale deve, inoltre, avvalersi della conoscenza dei problemi e delle tecniche della comunicazione, a cominciare dalle strategie della conferma e dei rinforzo sociale, di cui è stata rilevata l’indubbia utilità. In questo modo, l’educatore può davvero attivare un rapporto “diretto” con l’utente ed assumere correttamente un ruolo incoraggiante e di “facilitatore”; caratteristiche queste, di una nuova eticità della professionalità educativa. La “relazione d’aiuto” implica “mettersi a disposizione” dell’altro e in situazione di ascolto, con il rischio, in alcuni casi, di essere professionalmente sottovalutato ed in altri di giungere ad una interpretazione freddamente “professionistica” dei ruolo che porta a rigidità di atteggiamenti e quindi alla sua stessa negazione. Le professioni delle relazioni d’aiuto avvertono la necessità di essere considerate professioni, ma il loro rischio è quello di non ascoltare, di permettersi una disinvoltura che diviene possibile proprio in virtù del loro essere professionisti. L’interpretazione specialistica della professione non deve portare ad ignorare la dimensione degli “affetti” ed a valorizzare unicamente quella della “mente”. Si tratta, al contrario, di avere piena consapevolezza della necessità di cambiamenti che portino alla definizione di professionalità ri-educative specifiche e complementari, in grado di giocare un ruolo importante nel processo riabilitativo delle persone. Il passaggio dalla cura al prendersi cura implica un progetto terapeutico e una strategia operativa che comprenda i vari aspetti della realtà della situazione di handicap. L’obiettivo non può essere quello di diagnosticare i problemi per poter offrire le soluzioni, bensì, anche nelle situazioni più difficili, quello di valorizzare le risorse della persona per poterla coinvolgere direttamente nella ricerca delle modalità di superamento delle difficoltà. Il concetto di presa in carico si traduce nel fatto che le prestazioni di assistenza e cura mantengono o ristabiliscono lo stato di salute bio-psico-sociale dell’individuo mirando al massimo recupero e al mantenimento dell’autonomia. Principio essenziale per la concezione comune di presa in carico è la presa in carico globale che deve garantire l’assistenza continuata nel tempo al soggetto fragile; deve poggiare su una valutazione multidimensionale dei bisogni. Altro principio essenziale è il coordinamento degli interventi dei singoli operatori e servizi, e quindi delle risorse disponibili sul territorio attraverso la messa in pratica dell’intervento d’équipe e di quello di rete, nel rispetto dei lavoro interdisciplinare e intersettoriale. Tutto il percorso riabilitativo dell’utente deve essere accompagnato dal team e in particolar modo le emozioni, i sentimenti, i vissuti dei genitori devono trovare spazi e tempi di condivisione, di elaborazione nel servizio. La realtà attuale presenta caratteristiche che devono essere prese in considerazione dagli operatori dei settore; mi riferisco ad alcuni aspetti, quali la convivenza di culture portatrici di valori diversi, il sempre maggior spazio dato alla realtà virtuale, la velocità dell’informazione, la moltitudine di stimoli e la rapidità con la quale gli “oggetti” si deteriorano. Tutti aspetti che impongono agli operatori di mantenere un assetto mentale flessibile e aperto al nuovo. Troppo spesso nella realtà la risposta è settoriale, disorganizzata. Interviene il medico di base, oppure lo psichiatra o lo psicologo o l’educatore, o l’assistente sociale e così via; ci si concentra alla cura o solo dei corpo, tralasciando il disagio psichico, oppure esclusivamente alla cura psicologica; ne consegue che dopo un breve periodo di tempo tutto torna come prima. È necessario, invece, che queste differenti funzioni confluiscano in un’unica risposta che comprenda il loro interagire, attraverso u n’organizzazione che abbia un unico coordinamento e che sia rivolta al raggiungimento dei medesimo obiettivo. Ascoltare il silenzio di un’anima denso di tristezza, o il suo grido, al di là di ogni parola, è indubbiamente una sfida, un rischio, una fatica. Ma è questo che dà senso a chi si occupa di persone che soffrono. Ma non c’è solo il linguaggio delle parole, c’è anche il linguaggio del silenzio e dei gesti: del corpo vivente con le sue luci e le sue ombre, con le sue disperazioni e i suoi entusiasmi; quando incontriamo una persona che soffre non possiamo non avvertire immediatamente come, prima di ogni parola, siano il volto e lo sguardo, il modo di salutare e di dare la mano, il linguaggio del corpo insomma, a consentire o a rendere difficile una comunicazione e una reciprocità relazionale dotate di una significazione terapeutica. Comprendere il significato di un’esperienza attraverso l’osservazione, non è possibile se prima, non ci liberiamo delle abitudini di considerare i fenomeni psicopatologici nell’orizzonte di una teoria; invece, quello che più si avvicina all’essenza della sofferenza altrui, è l’osservazione nell’immediatezza del loro linguaggio e della loro angoscia senza pensare ad un determinato segno di malattia, accantonando la lettura delle storie cliniche per leggere le storie di vita sfigurate dal dolore,; invece di concentrarsi sulla biologia appassionarsi alla biografia, anziché applicare l’epistemologia del pensiero occidentale alle culture altre, lasciare che la loro antropologia si applichi alla nostra, insomma, partire dall’essenza della persona, dal suo dolo Magari potremmo scoprire de4lle similitudini con il nostro mondo e il nostro modo di essere, ma a volte è troppo forte la paura di andare oltre i domini della ragione e di scavare nel proprio animo, nelle proprie emozioni… Un’osservazione sistematica Una particolare enfasi, quando si parla degli strumenti di valutazione, viene rivolta dai docenti all’osservazione forse perché influenzati dalla presupposizione che essa si esplica con modalità facili, spontanee e, comunque, ampiamente padroneggiate. Si tratta di un’ottica semplicistica di cui va favorita la rimozione anche attraverso i dovuti chiarimenti circa la differenziazione delle metodologie osservative utilizzabili che risultano alquanto varie; infatti, l’osservazione può essere spontanea ed occasionale, naturalistica, diretta, indiretta, partecipante e non, ricerca-azione, sistematica, ecc.. Un’osservazione spontanea ed occasionale consente di raccogliere informazioni contemporanee ed approssimate sui comportamenti e di costruire opinioni; risulta soggettiva, lacunosa, imprecisa e poco attendibile. L’osservazione naturalistica studia i fenomeni e i comportamenti in situazioni di vita reale. Il limite di questa tipologia osservativa è dato dall’impossibilità di evitare qualsiasi influenza da parte dell’osservatore, considerando che la prima difficoltà è provocata dalla sua stessa presenza. In campo educativo essa può essere proficuamente utilizzata per studiare il comportamento infantile e l’interazione tra coetanei a scuola. Per il buon esito delle rilevazioni è necessario, però, che l’osservatore sia in possesso di buone doti quali sensibilità, intuizione, esperienza, intelligenza sociale, distacco e sappia rilevare i contenuti dei messaggi espressi nella comunicazione interpersonale attraverso linguaggi non verbali, verbali e misti. Un’osservazione diretta richiede la contestualità dei momenti osservativi con quelli di registrazione dei dati, mentre l’interesse dell’osservatore è rivolto non al prodotto del comportamento, quanto ai processi. Tale metodologia è privilegiata nelle ricerche che analizzano lo sviluppo relazionale nei primi anni di vita. Un’osservazione indiretta, invece, in ambito psicologico e pedagogico persegue lo scopo di raccogliere opinioni ed idee sul mondo dei bambini, dei preadolescenti e degli adolescenti e sui loro comportamenti. La sua applicazione si concretizza ponendo domande al soggetti osservati o alle persone che si occupano di loro. Un’osservazione partecipante è una metodica di matrice antropologica, che prevede il maggiore coinvolgimento dell’osservatore nei confronti dei soggetti osservati. Questo metodo consiste in una raccolta di informazioni da parte di un componente del gruppo o da un osservatore esterno accettato e inserito nel gruppo. Un’osservazione non partecipante fa affidamento sulla familiarizzazione col soggetto, iniziando la vera e propria osservazione dei comportamenti solo quando la sua presenza non è presa in considerazione. Nel campo dell’osservazione si parla di ricerca-azione quando l’osservatore, intervenendo, assume ora il ruolo di partecipante, ora il ruolo di “osservatore tappezzeria”. Si tratta di un processo di interazione reciproca tra conoscenza e azione. Dopo questa breve carrellata sulle metodologie osservative è opportuno soffermarsi su quella che ci interessa più da vicino: l’osservazione diretta e sistematica del comportamento. Per entrare in possesso delle tecniche connesse con tale metodologia osservativa è necessario rispondere a domande essenziali quali: perché, che cosa, come e quando osservare? I perché che legittimano l’adozione di una metodica osservativa di tipo diretto sono sostanzialmente tre: a) è fondamentale porre l’osservatore a contatto diretto degli eventi che lo interessano evitando forme di interferenza alfine di garantire la massima oggettività possibile; b) l’osservazione diretta permette l’acquisizione di dati immediatamente fruibili per una verifica quantitativa dell’intero intervento o di una sua componente; c) è la modalità di verifica che può essere applicata ad una tipologia di problemi vasta ed eterogenea. In ordine alla domanda “cosa può essere osservato” va da sé che l’oggetto dell’osservazione è rappresentato da qualsiasi aspetto della persona che possa essere definito in modo chiaro e tendenzialmente univoco. Vi è da rilevare che gli aspetti della persona che si prestano ad una osservazione (ed a una registrazione) obiettiva e sistematica sono quelli che rientrano nell’arca socio-interpersonale ed affettivo-emotiva, mentre gli eventi cognitivi vengono generalmente analizzati mediante l’uso dei test normativi e criteriali. Tale avvertenza vale soprattutto per gli operatori impegnati nell’integrazione, nel sostegno e nel decondizionamento degli alunni disabili e di quelli che per i più svariati motivi (svantaggiati, disadattati, con difficoltà di apprendimento, ecc.) rischiano l’insuccesso scolastico. Per quanto concerne il “come osservare” è indispensabile rispettare alcune fasi che sono: la definizione dei comportamenti che si intendono rilevare; la costruzione di una scheda adeguata all’osservazione sistematica dei comportamenti; l’individuazione di modalità implementative delle schede di osservazione. Un operatore rispetterà alcune avvertenze particolari, tipo: non è agevole osservare un numero elevato di comportamenti ed è necessario osservare ciò che è visibile in modo pubblico ed evidente. Nella fase della costruzione della scheda si baderà a puntualizzare i parametri relativi ai comportamenti da osservare, come durata e frequenza. Nei casi in cui si intende rilevare la frequenza bisogna evitare di orientare prevalentemente l’attenzione verso gli aspetti negativi della persona, giacché ciò tende a generare sfiducia sul risultati con la probabile conseguenza di innescare la “profezia che si auto-avverà”. Viene suggerito anche di assumere l’osservazione definita “a intervalli di tempo” per evitare che l’alunno, sentendosi sistematicamente osservato, inibisca i comportamenti inadeguati durante l’osservazione o, di contro, ne accentui la durata e l’intensità, dalla sua anima. Colti da questo punto di vista i sintomi, si manifestano come disturbi della comunicazione e della comprensione contraddistinti dal fatto che gli utenti vivono in un mondo, che ha solo analogie, non facili da interpretare, con il nostro, e che è contrassegnato da una profonda metamorfosi che spetta a noi cercare di capire, cogliere, interpretare, risolvere. Spesso invece, consideriamo il mondo di chi soffre molto lontano dal nostro, questo è qualcosa che ci tranquillizza e ci fa sentire al sicuro da ciò che consideriamo pericoloso. Sarebbe troppo rischioso cercare di conoscere meglio gli altri e quindi noi stessi? Relazione educatore-utente Carl Rogers, in La terapia centrata sul cliente riconosce ampio valore alla relazione di cura infatti, egli afferma che la responsabilità relazionale è un dovere della cura, e la relazione è un aspetto della cura molto più importante delle conoscenze culturali, dell’esperienza professionale, delle metodologie e delle tecniche. Affinché possa nascere una relazione significativa, che sia portatrice di conoscenza e di cura, di attese e di fiducia, è indispensabile che chi cura abbia capacità di introspezione, di immedesimazione della vita interiore altrui e che queste attitudini sia capace di orientarle, di educarle. Senza la ricerca delle risorse interiori che sono in noi, e che non di rado oltrepassano le rigide categorie professionali, non è possibile riuscire a riconoscere le aree semantiche ed emozionali delle esperienze nostre e/o altrui. In termini teorici sono molti i sostenitori di questo approccio alla cura, tuttavia, i professionisti del settore, troppo spesso, sono poco attenti al valore costruttivo e terapeutico della relazione e adottano un approccio lontano dall’ascolto emotivo e più vicino all’ascolto medicalizzato che riduce la cura a semplici e impersonali indicazioni terapeutiche, e ad un’assistenza standardizzata, rinunciando così alla reale conoscenza dell’utente e alla sua cosciente e preziosa collaborazione nella pratica terapeutica. L’atto di educare e/o ri-educare, per noi professionisti del terzo settore e per tutti coloro che si occupano di servizi alla persona intende l’atto di aiutare l’altro a rafforzare le sue risorse, di mostrare le opportunità che lo aiuteranno a diventare soggetto attivo della sua progettazione di sé. Progettare se stessi significa ipotizzare, sulla base di valutazioni culturali, psico-emotive e affettive, il percorso educativo, formativo e professionale più coerente con le competenze ed i desideri dell’utente, con le sue inclinazioni e le sue attese, e nel contempo far sì che egli adotti nuovi comportamenti, nuove prospettive e nuove visioni della realtà. Progettarsi consiste anche nella ricerca e nell’assunzione di responsabilità nel dare forma e significato al proprio modo di esistere. Chi offre aiuto non deve sostituirsi all’altro; egli deve facilitarne la crescita e la maturazione rispettandone i tempi, il personale modo di essere, di pensare, di sentire. La relazione di aiuto esiste quando vi è l’incontro tra due persone, una delle quali si trova in condizione di confusione, sofferenza, disagio, conflitto e l’altra di adattamento e stabilità emotivo-affettiva, di consapevolezza e coerenza delle sue competenze e abilità22. Nella conoscenza di sé l’ascolto ad esempio, diventa un momento educativo e rieducativo importante; l’arte di ascoltarsi e di ascoltare è molto importante 22 R. De Cicco, L’esperienza di sé, la cura di sé, le biografie del sé, Aemme, Roma 2013, pag. 103-104. perché grazie ad essa si può distinguere la verità dalla dissimulazione e dalla falsità, è possibile orientarsi e prendere in considerazione orizzonti diversi. Saper ascoltare significa addentrarsi in luoghi non influenzati dagli eventi esterni né dai discorsi altrui, farsi condurre in boschi mai esplorati e leggere e analizzare con mente lucida e incondizionata stati d’animo, aspetti emotivi, conflitti, pensieri23. Dalla guarigione alla qualità della vita La qualità della vita è, in materia di malattie croniche, un tema storico della medicina. In psichiatria il tema vede la luce fin dagli anni ’60 negli Stati Uniti, a seguito della dimissione in massa degli psicotici dagli ospedali psichiatrici: è un tema polemico, volto a stigmatizzare l’insufficienza delle strutture di raccordo. Un tema avvertito ben presto anche in Gran Bretagna, nei paesi scandinavi e infine nel resto d’Europa: come porre gli psicotici nelle condizioni di vivere nel modo migliore la loro vita quotidiana fuori dalle case di cura? Ora, il tema della qualità della vita si sposa ai due tipi di disturbi che più di tutti, a partire dagli anni ’80, hanno manifestato un’irrimediabile tendenza a cronicizzarsi: l’ansia e la depressione. Gli strumenti di misurazione della qualità della vita, che non vuol dire salute né benessere, si indirizzano orientativamente verso ciò che vive interiormente il soggetto e riorientano l’attenzione verso la globalità del paziente. I questionari valutano prima di tutto la distanza tra le aspettative del paziente e ciò che egli ritiene essere la sua vita, poi la tolleranza in rapporto a tale distanza, infine il giudizio di valore che il paziente assegna alla propria maniera di vivere e agire: è il concetto di appagamento che fa la differenza; il altri termini il concetto di felicità. 