Rassegna stampa 16 settembre 2016
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Rassegna stampa 16 settembre 2016
RASSEGNA STAMPA di venerdì 16 settembre 2016 SOMMARIO “Il 14 settembre 2016, d’ora in avanti – scrive Massimiliano Castellani su Avvenire di oggi -, dovrebbe essere inserito nel nostro calendario come il “giorno di grazia” dello sport italiano. La beatificazione degli atleti paralimpici azzurri: quelli che hanno vinto l’oro, cinque, quelli che sono saliti sul podio, otto, ma anche di quelli che non ce l’hanno fatta e magari non ce la faranno mai, e che però restano comunque esseri speciali, di cui fidarsi ad occhi chiusi. La loro specialità non sta nella disciplina che praticano e che li ha portati fino alle Paralimpiadi di Rio. L’essere “speciale” sta nel saper affrontare la vita con la consapevolezza che i propri limiti e le residue facoltà fisiche di cui dispone l’atleta paralimpico sono un patrimonio a disposizione della società, tutta. “Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa”, ha raccontato spesso Alex Zanardi dopo l’incidente che gli capitò nella sua “prima vita” di pilota. Ogni atleta è passato per un tragico campo minato in cui ciò che non l’ha ucciso l’ha reso più forte. Per ognuno di loro c’è stato “un primo e un secondo tempo”, così come Bebe Vio vede la sua esistenza “prima e dopo la meningite”. La specialità non sta solo nel saper lenire e combattere il male fisico quotidiano, la paura e l’incapacità di superare gli ostacoli e quelle barriere che la società gli (ci) piazza davanti incivilmente, ma nella capacità di ricostruirsi e di ridare un senso al proprio viaggio. Speciale è colui che sa ancora approdare, con fatica e con coraggio, in un’oasi, uno spazio anche minimo di normalità. E quello che per gli atleti diventa la pedana di una palestra, una pista d’atletica o la piscina dell’ultimo paese di provincia in cui un sindaco illuminato ha capito che è bello investire nello sport olimpico, ma che è straordinario credere e incentivare quello paralimpico. Esistono ancora realtà, specie nelle aree metropolitane, in cui le barriere architettoniche restano montagne invalicabili e non solo per i disabili, ma anche per i bambini e gli anziani. Quando il presidente del Comitato paralimpico italiano, Luca Pancalli, parla di “quel pezzo di welfare che può produrre lo sport paralimpico”, non lancia uno slogan politico e nemmeno una strizzatina d’occhio ai Giochi olimpici e paralimpici di Roma 2024, ma un invito a credere in quella che, a Rio, anche il premier Matteo Renzi ha chiamato la “squadra Paese”. Uno dei fini nobili della politica è proprio far sentire i suoi cittadini tutti di serie A, tutti appartenenti allo stesso collettivo. Lo sport da parte sua ci mette le facce degli atleti, regala storie edificanti ed esemplari come quelle che stiamo raccontando e apprendendo dalle Paralimpiadi di Rio. Dietro ogni singola impresa sportiva c’è un piccolo grande riscatto, un successo ottenuto prima di tutto contro l’indifferenza e la solitudine che sono le due peggiori avversarie – purtroppo ancora forti – dell’inclusione sociale e della piena integrazione delle persone con una diversa abilità. Uomini e donne, ragazzi e ragazze che si sono rimessi in gioco, hanno accettato la sfida e chiedono soltanto di essere seguiti, di ricevere il nostro tifo, il nostro calore umano. E se possibile non solo ogni quattro anni, ma ogni giorno, specie in quelli bui in cui la malattia e il male di vivere si ripresentano e chiedono indietro le medaglie vinte e i momenti di gloria vissuti. “Alla fine lo sport, tutto lo sport, è questo. Guardare qualcuno che ottiene un grande risultato significa entrare nel percorso che l’ha portato ogni giorno a mettersi in gioco e fare il meglio che poteva”, ha detto ancora Alex Zanardi, che dal giorno in cui è salito sulla sua bici e ha cominciato la nuova avventura nell’handbike si è fatto portatore sano del “desiderio”. La spinta per andare al passo con gli altri, e non necessariamente andare più forte. Nel guardare il sorriso e gli occhi scintillanti di ognuno dei nostri medagliati non c’è solo l’ammirazione verso il campione, ma la condivisione per un percorso di cui ci dobbiamo sentire sempre più partecipi. Nel vedere il loro “desiderio” realizzato ci scappa anche una lacrima di gioia, specie quando la piccola grande Bebe Vio ci manda a dire che “lo sport è terapia. Rimani quello che sei e segui la strada buona”. Molto interessante e da leggere poi anche l’analisi di Chiara Giaccardi, sullo stesso giornale, sul tema “I social, palazzo di vetro dove non c’è compassione. La tecnologia non libera se non ne capiamo il senso” (a.p.) 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI I frati se ne andranno. Chiesa di via Aleardi affidata alla diocesi di Alvise Sperandio Calo delle vocazioni, l’addio dal settembre 2017. Padre Gelindo Miolo: “Vivremo questi 12 mesi che ci mancano preparando la comunità al cambiamento” CORRIERE DEL VENETO Pag 13 I frati lasciano il Sacro Cuore. Pochi preti, le chiese si uniscono di Alice D’Este Padre Miolo: ci riorganizziamo. Dal prossimo anno ci sarà il nuovo parroco LA NUOVA Pag 27 Sacro Cuore, dopo 64 anni i frati lasciano la parrocchia di Marta Artico Crisi di vocazioni per i francescani, da settembre 2017 la cura pastorale finirà nelle mani del Patriarca. Padre Voltan: “ Decisione sofferta, grazie alla città” 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Codici in armonia Motuproprio su alcune norme del diritto canonico latino e orientale Pag 5 All’insegna delle esigenze pastorali di Juan Ignacio Arrieta Pagg 4 – 5 Sulle irregolarità nel ricevere l’ordine sacro Pag 8 Sotto il mantello Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 3 La presenza che si apre all’incontro di Anna Maria Canopi Il Congresso eucaristico nel Giubileo della Misericordia Pagg 8 – 9 Quel popolo che si ritrova nell’adorazione perpetua di Francesco Ognibene e Francesco Dal Mas Cresce la rete delle cappelle aperte giorno e notte. Venezia: “Si impara ad aprirsi agli altri” Pag 25 “La riforma della Chiesa? Non teorie, ma vita reale” di Antonio Spadaro Spadaro: il Papa non si impone sulla storia ma sa dialogare con tempi, luoghi e persone Pag 25 Ora è più agevole per i preti latini sposare i fedeli ortodossi di Gianni Cardinale LA STAMPA Enzo Bianchi: la libertà nasce dalla lotta interiore di Enzo Bianchi 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO Pag 21 “Ti do la mia parola”, festa inter-etnica al Centro Kolbe: gastronomia, reading e spettacoli teatrali di scrittori migranti IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Marcianum, si volta pagina di Paolo Navarro Dina Scelto il presidente che guiderà l’ente: sarà Roberto Crosta. “Va rilanciata l’attività di ricerca e di studio d’ispirazione cristiana. Discontinuità col passato” Pag X Iusve, pioggia di richieste. Ammesso uno su sei di Melody Fusaro L’Istituto salesiano alla Gazzera ha superato i 2.500 iscritti LA NUOVA Pag 18 Marcianum, nuovo corso. Roberto Crosta presidente di m.a. Il patriarca Francesco Moraglia ha nominato il Consiglio d’amministrazione. Al vertice l’attuale segretario della Camera di Commercio, sacerdoti e docenti 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 La libertà è generativa di Francesco D’Agostino Il “Fertility Day” e l’urgenza italiana Pag 3 I “social”, palazzo di vetro dove non c’è compassione di Chiara Giaccardi La tecnologia non libera se non ne capiamo il senso LA NUOVA Pag 4 I diritti sono solo su carta di Roberta Carlini 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI “Parcheggi e bus troppo cari”, don Lionello contro Save e Actv di Mauro De Lazzari 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Se Sgarbi fa “risorgere” Cristo di Martina Zambon Padova, per la sua “Babele” il critico ritocca la foto del Papa con l’imam: “Al centro la Resurrezione”. Ma l’Osservatore Romano: “Provocazione per l’Islam” LA NUOVA Pag 1 Il Nordest snobbato da “Italia 4.0” di Stefano Micelli e Gianluca Toschi … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’autarchia non è una virtù di Angelo Panebianco Noi e gli altri Pag 1 La scomparsa di Emanuela Orlandi: un mistero con troppe falsità di Gian Antonio Stella Pag 26 Quel diritto all’oblio e gli sciacalli digitali di Caterina Malavenda LA REPUBBLICA Pag 1 L’altra destra di Parisi di Stefano Folli Pag 29 “La Chiesa non deve pagare la vecchia Ici” di Alberto D’Argenio Il Tribunale europeo conferma la scelta dell’Italia, che decise di rinunciare a incassare 5 miliardi dal Vaticano AVVENIRE Pag 2 La forza di quei giovani passati sui campi minati della vita di Massimiliano Castellani Gli sportivi, le medaglie e la lezione delle Paralimpiadi Pag 4 Non è solo un incidente Pag 13 Salviamo Aleppo, Sarajevo del Duemila di Andrea Riccardi Città simbolo della convivenza tra religioni, cerniera storica tra Asia e Occidente, scrigno d’arte tutelato dall’Unesco: ma l’abbiamo lasciata distruggere IL GAZZETTINO Pag 1 Rete e privacy, quei divieti necessari di Sebastiano Maffettone LA NUOVA Pag 1 A Pontida la sfida ai lepenisti di Francesco Jori Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI I frati se ne andranno. Chiesa di via Aleardi affidata alla diocesi di Alvise Sperandio Calo delle vocazioni, l’addio dal settembre 2017. Padre Gelindo Miolo: “Vivremo questi 12 mesi che ci mancano preparando la comunità al cambiamento” I frati minori conventuali lasciano il Sacro Cuore. Non subito, ma dal primo settembre dell'anno prossimo, quando «restituiranno» la parrocchia alla diocesi che dovrà provvedere alla nomina almeno di un parroco. La decisione è stata comunicata mercoledì sera al Consiglio pastorale dal superiore provinciale, padre Giovanni Voltan, e dal vicario del patriarca monsignor Dino Pistolato. «La sofferta decisione nasce all'interno di un progetto di ridisegno delle presenze francescane conventuali nel Nord Italia, legato alla preoccupante diminuzione di vocazioni», si legge in una nota congiunta diffusa dalla diocesi. L'ultimo anno è il tempo ritenuto necessario per il passaggio di consegne della cura pastorale di una comunità numerosa, con più di 7mila residenti, e molte attività in essere. «Il nostro pensiero va alla chiesa di Venezia per la stima che ci ha sempre manifestato. Cederemo alla diocesi anche la proprietà della chiesa, del convento e di tutti gli altri spazi attigui», dice padre Voltan. Con l'uscita della fraternità conventuale, di fatto se ne va un altro pezzo di storia cittadina, visto che la Provincia italiana di Sant'Antonio di Padova arrivò in via Aleardi nel 1952 quando fu istituita la parrocchia dedicata al Sacro Cuore di Gesù Re della Gloria. All'epoca nel quartiere risiedevano appena 3mila persone e la prima chiesa provvisoria venne ricavata nel salone dove oggi c'è la sede del centro Kolbe. Poi nel 1955 arrivò la scuola materna, inaugurata dal patriarca Angelo Giuseppe Roncalli futuro papa Giovanni XXIII, e cinque anni più tardi anche il patronato per i ragazzi. Con lo sviluppo urbanistico e il boom demografico degli anni successivi, presto si rese necessaria la costruzione della chiesa vera e propria che fu edificata nel 1970 a fianco del liceo classico Franchetti su progetto dell'architetto Adriano Galderisi e non senza polemiche, sia per le dimensioni che per i molti soldi spesi. Benedetta il giorno di Ferragosto del 1971 da un altro futuro pontefice, il patriarca Albino Luciani, è stata consacrata dal cardinale Angelo Scola nel 2003. È la più grande della città, con una capienza di oltre mille persone, e si caratterizza per la sua forma a tenda, scelta come simbolo dell'accoglienza, le cui imponenti vele in cemento armato sono ben visibili con una vista panoramica. Il complesso raccoglie anche il convento dove oggi vivono padre Gelindo, padre Gabriele, padre Luciano e padre Sergio. Il primo settembre 2017 lasceranno una parrocchia viva, con il centro Kolbe, l'associazione Sant'Antonio, l'Azione cattolica, il cammino Neocatecumenale e tantissimi volontari impegnati nei diversi servizi. Quest'anno, la festa patronale in programma dal 25 settembre al 4 ottobre, l'ultima con i frati, avrà tutto un altro sapore. Mestre - «La notizia non è un fulmine a ciel sereno. Se ne parlava già da qualche anno, adesso il superiore ha preso la decisione e noi obbediamo. Vivremo questo 12 mesi che abbiamo davanti con l'impegno di sempre e prepareremo la comunità all'avvicendamento». Padre Gelindo Miolo è parroco del Sacro Cuore da 7 anni e ieri ha incontrato i sacerdoti del vicariato del centro per metterli al corrente della novità. «Scontiamo un calo significativo delle vocazioni e un'età media dei frati sempre più elevata - dice nel suo studio all'interno del convento - Ci dispiace andare via per il profondo legame che abbiamo con la gente, ma siamo anche consapevoli che c'è la necessità di una riorganizzazione della nostra presenza, anche se ancora non sappiamo dove saremo assegnati». La comunicazione ufficiale al Consiglio pastorale ha trasformato in una certezza quella che finora era rimasta solo un'indiscrezione, seppure ricorrente. «I fedeli sono dispiaciuti ed è normale. Ai laici che ci hanno sempre sostenuto e ringraziamo, ora chiediamo di responsabilizzarsi ancora di più», conclude padre Miolo. CORRIERE DEL VENETO Pag 13 I frati lasciano il Sacro Cuore. Pochi preti, le chiese si uniscono di Alice D’Este Padre Miolo: ci riorganizziamo. Dal prossimo anno ci sarà il nuovo parroco Mestre. Se ne vanno dopo 65 anni in cui sono stati il cuore di Mestre. I frati minori conventuali lasciano la parrocchia del Sacro Cuore, al loro posto, a settembre del prossimo anno arriverà un nuovo parroco. Colpa delle crisi delle vocazioni. «C’è un progetto di revisione della nostra presenza sul territorio - spiega il parroco padre Gelindo Miolo - in questo momento siamo in quattro. Uno di noi è qui da 20 anni, io ci sono da sette, altri due sono arrivati quattro anni fa. C’è molto dispiacere nell’andare via». Sono pochi, i frati, sempre meno. Ma lo stesso sta accadendo anche nella Diocesi di Venezia per i sacerdoti che sono passati da 241 del 1990 a 173 del 2016, con una diminuzione che sfiora il 30 per cento in venticinque anni. Ne sono stati persi circa una decina ogni cinque anni, con un picco negativo proprio di recente (i sacerdoti infatti erano 234 nel 2000, 218 nel 2005, 199 nel 2010). Per sopperire alla mancanza, ma anche per rendere più attivi nelle parrocchie tutti i fedeli nell’ottica delle organizzazioni partecipate sono nate 40 collaborazioni pastorali in diverse parrocchie della Diocesi. «Hanno l’obiettivo ha spiegato qualche mese fa don Danilo Barlese vicario per la pastorale - di traghettare, orientare il cammino in un contesto in cui le realtà più forti sono chiamate a sostenere le più deboli e tutti siamo chiamati a lavorare insieme. Il progetto che ora muove i primi passi si concluderà con la creazione dei «cenacoli». Delle piccole comunità di 15-20 persone al massimo, composte da laici, sacerdoti e religiosi che condividerà l’incontro con Dio, le preghiere e la vita di ogni giorno. L’impegno in particolare è quello di coinvolgere tutti i battezzati nelle pastorali comuni maggiormente in difficoltà. Ce ne sarà uno per ciascuna «collaborazione pastorale» e la disponibilità verrà comunicata al proprio parroco. Una logica valida anche per tutte le realtà «forti» che, per ora, saranno meno toccate da questo processo. Parrocchie grandi e numerose, che mantengono però la loro autonomia. Così come la manterrà quella del Sacro cuore. «Avrà bisogno di un suo parroco - spiega il vicario episcopale don Dino Pistolato -. Le collaborazioni ci saranno ovviamente ma in questo caso servirà una persona di riferimento precisa, se non due. La parrocchia è molto attiva fa moltissime attività, una persona totalmente dedicata è indispensabile». Istituita a Mestre il 18 dicembre 1952 dall’allora patriarca cardinal Agostini venne affidata fin dall’inizio ai Frati Minori Conventuali della Provincia Padovana di Sant’Antonio. All’epoca la zona contava 3.500 abitanti, i frati costruirono un salone come chiesa provvisoria, mentre fu data priorità alla costruzione dell’asilo, inaugurato nel 1955 dal patriarca di Venezia Angelo Roncalli. Negli anni Settanta la parrocchia contava 12000 persone e si fece sentire l’esigenza di una nuova chiesa, edificata tra il 1967 e il 1970 su progetto dell’architetto padovano Adriano Galderisi. «Il ricordo più bello di questi sette anni è stata la risposta della comunità - confessa padre Miolo -. Le persone ci hanno sostenuti moltissimo, in ogni nostro passo». LA NUOVA Pag 27 Sacro Cuore, dopo 64 anni i frati lasciano la parrocchia di Marta Artico Crisi di vocazioni per i francescani, da settembre 2017 la cura pastorale finirà nelle mani del Patriarca. Padre Voltan: “ Decisione sofferta, grazie alla città” Una decisione sofferta quella dei Frati Minori Conventuali della parrocchia del Sacro Cuore, che lasceranno la nostra città dopo ben 64 anni sulla scorta di una riorganizzazione delle presenze nel Nord Italia dettata dalla penuria di vocazioni. Una notizia che in tanti non vorrebbero sentire: i frati rappresentano da sempre una guida spirituale per i fedeli, i parrocchiani e le moltissime persone legate all'area che gravita attorno a via Aleardi. I Frati Minori Conventuali della Provincia Italiana di Sant'Antonio di Padova il primo settembre 2017 consegneranno al patriarca, Francesco Moraglia, la cura pastorale della parrocchia del Sacro Cuore di via Aleardi. La decisione nasce all'interno di un progetto di ridisegno delle presenze francescane conventuali legato alla preoccupante diminuzione di vocazioni. «Sono scelte sofferte», sottolinea il Superiore provinciale, padre Giovanni Voltan, «dobbiamo accettare di essere, come ci esorta san Francesco, “pellegrini e forestieri”, che non hanno scelto un luogo, a cui umanamente ci si affeziona, ma il Signore e il suo Regno. In questo momento il pensiero di tutta la fraternità conventuale va alla Chiesa di Venezia per la stima che ha sempre manifestato nei confronti dei frati, affiancati da tanti laici, in primis il Consiglio Pastorale Parrocchiale e degli affari economici, i catechisti, l'Ordine Francescano Secolare che condivide il carisma di san Francesco, l'Azione Cattolica, il Cammino Neocatecumenale, gli animatori del patronato-oratorio. Senza dimenticare la Caritas parrocchiale, l'Associazione Sant'Antonio, il Centro Culturale Kolbe e altri gruppi e volontari che, con generosa dedizione, collaborano nei vari servizi». Il Superiore provinciale non dimentica nessuno: «Un pensiero va anche ai tanti fedeli che frequentano la parrocchia per partecipare alle liturgie, trovare un momento di sosta, una parola buona e celebrare il sacramento della riconciliazione». Infine, la Provincia religiosa dei Frati Minori Conventuali ringrazia l'attuale Comunità di frati - e quelle che l'hanno preceduta - per la testimonianza di vita francescana e la dedizione pastorale offerta in questi 64 anni di servizio. La parrocchia del “Sacro Cuore di Gesù Re della Gloria”, questa la dedicazione completa, fu istituita a Mestre il 18 dicembre 1952 dall'allora patriarca cardinal Agostini e venne affidata fin dall'inizio ai Frati Minori Conventuali della Provincia Padovana di Sant' Antonio. I frati provvidero subito alla costruzione di un salone come chiesa provvisoria, mentre essendo la prima preoccupazione dei religiosi quella dell'assistenza ai bambini e ai giovani - fu data priorità alla costruzione dell'asilo, inaugurato nel 1955 dal patriarca di Venezia cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, e del patronatooratorio, inaugurato nel 1959-60. Negli anni Settanta si fece sentire l'esigenza di una nuova chiesa, edificata tra il 1967 e il 1970 su progetto dell'architetto padovano Adriano Galderisi che ha unificato in un unico blocco la chiesa, il convento e le opere parrocchiali. Benedetta il 15 agosto 1971 dal patriarca di Venezia cardinale Albino Luciani, poi papa Giovanni Paolo I, fu consacrata dal patriarca cardinale Angelo Scola nel 2003. