Rassegna stampa 16 settembre 2016

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Rassegna stampa 16 settembre 2016
RASSEGNA STAMPA di venerdì 16 settembre 2016
SOMMARIO
“Il 14 settembre 2016, d’ora in avanti – scrive Massimiliano Castellani su Avvenire di
oggi -, dovrebbe essere inserito nel nostro calendario come il “giorno di grazia” dello
sport italiano. La beatificazione degli atleti paralimpici azzurri: quelli che hanno vinto
l’oro, cinque, quelli che sono saliti sul podio, otto, ma anche di quelli che non ce
l’hanno fatta e magari non ce la faranno mai, e che però restano comunque esseri
speciali, di cui fidarsi ad occhi chiusi. La loro specialità non sta nella disciplina che
praticano e che li ha portati fino alle Paralimpiadi di Rio. L’essere “speciale” sta nel
saper affrontare la vita con la consapevolezza che i propri limiti e le residue facoltà
fisiche di cui dispone l’atleta paralimpico sono un patrimonio a disposizione della
società, tutta. “Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era
rimasta, non la metà che era andata persa”, ha raccontato spesso Alex Zanardi dopo
l’incidente che gli capitò nella sua “prima vita” di pilota. Ogni atleta è passato per un
tragico campo minato in cui ciò che non l’ha ucciso l’ha reso più forte. Per ognuno di
loro c’è stato “un primo e un secondo tempo”, così come Bebe Vio vede la sua
esistenza “prima e dopo la meningite”. La specialità non sta solo nel saper lenire e
combattere il male fisico quotidiano, la paura e l’incapacità di superare gli ostacoli e
quelle barriere che la società gli (ci) piazza davanti incivilmente, ma nella capacità di
ricostruirsi e di ridare un senso al proprio viaggio. Speciale è colui che sa ancora
approdare, con fatica e con coraggio, in un’oasi, uno spazio anche minimo di
normalità. E quello che per gli atleti diventa la pedana di una palestra, una pista
d’atletica o la piscina dell’ultimo paese di provincia in cui un sindaco illuminato ha
capito che è bello investire nello sport olimpico, ma che è straordinario credere e
incentivare quello paralimpico. Esistono ancora realtà, specie nelle aree
metropolitane, in cui le barriere architettoniche restano montagne invalicabili e non
solo per i disabili, ma anche per i bambini e gli anziani. Quando il presidente del
Comitato paralimpico italiano, Luca Pancalli, parla di “quel pezzo di welfare che può
produrre lo sport paralimpico”, non lancia uno slogan politico e nemmeno una
strizzatina d’occhio ai Giochi olimpici e paralimpici di Roma 2024, ma un invito a
credere in quella che, a Rio, anche il premier Matteo Renzi ha chiamato la “squadra
Paese”. Uno dei fini nobili della politica è proprio far sentire i suoi cittadini tutti di
serie A, tutti appartenenti allo stesso collettivo. Lo sport da parte sua ci mette le
facce degli atleti, regala storie edificanti ed esemplari come quelle che stiamo
raccontando e apprendendo dalle Paralimpiadi di Rio. Dietro ogni singola impresa
sportiva c’è un piccolo grande riscatto, un successo ottenuto prima di tutto contro
l’indifferenza e la solitudine che sono le due peggiori avversarie – purtroppo ancora
forti – dell’inclusione sociale e della piena integrazione delle persone con una diversa
abilità. Uomini e donne, ragazzi e ragazze che si sono rimessi in gioco, hanno
accettato la sfida e chiedono soltanto di essere seguiti, di ricevere il nostro tifo, il
nostro calore umano. E se possibile non solo ogni quattro anni, ma ogni giorno, specie
in quelli bui in cui la malattia e il male di vivere si ripresentano e chiedono indietro le
medaglie vinte e i momenti di gloria vissuti. “Alla fine lo sport, tutto lo sport, è
questo. Guardare qualcuno che ottiene un grande risultato significa entrare nel
percorso che l’ha portato ogni giorno a mettersi in gioco e fare il meglio che poteva”,
ha detto ancora Alex Zanardi, che dal giorno in cui è salito sulla sua bici e ha
cominciato la nuova avventura nell’handbike si è fatto portatore sano del “desiderio”.
La spinta per andare al passo con gli altri, e non necessariamente andare più forte.
Nel guardare il sorriso e gli occhi scintillanti di ognuno dei nostri medagliati non c’è
solo l’ammirazione verso il campione, ma la condivisione per un percorso di cui ci
dobbiamo sentire sempre più partecipi. Nel vedere il loro “desiderio” realizzato ci
scappa anche una lacrima di gioia, specie quando la piccola grande Bebe Vio ci manda
a dire che “lo sport è terapia. Rimani quello che sei e segui la strada buona”.
Molto interessante e da leggere poi anche l’analisi di Chiara Giaccardi, sullo stesso
giornale, sul tema “I social, palazzo di vetro dove non c’è compassione. La tecnologia
non libera se non ne capiamo il senso” (a.p.)
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XI I frati se ne andranno. Chiesa di via Aleardi affidata alla diocesi di Alvise
Sperandio
Calo delle vocazioni, l’addio dal settembre 2017. Padre Gelindo Miolo: “Vivremo questi
12 mesi che ci mancano preparando la comunità al cambiamento”
CORRIERE DEL VENETO
Pag 13 I frati lasciano il Sacro Cuore. Pochi preti, le chiese si uniscono di Alice
D’Este
Padre Miolo: ci riorganizziamo. Dal prossimo anno ci sarà il nuovo parroco
LA NUOVA
Pag 27 Sacro Cuore, dopo 64 anni i frati lasciano la parrocchia di Marta Artico
Crisi di vocazioni per i francescani, da settembre 2017 la cura pastorale finirà nelle mani
del Patriarca. Padre Voltan: “ Decisione sofferta, grazie alla città”
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 4 Codici in armonia
Motuproprio su alcune norme del diritto canonico latino e orientale
Pag 5 All’insegna delle esigenze pastorali di Juan Ignacio Arrieta
Pagg 4 – 5 Sulle irregolarità nel ricevere l’ordine sacro
Pag 8 Sotto il mantello
Messa a Santa Marta
AVVENIRE
Pag 3 La presenza che si apre all’incontro di Anna Maria Canopi
Il Congresso eucaristico nel Giubileo della Misericordia
Pagg 8 – 9 Quel popolo che si ritrova nell’adorazione perpetua di Francesco
Ognibene e Francesco Dal Mas
Cresce la rete delle cappelle aperte giorno e notte. Venezia: “Si impara ad aprirsi agli
altri”
Pag 25 “La riforma della Chiesa? Non teorie, ma vita reale” di Antonio Spadaro
Spadaro: il Papa non si impone sulla storia ma sa dialogare con tempi, luoghi e persone
Pag 25 Ora è più agevole per i preti latini sposare i fedeli ortodossi di Gianni
Cardinale
LA STAMPA
Enzo Bianchi: la libertà nasce dalla lotta interiore di Enzo Bianchi
4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI
IL GAZZETTINO
Pag 21 “Ti do la mia parola”, festa inter-etnica al Centro Kolbe: gastronomia,
reading e spettacoli teatrali di scrittori migranti
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag VI Marcianum, si volta pagina di Paolo Navarro Dina
Scelto il presidente che guiderà l’ente: sarà Roberto Crosta. “Va rilanciata l’attività di
ricerca e di studio d’ispirazione cristiana. Discontinuità col passato”
Pag X Iusve, pioggia di richieste. Ammesso uno su sei di Melody Fusaro
L’Istituto salesiano alla Gazzera ha superato i 2.500 iscritti
LA NUOVA
Pag 18 Marcianum, nuovo corso. Roberto Crosta presidente di m.a.
Il patriarca Francesco Moraglia ha nominato il Consiglio d’amministrazione. Al vertice
l’attuale segretario della Camera di Commercio, sacerdoti e docenti
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 1 La libertà è generativa di Francesco D’Agostino
Il “Fertility Day” e l’urgenza italiana
Pag 3 I “social”, palazzo di vetro dove non c’è compassione di Chiara Giaccardi
La tecnologia non libera se non ne capiamo il senso
LA NUOVA
Pag 4 I diritti sono solo su carta di Roberta Carlini
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XI “Parcheggi e bus troppo cari”, don Lionello contro Save e Actv di Mauro
De Lazzari
8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 9 Se Sgarbi fa “risorgere” Cristo di Martina Zambon
Padova, per la sua “Babele” il critico ritocca la foto del Papa con l’imam: “Al centro la
Resurrezione”. Ma l’Osservatore Romano: “Provocazione per l’Islam”
LA NUOVA
Pag 1 Il Nordest snobbato da “Italia 4.0” di Stefano Micelli e Gianluca Toschi
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 L’autarchia non è una virtù di Angelo Panebianco
Noi e gli altri
Pag 1 La scomparsa di Emanuela Orlandi: un mistero con troppe falsità di Gian
Antonio Stella
Pag 26 Quel diritto all’oblio e gli sciacalli digitali di Caterina Malavenda
LA REPUBBLICA
Pag 1 L’altra destra di Parisi di Stefano Folli
Pag 29 “La Chiesa non deve pagare la vecchia Ici” di Alberto D’Argenio
Il Tribunale europeo conferma la scelta dell’Italia, che decise di rinunciare a incassare 5
miliardi dal Vaticano
AVVENIRE
Pag 2 La forza di quei giovani passati sui campi minati della vita di Massimiliano
Castellani
Gli sportivi, le medaglie e la lezione delle Paralimpiadi
Pag 4 Non è solo un incidente
Pag 13 Salviamo Aleppo, Sarajevo del Duemila di Andrea Riccardi
Città simbolo della convivenza tra religioni, cerniera storica tra Asia e Occidente, scrigno
d’arte tutelato dall’Unesco: ma l’abbiamo lasciata distruggere
IL GAZZETTINO
Pag 1 Rete e privacy, quei divieti necessari di Sebastiano Maffettone
LA NUOVA
Pag 1 A Pontida la sfida ai lepenisti di Francesco Jori
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2 – DIOCESI E PARROCCHIE
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XI I frati se ne andranno. Chiesa di via Aleardi affidata alla diocesi di Alvise
Sperandio
Calo delle vocazioni, l’addio dal settembre 2017. Padre Gelindo Miolo: “Vivremo questi
12 mesi che ci mancano preparando la comunità al cambiamento”
I frati minori conventuali lasciano il Sacro Cuore. Non subito, ma dal primo settembre
dell'anno prossimo, quando «restituiranno» la parrocchia alla diocesi che dovrà
provvedere alla nomina almeno di un parroco. La decisione è stata comunicata mercoledì
sera al Consiglio pastorale dal superiore provinciale, padre Giovanni Voltan, e dal vicario
del patriarca monsignor Dino Pistolato. «La sofferta decisione nasce all'interno di un
progetto di ridisegno delle presenze francescane conventuali nel Nord Italia, legato alla
preoccupante diminuzione di vocazioni», si legge in una nota congiunta diffusa dalla
diocesi. L'ultimo anno è il tempo ritenuto necessario per il passaggio di consegne della
cura pastorale di una comunità numerosa, con più di 7mila residenti, e molte attività in
essere. «Il nostro pensiero va alla chiesa di Venezia per la stima che ci ha sempre
manifestato. Cederemo alla diocesi anche la proprietà della chiesa, del convento e di
tutti gli altri spazi attigui», dice padre Voltan. Con l'uscita della fraternità conventuale, di
fatto se ne va un altro pezzo di storia cittadina, visto che la Provincia italiana di
Sant'Antonio di Padova arrivò in via Aleardi nel 1952 quando fu istituita la parrocchia
dedicata al Sacro Cuore di Gesù Re della Gloria. All'epoca nel quartiere risiedevano
appena 3mila persone e la prima chiesa provvisoria venne ricavata nel salone dove oggi
c'è la sede del centro Kolbe. Poi nel 1955 arrivò la scuola materna, inaugurata dal
patriarca Angelo Giuseppe Roncalli futuro papa Giovanni XXIII, e cinque anni più tardi
anche il patronato per i ragazzi. Con lo sviluppo urbanistico e il boom demografico degli
anni successivi, presto si rese necessaria la costruzione della chiesa vera e propria che
fu edificata nel 1970 a fianco del liceo classico Franchetti su progetto dell'architetto
Adriano Galderisi e non senza polemiche, sia per le dimensioni che per i molti soldi
spesi. Benedetta il giorno di Ferragosto del 1971 da un altro futuro pontefice, il patriarca
Albino Luciani, è stata consacrata dal cardinale Angelo Scola nel 2003. È la più grande
della città, con una capienza di oltre mille persone, e si caratterizza per la sua forma a
tenda, scelta come simbolo dell'accoglienza, le cui imponenti vele in cemento armato
sono ben visibili con una vista panoramica. Il complesso raccoglie anche il convento
dove oggi vivono padre Gelindo, padre Gabriele, padre Luciano e padre Sergio. Il primo
settembre 2017 lasceranno una parrocchia viva, con il centro Kolbe, l'associazione
Sant'Antonio, l'Azione cattolica, il cammino Neocatecumenale e tantissimi volontari
impegnati nei diversi servizi. Quest'anno, la festa patronale in programma dal 25
settembre al 4 ottobre, l'ultima con i frati, avrà tutto un altro sapore.