23 R. De Cicco, L’esperienza di sé, la cura di sé, le biografie del sé, Aemme, Roma 2013, pag. 105. La qualità della vita è un modo per autonomizzare il paziente in seno alla cronicità, come accade in tutte le malattie croniche. Il paziente ideale è un interlocutore attivo, la collaborazione terapeutica ideale è quella che trasferisce, di fatto, le competenze mediche del terapeuta al paziente. E la depressione partecipa delle malattie croniche nella misura in cui il paziente se ne fa carico e trova da sé la soluzione ai problemi insorti. Da una parte, una migliore qualità della vita per pazienti che si sentono meglio, dall’altra, il timore della dipendenza: due fenomeni intimamente legati tra loro. La guarigione non presuppone forse un arresto del trattamento a un dato momento? Mentre la psichiatria tende a impiegare il modello del diabete insulinodipendente per neutralizzare le difficoltà connesse con la crisi dell’idea di guarigione, i “depressi” si trovano ormai nella stessa situazione degli psicotici: le fasi acute della patologia sono abbastanza ben controllate, ma la cronicità è la regola. Gli antidepressivi, grosso modo, diminuiscono l’insicurezza identitaria della persona tendente ad avvertire la propria insufficienza cronica e, in seguito alla loro assunzione, stabilizzano i comportamenti – almeno quando la depressione non oppone resistenza. La terapia di lunga durata si sostituisce alla guarigione proprio perché gli antidepressivi sono anche farmaci antinevrotici: tengono a distanza i conflitti. E l’ampliamento del loro impiego non facilita certo la distinzione tra un disturbo dell’umore che insorga in un episodio depressivo, un sintomo nevrotico che testimoni o conflitti inconsci di una persona, un temperamento che sia il frutto – imprevedibile – di una genealogia o, più semplicemente, dei vari traumi sociali legati ai ritmi della vita contemporanea: è un’analisi comune sia alle più prestigiose riviste di psichiatria sia ai manuali di psichiatria e alla letteratura destinata ai medici generici. Questa situazione paradossale per cui il farmaco viene investito di poteri magici proprio mentre la patologia si cronicizza, impone di interrogarsi sui confini della malattia. Ad esempio: non è forse vero che la distinzione tra normale e patologico è divenuta ormai un problema morale? Non c’è guarigione senza un lavoro, un’elaborazione, un racconto, una finzione nella quale la persona si sente implicata, dal momento che c’è di mezzo un Io. Una cosa sembra certa nel modello conflittuale: il benessere non è guarigione, perché guarire è essere capaci di soffrire, di sopportare la sofferenza. Ed essere guariti, sotto questo profilo, non vuol dire affatto essere felici, vuol dire essere liberi, cioè recuperare un ascendente su noi stessi che sappia farci decidere. Se accettiamo l’idea che la salute è la capacità di trascendere i nostri schemi normativi, allora dobbiamo saper distinguere la felicità dalla libertà e il benessere dalla guarigione. Se l’uomo in buona salute deve saper tollerare scosse d’ogni tipo e sentirsi sempre pronto a trascendere i propri schemi normativi, in presenza di disordine psichico non lo può fare perché è un soggetto conflittuale: il conflitto agisce da motore ma anche da freno. L’opzione che si pone ha valore etico: la scelta tra un approccio medico che non sa che fare del soggetto e uno che ha a che fare solo col soggetto. Non ci possiamo accontentare, oggi, di una alternativa tanto radicale, in quanto essa rimuove proprio un’animalità, un corpo, senza di cui non potremmo vivere. Il farmaco dà sollievo a una sofferenza che è il segnale di un conflitto, come si dice di solito tra gli psicoanalisti, cioè lo mantiene attivo a nostra insaputa, funzionando come una protesi. Ma il farmaco permette anche di rimandare a un momento più propizio il confronto tra la persona e i suoi conflitti. Il rischio è quello tra l’essere farmaco-dipendenti o essere soggetti ad riduzionismo “spiritualista” dove il corpo viene rimosso. Infatti anche l’analisi se non ha limiti di tempo né di spazio assorbirà la vita interamente. E poi c’è da chiedersi quali siano i problemi attuali dei clienti che si rivolgono alla psicoanalisi. La cura tipo si rivolge a chi è traumatizzato dal senso di precarietà e di emarginazione? Il senso indecifrabile del vuoto, del malessere che è il prodotto sia dei nuovi modelli socioeconomici sia della crescente precarizzazione della vita privata, sembrano essere le domande d’analisi motivate da casi di licenziamento, disoccupazione o instabilità lavorativa. Ciò fa incontrare enormi difficoltà a impegnarsi nella lunga durata laddove i pazienti sembrano imprigionati in un presente da vivere nella sua realtà fattuale. Cosicché, mentre la psichiatria pubblica vede sfaldarsi il fronte della psicosi davanti all’avanzata dei non pochi traumi legati alla precarizzazione della vita, la psicoanalisi vede relativizzarsi, nei ranghi della propria clientela, l’impatto un tempo assai forte delle psiconevrosi da difesa (isteriche, fobiche, ossessive). Il relativo declino delle psicosi nella psichiatria pubblica e delle psiconevrosi da difesa nella psicoanalisi dipende da una medesima dinamica. Nonostante i diversi gradi d’intensità nelle patologie, esse hanno un punto in comune: l’importanza del trauma. L’uomo patologico di oggi è più un traumatizzato che un nevrotico (o psicotico), uno che si sente allo sbando, vuoto, esasperato. E, nelle situazioni di precarietà, uno che soddisfa con difficoltà le condizioni materiali, sociali e psicologiche indispensabili per accedere al registro del conflitto. I nuovi allarmi interiori, e i loro trattamenti, configurano un individuo la cui identità interiore è cronicamente fragilizzata, e che tuttavia è perfettamente governabile sulla lunga durata. L’antitesi tra specificità e non specificità terapeutica è ormai risolta. La non specificità ha avuto la meglio e i prodotti agiscono sulla maggioranza dei disturbi mentali non psicotici diventando vere aspirine dello spirito. Ma è una superiorità che si è consumata in un contesto di estrema dilatazione temporale delle farmaco-terapie. I perfezionamenti introdotti nella produzione delle molecole ne fanno oggi dei farmaci “ideali”: ideali però per una malattia cronica. E così si è ovviato all’insufficiente efficacia curativa delle molecole. Le nuove molecole non liberano la persona dal danno psichico. L’individuo di oggi non è né malato né guarito. È solo iscritto nei molteplici programmi di mantenimento del suo status quo. È ora più chiaro quale tipo di persona affiori dalla storia della depressione: la depressione sta all’insufficienza come la follia sta alla ragione e la nevrosi al conflitto. La depressione è oggi il collettore di un insieme di difficoltà della persona che riguardano tutti gli aspetti dolorosi della vita. Essa ridisegna la linea dell’esistenza riunendovi i tanti segmenti relativi ai disturbi dell’umore e alle disfunzioni dell’azione, e li raccoglie tutti sotto un’ingannevole denominazione. La difficoltà di definire questa malattia ingannevole ha consentito di farne uso in modo elastico. Il suo nucleo, sconosciuto, è così tenace da renderla, nella migliore delle ipotesi, recidiva e, nella peggiore, cronica. Le terapie di mantenimento, per quanto talvolta rimesse in discussione, sono ormai approvate da quasi tutti. L’impiego degli antidepressivi su una vasta gamma di sintomi ha portato all’abbandono della diagnosi di tipo eziologico. In compenso, la malattia resta una malattia di confine: il confine che dovrebbe distinguere la persona che è patologica dalla persona che ha una patologia La depressione è uno dei segnali attraverso i quali il conflitto manifesta la propria difficoltà a produrre interazioni significative. Per cui il conflitto non riesce ad essere il garante dell’unità del sociale e della persona. Quali sono allora i nuovi ingredienti che fanno, disfano e rifanno l’interazione intima e l’interazione sociale? Per scoprirlo occorre una disamina che articoli insieme la sfera intima e la sfera sociale. L’espansione, relativamente recente, della depressione è coestensiva propria allo svuotamento della nozione di soggetto che si era imposta a partire dalla fine del XIX secolo. L’inibizione è l’obiettivo normativo in una cultura dell’interdetto e dell’obbedienza, ed essa permette pire di moderare le ambizioni personali di tutta la collettività. Il nevrotico soffre, così, di un sovraccarico di interdetti, il suo Super-io è troppo severo, e quella che dovrebbe essere una condizione della civiltà si trasforma in un fallimento della persona. In una cultura della performance e dell’azione, in cui le pannes dell’iniziativa individuale possono costare molto care (guai a non essere in ogni momento all’altezza), l’inibizione è una pura disfunzione, un’insufficienza. L’individuo è istituzionalmente chiamato ad agire ad ogni costo, sul filo delle proprie risorse interne. È un prototipo dell’iniziativa, non dell’obbedienza: nel suo codice di comportamento è inscritto solo “ciò che è possibile fare”, non “ciò che è permesso fare”, Ecco perché l’insufficienza è per l’individuo di oggi quello che il conflitto era per l’individuo della prima metà del XX secolo. Se l’aspirazione a essere se stessi conduce alla depressione, la depressione conduce alla dipendenza, quale nostalgia del soggetto perduto. La depressione è la degenerazione di un individuo che è solo se stesso e, di conseguenza, mai se stesso, come se corresse perpetuamente dietro alla propria ombra, ombra da cui è dipendente. Se la depressione è la patologia di una coscienza che è solo se stessa, la dipendenza è la patologia di una coscienza che non è mai sufficientemente se stessa, mai sufficientemente colma di identità, mai sufficientemente attiva troppo indecisa, troppo esplosiva. La depressione e la dipendenza sono come il diritto e il rovescio di una medesima patologia dell’insufficienza. Seconda parte La pedagogia e gli orizzonti di senso contemporanei L’apprendimento come percezione e costruzione di significati, come narrazione. La catena della memoria è … la trama che consente identità e ideazione. … La memoria, il ricordo è innanzitutto un ri-accordo che dalla dispersione genera unità e nell’unità rintraccia quell’identità soggettiva e oggettiva che la ragione occidentale ha chiamato “Io” e “Mondo”. Sia l’uno che l’altro non sono dati di realtà, ma costruzioni della memoria. Non ci sarebbe “Io” se la memoria non costruisse quella sfera di appartenenza per cui riconosco come “miei” azioni, vissuti, pensieri e sentimenti; non ci sarebbe “Mondo” se la memoria non cucisse la successione delle visioni che altrimenti si offrirebbero come spettacoli sempre nuovi, apparizioni tra loro correlate. Costruendo Io e Mondo, la memoria dischiude quell’apertura al senso da cui è escluso l’animale che, senza memoria, non sa di sé e del mondo che lo circonda. Il suo silenzio è inevitabile; l’animale tace perché non sa cosa dire, la mancanza di memoria gli cancella qualsiasi orizzonte come offerta di un possibile senso … Uno degli autori più attenti e profondi della nostra cultura contemporanea, dunque, individua in poche frasi tutti i nostri punti di riferimento specifici: la memoria, il tempo, l’individuo, il suo mondo, il suo sapere, il suo linguaggio, le sue emozioni, la sua esistenza come continua ideazione. Il percorso logico seguito da Galimberti ci permette cioè di individuare un itinerario realistico e concreto per sottolineare immediatamente l’importanza del problema della percezione del sapere e soprattutto di sottolineare la complessa e dinamica connessione fra e all’interno delle dimensioni della persona e della sua identità umana e storica. Il linguaggio, il tempo e la memoria costituiscono allora, in questa sede, le categorie attrici, sia perché sono dotate di una trama di senso, sia perché dotano di senso anche l’intera esperienza dell’individuo, la sua rappresentazione di sé e dei suoi rapporti con il mondo, con la cultura, con i significati; in sostanza, le tracce impresse nella memoria dell’individuo costituiscono i punti di riferimento di una indispensabile ricostruzione individuale: l’individuo verbalizza se e quando ha qualcosa da dire, a prescindere dal luogo, dal momento, dall’idioma scelto per esprimersi. Ma l’aspetto interessante sottolineato da Galimberti è ovviamente altrove: non è la sola ricostruzione dello storico a determinare la consapevolezza identitaria e sociale dell’uomo; il percorso culturale, linguistico, artistico, economico, politico, ideologico, ecc., di un popolo resta iscritto nella memoria collettiva ed individuale con tratti che permangono nella percezione di un’appartenenza. In altre parole, per fare un esempio banale, quando viaggiamo nell’area del Mediterraneo, nei paesi che si affacciano su un mare ed un territorio che conserva gli scambi, i segnali, i simboli, gli sguardi portati dalla curiosità dei suoi abitanti, si sente esprimere in lingue diverse la frase indicativa “una faccia, una razza”. Anzi, poiché spesso la si sente dire in idiomi diversi dalla lingua madre, il riconoscimento di tratti somatici, di matrici culturali, sociali, ecc., diventa più profondamente linguistico e stilistico, si afferma all’interno di una rappresentazione mentale e personale che parla “da sola”, che non può essere scritta, che non può essere spiegata, che conferma, il profondo legame fra “esperienza umana” ed “esperienza storica”, fra “percezione e rappresentazione della mia memoria” e “percezione e rappresentazione della memoria del mondo”, cioè fra categorie come “dentro” - “fuori”, “interno” - “esterno”, “uno” “molteplice”, ecc. Allora, se il nostro obiettivo è quello di comprendere come e perché, quale senso abbia l’insegnamento nelle nostre scuole, se il tempo costituisce per l’insegnante un riferimento essenziale ma sfuggente perché risulta concreto e definito solo nel momento in cui ne consideriamo le nozioni pur necessarie per individuare date ed epoche, fatti ed azioni, se il tempo informa l’individuo e gli offre l’opportunità di costruire la sua identità nella sua epoca e nel suo gruppo di appartenenza, ristretto o allargato a seconda dei livelli, dei valori, dei tratti somatici, delle arti, ecc., risulta fondamentale lavorare sul senso del tempo come senso della percezione del tempo; Norbert Elias è molto preciso a tale proposito, soprattutto nel momento in cui segnala la sua opinione differente rispetto a due orientamenti da sempre prevalenti: Da un lato vi è l’idea che il tempo sia un dato oggettivo della creazione naturale. Per il suo modo d’essere … il tempo non si distingue dagli altri oggetti naturali, se non appunto per il fatto di essere impercettibile. Di questa concezione oggettivistica, che in tempi più recenti sembra aver avuto la peggio, il rappresentante più celebre è stato forse Newton. Dal lato opposto, ha predominato invece l’idea che il tempo sia una sorta di sguardo unitario sui fenomeni, dipendente dalla particolarità della coscienza umana o, a seconda delle versioni, dello spirito umano, della Ragione umana, e quindi precedente, essendone una condizione, qualunque esperienza. Già Cartesio era stato di questa idea. Comunque essa ha trovato la sua espressione più autorevole nella filosofia di Kant, il quale riteneva che il tempo e lo spazio fossero rappresentanti di una sintesi a priori. … In un linguaggio più elementare, essa dice molto semplicemente che il tempo è una specie di forma innata dell’esperienza e, pertanto, un dato immutabile della natura umana. Elias non condivide né la teoria che vede nel tempo un flusso oggettivamente esistente che riproduce se stesso, né quella che considera il tempo una forma di esperienza vissuta in maniera soggettiva e al tempo stesso comune a tutti gli individui; egli afferma che i due orientamenti commettono l’errore di separare la natura dall’uomo, invece di concepire l’idea dell’uomo nella natura, ovvero dell’uomo che sintetizza simbolicamente, cioè vive e rappresenta il tempo, costruisce la memoria, a seconda dello stadio di sviluppo raggiunto dal contesto sociale di appartenenza e delle esperienze vissute al suo interno; esempio di quella rappresentazione simbolica può ben essere il banale calendario, che ci permette di determinare il tempo, ovvero di stabilire e collegare sequenze fra passato, presente, futuro, di verificare se un certo mutamento ha avuto luogo prima, dopo oppure contemporaneamente ad un altro mutamento. Un altro interessante punto di vista è espresso da Stephen Kern, che, a proposito della generazione degli studiosi vissuti fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, afferma che essi svilupparono un acuto senso del passato storico come fonte di identità in un mondo sempre più secolarizzato, ed indagarono il passato personale secondo fini differenti: per Bergson era una fonte di libertà, per Freud una promessa di salute mentale, per Proust una chiave per il paradiso. Altri considerarono il passato come una fonte di rimorso, una giustificazione alla rassegnazione e all’inazione, un carico di senso di colpa. La riflessione sul passato si incentrò su quattro questioni principali: l’età della terra, l’influenza del passato sul presente, il valore di questa influenza e il modo più efficace per ritrovare un passato che è stato dimenticato Le sue considerazioni trovano conferma nelle riflessioni di un altro studioso a loro contemporaneo, Dilthey, per il quale il passato è una fonte di conoscenza e di senso; questi afferma infatti che la capacità di comprendere è una competenza storica perché l’uomo è un essere storico: la vita individuale, come quella di una società, si sviluppa nel tempo e può essere intesa profondamente solo da noi, perché noi siamo capaci di fare esperienza diretta della nostra natura temporale, perché noi comprendiamo la nostra epoca e la nostra autobiografia attraverso