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 4 Codici in armonia Motuproprio su alcune norme del diritto canonico latino e orientale Pubblichiamo di seguito il testo in latino e in italiano della lettera apostolica in forma di motuproprio «De concordia inter Codices» con la quale Papa Francesco ha disposto alcune modifiche alle norme del Codice di Diritto Canonico per armonizzarle con quelle del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Litterae Apostolicae Motu Proprio datae Quibus nonnullae normae Codicis Iuris Canonici immutantur De concordia inter Codices valde solliciti, quasdam discrepantias animadvertimus inter Codicis Iuris Canonici et Codicis Canonum Ecclesiarum Orientalium normas reperiri. Duo enim Codices partim communes normas continent, partim vero peculiares ac proprias, id quod utrumque autonomum reddit. Oportet tamen ut etiam peculiares normae apte inter se componantur. Namque discrepantiae, si et quatenus adsint, in pastorali praxi incommoda secum ferunt, praesertim cum relationes inter membra tum ad Ecclesiam latinam tum ad aliquam Ecclesiam orientalem pertinentia moderandae sunt. Id accidit praesertim nostris temporibus, cum nempe ex populorum migratione sequatur ut plures christifideles orientales in regionibus latinis degant. Quaestiones pastorales et iuridicae haud paucae inde sunt exortae, quae ut solvantur accommodatas normas postulant. Speciatim est memorandum christifideles orientales ad suum cuiusque ritum servandum teneri, ubicumque terrarum inveniantur (cfr. CCEO can. 40 § 3; Conc. Oecum. Vat. II, Decr. Orientalium Ecclesiarum, 6), ac proinde auctoritatis ecclesiasticae competentis est maximopere curare ut congrua media apparentur quibus ipsi hanc suam obligationem implere queant (cfr. CCEO can. 193, § 1; CIC can. 383 §§ 1-2; Adhort. ap. postsyn. Pastores gregis, 72). Normarum concordia haud dubie medium est quod valde iuvabit ut venerabilium rituum orientalium incremento faveatur (cfr. CCEO can. 39), ita ut Ecclesiae sui iuris curam pastoralem efficacius exercere valeant. Prae oculis tamen habenda est necessitas agnoscendi peculiares notas disciplinares illius regionis in qua relationes interecclesiales eveniunt. In Occidente enim, qui est maiore ex parte latinus, oportet consentaneam aequilibritatem servari inter tutelam iuris proprii minoris partis orientalis et obsequium exhibendum erga historicam traditionem canonicam maioris partis latinae, ita ut indebiti concursus et conflictus vitentur omniumque catholicarum communitatum in illa regione commorantium fructuosa cooperatio foveatur. Accedit et alia ratio ut normae CIC expressis quibusdam compleantur dispositionibus, iis quidem similibus quae in CCEO continentur, postulatio nempe ut accuratius determinentur relationes cum christifidelibus ad Ecclesias orientales non catholicas pertinentibus, quorum in praesentia auctus est numerus in territoriis latinis. Prae oculis quoque habendum est canonistarum commentaria animadvertisse discrepantias quasdam inveniri inter utrumque Codicem ac fere unanimiter ostendisse quae sint praecipuae quaestiones et quomodo eae concordes sint reddendae. Finis igitur normarum quae his Litteris Apostolicis Motu Proprio datis introducuntur in eo consistit ut perveniatur ad concordem disciplinam, quae certam signet viam sequendam singulis in casibus in exercitio curae pastoralis. Pontificium Consilium de Legum Textibus per Commissionem peritorum in Iure canonico orientali et latino quaestiones repperit quae prae ceteris egere videntur accommodata renovatione legislativa sicque textum elaboravit transmissum ad triginta circiter totius orbis Consultores et Iuris canonici cultores necnon ad Auctoritates Ordinariatuum latinorum pro orientalibus. Expensis receptis animadversionibus, novus textus approbatus est a Sessione Plenaria Pontificii Consilii de Legum Textibus. His omnibus perpensis, quae sequuntur decernimus: Art. 1. Canon 111 CIC integre sequenti textu substituitur, in quo adiungitur nova paragraphus et nonnullae expressiones mutantur: §1 Ecclesiae latinae per receptum baptismum adscribitur filius parentum, qui ad eam pertinent vel, si alteruter ad eam non pertineat, ambo concordi voluntate optaverint ut proles in Ecclesia latina baptizaretur; quodsi concors voluntas desit, Ecclesiae sui iuris ad quam pater pertinet adscribitur. §2 Si vero unus tantum ex parentibus sit catholicus, Ecclesiae ad quam hic parens catholicus pertinet adscribitur. §3 Quilibet baptizandus qui quartum decimum aetatis annum expleverit, libere potest eligere ut in Ecclesia latina vel in alia Ecclesia sui iuris baptizetur; quo in casu, ipse ad eam Ecclesiam pertinet quam elegerit. Art. 2. Canon 112 CIC integre sequenti textu substituitur, in quo adiungitur nova paragraphus et nonnullae expressiones mutantur: §1. Post receptum baptismum, alii Ecclesiae sui iuris ascribuntur: 1° qui licentiam ab Apostolica Sede obtinuerit; 2° coniux qui, in matrimonio ineundo vel eo durante, ad Ecclesiam sui iuris alterius coniugis se transire declaraverit; matrimonio autem soluto, libere potest ad latinam Ecclesiam redire; 3° filii eorum, de quibus in nn. 1 et 2, ante decimum quartum aetatis annum completum itemque, in matrimonio mixto, filii partis catholicae quae ad aliam Ecclesiam sui iuris legitime transierit; adepta vero hac aetate, iidem possunt ad latinam Ecclesiam redire. §2. Mos, quamvis diuturnus, sacramenta secundum ritum alius Ecclesiae sui iuris recipiendi, non secumfert adscriptionem eidem Ecclesiae. §3. Omnis transitus ad aliam Ecclesiam sui iuris vim habet a momento declarationis factae coram eiusdem Ecclesiae Ordinario loci vel parocho proprio aut sacerdote ab alterutro delegato et duobus testibus, nisi rescriptum Sedis Apostolicae aliud ferat; et in libro baptizatorum adnotetur. Art. 3. Paragraphus secunda can. 535 CIC integre sequenti textu substituitur: §2. In libro baptizatorum adnotentur quoque adscriptio Ecclesiae sui iuris vel ad aliam transitus, necnon confirmatio, item quae pertinent ad statum canonicum christifidelium, ratione matrimonii, salvo quidem praescripto can. 1133, ratione adoptionis, ratione suscepti ordinis sacri, necnon professionis perpetuae in instituto religioso emissae; eaeque adnotationes in documento accepti baptismi semper referantur. Art. 4. Numerus secundus primae paragraphi can. 868 CIC integre sequenti textu substituitur: §1. 2° spes habeatur fundata eum in religione catholica educatum iri, firma §3; quae si prorsus deficiat, baptismus secundum praescripta iuris particularis differatur, monitis de ratione parentibus. Art. 5. Canon 868 CIC posthac tertiam paragraphum habebit ut sequitur: §3. Infans christianorum non catholicorum licite baptizatur, si parentes aut unus saltem eorum aut is, qui legitime eorundem locum tenet, id petunt et si eis corporaliter aut moraliter impossibile sit accedere ad ministrum proprium. Art. 6. Canon 1108 CIC posthac tertiam paragraphum habebit ut sequitur: §3. Solus sacerdos valide assistit matrimonio inter partes orientales vel inter partem latinam et partem orientalem sive catholicam sive non catholicam. Art. 7. Canon 1109 CIC integre sequenti textu substituitur: Loci Ordinarius et parochus, nisi per sententiam vel per decretum fuerint excommunicati vel interdicti vel suspensi ab officio aut tales declarati, vi officii, intra fines sui territorii, valide matrimoniis assistunt non tantum subditorum, sed etiam, dummodo alterutra saltem pars sit adscripta Ecclesiae latinae, non subditorum. Art. 8. Prima paragraphus can. 1111 CIC integre sequenti textu substituitur: § 1. Loci Ordinarius et parochus, quamdiu valide officio funguntur, possunt facultatem intra fines sui territorii matrimoniis assistendi, etiam generalem, sacerdotibus et diaconis delegare, firmo tamen eo quod praescribit can. 1108 § 3. Art. 9. Prima paragraphus can. 1112 CIC integre sequenti textu substituitur: § 1. Ubi desunt sacerdotes et diaconi, potest Episcopus dioecesanus, praevio voto favorabili Episcoporum conferentiae et obtenta licentia Sanctae Sedis, delegare laicos, qui matrimoniis assistant, firmo praescripto can. 1108 § 3. Art. 10. Canon 1116 CIC posthac tertiam paragraphum habebit, ut sequitur: §3. In iisdem rerum adiunctis, de quibus in §1, nn. 1 et 2, Ordinarius loci cuilibet sacerdoti catholico facultatem conferre potest matrimonium benedicendi christifidelium Ecclesiarum orientalium quae plenam cum Ecclesia catholica communionem non habeant si sponte id petant, et dummodo nihil validae vel licitae celebrationi matrimonii obstet. Idem sacerdos, semper necessaria cum prudentia, auctoritatem competentem Ecclesiae non catholicae, cuius interest, de re certiorem faciat. Art. 11. Prima paragraphus can. 1127 CIC integre sequenti textu substituitur: § 1. Ad formam quod attinet in matrimonio mixto adhibendam, serventur praescripta can. 1108; si tamen pars catholica matrimonium contrahit cum parte non catholica ritus orientalis, forma canonica celebrationis servanda est ad liceitatem tantum; ad validitatem autem requiritur interventus sacerdotis, servatis aliis de iure servandis. Quaecumque vero a Nobis hisce Litteris Apostolicis Motu Proprio datis decreta sunt, ea omnia firma ac rata esse iubemus, contrariis quibuslibet non obstantibus, peculiari etiam mentione dignis, atque decernimus ut per editionem in actis diurnis L’Osservatore Romano promulgentur et deinde in Actis Apostolicae Sedis commmentario officiali edantur. Datum Romae, apud Sanctum Petrum, die XXXI mensis Maii anno MMXVI, Pontificatus Nostri quarto. Lettera apostolica in forma di Motu Proprio del Sommo Pontefice Francesco con la quale vengono mutate alcune norme del Codice di Diritto Canonico A motivo della costante sollecitudine per la concordanza tra i Codici, mi sono reso conto di alcuni punti non in perfetta armonia tra le norme del Codice di Diritto Canonico e quelle del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. I due Codici possiedono, da una parte, norme comuni, e, dall’altra, peculiarità proprie, che li rendono vicendevolmente autonomi. È tuttavia necessario che anche nelle norme peculiari vi sia sufficiente concordanza. Infatti le discrepanze inciderebbero negativamente sulla prassi pastorale, specialmente nei casi in cui devono essere regolati rapporti tra soggetti appartenenti rispettivamente alla Chiesa latina e a una Chiesa orientale. Ciò si verifica in modo particolare ai nostri giorni, nei quali la mobilità della popolazione ha determinato la presenza di un notevole numero di fedeli orientali in territori latini. Questa nuova situazione genera molteplici questioni pastorali e giuridiche, le quali richiedono di essere risolte con norme appropriate. Occorre ricordare che i fedeli orientali hanno l’obbligo di osservare il proprio rito ovunque essi si trovino (cfr. CCEO can. 40 § 3; Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Orientalium Ecclesiarum, 6) e, di conseguenza, l’autorità ecclesiastica competente ha la grave responsabilità di offrire loro i mezzi adeguati perché possano adempiere tale obbligo (cfr. CCEO can. 193 § 1; CIC can. 383 §§ 1-2; Esort. ap. postsin. Pastores gregis, 72). L’armonizzazione normativa è certamente uno dei mezzi che gioverà a promuovere lo sviluppo dei venerabili riti orientali (cfr. CCEO can. 39), permettendo alle Chiese sui iuris di agire pastoralmente nel modo più efficace. Bisogna tuttavia tenere presente la necessità di riconoscere le particolarità disciplinari del contesto territoriale in cui avvengono i rapporti inter-ecclesiali. Nell’Occidente, prevalentemente latino, occorre trovare un giusto equilibrio tra la tutela del Diritto proprio della minoranza orientale e il rispetto della storica tradizione canonica della maggioranza latina, in modo da evitare indebite interferenze e conflitti e promuovere la proficua collaborazione tra tutte le comunità cattoliche presenti in un dato territorio. Un ulteriore motivo per integrare la normativa del CIC con esplicite disposizioni parallele a quelle esistenti nel CCEO è l’esigenza di meglio determinare i rapporti con i fedeli appartenenti alle Chiese orientali non cattoliche, ora presenti in numero più rilevante nei territori latini. Si deve infine rilevare che anche la dottrina canonica ha fatto notare alcune discrepanze tra i due Codici, indicando, con sostanziale convergenza, quali fossero i punti problematici e come renderli concordi. L’obiettivo delle norme introdotte con il presente Motu Proprio è quello di raggiungere una disciplina concorde che offra certezza nel modo di agire pastorale nei casi concreti. Il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, per mezzo di una Commissione di esperti in Diritto canonico orientale e latino, ha identificato le questioni principalmente bisognose di adeguamento normativo, elaborando un testo inviato a una trentina di Consultori ed esperti in tutto il mondo, nonché alle Autorità degli Ordinariati latini per gli orientali. Dopo il vaglio delle osservazioni pervenute, la Sessione Plenaria del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi ha approvato un nuovo testo. Tutto ciò considerato, dispongo ora quanto segue: Art. 1. Il can. 111 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente, che include un nuovo paragrafo e modifica alcune espressioni: §1 Con la ricezione del battesimo è ascritto alla Chiesa latina il figlio dei genitori, che ad essa appartengono o, se uno dei due non appartiene ad essa, ambedue i genitori di comune accordo abbiano optato che la prole fosse battezzata nella Chiesa latina; che, se manca il comune accordo, è ascritto alla Chiesa sui iuris, cui appartiene il padre. §2 Se poi soltanto uno dei genitori è cattolico, è ascritto alla Chiesa alla quale il genitore cattolico appartiene. §3 Qualsiasi battezzando che abbia compiuto quattordici anni di età, può liberamente scegliere di essere battezzato nella Chiesa latina o in un’altra Chiesa sui iuris; nel qual caso, egli appartiene a quella Chiesa che avrà scelto. Art. 2. Il can. 112 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente, che include un nuovo paragrafo e modifica alcune espressioni: §1. Dopo aver ricevuto il battesimo, sono ascritti a un’altra Chiesa sui iuris: 1° chi ne abbia ottenuto la licenza da parte della Sede Apostolica; 2° il coniuge che, nel celebrare il matrimonio o durante il medesimo, abbia dichiarato di voler passare alla Chiesa sui iuris dell’altro coniuge; sciolto però il matrimonio, può ritornare liberamente alla Chiesa latina; 3° i figli di quelli, di cui nei nn. 1 e 2, prima del compimento dei quattordici anni di età e parimenti, nel matrimonio misto, i figli della parte cattolica, che sia passata legittimamente a un’altra Chiesa sui iuris; raggiunta però questa età, i medesimi possono ritornare alla Chiesa latina. §2. L’usanza, anche se a lungo protratta, di ricevere i sacramenti secondo il rito di un’altra Chiesa sui iuris, non comporta l’ascrizione alla medesima Chiesa. §3. Ogni passaggio ad altra Chiesa sui iuris ha valore dal momento della dichiarazione fatta alla presenza dell’Ordinario del luogo della medesima Chiesa o del parroco proprio oppure del sacerdote delegato da uno di essi e di due testimoni, a meno che un rescritto della Sede Apostolica non disponga diversamente; e si annoti nel libro dei battezzati. Art. 3. Il paragrafo secondo del can. 535 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente: §2. Nel libro dei battezzati si annoti anche l’ascrizione a una Chiesa sui iuris o il passaggio ad altra Chiesa, nonché la confermazione e tutto ciò che riguarda lo stato canonico dei fedeli, in rapporto al matrimonio, salvo il disposto del can. 1133, all’adozione, all’ordine sacro e alla professione perpetua emessa in un istituto religioso; tali annotazioni vengano sempre riportate nei certificati di battesimo. Art. 4. Il secondo capoverso del primo paragrafo del can. 868 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente: §1. 2° che vi sia la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica fermo restando il §3; se tale speranza manca del tutto, il battesimo venga differito, secondo le disposizioni del diritto particolare, dandone ragione ai genitori. Art. 5. Il can. 868 CIC avrà d’ora in poi un terzo paragrafo col testo seguente: §3. Il bambino di cristiani non cattolici è lecitamente battezzato, se i genitori o almeno uno di essi o colui che tiene legittimamente il loro posto lo chiedono e se agli stessi sia impossibile, fisicamente o moralmente, accedere al proprio ministro. Art. 6. Il can. 1108 CIC avrà d’ora in poi un terzo paragrafo col testo seguente: §3. Solo il sacerdote assiste validamente al matrimonio tra due parti orientali o tra una parte latina e una parte orientale cattolica o non cattolica. Art. 7. Il can. 1109 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente: L’Ordinario del luogo e il parroco, eccetto che con sentenza o decreto siano stati scomunicati o interdetti o sospesi dall’ufficio oppure dichiarati tali, in forza dell’ufficio assistono validamente, entro i confini del proprio territorio, ai matrimoni non solo dei sudditi, ma anche dei non sudditi, purché almeno una delle due parti sia ascritta alla Chiesa latina. Art. 8. Il primo paragrafo del can. 1111 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente: §1. L’Ordinario del luogo e il parroco, fintanto che esercitano validamente l’ufficio, possono delegare a sacerdoti e diaconi la facoltà anche generale di assistere ai matrimoni entro i confini del proprio territorio, fermo restando quanto disposto dal can. 1108 § 3. Art. 9. Il primo paragrafo del can. 1112 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente: §1. Dove mancano sacerdoti e diaconi, il Vescovo diocesano, previo il voto favorevole della Conferenza Episcopale e ottenuta la licenza dalla Santa Sede, può delegare dei laici perché assistano ai matrimoni, fermo restando quanto disposto dal can. 1108 § 3. Art. 10. Il can. 1116 CIC avrà d’ora in poi un terzo paragrafo col testo seguente: §3. In aggiunta a quanto stabilito dal § 1, nn. 1 e 2, l’Ordinario del luogo può conferire a qualunque sacerdote cattolico la facoltà di benedire il matrimonio dei fedeli cristiani delle Chiese orientali che non hanno piena comunione con la Chiesa cattolica se spontaneamente lo chiedano, e purché nulla osti alla valida e lecita celebrazione del matrimonio. Il medesimo sacerdote, tuttavia con la necessaria prudenza, informi della cosa l’autorità competente della Chiesa non cattolica interessata. Art. 11. Il primo paragrafo del can. 1127 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente: §1. Relativamente alla forma da usare nel matrimonio misto, si osservino le disposizioni del can. 1108; se tuttavia la parte cattolica contrae matrimonio con una parte non cattolica di rito orientale, l’osservanza della forma canonica della celebrazione è necessaria solo per la liceità; per la validità, invece, si richiede l’intervento di un sacerdote, salvo quant’altro è da osservarsi a norma del diritto. Quanto deliberato con questa Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano e quindi pubblicato nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis. Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 31 maggio dell’anno 2016, quarto del Nostro Pontificato. Francesco pp. Pag 5 All’insegna delle esigenze pastorali di Juan Ignacio Arrieta Com’è ben noto, nella prima parte del pontificato di san Giovanni Paolo II si portarono a termine i lavori di codificazione canonica, con la promulgazione nel 1983 del Codice di Diritto Canonico e poi, nel 1990, del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. I due Corpi legali hanno rappresentato l’aggiornamento della disciplina canonica precedente, seguendo gli insegnamenti del concilio Vaticano II, grazie al contributo collegiale dell’episcopato universale, frequentemente interpellato durante la redazione dei Codici. I due testi rispecchiano, com’era doveroso, tradizioni giuridiche differenti anche se, ovviamente, danno risposta uguale alle questioni essenziali riguardanti la fede della Chiesa. Di fatto, centinaia di canoni sono letteralmente uguali e, in termini anche più generali, i lavori del Codice orientale ebbero occasione di usufruire degli studi fatti per il Codice latino che li precedevano nel tempo. Sono rimaste, però, alcune questioni sulle quali i due testi non offrono risposte concordi e situazioni rilevanti che un testo tratta e l’altro no. Il Codice di Diritto Canonico, per esempio, non ebbe occasione di beneficiare, almeno in modo compiuto, delle riflessioni che portavano avanti i canoni orientali, principalmente in questioni in cui l’esperienza giuridica orientale risulta significativamente più sensibile e aveva sviluppato criteri condivisibili. Tale è il caso delle problematiche concernenti i rapporti inter-rituali. Mancano infatti nel Codice latino previsioni specifiche riguardanti i rapporti con gli altri fedeli cattolici di rito diverso dal latino. In quegli inizi degli anni Ottanta non s’intravedeva ancora la forte accelerazione che il processo migratorio avrebbe subito nei decenni successivi, interessando molti Paesi di tradizione canonica latina. Proprio tale processo di mobilità umana ha fatto emergere un po’ dappertutto, nella quotidiana attività pastorale, i problemi di disparità disciplinare dei due Codici, e la necessità di metterli in concordanza per dare sicurezza e semplificare l’attività dei Pastori. Delle disarmonie tra un Codice e l’altro si è occupata a lungo la dottrina scientifica. Già al tempo della promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali si era consapevoli della sussistenza di questioni, di varia entità dottrinale, che ancora rimanevano aperte e non sufficientemente risolte. Tra queste, l’esperienza giuridica degli anni seguenti ha messo di rilievo quelle disarmonie che intralciavano di più la quotidiana attività pastorale e richiedevano una risposta omogenea da parte della Chiesa. Dell’argomento si è occupato il Pontificio Consiglio per i testi legislativi sin dal pontificato di Benedetto XVI, che autorizzò l’avvio dei necessari studi in vista di eventuali armonizzazioni nelle norme Codiciali. I risultati di questi lavori sono stati divulgati tra gli studiosi, soprattutto in occasione dei convegni di studio promossi dal dicastero, come quello celebrato nell’ottobre 2010 in occasione del XX anniversario della promulgazione del CCEO (cfr. Communicationes, XLIII, 2010, pp. 239279). In seno al dicastero venne costituito un gruppo di esperti, docenti in Diritto canonico orientale, che iniziò selezionando le questioni di maggior rilievo, tra quelle individuate dagli autori. Vennero lasciate da parte le problematiche di ordine strutturale e organizzativo, per concentrarsi su quelle più concrete e di maggiore urgenza pastorale. Il risultato dei lavori del gruppo venne poi condiviso con un numero più elevato di esperti canonisti e, successivamente ancora, con vari dicasteri e altre autorità ecclesiastiche, tra cui tutti gli ordinari a capo delle strutture che nei vari Paesi curano la pastorale dei fedeli orientali senza gerarchia propria. Nell’evolvere dei lavori, alcune delle questioni inizialmente selezionate sono state lasciate da parte, mentre per altre si è ritenuto opportuno risolvere in modo diverso la tematica. Tale è il caso, per esempio, della Nota explicativa quoad can. 1 CCEO pubblicata sulla rivista «Communicationes» (XLIII, 2011, pp. 315-316), ricordando che «si deve ritenere che la Chiesa latina è implicitamente inclusa per analogia ogni volta che il CCEO adopera espressamente il termine “Chiesa sui iuris” nel contesto dei rapporti inter-ecclesiali». Analogamente, una questione puntuale che riguardava una prassi locale consolidata negli Stati Uniti d’America sull’attenzione delle comunità orientali, venne risolta mediante una lettera alla Conferenza Episcopale, resa pubblica attraverso «Communicationes» (XLIV, 2012, pp. 36-37). Di fatto si giunse anche alla