Mestre - «La notizia non è un fulmine a ciel sereno. Se ne parlava già da qualche anno,
adesso il superiore ha preso la decisione e noi obbediamo. Vivremo questo 12 mesi che
abbiamo davanti con l'impegno di sempre e prepareremo la comunità
all'avvicendamento». Padre Gelindo Miolo è parroco del Sacro Cuore da 7 anni e ieri ha
incontrato i sacerdoti del vicariato del centro per metterli al corrente della novità.
«Scontiamo un calo significativo delle vocazioni e un'età media dei frati sempre più
elevata - dice nel suo studio all'interno del convento - Ci dispiace andare via per il
profondo legame che abbiamo con la gente, ma siamo anche consapevoli che c'è la
necessità di una riorganizzazione della nostra presenza, anche se ancora non sappiamo
dove saremo assegnati». La comunicazione ufficiale al Consiglio pastorale ha
trasformato in una certezza quella che finora era rimasta solo un'indiscrezione, seppure
ricorrente. «I fedeli sono dispiaciuti ed è normale. Ai laici che ci hanno sempre sostenuto
e ringraziamo, ora chiediamo di responsabilizzarsi ancora di più», conclude padre Miolo.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 13 I frati lasciano il Sacro Cuore. Pochi preti, le chiese si uniscono di Alice
D’Este
Padre Miolo: ci riorganizziamo. Dal prossimo anno ci sarà il nuovo parroco
Mestre. Se ne vanno dopo 65 anni in cui sono stati il cuore di Mestre. I frati minori
conventuali lasciano la parrocchia del Sacro Cuore, al loro posto, a settembre del
prossimo anno arriverà un nuovo parroco. Colpa delle crisi delle vocazioni. «C’è un
progetto di revisione della nostra presenza sul territorio - spiega il parroco padre Gelindo
Miolo - in questo momento siamo in quattro. Uno di noi è qui da 20 anni, io ci sono da
sette, altri due sono arrivati quattro anni fa. C’è molto dispiacere nell’andare via». Sono
pochi, i frati, sempre meno. Ma lo stesso sta accadendo anche nella Diocesi di Venezia
per i sacerdoti che sono passati da 241 del 1990 a 173 del 2016, con una diminuzione
che sfiora il 30 per cento in venticinque anni. Ne sono stati persi circa una decina ogni
cinque anni, con un picco negativo proprio di recente (i sacerdoti infatti erano 234 nel
2000, 218 nel 2005, 199 nel 2010). Per sopperire alla mancanza, ma anche per rendere
più attivi nelle parrocchie tutti i fedeli nell’ottica delle organizzazioni partecipate sono
nate 40 collaborazioni pastorali in diverse parrocchie della Diocesi. «Hanno l’obiettivo ha spiegato qualche mese fa don Danilo Barlese vicario per la pastorale - di traghettare,
orientare il cammino in un contesto in cui le realtà più forti sono chiamate a sostenere le
più deboli e tutti siamo chiamati a lavorare insieme. Il progetto che ora muove i primi
passi si concluderà con la creazione dei «cenacoli». Delle piccole comunità di 15-20
persone al massimo, composte da laici, sacerdoti e religiosi che condividerà l’incontro
con Dio, le preghiere e la vita di ogni giorno. L’impegno in particolare è quello di
coinvolgere tutti i battezzati nelle pastorali comuni maggiormente in difficoltà. Ce ne
sarà uno per ciascuna «collaborazione pastorale» e la disponibilità verrà comunicata al
proprio parroco. Una logica valida anche per tutte le realtà «forti» che, per ora, saranno
meno toccate da questo processo. Parrocchie grandi e numerose, che mantengono però
la loro autonomia. Così come la manterrà quella del Sacro cuore. «Avrà bisogno di un
suo parroco - spiega il vicario episcopale don Dino Pistolato -. Le collaborazioni ci
saranno ovviamente ma in questo caso servirà una persona di riferimento precisa, se
non due. La parrocchia è molto attiva fa moltissime attività, una persona totalmente
dedicata è indispensabile». Istituita a Mestre il 18 dicembre 1952 dall’allora patriarca
cardinal Agostini venne affidata fin dall’inizio ai Frati Minori Conventuali della Provincia
Padovana di Sant’Antonio. All’epoca la zona contava 3.500 abitanti, i frati costruirono un
salone come chiesa provvisoria, mentre fu data priorità alla costruzione dell’asilo,
inaugurato nel 1955 dal patriarca di Venezia Angelo Roncalli. Negli anni Settanta la
parrocchia contava 12000 persone e si fece sentire l’esigenza di una nuova chiesa,
edificata tra il 1967 e il 1970 su progetto dell’architetto padovano Adriano Galderisi. «Il
ricordo più bello di questi sette anni è stata la risposta della comunità - confessa padre
Miolo -. Le persone ci hanno sostenuti moltissimo, in ogni nostro passo».
LA NUOVA
Pag 27 Sacro Cuore, dopo 64 anni i frati lasciano la parrocchia di Marta Artico
Crisi di vocazioni per i francescani, da settembre 2017 la cura pastorale finirà nelle mani
del Patriarca. Padre Voltan: “ Decisione sofferta, grazie alla città”
Una decisione sofferta quella dei Frati Minori Conventuali della parrocchia del Sacro
Cuore, che lasceranno la nostra città dopo ben 64 anni sulla scorta di una
riorganizzazione delle presenze nel Nord Italia dettata dalla penuria di vocazioni. Una
notizia che in tanti non vorrebbero sentire: i frati rappresentano da sempre una guida
spirituale per i fedeli, i parrocchiani e le moltissime persone legate all'area che gravita
attorno a via Aleardi. I Frati Minori Conventuali della Provincia Italiana di Sant'Antonio di
Padova il primo settembre 2017 consegneranno al patriarca, Francesco Moraglia, la cura
pastorale della parrocchia del Sacro Cuore di via Aleardi. La decisione nasce all'interno di
un progetto di ridisegno delle presenze francescane conventuali legato alla preoccupante
diminuzione di vocazioni. «Sono scelte sofferte», sottolinea il Superiore provinciale,
padre Giovanni Voltan, «dobbiamo accettare di essere, come ci esorta san Francesco,
“pellegrini e forestieri”, che non hanno scelto un luogo, a cui umanamente ci si
affeziona, ma il Signore e il suo Regno. In questo momento il pensiero di tutta la
fraternità conventuale va alla Chiesa di Venezia per la stima che ha sempre manifestato
nei confronti dei frati, affiancati da tanti laici, in primis il Consiglio Pastorale Parrocchiale
e degli affari economici, i catechisti, l'Ordine Francescano Secolare che condivide il
carisma di san Francesco, l'Azione Cattolica, il Cammino Neocatecumenale, gli animatori
del patronato-oratorio. Senza dimenticare la Caritas parrocchiale, l'Associazione
Sant'Antonio, il Centro Culturale Kolbe e altri gruppi e volontari che, con generosa
dedizione, collaborano nei vari servizi». Il Superiore provinciale non dimentica nessuno:
«Un pensiero va anche ai tanti fedeli che frequentano la parrocchia per partecipare alle
liturgie, trovare un momento di sosta, una parola buona e celebrare il sacramento della
riconciliazione». Infine, la Provincia religiosa dei Frati Minori Conventuali ringrazia
l'attuale Comunità di frati - e quelle che l'hanno preceduta - per la testimonianza di vita
francescana e la dedizione pastorale offerta in questi 64 anni di servizio. La parrocchia
del “Sacro Cuore di Gesù Re della Gloria”, questa la dedicazione completa, fu istituita a
Mestre il 18 dicembre 1952 dall'allora patriarca cardinal Agostini e venne affidata fin
dall'inizio ai Frati Minori Conventuali della Provincia Padovana di Sant' Antonio. I frati
provvidero subito alla costruzione di un salone come chiesa provvisoria, mentre essendo la prima preoccupazione dei religiosi quella dell'assistenza ai bambini e ai
giovani - fu data priorità alla costruzione dell'asilo, inaugurato nel 1955 dal patriarca di
Venezia cardinale Angelo Giuseppe Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII, e del patronatooratorio, inaugurato nel 1959-60. Negli anni Settanta si fece sentire l'esigenza di una
nuova chiesa, edificata tra il 1967 e il 1970 su progetto dell'architetto padovano Adriano
Galderisi che ha unificato in un unico blocco la chiesa, il convento e le opere parrocchiali.
Benedetta il 15 agosto 1971 dal patriarca di Venezia cardinale Albino Luciani, poi papa
Giovanni Paolo I, fu consacrata dal patriarca cardinale Angelo Scola nel 2003.