la nostra esistenza, cioè attraverso l’unico avvenimento completo, autonomo e chiaramente definito. Per Dilthey, dunque, la memoria è lo strumento che ci consente di integrare l’esperienza in una serie di sintesi progressive, che diventano comprensibili quando interpretiamo il passato e il futuro in un presente che cambia, allo stesso modo in cui comprendiamo una proposizione, il cui significato deriva da parole colte in sequenza. Anzi, contesto culturale, storico ed autobiografia sono talmente interconnessi gli uni all’altra che è possibile formulare un’ipotesi suggestiva: Il fatto che Bergson, Proust e Freud, tutti di origine ebraica, insistessero sul passato come una causa essenziale della pienezza della vita - di libertà, bellezza e salute mentale - fa pensare ad una possibile connessione tra le loro vite e le loro teorie sul tempo. Tra queste opere e l’esperienza temporale degli ebrei ci sono delle impressionanti somiglianze. Sia l’ebraismo che il cristianesimo condividono un rispetto profondo per il passato, e in parte motivano la loro legittimità a partire dalla tradizione: l’etica implicita è che l’antico è buono. Tra i due, l’ebraismo è più antico, e la sua più lunga storia della ricerca dell’identità lo collocherebbe, nella scala del tempo, al di sopra del cristianesimo. È possibile che l’insistenza di questi uomini sul fatto che solo il passato è reale, che soltanto il recupero del passato può ispirare l’arte o curare la nevrosi, sia collegata con questo tipico aspetto dell’esperienza ebraica. Come si vede, qui l’accento comincia ad essere posto sia sul concetto di durata che sul concetto di significato dell’identità rispetto a momenti storici e ad una cultura di appartenenza: ma ancora non si è fatta pienamente strada l’idea del rapporto fra individuo e tempo come intensità, poiché, per riassumere, viene detto che una vita vissuta in maniera soddisfacente è quella sempre efficacemente equilibrata nel presente, con un facile accesso al passato e al futuro, con un’agile padronanza del flusso del tempo e con la disponibilità a lasciar fluire il futuro negli atteggiamenti del presente, tant’è che una seconda analogia che potrebbe essere attribuita all’esperienza ebraica deriva dalle loro rispettive argomentazioni sulla maggiore importanza della vita nel tempo rispetto alla vita nello spazio: Bergson si irritava nel constatare la spazializzazione del tempo, Freud si sforzava di ricostruire dal passato le vite dei suoi pazienti, e Proust creò le vite dei suoi personaggi nella dimensione del tempo, che occupava “un posto ben altrimenti considerevole in confronto a quello così angusto riservato loro nello spazio”. Questa caratteristica comune della loro opera corrisponde all’esperienza degli ebrei, che non ebbero un loro proprio spazio - se si eccettuano le ristrette enclaves dei ghetti. La loro esistenza spaziale fu sempre un richiamo doloroso sottile al loro isolamento dal mondo circostante, e fu per essi assai meno importante della loro esperienza del tempo: perciò l’Ebreo Errante è in patria soltanto nel tempo. La religione ebraica evitava altresì tutte le rappresentazioni spaziali della divinità, la cui realtà e benevolenza erano conosciute attraverso la sua azione nella storia. Nell’Europa moderna, la storia degli ebrei non aveva conservato alcun punto di riferimento concreto: essi dovettero interiorizzare i loro punti di riferimento, salvaguardandoli nella memoria in forma scritta e orale, mentre nel mondo cristiano il passato era conservato in maniera tangibile nei monumenti, e poteva essere facilmente visto e ricostruito nell’immaginazione. È possibile che questa esperienza degli ebrei abbia plasmato le valutazioni dei tre pensatori sul primato della nostra esistenza nel tempo. In queste riflessioni, oltre ad essere interessanti per noi: l’ingresso della categoria dello spazio come struttura anch’essa vissuta come memoria collettiva di un popolo, come simbolo concettuale, come mezzo di riferimento e orientamento, la comparsa della distinzione fra memoria volontaria ed involontaria, la conservazione del legame con una tradizione, non importa se tramandata in versione scritta o orale, secondo modalità o strumenti diversi, purché disponibile a permettere nutrimento spirituale e modelli per l’azione, la conferma della necessità da parte della memoria individuale di creare una sua personale rappresentazione del sapere ritenuto prioritario perché dotato di senso, finalmente possiamo cominciare a sottolineare la straordinaria trasformazione che il nostro tempo vive e che determina una condizione individuale del tutto diversa rispetto a quella percepita fino alla soglia della prima postmodernità; la categoria della simultaneità impone ritmi da tempo reale in ogni frazione di secondo o, meglio, in ogni nanosecondo, per cui esclude l’addensamento temporale come esperienza possibile, impone la frammentazione come modello di riferimento umano - sentimentale - civile - ecc., disorienta forme di intimità e relazione con gli altri portatori di memorie individuali e collettive. Probabilmente, è solo in Eugène Minkowski, colui che ha dato la spinta propulsiva forse maggiore per la nascita della fenomenologia, che possiamo reperire uno dei primi accenni alla categoria dell’intensità e ai problemi che dalla sua affermazione derivano. Se, dunque, la trasformazione del concetto di tempo determina il cambiamento del suo paradigma di riferimento tradizionale, la durata, in quello di intensità, la trasformazione del concetto altrettanto tradizionale di spazio determina ovviamente il cambiamento del paradigma della distanza; quello della direzione risulta il più coerente e il più rappresentativo, sintetico delle procedure di azione e di pensiero: la percezione di un sé dinamico, la necessità di risposte celeri e tempestive di fronte ai quesiti posti al pensiero e alle richieste poste ai comportamenti, l’impegno nel decidere sulla base di scelte consapevoli e rapide, il dovere di superare l’addensamento spaziale per incontrare la frammentazione in molteplici qui costituiscono solo una parte delle ragioni che confermano la scomparsa delle categorie di tempo e spazio come assoluti e ne affermano la trasformazione in relativi e indipendenti; è come se dicessimo che la percezione e la prospettiva del “qui ed ora” si sono modificati in una prospettiva per la quale il nostro linguaggio non è riuscito ancora a trovare una locuzione altrettanto chiara e che, di conseguenza, ci impone l’uso di termini condivisibili, forse insoddisfacenti ma chiari così come nella locuzione “un qui e un ora”. Siamo dunque arrivati a completare in maniera rappresentativa il percorso pessimistico indicato dagli orientamenti di pensiero degli intellettuali, dei ricercatori contemporanei che fra poco analizzeremo più a fondo; e finalmente i dubbi sollevati all’inizio del precedente paragrafo si rendono concreti, poiché le conclusioni dei loro percorsi di analisi si trasformano in elementi che rischiano di essere solo atti di autoaccusa: autoaccusa di resistenza al diverso e al nuovo, di incapacità di comprendere il significato più profondo e complesso del cambiamento, di radicalizzazione del conflitto nei confronti dell’opinione alternativa, di rifiuto della persino banale constatazione che non è mai stato, non è e non sarà possibile fermare il cambiamento della realtà, di mistificazione e strumentalizzazione dei problemi, di reazione al nuovo con modalità vecchie per mantenere il vecchio, di condanna del nuovo come portatore di valori inaccettabili: Quello che il tempo ha perso, soprattutto nella modernità, non è solo la somiglianza con l'eternità, ma anche la stessa qualità di tempo, e ciò in quanto ha perso la possibilità di distinguere i suoi tempi, diventando pura dispersione. Ora una vera distinzione di tempi è possibile solo se s'introducono nella linea del tempo punti di svolta, di rottura della continuità. Questi punti di svolta e di discontinuità non possono appartenere al fluire del tempo, devono essere altro dal tempo, perché appunto lo devono interrompere. Il paradosso del tempo è allora il fatto che ciò che fa il tempo è ciò che in certo modo lo nega, e questa negazione del tempo che costituisce il tempo può essere solo l'eternità, cioè il tempo che non fluisce, che non è mediato e che non media Come si vede, niente di più e niente di meno dell’atteggiamento noto a tutte le generazioni che scuotono la testa per indicare che il nuovo che avanza non è più sano come una volta era; e naturalmente, poiché è davvero e purtroppo quasi tutto qui, non possiamo fare a meno di sottolineare che questa realtà cambiata e trasformata segna anche la conclusione del percorso standard dell’intellettuale e del ricercatore di settore, onnisciente nel suo ambito di interesse culturale e pensiero di riferimento specialistico. È vero, l’analisi è spesso ineccepibile, realistica, chiara, ma si ferma a considerare con attenzione e puntualità la “scomparsa del vecchio” come perdita e con superficialità tendenziosa e trascuratezza la “comparsa del nuovo” come devastante. Ebbene, anche l’invenzione della stampa o l’affermarsi dei primi strumenti altamente tecnologici spingevano alcuni catastrofisti a pensieri apocalittici: la specie si sarebbe spenta, involuta, in un futuro nero di prospettive rispetto ad un passato splendente e raggiante di idee, di valori, di comunicazione efficace seppure non realizzata in tempo reale; sarebbe bastata una breve attesa per il cortocircuito finale. E invece no: per ora le nuove generazioni hanno un’Unione Europea, e a loro, come tutte le trasformazioni epocali, la attuale propone modificazioni, condivisioni, anche coerenze, impostazioni più dinamiche e di sistema, attente e rispettose della diversità, meno intransigenti e ambigue. Vogliamo fare qualche esempio? Le biotecnologie modificano la percezione dell’identità umana? Per fortuna. Bisogna che se ne sappia di più e più a fondo, certo, ma poiché è la qualità della vita (del corpo-mente) che interessa soprattutto, è sulla dimensione etica, sulla responsabilità che dobbiamo continuare a lavorare, proprio come abbiamo fatto con la trasformazione di altri valori. Quando la comunicazione in contesti educativi si ammala Dopo aver individuato alcuni dei problemi a mio parere essenziali per una riflessione psicopedagogica, sociologica, metodologica, è necessario per il mio discorso passare a discutere alcune questioni altrettanto essenziali per la “comunicazione dell’educazione”, per la “comunicazione degli orizzonti di senso”. Ciò comporta la necessità di riflettere su aspetto che la tradizione psicopedagogica ha chiarito e che hanno bisogno di essere approfonditi con uno scopo specifico: fra una comunicazione efficace e chiara e la pronuncia corretta di un fonema esiste un filo conduttore ricchissimo di articolazioni, che va definito e caratterizzato, ma l’una e l’altra, poiché organizzatori cognitivi, sono funzionali alla qualità dell’apprendimento e alla qualità dell’esistenza stessa... esiste un ordine dei sensi, per il quale la vista e l'udito sono le vie principali della conoscenza. Ciascuno ha i suoi compiti e i suoi limiti, ciascuno ha contribuito alla nascita di una facoltà della mente, ma, quanto a ricchezza di informazioni, è la vista a prevalere. Malgrado i pericoli che presentano, lo sguardo, il guardare, l'osservare sono alla base del sapere dell'uomo. Se però si riflette su questa gerarchia, colpisce che, in tutta la storia di questa discussione, nessuno si sia reso conto di un fenomeno importante, che ha cambiato drasticamente le carte in tavola. A un certo punto della storia la gerarchia dei sensi fu infatti modificata dalla scoperta della scrittura - forse la prima vera rivoluzione cognitiva della storia. Tenendo conto degli effetti della scrittura, infatti, la gerarchia dei sensi si fece più sfumata e complessa, perché si creò una nuova e diversa modalità sensoriale. Vediamo perché. Da alcuni lavori fondamentali sappiamo ormai con sicurezza che l'invenzione della scrittura non fu solo un progresso tecnico, ma molto di più: costituì una vera e propria svolta per la vita dell'intelligenza, che fu ricchissima di conseguenze. La scrittura - essendo anzitutto un mezzo per rendere stabile il discorso, che fino ad allora era stato solo parlato, e quindi evanescente e non immagazzinabile - rese disponibile una sorta di straordinaria memoria, individuale e collettiva, in cui si poterono conservare informazioni che prima si dovevano conservare a mente. Essa ebbe quindi un effetto rivoluzionario in vista della costituzione di nuovi quadri della conoscenza. Ma ebbe anche effetti generali sull'attrezzatura sensoriale dell'uomo, della quale modificò l'ordine e la gerarchia interna. Essa infatti esaltò enormemente il vedere rispetto all'udire. Ma non lasciò senza cambiamenti la vista, bensì la trasformò in profondità, perché ebbe l'effetto di far emergere un ulteriore, ben distinto, modulo di percezione, che è la visione alfabetica. Chiamo così quella modalità della visione che permette di acquisire informazioni e conoscenze a partire da una serie lineare di simboli visivi, ordinati l'uno dopo l'altro alla stessa maniera dei segni alfabetici su una riga di testo. Non c'è dubbio che si tratti di un nuovo e specifico modulo di percezione rispetto alla “vista” e all’“udito” così come li identificava la filosofia classica: nel bambino che impara a leggere, la visione alfabetica deve essere laboriosamente allenata per proprio conto, il che significa che essa originariamente non esiste affatto o non è pronta a operare. Per effetto della scrittura, la visione alfabetica ampliò quindi la gamma delle modalità di percezione preesistenti, incrementando le vie di formazione della conoscenza. Inoltre (come aveva intuito Condillac), si sviluppò un’opposizione tra due tipi di intelligenza (o meglio due modi di lavorare dell'intelligenza): quella simultanea e quella sequenziale. La prima opera su dati simultanei e per così dire sinottici (come gli stimoli visivi, che si presentano in gran numero nello stesso momento, e tra i quali è difficile stabilire un ordine) e quindi ignora il tempo; la seconda opera invece sulla successione degli stimoli, e li dispone in linea, analizzandoli e articolandoli Sulla scia della sintesi scientifica di Raffaele Simone, sottolineiamo che oggi siamo passati da una modalità di acquisizione delle conoscenze fondate su libro, scrittura, occhio, visione alfabetica, linearità, intelligenza sequenziale, ad una modalità che presuppone contemporaneamente l’impegno dell’ascolto, della visione non alfabetica, della simultaneità, dell’intelligenza simultanea; dunque, i luoghi dell’educazione come luoghi della conoscenza comunicata, esperita, sintetizzata, manipolata, ricercata sono inderogabilmente costretti a vivere la trasformazione tecnologica come imposizione di nuovo impegno: le conoscenze non possono più essere trasmesse, la qualità della comunicazione fra generazioni è determinante tanto più che la differenziazione fra adulti proprietari e depositari di tutto il sapere e giovani ignari è ormai caduta, anzi, per molti aspetti e nozioni dell’ambito scientifico e tecnologico, non possiamo fare a meno di notare che sono le giovani generazioni ad apprendere con facilità e rapidità, mentre gli adulti dimostrano svogliatezza, resistenza, attaccamento infantile alla propria ignoranza, rifiuto, elevatissime percentuali di dispersione. Le conseguenze specifiche del passaggio sintetizzato da Raffaele Simone sono state individuate nei dettagli ed hanno in questo contesto un’importanza rilevante; Walter Ong, ad esempio, definisce la fase dell’oralità primaria come fase caratterizzata, oltre che dalla ovvia assenza della scrittura, dalla prevalenza, come abbiamo visto, dell’udito sulla vista, nei dettagli da: una dipendenza dalla memoria, per conservare le conoscenze una cultura orale deve ricorrere ad espedienti come la ridondanza, la rima, la cadenza ritmica, il pensiero “formulaico”, in altre parole il ricorso ad immagini “cliché”, ad epiteti o proverbi; una dipendenza dal contesto: il significato degli enunciati orali poggia su esperienze condivise in quanto l'espressione orale è legata ad una situazione reale, ad essa attinge e rimanda; un linguaggio basato sull'azione; un linguaggio paratattico, senza forme di subordinazione gerarchica tra proposizioni; un tono enfatico, partecipativo: si ricorre spesso alla battuta, al motteggio, allo scambio vivace; si favorisce il rapporto “corale” piuttosto che l'isolamento, l'introversione; il canto, la danza, il ritmo assumono particolari significati comunicativi; un carattere magico - attivo attribuito alle parole: si è infatti propensi a pensare che le parole siano capaci di esercitare un'influenza sulle cose. La scrittura e la stampa introducono una seconda fase, cioè una nuova forma di conservazione e organizzazione della conoscenza, modificano lo spazio d’uso e la funzionalità del discorso, propongono un linguaggio esplicito, libero dal contesto e duraturo, annulla i tratti tipici dell’espressione orale e della comunicazione sociale, cioè l’intonazione della voce, la mimica, i gesti, la postura del corpo, trasformano l’unidirezionalità dell’oralità in dialogo e confronto mentale con il testo scritto; tutti questi elementi insieme trasformano di conseguenza anche la modalità di organizzare il pensiero, secondo