convinzione che, volendo armonizzare i due Codici nelle materie pastorali più bisognose di chiarimento, bastava limitare le modifiche ad alcuni testi del Codice latino, senza necessità di toccare quello orientale. È proprio questo ciò che stabilisce il recente motu proprio di Papa Francesco, accogliendo la proposta di modifica dei canoni approvata dalla Riunione Plenaria del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi del 31 maggio 2012. Una prima linea sulla quale si muovono le modifiche adesso incorporate al Codice latino è quella di dare certezza sulla Chiesa sui iuris di appartenenza delle persone, a cominciare dai bambini neobattezzati. In tale senso, si riafferma il criterio dell’appartenenza del bambino alla Chiesa sui iuris del genitore cattolico (nuovo can. 111 § 2 CIC), e si introduce l’obbligo di indicare la Chiesa di appartenenza nel registro parrocchiale dei battesimi (nuovo can. 535 § 2 CIC). Per quanto riguarda, poi, l’eventuale passaggio ad altra Chiesa sui iuris, il nuovo can. 112 § 3 CIC, che prima non esisteva, ispirandosi sostanzialmente ai cann. 36 e 37 CCEO, esige che, salvo dispensa specifica, venga fatto in questi casi un atto formale di passaggio davanti all’autorità competente, e che il suddetto cambiamento venga annotato anche nel libro dei registri di battesimo, modificando di conseguenza il can. 535 § 2 CIC che segnala le questioni da annotare in detto registro. Una seconda linea seguita con queste modifiche punta a dare chiarezza in modo definitivo su due problematiche concernenti la celebrazione del matrimonio dei fedeli orientali. La prima riguarda l’esigenza del can. 834 § 2 CCEO che richiede ad validitatem la benedizione di tali unioni da parte di un sacerdote, mentre, nella disciplina latina, dal motu proprio Sacrum diaconatum ordinem, del 18 giugno 1967 (AAS 59 [1967] 697 ss.), è consentito anche ai diaconi agire come testimoni qualificati dei matrimoni. Soprattutto dopo la promulgazione dei due Codici, si è cercato in varie occasioni di risolvere questo divario, senza mai giungere a risultati concreti. In questa opportunità si è cercato di affrontare la questione stabilendo una norma disciplinare positiva che risolve la questione aggiungendo un nuovo §3 al can. 1108 CIC: «Solo il sacerdote assiste validamente al matrimonio tra le parti orientali o tra una parte latina e una parte orientale cattolica o non cattolica». Accanto a questo, il Codice latino poneva una questione di legittimità giurisdizionale per l’assistenza del parroco ai matrimoni dei sudditi. La redazione del can. 1109 CIC poteva far pensare - e così è stato inteso in alcuni luoghi - che il parroco non potesse assistere al matrimonio di due fedeli orientali, nemmeno essendo sudditi suoi, se nessuno dei due apparteneva alla Chiesa latina. La redazione era poco chiara e la conclusione non molto coerente. Invece, il testo del can. 829 § 1 CCEO era assai più preciso, decidendosi in conseguenza di adottare uguale redazione e correggere il testo dalle frasi meno chiare del can. 1109 CIC. Una terza linea della riforma concerne la lecita partecipazione dei ministri latini alla celebrazione dei sacramenti di fedeli ortodossi, sia nel caso dei battesimi che dei matrimoni. Mancavano anche qui previsioni della disciplina latina riguardanti queste contingenze che, invece, erano presenti in quella orientale e che il flusso migratorio degli ultimi decenni rendeva imprescindibile adottare anche nella Chiesa latina. Un punto di discrepanza riguardava la relativamente frequente richiesta ai parroci latini di amministrare il battesimo ai figli di cristiani orientali non cattolici. Mentre una lettura stretta del can. 868 §1 CIC suggerisce la non liceità del battesimo in questi casi, il can. 681 §5 CCEO considerava che il parroco orientale cattolico poteva lecitamente farlo. Quest’ultimo testo è quello che adesso riprende il nuovo § 3 aggiunto al canone latino, assieme alle puntuali modifiche inserite in altri luoghi al testo. Analoga questione poneva la celebrazione del matrimonio. Il can. 833 CCEO prevede che il gerarca del luogo possa conferire ad un sacerdote cattolico la facoltà di benedire il matrimonio di due ortodossi, previa informazione, se possibile, dell’autorità competente. Nella disciplina latina mancava, però, una disposizione del genere, essendo una questione che è diventata assai più frequente in Paesi dove non è presente la gerarchia ortodossa del relativo rito. Anche in questo caso è parso conveniente introdurre nel can. 1116 CIC un nuovo § 3 riprendendo con uguali requisiti la disciplina orientale, in modo che anche i sacerdoti latini con la facoltà del proprio ordinario e le restanti condizioni possano benedire i matrimoni dei fedeli ortodossi che spontaneamente lo richiedano. A tutte queste modifiche, limitate ai punti strettamente necessari, si sono poi aggiunti in altri posti lievissimi ritocchi volti a precisare alcuni concetti o remissioni per garantire l’osservanza delle modifiche in altri contesti normativi. In tutto, come si vede dal provvedimento pontificio, le variazioni interessano undici canoni del Codice di Diritto Canonico. Dalla lettura del motu proprio, balza subito agli occhi come la motivazione di queste riforme risponda alla volontà di agevolare la cura pastorale dei fedeli soprattutto nei cosiddetti «luoghi della diaspora» dove vivono, in ambienti a maggioranza latina, migliaia di fedeli orientali che hanno lasciato la loro terra di origine. Non resta ora che rammentare in questo contesto quanto diceva san Giovanni Paolo II nel maggio 1995 nella Lettera apostolica Orientale lumen: «Agli Ordinari latini di quei Paesi raccomando in modo particolare lo studio attento, la piena comprensione e la fedele applicazione dei principi enunciati da questa Sede... sulla cura pastorale dei fedeli delle Chiese orientali cattoliche, soprattutto quando costoro sono sprovvisti di una propria Gerarchia» (n. 26). Pagg 4 – 5 Sulle irregolarità nel ricevere l’ordine sacro Lo scorso 31 maggio, nell’udienza concessa ai superiori del Pontificio Consiglio per i testi legislativi, il Santo Padre ordinò la pubblicazione di una Risposta autentica al can. 1041 del Codice di Diritto Canonico, che era stata approvata nella seduta plenaria del Pontificio Consiglio del 23 giugno 2015. Più che per la dovizia di casi in cui si presenta il problema affrontato - ora, comunque, in sensibile aumento -, il provvedimento intende segnalare la prevalente prospettiva sostanziale che, in termini generali, deve sempre guidare l’interpretazione e l’applicazione delle leggi della Chiesa, evitando interpretazioni solo formalistiche dei testi. La Risposta autentica riguarda la portata di alcune irregolarità per ricevere l’ordine sacro previste dal can. 1041 nei nn. 4 e 5 del CIC. Le irregolarità sono divieti, per chi avesse tenuto in passato determinati comportamenti riprovevoli, di ricevere l’ordinazione - diaconale, sacerdotale o episcopale - senza la necessaria dispensa da parte dell’autorità; non si tratta, dunque, di un reato o di una punizione aggiuntiva, bensì d’una sorta di prevenzione per proteggere la dignità del sacramento e gli stessi fedeli davanti a soggetti che in passato avessero seguito determinate condotte illecite (sicuramente già perdonate, nella generalità dei casi). In concreto, questi numeri del can. 1041 si riferiscono a chi avesse commesso omicidio, o aborto, o avesse mutilato gravemente se stesso o un altro, o tentato il suicidio. Pur essendo sostanzialmente simile, il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali presenta un sistema diverso da quello delle irregolarità di tradizione latina e, quindi, non suscita dubbi interpretativi di questo genere. Nella disciplina latina, sorgeva invece il problema di dover valutare se queste concrete irregolarità riguardassero il compimento dei fatti vietati o, piuttosto, l’essere incorsi specificamente nei rispettivi reati tipizzati dalla disciplina penale della Chiesa, con la conseguenza che, in quest’ultimo caso, risulterebbero esonerati, e non sarebbero incorsi in irregolarità, quanti avessero realizzato colpevolmente le condotte censurate senza, però, cadere in reati canonici. La questione va considerata nel contesto generale della disciplina penale della Chiesa e dei soggetti che possano incorrere nei delitti canonici. Secondo il can. 11 del Codice di Diritto Canonico, infatti, alle leggi puramente ecclesiastiche, e tali sono i delitti e le pene stabilite dal legislatore canonico, sono tenuti solo i cattolici. Chi non fosse stato cattolico al momento di porre in essere tali condotte, dunque, non sarebbe incorso nell’irregolarità, se si dovesse fare una lettura solo formale del canone. Con la presente Risposta autentica, il Pontificio Consiglio per i testi legislativi ha stabilito che anche i non cattolici sono da ritenere soggetti passibili delle irregolarità di cui al can. 1041, nn. 4 e 5 CIC, ribadendo con ciò il distanziamento delle irregolarità dall’ambito della disciplina penale canonica. Diversi sono gli argomenti che paiono suffragare la posizione adottata: primo fra tutti, come già detto, la necessità di seguire con coerenza un ragionamento sostanziale - e non formalistico - tra la revisione legislativa che l’irregolarità rappresenta e l’interesse che oggettivamente si intende proteggere: la dignità del Sacramento e la comunità di fedeli che dev’essere affidata alla responsabilità di un ministro. Due parametri da confrontare con la realtà sostanziale, anziché con soli aspetti formali. Una lettura differente avrebbe portato a proporre un trattamento discriminatorio, applicando una diversa disciplina in funzione della condizione o meno di cattolico al momento dei fatti, particolarmente paradossale e ingiusta, in quanto sia i cattolici che i non cattolici sono ugualmente tenuti al rispetto della vita propria ed altrui, poiché appartenente all’ordine naturale. Da un punto di vista strettamente tecnico, comunque, la soluzione trova sostegno nel Codice stesso, seguendo le regole interpretative del can. 17 CIC. Infatti, dopo aver trattato nel can. 1041 delle irregolarità per ricevere gli ordini sacri, il successivo can. 1044 considera le cosiddette irregolarità per esercitare gli ordini ricevuti. Queste sono divieti analoghi, riguardanti però fatti compiuti dopo l’ordinazione che lasciano anche una «macchia» - diversa dal peccato e dall’eventuale reato canonico -, per la quale è proibito l’esercizio del ministero, a meno che non si ottenga la dispensa dall’Autorità. Ebbene, il confronto di questi due canoni pone in rilievo quale sia il giusto modo di leggere il can. 1041. C’è, infatti, una rilevante differenza nei testi dei due canoni. Il can. 1041, n. 4°, a proposito dell’irregolarità per «ricevere gli ordini sacri» così si esprime: «Qui voluntarium homicidium perpetraverit aut abortum procuraverit»; ed analogamente il n. 5°, per la mutilazione e tentativo di suicidio: «Qui seipsum vel alium graviter et dolose mutilaverit vel sibi vitam adimere tentaverit». Il can. 1044 § 1, 3°, invece, a proposito dell’irregolarità per esercitare gli ordini ricevuti dice esplicitamente: «Qui delictum commisit, de quibus in can. 1041 nn. 3, 4, 5, 6». In sintesi, trattandosi delle irregolarità in cui si cade dopo l’ordinazione, il Codice parla tecnicamente di «delictum», espressione giustamente evitata a proposito delle irregolarità per la ricezione dell’ordine, poiché non era sufficiente il riferimento al reato canonico per proteggere l’interesse giuridico che si cercava di tutelare. Questa lettura della disciplina della Chiesa tiene conto della natura teologica degli istituti e degli interessi ecclesiali che s’intende proteggere, e pare necessario seguirla più in generale nell’applicazione delle norme canoniche, assicurando soluzioni giuste alle controversie, proponendo nel medesimo tempo come esemplare la specificità del proprio diritto, che fa affidamento sulla coerenza sostanziale nel gestire l’esperienza giuridica. Interpretatio authentica ad can. 1041, nn. 4-5 CIC Patres Pontificii Consilii de Legum Textibus proposito in plenario coetu diei 23 Iunii 2015 dubio, quod sequitur, respondendum esse censuerunt ut infra: D. Utrum sub locutione “irregulares”, de qua in can. 1041 CIC, veniant etiam non catholici qui acta in nn. 4 et 5 posuerint. R. Affirmative. Summus Pontifex Franciscus in Audientia die 31 Maii 2016 infrascripto impertita, de supradictis decisionibus certior factus, eas publicari iussit. Franciscus Card. Coccopalmerio Praeses Iohannes Ignatius Arrieta a Secretis Risposta autentica al can. 1041, nn. 4-5 CIC I Padri del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi nella riunione plenaria del 23 giugno 2015, hanno ritenuto di rispondere come segue al dubbio proposto: D. Se sotto la locuzione “irregolari”, di cui al can. 1041 CIC, siano inclusi anche i non cattolici che hanno posto gli atti di cui ai nn. 4 e 5. R. Affermativamente. Il Sommo Pontefice Francesco nell’Udienza concessa al sottoscritto il 31 maggio 2016, informato delle decisioni sopra riportate, l’ha confermata e ha ordinato che venga promulgata. Francesco Card. Coccopalmerio Presidente Juan Ignacio Arrieta Segretario Pag 8 Sotto il mantello Messa a Santa Marta In un mondo di orfani, Maria è la madre ci comprende fino in fondo e ci difende, anche perché ha vissuto sulla propria pelle le stesse umiliazioni che oggi, ad esempio, subiscono le mamme dei detenuti. Celebrando la messa nella cappella della Casa Santa Marta giovedì mattina, 15 settembre, giorno della memoria della beata Maria vergine addolorata, Papa Francesco ha suggerito di rifugiarsi sempre, nei momento difficili, «sotto il mantello» della madre di Dio, riproponendo così «il consiglio spirituale dei mistici russi» che l’occidente ha rilanciato con l’antifona Sub tuum preasidium. Per la sua meditazione sul «mistero della maternità di Maria», il Pontefice ha preso le mosse dall’ultima cena: «Gesù, a tavola, si congeda dai suoi discepoli: c’è un’aria di tristezza, tutti sapevano che c’era qualcosa che sarebbe finita male e facevano domande, erano tristi». Ma «Gesù, in quel congedo, per dare loro un po’ di coraggio e anche per prepararli nella speranza, dice loro: “Non siate tristi, il vostro cuore non sia triste, non vi lascerò soli! Io chiederò al Padre di inviare un altro Paraclito, che vi accompagnerà. E lui vi insegnerà tutto e vi ricorderà tutto ciò che io ho detto”». Il Signore, dunque, «promette di inviare lo Spirito Santo per accompagnare i discepoli, la Chiesa sulla strada della storia». Ma Gesù «parla anche del Padre». Infatti, ha ricordato Francesco, «in quel lungo, lungo discorso con i discepoli, parla del Padre», assicurando «che il Padre vuole loro bene e che qualsiasi cosa loro domandano al Padre, il Padre gliela darà. Che siano fiduciosi nel Padre». E così, ha spiegato il Papa, fa «un passo in più: non solo dice “non vi lascerò soli”, ma anche “non vi lascerò orfani, vi do il Padre, con voi è il Padre, il mio Padre è il vostro Padre». Poi, ha proseguito Francesco, «avviene tutto quello che noi sappiamo, dopo la cena: l’umiliazione, la prigione, il tradimento dei discepoli; Pietro rinnega Gesù, gli altri fuggono». Tanto che, ha detto il Pontefice riferendosi al passo liturgico del Vangelo di Giovanni (19, 25-27), sotto la croce c’era «soltanto un discepolo, con la madre di Gesù, con Maria di Màgdala e l’altra Maria, parente». E lì, alla croce, «c’è Maria, la madre di Gesù: tutti la guardavano», magari sussurrando: «Quella è la madre di questo delinquente! Quella è la madre di questo sovversivo!». E Maria, ha aggiunto il Papa, «sentiva queste cose, soffriva umiliazioni terribili e sentiva anche i grandi, alcuni sacerdoti che lei rispettava perché erano sacerdoti», dire a Gesù: «Ma tu che sei tanto bravo, scendi, scendi!». Maria, ha affermato Francesco, accanto a «suo Figlio, nudo, lì, aveva una sofferenza tanto grande, ma non se ne è andata, non rinnegò il Figlio, era la sua carne». Con una confidenza personale, il Papa ha ricordato: «È accaduto tante volte quando andavo, nella diocesi di Buenos Aires, nelle carceri a visitare i carcerati, di vedere la coda, la fila delle donne che aspettavano per entrare: erano mamme ma non si vergognavano, la loro carne era lì dentro». E quelle «donne soffrivano non solo la vergogna di essere lì», sentendo dire: «Ma guarda quella, cosa avrà fatto il figlio?». Quelle mamme «soffrivano anche le più brutte umiliazioni nelle perquisizioni che venivano fatte loro prima di entrare, ma erano madri e andavano a trovare la propria carne». E così è stato anche per Maria, che «era lì, con il Figlio, con quella sofferenza tanto grande». Proprio «in quel momento - ha fatto notare il Papa - Gesù, che aveva parlato di non lasciarci orfani, che aveva parlato del Padre, guarda sua madre e ce la dà a noi come madre: “Ecco, tua madre!”». Il Signore «non ci lascia orfani: noi cristiani abbiamo una madre, la stessa di Gesù; abbiamo un Padre, lo stesso di Gesù. Non siamo orfani». E Maria «ci partorisce in quel momento con tanto dolore, è davvero un martirio: col cuore trafitto, accetta di partorire tutti noi in quel momento di dolore. E da quel momento lei diventa la nostra madre, da quel momento lei è nostra madre, quella che si prende cura di noi e non si vergogna di noi: ci difende». «I mistici russi dei primi secoli della Chiesa - ha ricordato a questo proposito Francesco - davano un consiglio ai loro discepoli, i giovani monaci: nel momento delle turbolenze spirituali rifugiatevi sotto il manto della santa madre di Dio. Lì non può entrare il diavolo perché lei è madre e come madre difende». Poi «l’occidente ha preso questo consiglio e ha fatto la prima antifona mariana Sub tuum praesidium: sotto il tuo mantello, sotto la tua custodia, o Madre, lì siamo sicuri». «Oggi è la memoria del momento che la Madonna ci ha partorito - ha proseguito il Papa - e lei è stata fedele a questo parto fino al momento di oggi e continuerà a essere fedele». E «in un mondo che possiamo chiamare “orfano”, in questo mondo che soffre la crisi di una grande orfanezza, forse il nostro aiuto è dire: “Guarda a tua madre!”». Perché abbiamo una madre «che ci difende, ci insegna, ci accompagna, che non si vergogna dei nostri peccati» e «non si vergogna, perché lei è madre». In conclusione, il Pontefice ha pregato «che lo Spirito Santo, questo amico, questo compagno di strada, questo Paraclito avvocato che il Signore ci ha inviato, ci faccia capire questo mistero tanto grande della maternità di Maria». AVVENIRE Pag 3 La presenza che si apre all’incontro di Anna Maria Canopi Il Congresso eucaristico nel Giubileo della Misericordia «L’Eucaristia sorgente della missione. Nella tua Misericordia a tutti sei venuto incontro»: su questo tema è chiamata a riflettere la Chiesa italiana nel Congresso eucaristico nazionale che la raduna a Genova, nel cuore del Giubileo straordinario della Misericordia. Grazia su grazia! Nell’argomento scelto si legge l’ansia evangelizzatrice della Chiesa in un mondo invaso da fermenti di neopaganesimo, come pure da un crescente indifferentismo e da un dilagante individualismo che si manifestano nelle tante 'porte chiuse', là dove dovrebbero esserci case accoglienti, nei tanti muri che si innalzano, là dove si dovrebbero costruire ponti. Ma l’Amore non sarà mai sconfitto. A mantenerlo vivo Gesù stesso si è dato nel Sacramento dell’Eucaristia. La sua presenza in questo 'frammento' di pane consacrato è medicina per i cuori spezzati, per le famiglie divise, per la società conflittuale di ogni tempo e luogo. Il Pane di vita divina può riplasmare la povera argilla umana. A tutti, infatti, è venuto incontro il Misericordioso, Colui che, nato Uomo tra gli uomini, è passato per le strade della Palestina beneficando e risanando; a tutti anche oggi viene incontro bussando instancabilmente alla porta dei nostri cuori. Ancora di più: Egli ormai rimane sempre con noi. Allora folle di poveri lo seguivano, non solo per i miracoli da Lui compiuti ma perché erano attratti dal fascino della sua Persona, dall’autorevolezza della sua Parola, dalla bontà e mitezza del suo comportamento, vedendolo chinarsi misericordioso sulle loro miserie. E noi, oggi, sappiamo riconoscerlo? Instancabile e silenzioso Pellegrino, Egli cammina al nostro fianco, si fa nostro compagno di viaggio sulle strade delle nostre esistenze, ma forse il ritmo serrato e concitato dei nostri impegni, l’ansia del fare, del correre, il 'sovraffollamento' di tanti pensieri, immagini, sentimenti che fanno ressa nei nostri cuori ci impediscono di scorgerlo, come di abbracciare con uno sguardo fraterno le persone che incontriamo, che ci passano accanto, che lavorano con noi e che forse attendono un piccolo aiuto, un semplice sorriso. Ecco, di fronte a questa situazione globale il Congresso di Genova più che un approfondimento teologico o pastorale sull’Eucaristia vuole essere un invito a un nuovo stile di vita, dove il primato sia dato a Dio e non all’'io': uno stile di vita più contemplativo, più pacato, più silenzioso, in cui ci sia tempo per fermarsi, stare in silenzio e adorare, ossia per accostare la bocca del cuore al Cuore divino, per 'respirare Cristo'. Perché ciò avvenga bisogna tenere fisso lo sguardo su Gesù e lasciarsi da Lui attirare nelle sue vie di libertà e di amore. Come ai discepoli di Emmaus, Egli si rende a noi presente nella Sacra Scrittura; bisogna ascoltarla, leggerla, custodirla e attuarla per incontrare Lui, vivere di Lui, acquisire i suoi sentimenti e i suoi pensieri; sentirsi ardere il cuore d’amore per Dio e per i fratelli. Ancora di più, Egli è presente e vivo nel Sacramento dell’Eucaristia. Per continuare a rimanere con noi ha scelto questa realtà sacramentale così povera, umile, quasi insignificante: un frammento di pane, che tanto facilmente nella nostra società consumistica viene sciupato, gettato via. Forse anche noi siamo tra quelli... Eppure sappiamo che milioni di persone muoiono di fame. Fame del pane per la vita del corpo, ma