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 4 Codici in armonia
Motuproprio su alcune norme del diritto canonico latino e orientale
Pubblichiamo di seguito il testo in latino e in italiano della lettera apostolica in forma di
motuproprio «De concordia inter Codices» con la quale Papa Francesco ha disposto
alcune modifiche alle norme del Codice di Diritto Canonico per armonizzarle con quelle
del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali.
Litterae Apostolicae Motu Proprio datae Quibus nonnullae normae Codicis Iuris Canonici
immutantur
De concordia inter Codices valde solliciti, quasdam discrepantias animadvertimus inter
Codicis Iuris Canonici et Codicis Canonum Ecclesiarum Orientalium normas reperiri.
Duo enim Codices partim communes normas continent, partim vero peculiares ac
proprias, id quod utrumque autonomum reddit. Oportet tamen ut etiam peculiares
normae apte inter se componantur. Namque discrepantiae, si et quatenus adsint, in
pastorali praxi incommoda secum ferunt, praesertim cum relationes inter membra tum
ad Ecclesiam latinam tum ad aliquam Ecclesiam orientalem pertinentia moderandae
sunt.
Id accidit praesertim nostris temporibus, cum nempe ex populorum migratione sequatur
ut plures christifideles orientales in regionibus latinis degant. Quaestiones pastorales et
iuridicae haud paucae inde sunt exortae, quae ut solvantur accommodatas normas
postulant. Speciatim est memorandum christifideles orientales ad suum cuiusque ritum
servandum teneri, ubicumque terrarum inveniantur (cfr. CCEO can. 40 § 3; Conc.
Oecum. Vat. II, Decr. Orientalium Ecclesiarum, 6), ac proinde auctoritatis ecclesiasticae
competentis est maximopere curare ut congrua media apparentur quibus ipsi hanc suam
obligationem implere queant (cfr. CCEO can. 193, § 1; CIC can. 383 §§ 1-2; Adhort. ap.
postsyn. Pastores gregis, 72). Normarum concordia haud dubie medium est quod valde
iuvabit ut venerabilium rituum orientalium incremento faveatur (cfr. CCEO can. 39), ita
ut Ecclesiae sui iuris curam pastoralem efficacius exercere valeant.
Prae oculis tamen habenda est necessitas agnoscendi peculiares notas disciplinares illius
regionis in qua relationes interecclesiales eveniunt. In Occidente enim, qui est maiore ex
parte latinus, oportet consentaneam aequilibritatem servari inter tutelam iuris proprii
minoris partis orientalis et obsequium exhibendum erga historicam traditionem
canonicam maioris partis latinae, ita ut indebiti concursus et conflictus vitentur
omniumque catholicarum communitatum in illa regione commorantium fructuosa
cooperatio foveatur.
Accedit et alia ratio ut normae CIC expressis quibusdam compleantur dispositionibus, iis
quidem similibus quae in CCEO continentur, postulatio nempe ut accuratius
determinentur relationes cum christifidelibus ad Ecclesias orientales non catholicas
pertinentibus, quorum in praesentia auctus est numerus in territoriis latinis.
Prae oculis quoque habendum est canonistarum commentaria animadvertisse
discrepantias quasdam inveniri inter utrumque Codicem ac fere unanimiter ostendisse
quae sint praecipuae quaestiones et quomodo eae concordes sint reddendae.
Finis igitur normarum quae his Litteris Apostolicis Motu Proprio datis introducuntur in eo
consistit ut perveniatur ad concordem disciplinam, quae certam signet viam sequendam
singulis in casibus in exercitio curae pastoralis.
Pontificium Consilium de Legum Textibus per Commissionem peritorum in Iure canonico
orientali et latino quaestiones repperit quae prae ceteris egere videntur accommodata
renovatione legislativa sicque textum elaboravit transmissum ad triginta circiter totius
orbis Consultores et Iuris canonici cultores necnon ad Auctoritates Ordinariatuum
latinorum pro orientalibus. Expensis receptis animadversionibus, novus textus
approbatus est a Sessione Plenaria Pontificii Consilii de Legum Textibus.
His omnibus perpensis, quae sequuntur decernimus:
Art. 1. Canon 111 CIC integre sequenti textu substituitur, in quo adiungitur nova
paragraphus et nonnullae expressiones mutantur:
§1 Ecclesiae latinae per receptum baptismum adscribitur filius parentum, qui ad eam
pertinent vel, si alteruter ad eam non pertineat, ambo concordi voluntate optaverint ut
proles in Ecclesia latina baptizaretur; quodsi concors voluntas desit, Ecclesiae sui iuris ad
quam pater pertinet adscribitur.
§2 Si vero unus tantum ex parentibus sit catholicus, Ecclesiae ad quam hic parens
catholicus pertinet adscribitur.
§3 Quilibet baptizandus qui quartum decimum aetatis annum expleverit, libere potest
eligere ut in Ecclesia latina vel in alia Ecclesia sui iuris baptizetur; quo in casu, ipse ad
eam Ecclesiam pertinet quam elegerit.
Art. 2. Canon 112 CIC integre sequenti textu substituitur, in quo adiungitur nova
paragraphus et nonnullae expressiones mutantur:
§1. Post receptum baptismum, alii Ecclesiae sui iuris ascribuntur:
1° qui licentiam ab Apostolica Sede obtinuerit;
2° coniux qui, in matrimonio ineundo vel eo durante, ad Ecclesiam sui iuris alterius
coniugis se transire declaraverit; matrimonio autem soluto, libere potest ad latinam
Ecclesiam redire;
3° filii eorum, de quibus in nn. 1 et 2, ante decimum quartum aetatis annum completum
itemque, in matrimonio mixto, filii partis catholicae quae ad aliam Ecclesiam sui iuris
legitime transierit; adepta vero hac aetate, iidem possunt ad latinam Ecclesiam redire.
§2. Mos, quamvis diuturnus, sacramenta secundum ritum alius Ecclesiae sui iuris
recipiendi, non secumfert adscriptionem eidem Ecclesiae.
§3. Omnis transitus ad aliam Ecclesiam sui iuris vim habet a momento declarationis
factae coram eiusdem Ecclesiae Ordinario loci vel parocho proprio aut sacerdote ab
alterutro delegato et duobus testibus, nisi rescriptum Sedis Apostolicae aliud ferat; et in
libro baptizatorum adnotetur.
Art. 3. Paragraphus secunda can. 535 CIC integre sequenti textu substituitur:
§2. In libro baptizatorum adnotentur quoque adscriptio Ecclesiae sui iuris vel ad aliam
transitus, necnon confirmatio, item quae pertinent ad statum canonicum christifidelium,
ratione matrimonii, salvo quidem praescripto can. 1133, ratione adoptionis, ratione
suscepti ordinis sacri, necnon professionis perpetuae in instituto religioso emissae;
eaeque adnotationes in documento accepti baptismi semper referantur.
Art. 4. Numerus secundus primae paragraphi can. 868 CIC integre sequenti textu
substituitur:
§1. 2° spes habeatur fundata eum in religione catholica educatum iri, firma §3; quae si
prorsus deficiat, baptismus secundum praescripta iuris particularis differatur, monitis de
ratione parentibus.
Art. 5. Canon 868 CIC posthac tertiam paragraphum habebit ut sequitur:
§3. Infans christianorum non catholicorum licite baptizatur, si parentes aut unus saltem
eorum aut is, qui legitime eorundem locum tenet, id petunt et si eis corporaliter aut
moraliter impossibile sit accedere ad ministrum proprium.
Art. 6. Canon 1108 CIC posthac tertiam paragraphum habebit ut sequitur:
§3. Solus sacerdos valide assistit matrimonio inter partes orientales vel inter partem
latinam et partem orientalem sive catholicam sive non catholicam.
Art. 7. Canon 1109 CIC integre sequenti textu substituitur:
Loci Ordinarius et parochus, nisi per sententiam vel per decretum fuerint excommunicati
vel interdicti vel suspensi ab officio aut tales declarati, vi officii, intra fines sui territorii,
valide matrimoniis assistunt non tantum subditorum, sed etiam, dummodo alterutra
saltem pars sit adscripta Ecclesiae latinae, non subditorum.
Art. 8. Prima paragraphus can. 1111 CIC integre sequenti textu substituitur:
§ 1. Loci Ordinarius et parochus, quamdiu valide officio funguntur, possunt facultatem
intra fines sui territorii matrimoniis assistendi, etiam generalem, sacerdotibus et diaconis
delegare, firmo tamen eo quod praescribit can. 1108 § 3.
Art. 9. Prima paragraphus can. 1112 CIC integre sequenti textu substituitur:
§ 1. Ubi desunt sacerdotes et diaconi, potest Episcopus dioecesanus, praevio voto
favorabili Episcoporum conferentiae et obtenta licentia Sanctae Sedis, delegare laicos,
qui matrimoniis assistant, firmo praescripto can. 1108 § 3.
Art. 10. Canon 1116 CIC posthac tertiam paragraphum habebit, ut sequitur:
§3. In iisdem rerum adiunctis, de quibus in §1, nn. 1 et 2, Ordinarius loci cuilibet
sacerdoti catholico facultatem conferre potest matrimonium benedicendi christifidelium
Ecclesiarum orientalium quae plenam cum Ecclesia catholica communionem non habeant
si sponte id petant, et dummodo nihil validae vel licitae celebrationi matrimonii obstet.
Idem sacerdos, semper necessaria cum prudentia, auctoritatem competentem Ecclesiae
non catholicae, cuius interest, de re certiorem faciat.
Art. 11. Prima paragraphus can. 1127 CIC integre sequenti textu substituitur:
§ 1. Ad formam quod attinet in matrimonio mixto adhibendam, serventur praescripta
can. 1108; si tamen pars catholica matrimonium contrahit cum parte non catholica ritus
orientalis, forma canonica celebrationis servanda est ad liceitatem tantum; ad
validitatem autem requiritur interventus sacerdotis, servatis aliis de iure servandis.
Quaecumque vero a Nobis hisce Litteris Apostolicis Motu Proprio datis decreta sunt, ea
omnia firma ac rata esse iubemus, contrariis quibuslibet non obstantibus, peculiari etiam
mentione dignis, atque decernimus ut per editionem in actis diurnis L’Osservatore
Romano promulgentur et deinde in Actis Apostolicae Sedis commmentario officiali
edantur.
Datum Romae, apud Sanctum Petrum, die XXXI mensis Maii anno MMXVI, Pontificatus
Nostri quarto.
Lettera apostolica in forma di Motu Proprio del Sommo Pontefice Francesco con la quale
vengono mutate alcune norme del Codice di Diritto Canonico
A motivo della costante sollecitudine per la concordanza tra i Codici, mi sono reso conto
di alcuni punti non in perfetta armonia tra le norme del Codice di Diritto Canonico e
quelle del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali.
I due Codici possiedono, da una parte, norme comuni, e, dall’altra, peculiarità proprie,
che li rendono vicendevolmente autonomi. È tuttavia necessario che anche nelle norme
peculiari vi sia sufficiente concordanza. Infatti le discrepanze inciderebbero
negativamente sulla prassi pastorale, specialmente nei casi in cui devono essere regolati
rapporti tra soggetti appartenenti rispettivamente alla Chiesa latina e a una Chiesa
orientale.