gerarchie, appunto, sequenziali e lineari, propongono un testo univoco, un’opera percepita come unitaria e completa nel tempo e nello spazio di tutti. Anzi, afferma, Derrick De Kerckhove, la reciproca influenza fra stile di pensiero e stile di scrittura apre scenari straordinariamente affascinanti: perfino la struttura del nostro sistema ortografico esercita una pressione sul nostro cervello e lo spinge ad organizzare l’elaborazione sequenziale e cronologica, per cui: noi “leggiamo la realtà” da sinistra a destra, guardando a sinistra acquisiamo immediatamente, globalmente, guardando a destra analizziamo nei dettagli, in sintesi strutturiamo una prospettiva del mondo che è prospettiva del pensiero e organizzazione di un brainframe alfabetico, di un sistema concettuale che suggerisce e stimola all’osservazione e alla ricerca, ha perfino fornito il supporto ai più potenti codici umani (la struttura atomica, la stringa genetica degli aminoacidi, il bit del computer), ha spinto la mente a scomporre la materia in unità sempre più piccole. In altre parole, il potere del brainframe alfabetico ha radicato, introiettato, si è incuneato nei recessi della nostra mente ed ha condizionato ogni prospettiva, ogni procedura di pensiero, ogni articolazione delle attività umane, dalla filosofia alle scienze, dalla politica agli affari, dagli orientamenti del corpo agli strumenti dell’intelligenza. Ancora una volta viene rilevato, di conseguenza, che la comunicazione è modello, strategia, tecnica, strumento ed è per la pedagogia un punto di riferimento basilare, un orizzonte di senso, Ecco, dunque, l’insieme delle ragioni per le quali ho inteso proporre la comunicazione come uno degli interpreti e dei protagonisti degli orizzonti di senso psicopedagogici: se gli sfondi cambiano, se gli abitanti degli sfondi esigono nuovi media, nuovi saperi e diverse utilizzazioni dei saperi ai loro scopi, il modo in cui i saperi vengono comunicati è di rilevanza primaria, ha bisogno di uno stato di benessere generale, che dipende da fattori diversi; tali fattori si richiamano ad una tradizionale distinzione funzionale, a seconda cioè che essa sia di tipo: esperienziale: relazioni insoddisfacenti incidono sia nella quotidianità che a distanza di tempo sulla salute fisica e mentale, soprattutto nel caso di persone sole; individuale: siamo consapevoli e riconosciamo a noi stessi una nostra identità sulla base di tutti i messaggi e di tutte le indicazioni che noi stessi e chi riteniamo per noi importante esprimiamo; professionale: siamo interessati e spinti a confronti con noi stessi e con tutti gli interlocutori istituzionali a seconda della qualità e del livello della relazione complessiva; sociale: che impegna quanto meno il senso di appartenenza ed il coinvolgimento affettivo ed emotivo; strumentale: concernente le situazioni formali ed informali del richiedere o del rispondere ad informazioni specifiche, ad esempio in relazione ad un compito, ad un dato, ad un consiglio, ad un contenuto disciplinare, ecc. A queste prime variabili estremamente rilevanti, per proseguire nell’analisi dei problemi critici che separano generazioni e contesti, devono esserne accompagnate altre che fanno riferimento allo stato psicofisico di stress comunicativo e alle sue implicazioni: non è possibile attribuire allo stress in se stesso una valenza negativa né una positiva, poiché in realtà esso può essere considerato come una richiesta di energie e di forme di adattamento alle nostre forze fisiche e mentali; le sue conseguenze sono proporzionali alle nostre capacità di risposta e alla forza del suo impatto; in questo contesto, il cortocircuito determinato da una situazione nei confronti della quale esiste una consapevolezza di inadeguatezza provoca ostacoli di diversa natura per l’efficacia e l’efficienza della comunicazione. In secondo luogo, le nostre risposte possono ovviamente prevedere almeno tre tipi di reazione: in sequenza, la mobilitazione di meccanismi di difesa come conseguenza della percezione di un allarme (sia per la situazione scatenante che per la coscienza di un abbassamento del livello di resistenza), l’attivazione di livelli diversi di adattamento e l’adozione di strumenti di supporto necessari per resistere al cortocircuito, la caduta fisica e/o psicologica a causa di un esaurimento delle energie necessarie per l’adattamento. Va detto, dunque, che è necessario sottolineare che, interessandoci necessariamente alla relazione educativa, la situazione stressante può essere riconosciuta, dal punto di vista dell’allievo e poi del docente, sotto forme e livelli diversi: - come responsabile sintomatica e consapevole della difficoltà di uno scambio (“Tutto questo parlare con te mi ha stressato!”, “So già che ascoltarti o discutere con te mi affatica, mi stanca, mi pesa!”), - come responsabile sintomatica e, a mio avviso solo apparentemente, inconsapevole della difficoltà di uno scambio (“Non so perché, ma tutto questo parlare con te, ascoltarti, discutere, mi stressa, mi infastidisce, mi annoia!”), - come conseguenza di una mancanza di chiarezza (“Non riesco a comprendere quello che vuoi dire, faccio fatica a seguirti!”, “Ma non vedi che ti contraddici?”), - come conseguenza di una mancanza di disponibilità effettiva ad uno scambio (“Quanto parli! Prova a respirare fra un centinaio di parole e le altre!”, “Proprio non riesco a farmi ascoltare da te!”), - come percezione e manifestazione di una impossibilità a priori di uno scambio (“Con quelli come te non potrò mai avere un dialogo!”), - come manifestazione di una impossibilità di sentirsi motivati e coinvolti (“Non riesco a trovare niente di interessante in quello che dici!”, “Quanto sono vecchie le cose che dici!”, “Ma a che serve tutto questo?”), - come consapevolezza di una incapacità o di un insuccesso comunicativo (“Come faccio a spiegarmi se non conosco bene l’argomento?”, “Come faccio a farti capire che quello che sto spiegando è importante?”), - come espressione di una mancanza di disponibilità effettiva (“Tanto lo so che a voi ragazzi di oggi non importa niente di niente!”, “Perché dovrei ascoltarvi se non sapete nemmeno parlare in una lingua comprensibile?”), - come espressione di una impossibilità a priori di realizzare uno scambio (“Siete degli ignoranti!”, “Ma perché dovrei impegnarmi tanto con delle zucche vuote?”), - come espressione di un atteggiamento esclusivamente direttivo (“Non mi interessa chi siete e che cosa volete, studiate perché da domani vi interrogo, e so già che per voi saranno guai!”). Come si vede, tutte le indicazioni rilevano atteggiamenti di chiusura da riferire sia ad una incomprensione complessiva che ad una rappresentazione dell’altro ricca di pregiudizi; comunicazione si tratta invalidata, di atteggiamenti sostanzialmente che incapace di determinano offrire una contributi significativi agli interlocutori e che costituisce uno dei versanti di un fenomeno complesso che definiamo comunicazione problematica: con il termine miscommunication vengono infatti indicati oggi tutti quei fenomeni per i quali una relazione comunicativa risulta inefficace e non appropriata; in realtà, le sue interpretazioni più recenti impongono di verificare anche il livello ed il grado della soddisfazione che uno solo o tutti gli interlocutori percepiscono nel loro scambio. A noi interessa molto questa conseguenza poiché, oltre che all’efficienza e alla chiarezza con le quali i messaggi possono essere proposti, riconosciamo al rapporto educativo e alla qualità delle implicazioni e delle ricadute un valore fondamentale - per la crescita e la maturazione professionale, culturale, sociale del docente e dell’allievo, - per l’approfondimento culturale possibile e successivo al momento dello scambio problematico, - per l’atteggiamento individuale verso il sapere (il contenuto specifico) mantenuto da tutti i protagonisti che partecipano direttamente o si sottraggono volutamente dallo scambio o decidono da un certo momento in poi di non avere più alcun interesse o desiderio di proseguire, - per i pregiudizi individuali che possono essere determinati in tutte le fasi successive allo scambio in relazione alle persone, ai contenuti, ai ruoli, - per la qualità di tutti i rapporti esistenti nel contesto educativo che rischia di non beneficiare della dinamicità possibile quando fra contenuti, individui, luoghi vengono stabilite interconnessioni. La cultura della genitorialità È incontestabile il fatto che la realtà della famiglia presenti oggi problemi che in passato erano dei tutto sconosciuti ma è altrettanto chiaro che: • il suo valore e la sua dimensione affrontano ostacoli e situazioni nuove nei confronti dei quali possono essere pensati forse difficili o già realizzati o comunque prevedibili accorgimenti, da una parte, dall'altra si ritiene che: • essa è dei tutto impreparata ad affrontarli con chiarezza e consapevolezza; • la sua struttura è completamente inadeguata a sostenere il peso della dinamicità e dei cambiamento; • il significato, il desiderio e la partecipazione dei nucleo familiare è ad una svolta definitiva: la realtà dei dati impone che le sue molteplici patologie siano al più presto riscontrate e curate; • è necessario un modello diverso, una cultura della genitorialità; • i figli soffrono oltre misura della instabilità della inaffidabilità della coppia per cui è preferibile occuparsi di loro anche dall'esterno. nel sociale, in modo da provvedere a mancanze affettive,, culturali, intellettuali, etiche,, religiose. In sostanza non si può puntare il dito verso una realtà che non ha più il valore e la forza dei passato mentre trascuriamo il contesto della contemporaneità con tutte le sue richieste di cambiamento e riassestamento. D'altra parte non si può negare una crisi reale dell'istituto della famiglia inteso come eccessivo ottimismo e fiducia nelle competenze genitoriali tanto che i dati confermano una consistente tendenza dei genitori a ritirarsi dal loro ruolo. Questo RITIRARSI a volte non è un semplice tirarsi indietro, ma può significare atti violenti, comportamenti negligenti, indifferenza. I fattori predisponesti sono da individuare: nelle critiche che arrivano dai propri figli o da uno dei partner o dai nonni; nella esasperazione dei conflitti; nell'incapacità di funzionare come gruppo; nella tendenza a negare l'assunzione di responsabilità e preferire la delega; nell'incapacità di superare i modelli di riferimento proposti dalla società e assumere atteggiamenti di consapevolezza,, indipendenza, autonomia di giudizio; nell'incertezza che permea molte realtà contemporanee e dunque anche il modo do vivere la natalità e la genitorialità; nella mancata accettazione della trasformazione e dei cambiamento come fenomeno inevitabile nella vita odierna rispetto al proprio ruolo all'interno della società. La nuova famiglia è quella nucleare e sono tante le dinamiche da tenere presenti: la coppia; l'attesa dei primo figlio, caratteristiche; dinamiche; bisogni; ruoli; mancanze; organizzazione; tempo dedicato alla famiglia. Un funzionamento familiare multiproblematico e un funzionamento dei servizi socio-sanitari inadeguato possono essere visti come due facce della stessa medaglia. Sono 3 i livelli importanti di analisi: 1. organizzazione familiare; 2. contesto familiare; 3. istituzioni esterne. La famiglia viene studiata: • aspetto della situazione personale; • ruoli di ogni individuo; • scopi e funzioni familiari; • progetti per il futuro. Per individuare le possibili cause: Il contesto abitativo Condizioni abitative instabili; entrate economiche instabili (mancanza di autonomia amministrativa e di abilità di gestione di una casa; il tutto poi si riflette negativamente sul capo famiglia che sente il peso della sconfitta personale e familiare (conflitto tra ciò che si aspetta la società e ciò che invece riesce a realizzare). Il contesto lavorativo Vi è una relazione tra lavoro duro e di poco valore, mobilità orizzontale, abitazione scadente e intero stile di vita delle famiglie escluse, emarginate, isolate. Caratteristiche: a lavori che richiedono formazione limitata; attività occupazionali con limitata possibilità di carriera; frequente mobilità orizzontale; disoccupazione e sottoccupazione non sempre sono ben distinte, impiego con scarsa supervisione e aggiornamento; la "cultura" della precarietà dei lavoro può essere trasmessa ai propri figli. Famiglie isolate ed escluse Il termine devianza denota una concezione attenta ai comportamenti che violano le regole normative, le intenzioni e le attese della società; il termine emarginazione sottolinea l'aspetto di subordinazione di un soggetto marginale rispetto ad uno sociale in cui il potere politico ed economico è tenuto da altri; il termine disadattamento indica carenze o distorsioni nell'adattamento e nel l'integrazione sociale. Questi riferimenti concettuali indicano quanto, i sistemi sociali, plasmino in modi differenti quella che è la realtà di vita di gruppi familiari in forti difficoltà. Oggi alle dimensioni di devianza,, emarginazione e disadattamento si tende a sovrapporre la valutazione di "fattori di rischio" e "fattori protettivi"' quelli cioè che si ritiene riescano a tutelare gli equilibri psicologici e comportamentali di un individuo in particolari situazioni di stress. Per quel che riguarda le giovani generazioni, invece.. si tende ad indicare la dimensione del disagio che può diventare conclamato o patologico appunto a seconda dei rapporto tra elementi di rischio,, risorse personali e opportunità offerte. Scala presa in considerazione per l'individuazione delle situazioni di multi problematicità in base ai parametri disfunzionali dei rapporto genitori/bambino. Mancanza di coesione a casa 8 o più trasferimenti; perdita di un genitore prima dei 6 anni; 6 o più mesi trascorsi lontani dai genitori; genitori divorziati o cronicamente in conflitto, coinvolgimento della famiglia con 9 o più servizi sociali. Mancanza di supervisione materna madre alcolizzata o delinquente; madre gravemente disabile; standard di gestione della casa molto scadente; nessuna supervisione in assenza della madre. Mancanza di affetto materno mancanza di affetto materno verificata da più osservatori; mancanza di affetto materno affermata dal bambino; assenza della madre per più di 2 anni; il b/o è indifferente od ostile alla madre; madre mentalmente malata. Mancanza di supervisione paterna padre alcolizzato o mentalmente ritardato; padre delinquente; padre assente per più di 6 anni osservata disciplina inadeguata; i figli affermano che la disciplina è inadeguata. Mancanza di affetto paterno i b/i affermano la mancanza di affetto paterno; il padre ha volontariamente abbandonato la famiglia per più di 2 anni; il padre è un malato psichiatrico; i figli sono indifferenti od ostili al padre. Per una nuova cultura della genitorialità La domanda da porsi è: quanto si è disposti ad allargare le braccia? Questo significa impegnarsi ad imparare a fare i genitori non solo dei figli che aspetti tu ma degli altri, quelli che aspettano te; parlo dei valore e dell' idea di una paternità ed una maternità più ampia, la possibilità di far crescere il proprio modo di amare imparando ad amare la persona che hai davanti e non quella che vorresti tu. Consapevolezza; ruoli (non c’è parità ognuno ha il suo ruolo); valori; responsabilità; convivenza; sviluppo affettivo equilibrato; l'affetto non basta; osservazione; capacità comunicativa; apertura al mondo esterno; accettare di farsi aiutare. Colloquio e tecniche di ascolto per una comunicazione significativa ed efficace “Nel corso di una conversazione chi tace può far capire, cioè promuovere la comprensione più autenticamente di chi non finisce mai di parlare. L’ampiezza di un discorso su qualcosa non equivale affatto all’ampiezza della comprensione delle cose. Proprio il contrario, un fiume di parole su un argomento non fa che oscurare l’oggetto da comprendere, dando ad esso la chiarezza apparente dell’artificiosità e della banalizzazione” (M. Heidegger, Essere e tempo). Nello svolgimento della propria attività professionale e nelle sue varie funzioni – consulenza psicologica e sociale, consulenza filosofica, attività socio-politica, insegnamento, assistenza sociale etc. - si usa come strumento principale il colloquio. Questa frase introduttiva di M. Heidegger, sembra estremamente significativa per mettere in risalto l’importanza del silenzio, ossia la capacità di ascolto come promozione della comprensione nell’ambito di un processo di significatività della comunicazione in sede di colloquio. La domanda iniziale è quanto il colloquio possa rifarsi ad una tecnica di conduzione dello stesso. La parola Tecnica è caratterizzata da una notevole carica negativa, dal suono freddo, meccanico, poco umano e con essa si intendono sia le tecnologie sia la razionalità che presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza. Le parole riportate di seguito ci fanno riflettere: “Noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità che, misurandosi sui soli criteri della funzionalità e dell’efficienza, non esitano a subordinare le esigenze dell’uomo alle esigenze dell’apparato tecnico. Inconsapevoli, ci muoviamo ancora con i tratti tipici dell’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. Ma la tecnica non tende ad uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica FUNZIONA.