soprattutto fame di quel Pane vivo che è Dio. «O umiltà sublime e sublimità umile - esclamava san Francesco d’Assisi - che il Signore dell’universo e Figlio di Dio abbia a umiliarsi così da nascondersi sotto la piccola figura del pane per la nostra salute! Guardate, fratelli, l’abbassamento di Dio, ed effondete davanti a lui i vostri cuori». Ecco l’adorazione! Consapevole di avere nell’Eucaristia il suo inestimabile tesoro, la Chiesa non potrà mai rinunciare a circondarla del culto che le è dovuto: l’adorazione. Nel canto eucaristico «Adoro Te devote» è espresso lo stupore per il dono inestimabile di questa presenza sacramentale di Cristo Redentore e mai basterebbero le parole per farne comprendere la grandezza nella apparente piccolezza. Proprio perché gli uomini in precipitosa corsa dietro molte altre cose fuggevoli possano essere fermati e posti davanti all’essenziale, davanti a Colui che è il Signore del tempo e della storia, occorre continuamente ricordare e proclamare che a Lui spetta l’omaggio del tempo, in totale gratuità, come pure l’omaggio di tutto ciò che di più bello esiste nel creato. Del resto proprio nel culto divino e nell’adorazione l’uomo si eleva alla più grande dignità. Il tempo che riserviamo all’Adorazione eucaristica non è certo un tempo sottratto ai nostri impegni, ai nostri doveri di cristiani, di discepoli che vogliono essi stessi diventare 'eucaristia', pane donato per la vita degli altri. Al contrario, prolungate soste o anche solo brevi ma intensi istanti di adorazione davanti al Sacramento, sono momenti preziosi per «più 'imparare' Dio e così divenire certi di Lui, anche se tace, per diventare lieti in Dio», come affermava Benedetto XVI. Questo intimo essere con Dio, questa esperienza di stare in povertà e gratuità alla presenza di Gesù eucaristico, è ciò che ci aiuta anche a vivere più umanamente e pacificamente i rapporti fraterni. Partendo dallo sguardo rivolto a Gesù, dall’adorazione di Lui nell’Ostia consacrata, avremo uno sguardo diverso sul mondo e sulla storia. Nell’Ostia che contempliamo, infatti, incontriamo con Gesù anche tutti i fratelli, la fatica del loro lavoro, le loro sofferenze e la loro solitudine, la loro sete di comunione e il loro desiderio di pace. E possiamo credere che se, nel nostro mondo diviso, sapremo essere noi stessi e vedere gli altri come frammenti di Eucaristia, avremo la gioia di adorare in tutti e in tutto la Presenza di Dio e di irradiarla silenziosamente attorno a noi. Pagg 8 – 9 Quel popolo che si ritrova nell’adorazione perpetua di Francesco Ognibene e Francesco Dal Mas Cresce la rete delle cappelle aperte giorno e notte. Venezia: “Si impara ad aprirsi agli altri” Li chiamano custodi, o sentinelle: vegliano davanti a tabernacoli e ostensori nella penombra di chiese nelle quali, a lungo, spesso sono loro l’unica presenza umana. Ore intere, lo sguardo fisso, anche in ginocchio. Chi entra e non sa nulla di questo “popolo” di adoratori dell’Eucaristia può pensare che stiano perdendo il loro tempo, con tutto il daffare che ci sarebbe in parrocchia, nel quartiere, in paese. Ma è proprio la loro scelta di vegliare davanti al Signore a rivelare il “segreto” della Chiesa: custodire Dio non per farne una proprietà gelosa ma per avvicinarlo al mondo. Il loro naturale silenzio non ne fa gli oggetti della curiosità mediatica, a fatica ci si accorge che ci sono. Ma sempre più parrocchie si impegnano per accompagnare a turno Gesù eucaristico almeno per alcune ore della giornata, tenendo aperta la chiesa – come chiede il Papa – anche in orari “di pausa”, o a fine giornata, quando più facilmente si può essere colti dall’impulso anche inatteso di entrare e cercare pace, accoglienza, dialogo. Con la sorpresa di vedere che, dentro, c’è chi già lo sta facendo, e ha l’aria di essere lì senza alcuna fretta di andare altrove. Perché col Signore, a tu per tu, in silenzio, si è certi di stare sempre nel posto giusto. È lo spirito che anima da 15 anni i promotori in tutta Italia dell’Adorazione eucaristica perpetua (Aep), per la quasi totalità laici, grazie ai quali sono oggi attive 65 cappelle dove è esposto il Santissimo Sacramento giorno e notte, quasi sempre in un locale della parrocchia appositamente dedicato, e dove notte e giorno è assicurata la veglia almeno di una persona. «Oasi di pace dove il silenzio è abitato da una Presenza»: così definisce le cappelle eucaristiche padre Justo Lo Feudo, argentino, che ha contribuito alla semina iniziale di almeno due terzi delle presenze oranti in Italia (e di molte delle oltre 3mila cappelle attive nel mondo). Membro dei Missionari della Santissima Eucaristia – congregazione francese originaria della diocesi di Frejus-Toulon –, padre Justo è a Sant’Ilario (Parma) dove sta aiutando a organizzare la cappella italiana numero 66, conteggio avviato il 2 marzo 2001 con l’apertura della primissima presso la Basilica romana di Sant’Anastasia al Palatino: «Di solito ci chiama il vescovo locale, ma spesso lo fanno i laici di una parrocchia che desiderano dare vita a un’esperienza di adorazione perpetua », spiega il religioso, che non nasconde la complessità dell’operazione mitigata dal suo straordinario fascino spirituale (e apostolico): «Occorre un nucleo di partenza disponibile ad assumere una responsabilità – chiarisce –: una volta individuati un coordinatore generale, 4 per le sei fasce in cui va suddivisa la giornata e altre 24 che si prendono cura ciascuna di un’ora, le adesioni arrivano, a volte con grande abbondanza. L’esperienza dell’adorazione silenziosa e puntuale attira molto, e ha l’effetto di avvicinare alla chiesa tanti che a Messa non si vedono, abitualmente non vi mettono piede da tempo e che invece sostano volentieri insieme ad altri che pregano, per cercare una pace spesso desiderata come l’acqua nel deserto». I numeri parlano di una media di 300 persone per ogni cappella, con punte di oltre 500 «che ruotano attorno a un’esperienza viva e matura», per un totale di 20mila adoratori dell’Eucaristia certamente attivi in Italia solo attorno alle cappelle con un impegno personale di «almeno un’ora a settimana, ma con tutti quelli che passano e restano anche solo per un breve periodo il “giro” è ben più ampio». È vero che in questa rete di esperienze di adorazione perpetua il beneficio non va pesato in base ai numeri. Per spiegarsi a padre Justo piace ricordare i tre ospedali nelle cui cappelle si adora l’Eucaristia lungo le 24 ore: Reggio Emilia, Sassuolo, e Fermo, «esperienze pressoché uniche al mondo»: «Il Signore esposto sotto le specie eucaristiche anche di notte – racconta – attira il personale di turno ma anche tanti parenti in visita, con un viavai continuo attorno a chi si dà il turno ogni ora, sempre aspettando chi subentra. Una mobilitazione spirituale commovente». Le cappelle sono attive in tutte le regioni: l’elenco completo è su www.adorazioneucaristicaperpetua.it, sotto la voce “cappelle”. Venezia. «Venite in disparte e riposatevi un po’». L’invito di Gesù spicca - perfino in russo e cinese -, nella notte profonda di Venezia, dall’ingresso della cappella, accanto alla chiesa di San Silvestro, a pochi metri dal ponte di Rialto. La movida ti ha stancato? Ecco il Signore eucaristico che ti aspetta, a braccia aperte, ti fa sedere e riflettere, in silenzio. «È da un anno e mezzo che siamo impegnati nell’adorazione perpetua, giorno e notte, senza soste – racconta il parroco don Antonio Biancotto –. Stiamo riproponendo la confortante esperienza che da circa 13 anni sta portando avanti la parrocchia di San Maria Goretti, a Carpenedo di Mestre, con il parroco don Narciso Danieli, con frutti davvero rassicuranti sul piano dell’evangelizzazione ». Ben 220 gli adoratori che si alternano, alcuni sono cristiano ortodossi, provengono dalla città, dalle isole, dalla terraferma, non solo adulti e pensionati, ma anche giovani. E tra questi gli 'evangelizzatori di strada', quei ragazzi che la sera portano il Vangelo tra il popolo della movida. «La compagnia di Gesù non è esclusiva – racconta Antonio –, anzi ti sollecita a cercare l’altro, specie se è in difficoltà». L’adorazione perpetua si accompagna, pertanto, ad un’attenzione privilegiata per il povero di spirito, oltre che del necessario per vivere. Accade, per esempio, che in chiesa si rifugia, nel cuore della notte, il padre di famiglia, mezzo ubriaco, e che prendendo coscienza del suo stato si avvilisce, non sa come affrontare moglie e figli. Ed ecco l’adoratore di turno che prova a consolarlo. È frutto di questo impegno l’accoglienza in parrocchia di una famiglia di profughi curda. Ogni primo giovedì del mese l’adorazione diventa comunitaria, a partire dalla lectio divina. I gruppi del catechismo vengono accostati all’adorazione come esperienza di vita, ovviamente dimensionata alla loro età. Ecco, l’adorazione perpetua come scuola di vita. In preparazione del Congresso eucaristico nazionale è proprio qui che ieri sera il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, ha celebrato la Messa, ha portato il Santissimo in processione e poi ha benedetto la folla di adoratori. Tra cui, anche tanti stranieri. Pag 25 “La riforma della Chiesa? Non teorie, ma vita reale” di Antonio Spadaro Spadaro: il Papa non si impone sulla storia ma sa dialogare con tempi, luoghi e persone Pubblichiamo in questa pagina ampi stralci del primo capitolo di un testo non solo molto interessante ma la cui genesi ha fatto non poco discutere. Si intitola 'La riforma e le riforme nella Chiesa' (Queriniana, pagine 605, euro 53) ed è stato curato da Antonio Spadaro e Carlos Marìa Galli. L’interesse teologico è racchiuso nella natura stessa del libro. Una raccolta di 30 saggi inediti scritti da altrettanti specialisti della materia (dodici ecclesiologi, cinque storici della chiesa, otto ecumenisti, tre canonisti, sei professori di teologia spirituale e pastorale). Tra gli, oltre a padre Spadaro, autore appunto del capitolo iniziale che qui proponiamo in sintesi, sono presenti contributi di Andrea Riccardi, John O’Malley, Silvia Scatena, Severino Dianich, Hervé Legrand, Myriam Wijlens, Piero Coda, Diego Fares, Serena Noceti, Mario de Franca Miranda, Mary Melone e il vescovo (l’unico presente) Victor Manuel Fernàndenz, rettore della Pontificia Università Cattolica dell’Argentina. Dal 28 settembre al 2 ottobre 2015 si sono ritrovati tutti insieme presso la sede della 'Civiltà Cattolica' e hanno dato vita a un confronto fondato sul dialogo. Obiettivo quello di fornire spunti teologici e istituzionali per pensare la riforma e le riforme nella e della Chiesa in una prospettiva quanto più ampia possibile: dal rinnovamento del Vaticano II alla comunione sinodale, dall’unità dei cristiani alle indicazioni verso una chiesa più povera, fraterna e inculturata. Esclusi esplicitamente dall’ordine del giorno i temi legati al matrimonio e alla famiglia, perché al centro del Sinodo dei vescovi che si sarebbe aperto solo tre giorni dopo. Evidente però che la presenza di tanti teologi di fama nella sede della 'Civiltà Cattolica' per quasi una settimana e l’approssimarsi dell’assemblea sinodale, ha fatto concludere a qualche complottista di professione che il seminario – tra l’altro si è svolto a porte chiuse – era stato pensato per 'pilotare' il dibattito del Sinodo. Ora il mistero è svelato. Nessuna strategia occulta. Per rendersene conto basta percorrere le 600 pagine del volume ora in libreria. Papa Francesco è un papa gesuita e la sua idea della riforma della chiesa corrisponde alla visione ignaziana. La riforma è un processo davvero spirituale che cambia anche le strutture per connaturalità, come la cartina di tornasole cambia colore naturalmente perché muta il livello di acidità o di alcalinità del liquido in cui è immersa. Uno dei grandi modelli ispiratori di Bergoglio è il gesuita san Pierre Favre, che Michel de Certeau definisce semplicemente il «prete riformato», per cui l’esperienza interiore, l’espressione dogmatica e la riforma strutturale sono intimamente indissociabili. È a questo genere di riforma che papa Francesco si ispira. Ma quanto Francesco ha chiara questa radice ignaziana nel suo modo di interpretare se stesso, anche come pontefice? Nel pomeriggio del 19 agosto 2013 sono entrato per la prima volta nella camera di papa Francesco a S. Marta. Avevamo concordato quel giorno per l’intervista che poi apparve su La Civiltà Cattolica e su altre riviste dei gesuiti. La prima domanda che gli feci non era scritta nei miei appunti. Ed era: «Chi è Jorge Mario Bergoglio?». Lui, ricordo, mi fissò in silenzio. Pensavo di aver fatto un passo falso. Mi fece un rapido cenno per farmi capire che avrebbe risposto, e poi mi disse lentamente: «Non so quale possa essere la definizione più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore». Francesco, continuando a riflettere, compreso, disse: «Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”». Ascoltando queste parole, mi resi conto che il papa mi aveva dato una risposta duplice. La prima è quello che ha detto: lui si percepisce come un peccatore salvato. Ma, parlando a me, gesuita come lui, mi ha risposto definendosi alla luce della sua spiritualità e della sua scelta di vita come gesuita, appunto [...]. La spiritualità di Ignazio di Loyola è una spiritualità storica, legata alla dinamica della storia. Essa, anzi, fa lievitare la storia e organizza, strut- tura una istituzione. Il ministero spirituale di Ignazio si istituzionalizza in servizio della chiesa, dando forma alla Compagnia di Gesù e alla sua capacità di dialogo con la cultura e con la storia. In realtà questo è lo sfondo su cui si dipinge un ritratto più complesso, che è di capitale importanza per comprendere il modo di procedere di Bergoglio nel suo pontificato. Egli nota che nella vita di Ignazio si riscontra la coerenza interna del suo progetto. Ma che cos’è il “progetto” di Ignazio? Una visione teorica pronta per essere applicata alla realtà, per costringerla nei suoi limiti? È un’astrazione da calare nel concreto? Nulla di tutto questo. «Il suo progetto non è una pianificazione di funzioni, non è un assortimento di possibilità. Il suo progetto consiste nel rendere esplicito e concreto ciò che egli aveva vissuto nella sua esperienza interiore», ha scritto Bergoglio. Si comprende così che la domanda su quale sia il “programma” di papa Francesco non ha senso. Il papa non ha idee chiare e distinte da applicare al reale, ma avanza sulla base di una esperienza spirituale e di preghiera che condivide nel dialogo e nella consultazione. Questo modo di procedere si chiama “discernimento”: è il discernimento della volontà di Dio nella vita quotidiana. Sebbene esso si compia nell’ambito del cuore, dell’interiorità, la sua materia prima è sempre l’eco che la realtà quotidiana riverbera in quell’intimità. È un atteggiamento interiore che spinge a essere aperti al dialogo, all’incontro, a trovare Dio dovunque egli si faccia trovare, e non solamente in perimetri angusti o comunque ben definiti e recintati [...]. Il papa ha ben chiaro il contesto, la situazione di partenza: è informato, ascolta pareri; è saldamente aderente al presente. Tuttavia la strada che intende percorrere è per lui davvero aperta, non è in una road map teorica: il cammino si apre camminando. Dunque il suo “progetto” è, in realtà, un’esperienza spirituale vissuta che prende forma per gradi e che si traduce in termini concreti, in azione. Non una visione che fa riferimento a idee e concetti, ma un vissuto che fa riferimento a “tempi, luoghi e persone” e dunque non ad astrazioni ideologiche. Per cui quella visione interiore non si impone sulla storia cercando di organizzarla secondo le proprie coordinate, ma dialoga con la realtà, si inserisce nella storia degli uomini, si svolge nel tempo. Francesco è il papa dei processi, degli “esercizi”. Come il superiore che, nella sua visione, deve essere «guida dei processi e non mero amministratore». Questa è, a suo avviso, la forma del vero «governo spirituale». Il pontificato bergogliano e la sua volontà di riforma non sono e non saranno solamente di ordine “ammini-strativo”, ma di avviamento e di accompagnamento di processi: alcuni rapidi e folgoranti, altri estremamente lenti. Il processo è dunque davvero aperto: solo Dio ne conosce la conclusione e il frutto. È ben altro e ben più che il progetto umano, ed è «più delle nostre attese». Fossero pure quelle di un papa. In Meditaciones para religiosos – riflessioni scritte quando era padre gesuita e durante il suo incarico di provinciale dei gesuiti argentini – egli spiega questa dinamica del processo con intelligenza spirituale e pratica. Usa un ’immagine molto efficace di origine evangelica: «Veniamo incoraggiati a edificare la città, ma forse bisognerà abbattere il modellino che ci eravamo disegnati nella nostra testa. Dobbiamo prendere coraggio e lasciare che lo scalpello di Dio raffiguri il nostro volto, anche se i colpi cancellano alcuni tic che credevamo gesti». La pars destruens, che consiste nell ’abbattere il “modellino ”, e funzionale a lasciare alle mani di Dio lo scalpello. Ecco un ’altra nota interessante per comprendere l’azione di Francesco. Ne è esempio notevole il movimento impresso alla chiesa intera con la III Assemblea generale straordinaria del sinodo dei vescovi. Esso è stato pensato come un processo che è stato avviato da un ampio questionario rivolto a tutto il popolo di Dio, è confluito nel sinodo straordinario e ha aperto un anno di riflessione prima di riconfluire in una Assemblea ordinaria dello stesso sinodo. Ma la dinamica di parresia, di chiarezza e libertà di espressione e di ascolto nella quale il processo e stato vissuto, ha avviato nella chiesa intera una dinamica che ha persino spaventato molti. Eppure e proprio nei lontani anni Ottanta che Bergoglio certificava la sua fiducia nei processi, e dunque una radicale fiducia nello Spirito santo: la sapienza del discernimento «implica abbandonarsi alla volontà di Dio, e questo a sua volta comporta rinunciare a controllare i processi con criteri meramente umani ». E ancora: «Nei processi, aspettare significa credere che Dio e più grande di noi stessi, che e lo stesso Spirito che ci governa » (ES 365), che è il «'Padrone' a far crescere attento [...] il seme». Il papa vive una costante dinamica di discernimento, che lo apre al futuro. Anche al futuro della riforma della chiesa, che non e un progetto, ma un esercizio dello spirito che non vede solamente bianchi e neri, come vedono coloro che vogliono sempre fare 'battaglie'. Bergoglio vede sfumature e gradualità: cerca di riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale, il seme già piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. E il seme non è l ’albero: spesso è sepolto e dunque invisibile a un occhio poco attento… Pag 25 Ora è più agevole per i preti latini sposare i fedeli ortodossi di Gianni Cardinale Roma. I sacerdoti cattolici di rito latino possono ora battezzare lecitamente anche i bimbi figli di «cristiani non cattolici», qualora lo chiedessero. E, col permesso del vescovo, benedire i matrimoni di cristiani delle Chiese orientali non in «piena comunione» con Roma, non prima di aver avvisato «con la necessaria prudenza» l’autorità della Chiesa non cattolica interessata. Sono queste due delle novità pratiche introdotte nel Codice di diritto canonico con il motu proprio De concordia inter Codices, firmato da papa Francesco il 31 maggio e diffuso ieri. Nel testo si ricorda che l’aumentata «mobilità della popolazione» ha «determinato la presenza di un notevole numero di fedeli orientali in territori latini», come accaduto ad esempio in Italia e in l’Europa Occidentale con l’arrivo di fedeli ortodossi e orientali da Romania, Ucraina, Moldavia, Egitto e Medio Oriente. Di qui la necessità di una maggiore «armonia» tra le norme del Codice di Diritto Canonico del 1983 e quelle del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali del 1990. Con l’obiettivo di trovare «un giusto equilibrio tra la tutela del Diritto proprio della minoranza orientale e il rispetto della storica tradizione canonica della maggioranza latina», in modo da evitare «indebite interferenze e conflitti» e promuovere «la proficua collaborazione tra tutte le comunità cattoliche presenti in un dato territorio». Come spiegato a Radio Vaticana dal vescovo Juan Ignacio Arrieta, segretario Motu proprio Francesco ha deciso la modifica del Codice di diritto canonico per l’aumento in Occidente di cristiani orientali del pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, «già si sapeva che c’erano alcune piccole divergenze nei due Codici, però il problema si è accentuato soprattutto con la mobilità e con la emigrazione degli ultimi tempi». Il presule ha ricordato ad esempio che «secondo la regola orientale, per la benedizione degli sposi è necessario un sacerdote; nella disciplina latina basta un diacono ». E col motu proprio si specifica «che per sposare i cattolici orientali ci vuole sempre un sacerdote, non un diacono». Il nuovo documento pontificio stabilisce cambiamenti ed integrazioni in undici canoni del Codice. Per quanto riguarda i battesimi, si riafferma il criterio dell’appartenenza del bambino alla Chiesa sui iuris del genitore cattolico e si introduce l’obbligo di indicare la Chiesa di appartenenza nel registro parrocchiale dei battesimi. Per ciò che concerne, poi, l’eventuale passaggio ad altra Chiesa sui iuris, si stabilisce che, salvo dispensa specifica, venga fatto in questi casi un atto formale di passaggio davanti all’autorità competente e che il suddetto cambiamento venga annotato anche nel libro dei registri di battesimo. Sempre ieri è stata diffusa l’interpretazione autentica, preparata dal pontificio Consiglio per i testi legislativi e confermata dal Papa, di un canone del Codice. Con essa si precisa che anche coloro che non erano cattolici al momento di incorrervi sono da ritenersi soggetti passibili di quelle irregolarità che costituiscono divieto di ricevere l’ordinazione diaconale, sacerdotale o episcopale, senza