Ciò si verifica in modo particolare ai nostri giorni, nei quali la mobilità della popolazione
ha determinato la presenza di un notevole numero di fedeli orientali in territori latini.
Questa nuova situazione genera molteplici questioni pastorali e giuridiche, le quali
richiedono di essere risolte con norme appropriate. Occorre ricordare che i fedeli
orientali hanno l’obbligo di osservare il proprio rito ovunque essi si trovino (cfr. CCEO
can. 40 § 3; Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Orientalium Ecclesiarum, 6) e, di conseguenza,
l’autorità ecclesiastica competente ha la grave responsabilità di offrire loro i mezzi
adeguati perché possano adempiere tale obbligo (cfr. CCEO can. 193 § 1; CIC can. 383
§§ 1-2; Esort. ap. postsin. Pastores gregis, 72). L’armonizzazione normativa è
certamente uno dei mezzi che gioverà a promuovere lo sviluppo dei venerabili riti
orientali (cfr. CCEO can. 39), permettendo alle Chiese sui iuris di agire pastoralmente
nel modo più efficace.
Bisogna tuttavia tenere presente la necessità di riconoscere le particolarità disciplinari
del contesto territoriale in cui avvengono i rapporti inter-ecclesiali. Nell’Occidente,
prevalentemente latino, occorre trovare un giusto equilibrio tra la tutela del Diritto
proprio della minoranza orientale e il rispetto della storica tradizione canonica della
maggioranza latina, in modo da evitare indebite interferenze e conflitti e promuovere la
proficua collaborazione tra tutte le comunità cattoliche presenti in un dato territorio.
Un ulteriore motivo per integrare la normativa del CIC con esplicite disposizioni parallele
a quelle esistenti nel CCEO è l’esigenza di meglio determinare i rapporti con i fedeli
appartenenti alle Chiese orientali non cattoliche, ora presenti in numero più rilevante nei
territori latini.
Si deve infine rilevare che anche la dottrina canonica ha fatto notare alcune discrepanze
tra i due Codici, indicando, con sostanziale convergenza, quali fossero i punti
problematici e come renderli concordi.
L’obiettivo delle norme introdotte con il presente Motu Proprio è quello di raggiungere
una disciplina concorde che offra certezza nel modo di agire pastorale nei casi concreti.
Il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, per mezzo di una Commissione di esperti in
Diritto canonico orientale e latino, ha identificato le questioni principalmente bisognose
di adeguamento normativo, elaborando un testo inviato a una trentina di Consultori ed
esperti in tutto il mondo, nonché alle Autorità degli Ordinariati latini per gli orientali.
Dopo il vaglio delle osservazioni pervenute, la Sessione Plenaria del Pontificio Consiglio
per i Testi Legislativi ha approvato un nuovo testo.
Tutto ciò considerato, dispongo ora quanto segue:
Art. 1. Il can. 111 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente, che include un
nuovo paragrafo e modifica alcune espressioni:
§1 Con la ricezione del battesimo è ascritto alla Chiesa latina il figlio dei genitori, che ad
essa appartengono o, se uno dei due non appartiene ad essa, ambedue i genitori di
comune accordo abbiano optato che la prole fosse battezzata nella Chiesa latina; che, se
manca il comune accordo, è ascritto alla Chiesa sui iuris, cui appartiene il padre.
§2 Se poi soltanto uno dei genitori è cattolico, è ascritto alla Chiesa alla quale il genitore
cattolico appartiene.
§3 Qualsiasi battezzando che abbia compiuto quattordici anni di età, può liberamente
scegliere di essere battezzato nella Chiesa latina o in un’altra Chiesa sui iuris; nel qual
caso, egli appartiene a quella Chiesa che avrà scelto.
Art. 2. Il can. 112 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente, che include un
nuovo paragrafo e modifica alcune espressioni:
§1. Dopo aver ricevuto il battesimo, sono ascritti a un’altra Chiesa sui iuris:
1° chi ne abbia ottenuto la licenza da parte della Sede Apostolica;
2° il coniuge che, nel celebrare il matrimonio o durante il medesimo, abbia dichiarato di
voler passare alla Chiesa sui iuris dell’altro coniuge; sciolto però il matrimonio, può
ritornare liberamente alla Chiesa latina;
3° i figli di quelli, di cui nei nn. 1 e 2, prima del compimento dei quattordici anni di età e
parimenti, nel matrimonio misto, i figli della parte cattolica, che sia passata
legittimamente a un’altra Chiesa sui iuris; raggiunta però questa età, i medesimi
possono ritornare alla Chiesa latina.
§2. L’usanza, anche se a lungo protratta, di ricevere i sacramenti secondo il rito di
un’altra Chiesa sui iuris, non comporta l’ascrizione alla medesima Chiesa.
§3. Ogni passaggio ad altra Chiesa sui iuris ha valore dal momento della dichiarazione
fatta alla presenza dell’Ordinario del luogo della medesima Chiesa o del parroco proprio
oppure del sacerdote delegato da uno di essi e di due testimoni, a meno che un rescritto
della Sede Apostolica non disponga diversamente; e si annoti nel libro dei battezzati.
Art. 3. Il paragrafo secondo del can. 535 CIC è integralmente sostituito dal testo
seguente:
§2. Nel libro dei battezzati si annoti anche l’ascrizione a una Chiesa sui iuris o il
passaggio ad altra Chiesa, nonché la confermazione e tutto ciò che riguarda lo stato
canonico dei fedeli, in rapporto al matrimonio, salvo il disposto del can. 1133,
all’adozione, all’ordine sacro e alla professione perpetua emessa in un istituto religioso;
tali annotazioni vengano sempre riportate nei certificati di battesimo.
Art. 4. Il secondo capoverso del primo paragrafo del can. 868 CIC è integralmente
sostituito dal testo seguente:
§1. 2° che vi sia la fondata speranza che sarà educato nella religione cattolica fermo
restando il §3; se tale speranza manca del tutto, il battesimo venga differito, secondo le
disposizioni del diritto particolare, dandone ragione ai genitori.
Art. 5. Il can. 868 CIC avrà d’ora in poi un terzo paragrafo col testo seguente:
§3. Il bambino di cristiani non cattolici è lecitamente battezzato, se i genitori o almeno
uno di essi o colui che tiene legittimamente il loro posto lo chiedono e se agli stessi sia
impossibile, fisicamente o moralmente, accedere al proprio ministro.
Art. 6. Il can. 1108 CIC avrà d’ora in poi un terzo paragrafo col testo seguente:
§3. Solo il sacerdote assiste validamente al matrimonio tra due parti orientali o tra una
parte latina e una parte orientale cattolica o non cattolica.
Art. 7. Il can. 1109 CIC è integralmente sostituito dal testo seguente:
L’Ordinario del luogo e il parroco, eccetto che con sentenza o decreto siano stati
scomunicati o interdetti o sospesi dall’ufficio oppure dichiarati tali, in forza dell’ufficio
assistono validamente, entro i confini del proprio territorio, ai matrimoni non solo dei
sudditi, ma anche dei non sudditi, purché almeno una delle due parti sia ascritta alla
Chiesa latina.
Art. 8. Il primo paragrafo del can. 1111 CIC è integralmente sostituito dal testo
seguente:
§1. L’Ordinario del luogo e il parroco, fintanto che esercitano validamente l’ufficio,
possono delegare a sacerdoti e diaconi la facoltà anche generale di assistere ai
matrimoni entro i confini del proprio territorio, fermo restando quanto disposto dal can.
1108 § 3.
Art. 9. Il primo paragrafo del can. 1112 CIC è integralmente sostituito dal testo
seguente:
§1. Dove mancano sacerdoti e diaconi, il Vescovo diocesano, previo il voto favorevole
della Conferenza Episcopale e ottenuta la licenza dalla Santa Sede, può delegare dei laici
perché assistano ai matrimoni, fermo restando quanto disposto dal can. 1108 § 3.
Art. 10. Il can. 1116 CIC avrà d’ora in poi un terzo paragrafo col testo seguente:
§3. In aggiunta a quanto stabilito dal § 1, nn. 1 e 2, l’Ordinario del luogo può conferire a
qualunque sacerdote cattolico la facoltà di benedire il matrimonio dei fedeli cristiani delle
Chiese orientali che non hanno piena comunione con la Chiesa cattolica se
spontaneamente lo chiedano, e purché nulla osti alla valida e lecita celebrazione del
matrimonio. Il medesimo sacerdote, tuttavia con la necessaria prudenza, informi della
cosa l’autorità competente della Chiesa non cattolica interessata.
Art. 11. Il primo paragrafo del can. 1127 CIC è integralmente sostituito dal testo
seguente:
§1. Relativamente alla forma da usare nel matrimonio misto, si osservino le disposizioni
del can. 1108; se tuttavia la parte cattolica contrae matrimonio con una parte non
cattolica di rito orientale, l’osservanza della forma canonica della celebrazione è
necessaria solo per la liceità; per la validità, invece, si richiede l’intervento di un
sacerdote, salvo quant’altro è da osservarsi a norma del diritto.
Quanto deliberato con questa Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che
abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di
speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano
e quindi pubblicato nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 31 maggio dell’anno 2016, quarto del Nostro
Pontificato.
Francesco pp.
Pag 5 All’insegna delle esigenze pastorali di Juan Ignacio Arrieta
Com’è ben noto, nella prima parte del pontificato di san Giovanni Paolo II si portarono a
termine i lavori di codificazione canonica, con la promulgazione nel 1983 del Codice di
Diritto Canonico e poi, nel 1990, del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. I due Corpi
legali hanno rappresentato l’aggiornamento della disciplina canonica precedente,
seguendo gli insegnamenti del concilio Vaticano II, grazie al contributo collegiale
dell’episcopato universale, frequentemente interpellato durante la redazione dei Codici. I
due testi rispecchiano, com’era doveroso, tradizioni giuridiche differenti anche se,
ovviamente, danno risposta uguale alle questioni essenziali riguardanti la fede della
Chiesa. Di fatto, centinaia di canoni sono letteralmente uguali e, in termini anche più
generali, i lavori del Codice orientale ebbero occasione di usufruire degli studi fatti per il
Codice latino che li precedevano nel tempo. Sono rimaste, però, alcune questioni sulle
quali i due testi non offrono risposte concordi e situazioni rilevanti che un testo tratta e
l’altro no. Il Codice di Diritto Canonico, per esempio, non ebbe occasione di beneficiare,
almeno in modo compiuto, delle riflessioni che portavano avanti i canoni orientali,
principalmente
in
questioni
in
cui
l’esperienza
giuridica orientale
risulta
significativamente più sensibile e aveva sviluppato criteri condivisibili. Tale è il caso delle
problematiche concernenti i rapporti inter-rituali. Mancano infatti nel Codice latino
previsioni specifiche riguardanti i rapporti con gli altri fedeli cattolici di rito diverso dal
latino. In quegli inizi degli anni Ottanta non s’intravedeva ancora la forte accelerazione
che il processo migratorio avrebbe subito nei decenni successivi, interessando molti
Paesi di tradizione canonica latina. Proprio tale processo di mobilità umana ha fatto
emergere un po’ dappertutto, nella quotidiana attività pastorale, i problemi di disparità
disciplinare dei due Codici, e la necessità di metterli in concordanza per dare sicurezza e
semplificare l’attività dei Pastori. Delle disarmonie tra un Codice e l’altro si è occupata a
lungo la dottrina scientifica. Già al tempo della promulgazione del Codice dei Canoni
delle Chiese Orientali si era consapevoli della sussistenza di questioni, di varia entità
dottrinale, che ancora rimanevano aperte e non sufficientemente risolte. Tra queste,
l’esperienza giuridica degli anni seguenti ha messo di rilievo quelle disarmonie che
intralciavano di più la quotidiana attività pastorale e richiedevano una risposta
omogenea da parte della Chiesa. Dell’argomento si è occupato il Pontificio Consiglio per i
testi legislativi sin dal pontificato di Benedetto XVI, che autorizzò l’avvio dei necessari
studi in vista di eventuali armonizzazioni nelle norme Codiciali. I risultati di questi lavori
sono stati divulgati tra gli studiosi, soprattutto in occasione dei convegni di studio
promossi dal dicastero, come quello celebrato nell’ottobre 2010 in occasione del XX
anniversario della promulgazione del CCEO (cfr. Communicationes, XLIII, 2010, pp. 239279). In seno al dicastero venne costituito un gruppo di esperti, docenti in Diritto
canonico orientale, che iniziò selezionando le questioni di maggior rilievo, tra quelle
individuate dagli autori. Vennero lasciate da parte le problematiche di ordine strutturale
e organizzativo, per concentrarsi su quelle più concrete e di maggiore urgenza pastorale.