(…) Occorre abbandonare le psicologie del soggetto, che sono poi tutte le psicologie, costruite su quello sfondo umanistico che prevede l’uomo come soggetto e la tecnica come strumento, e fondare una nuova psicologia, capace di riconoscere nella tecnica l’essenza dell’uomo e di individuare nella sua attuale estensione, che oggi appare senza limiti, quegli strumenti psichici che, se ancora non consentono all’uomo di dominare la tecnica, possano almeno evitare che la tecnica, da condizione essenziale dell’esistenza umana, si trasformi in causa dell’insignificanza del suo stesso esistere. La tecnica infatti può segnare quel punto assolutamente nuovo nella storia, e forse irreversibile, dove la domanda non è più che cosa noi possiamo fare con la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi. (U. Galimberti, Psiche e techne, Feltrinelli, Milano, 1999). Vediamo quindi come riuscire a parlare di tecniche di ascolto e di renderle significative nel rispetto dell’umano e nel tentativo di utilizzare lo strumento del colloquio in modo consapevole, professionalmente corretto ed efficace. L’esperto dovrebbe essere il padrone delle tecniche tanto da derogarne deliberatamente nel caso lo ritenga necessario; la capacità di gestire le tecniche fa sì che si possano acquisire una gamma più ampia di alternative. Conoscere significa essere preparati e questo consente di rispondere con sensibilità e in modo esauriente. La padronanza della tecnologia è un requisito indispensabile per una vera competenza. Il conflitto si pone fra un approccio analitico ed uno intuitivo nei confronti delle persone e dei loro problemi, fra un sapere generico e un sapere specifico individuale. La tecnica richiede una generalizzazione. Essa pone l’accento sugli elementi che cono comuni a colloqui diversi, rendendo possibile una risposta comune. Un modo di procedere che rifiutasse di mettere in primo piano le tecniche si concentrerebbe su quanto c’è di specifico in ogni singolo incontro. Se ogni uomo è diverso sotto certi aspetti da tutti gli altri uomini, è anche vero che, per altri versi, tutti gli uomini sono simili. C’è chi sostiene che nella misura in cui ogni uomo è uguale agli altri, esistono talune costanti di cui è possibile tener conto in anticipo nel passare da un colloquio al successivo, costanti che legittimano tecniche adatte a tutti i colloqui. Un’obiezione contro l’interesse delle tecniche deriva anche da un altro atteggiamento, cioè l’opinione che la tecnica abbia poca importanza, che sia un fattore modesto, secondario, rispetto all’atteggiamento che si istaura tra i due interlocutori. Se questo atteggiamento è quello giusto, allora tutto andrà bene, se è sbagliato, nessuna abilità tecnica potrà salvare il colloquio dall’insuccesso. Molti potrebbero affermare che se si trovassero nella situazione di dover operare una scelta fra il sentimento e la tecnica sceglierebbero il primo come il più importante fra i requisiti indispensabili, ma forse dovrebbe essere possibile mettere a disposizione dell’utente un esperto che fosse insieme corretto negli atteggiamenti e competente dal punto di vista tecnico. Esperto è colui che combina il sentimento e l’atteggiamento appropriati con le valide tecniche di colloquio. La virtù sta, come spesso succede, non in “questo o quello”, ma in entrambi. Se la tecnica è vana, quando non è sostenuta dal sentimento, quest’ultimo senza la tecnica è inefficace. Se la competenza tecnica senza la comprensione è sterile, la comprensione senza la competenza è un esercitarsi a vuoto. Un buon rapporto è una condizione necessaria ma non sufficiente per realizzare un buon colloquio. Educare a condurre un buon colloquio significa far sì che si impari come riuscire a manifestare, per mezzo del comportamento, i sentimenti adatti, utilizzando le tecniche corrette, perché esse sono la traduzione, in termini appunto di comportamento, dell’atteggiamento di aiuto. Comunque si impara a fare i colloqui solo facendoli e anche se il sapere è una cosa completamente diversa dal fare, è però sempre un passo avanti rispetto a non avere nemmeno idea di cosa si dovrebbe fare. Ci deve quindi essere alla base una certa conoscenza preliminare di ciò che distingue tecnicamente un buon modo di condurre un colloquio da uno scadente. Ovviamente non c’è dubbio che si possono anche conoscere tutte le tecniche del colloquio ma non essere, però, in grado di applicarle in maniera soddisfacente; come è anche vero che alcuni professionisti, particolarmente dotati, lavorano brillantemente senza essere capaci di dire cosa fanno e come lo fanno, arrivando spesso a dei successi al di là di tutte le regole tecniche. Per di più c’è una parte di vero nell’affermazione che buoni intervistatori si nasce, non si diventa. Alcune persone dalle particolari capacità intuitive sembrano avere un’abilità naturale per l’arte delle buone relazioni personali, di cui il colloquio è soltanto un esempio particolare. Ma quelli che hanno un’attitudine naturale per questo genere di cose e quelli che fanno buoni colloqui senza sapere esattamente cosa stiano facendo, possono anche essi trarre vantaggio da uno studio consapevole della loro arte. Quali che siano i limiti delle nostre capacità naturali, l’apprendimento li può estendere. È doveroso riconoscere nelle obiezioni contro la tecnica, il desiderio di salvaguardare il dato magico esistenziale del buon colloquio. C’è la paura che un’analisi spassionata e didattica di ciò che succede ne colloquio possa distruggere la spontaneità creativa dello specialista eccezionalmente intuitivo nel corso dell’incontro. Distinzione fra il colloquio e una conversazione Il modo più semplice per definire un colloquio è dire che si tratta di una conversazione che ha uno scopo preciso, accettato reciprocamente dai partecipanti. La caratteristica fondamentale che distingue un colloquio da una conversazione è che l’interazione è volta a raggiungere uno scopo scelto coscientemente e reciprocamente accettabile. Struttura dell’interazione 1) Poiché il colloquio ha uno scopo, il contenuto avrà probabilmente un’unità, una progressione e una continuità tematica, mentre una conversazione va avanti per associazione di idee e non esiste un tema centrale. 2) Se si vuole raggiungere lo scopo, qualcuno deve prendersi la responsabilità di dirigere l’interazione in modo da farla procedere verso la meta e selezionare il materiale estraneo e quello pertinente. I rapporti di ruolo sono strutturati, non esistono termini simili nella conversazione. 3) Tra l’esperto e l’utente non c’è reciprocità, l’esperto prende la guida perché sa come condurre il colloquio e ha una conoscenza più profonda dell’argomento in questione. 4) Le azioni dell’esperto devono essere programmate, deliberate e scelte coscientemente per raggiungere lo scopo del colloquio mentre il comportamento delle persone in una conversazione può essere spontaneo. 5) In conversazione se la si interrompe non si può essere imputati di abbandono di responsabilità e un colloquio richiede un’attenzione precisa all’interazione. Si ritiene che l’impegno dell’esperto a partecipare al colloquio sia più intenso. 6) Avendo uno scopo, il colloquio di solito è un incontro formalmente organizzato. Si stabiliscono infatti un momento, un luogo e un periodo di tempo definiti, al contrario di quanto succede per una conversazione. 7) Nel colloquio c’è l’impegno specifico a stimolare l’apporto di fatti e sentimenti che possono contribuire ad raggiungere lo scopo Il colloquio è lo strumento più utilizzabile per avere accesso ad un’ampia varietà di immagini interiori dell’utente nella sua situazione. Mediante le parole, che costituiscono le azioni, l’esperto può sperimentare con l’utente varie situazioni nel passato, nel presente e nel futuro. Né il tempo, né lo spazio limitano il colloquio. Inoltre, attraverso il colloquio, l’esperto si rende conto dei sentimenti e degli atteggiamenti dell’utente, del significato soggettivo della situazione oggettiva. Il colloquio è una forma specializzata di comunicazione. Nel colloquio l’interscambio comunicativo interessa due persone, dotate entrambe di un sistema di ricezione, di un sistema di elaborazione e di un sistema di trasmissione. Il sistema ricevente è costituito dai cinque sensi: i ricettori. Nel colloquio la comunicazione interessa principalmente l’uso di due recettori sensoriali, gli occhi e le orecchie. Chi riceve un segnale in arrivo lo elabora. Ciò significa capire il messaggio ricevuto e dargli un significato. L’attività di elaborazione consiste nel richiamare alla mente delle informazioni memorizzate, nel collegare al messaggio altre informazioni che abbiano attinenza con esso, nel riflettervi sopra, nel valutarlo e nel tradurlo in modo da renderlo coerente con il sistema di riferimento della persona che lo riceve. In quanto riceventi, noi selezioniamo alcune parti del messaggio in arrivo, ne ignoriamo altre e risistemiamo ciò che giunge alle nostre orecchie in strutture interpretabili. A questo punto, immancabilmente formuliamo un messaggio di risposta. Parole selezionate e atteggiamenti non verbali vengono trasmessi dagli “organi trasmittenti”: la voce, la bocca, le mani, gli occhi, ecc., in modo da poter essere ricevuti dall’altro partecipante al colloquio che a sua volta elabora il messaggio come base per poter formulare la sua risposta. Mentre riceve, elabora e risponde a messaggi esterni, il partecipante al colloquio riceve, elabora e risponde anche a messaggi che nascono dal suo interno. Siamo infatti impegnati continuamente nel controllare cosa sentiamo dentro di noi fisicamente ed emotivamente. Il cervello agisce da centro di comunicazione, elaborando tutti i messaggi, interpretandoli e formulando una risposta adatta. Un pensiero prima ancora di essere verbalizzato per la trasmissione, deve passare attraverso una serie di vagli interni. La resistenza psicologica e la rimozione psichica bloccano la comunicazione di pensieri non esprimibili per cause emotive. La resistenza è la consapevole repressione di pensieri che chiederebbero di essere espressi. La rimozione invece indica che le barriere frapposte all’espressione di alcuni pensieri esistono al di sotto del livello della coscienza. I pensieri stessi vengono vagliati senza che la persona si renda conto che esistono o che sono censurati. L’utente può essere volenteroso e disponibile, ma anche incapace di comunicare alcune delle informazioni necessarie, degli atteggiamenti e dei sentimenti riguardanti la sua situazione. Alcuni fatti e sentimenti sono stai dimenticati ed è difficile richiamarli alla memoria per riferirli; alcuni sono stati rimossi così da essere completamente dimenticati. Altri filtri inibiscono la codificazione di pensieri che turberebbero, se espressi, l’atmosfera della comunicazione. I colloqui riguardanti comportamenti e atteggiamenti nei confronti dei quali esistono attese sociali forti e inequivocabili, hanno a che fare con lo schermo della propria accettazione da parte degli altri. La disponibilità a parlare, il desiderio di comunicare sono in funzione della speranza e della fiducia che tale coinvolgimento ci porti come risultato qualche vantaggio. Noi diamo la possibilità all’esperto di accedere a quel tanto di noi stessi che egli ha bisogno di conoscere per poterci aiutare, e facciamo questo solo perché confidiamo che, come risultato, egli sarà disposto, pronto e in grado di darci aiuto. Così la comunicazione non è soltanto il prodotto di ciò che ogni persona porta nel colloquio, ma è anche una conseguenza di ciò che essa sperimenta durante il suo svolgimento. Avendo deciso che un pensiero è ammissibile e adatto alla situazione e al ruolo in cui è impegnato in quel momento, l’esperto deve poi trovare le parole per esprimere il messaggio in modo da evitare una ricezione distorta. L’esperto ha bisogno di un vocabolario sufficientemente ricco da rendere comprensibile il proprio pensiero e abbastanza variato per potersi adattare al vocabolario dei vari utenti. Molte parole che si usano in comune non hanno equivalenza di significato. Come possono esserci difficoltà nella trasmissione del discorso così possono esserci dei problemi per quanto riguarda la ricezione. Il messaggio in se stesso, così come è stato inviato, è soltanto una variabile che determina il messaggio che sarà ricevuto. La persona alla quale è rivolto il messaggio ha il suo bagaglio personale di barriere mentali, schermi e filtri che la proteggono dalla ricezione di messaggi che la rendono ansiosa o la mettono a disagio, o che minacciano la percezione favorevole che ha di se stessa, la sua pace psichica e la sua tranquillità. Il processo della percezione selettiva ci consente di ascoltare soltanto ciò che ci concediamo di sentire e solo nel modo in cui ci concediamo di farlo. Non soltanto sentiamo ciò che decidiamo di ascoltare, ma addirittura ciò che ci aspettiamo di sentire, che sia stato detto o no. Inoltre noi spesso pensiamo per categorie e ci aspettiamo che una persona si comporti in modo corrispondente, cioè in conformità alla casella alla quale la abbiamo assegnata. Dal momento che gli interessi, i bisogni e le esperienze precedenti di colui che ascolta sono così importanti per determinare il messaggio che viene effettivamente ricevuto, qualunque sia il modo in cui viene inviato, l’esperto deve prendere attivamente in considerazione la situazione attuale ed il background dell’ascoltatore. Il materiale ricevuto in modo selettivo viene poi organizzato in modo da ricercare il suo significato. Abbiamo bisogno di orientarci di fronte a qualsiasi situazione nella quale ci troviamo e per far questo cerchiamo di trovare il senso di tutte le comunicazioni che riceviamo. Nel dare loro un significato, portiamo con noi gli schemi esplicativi che abbiamo appreso attraverso la nostra educazione e le esperienze che abbiamo vissuto. Essi comprendono non soltanto i sistemi di credenze di tipo cognitivo, ma anche gli schemi di tipo affettivo, le idee che nutriamo riguardo al nostro rapporto col mondo e con le persone. Durante un colloquio l’esperto investe una notevole dose di energia nell’elaborazione delle comunicazioni che ha ricevuto. Dopo che ha decodificato ciò che ha udito, ma prima però di rispondere, cerca di capire il senso della comunicazione. Ugualmente colui che riceve il messaggio e lo decodifica, ha la responsabilità di cercare il feed-back al fine di controllare se il messaggio da lui ricevuto sia proprio quello che era stato inviato. Il fatto che la comunicazione si svolga su così tanti e diversi livelli, attraverso canali altrettanto differenti, e il fatto che sia così facilmente soggetta a distorsioni e malintesi, prova, contro ogni ombra di dubbio, la necessità di tale feed-back. Spesso non ci rendiamo conto di non capire, il grande nemico della comunicazione è l’illusione. Per arrivare ad una buona comunicazione è necessario allora riconoscere la nostra ignoranza, e accettare inoltre il fatto che per quanto si possa pensare di sapere cosa ha detto l’utente, di fatto, ciò non può corrispondere alla realtà. Il correttivo per l’ignoranza presumibile è il feed-back. Controlliamo la nostra comprensione del messaggio chiedendo delle conferme. La comunicazione implica non soltanto un dialogo esterno fra l’assistente e l’utente, ma anche una serie di monologhi interiori del cliente e dell’assistente con se stessi. Parlando fra loro ascoltano se stessi mentre parlano e si ascoltano l’un l’altro. Sia il dialogo esterno che i monologhi interiori si svolgono a diversi livelli di comunicazione più o meno esplicita. C’è il contenuto aperto e manifesto e quello latente e nascosto Ogni tipo di comunicazione è interattiva e interrelazionale, ogni persona nella rete delle comunicazioni influenza l’altro ed è a usa volta condizionata da costui. La natura del rapporto interpersonale fra i partecipanti in un sistema di comunicazione è quindi di notevole importanza. La comunicazione coinvolge non soltanto ciò che viene detto e sentito – il messaggio codificato, trasmesso ricevuto, elaborato e decodificato – ma anche il contesto interpersonale nel quale si svolge questo processo. L’interazione emotiva fra le parti, nel procedere della comunicazione, influenza, positivamente, il processo della comunicazione stessa. Se il rapporto è positivo, se c’è una buona atmosfera – rilassata, serena, fiduciosa, rispettosa, armoniosa, calda e psicologicamente sana – fra l’esperto e l’utente, entrambi sono probabilmente più recettivi nei confronti dei messaggi, che si stanno inviando. Il rapporto è il ponte che mette le persone in comunicazione, ha come effetto di intensificare ed amplificare le conseguenze di qualsiasi interazione che si verifichi nel colloquio, rende più grande l’influenza dell’esperto, più accettabili i suoi suggerimenti, più efficaci tutte le sue tecniche. Con l’aderire e l’incoraggiare l’autodeterminazione del cliente, l’esperto stabilisce un’atmosfera di reciprocità, incoraggia gli utenti a contribuire attivamente alla risoluzione dei loro problemi e rispetta le loro iniziative. Il suo comportamento dimostra che egli crede nel diritto e nella capacità dell’utente di dirigere la propria vita; egli lavora con il l’utente alla soluzione dei problemi di questo; comunica la sua fiducia nella capacità dell’utente di arrivare alle sue personali soluzioni e lo aiuta ad arrivarci nel modo che a questo si confà maggiormente. Ci può essere un conflitto fra il desiderio