la necessaria dispensa da parte dell’Autorità. In particolare riguarda chi avesse tenuto in passato comportamenti riprovevoli, come chi avesse commesso omicidio, o aborto, o avesse mutilato gravemente se stesso o un altro, o tentato il suicidio. LA STAMPA Enzo Bianchi: la libertà nasce dalla lotta interiore di Enzo Bianchi I termini «asceta» e «atleta» non solo condividono la stessa etimologia, ma riguardano una cerchia ben più ampia di quanti mettono alla prova anche il proprio corpo nella ricerca di Dio o nelle competizioni sportive. L'agone, la lotta riguarda ciascuno di noi, chiamato ad affrontare il duro mestiere di vivere e l'esigente sfida del proprio essere «animale sociale». E se «agonismo» può indicare un'istanza di competitività, a volte eccessiva nel suo pretendersi criterio esclusivo, la lotta spirituale ne è il sano contrappunto. Esigenza radicale per una vita interiore robusta, presente in tutte le religioni e in numerose scuole filosofiche, la lotta spirituale nella tradizione ebraicocristiana appare fin dalle prime pagine della Bibbia: chiamato a «dominare» all'interno del creato, l'essere umano deve esercitare un dominio su di sé, sul male che lo minaccia: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Genesi 4,7). Si tratta dunque di una lotta interiore, non rivolta contro esseri esterni a sé, ma contro le tentazioni, i pensieri, le suggestioni e le dinamiche che portano alla consumazione del male. L'apostolo Paolo, servendosi di immagini belliche e sportive (la corsa, il pugilato riemerge l'accostamento atleta/asceta), parla della vita cristiana come uno sforzo, una tensione interiore a rimanere nella fedeltà a Cristo, che comporta lo smascheramento delle dinamiche attraverso le quali il peccato si fa strada nel cuore umano, così da poterlo combattere al suo sorgere. Il cuore, infatti, è il luogo di questa battaglia. Il cuore inteso nel senso, derivato dall'antropologia biblica, dell'organo che meglio può rappresentare la vita nella sua totalità: centro della vita morale e interiore, sede dell' intelligenza e della volontà, il cuore contiene gli elementi costitutivi di quella che noi chiamiamo la «persona» e si avvicina a ciò che definiamo «coscienza». Ma tutto questo, nel cristianesimo, non è affatto semplicemente un movimento di «discernimento e di aggiustamento psicologico»: questa, dice Paolo, è «la lotta della fede» (1 Timoteo 6,12), l'unica lotta che può essere definita «buona». È cioè la lotta che nasce dalla fede, dal legame con Cristo manifestato dal battesimo, che avviene nella fede, cioè nella fiducia della vittoria già riportata dal Cristo stesso, e che conduce alla fede, alla sua conservazione e al suo irrobustimento. La lotta spirituale mira, secondo la tradizione cristiana, a custodire la «sanità spirituale» del credente. Disciplina indubbiamente faticosa, ma capace di trasformare la fatica in bellezza, qualità della vita autentica e della convivenza. Le è necessaria la resistenza spirituale nei confronti di pulsioni, suggestioni, ossessioni che sonnecchiano nel profondo del nostro cuore, ma che sovente si destano ed emergono con una prepotenza aggressiva che le rende per noi tentazioni seducenti. Se il fine della lotta spirituale è l'apatheía, questa va intesa non nel senso dell'impassibilità, ma dell'assenza di patologie: così questo combattimento quotidiano mette in atto la valenza terapeutica della fede. Essendo la vita spirituale una realissima e concretissima vita, essa deve essere nutrita e corroborata per poter crescere e dev'essere curata quando è minacciata nella sua integrità. Occidente ed Oriente cristiano hanno codificato ambiti e spazi in cui va esercitata tale lotta per mantenere sempre il credente in un sano atteggiamento di comunione e non di consumo. E le diverse tradizioni spirituali hanno anche indicato molto concretamente le modalità di tale lotta, a cominciare dall' indispensabile apertura del cuore in una relazione di fiducia con un «anziano», un «padre» spirituale. Ad essa si uniscono la preghiera, l'ascolto e l'interiorizzazione della Parola di Dio e una vita di relazione, di carità intensa e autentica. Questa lotta esige poi una grande capacità di vigilanza su di sé e sui molti rapporti che si intrattengono e sui quali può innestarsi la tentazione, nelle sue molteplici forme che abbracciano la molteplicità dei rapporti antropologici fondamentali. Il rapporto col cibo, col proprio corpo e la propria sessualità, con le cose (in particolare i beni, il denaro), con gli altri, con il tempo, con lo spazio, con l'operare e, infine, con Dio. Sempre, in tutti questi ambiti, la tentazione si configura come seduzione di vivere nel regime del consumo invece che in quello della comunione. Chi è sperimentato nella vita spirituale sa che questa lotta è più dura di tutte le lotte esterne, ma conosce anche il frutto di pacificazione, di libertà, di mitezza e di carità che essa produce. È grazie ad essa, infatti, che l' amore, ogni nostro amore viene purificato e ordinato. Torna al sommario 4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO Pag 21 “Ti do la mia parola”, festa inter-etnica al Centro Kolbe: gastronomia, reading e spettacoli teatrali di scrittori migranti Il Centro Kolbe di Mestre in collaborazione col Servizio Immigrazione del Comune di Venezia promuove per questo fine settimana un festival ("CultFest") per dare risalto alle diverse culture che si incontrano sul territorio e contribuiscono a creare una società plurale. In programma in via Aleardi a Mestre, reading e spettacoli teatrali da opere di scrittori migranti, danze multietniche, musica, proiezioni cinematografiche, una tavola rotonda con l'obiettivo di scambiare esperienze e buone pratiche. Il programma prevede anche momenti conviviali in cui poter conoscere e apprezzare diverse ricette gastronomiche. Colazioni, pranzi, aperitivi e cene verranno preparati dalle Associazioni di immigrati attive nel nostro Comune. Oggi, dopo l’aperitivo di benvenuto alle 17, ci sarà un reading sul tema "Quando l’immigrazione diventa matura", quindi una cena etica, l’inaugurazione di una mostra d’arte collettiva e la proiezione del film "Breakfast in Beirut", domani e domenica, per tutto il giorno, incontri, giochi per bambini, gastronomia etnica e spettacoli serali. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Marcianum, si volta pagina di Paolo Navarro Dina Scelto il presidente che guiderà l’ente: sarà Roberto Crosta. “Va rilanciata l’attività di ricerca e di studio d’ispirazione cristiana. Discontinuità col passato” Il Marcianum volta pagina e si affida da un nuovo gruppo dirigente. Dopo la "burrasca" che coinvolse, solo in maniera tangentale, la Fondazione di ispirazione cristiana, fondata nel 2008, dall’allora Patriarca, cardinale Angelo Scola, che causò seri contraccolpi all’attività culturale e educativa, ora si riparte con una nuova squadra, anche dopo un’operazione di "ricostruzione" e di rilancio che ha visto intervenire in prima persona l’attuale Patriarca, Francesco Moraglia. Presidente sarà Roberto Crosta, attuale segretario della Camera di Commercio Venezia-Rovigo ("Continuerò anche in quell’incarico, ma qui lavorerò senza compenso") in sostituzione di Gabriele Galateri di Genola. Insieme a Crosta entreranno a far parte del nuovo assetto tre sacerdoti: Marco De Rossi, direttore della Pastorale diocesa per i problemi sociali; Fabrizio Favaro, rettore del Seminario patriarcale e Angelo Pagan, vicario generale del Patriarcato. Insieme a loro Gianpiero Menegazzo, vicedirettore di Confindustria; l’avvocato Roberto Senigaglia e Alberto Peratoner, docente di Filosofia alla Facoltà teologica del Triveneto. Una squadra che dimostra la volontà di rilanciare la dottrina sociale della Chiesa, tema da sempre caro al Patriarca. E anche il sottosegretario Pier Paolo Baretta ha commentato: «Scegliere Crosta è stato importante. Si tratta di persona di qualità» Presidente Crosta, un compito importante per rilanciare la Fondazione veneziana. «Senz’altro. E sono onorato di questo incarico. Puntiamo a rilanciare questa Fondazione come luogo di incontro e di dialogo, secondo una visione cristiana, della società che ci circonda. Continueremo a svolgere il nostro ruolo di osservazione e di analisi, anche in discontinuità con il passato. Ma il Marcianum vuole essere ciò che è sempre stato un "think tank". Un luogo del pensiero». I primi appuntamenti del nuovo corso? «Lavoreremo, secondo le linee indicate dal Patriarca, sui temi religiosi e sociali. Siamo già impegnati su argomenti importanti. Stiamo preparando alcuni incontri per discutere di riforme costituzionali in previsione del prossimo referendum; sulle sofferenze del mondo del credito e sul rapporto tra le generazioni». Il Marcianum rinnovato tornerà ad essere al centro delle dinamiche cittadine. «Certamente. Siamo chiamati ad un riposizionamento e ad una nuova visione della città, anche in forma metropolitana. Cercheremo di percorrere queste strade con grande senso di responsabilità, impegno e sobrietà». Pag X Iusve, pioggia di richieste. Ammesso uno su sei di Melody Fusaro L’Istituto salesiano alla Gazzera ha superato i 2.500 iscritti Le richieste di iscrizione superano di sei volte i posti disponibili. Così tanti che un primo filtro è stato messo ancora prima del test d'ingresso, così chi non aveva i requisiti non è stato nemmeno ammesso. E, a conti fatti, per quest'anno allo Iusve uno entra e cinque restano fuori. L'università salesiana di Mestre, in via Asseggiano, piace ai neodiplomati ma anche a chi è pronto per una laurea magistrale o un master, e l’Iusve riparte con 800 nuovi studenti. In tutto il campus mestrino tocca i 2.550 iscritti (con 214 docenti) di cui 790 "matricole", 425 alle triennali, 230 alle magistrali e 135 ai master. «Molti genitori ci chiedono perché con così tante richieste scegliamo di tenerne così pochi spiega Mariano Diotto, direttore del dipartimento di comunicazione -. Noi lo facciamo per gli studenti, perché ci piace seguirli uno a uno, conoscerli per nome e offrire loro concrete opportunità lavorative». Psicologia, per esempio, deve fare i conti con l'esame di stato, per comunicazione e pedagogia i conti si fanno tenendo conto di reali posti disponibili nel mondo del lavoro. Tra le novità di quest'anno tanti nuovi progetti di ricerca (come quelli legati alla realtà virtuale) e l'aggiunta di alcuni master, come quelli di fotografia e video creativity per i laureati in comunicazione e il "corso biennale di alta formazione per educatore di pastorale giovanile". «Quest'anno - aggiunge Nicola Giacopini, direttore del Dipartimento di psicologia - puntiamo a rinforzare le collaborazioni con le istituzioni, in particolare con i Comuni di Venezia, con cui seguiamo progetti di ricerca sulla psicologia giuridica, il carcere e la sicurezza, quello di Treviso per il progetto Erasmus che coinvolge Belgio e Francia sul tema della coeducazione, e con Verona per un programma legato all'educazione». Altissimo (addirittura il 100% tra i 40 studenti delle magistrali di comunicazione) il tasso dei laureati o degli studenti che terminano il master e trovano un lavoro grazie ai tirocini proposti da Iusve. «Una linea che stiamo seguendo - aggiunge il preside Arduino Salatin -, in particolare legata al Nordest, è quella del consolidamento del rapporto con le imprese. Collaboriamo con le aziende che lavorano sull'export e cercano figure nel campo della comunicazione e con le piccole imprese con particolare attenzione a quella familiare». LA NUOVA Pag 18 Marcianum, nuovo corso. Roberto Crosta presidente di m.a. Il patriarca Francesco Moraglia ha nominato il Consiglio d’amministrazione. Al vertice l’attuale segretario della Camera di Commercio, sacerdoti e docenti Il Marcianum inaugura un nuovo corso nel segno della “sobrietà” e della “sostenibilità economica”. È con queste premesse che il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, ha nominato il nuovo consiglio d'amministrazione e il nuovo presidente per la Fondazione Studium Generale Marcianum, che sarà d'ora in poi guidata da Roberto Crosta, attuale segretario generale della Camera di Commercio di Venezia Rovigo Delta Lagunare. Il capo spirituale della Chiesa veneziana, sulla base di uno statuto e di una struttura organizzativa rinnovati e resi molto più agili rispetto al passato, ha provveduto alla nomina di un nuovo consiglio di amministrazione composto per il prossimo triennio, insieme allo stesso Crosta, dai seguenti membri: don Marco De Rossi (direttore della Pastorale diocesana per i problemi sociali e del lavoro nonché parroco a Marghera), don Fabrizio Favaro (rettore del Seminario patriarcale e della basilica della Salute), Gianpiero Menegazzo (attuale vicedirettore di Confindustria Venezia), Roberto Senigaglia (avvocato e professore di Diritto Privato all'Università Ca' Foscari), Alberto Peratoner (docente di Filosofia alla Facoltà teologica del Triveneto) e don Angelo Pagan (vicario generale del Patriarcato e docente della Facoltà di Diritto canonico S. Pio X). «Ringrazio coloro che hanno raccolto l'invito a partecipare al nuovo corso del Marcianum», ha dichiarato il Patriarca alla prima riunione del nuovo Consiglio, «che viene ripensato in base alla sostenibilità effettiva e alle risorse disponibili ma che anche, nello stesso tempo, vuole essere rilanciato. Da una parte, infatti, siamo invitati ad una sobrietà massima e dall'altra ad essere significativi in città, trovando un suo focus specifico: l'attenzione al territorio su tematiche che riguardano, in particolare, la dottrina sociale della Chiesa». «Il Marcianum», ha commentato Crosta, «pur essendo presente da non molti anni, è un'istituzione che ha saputo accreditarsi moltissimo in città. Il nuovo Marcianum è oggi chiamato ad un riposizionamento e ad una nuova visione nei confronti della città. Sarà questo il compito che, con il consiglio d'amministrazione, cercheremo di percorrere con grande senso di responsabilità e con il massimo impegno». I primi fronti di attività saranno un approfondimento sui temi della riforma costituzionale, le sofferenze nel mondo del credito, la questione antropologica al rapporto tra le generazioni. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 La libertà è generativa di Francesco D’Agostino Il “Fertility Day” e l’urgenza italiana L’iniziativa del Ministero della Salute per un 'Fertility Day' ha provocato dibattiti molto accesi, che spesso sono sconfinati in poco composte forme di protesta e di sarcasmo, per la 'qualità' delle iniziative grafico-pubblicitarie promosse (e sulle quali, forse troppo precipitosamente, Beatrice Lorenzin ha dichiarato di non avere difficoltà a fare marcia indietro). Lasciando da parte questi profili, davvero marginali, possiamo individuare alcuni punti cruciali che sono emersi da questi dibattiti. Il primo è che nessuno, o quasi, tra coloro che hanno criticato la ministra è arrivato a negare la gravità della crisi demografica che colpisce l’Italia e che è causata in massima parte dal volontario rinvio della decisione di concepire, che ha portato l’età media in cui una donna ha il suo primo figlio oltre i trent’anni. Credo che sia la prima volta che su questo punto, davvero essenziale, non abbiamo sentito ripetere le affermazioni insulse, andate di moda fino a ben poco tempo fa, quelle di chi continuava ad invitare gli italiani a non preoccuparsi del calo demografico, che si sarebbe potuto fronteggiare grazie alla procreazione assistita o ai flussi immigratori. In effetti, basta un minimo di ragionamento per capire che la fecondazione artificiale non può, per la sua invasività, per l’altissimo numero di insuccessi, per i suoi costi, che restare una prassi statisticamente marginale. Ancora più semplicistica e ingenua l’ipotesi che il posto degli italiani 'non nati' possa essere stabilmente occupato da immigrati: è impossibile per qualsiasi Paese, e per l’Italia in particolare, mantenere o semplicemente proteggere la sua identità storica, artistica, culturale, religiosa ed economica, quando si trovi nell’arco di poco decenni a essere abitata, in alta percentuale, da stranieri portatori di tradizioni belle e rispettabili, ma anche radicalmente diverse. L’immigrazione, se ha come finalità l’integrazione e non il mero sfruttamento degli immigrati, ha bisogni di tempi lunghi per realizzarsi e il crollo demografico non la favorisce, ma paradossalmente ne amplifica la problematicità. La questione, insomma, non solo è reale, ma ormai urgentissima e finalmente sembra che da tutte le parti ci si sia convinti di questa verità. Viva il 'Fertility Day', quindi? È giusto esortare le italiane a fare figli e soprattutto convincerle a non rimandare la decisione di diventare madri, facendo violenza alle indicazioni dell’«orologio biologico»? Niente affatto, dicono i critici della ministra. Da una parte (e qui non hanno tutti i torti, come su questo giornale è già stato ricordato da Massimo Calvi) sostengono che il fatto che le donne facciano meno figli dipende anche da condizionamenti sociali, che nessuna campagna ministeriale è in grado di alterare. Dall’altra, però, interpretano l’iniziativa di Lorenzin come un attentato alla libertà sessuale delle donne, come un’indebita intromissione nelle loro scelte procreative, che andrebbero considerate insindacabili e lasciate alla loro totale autonomia. E qui arriviamo al punto cruciale della questione. Questo argomento, che è dilagato nei giornali e nei media, mostra che non si riesce più a percepire come maternità e paternità abbiano un valore antropologico intrinseco e oggettivo (peraltro riconosciuto da tutte le culture e da tutte le tradizioni religiose). Divenire madri e padri non significa infatti rendere un cieco omaggio alla 'natura' o soddisfare desideri personali e privati (per quanto rispettabilissimi). Significa piuttosto collocare se stessi nel contesto della famiglia umana, che è per sua struttura diacronica e generativa e la cui dimensione personale e affettiva ha certamente una radice fisicobiologica, ma ancor più possiede una vocazione che va coraggiosamente ritenuta come 'metafisica'. Lo dimostra il fatto che la generatività qualifica sempre, sia in positivo che in negativo, l’esperienza di tutti gli uomini e di tutte le donne: come fonte di felicità, per chi accoglie i figli come un dono, come biasimevole chiusura egocentrica, per chi li rifiuta ritenendoli un ostacolo alla propria realizzazione sociale, come causa di sofferenza, per chi non riesce ad averli (ad esempio per ragioni patologiche), o come sublimazione, da parte di chi rinuncia ai figli non per egoismo, ma operando la scelta mistica di farsi «eunuco per il regno dei cieli» e, spesso, di vivere ed esercitare una paternità o maternità spirituale. Un ben inteso 'Fertility Day' non può avere come obiettivo quello di togliere alle donne e agli uomini la loro libertà procreativa o anche solo di incrinarla, ma quello di far aprire loro gli occhi: la libertà umana autentica non passa attraverso la liberazione dalla generatività. Aiutare le nuova generazioni a capire questo punto fondamentale si sta rivelando come uno dei punti cruciali e più complessi dell’etica sociale del nostro tempo. Pag 3 I “social”, palazzo di vetro dove non c’è compassione di Chiara Giaccardi La tecnologia non libera se non ne capiamo il senso Una giovane donna si suicida, dopo che il video di un suo rapporto sessuale viene diffuso da chi doveva tenerlo per sé, diventando virale. Rabbia, vergogna, incredulità per le parodie e la totale mancanza di solidarietà e sdegno per questa gogna digitale hanno spezzato una vita forse già fragile. Facile dire ora che non avrebbe dovuto lasciarsi filmare, e soprattutto non avrebbe dovuto condividere il filmato con quei pochi che poi non hanno esitato renderla zimbello del web. Diciamo anche a margine che non sempre, e questa ne è prova lampante, i contenuti generati dall’utente sono una conquista e un motivo di orgoglio: possono diventare «prodotti ad alto inquinamento sociale», con una efficace espressione di Leonardo Becchetti. Ma al di là dell’amaro impasto di tristezza, indignazione per la violenza simbolica (che ha sempre effetti molto concreti) e del «certo che poteva evitare» è necessario cercare di imparare qualcosa da questa triste vicenda, che non fa onore a nessuno. Fermarci a pensare. Thinking what we are doing, come invitava a fare Hannah Arendt, in tempi bui, per non soccombere al male intorno. Questo caso, nella sua tragica concretezza, ci può far riflettere su processi più generali, nei quali siamo immersi anche come parte attiva, ma spesso troppo poco consapevole. Ne menziono tre, sui quali questa vicenda, e troppe altre che le somigliano, devono farci meditare. Il primo è quello che tra gli studiosi viene definito il 'collasso dei contesti'. È stata la Tv a dare inizio a una riconfigurazione della geografia della vita sociale, sganciando l’esperienza dal luogo, riscrivendo i modi della vicinanza e della lontananza, rendendo pubblico il privato. Con i social media questo processo si radicalizza: desideriamo raccontarci (l’atteggiamento di 'estimità' ed estroflessione che è il contrario dell’intimità) e pensiamo di essere in una stanza a parlare coi nostri amici, mentre invece siamo su un palcoscenico senza confini. Viviamo di fatto come in un palazzo di vetro, dove tutti vedono tutti. E questo crea un problema. Noi negoziamo infatti le nostre identità nelle relazioni con gli altri, in contesti diversi che richiedono una capacità di sintonizzarsi e assumere comportamenti appropriati; e questo implica la possibilità di rivelarci selettivamente ai diversi 'pubblici'. Non è, si badi bene, una forma di ipocrisia, bensì di consapevolezza delle differenze. Non si sta in famiglia come sul lavoro, non ci si comporta a una festa come a un funerale. Oggi la gestione consapevole del nascondere/mostrare è diventata molto più difficile. E non è un caso che l’universo social stia privilegiando le applicazioni che consentono un’interazione più 