Il risultato dei lavori del gruppo venne poi condiviso con un numero più elevato di
esperti canonisti e, successivamente ancora, con vari dicasteri e altre autorità
ecclesiastiche, tra cui tutti gli ordinari a capo delle strutture che nei vari Paesi curano la
pastorale dei fedeli orientali senza gerarchia propria. Nell’evolvere dei lavori, alcune
delle questioni inizialmente selezionate sono state lasciate da parte, mentre per altre si
è ritenuto opportuno risolvere in modo diverso la tematica. Tale è il caso, per esempio,
della Nota explicativa quoad can. 1 CCEO pubblicata sulla rivista «Communicationes»
(XLIII, 2011, pp. 315-316), ricordando che «si deve ritenere che la Chiesa latina è
implicitamente inclusa per analogia ogni volta che il CCEO adopera espressamente il
termine “Chiesa sui iuris” nel contesto dei rapporti inter-ecclesiali». Analogamente, una
questione puntuale che riguardava una prassi locale consolidata negli Stati Uniti
d’America sull’attenzione delle comunità orientali, venne risolta mediante una lettera alla
Conferenza Episcopale, resa pubblica attraverso «Communicationes» (XLIV, 2012, pp.
36-37). Di fatto si giunse anche alla convinzione che, volendo armonizzare i due Codici
nelle materie pastorali più bisognose di chiarimento, bastava limitare le modifiche ad
alcuni testi del Codice latino, senza necessità di toccare quello orientale. È proprio
questo ciò che stabilisce il recente motu proprio di Papa Francesco, accogliendo la
proposta di modifica dei canoni approvata dalla Riunione Plenaria del Pontificio Consiglio
per i Testi Legislativi del 31 maggio 2012. Una prima linea sulla quale si muovono le
modifiche adesso incorporate al Codice latino è quella di dare certezza sulla Chiesa sui
iuris di appartenenza delle persone, a cominciare dai bambini neobattezzati. In tale
senso, si riafferma il criterio dell’appartenenza del bambino alla Chiesa sui iuris del
genitore cattolico (nuovo can. 111 § 2 CIC), e si introduce l’obbligo di indicare la Chiesa
di appartenenza nel registro parrocchiale dei battesimi (nuovo can. 535 § 2 CIC). Per
quanto riguarda, poi, l’eventuale passaggio ad altra Chiesa sui iuris, il nuovo can. 112 §
3 CIC, che prima non esisteva, ispirandosi sostanzialmente ai cann. 36 e 37 CCEO, esige
che, salvo dispensa specifica, venga fatto in questi casi un atto formale di passaggio
davanti all’autorità competente, e che il suddetto cambiamento venga annotato anche
nel libro dei registri di battesimo, modificando di conseguenza il can. 535 § 2 CIC che
segnala le questioni da annotare in detto registro. Una seconda linea seguita con queste
modifiche punta a dare chiarezza in modo definitivo su due problematiche concernenti la
celebrazione del matrimonio dei fedeli orientali. La prima riguarda l’esigenza del can.
834 § 2 CCEO che richiede ad validitatem la benedizione di tali unioni da parte di un
sacerdote, mentre, nella disciplina latina, dal motu proprio Sacrum diaconatum ordinem,
del 18 giugno 1967 (AAS 59 [1967] 697 ss.), è consentito anche ai diaconi agire come
testimoni qualificati dei matrimoni. Soprattutto dopo la promulgazione dei due Codici, si
è cercato in varie occasioni di risolvere questo divario, senza mai giungere a risultati
concreti. In questa opportunità si è cercato di affrontare la questione stabilendo una
norma disciplinare positiva che risolve la questione aggiungendo un nuovo §3 al can.
1108 CIC: «Solo il sacerdote assiste validamente al matrimonio tra le parti orientali o tra
una parte latina e una parte orientale cattolica o non cattolica». Accanto a questo, il
Codice latino poneva una questione di legittimità giurisdizionale per l’assistenza del
parroco ai matrimoni dei sudditi. La redazione del can. 1109 CIC poteva far pensare - e
così è stato inteso in alcuni luoghi - che il parroco non potesse assistere al matrimonio di
due fedeli orientali, nemmeno essendo sudditi suoi, se nessuno dei due apparteneva alla
Chiesa latina. La redazione era poco chiara e la conclusione non molto coerente. Invece,
il testo del can. 829 § 1 CCEO era assai più preciso, decidendosi in conseguenza di
adottare uguale redazione e correggere il testo dalle frasi meno chiare del can. 1109
CIC. Una terza linea della riforma concerne la lecita partecipazione dei ministri latini alla
celebrazione dei sacramenti di fedeli ortodossi, sia nel caso dei battesimi che dei
matrimoni. Mancavano anche qui previsioni della disciplina latina riguardanti queste
contingenze che, invece, erano presenti in quella orientale e che il flusso migratorio degli
ultimi decenni rendeva imprescindibile adottare anche nella Chiesa latina. Un punto di
discrepanza riguardava la relativamente frequente richiesta ai parroci latini di
amministrare il battesimo ai figli di cristiani orientali non cattolici. Mentre una lettura
stretta del can. 868 §1 CIC suggerisce la non liceità del battesimo in questi casi, il can.
681 §5 CCEO considerava che il parroco orientale cattolico poteva lecitamente farlo.
Quest’ultimo testo è quello che adesso riprende il nuovo § 3 aggiunto al canone latino,
assieme alle puntuali modifiche inserite in altri luoghi al testo. Analoga questione poneva
la celebrazione del matrimonio. Il can. 833 CCEO prevede che il gerarca del luogo possa
conferire ad un sacerdote cattolico la facoltà di benedire il matrimonio di due ortodossi,
previa informazione, se possibile, dell’autorità competente. Nella disciplina latina
mancava, però, una disposizione del genere, essendo una questione che è diventata
assai più frequente in Paesi dove non è presente la gerarchia ortodossa del relativo rito.
Anche in questo caso è parso conveniente introdurre nel can. 1116 CIC un nuovo § 3
riprendendo con uguali requisiti la disciplina orientale, in modo che anche i sacerdoti
latini con la facoltà del proprio ordinario e le restanti condizioni possano benedire i
matrimoni dei fedeli ortodossi che spontaneamente lo richiedano. A tutte queste
modifiche, limitate ai punti strettamente necessari, si sono poi aggiunti in altri posti
lievissimi ritocchi volti a precisare alcuni concetti o remissioni per garantire l’osservanza
delle modifiche in altri contesti normativi. In tutto, come si vede dal provvedimento
pontificio, le variazioni interessano undici canoni del Codice di Diritto Canonico. Dalla
lettura del motu proprio, balza subito agli occhi come la motivazione di queste riforme
risponda alla volontà di agevolare la cura pastorale dei fedeli soprattutto nei cosiddetti
«luoghi della diaspora» dove vivono, in ambienti a maggioranza latina, migliaia di fedeli
orientali che hanno lasciato la loro terra di origine. Non resta ora che rammentare in
questo contesto quanto diceva san Giovanni Paolo II nel maggio 1995 nella Lettera
apostolica Orientale lumen: «Agli Ordinari latini di quei Paesi raccomando in modo
particolare lo studio attento, la piena comprensione e la fedele applicazione dei principi
enunciati da questa Sede... sulla cura pastorale dei fedeli delle Chiese orientali
cattoliche, soprattutto quando costoro sono sprovvisti di una propria Gerarchia» (n. 26).