di garantire all’utente la scelta delle sue personali decisioni e la nostra convinzione personale circa la decisione che sarebbe auspicabile l’utente scegliesse. Il conflitto sussiste fra il tener fede alla promessa di libertà fatta al cliente da un lato e dall’altro il doversi prendere delle responsabilità nei confronti dei suoi effettivi bisogni. Importante è inoltre manifestare all’utente un alto livello di interesse, manifestando attenzione ai suoi bisogni dando prova di essere pronto e disposto ad aiutarlo, comunicando la sensazione che ciò che succede all’utente gli interessa veramente anche al di là della sua responsabilità formale nei confronti del lavoro. Si manifesta interesse chiedendo all’utente la sua storia, i suoi sentimenti, le sue reazioni, le sue risposte, replicando in modo da far vedere che abbiamo ascoltato attentamente, che ci ricordiamo di ciò che ha detto in precedenza, che lo abbiamo seguito con attenzione e sollecitudine. Dimostrare rispetto per l’individualità dell’utente contribuisce a stabilire e a mantenere un rapporto positivo. Questo richiede un atteggiamento ed un comportamento che tendano a sostenere o ad accrescere l’autostima del cliente. L’atmosfera tra l’esperto e l’utente deve essere tale da rendere percepibile il fatto che, come persone, essi hanno un eguale valore. Ciò significa personalizzare ogni generalizzazione e sospenderne l’applicazione finché non è chiaramente dimostrato che è applicabile a quel particolare individuo con le sue peculiarità personali. Un atteggiamento non giudicante e di accettazione aiuta a instaurare e a mantenere un rapporto positivo; offre all’utente la possibilità di essere se stesso e di esprimersi liberamente in tutti i suoi aspetti, piacevoli e spiacevoli. L’atteggiamento non giudicante fa capire che l’operatore non è lì per lodare o biasimare, ma unicamente per comprendere, capire i motivi che spiegano il comportamento dell’individuo piuttosto che stabilire la validità di tale comportamento. L’oggetto dell’accettazione non è né il buono né il cattivo, ma il reale; l’individuo come effettivamente è, e non come desidereremmo che fosse o come pensiamo che dovrebbe essere. La comprensione empatica prevede che l’esperto comprenda con sensibilità e accuratezza la natura dell’esperienza del cliente ed il significato che essa riveste per lui, e comprende altresì il mondo del cliente in modo cognitivo ed empatico partendo dal punto di vista di questo. L’esperto sente con l’utente piuttosto che in luogo di lui, empatia significa entrare, con l’immaginazione, nella vita interiore di qualcun altro. Non è tanto semplice essere empaticamente comprensivi; bisogna comunicare all’utente che stiamo percependo e sentendo accuratamente la sua situazione. Nella genuinità e nell’autenticità, i rogersiani (terapeuti esistenziali) e altri interessati al colloquio terapeutico, hanno identificato una condizione essenziale per arrivare ad un buon rapporto. L’autenticità implica sensibilità e spontaneità, volontà e disponibilità a condividere con l’utente i proprio sentimenti e le proprie reazioni riguardo a cosa sta succedendo durante il colloquio. Molti sono tuttavia contrari alla risposta emotiva da parte dell’esperto , raccomandando invece obiettività, imparzialità e neutralità affettiva durante il colloquio. La riservatezza è una garanzia per l’utente, ossia non mettere le informazioni a disposizione di un pubblico più ampio, riduce il livello di minaccia nei riguardi dell’Io e rende più facile la comunicazione. Si è osservato quindi che oltre alle soddisfazioni espressive che nascono dal rapporto nel corso del colloquio, vi sono esigenze strumentali a cui l’esperto deve rispondere. Importante è l’equilibrio fra le due componenti: le soddisfazioni espressive sono tratte dal rapporto istaurato (atteggiamento), cioè dal contesto nel quale viene offerto l’aiuto; i risultati strumentali derivano da ciò che l’esperto di fatto fa (comportamento) per aiutare il cliente a risolvere i problemi per cui è venuto. I protagonisti del colloquio: l’utente Porta con sé i propri rapporti con vari gruppi di riferimento e primari, la sua storia biopsicosociale e il suo modo attuale di comportarsi. L’utente appartiene ad un sesso, e rientra in un gruppo particolare per età, razza, occupazione, classe, religione ed origine etnica. Ognuna di queste caratteristiche ci dice qualcosa, entro certi limiti, del probabile comportamento, dei sentimenti e degli atteggiamenti dell’utente. L’appartenenza ad ognuno di questi diversi gruppi di riferimento influenza qualche aspetto del comportamento dell’utente durante il colloquio. Ma poi l’utente è, anche più profondamente, membro di numerosi gruppi primari – una famiglia, un particolare gruppo di compagni di lavoro, una data congregazione, un gruppo di amici. Tutti i contatti con i gruppi primari modificano in qualche modo il comportamento, i sentimenti e gli atteggiamenti dettati dall’appartenenza a un dato gruppo di riferimento. Tutti questi elementi relativi al proprio retroterra accompagnano il cliente nella situazione di colloquio, influenzano il modo in cui penserà, sentirà ed agirà. Non ogni ruolo, non l’appartenenza ad un gruppo qualsiasi ha però capacità e rilevanza nel determinare la reazione dell’utente nel colloquio. Avranno importanza grandissima gli atteggiamenti le convenzioni e i comportamenti che sono in relazione ai ruoli che si collegano allo scopo del colloquio. L’esperto Anche l’esperto porta nel colloquio un insieme di fattori determinanti. Anche egli appartiene a determinati gruppi di riferimento ma il punto centrale della sua preparazione consiste nel sostituire al comportamento generalmente previsto il comportamento professionale che ci aspetteremmo da un esperto. La più importante appartenenza ad un gruppo di riferimento che egli porta al colloquio è quella professionale. L’identificazione professionale determinerà quali aree verranno studiate nel colloquio e come le informazioni ottenute saranno elaborate dall’operatore. Essa fornisce all’operatore un orientamento particolare che guida la sua percezione. Uno studio sulla reazione da parte di operatori, che avevano orientamenti differenti in rapporto al comportamento umano, nei confronti dei dati di una stessa indagine sociale, arrivò alla conclusione che essi ponevano la loro attenzione su aspetti diversi della situazione. Ognuno aveva un insieme di percezioni che determinavano quali dati sarebbero stati inconsciamente o consciamente. Il modo in cui la professione ci insegna ad analizzare una situazione, può determinare il modo in cui noi percepiamo la situazione stessa. Il fatto di identificarsi con la professione, vista come gruppo di riferimento, implica non soltanto l’adesione a certe tecniche di colloquio e all’impiego di un certo insieme di teorie, ma richiede anche un comportamento che rispecchi determinati valori ed etiche professionali. La struttura fornita dalla professione e poi modificata dall’appartenenza ad un gruppo di lavoro o ad un ente, viene ulteriormente riadattata al singolo operatore, secondo le sue personali preferenze bio-psicosociali. Gli aspetti dello schema di riferimento teorico che vengono particolarmente valorizzati, le risposte del cliente a cui viene dato maggior rilievo, differiscono da operatore a operatore nell’ambito di ogni singolo ente o gruppo di lavoro. Ma d’altra parte l’esigenza della professione richiede che l’assistente faccia ogni possibile sforzo per far sì che queste considerazioni siano escluse dal colloquio. Idealmente l’assistente è conscio dei bisogni che nascono dalla sua personale storia psicosociale e controlla le loro manifestazioni. Lo scopo e la speranza della preparazione professionale è di ridurre la componente troppo personale nel comportamento dell’esperto che risponderà come un professionista in base ad alcune norme standardizzate, presumibilmente corrette dal punto di vista tecnico. Interazione esperto-utente Ciò che avviene in qualsiasi colloquio è il risultato di ciò che l’utente e l’esperto portano con loro all’incontro e l’interazione fra quella data coppia di partecipanti, in quel momento della storia del loro contatto reciproco. L’interazione è “reciprocamente condizionata”; ogni persona infatti risponde al comportamento dell’altra, ognuno è causa parziale del comportamento dell’altra. Il colloquio è un sistema in cui ogni partecipante ricerca, accetta o rifiuta gli sforzi messi in atto dall’altro per influenzarlo. Tutto ciò implica una rivalutazione dell’importanza che si deve attribuire ai vari fattori che entrano in gioco durante il colloquio. Malgrado l’importanza iniziale che hanno il retroterra dei due partecipanti, la loro appartenenza a determinati gruppi primari e di riferimento, la loro storia personale, la preparazione professionale e l’orientamento teorico, una volta che il colloquio ha inizio, il fattore che più incide sul comportamento di ognuno dei partecipanti è il comportamento dell’altro. Con l’avvio del colloquio viene attivato un nuovo insieme di variabili, tipico di ogni determinato incontro. Sebbene l’interazione durante il colloquio sia costituita dagli sforzi reciproci e scambievoli messi in atto da entrambi i partecipanti per influenzarsi a vicenda, l’influenza potenziale dell’esperto è maggiore di quella dell’utente perché egli ha un potere maggiore, che assume poi varie configurazioni. L’esperto ha il potere di “competenza”, che gli deriva dalle specifiche conoscenze che si suppone egli abbia per aiutare il cliente a risolvere i problemi che lo investono. Ha il potere di “riferimento” per il peso che hanno per l’utente le sue espressioni di approvazione o di disapprovazione. L’utente ha poche fonti di potere a sua disposizione per dare efficacia ai suoi tentativi di influenza. Può come nel caso dell’utente che non collabora, avere il potere, che deriva dalla sua indifferenza. È il potere inerente alla parte di “minore interesse” in qualsiasi transazione. L’utente può rifiutarsi di cooperare con l’operatore; può frustrare la realizzazione dello scopo del colloquio; può negare all’esperto la gratificazione data dal condurre un buon colloquio; può negargli le ricompense psichiche rappresentate dalle espressioni di apprezzamento e di gratitudine; può rifiutarsi di rendere facile il colloquio fornendo risposte limitate o che non portano a niente. L’utente può negare all’esperto la soddisfazione di una conferma della sua competenza o può offrirla in modo selettivo, solo se l’esperto a usa volta gli dà quello che vuole. Malgrado una differenza di potere apparentemente considerevole a vantaggio dell’esperto, l’utente non è tuttavia privo di influenza. Mentre è chiaro e dato per scontato che il comportamento dell’esperto eserciti un effetto su quello dell’utente, ricerche valide indicano che è vero anche il contrario. Studi approfonditi sul comportamento dell’esperto indicano che sebbene ci sia nel suo comportamento un fondo di stabilità, mentre procede da un colloquio all’altro, si verifica qualche cambiamento in risposta all’individualità dei vari utenti. Uno studio ha dimostrato che gli esperti cercavano di compensare una minore attività da parte dell’utente aumentando la loro, ma che riducevano il loro intervento nel contatto con un utente attivo. L’atteggiamento di dipendenza dell’utente evoca nell’esperto una sensazione di supremazia e una certa sicurezza di sé. Per quanto, sia l’esperto che l’utente, modifichino i loro schemi caratteristici di interazione in risposta al rispettivo comportamento dell’altro, è stato dimostrato da vari studi che l’esperto tende a fare, per adattarsi, uno sforzo maggiore di quello che fa l’utente. È naturale che si arrivi a questa conclusione, dal momento che l’operatore ha un notevole grado di responsabilità professionale nel garantire il successo dell’incontro. Ogni esperto, per quanto si ritenga non direttivo, condiziona il cliente con delle risposte selettive in rapporto a ciò che il cliente dice o fa. Generalmente parlando, gli operatori che manifestano le qualità personali idonee a stabilire un buon rapporto, e cioè cordialità, pazienza, comprensione, tolleranza, sincerità, sono probabilmente anche quelli che riescono in modo pienamente soddisfacente, e sono inoltre i tipi di esperti preferiti dagli utenti. Quanto meno l’esperto è ansioso e incerto, tanto maggiore è la sua probabilità di essere competente. La competenza è associata con l’apertura mentale e con uno scarso dogmatismo. Altri studi sulle caratteristiche degli esperti competenti stabiliscono che essi hanno la tendenza ad essere controllati e piuttosto riservati, con un basso livello di apertura sociale, e che hanno un certo grado di sensibilità ma pur sempre distaccata e obiettiva nei confronti dell’utente. Sono seri, tenaci, riflessivi, interessati all’osservazione e alla comprensione del loro comportamento come di quello degli altri, tolleranti e comprensivi nei riguardi delle altre persone e della debolezza umana. Una conclusione ricorrente è che un alto grado di estroversione e di socievolezza non è collegato con una grande capacità di fare colloqui. Questa, invece, tende ad essere associata con un interesse per le persone, scientifico ed obiettivo piuttosto che emotivo o personale. Altre ricerche mettono in evidenza inoltre un rapporto fra intelligenza e buona capacità di fare colloqui, anche se la prima non è una garanzia sufficiente per la seconda. È generalmente considerato auspicabile che l’esperto abbia numerosi interessi ed un’ampia gamma di esperienza. In questo modo egli ha la capacità di comprendere una serie sempre più vasta di persone, dal momento che la sua personale esperienza può essere analoga alla loro. Inoltre ha una base più ampia per la comunicazione. Se l’analisi dei tratti del carattere dell’esperto porta sempre a risposte incerte, i risultati dello studio del comportamento sembrano un po’ più chiari. Di solito lo specialista più esperto manifesta un minor controllo, è meno attivo e meno incline a dare consigli e suggerimenti di quanto non faccia lo specialista alle prime armi. Quest’ultimo, poi, parla di più e si assume maggiore responsabilità per quel che riguarda la conduzione del colloquio. Questa differenza può essere il riflesso dell’ansia e dell’insicurezza, maggiori nel principiante, più che della sua inesperienza tecnica. Lo specialista esperto, però non è passivo, tende maggiormente a diversificare la propria attività e ad adattarla ai singoli casi. Dice solo ciò che deve essere detto e lo fa al momento giusto e così, facendo pesare ogni commento, è più efficiente. Anche i cambiamenti che si verificano a seguito di un tirocinio per il colloquio psicoterapeutico, portano ad osservare differenze tra gli operatori esperti e non. Come risultato di questo tirocinio gli specialisti divengono più riluttanti ad iniziare l’interazione, dando così all’utente maggiore opportunità di farlo, e divengono meno inclini ad imporsi durante il colloquio interrompendo il cliente. Di solito i più esperti danno un minor numero di risposte che possono influenzare direttamente il cliente e forniscono invece risposte più comunicative, che trasmettono un pensiero o un sentimento. La conclusione più saggia che si può trarre da tutti gli studi disponibili, è che non esiste un modello definito dei tratti della personalità che distinguono il buono dal cattivo specialista. Buoni colloqui sono il risultato di una complessa azione reciproca fra l’esperto, l’utente, lo scopo del colloquio e l’ambiente nel quale questo viene svolto. L’orientamento generale dei risultati delle ricerche suggerisce che l’esperto che ha maggior successo è probabilmente cordiale, disponibile, aperto psicologicamente e capace di controllo elastico su se stessa e sulla situazione di colloquio. Cosa deve fare l’esperto Deve, in generale far sì che il colloquio proceda in modo produttivo verso il suo scopo e che ciò avvenga senza difficoltà. Per assolvere al primo compito, l’esperto deve fare diverse cose. Deve agire con un atteggiamento di collaborazione con l’utente, per definire la situazione e assegnare al colloquio uno scopo che sia reciprocamente capito e accettato. Deve essere abile nell’uso di numerosi metodi di intervento da impiegare per far iniziare e far procedere il colloquio. L’esperto agisce da forza dinamica e da catalizzatore, aiuta l’utente a scegliere e ad articolare le informazioni, i sentimenti egli atteggiamenti più importanti al fine di realizzare lo scopo del colloquio. Deve svolgere durante il colloquio un notevole lavoro mentale. Deve ricevere ed elaborare dati complessi, prendere decisioni difficili riguardo al modo di rispondere, dare risposte adeguate e valutare poi il loro effetto. La storia dell’utente viene solitamente presentata sotto forma di mosaico: l’esperto ha il compito di riunire i vari pezzi, di organizzarli nella sua mente e di mettere insieme le parti del mosaico in modo che formino un’immagine d’insieme. Deve ASCOLTARE attivamente, come un elaboratore di dati, non passivamente come un recipiente. Inoltre per far sì che il sistema funzioni, deve stabilire e mantenere un buon rapporto con l’utente e stimolare la sua motivazione a partecipare produttivamente al colloquio. Assolvendo ai compiti espressivi, agisce per attenuare l’ansia, l’imbarazzo, l’irritazione e la diffidenza dell’utente. Egli lo mette a suo agio e gli offre il suo sostegno in