'privata', più intima, più simile ai tradizionali contesti faccia a faccia: il tentativo è quello di suddividere di nuovo in stanze separate l’open space creato dai social media, di ripristinare la pluralità dei contesti. Ma siamo ancora lontani, e i rischi non mancano comunque. Con i social media, in ogni caso, il broadcasting del sé raggiunge una scala molto ampia, lasciando tracce permanenti e recuperabili nel tempo, la cui accessibilità è al di fuori del nostro controllo. Esserne consapevoli è fondamentale. E introduce il secondo punto cui prestare attenzione: quello della comunicazione social è un mix tra self-generated (prodotto dall’utente) e other-generated content (immagini 'taggate', commenti ai post etc.). Le audience per i contenuti creati e condivisi sono multiple, interconnesse e invisibili, potenzialmente illimitate. E non controllabili. Ciò che noi produciamo non ci appartiene più e può essere usato contro di noi. L’illusione di essere 'proprietari' di ciò che abbiamo postato, delle nostre tracce nel web è davvero pericolosa, come si dimostra. E infine, anche se le questioni sarebbero ancora molte, il rischio della perdita di realtà, che ci rende disumani. La mediazione del dispositivo che 'documenta per condividere' rischia di anestetizzarci, se ci adeguiamo semplicemente alla logica della fattibilità. Dove tutto è possibile, niente esiste davvero, scriveva Benasayag. Dove tutto è trasformabile in post e capitalizzabile in likes, nulla esiste davvero fuori di questa logica. Il 'capitalismo delle emozioni' ci porta a produrre, anche cinicamente, contenuti che possano diventare rapidamente virali, senza altro ordine di considerazioni se non quello quantitativo, in prospettiva autoreferenziale. Sì perché tutto questo, anche se non ci piace sentirlo dire, è figlio di un individualismo radicale dove niente conta più veramente, al di là di me. Dunque, non c’è solidarietà, compassione, rispetto che tenga. Nessuna ragione per mettere un limite alle nostre azioni. Perdita di realtà, anestesia, sé 'quantificato': non sono effetti necessari ma rischi in cui si cade senza accorgersene, se non si pensa a quel che si sta facendo. Se non si esce dalla logica di ciò che il dispositivo rende possibile, diventando puri esecutori di istruzioni scritte da altri, in preda al bisogno smodato di essere visti. Ecco perché, per citare un altro caso su questa scia, si arriva fino a filmare, sghignazzando, l’amica violentata nel bagno della discoteca. Probabilmente, pensando a quanti rilanci avrà il video. Perché del riconoscimento, della relazione il nostro io ha bisogno. E nella cornice dell’individualismo assoluto questo bisogno assume forme pervertite e disumane. È cronaca di questi giorni. Le donne, vittime, arrivano a farsi stolidamente complici dei carnefici. La tecnologia non libera affatto, se non ne capiamo il senso, ma anzi può essere piegata a forme subdole e sempre più perverse di umiliazione e violenza. Pensiamo a quel che stiamo facendo, a dove stiamo andando, a dove sta il senso. Per far sì che il dolore non sia inutile. Per non rendere vana questa triste morte. Che Tiziana, ora, riposi in pace. LA NUOVA Pag 4 I diritti sono solo su carta di Roberta Carlini Dovevano rientrare in Italia a giorni, i cinque figli e la moglie di Abd Elsalam Ahmed Eldanf. Adesso piangono la salma del loro papà e marito. Morto a Piacenza durante una protesta operaia, mentre rivendicava i suoi diritti. Una notizia giunta nella notte, che ha fatto piombare un’intera famiglia nel lutto e il nostro Paese in una scena da Ottocento operaio. Le prime testimonianze, del fratello e dei compagni di Eldanf, raccontano di un picchetto sfondato dal camion; una veloce ricostruzione della procura avvalora la tesi di un incidente; i sindacalisti della Usb - Unione sindacale di base, sigla molto presente nel mondo della logistica e in particolare nel polo di Piacenza, il più grande d’Italia - parlano di assassinio. Non ci vorrà molto per una ricostruzione attenta: rispetto all’Ottocento abbiamo in più, adesso, video, messaggi, comunicazione istantanea. Quello che non abbiamo in più, purtroppo, è la garanzia che i diritti scritti sulla carta valgano davvero per tutti e ovunque. Quello della logistica è un settore trainante, in espansione ovunque. La sua efficienza può fare la differenza tra un’economia e l’altra, tra una regione e l’altra. Piacenza, per geografia e infrastrutture, si è trovata al posto giusto e ha attratto il più grande centro italiano, che serve tutt’Europa. Nei suoi magazzini ci sono i marchi che affollano le nostre case, le merci delocalizzate che poi, per essere consumate, devono tornare a noi. Essere immagazzinate, smistate, caricate e scaricate. Nell’era della preannunciata fine del lavoro, il vecchio lavoro del facchino non è affatto finito. Quel lavoro faceva Eldanf, e le cronache sottolineano che aveva un contratto a tempo indeterminato dal 2003, dunque stava protestando non per sé ma per tredici colleghi precari, con contratto a tempo determinato, che attendono l’assunzione. Contratti, sindacati, scioperi: sembra tutto molto avanzato, sono le conquiste del nostro Novecento. Senonché, i contratti di questo tipo sono siglati con cooperative, che lavorano per i grandi corrieri. E queste cooperative cambiano ogni anno, si sciolgono e si riformano, assumendo in parte le stesse persone in parte no. Sono il lavoro più flessibile che ci sia, garantendo più o meno la stessa formazione e fedeltà del lavoratore, ma a condizioni che si ricontrattano di continuo, in base alle esigenze del ciclo produttivo. Le paghe sono bassissime, ferie e malattie un lusso inconcepibile: la parola cooperativa, idea nobile sempre dell’Ottocento, è capovolta nel suo contrario. E tutto questo per la parte emersa, poi c’è anche il nero per chi vuole ancora maggiore flessibilità. Per almeno l’80 per cento questo tipo di lavoro è svolto da immigrati. E al loro interno c’è un particolare turn over, man mano che una comunità comincia a organizzarsi e rivendicare dei diritti ne subentra un’altra. È un universo, un mondo del lavoro che non consideriamo quando parliamo dei numeri dell’aumento o della riduzione dell’occupazione, e neanche quando parliamo del contributo degli immigrati al Pil: le badanti nelle case le vediamo, mentre quelli che permettono alla nostra libreria smontabile o ai vestiti che abbiamo ordinato online di arrivare in tempi rapidissimi nelle nostre case sono più nascosti. Possiamo permetterci, dopo che la tragedia di Piacenza ha acceso i riflettori su questo mondo del lavoro, e a prescindere dalle responsabilità individuali e dalla verità giudiziaria che verrà accertata, di non vedere più tutto questo? Può permetterselo un ministro del Lavoro che del mondo della cooperazione, quella “forte”, era uno dei massimi dirigenti? Scrive Enrico Moretti nel suo testo sulla Geografia del lavoro che sono i lavori nuovi, quelli della conoscenza, che porteranno lo sviluppo, ma che questo sviluppo sarà fatto dell’insieme dei lavori che i settori hi-tech trascinano con sé, soprattutto nel settore dei servizi. Il benessere dei lavori “buoni”, è la tesi, porta con sé anche l’onda dei servizi che gli crescono intorno. Ma purché i servizi non siano svolti da servi, ma da altri lavoratori con le stesse regole e diritti di base. Lo impone la nostra Costituzione, in quella sua parte - l’uguaglianza sancita nell’articolo 3 - che non è modificabile. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XI “Parcheggi e bus troppo cari”, don Lionello contro Save e Actv di Mauro De Lazzari «È un'assurdità dover pagare oltre 5 euro se sosti qualche minuto in più dei 10 concessi al parcheggio dell'aeroporto, e lo è altrettanto non poter usufruire della tariffa urbana Actv da 1,50 euro nella breve tratta che dallo scalo aeroportuale porta al centro di Tessera». Il parroco delle comunità di Tessera e Ca’ Noghera, don Lionello Dal Molin, ha dato voce alle proteste dei residenti della zona nel corso del dibattito organizzato l'altra sera alla "Sagra dea sbrisa", attaccando sia Save che Actv e Comune per le tariffe esose applicate a questi due servizi. «Mi capita, di tanto in tanto, di andare a ricevere qualche vescovo o confratello che arriva all'aeroporto per accompagnarlo in macchina alla sua destinazione. Ebbene - spiega don Lionello - qualche volta gli aerei arrivano con po’ di ritardo e così si va oltre i 10 minuti di abbuono che vengono concessi al parcheggio. Capirei, come si paga all'ospedale di Mestre, se la tariffa dell'ora successiva fosse di un euro, invece mi è successo di dover pagare 5 euro e 50 solo per aver sforato di qualche minuto il limite dell'abbuono». Stesso discorso per la tariffa "aerobus". «Se dal centro di Tessera si deve andare all'aeroporto - prosegue il parroco - o fare lo stesso percorso all'inverso, si è costretti a pagare 8 euro al pari dei turisti armati di bagagli che partono da Mestre o da Venezia. Credo che non si tratti di una cosa molto sensata e mi auguro che chi di dovere ci metta mano quanto prima». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Se Sgarbi fa “risorgere” Cristo di Martina Zambon Padova, per la sua “Babele” il critico ritocca la foto del Papa con l’imam: “Al centro la Resurrezione”. Ma l’Osservatore Romano: “Provocazione per l’Islam” Padova. Dopo Toni Negri, il Cristo risorto di Perugino. La strada che conduce alla prima edizione di «Babele», festival letterario voluto dal sindaco di Padova, Massimo Bitonci, sembra essere una via crucis di polemiche. Rischi calcolati, d’altronde, se si decide di affidare la curatela al pirotecnico Vittorio Sgarbi. Il casus belli, questa volta, non è il nome di un ospite sgradito al sindaco patavino come nel caso dell’ideologo di Autonomia Operaia, bensì la scelta del critico d’arte di modificare con un fotomontaggio un’immagine dell’incontro fra papa Francesco e Ahmad al-Tayyib, grande imam della moschea di Al Azhar del Cairo. Sgarbi vorrebbe utilizzare il fotomontaggio che ritrae i due leader religiosi con, al centro, la Resurrezione di Cristo (quasi invisibile nell’originale) come manifesto di «Babele». Gli scatti, però, sono di proprietà de L’Osservatore Romano che ieri ha mosso alcune osservazioni al progetto, proprio riguardo alla presenza dell’opera del Perugino. «Il Cristo sarebbe troppo dominante – racconta il critico – e, secondo quanto ha risposto per iscritto L’Osservatore Romano , potrebbe apparire come una provocazione a favore del cristianesimo. Una posizione che farebbe dire a Oriana Fallaci, se fosse viva, che avendo perso ogni decoro non meritiamo di definirci cristiani o italiani». Tranchant come di consueto, Sgarbi difende strenuamente la sua posizione «nelle fotografie di un qualsiasi storico incontro fra un pontefice e i suoi ospiti nella Sala delle Udienze, il Cristo risorto campeggia dietro alla figura del Papa. In questo scatto, il dipinto risulta quasi completamente nascosto dalla figura dell’imam, lo si intravede sfocato. Si tratta di una bellissima immagine che dà il senso del dialogo fra le due religioni ma nel nostro manifesto quella cristiana appare come religione prevalente proprio grazie al reinserimento del dipinto al centro. All’Osservatore Romano sono più realisti del re... neppure Bitonci ha avuto nulla da ridire e ha inizialmente condiviso la mia scelta». Il Cristo da sfocare o da riportare al centro del manifesto di Babele appare quanto mai ignaro delle polemiche che lo portano agli onori della cronaca anziché nelle pagine di cultura. Ieratico, severo ma proteso verso i soldati addormentati (tutti tranne uno) ai piedi dal sepolcro aperto, dalla mandorla che lo incornicia insieme a due angeli sembra volgere lo sguardo sulle angustie terrene, un dito ammonitore alzato, nell’altra mano il vessillo con la croce. E un gioco di sguardi è proprio ciò che attrae nella foto scelta da Sgarbi: «il volto dell’imam è arguto, quasi strafottente mentre regge un libro, e di libri si occupa il festival “Babele”. Papa Francesco ha un’aria sorniona, intensa». Sgarbi parla di una «semiologia degli sguardi» ed è difficile dargli torto. Modificare lo scatto facendo campeggiare sull’asse centrale il Cristo in Mandorla del Perugino, quasi a dividere le due guide spirituali, fa sapere l’Osservatore Romano, è un altro paio di maniche, meglio essere prudenti. Sarà l’effetto Charlie Hebdo, sarà l’attenzione per i dettagli elevata ad arte in oltre duemila anni di storia diplomatica vaticana, fatto sta che dal quotidiano della Santa Sede è arrivato un fitto «papello», per dirla col critico ferrarese, che specifica la policy della testata sull’utilizzo di foto coperte da copyright. Da battaglia culturale, insomma, a bega da legulei. «Temevo che Bitonci considerasse la mia proposta eccessiva, - chiosa Sgarbi invece l’ha condivisa. Il paradosso di questa vicenda sono le osservazioni romane. Non resta che capire se Bitonci voglia rischiare e sposare il manifesto modificato o se si inserirà l’immagine originale così com’è. Confido in un’alzata di ingegno da parte del sindaco». Il primo cittadino, però, sceglie il pragmatismo: «È un’immagine interessante e l’abbiamo valutata insieme Sgarbi ed io ma pubblicheremo solo ciò per cui siamo autorizzati, la presenza del dipinto per me è quasi residuale, ciò che conta in quell’immagine è lo sguardo fra i due – spiega -. La manifestazione si intitola Babele e i due protagonisti, papa e imam, uno di fronte all’altro, suggeriscono la domanda che poniamo, ovvero se queste due culture parlino lingue talmente diverse da non potersi intendere, proprio come all’ombra della torre di Babele. Si tratta di uno dei filoni della nostra rassegna letteraria in cui inviteremo esponenti della cultura islamica che spieghino perché c’è una incompatibilità non facile, se non impossibile, da rimuovere fra le due culture». LA NUOVA Pag 1 Il Nordest snobbato da “Italia 4.0” di Stefano Micelli e Gianluca Toschi La scelta di escludere gli atenei del Nordest dal piano “Italia 4.0”, rivolto ai centri di ricerca e innovazione di eccellenza, ha suscitato molte polemiche. Un’area ad alta intensità manifatturiera corre il rischio di rimanere senza un “competence center” capace di accompagnare le imprese in quella che è stata ribattezzata la quarta rivoluzione industriale. Per un territorio che ha fatto della manifattura di qualità il suo punto di forza, si tratta di una scelta difficile da accettare e che merita di essere messa in discussione. È utile ricordare, prima di tutto, che il digital manifacturing, ovvero l’integrazione fra tecnologie e cultura del digitale e manifattura, non è una novità per le imprese italiane, né tantomeno per quelle del Nordest. Molte delle tecnologie di cui oggi parla la stampa specializzata (dalla stampa additiva al 3D scanning, dalla robotica al taglio laser fino alla sensoristica di nuova generazione) sono state integrate da tempo nelle imprese manifatturiere e non solo quelle di grandi dimensioni. Qualche statistica relativa alla loro diffusione rivela uno scenario poco noto. Per quanto riguarda la stampa 3D, ad esempio, un quarto delle imprese con un fatturato superiore ai 2 milioni di euro si è già confrontato con le sue potenzialità, in alcuni casi acquisendo la tecnologia «in house», in altri ricorrendo a service esterni. Tra le imprese del Nordest questa percentuale raggiunge il 34%. I numeri relativi all’utilizzo della robotica sono simili, anche se in questo caso le regioni del Nordovest mantengono un primato legato a specifiche specializzazioni settoriali. Le statistiche, inoltre, ci dicono che anche in settori maturi come quello dell’abbigliamento e della calzatura, particolarmente importanti nel Nordest, strumenti come il taglio laser sono ormai acquisiti in un’ampia quota di imprese. Il digitale, in altre parole, già oggi caratterizza i processi produttivi della nostra manifattura a conferma di uno sforzo di miglioramento costante della competitività delle nostre imprese. Certamente non è il caso di adagiarsi sugli allori. Le imprese italiane (e il Nordest non fa eccezione a riguardo) paiono avere le idee poco chiare rispetto a temi chiave come per esempio l’Internet delle cose (IoT), una delle frontiere più rilevanti nell’evoluzione del manifatturiero. I dati a disposizione ci dicono che più del 60% delle imprese italiane non ha intrapreso alcuna azione su questo terreno e che solamente l'8% sta testando il loro utilizzo. Siamo bravi nel ripensare i nostri processi produttivi, siamo meno abili nell'immaginare prodotti “intelligenti” di nuova generazione. Proprio su questi temi di frontiera è importante costruire un percorso di investimento in ricerca e sperimentazione: è fondamentale che le nostre imprese possano venire a contatto con le esperienze più innovative e possano mettere a punto nuove soluzioni di prodotto coerenti con le richieste della domanda internazionale. Ciò richiede nuove competenze tecnologiche, ma anche una nuova cultura del design così come rinnovati strumenti di management. Proprio su questi temi a cavallo fra tecnologia, design e management è fondamentale che si concentri un "competence center" in grado di accelerare e dare consistenza a un percorso avviato in questi anni che ha bisogno di essere sostenuto e sviluppato. È su questo terreno che avrebbe dovuto prendere piede un progetto di nuovo Politecnico per il Nordest; è su questi temi che si dovrà necessariamente confrontare il neonato Venice Innovation Hub collocato al Parco Scientifico Vega. Nel Nordest il dialogo fra impresa e università non è un fatto acquisito. I dati elaborati da Fondazione Nordest evidenziano che, per quanto riguarda l'accesso all'innovazione, gli interlocutori privilegiati dalle imprese sono i fornitori di tecnologie e solo in misura molto minore i parchi scientifici e le Università. Siamo lontani, insomma, dal poter contare su un ecosistema della conoscenza in grado di valorizzare soggetti diversi. Perché reclamare allora un “competence center” di rango nazionale? La posta in gioco non è l’orgoglio (peraltro legittimo) degli atenei del Veneto. Per il Nordest la scommessa riguarda la possibilità di salvaguardare e rinnovare le specificità e i punti di forza di un sistema manifatturiero che ha dato prova negli ultimi trent'anni di saper competere a livello globale e che oggi può rappresentare un traino straordinario per l'intero sistema paese. Perdere quest'occasione significa tradire questa specificità e questi forza rinunciando a contribuire alla crescita del paese nel suo insieme. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’autarchia non è una virtù di Angelo Panebianco Noi e gli altri Che cosa ha dato davvero fastidio a coloro che hanno contestato la «inammissibile ingerenza» (sic), le dichiarazioni dell’ambasciatore statunitense John Phillips sul nostro prossimo referendum costituzionale? Appare chiaro che ciò che ha più infastidito i protestatari erano le verità contenute in quel discorso. Se vince il No, ha detto l’ambasciatore, il segnale al resto del mondo, e ai mercati in particolare, sarà inequivocabile: l’Italia è irriformabile, non potrà mai guarire, non potrà mai liberarsi della sua cronica instabilità politica; è un Paese dal quale conviene stare alla larga. Ciò che ha detto l’ambasciatore, naturalmente, è ciò che pensano quelli che contano, ovunque, in Europa come negli Stati Uniti. Ma i protestatari fingono di non saperlo. È bastato poi che a sostegno del discorso di Phillips arrivasse la convergente valutazione dell’agenzia di rating Fitch, perché venisse subito denunciata, dai suddetti protestatari, la congiura dei «poteri forti». Perché dunque l’ovvietà (gli altri ci guardano, ci prendono le misure, e reagiscono alle nostre azioni) è così fastidiosa per tanti? Al di là delle polemiche contingenti, c’è un grumo opaco nella cultura politica nazionale, frutto di un mix di provincialismo e di superficialità. Possiamo definirlo «mentalità autarchica». La mentalità autarchica si manifesta in tre diverse maniere. In primo luogo, con una sorta di totale noncuranza per gli effetti delle nostre parole e dei nostri atti sul resto del mondo. Chi è afflitto da mentalità autarchica sembra pensare - nonostante tutto ciò che ci circonda, nonostante il web, persino - che una barriera invisibile impedisca a ciò che diciamo e facciamo di rimbalzare fuori dai confini nazionali e di influenzare così i giudizi degli altri su di noi (e le loro conseguenti azioni). Se una agenzia di rating gli ricorda che le cose non stanno affatto così, egli va su tutte le furie. Il secondo modo in cui si manifesta la mentalità autarchica consiste nel credere che dei legami con il resto del mondo ci si possa sbarazzare facilmente, e senza pagare alcun prezzo. Da qui proclami del tipo «usciamo dall’euro», innalziamo barriere protezioniste, eccetera. Non c’è nulla di nuovo o di originale, da questo punto di vista, nel Movimento Cinque Stelle: come fanno sempre tutti i movimenti estremisti, esso si limita ad esasperare tendenze (propensioni autarchiche) già presenti e radicate nel Paese. Il terzo e ultimo modo riguarda l’indisponibilità di tanti a guardare con un minimo di serietà, di attenzione e di rigore a ciò che accade nel resto del mondo: una forma di pigrizia e di provincialismo che viene gabellata per attaccamento alle nostre «specificità» culturali. Ad esempio, non c’è nulla di male se un artista, un comico, si inventa una fola sulla «Costituzione più bella del mondo». Ma c’è invece qualcosa di patologico, di viziato, di malato, se altri - che non fanno gli artisti di mestiere - ripetono un simile insulso slogan. Se non avesse fatto loro velo la mentalità autarchica, avrebbero potuto leggersi qualche altra costituzione democratica. Avrebbero così scoperto cose interessanti. Per esempio, che il bicameralismo paritetico non serve affatto al cosiddetto «equilibrio dei poteri». Serve solo a garantire la debolezza, la ricattabilità e l’instabilità dei governi. Sempre a proposito di propensioni autarchiche, pensate a quelli che si sono