Pagg 4 – 5 Sulle irregolarità nel ricevere l’ordine sacro
Lo scorso 31 maggio, nell’udienza concessa ai superiori del Pontificio Consiglio per i testi
legislativi, il Santo Padre ordinò la pubblicazione di una Risposta autentica al can. 1041
del Codice di Diritto Canonico, che era stata approvata nella seduta plenaria del
Pontificio Consiglio del 23 giugno 2015. Più che per la dovizia di casi in cui si presenta il
problema affrontato - ora, comunque, in sensibile aumento -, il provvedimento intende
segnalare la prevalente prospettiva sostanziale che, in termini generali, deve sempre
guidare l’interpretazione e l’applicazione delle leggi della Chiesa, evitando interpretazioni
solo formalistiche dei testi. La Risposta autentica riguarda la portata di alcune
irregolarità per ricevere l’ordine sacro previste dal can. 1041 nei nn. 4 e 5 del CIC. Le
irregolarità sono divieti, per chi avesse tenuto in passato determinati comportamenti
riprovevoli, di ricevere l’ordinazione - diaconale, sacerdotale o episcopale - senza la
necessaria dispensa da parte dell’autorità; non si tratta, dunque, di un reato o di una
punizione aggiuntiva, bensì d’una sorta di prevenzione per proteggere la dignità del
sacramento e gli stessi fedeli davanti a soggetti che in passato avessero seguito
determinate condotte illecite (sicuramente già perdonate, nella generalità dei casi). In
concreto, questi numeri del can. 1041 si riferiscono a chi avesse commesso omicidio, o
aborto, o avesse mutilato gravemente se stesso o un altro, o tentato il suicidio. Pur
essendo sostanzialmente simile, il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali presenta un
sistema diverso da quello delle irregolarità di tradizione latina e, quindi, non suscita
dubbi interpretativi di questo genere. Nella disciplina latina, sorgeva invece il problema
di dover valutare se queste concrete irregolarità riguardassero il compimento dei fatti
vietati o, piuttosto, l’essere incorsi specificamente nei rispettivi reati tipizzati dalla
disciplina penale della Chiesa, con la conseguenza che, in quest’ultimo caso,
risulterebbero esonerati, e non sarebbero incorsi in irregolarità, quanti avessero
realizzato colpevolmente le condotte censurate senza, però, cadere in reati canonici. La
questione va considerata nel contesto generale della disciplina penale della Chiesa e dei
soggetti che possano incorrere nei delitti canonici. Secondo il can. 11 del Codice di
Diritto Canonico, infatti, alle leggi puramente ecclesiastiche, e tali sono i delitti e le pene
stabilite dal legislatore canonico, sono tenuti solo i cattolici. Chi non fosse stato cattolico
al momento di porre in essere tali condotte, dunque, non sarebbe incorso
nell’irregolarità, se si dovesse fare una lettura solo formale del canone. Con la presente
Risposta autentica, il Pontificio Consiglio per i testi legislativi ha stabilito che anche i non
cattolici sono da ritenere soggetti passibili delle irregolarità di cui al can. 1041, nn. 4 e 5
CIC, ribadendo con ciò il distanziamento delle irregolarità dall’ambito della disciplina
penale canonica. Diversi sono gli argomenti che paiono suffragare la posizione adottata:
primo fra tutti, come già detto, la necessità di seguire con coerenza un ragionamento
sostanziale - e non formalistico - tra la revisione legislativa che l’irregolarità rappresenta
e l’interesse che oggettivamente si intende proteggere: la dignità del Sacramento e la
comunità di fedeli che dev’essere affidata alla responsabilità di un ministro. Due
parametri da confrontare con la realtà sostanziale, anziché con soli aspetti formali. Una
lettura differente avrebbe portato a proporre un trattamento discriminatorio, applicando
una diversa disciplina in funzione della condizione o meno di cattolico al momento dei
fatti, particolarmente paradossale e ingiusta, in quanto sia i cattolici che i non cattolici
sono ugualmente tenuti al rispetto della vita propria ed altrui, poiché appartenente
all’ordine naturale. Da un punto di vista strettamente tecnico, comunque, la soluzione
trova sostegno nel Codice stesso, seguendo le regole interpretative del can. 17 CIC.
Infatti, dopo aver trattato nel can. 1041 delle irregolarità per ricevere gli ordini sacri, il
successivo can. 1044 considera le cosiddette irregolarità per esercitare gli ordini ricevuti.
Queste sono divieti analoghi, riguardanti però fatti compiuti dopo l’ordinazione che
lasciano anche una «macchia» - diversa dal peccato e dall’eventuale reato canonico -,
per la quale è proibito l’esercizio del ministero, a meno che non si ottenga la dispensa
dall’Autorità. Ebbene, il confronto di questi due canoni pone in rilievo quale sia il giusto
modo di leggere il can. 1041. C’è, infatti, una rilevante differenza nei testi dei due
canoni. Il can. 1041, n. 4°, a proposito dell’irregolarità per «ricevere gli ordini sacri» così
si esprime: «Qui voluntarium homicidium perpetraverit aut abortum procuraverit»; ed
analogamente il n. 5°, per la mutilazione e tentativo di suicidio: «Qui seipsum vel alium
graviter et dolose mutilaverit vel sibi vitam adimere tentaverit». Il can. 1044 § 1, 3°,
invece, a proposito dell’irregolarità per esercitare gli ordini ricevuti dice esplicitamente:
«Qui delictum commisit, de quibus in can. 1041 nn. 3, 4, 5, 6». In sintesi, trattandosi
delle irregolarità in cui si cade dopo l’ordinazione, il Codice parla tecnicamente di
«delictum», espressione giustamente evitata a proposito delle irregolarità per la
ricezione dell’ordine, poiché non era sufficiente il riferimento al reato canonico per
proteggere l’interesse giuridico che si cercava di tutelare. Questa lettura della disciplina
della Chiesa tiene conto della natura teologica degli istituti e degli interessi ecclesiali che
s’intende proteggere, e pare necessario seguirla più in generale nell’applicazione delle
norme canoniche, assicurando soluzioni giuste alle controversie, proponendo nel
medesimo tempo come esemplare la specificità del proprio diritto, che fa affidamento
sulla coerenza sostanziale nel gestire l’esperienza giuridica.
Interpretatio authentica ad can. 1041, nn. 4-5 CIC
Patres Pontificii Consilii de Legum Textibus proposito in plenario coetu diei 23 Iunii 2015
dubio, quod sequitur, respondendum esse censuerunt ut infra:
D. Utrum sub locutione “irregulares”, de qua in can. 1041 CIC, veniant etiam non
catholici qui acta in nn. 4 et 5 posuerint.
R. Affirmative.
Summus Pontifex Franciscus in Audientia die 31 Maii 2016 infrascripto impertita, de
supradictis decisionibus certior factus, eas publicari iussit.
Franciscus Card. Coccopalmerio
Praeses
Iohannes Ignatius Arrieta
a Secretis
Risposta autentica al can. 1041, nn. 4-5 CIC
I Padri del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi nella riunione plenaria del 23 giugno
2015, hanno ritenuto di rispondere come segue al dubbio proposto:
D. Se sotto la locuzione “irregolari”, di cui al can. 1041 CIC, siano inclusi anche i non
cattolici che hanno posto gli atti di cui ai nn. 4 e 5.
R. Affermativamente.
Il Sommo Pontefice Francesco nell’Udienza concessa al sottoscritto il 31 maggio 2016,
informato delle decisioni sopra riportate, l’ha confermata e ha ordinato che venga
promulgata.
Francesco Card. Coccopalmerio
Presidente
Juan Ignacio Arrieta
Segretario
Pag 8 Sotto il mantello
Messa a Santa Marta
In un mondo di orfani, Maria è la madre ci comprende fino in fondo e ci difende, anche
perché ha vissuto sulla propria pelle le stesse umiliazioni che oggi, ad esempio,
subiscono le mamme dei detenuti. Celebrando la messa nella cappella della Casa Santa
Marta giovedì mattina, 15 settembre, giorno della memoria della beata Maria vergine
addolorata, Papa Francesco ha suggerito di rifugiarsi sempre, nei momento difficili,
«sotto il mantello» della madre di Dio, riproponendo così «il consiglio spirituale dei
mistici russi» che l’occidente ha rilanciato con l’antifona Sub tuum preasidium. Per la sua
meditazione sul «mistero della maternità di Maria», il Pontefice ha preso le mosse
dall’ultima cena: «Gesù, a tavola, si congeda dai suoi discepoli: c’è un’aria di tristezza,
tutti sapevano che c’era qualcosa che sarebbe finita male e facevano domande, erano
tristi». Ma «Gesù, in quel congedo, per dare loro un po’ di coraggio e anche per
prepararli nella speranza, dice loro: “Non siate tristi, il vostro cuore non sia triste, non vi
lascerò soli! Io chiederò al Padre di inviare un altro Paraclito, che vi accompagnerà. E lui
vi insegnerà tutto e vi ricorderà tutto ciò che io ho detto”». Il Signore, dunque,
«promette di inviare lo Spirito Santo per accompagnare i discepoli, la Chiesa sulla strada
della storia». Ma Gesù «parla anche del Padre». Infatti, ha ricordato Francesco, «in quel
lungo, lungo discorso con i discepoli, parla del Padre», assicurando «che il Padre vuole
loro bene e che qualsiasi cosa loro domandano al Padre, il Padre gliela darà. Che siano
fiduciosi nel Padre». E così, ha spiegato il Papa, fa «un passo in più: non solo dice “non
vi lascerò soli”, ma anche “non vi lascerò orfani, vi do il Padre, con voi è il Padre, il mio
Padre è il vostro Padre». Poi, ha proseguito Francesco, «avviene tutto quello che noi
sappiamo, dopo la cena: l’umiliazione, la prigione, il tradimento dei discepoli; Pietro
rinnega Gesù, gli altri fuggono». Tanto che, ha detto il Pontefice riferendosi al passo
liturgico del Vangelo di Giovanni (19, 25-27), sotto la croce c’era «soltanto un discepolo,
con la madre di Gesù, con Maria di Màgdala e l’altra Maria, parente». E lì, alla croce, «c’è
Maria, la madre di Gesù: tutti la guardavano», magari sussurrando: «Quella è la madre
di questo delinquente! Quella è la madre di questo sovversivo!». E Maria, ha aggiunto il
Papa, «sentiva queste cose, soffriva umiliazioni terribili e sentiva anche i grandi, alcuni
sacerdoti che lei rispettava perché erano sacerdoti», dire a Gesù: «Ma tu che sei tanto
bravo, scendi, scendi!». Maria, ha affermato Francesco, accanto a «suo Figlio, nudo, lì,
aveva una sofferenza tanto grande, ma non se ne è andata, non rinnegò il Figlio, era la
sua carne». Con una confidenza personale, il Papa ha ricordato: «È accaduto tante volte
quando andavo, nella diocesi di Buenos Aires, nelle carceri a visitare i carcerati, di
vedere la coda, la fila delle donne che aspettavano per entrare: erano mamme ma non
si vergognavano, la loro carne era lì dentro». E quelle «donne soffrivano non solo la
vergogna di essere lì», sentendo dire: «Ma guarda quella, cosa avrà fatto il figlio?».
Quelle mamme «soffrivano anche le più brutte umiliazioni nelle perquisizioni che
venivano fatte loro prima di entrare, ma erano madri e andavano a trovare la propria
carne». E così è stato anche per Maria, che «era lì, con il Figlio, con quella sofferenza
tanto grande». Proprio «in quel momento - ha fatto notare il Papa - Gesù, che aveva
parlato di non lasciarci orfani, che aveva parlato del Padre, guarda sua madre e ce la dà
a noi come madre: “Ecco, tua madre!”». Il Signore «non ci lascia orfani: noi cristiani
abbiamo una madre, la stessa di Gesù; abbiamo un Padre, lo stesso di Gesù. Non siamo
orfani». E Maria «ci partorisce in quel momento con tanto dolore, è davvero un martirio:
col cuore trafitto, accetta di partorire tutti noi in quel momento di dolore. E da quel
momento lei diventa la nostra madre, da quel momento lei è nostra madre, quella che si
prende cura di noi e non si vergogna di noi: ci difende». «I mistici russi dei primi secoli
della Chiesa - ha ricordato a questo proposito Francesco - davano un consiglio ai loro
discepoli, i giovani monaci: nel momento delle turbolenze spirituali rifugiatevi sotto il
manto della santa madre di Dio. Lì non può entrare il diavolo perché lei è madre e come
madre difende». Poi «l’occidente ha preso questo consiglio e ha fatto la prima antifona
mariana Sub tuum praesidium: sotto il tuo mantello, sotto la tua custodia, o Madre, lì
siamo sicuri». «Oggi è la memoria del momento che la Madonna ci ha partorito - ha
proseguito il Papa - e lei è stata fedele a questo parto fino al momento di oggi e
continuerà a essere fedele». E «in un mondo che possiamo chiamare “orfano”, in questo
mondo che soffre la crisi di una grande orfanezza, forse il nostro aiuto è dire: “Guarda a
tua madre!”». Perché abbiamo una madre «che ci difende, ci insegna, ci accompagna,
che non si vergogna dei nostri peccati» e «non si vergogna, perché lei è madre». In
conclusione, il Pontefice ha pregato «che lo Spirito Santo, questo amico, questo
compagno di strada, questo Paraclito avvocato che il Signore ci ha inviato, ci faccia
capire questo mistero tanto grande della maternità di Maria».