momenti difficili del colloquio. Per far questo, l’esperto deve essere sensibile ai cambiamenti del clima emotivo del colloquio. Le sue risposte offrono gratificazione all’utente per la sua partecipazione e lo rassicurano sulla usa adeguatezza come persona e nel ruolo di utente. Se quest’ultimo è presente fisicamente ma si è ritirato psicologicamente ed emotivamente dal colloquio, non si può concludere nulla. Tuttavia se si pone attenzione unicamente ai bisogni espressivi e si considerano poco le ragioni strumentali che hanno fatto incontrare l’esperto e l’utente, può aversi un sistema di colloquio che funziona senza intoppo e in modo soddisfacente, ma che non dà niente di valido a nessuno. In ogni incontro l’esperto interviene per guidare e influenzare lo sviluppo naturale del processo di interazione affinché gli scopi del colloquio vengano raggiunti. Ogni risposta data dall’esperto dovrebbe essere scelta nel preciso intento di favorire gli scopi del colloquio. Si potrebbe, e a ragione, accusare l’operatore di essere manipolativo. Tuttavia l’intero processo è manipolativo; vale a dire è orientato ad ottenere certi risultati mediante spunti selettivi da parte dell’esperto. È proprio la serie di atteggiamenti manifestati dall’esperto e cioè rispetto e interesse per l’utente, preoccupazione per l’autodeterminazione e per l’accettazione, ecc. ad essere manipolativa. Gli atteggiamenti sono scelti deliberatamente e comunicati allo scopo di incoraggiare la comunicazione da parte dell’utente, di ridurre l’ansia e di rimuovere le barriere al parlare di sé. L’utente viene sottoposto ad un particolare insieme di stimoli atti ad aumentare la possibilità di risposte ritenute utili dall’operatore. Tuttavia, anche nel senso meno deteriore, più neutrale e più preciso, qualsiasi cosa faccia l’operatore che sa quello che fa, è di per sé manipolativa. Conoscenze dell’esperto La conoscenza approfondita dell’argomento che è al centro del colloquio è un segno che distingue lo specialista competente. Se l’esperto non ha una conoscenza particolareggiate dell’argomento riguardante il problema da affrontare, non potrà sapere quali domande rivolgere, quali informazioni sono più importanti, quali aspetti devono essere approfonditi fin nei particolari. Inoltre è anche bene conoscere le soluzioni possibili, le risorse disponibili e i vari procedimenti terapeutici dal momento che questi possono guidare l’esperto nel determinare quale aspetto della situazione del utente potrebbe essere studiata in modo più proficuo. La conoscenza poi aumenta la sicurezza e attenua l’ansia. Se l’esperto inizia il colloquio con una conoscenza approfondita di ciò che la letteratura e l’esperienza pratica della professione mettono a sua disposizione, non soltanto riguardo all’eziologia dei problemi ma anche riguardo al modo in cui potrebbe dare il suo aiuto, è più probabile che si senta sicuro della propria abilità nel condurre il colloquio con successo. E già questo, di per sé, aumenta la probabilità di riuscirvi. Ci sono poi altri tipi diversi di capacità che vengono richieste e che ci si aspetta che l’esperto possieda. La prima è la conoscenza seria del modo in cui condurre il colloquio. La seconda è la conoscenza del problema che è di volta in volta preso in esame, la sua natura ed origine, le possibili soluzioni. L’utente non ha una competenza tale che gli consenta di valutare il grado di informazione e di preparazione dello specialista per quel che riguarda il colloquio, sebbene riesca a valutare in via generale se un colloquio viene guidato in modo competente o no. L’utente sa invece valutare veramente bene la conoscenza dell’esperto in rapporto all’argomento specifico, dal momento che egli sta vivendo quel problema. Domande irrilevanti o senza senso, od osservazioni che tradiscono chiaramente la scarsa conoscenza che lo specialista ha di quella situazione, sono vissute dall’utente come mancanza di rispetto nei suoi confronti fino ad intaccarne la fiducia. Al contrario, una conoscenza approfondita del problema in questione accresce la fiducia che l’utente ha nello specialista, persona che conosce il suo mestiere e su cui si può fare affidamento per avere aiuto. Essa inoltre riduce le distanze sociali, perché indica che sia l’operatore che l’utente hanno familiarità con il problema. Se l’utente si accorge che l’operatore è bene informato e si rende conto che risposte di fantasia e non vere sarebbero accolte con scetticismo, sarà portato ad essere onesto e leale nei suoi confronti. Spesso uno specialista ha un insuccesso per difetto di conoscenze, piuttosto che per non aver assunto l’atteggiamento appropriato. E poi c’è non soltanto un difetto di conoscenza che non permette di aiutare produttivamente l’utente ad esaminare la sua situazione, ma vi sono anche le conseguenze di questa carenza per quel che riguarda il feed-back. Spesso lo specialista non ne sa abbastanza per rispondere alle richieste implicite od esplicite che il cliente gli rivolge per avere un’informazione utile e un consiglio. Effetti del colloquio nell’esperto Il rapporto che si istaura suscita reazioni sui quali occorre riflettere. Può accadere di non provare simpatia per l’utente e questo può dipendere dal controtransfert, dal processo che provoca l’attivazione di sentimenti negativi. L’antipatia può basarsi anche sul pregiudizio e può far pensare ad un rifiuto dell’individualità del cliente. Spesso si fa attenzione a non manifestare dei pregiudizi evidenti, socialmente riprovevoli, ma sono i piccoli pregiudizi che creano difficoltà. A volte l’avversione è basata su considerazioni più obiettive. Chiunque ha in antipatia le persone che rendono più difficile la realizzazione soddisfacente del proprio lavoro. Alcuni utenti aiutano il professionista nel suo lavoro e glielo rendono più facile, altri lo ostacolano e glielo complicano. L’utente ideale aiuta l’esperto a sentirsi competente e all’altezza. Si tratta di persone costanti, intelligenti, capaci di esprimersi, che non si pongono in difensiva, psicologicamente aperte, ansiosamente introspettive e disposte a riconoscere i propri sbagli. Il riconoscimento esplicito da parte dell’utente che un colloquio è stato soddisfacente e utile costituisce una ricompensa psicologicamente gradevole per l’esperto, soprattutto tenendo conto del fatto che la prova obiettiva della competenza nel condurre colloqui è difficile ad ottenersi. I principianti hanno bisogno di essere rassicurati per placare i dubbi che nutrono riguardo alla loro prestazione. L’esperto può creare una situazione di adulazione reciproca o tentare di indurre il cliente ad avere simpatia per lui. Un certo concetto del cliente ideale e la tendenza a cercare e a incoraggiare continui contatti con clienti di questo tipo costituisce un aspetto dei tentativi che l’esperto mette in opera per assicurarsi queste soddisfazioni. Ciò che viene discusso nel colloquio può riproporre all’esperto problemi della sua vita personale non risolti, o risolti solo in parte. Se un dato problema gli procura una sensazione di fastidio, egli può essere riluttante a portarlo avanti anche se è l’utente ad iniziare la discussione. L’esperto può anche proiettare sull’utente il proprio fastidio nell’affrontare un certo argomento. Può accadere che le domande restino senza risposta e che alcuni contenuti non vengano esaminati per il timore che il tentativo di introdurre questo tipo di argomenti susciti ostilità nei confronti dell’esperto. Questo può essere riluttante a mettere un utente di fronte alle contraddizioni insite nelle situazioni che ha esposto evitando in questo modo una sua possibile reazione ostile. Ma oltre a ciò si può esitare anche a contrapporsi all’utente quando questi sta inequivocabilmente mentendo, perché ciò potrebbe significare sospettare di lui e mancargli di rispetto. Per molti una simile posizione equivarrebbe ad un controllo, che svilirebbe sia l’operatore che l’utente. Gli specialisti che hanno molta esperienza, affrontano poi rischi particolari. La spontaneità può diminuire dopo una serie di colloqui, con utenti diversi, sullo stesso problema generale, e si verifica inoltre un conseguente aumento della noia. L’ottimismo fiducioso del principiante, pieno di entusiasmo, spesso si trasforma in un cauto pessimismo man mano che l’operatore arriva a valutare i limiti della propria influenza e della propria capacità. Tappe di un progetto di intervento A prescindere dal tipo di progetto realizzato (di prevenzione, formazione, sviluppo di comunità, ecc.), dal contesto (comunità o gruppo classe), dalla durata, dai destinatari o da altri elementi, possiamo rappresentare il percorso di un qualsiasi progetto di intervento attraverso cinque tappe. Il termine “progetto” può generare ambiguità perché è frequentemente utilizzato con un doppio significato: progetto come percorso complessivo di realizzazione di un intervento e progetto come prodotto cartaceo e stesura concreta di un disegno di intervento. La prima tappa corrisponde all’ideazione, al momento in cui una o più persone ipotizzano di realizzare un progetto, di attivare un’iniziativa, di fare o proporre qualcosa. La seconda tappa corrisponde a quella dell’attivazione. Una volta avviata una propria ipotesi di progetto bisogna cercare di verificare quali sono le risorse (umane, finanziarie e strumentali … ) disponibili, identificare meglio il proprio ruolo e quello degli altri soggetti coinvolti in queste prime fasi, identificare il problema e le strategie d’intervento, ottenere il consenso più o meno allargato e analizzare la domanda della committenza. Segue la terza tappa dell’elaborazione di un progetto cartaceo, dell’identificazione e programmazione delle diverse fasi dell’intervento. Si cerca di prevedere quali saranno le esigenze di personale, i tempi, le necessità tecniche e materiali per garantire l’operatività. La quarta tappa corrisponde alla realizzazione dell’intervento. Attraverso l’avvio delle prime attività si verificano le proprie ipotesi, si attuano gli interventi ed i cambiamenti necessari per sostenere il progetto, si sviluppano processi di confronto e verifica in itinere per produrre gli aggiustamenti necessari. L’ultima, la quinta tappa, è quella della verifica conclusiva e della riformulazione, ridefinizione o conclusione del progetto stesso. Esiste una logica sequenzialità tra le diverse tappe che tuttavia, si accavallano e talvolta sovrappongono. La verifica è posta come ultima tappa anche se processi di monitoraggio e valutazione più o meno formalizzati ed espliciti si attivano lungo il percorso ad ogni tappa, così pure il processo di attivazione può proseguire parallelamente alla realizzazione dell’intervento. Esistono più modi di intendere la progettazione e a seconda del modello di riferimento utilizzato, esplicitamente o più spesso implicitamente, troveremo che queste cinque tappe di un intervento vengono intese e si concretizzano in modo diverso. Da come si configurano le prime tappe dell’intervento capiremo quale approccio viene utilizzato e agito. Intendiamo il progetto come prodotto conclusivo o come strumento all’interno di un percorso più ampio? E in questo momento che si delimitano degli spazi di apertura e flessibilità del futuro progetto, che si sceglie quanto predefinire in anticipo, quanto tollerare modificazioni di rotta e incertezze. Approcci della progettazione Possiamo riassumere in tre tipologie gli approcci e gli orientamenti esistenti in merito alla progettazione di interventi nel sociale. Chiameremo questi tre approcci “sinottico – razionale”, “concertativo o partecipato” ed “euristico” e li porremo lungo un continuum dalla massima pre – strutturazione alla massima apertura. In ciascun approccio, le cinque tappe logiche di un intervento sono sempre presenti ma, come vedremo in seguito, assumono pesi e rilevanze diverse. Approccio sinottico – razionale Si tratta di un approccio “meccanicista” che rimanda ad una causalità di tipo lineare, i cui assunti sottostanti sono: è possibile circoscrivere i fattori causali alla base di disturbi e devianze individuali e sociali; è possibile realizzare progetti che modifichino tali fattori e così prevenire effetti indesiderati; è possibile modificare i comportamenti e gli atteggiamenti delle persone in funzione di disegni predeterminati. In altri termini, s’ipotizza che sia possibile individuare nessi di causalità lineare relativamente alle problematiche sociali e, in base a questi, programmare e prevedere il cambiamento sociale. Di solito l’utilizzo di tale modello si accompagna anche ad un’enfasi su aspetti connessi all’utilizzo di programmi molto strutturati “strumenti” predefiniti. L’approccio razionale è stato sviluppato nell’ambito del classico modello della scelta razionale elaborato principalmente dalle scienze economiche. Per tale approccio il problema della progettazione può essere così formulato: in condizioni ambientali date trovare i mezzi migliori per raggiungere obiettivi dati giudicati desiderabili secondo criteri di valutazione stabiliti. Queste formulazioni contengono tutta una serie di presupposti: a) innanzi tutto l’ambiente è predeterminato, ed è descritto da vincoli e parametri che restano fissi nel corso della procedura; b) si dà per scontato che il problema sia chiaro e non ambiguo, che gli obiettivi siano esplicitamente dati fin dall’inizio, e in più siano trasparenti e non soggetti a interpretazioni; essi non possono essere modificati o ridiscussi nel corso della progettazione; c) i mezzi alternativi – le opzioni di scelta – per conseguire i fini e i criteri di valutazione della prestazione sono dati in modo distinto dai fini; d) infine, perché si possa effettivamente trovare una soluzione coincidente con il valore massimo dell’utilità (o col minimo costo), si presuppone che sia data una struttura ordinata di preferenze relative alle conseguenze della scelta, che non viene modificata nel corso del processo di scelta stesso. Una tale impostazione comporta una forte stilizzazione e semplificazione delle situazioni che invece %l progettista si trova ad affrontare: situazioni in cui i problemi non sono chiaramente definiti, l’ambiente è incerto e confuso, gli obiettivi sono espressi in modo vago e approssimativo, o sono variabili, o conflittuali, o non chiaramente distinguibili dai mezzi”, dal come si fanno le cose. Un’altra caratteristica del modello del problem – solving, che rientra nell’approccio razionale, è quello di riferirsi ad un progettista solitario e di dare una rappresentazione individualista del processo di progettazione. All’interno delle cinque tappe di un intervento questo modello considera come cruciale ai fini della riuscita dell’intervento la tappa della progettazione: a questa vengono riconosciute attenzioni e date cospicue risorse; le altre tappe connesse alla realizzazione del progetto si presume debbano seguire di riflesso. In tale approccio, infatti, la centratura è sul prodotto da realizzare, inteso come risultato previsto a priori. E scarsa la presenza della tappa “attivazione”; quando è presente si riferisce alla ricerca di finanziamenti e all’attivazione di reti di relazioni e risorse materiali necessarie all’approvazione del progetto e a creare una sufficiente alleanza con il committente. Non vi sono processi di reale partecipazione dei destinatari o dei diversi soggetti coinvolti nel progetto. Per elaborare il progetto inteso come prodotto cartaceo in cui sono indicati gli obiettivi e disegnati tutti i passaggi del futuro intervento, si attivano comitati di esperti a livello nazionale, si tengono numerose riunioni e s’impegnano ingenti risorse in termini economici e di tempo. La tappa della realizzazione viene posta in secondo piano, dovrebbe essere una conseguenza del progetto: l’implementazione, così sono chiamate quell’insieme di attività che accompagnano e sostengono la realizzazione del progetto, va monitorata, seguita ma non si sospetta che, di fatto, è lì, nell’incontro con i destinatari, nella fase di contatto, che si svilupperanno i “giochi- più significativi ai fini dell’efficacia di un progetto. Le alleanze, le sponsorizzazioni ed i processi di negoziazione e di gestione dei conflitti realizzati a livelli “alti” assorbono tutte le energie. La valutazione si riferisce essenzialmente ad un processo di confronto tra “output previsti ed output ottenuti”, in una logica di ricerca dello “scarto” della “mancanza”. Approccio “concertativo o partecipato Dall’approccio “concertativo” derivano i modelli di progettazione partecipata. Quest’approccio si muove da una critica dell’approccio “sinottico – razionale” in quanto tale modello ha tralasciato proprio la dimensione processuale, il livello dell’interazione sociale ed il livello cognitivo ed emotivo. Si sottolinea la necessità di tener conto del fatto che durante il processo di progettazione interagiscono diverse prospettive da cui si definisce il problema e si struttura l’ambiente in modo non sempre coincidente. Ciò si traduce in una serie di interrogativi del tipo: chi definisce le risorse e i vincoli? Chi individua le strategie? Chi realizza concretamente quanto stabilito? A chi serve e chi deve effettuare la valutazione? In stretta connessione con questi problemi si colloca la questione del potere. Il processo di progettazione appare, infatti, costellato di decisioni che ne orientano il corso successivo e che sono anch’esse frutto di processi di