inventati «Mafia Capitale», che hanno cioè proclamato urbi et orbi, hanno gridato di fronte al mondo, che Roma è mafia. La mentalità autarchica non ha permesso loro di capire che dichiarare la Capitale del Paese città mafiosa significava dire al mondo - al mondo intero - che tutti noi (ivi compresi quelli che usano l’espressione Mafia Capitale) siamo una congrega di mafiosi. Potrebbero poi apparire ridicole - ma sono solo penose - le reazioni scandalizzate quando Charlie Hebdo o il dittatore turco Erdogan assimilano Italia e mafia. Essi si limitano ad usare gli argomenti che noi abbiamo fabbricato (e diffuso in giro per il mondo) allo scopo di colpire noi stessi. Gli autarchici si rassegnino. Non c’è nessuno scudo spaziale a proteggerci o, se c’era, è disattivato da decenni. Non si scappa: gli altri ci vedono, ci ascoltano, ci giudicano e, quando facciamo i furbi, ci colpiscono. Pag 1 La scomparsa di Emanuela Orlandi: un mistero con troppe falsità di Gian Antonio Stella «Di sicuro c’è solo che è sparita», potrebbe titolare il grande Arrigo Benedetti parafrasando la celeberrima pagina sulla morte di Salvatore Giuliano. E Tommaso Besozzi potrebbe ripetere oggi le stesse identiche domande: «Chi è stato a tradirla? Dove è stata uccisa? Come? E quando?».Perché questo è il punto: la «verità» sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, ammesso che sia stata ricercata davvero, non c’è. Meglio, una verità esiste senz’altro. Reale. Dura. Tragica, con ogni probabilità. Sicuramente occultata da chi temeva e teme scoperte scomode. E va capito anche Pietro Orlandi. Contro l’archiviazione dell’inchiesta sulla sparizione della sorella e di Mirella Gregori, decisa da Giuseppe Pignatone (con il dissenso di Giancarlo Capaldo), si appella a Sergio Mattarella perché le indagini vadano avanti e contesta «la mancanza di collaborazione da parte dello Stato Vaticano» di cui Emanuela era cittadina ricordando le parole di un inquirente: «Un diaframma frapposto tra lo Stato italiano e la Santa Sede». Ma dopo tanti anni e tante «rivelazioni» e tanti «scoop» e tanti depistaggi, aveva senso prendere una fanghiglia di fatti veri, verbali, ipotesi, voci, confessioni, sussurri e impastarla per costruire una tesi? Mah... Più serio, forse, mettere in fila, una dopo l’altra, le cose certe. Le carte processuali. I ricordi fissati nelle deposizioni prima che la memoria li annebbiasse. Lasciando intatti i dubbi. Tanti. Troppi. La verità sta in cielo , il nuovo film di Roberto Faenza nelle sale dal prossimo 6 ottobre prodotto da Elda Ferri, Jean Vigo Italia e Rai Cinema, vuol essere appunto questo. La ricostruzione passo passo, romanzata quel tanto che basta ma ancorata sempre a date ed episodi accertati, di una storia che da trentatré interminabili anni toglie il sonno non solo alla famiglia della quindicenne romana scomparsa nel nulla, con la sua t-shirt bianca, la borsa di pelle e la custodia del flauto, la sera del 22 giugno 1983, ma a tutti gli italiani. La trama di partenza è semplice: la reporter di origine italiana Maria (Maya Sansa) viene inviata da una tivù inglese a Roma per ricostruire tutto dal principio. Nella scia di Mafia Capitale. Intorno, tutti i personaggi d’obbligo come sono usciti da tre decenni di cronache. C’è Enrico De Pedis (Riccardo Scamarcio), il «Renatino» della banda della Magliana che finirà ucciso e sepolto con tutti gli onori in una cripta di Sant’Apollinare. C’è l’amante Sabrina Minardi (Greta Scarano), l’ex moglie del calciatore Bruno Giordano destinata ad abbruttirsi con sesso, alcool e droga dopo essere stata travolta da Renatino con una grandinata di banconote: «Ce stanno centoventi o centrotrenta milioni qua dentro, voglio che li spendi tutti!». C’è Raffaella Notariale (Valentina Lodovini), l’«inviata di un noto programma televisivo italiano», identificabile con Chi l’ha visto?, che per prima riesce ad agganciare Sabrina permettendo di avanzare una serie di ipotesi sulla sparizione della ragazzina. C’è il cardinale Paul Casimir Marcinkus detto «Chink» (Randall Paul), il potentissimo arcivescovo nato a Chicago dalle parti di Al Capone e salito su su fino ai vertici dello Ior. C’è Pietro Orlandi, che interpreta se stesso, non smette di dar battaglia per capire cosa è successo a Emanuela e offre la chiave del titolo raccontando che papa Francesco, a lui e alla madre, ha sussurrato con un sospiro: «Lei è in cielo». Cosa sia successo resta un grande e tragico mistero. Via via cresciuto, di anno in anno, col sovrapporsi di nuovi dettagli. Sconcertanti. Come la Bmw di colore scuro che all’inizio del film scompare dietro l’angolo proprio mentre sparisce Emanuela e una uguale che riappare (è la stessa? è un’altra? è sempre rimasta lì?) nei parcheggi di Villa Borghese tredici anni dopo, lasciando il dubbio sia quella usata secondo Sabrina Minardi da «Renatino» («Bibì, quello che hai visto non l’hai visto, chiaro?») per disfarsi della ragazza. E poi la misteriosa comparsa di un flauto che potrebbe essere di Emanuela fatto ritrovare da un personaggio inquietante che si autodenuncia del sequestro. E l’appuntamento dato alla reporter Maria da un certo «padre Albert, della Penitenzieria Apostolica» che sul caso di Emanuela promette rivelazioni: «Come certamente sa, dopo la chiusura delle indagini da parte della Procura di Roma, la Chiesa è stata investita da numerose critiche, quasi fossimo noi a voler tacitare l’inchiesta... Siamo invece proprio noi ad avere scoperto una nuova traccia...». Cioè? «Abbiamo ricevuto una confessione...». Finché la cronista si ripresenta all’ora fissata. E scopre che il «padre Albert, della Penitenzieria Apostolica» esiste sì, ma è un altro. E poi ancora la richiesta di arresto e di estradizione di Marcinkus per quattordici milioni di dollari falsi inutilmente consegnata da due funzionari del Dipartimento di Giustizia e dal detective Richard Tammaro dell’Fbi arrivati apposta dall’America e liquidati con poche righe di risposta: «Monsignor Marcinkus gode del diritto di extraterritorialità, garantita dallo Stato del Vaticano. Non consentiamo pertanto né al suo interrogatorio, né alla sua estradizione». E tutto intorno rivelazioni vere o false sui finanziamenti a Solidarnosc e i giochi oscuri di Ali Agca, i Lupi Grigi turchi e le ambiguità del funzionario della Stasi Markus Wolf e poi ancora le ricerche di «un virus letale e una micropsia nella statuetta sacra di Casaroli» e l’appartamento della vedova di «Renatino» Carla Di Giovanni posizionato giusto in faccia a quello di Giulio Andreotti a San Lorenzo in Lucina... Una giostra impazzita di rivelazioni vere e rivelazioni false. Così difficili da decifrare da costringere gli autori de «La verità sta in cielo» a mobilitare nove avvocati (nove!) per controllare una per una le fonti, le tesi, le frasi, le virgole... Per poi procedere faticosamente, tra sorprese amare, arretramenti e colpi di scena, alla ricerca della «verità». Verrà mai accertata? Chissà. In ogni caso, vale la pena di rileggere Albert Einstein: «È difficile sapere cosa sia la verità, ma a volte è facile riconoscere una falsità». E su Emanuela Orlandi di falsità, negli anni, ne abbiamo viste davvero troppe... Pag 26 Quel diritto all’oblio e gli sciacalli digitali di Caterina Malavenda Quanti giorni ancora dureranno, prima di affondare nel silenzio, lo stupore, l’indignazione e la pietà, quasi ostentati in questi giorni da opinionisti, giuristi e (per la verità non molti) politici, per la drammatica e definitiva scelta di Tiziana? E saranno più longevi gli sciacalli che ancora oggi, sulle spoglie della loro vittima, imbastiscono macabri scherzi, pur di esserci ancora e poter prolungare una notorietà che fa ribrezzo? Domani è un altro giorno, saranno certamente diffusi nuovi video virali e ci saranno altre vittime più o meno consapevoli: spesso, infatti, è chi subisce la gogna ad averla generata, affidando alla Rete, con incredibile leggerezza, immagini che non sarà più possibile eliminare dalla realtà virtuale perché, come ha detto con disarmante sincerità il Garante, che pure dovrebbe assicurarla, la tutela di una persona che finisce sul web è praticamente impossibile, per mancanza di strumenti efficaci. Questo, mentre viene rimossa, con un semplice clic, la foto della «Napalm girl», la bambina vietnamita che corre nuda e piangente, dopo esser stata investita dal napalm, pedopornografica per l’algoritmo - peggio fosse stato un uomo in carne ed ossa! - di Facebook, premiata con il Pulitzer per la sua evidente forza dirompente e ripristinata solo dopo forti ed autorevoli proteste. E mentre, con la stessa agile semplicità, grazie anche a sentenze poco lungimiranti o utilizzate a sproposito, un terrorista conclamato può chiedere ed ottenere, se nessuno se ne accorge, da siti e motori di ricerca la rimozione di tutte le notizie che lo riguardano; un imputato, ancora sotto processo, può esigere la eliminazione degli articoli che si sono occupati di lui; un politico può pretendere che si cancelli il suo passato criminale, così di fatto azzerando la memoria un po’ per volta. Figli e figliastri, dunque, certo a causa delle diverse modalità di circolazione di informazioni e dati che la Rete offre, ma anche per un certo disinteresse di fondo, specie se la vittima non è famosa - a chi interessa davvero, fino a che è viva, una oscura ragazza di provincia in preda al panico ed all’umiliazione? - unito ad un senso di impotenza, capace di smorzare anche gli slanci investigativi più ostinati, a causa della inadeguatezza degli strumenti approntati, compreso quello penale. In realtà, l’immissione in Rete di dati personali, specie se sensibili - e quelli sessuali ovviamente lo sono - senza consenso, è condotta illecita che può essere perseguita e bloccata subito, ma solo entro i confini nazionali, salvo improbabili ed inutili rogatorie all’estero. E non è certo il diritto all’oblio, di cui molto e non sempre a proposito si parla, la panacea di tutti i mali. Non codificato in Italia e riconosciuto a livello europeo, dal nuovo regolamento comunitario sulla protezione dei dati (Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016) garantisce al protagonista di passate vicende non encomiabili il diritto di essere dimenticato, quando la funzione informativa si è esaurita, anche mediante la rimozione di tutte le notizie che lo riguardano, se oramai prive di interesse pubblico. Non era l’oblio, dunque, che cercava Tiziana, ma voleva sparire dalla Rete, del tutto e per sempre e dimenticare quelle immagini che l’avevano esposta al pubblico ludibrio: non ce l’ha fatta. Ci sarà una prossima volta e torneremo ancora ed inutilmente a stracciarci le vesti, ad immaginare improbabili leggi e forme di educazione massiva di coloro che, nativi digitali, vivono in Rete, ci si trovano benissimo, al punto da considerare i ventilati interventi normativi un attentato alla libertà ai tempi di Internet e l’oblio un concetto estraneo e persino eretico, sempre che non li riguardi personalmente. LA REPUBBLICA Pag 1 L’altra destra di Parisi di Stefano Folli Stefano Parisi può cerchiare la data sul calendario perché oggi comincia la sua missione politica. Finora ha svolto un certo lavoro preparatorio, ma adesso le suggestioni non sono più sufficienti. E si capisce perché. L'elenco delle priorità per l’uomo nuovo della destra moderata è così lungo da apparire sotto vari aspetti contraddittorio. In pratica si tratta di recuperare alcuni milioni di elettori smarriti; costruire un rapporto non subordinato con la Lega; evitare di infilarsi in una guerriglia permanente con quel che resta della "nomenklatura" di Forza Italia. E soprattutto convincere gli italiani che il centrodestra sta definendo una rinnovata e autentica leadership, non solo la prosecuzione del berlusconismo con un altro nome (ma il vecchio leader dietro le quinte in questa fase è essenziale). Ognuno di questi punti richiede tempo, freschezza ideale e una buona organizzazione. Sono note le qualità di Parisi, un "manager" che conosce la politica e le sue regole. Ma lui è il primo a sapere che non siamo più nel 1994, quando il crollo del sistema permise a un abile imprenditore delle televisioni di presentarsi come il leader liberale che in realtà non vorrà né saprà mai essere. Il buon senso e il pragmatismo di Parisi sono doti preziose, ma oggi rimettere in piedi un'area politica distrutta è un compito immane. Non basta avere qualche buona idea in politica interna e internazionale. Bisogna avere la tempra per fare e vincere una serie di battaglie realmente liberali, senza paura di scontentare - quando è il caso - intere categorie di elettori e di intaccare sacche di privilegio consolidato. Nessuno infatti può credere che quei dieci milioni di voti che Parisi vuole ritrovare siano tutti di liberali delusi. Ed è meglio non illudersi che la futura alleanza con Salvini, a cui offrire magari un rilancio del federalismo, sia un affare semplice, al di là dell'opportunismo. In fondo Berlusconi ha sempre giustificato il proprio fallimento accusando le resistenze di vari soggetti: i suoi stessi alleati, in primo luogo, poi le istituzioni e la cultura post-comunista diffusa. Oggi gli alibi sono finiti da un pezzo e Parisi dovrà percorrere una strada diversa. Non potrà essere l'interprete di una spinta anti-sistema poiché lo spazio è già occupato dai Cinque Stelle. E anche perché non sarebbe la sua parte, essendo egli un uomo dell' establishment, votato a restituire credibilità al centrodestra agli occhi dell'opinione pubblica, sì, ma anche rispetto ai centri economici e alle cancellerie occidentali. Non a caso i suoi nemici interni - non sono pochi - lo hanno criticato perché nelle scorse settimane si è ben guardato dal criticare Angela Merkel ed è rifuggito dai soliti schemi anti-Unione. Invece ha detto che i problemi del Paese dipendono dagli italiani e non dalle congiure tedesche. Sarebbe strano se avesse fatto il contrario, visto che Forza Italia è parte integrante del Partito popolare europeo e Parisi, avversario del populismo, vuole irrobustire, non indebolire questa presenza. Di qui derivano una serie di conseguenze. Ad esempio, è chiaro che nella nuova, possibile alleanza sarà assegnato alla Lega un ruolo di fatto gregario. E Salvini dovrà riflettere a fondo prima di rifiutare, considerato che gli ultimi sondaggi indicano un regresso leghista: circa due o tre punti al di sotto del massimo storico. Ma la prova più ardua che attende a breve termine Parisi riguarda, come è ovvio, il rapporto con Renzi e quindi la posizione sul referendum e la legge elettorale. Ora il No è stato affermato con una certa decisione, dopo varie titubanze, ma resta da capire se il leader designato riuscirà a mettere ordine nel caos del centrodestra dove solo pochi (Brunetta fra tutti) si sono battuti fin qui contro la riforma renziana. Anche sulla legge elettorale Parisi dovrà prendere una linea, anziché limitarsi a lasciare la palla nel campo di Renzi per vedere come se la cava. Non basta dire che non si faranno accordi sottobanco con il presidente del Consiglio. Dopo il referendum il quadro cambierà in modo radicale a seconda che il premier esca vittorioso o sconfitto dalle urne. Pag 29 “La Chiesa non deve pagare la vecchia Ici” di Alberto D’Argenio Il Tribunale europeo conferma la scelta dell’Italia, che decise di rinunciare a incassare 5 miliardi dal Vaticano Roma. Per i Radicali voleva essere un regalo postumo a Marco Pannella. Ma il Tribunale Ue del Lussemburgo non ha dato ragione al loro ricorso contro le agevolazioni fiscali agli enti ecclesiastici. Dopo anni di battaglie, la sentenza emessa ieri in primo grado dai giudici comunitari salva la Chiesa da un conto salato: fino a cinque miliardi di euro. Nel 2012 la Commissione condannò l' Italia per aiuti di Stato illegali in favore degli enti ecclesiastici in quanto gli sgravi di cui godevano cliniche, alberghi, scuole e altre attività commerciali legate al mondo cattolico distorcevano la concorrenza danneggiando i loro competitori, che le tasse le pagavano. Tuttavia Bruxelles a sorpresa non decretò il recupero dell'imposta sugli immobili, l'Ici, non pagata dal 2008 abbracciando la tesi del ministero dell'Economia per il quale era impossibile stabilire quanto e chi dovesse mettere mano al portafoglio. Stime dell'Anci alla mano, un buco per le casse dello Stato da 4-5 miliardi. Il contenzioso con la Commissione fu quindi chiuso con le nuove regole istituite da Monti alla nascita dell'Imu, imposta che secondo la Ue metteva fine agli aiuti di Stato. Altro punto messo in discussione dai Radicali, secondo i quali invece le regole dell' Imu per gli enti non commerciali continuano a regalare un vantaggio competitivo alla Chiesa di circa 500 milioni all'anno, così come la norma firmata Tremonti che concede alle attività commerciali cattoliche uno sconto sull'Ires di 100-150 milioni l'anno. Questi i quesiti dei due ricorsi promossi dall'ex deputato Maurizio Turco e dal fiscalista Carlo Pontesilli per conto di una scuola Montessori romana e di un bed&breakfast laziale. Con lo Stato italiano che nella causa si è schierato a fianco della Commissione, dunque contrario a chiedere indietro i soldi non pagati. Nel merito i quesiti del ricorso sono stati bocciati con la formula: i ricorrenti «non sono riusciti a dimostrare» le loro tesi. Il Tribunale una svolta comunque l'ha data dichiarando ricevibile il ricorso e per i giuristi si tratta una decisione rivoluzionaria in quanto allarga la platea di chi può mettere in discussione le decisioni della Commissione. Un atteggiamento però, via libera processuale e bocciatura nel merito, che porta i ricorrenti a parlare quanto meno di «fatti straordinari». Ma proprio il riconoscimento in primo grado dell'ammissibilità della causa apre le porte all' appello in Corte di giustizia europea che Turco e Pontesilli hanno annunciato ieri. AVVENIRE Pag 2 La forza di quei giovani passati sui campi minati della vita di Massimiliano Castellani Gli sportivi, le medaglie e la lezione delle Paralimpiadi Il 14 settembre 2016, d’ora in avanti, dovrebbe essere inserito nel nostro calendario come il “giorno di grazia” dello sport italiano. La beatificazione degli atleti paralimpici azzurri: quelli che hanno vinto l’oro, cinque, quelli che sono saliti sul podio, otto, ma anche di quelli che non ce l’hanno fatta e magari non ce la faranno mai, e che però restano comunque esseri speciali, di cui fidarsi ad occhi chiusi. La loro specialità non sta nella disciplina che praticano e che li ha portati fino alle Paralimpiadi di Rio. L’essere “speciale” sta nel saper affrontare la vita con la consapevolezza che i propri limiti e le residue facoltà fisiche di cui dispone l’atleta paralimpico sono un patrimonio a disposizione della società, tutta. “Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa”, ha raccontato spesso Alex Zanardi dopo l’incidente che gli capitò nella sua “prima vita” di pilota. Ogni atleta è passato per un tragico campo minato in cui ciò che non l’ha ucciso l’ha reso più forte. Per ognuno di loro c’è stato “un primo e un secondo tempo”, così come Bebe Vio vede la sua esistenza “prima e dopo la meningite”. La specialità non sta solo nel saper lenire e combattere il male fisico quotidiano, la paura e l’incapacità di superare gli ostacoli e quelle barriere che la società gli (ci) piazza davanti incivilmente, ma nella capacità di ricostruirsi e di ridare un senso al proprio viaggio. Speciale è colui che sa ancora approdare, con fatica e con coraggio, in un’oasi, uno spazio anche minimo di normalità. E quello che per gli atleti diventa la pedana di una palestra, una pista d’atletica o la piscina dell’ultimo paese di provincia in cui un sindaco illuminato ha capito che è bello investire nello sport olimpico, ma che è straordinario credere e incentivare quello paralimpico. Esistono ancora realtà, specie nelle aree metropolitane, in cui le barriere architettoniche restano montagne invalicabili e non solo per i disabili, ma anche per i bambini e gli anziani. Quando il presidente del Comitato paralimpico italiano, Luca Pancalli, parla di “quel pezzo di welfare che può produrre lo sport paralimpico”, non lancia uno slogan politico e nemmeno una strizzatina d’occhio ai Giochi olimpici e paralimpici di Roma 2024, ma un invito a credere in quella che, a Rio, anche il premier Matteo Renzi ha chiamato la “squadra Paese”. Uno dei fini nobili della politica è proprio far sentire i suoi cittadini tutti di serie A, tutti appartenenti allo stesso collettivo. Lo sport da parte sua ci mette le facce degli atleti, regala storie edificanti ed esemplari come quelle che stiamo raccontando e apprendendo dalle Paralimpiadi di Rio. Dietro ogni singola impresa sportiva c’è un piccolo grande riscatto, un successo ottenuto prima di tutto contro l’indifferenza e la solitudine che sono le due peggiori avversarie – purtroppo ancora forti – dell’inclusione sociale e della piena integrazione delle persone con una diversa abilità. Uomini e donne, ragazzi e ragazze che si sono rimessi in gioco, hanno accettato la sfida e chiedono soltanto di essere seguiti, di ricevere il nostro tifo, il nostro calore umano. E se possibile non solo ogni quattro anni, ma ogni giorno, specie in quelli bui in cui la malattia e il male di vivere si ripresentano e chiedono indietro le medaglie vinte e i momenti di gloria vissuti. “Alla fine lo sport, tutto lo sport, è questo. Guardare qualcuno che ottiene un grande risultato significa entrare nel percorso che l’ha portato ogni giorno a mettersi in gioco e fare il meglio che poteva”, ha detto ancora Alex Zanardi, che dal giorno in cui è salito sulla sua bici e ha cominciato la nuova avventura nell’handbike si è fatto portatore sano del “desiderio”. La spinta per andare al passo con gli altri, e non necessariamente andare più forte. Nel guardare il sorriso e gli occhi scintillanti di ognuno dei nostri medagliati non c’è solo l’ammirazione verso il campione, ma la condivisione per un percorso di cui ci dobbiamo sentire sempre più partecipi. Nel