AVVENIRE
Pag 3 La presenza che si apre all’incontro di Anna Maria Canopi
Il Congresso eucaristico nel Giubileo della Misericordia
«L’Eucaristia sorgente della missione. Nella tua Misericordia a tutti sei venuto incontro»:
su questo tema è chiamata a riflettere la Chiesa italiana nel Congresso eucaristico
nazionale che la raduna a Genova, nel cuore del Giubileo straordinario della Misericordia.
Grazia su grazia! Nell’argomento scelto si legge l’ansia evangelizzatrice della Chiesa in
un mondo invaso da fermenti di neopaganesimo, come pure da un crescente
indifferentismo e da un dilagante individualismo che si manifestano nelle tante 'porte
chiuse', là dove dovrebbero esserci case accoglienti, nei tanti muri che si innalzano, là
dove si dovrebbero costruire ponti. Ma l’Amore non sarà mai sconfitto. A mantenerlo
vivo Gesù stesso si è dato nel Sacramento dell’Eucaristia. La sua presenza in questo
'frammento' di pane consacrato è medicina per i cuori spezzati, per le famiglie divise,
per la società conflittuale di ogni tempo e luogo. Il Pane di vita divina può riplasmare la
povera argilla umana. A tutti, infatti, è venuto incontro il Misericordioso, Colui che, nato
Uomo tra gli uomini, è passato per le strade della Palestina beneficando e risanando; a
tutti anche oggi viene incontro bussando instancabilmente alla porta dei nostri cuori.
Ancora di più: Egli ormai rimane sempre con noi. Allora folle di poveri lo seguivano, non
solo per i miracoli da Lui compiuti ma perché erano attratti dal fascino della sua Persona,
dall’autorevolezza della sua Parola, dalla bontà e mitezza del suo comportamento,
vedendolo chinarsi misericordioso sulle loro miserie. E noi, oggi, sappiamo riconoscerlo?
Instancabile e silenzioso Pellegrino, Egli cammina al nostro fianco, si fa nostro compagno
di viaggio sulle strade delle nostre esistenze, ma forse il ritmo serrato e concitato dei
nostri impegni, l’ansia del fare, del correre, il 'sovraffollamento' di tanti pensieri,
immagini, sentimenti che fanno ressa nei nostri cuori ci impediscono di scorgerlo, come
di abbracciare con uno sguardo fraterno le persone che incontriamo, che ci passano
accanto, che lavorano con noi e che forse attendono un piccolo aiuto, un semplice
sorriso. Ecco, di fronte a questa situazione globale il Congresso di Genova più che un
approfondimento teologico o pastorale sull’Eucaristia vuole essere un invito a un nuovo
stile di vita, dove il primato sia dato a Dio e non all’'io': uno stile di vita più
contemplativo, più pacato, più silenzioso, in cui ci sia tempo per fermarsi, stare in
silenzio e adorare, ossia per accostare la bocca del cuore al Cuore divino, per 'respirare
Cristo'. Perché ciò avvenga bisogna tenere fisso lo sguardo su Gesù e lasciarsi da Lui
attirare nelle sue vie di libertà e di amore. Come ai discepoli di Emmaus, Egli si rende a
noi presente nella Sacra Scrittura; bisogna ascoltarla, leggerla, custodirla e attuarla per
incontrare Lui, vivere di Lui, acquisire i suoi sentimenti e i suoi pensieri; sentirsi ardere il
cuore d’amore per Dio e per i fratelli. Ancora di più, Egli è presente e vivo nel
Sacramento dell’Eucaristia. Per continuare a rimanere con noi ha scelto questa realtà
sacramentale così povera, umile, quasi insignificante: un frammento di pane, che tanto
facilmente nella nostra società consumistica viene sciupato, gettato via. Forse anche noi
siamo tra quelli... Eppure sappiamo che milioni di persone muoiono di fame. Fame del
pane per la vita del corpo, ma soprattutto fame di quel Pane vivo che è Dio. «O umiltà
sublime e sublimità umile - esclamava san Francesco d’Assisi - che il Signore
dell’universo e Figlio di Dio abbia a umiliarsi così da nascondersi sotto la piccola figura
del pane per la nostra salute! Guardate, fratelli, l’abbassamento di Dio, ed effondete
davanti a lui i vostri cuori». Ecco l’adorazione! Consapevole di avere nell’Eucaristia il suo
inestimabile tesoro, la Chiesa non potrà mai rinunciare a circondarla del culto che le è
dovuto: l’adorazione. Nel canto eucaristico «Adoro Te devote» è espresso lo stupore per
il dono inestimabile di questa presenza sacramentale di Cristo Redentore e mai
basterebbero le parole per farne comprendere la grandezza nella apparente piccolezza.
Proprio perché gli uomini in precipitosa corsa dietro molte altre cose fuggevoli possano
essere fermati e posti davanti all’essenziale, davanti a Colui che è il Signore del tempo e
della storia, occorre continuamente ricordare e proclamare che a Lui spetta l’omaggio
del tempo, in totale gratuità, come pure l’omaggio di tutto ciò che di più bello esiste nel
creato. Del resto proprio nel culto divino e nell’adorazione l’uomo si eleva alla più grande
dignità. Il tempo che riserviamo all’Adorazione eucaristica non è certo un tempo
sottratto ai nostri impegni, ai nostri doveri di cristiani, di discepoli che vogliono essi
stessi diventare 'eucaristia', pane donato per la vita degli altri. Al contrario, prolungate
soste o anche solo brevi ma intensi istanti di adorazione davanti al Sacramento, sono
momenti preziosi per «più 'imparare' Dio e così divenire certi di Lui, anche se tace, per
diventare lieti in Dio», come affermava Benedetto XVI. Questo intimo essere con Dio,
questa esperienza di stare in povertà e gratuità alla presenza di Gesù eucaristico, è ciò
che ci aiuta anche a vivere più umanamente e pacificamente i rapporti fraterni. Partendo
dallo sguardo rivolto a Gesù, dall’adorazione di Lui nell’Ostia consacrata, avremo uno
sguardo diverso sul mondo e sulla storia. Nell’Ostia che contempliamo, infatti,
incontriamo con Gesù anche tutti i fratelli, la fatica del loro lavoro, le loro sofferenze e la
loro solitudine, la loro sete di comunione e il loro desiderio di pace. E possiamo credere
che se, nel nostro mondo diviso, sapremo essere noi stessi e vedere gli altri come
frammenti di Eucaristia, avremo la gioia di adorare in tutti e in tutto la Presenza di Dio e
di irradiarla silenziosamente attorno a noi.
Pagg 8 – 9 Quel popolo che si ritrova nell’adorazione perpetua di Francesco
Ognibene e Francesco Dal Mas
Cresce la rete delle cappelle aperte giorno e notte. Venezia: “Si impara ad aprirsi agli
altri”
Li chiamano custodi, o sentinelle: vegliano davanti a tabernacoli e ostensori nella
penombra di chiese nelle quali, a lungo, spesso sono loro l’unica presenza umana. Ore
intere, lo sguardo fisso, anche in ginocchio. Chi entra e non sa nulla di questo “popolo”
di adoratori dell’Eucaristia può pensare che stiano perdendo il loro tempo, con tutto il
daffare che ci sarebbe in parrocchia, nel quartiere, in paese. Ma è proprio la loro scelta
di vegliare davanti al Signore a rivelare il “segreto” della Chiesa: custodire Dio non per
farne una proprietà gelosa ma per avvicinarlo al mondo. Il loro naturale silenzio non ne
fa gli oggetti della curiosità mediatica, a fatica ci si accorge che ci sono. Ma sempre più
parrocchie si impegnano per accompagnare a turno Gesù eucaristico almeno per alcune
ore della giornata, tenendo aperta la chiesa – come chiede il Papa – anche in orari “di
pausa”, o a fine giornata, quando più facilmente si può essere colti dall’impulso anche
inatteso di entrare e cercare pace, accoglienza, dialogo. Con la sorpresa di vedere che,
dentro, c’è chi già lo sta facendo, e ha l’aria di essere lì senza alcuna fretta di andare
altrove. Perché col Signore, a tu per tu, in silenzio, si è certi di stare sempre nel posto
giusto. È lo spirito che anima da 15 anni i promotori in tutta Italia dell’Adorazione
eucaristica perpetua (Aep), per la quasi totalità laici, grazie ai quali sono oggi attive 65
cappelle dove è esposto il Santissimo Sacramento giorno e notte, quasi sempre in un
locale della parrocchia appositamente dedicato, e dove notte e giorno è assicurata la
veglia almeno di una persona. «Oasi di pace dove il silenzio è abitato da una Presenza»:
così definisce le cappelle eucaristiche padre Justo Lo Feudo, argentino, che ha
contribuito alla semina iniziale di almeno due terzi delle presenze oranti in Italia (e di
molte delle oltre 3mila cappelle attive nel mondo). Membro dei Missionari della
Santissima Eucaristia – congregazione francese originaria della diocesi di Frejus-Toulon
–, padre Justo è a Sant’Ilario (Parma) dove sta aiutando a organizzare la cappella
italiana numero 66, conteggio avviato il 2 marzo 2001 con l’apertura della primissima
presso la Basilica romana di Sant’Anastasia al Palatino: «Di solito ci chiama il vescovo
locale, ma spesso lo fanno i laici di una parrocchia che desiderano dare vita a
un’esperienza di adorazione perpetua », spiega il religioso, che non nasconde la
complessità dell’operazione mitigata dal suo straordinario fascino spirituale (e
apostolico): «Occorre un nucleo di partenza disponibile ad assumere una responsabilità
– chiarisce –: una volta individuati un coordinatore generale, 4 per le sei fasce in cui va
suddivisa la giornata e altre 24 che si prendono cura ciascuna di un’ora, le adesioni
arrivano, a volte con grande abbondanza. L’esperienza dell’adorazione silenziosa e
puntuale attira molto, e ha l’effetto di avvicinare alla chiesa tanti che a Messa non si
vedono, abitualmente non vi mettono piede da tempo e che invece sostano volentieri
insieme ad altri che pregano, per cercare una pace spesso desiderata come l’acqua nel
deserto». I numeri parlano di una media di 300 persone per ogni cappella, con punte di
oltre 500 «che ruotano attorno a un’esperienza viva e matura», per un totale di 20mila
adoratori dell’Eucaristia certamente attivi in Italia solo attorno alle cappelle con un
impegno personale di «almeno un’ora a settimana, ma con tutti quelli che passano e
restano anche solo per un breve periodo il “giro” è ben più ampio». È vero che in questa
rete di esperienze di adorazione perpetua il beneficio non va pesato in base ai numeri.