negoziazione condotti tra i diversi attori implicati in funzione della loro posizione nell’organizzazione” Le decisioni sono di diverso genere – strategiche, operative, ecc. e i diversi attori hanno potere di influenza diverso sul tipo di decisione a seconda del proprio ruolo e posizione organizzativa. L’approccio cui facciamo riferimento rappresenta un insieme piuttosto eterogeneo di impostazioni teoriche provenienti da diversi ambiti disciplinari che condividono l’assunto secondo il quale la conoscenza non si basa sulla corrispondenza con la realtà esterna, ma sempre solo sulle “costruzioni” di un osservatore. Sul piano del processo di progettazione le conseguenze sono che: il problema e l’ambiente non sono dati a priori come fatti oggettivi; il processo di interazione tra i diversi attori coinvolti nel processo di progettazione prosegue in tutte le sue tappe; pur condividendo un impianto logico comune, ogni attore continua ad essere portatore di aspettative, presupposti cognitivi, posizioni di potere diverse e ad avere ampi margini di autodeterminazione e negoziazione. In questo secondo approccio si parte da un’ipotesi di cambiamento di una data realtà che è confrontata, negoziata, concertata con i destinatari; troviamo, infatti, che rispetto all’approccio precedente, viene data maggiore rilevanza alla tappa dell’attivazione. Approccio “euristico” Nell’approccio “euristico” (da eurisko= ricerco) si rinuncia a conseguire degli obiettivi predeterminati a monte dagli operatori-progettisti. Esiste un fine, un’individuazione di strategie, uno specifico contesto e poi esiste un processo condiviso di ricerca partecipata attraverso cui si definiranno, con i soggetti, “destinatari”, obiettivi specifici, interventi e ipotesi trasformative più mirate. Mentre l’approccio “concertativo” realizzava una progettazione flessibile in cui si definivano alcuni obiettivi e altri rimanevano “aperti”, questo terzo approccio non individua proprio obiettivi specifici a priori. L’assunto alla base di questo approccio è che la centratura sul “prodotto”, sulla riuscita di un risultato predefinito può indurre a porre in secondo piano l’attenzione ai “processi”, ai modi con cui si realizzano le cose, al come e cioè ai reali risultati di un intervento sociale. Altra motivazione alla base di questo approccio è la constatazione che molti progetti pensati per “aiutare” hanno prodotto effetti indesiderati, dipendenza degli “assistiti” dai servizi, assistenzialismo e squalifiche dei destinatari stessi. È a tutti noto il processo di “etichettamento” che si realizza nel momento in cui un servizio socio-educativo esplicitamente e pubblicamente si rivolge ad un gruppo di ragazzi “deboli”: tale identificazione confermerà e svilupperà identità negative, svilupperà appartenenza a sottogruppi sociali emarginati ed emarginanti e rischierà di precludere l’instaurarsi di relazioni sociali tra pari e con altre figure adulte basate sulla reciprocità. Molti progetti pensati per contesti marginali hanno continuato a riconfermare modelli emarginanti. La spiegazione di tali effetti indesiderati secondo molti non va ricercata nell’inadeguatezza del progetto o nella sua scorretta realizzazione e applicazione ma nello stesso modello di progettazione; in altri termini nel modello di cambiamento sociale implicitamente assunto dai responsabili del progetto. Questa è la ragione per cui, in alcuni progetti di intervento nel sociale, vengono scelte delle metodologie, come la ricerca-intervento partecipante, che privilegiano proprio processi di tipo partecipativo, di sviluppo della conoscenza, piuttosto che la raccolta di dati fruibili solo da pochi esperti. L’approccio euristico pone al centro del processo di intervento nel sociale la tappa dell’attivazione; la progettazione di uno specifico intervento è intesa come prodotto di percorso e non come luogo di partenza. A seguito della tappa denominata attivazione possiamo constatare che possono svilupparsi molteplici sotto-progetti. Possono svilupparsi diversi nuclei progettuali tra loro connessi, caratterizzati da un proprio percorso di progettazione, realizzazione e verifica. Bibliografia essenziale per gli educatori Batini F., Del sarto G., Narrazioni di narrazioni, Erickson, loc. Spini 2005. Bartoli, Bonaiuto, Psicodinamica e sperimentazione, Carocci, Roma 2001. 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CURRICULUM VITAE INFORMAZIONI PERSONALI Nome Indirizzo Telefono mobile E-mail Nazionalità Data di nascita ROMINA DE CICCO Via Tuscolana 1415a +39.3314037257 [email protected] italiana 10/04/1977 ESPERIENZA LAVORATIVA • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità Pagina 1 - Curriculum vitae di De Cicco Romina a.a. 2013/2014 Università Telematica delle Scienze Umane Niccolò Cusano, via Don Gnocchi 8, 00100 Roma. Università. Docente a contratto. Incarico di insegnamento di “Didattica generale” e “Pedagogia generale” per il Master di I livello “Pedagogia e didattica per le innovazioni scolastiche”. Dall’a.a. 2010/2011 ad oggi Università Telematica delle Scienze Umane Niccolò Cusano, via Don Gnocchi 8, 00100 Roma. Università. Docente a contratto. Incarico di insegnamento di “Tirocinio” per il corso di laurea in Scienze della Formazione. Dall’a.a. 2010/2011 ad oggi Università Telematica delle Scienze Umane Niccolò Cusano, via Don Gnocchi 8, 00100 Roma. Università Docente a contratto Incarico di insegnamento di “Didattica speciale per la scuola dell’infanzia”, “Didattica speciale per la scuola primaria”, “Didattica speciale per la scuola secondaria”, per il Master di I livello in “Didattica e psicopedagogia per i disturbi specifici di apprendimento”. Incarico di insegnamento di “Lo sviluppo di nuove strategie educative” per il Master di I livello in “Consulenza pedagogica nei contesti educativi di formazione permanente”. Dall’a.s. 2010/2011 ad oggi Comune di Roma, Dipartimento dei servizi educativi e scolastici, via Capitan Bavastro 94, 00100 Roma Istituzione pubblica Docente a contratto Docente iscritto all’albo dei Formatori esterni del Comune di Roma. Attività didattica per l’aggiornamento degli insegnanti delle scuole dell’infanzia e degli asili nido del Comune di Roma. a.a. 2009/2010 Comitato Italiano Paralimpico, via Flaminia Nuova 830, 00191 Roma Ente pubblico Docente e Tutor didattico a distanza Incarico di insegnamento di “Orientamento e progettazione: rielaborazione prospettica dell’esperienza professionale” e “Strumenti etici e professionali: le radici umane del sé”, e Tutor didattico per il Master di I livello “Educatore consulente nell’orientamento e nell’avviamento dei disabili allo sport”, sulla base della convenzione fra il Corso di Laurea in EPC della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre ed il Comitato Italiano Paralimpico. • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità a.a. 2009/2010 Università telematica delle Scienze Umane “Niccolò Cusano”, via Casal Monferrato 2b, 00100 Roma Università Docente a contratto Incarico di insegnamento di “Progettazione e produzione di informatica per la didattica”, “Teorie e metodi di programmazione e valutazione scolastica”, “LIM e valutazione scolastica”, “Tecniche della formazione a distanza” per il Master di I livello “L’impiego educativo della telematica nella didattica”. Incarico di insegnamento di “Sociologia dei processi culturali e comunicativi”, “Storia delle professioni socio-educative e sanitarie: la cura e la terapia”, “Fondamenti professionali e istituzioni giuridiche”, “Storia della medicina”, “Medicina legale” per il Master di I livello “Funzioni specialistiche e gestione del coordinamento nelle professioni socio-sanitarie”. Incarico di insegnamento di “Pedagogia sperimentale”, “Psicopedagogia”, “Teoria e metodi di programmazione e valutazione scolastica”, Master “Dirigenti nelle istituzioni scolastiche”. Incarico di insegnamento di “Pedagogia delle mediazioni socioeducative” per il Master di I livello “L’applicazione di nuovi linguaggi di comunicazione nella didattica”. Incarico di insegnamento di “Didattica delle minorazioni”, “Pedagogia delle minorazioni, seminari” per il Master di I livello “Metodi e tecniche specialistiche per l’educatore formatore del sostegno per l’handicap e lo svantaggio”. a.a. 2009/2010 Università telematica delle Scienze Umane “Niccolò Cusano”, via Casal Monferrato 2b, 00100 Roma Università Docente a contratto Incarico di insegnamento di “Didattica e pedagogia speciale” per il Corso biennale di perfezionamento “Interventi educativi e didattici nei gruppi di apprendimento: gestione delle difficoltà di relazione, di integrazione culturale e di apprendimento”. Incarico di insegnamento di “Didattica delle minorazioni”, Corso di Perfezionamento “Metodi e tecniche specialistiche per l’educatore formatore del sostegno per handicap e svantaggio”. Incarico di insegnamento di “Pedagogia delle mediazioni socioeducative” per il Corso di Perfezionamento “I linguaggi della comunicazione educativa”. • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità Dall’a.a. 2009/2010 Facoltà, oggi Dipartimento, di Scienze della Formazione, Università Roma Tre, Via del Castro Pretorio 20, 00185 Roma Università Cultorato Cultore della materia per “Pedagogia delle neuroscienze”, di “Didattica e trattamento pedagogico delle disabilità”, “Formazione e trattamento pedagogico nelle diversità”, “Metodi e strategie socioeducative per le diversità”, “Formazione e progettualità nei sistemi educativi per l’integrazione”, “Lingua inglese”. • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità a.a. 2009/2010 Istituto “Paolo Baffi” , Fiumicino, via L. Bezzi 51, 00054 Fiumicino (Roma) Scuola Superiore Docente a contratto Incarico di insegnamento all’interno del Corso di aggiornamento “Narrando-mi, imparo”, per docenti delle Scuole Superiori. • Nome e indirizzo della struttura • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità Pagina 2 - Curriculum vitae di De Cicco Romina a.a. 2008/2009 Università telematica delle Scienze Umane “Niccolò Cusano”, via Casal Monferrato 2b, 00100 Roma Università Docente a contratto Incarico di insegnamento di “Sociologia dei processi culturali e comunicativi”, “Storia delle professioni socio-educative e sanitarie: la cura e la terapia”, “Fondamenti professionali e istituzioni giuridiche”, “Storia della medicina”, “Medicina legale” per il Master di I livello in “Funzioni specialistiche e gestione del coordinamento nelle professioni socio-sanitarie”. • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo del datore di lavoro Tipo di azienda o settore Tipo di impiego Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo della struttura • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo della struttura • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità • Nome e indirizzo del datore di lavoro • Tipo di azienda o settore • Tipo di impiego • Principali mansioni e responsabilità Pagina 3 - Curriculum vitae di De Cicco Romina a.s. 2008/2009 Istituto “Paolo Baffi” , Fiumicino, via L. Bezzi 51, 00054 Fiumicino (Roma) Scuola Superiore Docente a contratto Incarico di insegnamento all’interno del Corso di aggiornamento “Il cooperative learning. Evoluzione degli stili di apprendimento, ruolo dell’insegnante e nuove tecnologie”, per docenti delle Scuole Superiori. Dall’a.a. 2005/2006 all’a.a. 2008/2009 Comitato Italiano Paralimpico, via Flaminia Nuova 830, 00191 Roma Ente pubblico Docente e Tutor didattico a distanza Incarico di insegnamento di “Strumenti etici e professionali: la presa in carico e lo stigma” e Tutor didattico per il Master “Educatore consulente nell’orientamento e nell’avviamento dei disabili allo sport”, sulla base della convenzione fra il Corso di Laurea in EPC della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre ed il Comitato Italiano Paralimpico. a.a. 2007/2008 Comune di Roma, Dipartimento XVI - Politiche per lo Sviluppo Locale, la Formazione e il Lavoro. Ente pubblico Docente a contratto Incarico di docenza per il Progetto “Roma, città delle bambine e dei bambini 2008”, sulla base della convenzione stipulata fra Università Roma Tre, Corso di Laurea in EPC e Comune di Roma, Dipartimento XVI - Politiche per lo Sviluppo Locale, la Formazione e il Lavoro. a.a. 2007/2008 Università Roma Tre, Via del Castro Pretorio 20, 00185 Roma Università Attività seminariale Seminari “La narrazione autobiografica: ricomporre le trame del sé”; “Introduzione allo sguardo fenomenologico”; “La progettazione dei servizi socioeducativi”; “Strumenti e metodi dell’educatore professionale”, per le cattedre di “Didattica speciale “ e “Pedagogia delle neuroscienze”, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Roma Tre. Dall’a.a. 2005/2006 all’a.a. 2008/2009 Università Roma Tre, Via del Castro Pretorio 20, 00185 Roma Università Cultorato Cultore della materia per le cattedre di “Didattica speciale”, “Pedagogia delle neuroscienze”, “Metodi e tecniche delle professioni socioeducative”, “Strategie didattiche e tecnologie per l’integrazione dei disabili”, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Roma Tre. Dall’a.a. 2006/2007 all’a.a. 2008/2009 Università telematica delle Scienze Umane “Niccolò Cusano”, via Casal Monferrato 2b, 00100 Roma Università Docente a contratto Incarico di insegnamento di “Pedagogia speciale” e “Didattica speciale” per il Corso di Laurea in Scienze della Formazione. ISTRUZIONE E FORMAZIONE Idoneità al Dottorato, 2013 Master I livello, 2013 Idonea al Dottorato di ricerca Internazionale in Psicopedagogia presso l’Università di Burgos. Master di I Livello in “Scienze sociali e dell’innovazione: l’Analista sociale nel rapporto della Pubblica Amministrazione con Enti ed Aziende, tra Privatizzazioni e cessione della Sovranità Nazionale”, conseguito presso l’Unicusano con la votazione di 110/110. • dicembre 2007 Laurea specialistica in Educatore Coordinatore dei servizi, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Roma Tre (110 cum laude). Educatore Coordinatore dei servizi Socioeducativi. • Qualifica conseguita • dicembre 2005 • Qualifica conseguita • 1999/2000 • Nome e tipo di istituto di istruzione o formazione Laurea in Educatore Professionale di Comunità, Facoltà di Scienze della Formazione, Università Roma Tre (110/110). Educatore Professionale di Comunità Corso di “Psicologia sulle dinamiche dei gruppi” Cooperativa Sociale “Arcobaleno” CAPACITÀ E COMPETENZE PERSONALI Acquisite nel corso della vita e della carriera ma non necessariamente riconosciute da certificati e diplomi ufficiali. MADRELINGUA ITALIANO ALTRE LINGUE SPAGNOLO • Capacità di lettura • Capacità di scrittura • Capacità di espressione orale • Capacità d comprensione all’ascolto CAPACITÀ E COMPETENZE BUONO BUONO BUONO BUONO Elevate RELAZIONALI Vivere e lavorare con altre persone, in ambiente multiculturale, occupando posti in cui la comunicazione è importante e in situazioni in cui è essenziale lavorare in squadra (ad es. cultura e sport), ecc. CAPACITÀ E COMPETENZE Elevate ORGANIZZATIVE Ad es. coordinamento e amministrazione di persone, progetti, bilanci; sul posto di lavoro, in attività di volontariato (ad es. cultura e sport), a casa, ecc. CAPACITÀ E COMPETENZE TECNICHE Uso competente pacchetto Office di Microsoft. Uso competente della LIM. Con computer, attrezzature specifiche, macchinari, ecc. CAPACITÀ E COMPETENZE ARTISTICHE Musica, scrittura, disegno ecc. Pagina 4 - Curriculum vitae di De Cicco Romina Solfeggio parlato e cantato, Pianoforte PUBBLICAZIONI ULTERIORI ESPERIENZE PROFESSIONALI Pagina 5 - Curriculum vitae di De Cicco Romina De Cicco Romina, L’esperienza di sé, la cura di sé, le biografie del sé, Aemme, Roma 2013. ISBN 978-88-903641-5-0 De Cicco Romina, Le radici umane della follia. Soglie della mediabilità: stigma, pregiudizio, conflitto, Aemme, Roma 2008. ISBN 978-88-903641-4-3 De Cicco Romina, Il cinema negli occhi dei ragazzi, Aemme, Roma 2009. ISBN 978-8896252-07-9 De Cicco Romina, Il rapporto tra minori italiani e stranieri per il riconoscimento della cittadinanza come valore universale, in Giganti P., Iorio F., Minori e flussi migratori. Universalità, trasversalità, transculturalità dei diritti, Kappa, Roma 2008, pagg. 25-35. ISBN 978-887890-867-3 De Cicco Romina, The citizenship as a universal value in Vincenzo A. Piccione, Minors and new universal rights, Aemme, Roma 2008, pagg. 21-30. ISBN 978-88-903641-0-5 De Cicco Romina, La presa in carico nei servizi alla persona, in Vincenzo A. Piccione, Progettualità e senso dell’autoimprenditorialità, Kappa, Roma 2007, pagg. 93-122. ISBN 97888-7890-864-2 De Cicco Romina, Le associazioni, la progettualità, l’azione programmatica, in Vincenzo A. Piccione, Progettualità e senso dell’autoimprenditorialità, Kappa, Roma 2007, pagg. 165166. ISBN 978-88-7890-864-2 De Cicco Romina, Ria Demetrio, Sivilia Massimo, Sguardo educativo e innovazione, Kappa, Roma 2006, parte prima, “Sguardo fenomenologico e presa in carico”, pagg. 7-49. ISBN 978-88-7890-765-2 2005. Educatore presso la casa famiglia per minori fondata dalle Suore Carmelitane dell’Istituto con sede in via Lucatelli 8, Rocca di Papa (RM). 2004-2005. Educatore presso la comunità terapeutica riabilitativa per pazienti psichiatrici “Gnosis” Marino (RM). 2000-2004. Educatore di sezione presso l’asilo nido di Frascati (RM); esperienze dirette con bambini portatori di handicap. 2000-2001. Co-protagonista del film di Ettore Scola “Concorrenza sleale”.