vedere il loro “desiderio” realizzato ci scappa anche una lacrima di gioia, specie quando la piccola grande Bebe Vio ci manda a dire che “lo sport è terapia. Rimani quello che sei e segui la strada buona”. Pag 4 Non è solo un incidente Saranno le indagini e poi il processo a stabilire qual è l’esatta verità sulla morte di Abd Elsalam, il lavoratore egiziano investito da un Tir durante un presidio davanti ai cancelli della Gls di Piacenza, presso cui lavorava, impiegato da una ditta in appalto. Per il momento contrastano le versioni fornite, da un lato, dal sindacato di base e dai compagni presenti al fatto, dall’altro la ricostruzione subito offerta dalla Procura. Che è sembrata voler chiudere il caso sul nascere, forse preoccupata da motivi di ordine pubblico, suscitando però qualche perplessità. Abd Elsalam – da 14 anni nel nostro Paese per lavorare – la moglie, i suoi 5 figli e tutti noi meritiamo qualcosa di più, abbiamo il diritto quantomeno che tutte le ipotesi siano vagliate a fondo e che la vicenda non venga ridotta a un banale incidente stradale, come invece è sembrato ieri. Perché se anche venisse appurato che effettivamente l’investimento è frutto solo ed esclusivamente di movimenti e manovre errati, è innegabile che questa 'fatalità' sia stata favorita da una brutta tensione sociale. Agghiacciante, ieri, è stato il silenzio delle aziende coinvolte, che non hanno saputo trovare neppure una parola pubblica di dolore e compassione per il lavoratore morto. Come fosse un incidente, appunto. Solo un incidente pure lui. Pag 13 Salviamo Aleppo, Sarajevo del Duemila di Andrea Riccardi Città simbolo della convivenza tra religioni, cerniera storica tra Asia e Occidente, scrigno d’arte tutelato dall’Unesco: ma l’abbiamo lasciata distruggere Ho conosciuto la guerra da vicino a trentadue anni in Libano, vedendone il volto orribile: distruzioni, impazzimento… a Beirut nel 1982. Ricordo una Beirut distrutta, sventrata, con i palazzi crivellati. Ricordo la vallata della Bekaa, piena di miliziani. Un’impressione forte facevano i campi-profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Qui i kataeb, miliziani della Falange, fondata da Pierre Gemayel, cristianolibanesi, uccisero i palestinesi, distruggendo con i bulldozer le povere casette provvisorie: gli israeliani, che guardavano a non molti metri, avevano dato l’assenso. La mattanza durò dal 16 al 18 settembre 1982. Ci furono dai 700 ai 3.500 morti. Vidi le donne e i bambini celebrare quel lutto tra le rovine. Mi colpì vedere, sul muro di una casetta sventrata, alcune piccole immagini cristiane. Lì c’erano palestinesi cristiani tra la maggioranza sunnita. I falangisti libanesi li avevano colpiti ugualmente. Eppure, allora, in Libano si parlava di guerra di religione: islam contro cristianesimo. Il che è avvenuto in modo crescente successivamente, tanto che oggi stentiamo a dubitare che le religioni facciano la guerra o addirittura ne siano il principale motore. Ha ragione papa Francesco che, quasi con brutalità, ha ricordato: «Quando parlo di guerra, ne parlo sul serio, ma non si tratta di un conflitto religioso perché tutte le religioni vogliono la pace. Qui si tratta di guerre fatte per interessi, soldi, risorse, dominio di popoli». Non era guerra di religione a Sabra e Shatila. In tanti conflitti dubito sull’esistenza di guerre di religione, anche se dobbiamo essere attenti alla dimensione religiosa della guerra, della pace e della vita: attenti a sottrarla a una logica perversa. Un’idea si è sfaldata nel secondo decennio del Duemila: le guerre loro e la nostra pace. Parlerò di una storia concreta, la Siria, che marca il nostro decennio; si è combattuta una guerra sanguinosa dal 2011: 273.000 morti, di cui 75.500 civili. Per altri il doppio dei morti. I calcoli delle stragi e delle guerre sono difficili. Metà dei siriani oggi sono sfollati. Quasi sei milioni all’estero: il 45% dei rifugiati è in Turchia e solo il 15% sono arrivati in Europa. C’è poi un mondo di scomparsi: 20.000 nelle prigioni di Assad, su cui abbiamo agghiaccianti testimonianze; 5000 sequestrati da Daesh; 2000 governativi nelle mani delle fazioni ribelli e 6000 dispersi. Un Paese distrutto. In 5 anni di guerra si è distrutto qualcosa che non può essere ricostruito: non solo la vita degli scomparsi, ma l’esistenza dei sopravvissuti. Basti l’esempio dei 13.600 bambini uccisi, un settimo delle vittime nel conflitto. Molti piccoli sopravvissuti non vanno a scuola da tempo. Scrive Miguel Benasayag: la «categoria dell’infanzia è in via di dissolversi». I bambini sono vittime della guerra più degli adulti. Durante l’assedio di Aleppo ben 130.000 bambini erano a rischio per fame e assenza di medicine – ha denunziato l’Unicef. Nel 2014 avevo lanciato un appello Save Aleppo, per una 'città aperta' con una tregua. Bisognava salvare Aleppo per quello che significava. Aleppo, con le stratificazioni della storia, rappresenta la città del vivere insieme. È un crocevia, una sutura tra Asia e Mediterraneo. Un passaggio decisivo sulla Via della Seta tra l’impero cinese e quello romano. La tradizione vuole che Abramo – figura cui ebrei, cristiani e musulmani si riferiscono – abbia soggiornato nella collina della cittadella (ora gravemente danneggiata). L’Unesco, nel 1986, dichiarava Aleppo 'patrimonio dell’umanità'. La stratificazione della convivenza si rifletteva in un tessuto urbano in cui monumenti e case storiche erano al centro di un reticolo di vita. Non intendo dare un’immagine mitica. La città metteva insieme gente diversa con una levigata sapienza. Aleppo è stata rifugio per i resti delle bufere della storia. Qui, nel 1915, approdarono i deportati armeni. Aleppo era un laboratorio di vita comune, forgiato nei secoli, anche se il regime di Assad era duro e occhiuto. Solo gli ebrei erano stati mandati via in larga parte fin dal 1947 con il nazionalismo antisemita arabo e la nascita dello Stato d’Israele. La qualità di vita delle minoranze è un indicatore di pace. La cultura aleppina era frutto di contaminazioni. Ad Aleppo, cristiani e musulmani vivevano bene: si visitavano per le feste e lavoravano insieme. Ho conosciuto bene il clima umano di questa città impregnata di cultura e mercato. La sua convivenza era risposta e proposta a un mondo che s’interroga su come vivranno in pace i fedeli delle due religioni. Uno dei grandi problemi della pace è ancorare robustamente le religioni a una pratica pacifica, perché non siano travolte nella legittimazione dell’odio. I cristiani erano 300.000 ad Aleppo, terza città cristiana del mondo arabo. Greco-cattolici ortodossi, siriaci, protestanti e altre denominazioni. Molte chiese, un quartiere cristiano. Ricordo un vescovo siriaco, Mar Gregorios Ibrahim, la cui famiglia fuggì i turchi da Mardin nel 1920 in Siria, nella Jazira. Gregorios, nominato vescovo ad Aleppo, era mio amico, uomo di relazioni con i musulmani, lo Stato e tanti altri. Quando si combatteva attorno alla città, uscì con il vescovo ortodosso forse per riscattare alcuni correligionari rapiti. Non sono più tornati dal 2013. Tra il 1992 e il 1996, l’assedio di Sarajevo fu un simbolo. Morirono 12.000 persone. Non voglio fare contabilità tristi, ma ad Aleppo ne sono morte molte di più. Aleppo è la Sarajevo del Duemila. Ma non c’è stata mobilitazione. Ci contentiamo di salvare la nostra pace, difendendoci dagli sbarchi. Impossibile: quella guerra travolgerà anche noi. Non si poteva salvare Aleppo? Aver profanato un patrimonio dell’umanità mostra la barbarie dei combattenti e l’irresponsabilità della comunità internazionale. Si doveva trovare subito il filo della tregua che ora vede Russia e Stati Uniti assieme. Le rovine di Aleppo, città fantasma con gli scheletri dei palazzi, tra cui vive ancora la gente, sono un atto di accusa. Aleppo è stata stretta da un duplice assedio: i ribelli (tra cui Al Nusra legata a Al Qaeda – ora Abhat Fatah Al-Sham) alla città vecchia dov’erano rifugiati i cristiani; quello alla parte dei ribelli, abitata da 300.000 musulmani, assediati da Assad, hezbollah libanesi e iraniani. Barili-bomba siriani su questa parte, missili sull’altra. Una coraggiosa giornalista, Francesca Borri, ha scritto: «È una guerra del secolo scorso, la guerra di Aleppo, è una guerra di trincea combattuta a colpi di fucile. Ribelli e lealisti sono così vicini che s’insultano mentre si sparano – al fronte, la prima volta non ci credi: queste baionette pensavi che non si usassero più dai tempi di Napoleone, oggi che la guerra si fa con i droni. Invece qui si combatte metro a metro, con quella lama legata alla canna e cariata di sangue, perché è davvero una battaglia corpo a corpo, i cani randagi fuori si contendono un osso di tibia. Anche se non sono che pretoriani di un impero di morte». Guerra incistata tra le macerie. Washington Post parla anche di una «miniguerra mondiale». È un game pericoloso – si pensi all’aereo russo abbattuto dai turchi –, che rischia innalzamenti di tensione. Nessuno ha avuto interesse a salvare Aleppo. Non i 'ribelli', che occupano la parte della città attaccata. Daesh, per mesi, è stata ebbra della proclamazione del califfato né – mi pare – le vite umane abbiano valore nella sua visione totalitaria. Il mondo dell’opposizione, frantumato in conflitti, non ha colto come salvare Aleppo fosse segno di maturità. Non interessava a chi ha creduto di guadagnare con il caos, come Turchia o Arabia Saudita o Qatar. Dispiace dirlo. Non va assolto il governo di Damasco, che – con tante crudeltà – s’è squalificato bombardando il suo popolo. Per molti, con alcune ragioni, Assad è il male minore. Ma è il male! Quanto scialo di tempo e di vite umane, avvenuto per il fanatismo di alcuni e il perseguimento cinico dell’interesse di troppi! È mancato un coraggioso realismo della pace, capace di comporre i di- versi interessi, ma con lo scopo prevalente della sopravvivenza di Aleppo: l’interesse dei viventi e di una città simbolo. Pur di non trattare con i russi, americani e occidentali hanno confidato su forze divise, radicalizzate, trasformiste, anche se non sono mancati combattenti per la libertà come molti curdi. Bisognava negoziare presto! Non si è voluto capire che – con la guerra – tutto era perduto. Le rovine di Aleppo testimoniano come settarismo, idiozia di potenti e cinismo abbiano perso per sempre la città del vivere insieme. Forse alcuni saranno contenti. Salvare Aleppo poteva essere una battaglia di civiltà. Voleva dire: abbiamo capito cos’è la pace! Negli anni Novanta, con la Comunità di Sant’Egidio, sono stato mediatore nel conflitto civile in Mozambico, auspice il governo italiano: più di due anni di negoziati. Alla fine la mediazione, che non aveva alcun interesse di parte, ha fatto prevalere la domanda di pace che veniva da un popolo di 13 milioni di abitanti, ridotto allo stremo, coinvolgendo la comunità internazionale. Una storia di successo. Allora era un altro mondo. Oggi, in quello globale, l’instabilità dei conflitti si comunica, mentre si aggrovigliano politiche e interferenze tipiche di un mondo multipolare. Oltre al bipolarismo russo-americano, tanti Stati possono aiutare la guerra, ma non riescono a fare la pace. Le opinioni pubbliche sono distratte nell’impotenza. Nel settembre 2013, per un momento, Francesco risvegliò il mondo, chiedendo non si bombardasse la Siria. E non avvenne! Bisogna risvegliare la gente sul tema della guerra. Nella guerra globale di Siria, abbiamo visto i governi prigionieri di cinismo e tatticismo. Nel confronto con essa, ricomprendiamo il valore della pace nel XXI secolo. La pace concreta deve ridiventare un tema d’interesse in una società conflittiva, non fosse per l’educazione alla sfida quotidiana della competizione. Deve risorgere l’interesse per la pace. Senza un movimento per la pace, questa non sarà raggiungibile con i rituali della diplomazia multipolare. Per costruirla, bisogna ripartire dalle situazioni di guerra: senza accettarla più, anche se con realismo. I cittadini d’Europa possono far molto, utilizzando la pace di cui godiamo e la possibilità di pressione e comunicazione. Ha scritto Bauman: «La fitta rete di interdipendenze ci rende tutti oggettivamente responsabili delle sofferenze altrui». Internet è veicolo di attrazione alla violenza: un movimento di pace può servirsi degli stessi strumenti. Spero in un nuovo protagonismo civile sullo scenario internazionale. Tra l’altro, lo scenario internazionale e nazional-locale non sono così lontani. Agire per la pace ha una presa locale, nel mondo delle periferie urbane e nella realtà frammentata della società. Qui c’è una grande sfida, che il terrorismo ha colto: incanalare la radicalizzazione delle giovani generazioni (specie musulmane) contro le violenze. Qui bisogna ricreare tessuto umano e comunitario in società e periferie troppo conflittuali, atomizzate. L’integrazione, ad esempio, è una sfida di pace, anche se ancora aspettiamo una legge sulla cittadinanza ai figli d’immigrati. Non è che un aspetto di un’azione che deve riprendere nella società e sugli scenari del mondo. La città, i singoli hanno nuove possibilità nel mondo globale. Noi abbiamo la pace, da non consumare in una specie d’isolazionismo impotente. Le grandi catastrofi possono mettere in movimento le coscienze. La nostra pace è una chance, non un salvagente cui aggrapparsi. IL GAZZETTINO Pag 1 Rete e privacy, quei divieti necessari di Sebastiano Maffettone Non tutto quello che si può fare si deve fare. Questa è la legge principale che regola i rapporti tra progresso tecnologico e principi della morale e del diritto. Riguarda la genetica, la fisica nucleare, l’informazione e le sue ricadute pubbliche, le questioni ambientali e in generale l’impatto della scienza nella società. Si possono creare mostri genetici, novelle chimere, ma non è il caso di farlo. Lo stesso vale per le bombe atomiche, lo sputtanamento mediatico e l’inquinamento da gas. Naturalmente, per questo non bisogna accusare la scienza, come pure fanno i pensatori reazionari, ma responsabilizzare la politica nel senso più ampio del termine. Tocca infatti alla politica stabilire quali limiti debbano valere nei singoli ambiti tecnologici e industriali e quali regole servano per assicurare il rispetto di questi limiti. Ulisse si fece legare all’albero maestro per non essere tentato dal canto delle sirene. La società, ponendo limiti e regole al progresso tecnologico deve fare qualcosa del genere nell’interesse generale. E, come è facile comprendere, spesso non è semplice riuscire in un’impresa siffatta. Le spinte economiche e tecnologiche infatti sono tali da rendere duro il cammino di chi si muove nello spirito del rispetto dei limiti allo stesso tempo ammirando il progresso scientifico. Una premessa di questo tipo è necessaria per affrontare con tutta la serenità possibile un caso drammatico e preoccupante come lo è quello di Tiziana Cantone. Ma non è sufficiente. Perché bisogna riconoscere che l’universo del web ha reso questo tipo di problema particolarmente grave e urgente. La morte di Tiziana è una tragedia dovuta alla superficialità e alla stupidità delittuosa di alcuni. Ma è al tempo stesso la punta di un iceberg. Rivela infatti e sottopone all’attenzione generale una questione più vasta che ha a che fare con il diritto a preservare la propria intimità e la propria riservatezza contro gli attacchi continui che le sono portati dalla invasività della rete. La vicenda è antica e coeva con la nascita della stampa. Ne aveva scritto, con dovizia di argomenti, anche Soeren Kirkegaard, vittima ai tempi suoi di una campagna giornalistica diffamatoria. La questione è duplice perché riguarda da un lato la tutela della propria immagine e dall’altro la durata. Il che vuol dire che, se devo potermi difendere da accuse ingiustificate, dovrei pure essere protetto dalla durata potenzialmente infinita di informazione vere sul mio conto. È ben possibile che abbia commesso qualcosa di cui non sono fiero molti anni fa, ma non è detto che i media abbiano il diritto di ricordarlo a tutti e per sempre. Esiste in sostanza un diritto all’oblio che, in tutte le democrazie, protegge il cittadino dal perdurare sui media di informazioni rilevanti che lo riguardano e che il cittadino stesso vorrebbe mantenere riservate. Ma un diritto del genere può (forse) farsi valere con la carta stampata. Risulta molto più difficile proteggerlo nell’ambito del web. A prima vista, il web ha una sorta di eternità immanente, che si oppone per così dire naturaliter a ogni forma di cancellazione. E tuttavia non si tratta, al solito, solo del mezzo tecnologico. Come si diceva alla fine della fiera la questione è di natura politica. I grandi gestori del web non hanno interesse a cancellare la propria memoria in nome della tutela della privatezza. Di conseguenza, agiscono lobbisticamente in difesa di questa volontà negligente. E ve lo immaginate voi il deputato di Catanzaro o di Cuneo che si confronta con gli esperti di Google o di Facebook sulla questione del diritto all’oblio? Francamente, non c’è partita. La cosa, se possibile, diventa ancora più complicata se al server principale si aggiungono migliaia di telefonini ognuno con il suo software. Tutto ciò non vuol dire, a parere mio, che ci troviamo in un cul de sac definitivo. Piuttosto dobbiamo fare tutti assieme uno sforzo per rendere la questione etica e giuridica sull’informazione centrale anche nella prospettiva dello sviluppo industriale e tecnologico del settore. Dai curriculum accademici alle patenti legali, tutto il settore deve trattare la necessità di limitare l’informazione come un vincolo interno e non esterno. Il che vuol dire che le norme regolatrici devono costituire parte integrante dell’architettura del sistema informatico. Roba insomma per computer scientists e non solo per filosofi, giuristi e religiosi. Solo in questo modo capiremo come limitare l’informazione pericolosa e soprattutto potremmo prevenirne l’uso invece che inseguirne le conseguenze. Alla politica resta il compito non banale di comprendere prima e imporre poi una modifica di sistema di questo tipo. LA NUOVA Pag 1 A Pontida la sfida ai lepenisti di Francesco Jori I tre tenori del centrodestra? Non esageriamo. Sarebbe un ruolo improbabile, per i tre governatori (Maroni e Zaia per la Lega, Toti per Forza Italia) che oggi aprono il lungo weekend del Carroccio a Pontida: un po’ per i rispettivi e diversi profili; molto perché l’orchestra è momentaneamente priva di direttore, e gli aspiranti al posto usano la bacchetta più per pestarsi le mani a vicenda che per far suonare all’unisono gli orchestrali. Tuttavia, l’appuntamento odierno presenta spunti interessanti, specie se visti nella prospettiva medio-lunga: cioè la ricostruzione di uno schieramento capace di offrire un riferimento affidabile all’ampia area degli elettori moderati, dopo il flop del vecchio forzaleghismo. Non bisognerà fermarsi alle parole di Pontida. Come e più di tutti gli analoghi appuntamenti di partito, il destinatario vero è molto più interno che esterno: si tratta di occasioni per ricompattare la propria squadra attraverso i consueti riti degli slogan, dei proclami, degli applausi catturati alzando ad arte il tono della voce. Bossi è riuscito per anni a farne una sorta di grande narghilè collettivo, alimentato a base di soli celtici, elmi padani, rivolte virtuali, strappi mai nemmeno tentati; e così facendo ha nascosto a lungo dietro quel fumo la mancanza di risultati concreti. Salvini, che di Bossi è un bonsai e neppure dei meglio riusciti, farà sicuramente altrettanto: si potrebbe già sintetizzare oggi, il roboante discorso che terrà domenica in chiusura, semplicemente facendo un copia-e-incolla dei suoi proclami a raffica degli ultimi mesi. Uniche varianti, la felpa o maglietta, e la scelta degli insulti. Molto più interessante sarà il riscontro odierno, perché può delineare uno scenario di centrodestra alternativo e diverso rispetto alla strada di un lepenismo all’italiana imboccata dal segretario della Lega. Tutti e tre i governatori, nelle rispettive regioni, sono alla guida di una squadra costruita in sostanza con lo schema di alleanze sdegnosamente rifiutato da Salvini; e non hanno alcuna intenzione di rinunziarvi, anzi si battono perché esso venga replicato a livello nazionale. L’idea-chiave è far leva su un Carroccio restituito al ruolo di riferimento del Nord, alleato con una Forza Italia rilanciata a tutto campo, ma soprattutto recuperata nel vecchio e inaridito serbatoio del Centro-Sud. Esattamente l’opposto del progetto di Salvini, che a colpi di cambi di nome e di linea vorrebbe fare della Lega un soggetto politico leader dalle Alpi alla Sicilia. Inoltre, almeno al momento, lo schema Maroni-Zaia-Toti ha basi molto più solide di quello appena avviato da Parisi, a sua volta in primo piano in questo week-end: il personaggio scelto-ma-forse-no da Berlusconi, per ora, è stato investito molto più da critiche e distinguo che da una leadership sia pur embrionale. In un simile scenario in pieno movimento, il Nordest potrebbe fungere da sala-collaudo: in Veneto, per il ruolo di Zaia; ancor più in Friuli-Venezia Giulia, dove lo schema di centro-destra impersonato dai tre governatori ha appena strappato al ceNtro-sinistra le piazze di Trieste e Pordenone; e dove nel 2018 si terranno strategiche elezioni regionali. Se una coalizione di quel tipo riuscisse a sconfiggere l’attuale governo Serracchiani, vale a dire una delle figure più legate a Renzi, la ricaduta nazionale sarebbe sicuramente massiccia; e a quel punto la bussola per restituire una casa politica ai moderati indicherebbe tutt’altra direzione rispetto a quella su cui oggi Salvini vuole orientare il timone della sua navicella. Magari anche contando sulla possibilità (o forse probabilità, visti i precedenti) che l’imbarcazione del centro-sinistra dia una generosa mano agli avversari, affondandosi da sola a forza di praticare buchi nello scafo, e spedire ai pescecani ogni comandante che sia riuscito a issarsi sulla tolda. Torna al sommario