Per spiegarsi a padre Justo piace ricordare i tre ospedali nelle cui cappelle si adora
l’Eucaristia lungo le 24 ore: Reggio Emilia, Sassuolo, e Fermo, «esperienze pressoché
uniche al mondo»: «Il Signore esposto sotto le specie eucaristiche anche di notte –
racconta – attira il personale di turno ma anche tanti parenti in visita, con un viavai
continuo attorno a chi si dà il turno ogni ora, sempre aspettando chi subentra. Una
mobilitazione spirituale commovente». Le cappelle sono attive in tutte le regioni: l’elenco
completo è su www.adorazioneucaristicaperpetua.it, sotto la voce “cappelle”.
Venezia. «Venite in disparte e riposatevi un po’». L’invito di Gesù spicca - perfino in
russo e cinese -, nella notte profonda di Venezia, dall’ingresso della cappella, accanto
alla chiesa di San Silvestro, a pochi metri dal ponte di Rialto. La movida ti ha stancato?
Ecco il Signore eucaristico che ti aspetta, a braccia aperte, ti fa sedere e riflettere, in
silenzio. «È da un anno e mezzo che siamo impegnati nell’adorazione perpetua, giorno e
notte, senza soste – racconta il parroco don Antonio Biancotto –. Stiamo riproponendo la
confortante esperienza che da circa 13 anni sta portando avanti la parrocchia di San
Maria Goretti, a Carpenedo di Mestre, con il parroco don Narciso Danieli, con frutti
davvero rassicuranti sul piano dell’evangelizzazione ». Ben 220 gli adoratori che si
alternano, alcuni sono cristiano ortodossi, provengono dalla città, dalle isole, dalla
terraferma, non solo adulti e pensionati, ma anche giovani. E tra questi gli
'evangelizzatori di strada', quei ragazzi che la sera portano il Vangelo tra il popolo della
movida. «La compagnia di Gesù non è esclusiva – racconta Antonio –, anzi ti sollecita a
cercare l’altro, specie se è in difficoltà». L’adorazione perpetua si accompagna, pertanto,
ad un’attenzione privilegiata per il povero di spirito, oltre che del necessario per vivere.
Accade, per esempio, che in chiesa si rifugia, nel cuore della notte, il padre di famiglia,
mezzo ubriaco, e che prendendo coscienza del suo stato si avvilisce, non sa come
affrontare moglie e figli. Ed ecco l’adoratore di turno che prova a consolarlo. È frutto di
questo impegno l’accoglienza in parrocchia di una famiglia di profughi curda. Ogni primo
giovedì del mese l’adorazione diventa comunitaria, a partire dalla lectio divina. I gruppi
del catechismo vengono accostati all’adorazione come esperienza di vita, ovviamente
dimensionata alla loro età. Ecco, l’adorazione perpetua come scuola di vita. In
preparazione del Congresso eucaristico nazionale è proprio qui che ieri sera il patriarca
di Venezia, Francesco Moraglia, ha celebrato la Messa, ha portato il Santissimo in
processione e poi ha benedetto la folla di adoratori. Tra cui, anche tanti stranieri.
Pag 25 “La riforma della Chiesa? Non teorie, ma vita reale” di Antonio Spadaro
Spadaro: il Papa non si impone sulla storia ma sa dialogare con tempi, luoghi e persone
Pubblichiamo in questa pagina ampi stralci del primo capitolo di un testo non solo molto
interessante ma la cui genesi ha fatto non poco discutere. Si intitola 'La riforma e le
riforme nella Chiesa' (Queriniana, pagine 605, euro 53) ed è stato curato da Antonio
Spadaro e Carlos Marìa Galli. L’interesse teologico è racchiuso nella natura stessa del
libro. Una raccolta di 30 saggi inediti scritti da altrettanti specialisti della materia (dodici
ecclesiologi, cinque storici della chiesa, otto ecumenisti, tre canonisti, sei professori di
teologia spirituale e pastorale). Tra gli, oltre a padre Spadaro, autore appunto del
capitolo iniziale che qui proponiamo in sintesi, sono presenti contributi di Andrea
Riccardi, John O’Malley, Silvia Scatena, Severino Dianich, Hervé Legrand, Myriam
Wijlens, Piero Coda, Diego Fares, Serena Noceti, Mario de Franca Miranda, Mary Melone
e il vescovo (l’unico presente) Victor Manuel Fernàndenz, rettore della Pontificia
Università Cattolica dell’Argentina. Dal 28 settembre al 2 ottobre 2015 si sono ritrovati
tutti insieme presso la sede della 'Civiltà Cattolica' e hanno dato vita a un confronto
fondato sul dialogo. Obiettivo quello di fornire spunti teologici e istituzionali per pensare
la riforma e le riforme nella e della Chiesa in una prospettiva quanto più ampia possibile:
dal rinnovamento del Vaticano II alla comunione sinodale, dall’unità dei cristiani alle
indicazioni verso una chiesa più povera, fraterna e inculturata. Esclusi esplicitamente
dall’ordine del giorno i temi legati al matrimonio e alla famiglia, perché al centro del
Sinodo dei vescovi che si sarebbe aperto solo tre giorni dopo. Evidente però che la
presenza di tanti teologi di fama nella sede della 'Civiltà Cattolica' per quasi una
settimana e l’approssimarsi dell’assemblea sinodale, ha fatto concludere a qualche
complottista di professione che il seminario – tra l’altro si è svolto a porte chiuse – era
stato pensato per 'pilotare' il dibattito del Sinodo. Ora il mistero è svelato. Nessuna
strategia occulta. Per rendersene conto basta percorrere le 600 pagine del volume ora in
libreria.
Papa Francesco è un papa gesuita e la sua idea della riforma della chiesa corrisponde
alla visione ignaziana. La riforma è un processo davvero spirituale che cambia anche le
strutture per connaturalità, come la cartina di tornasole cambia colore naturalmente
perché muta il livello di acidità o di alcalinità del liquido in cui è immersa. Uno dei grandi
modelli ispiratori di Bergoglio è il gesuita san Pierre Favre, che Michel de Certeau
definisce semplicemente il «prete riformato», per cui l’esperienza interiore, l’espressione
dogmatica e la riforma strutturale sono intimamente indissociabili. È a questo genere di
riforma che papa Francesco si ispira. Ma quanto Francesco ha chiara questa radice
ignaziana nel suo modo di interpretare se stesso, anche come pontefice? Nel pomeriggio
del 19 agosto 2013 sono entrato per la prima volta nella camera di papa Francesco a S.
Marta. Avevamo concordato quel giorno per l’intervista che poi apparve su La Civiltà
Cattolica e su altre riviste dei gesuiti. La prima domanda che gli feci non era scritta nei
miei appunti. Ed era: «Chi è Jorge Mario Bergoglio?». Lui, ricordo, mi fissò in silenzio.
Pensavo di aver fatto un passo falso. Mi fece un rapido cenno per farmi capire che
avrebbe risposto, e poi mi disse lentamente: «Non so quale possa essere la definizione
più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di
dire, un genere letterario. Sono un peccatore». Francesco, continuando a riflettere,
compreso, disse: «Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che
sento più vera, è proprio questa: “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”».
Ascoltando queste parole, mi resi conto che il papa mi aveva dato una risposta duplice.
La prima è quello che ha detto: lui si percepisce come un peccatore salvato. Ma,
parlando a me, gesuita come lui, mi ha risposto definendosi alla luce della sua
spiritualità e della sua scelta di vita come gesuita, appunto [...]. La spiritualità di Ignazio
di Loyola è una spiritualità storica, legata alla dinamica della storia. Essa, anzi, fa
lievitare la storia e organizza, strut- tura una istituzione. Il ministero spirituale di Ignazio
si istituzionalizza in servizio della chiesa, dando forma alla Compagnia di Gesù e alla sua
capacità di dialogo con la cultura e con la storia. In realtà questo è lo sfondo su cui si
dipinge un ritratto più complesso, che è di capitale importanza per comprendere il modo
di procedere di Bergoglio nel suo pontificato. Egli nota che nella vita di Ignazio si
riscontra la coerenza interna del suo progetto. Ma che cos’è il “progetto” di Ignazio? Una
visione teorica pronta per essere applicata alla realtà, per costringerla nei suoi limiti? È
un’astrazione da calare nel concreto? Nulla di tutto questo. «Il suo progetto non è una
pianificazione di funzioni, non è un assortimento di possibilità. Il suo progetto consiste
nel rendere esplicito e concreto ciò che egli aveva vissuto nella sua esperienza
interiore», ha scritto Bergoglio. Si comprende così che la domanda su quale sia il
“programma” di papa Francesco non ha senso. Il papa non ha idee chiare e distinte da
applicare al reale, ma avanza sulla base di una esperienza spirituale e di preghiera che
condivide nel dialogo e nella consultazione. Questo modo di procedere si chiama
“discernimento”: è il discernimento della volontà di Dio nella vita quotidiana. Sebbene
esso si compia nell’ambito del cuore, dell’interiorità, la sua materia prima è sempre l’eco
che la realtà quotidiana riverbera in quell’intimità. È un atteggiamento interiore che
spinge a essere aperti al dialogo, all’incontro, a trovare Dio dovunque egli si faccia
trovare, e non solamente in perimetri angusti o comunque ben definiti e recintati [...]. Il
papa ha ben chiaro il contesto, la situazione di partenza: è informato, ascolta pareri; è
saldamente aderente al presente. Tuttavia la strada che intende percorrere è per lui
davvero aperta, non è in una road map teorica: il cammino si apre camminando.
Dunque il suo “progetto” è, in realtà, un’esperienza spirituale vissuta che prende forma
per gradi e che si traduce in termini concreti, in azione. Non una visione che fa
riferimento a idee e concetti, ma un vissuto che fa riferimento a “tempi, luoghi e
persone” e dunque non ad astrazioni ideologiche. Per cui quella visione interiore non si
impone sulla storia cercando di organizzarla secondo le proprie coordinate, ma dialoga
con la realtà, si inserisce nella storia degli uomini, si svolge nel tempo. Francesco è il
papa dei processi, degli “esercizi”. Come il superiore che, nella sua visione, deve essere
«guida dei processi e non mero amministratore». Questa è, a suo avviso, la forma del
vero «governo spirituale». Il pontificato bergogliano e la sua volontà di riforma non sono
e non saranno solamente di ordine “ammini-strativo”, ma di avviamento e di
accompagnamento di processi: alcuni rapidi e folgoranti, altri estremamente lenti. Il
processo è dunque davvero aperto: solo Dio ne conosce la conclusione e il frutto. È ben
altro e ben più che il progetto umano, ed è «più delle nostre attese». Fossero pure
quelle di un papa. In Meditaciones para religiosos – riflessioni scritte quando era padre
gesuita e durante il suo incarico di provinciale dei gesuiti argentini – egli spiega questa
dinamica del processo con intelligenza spirituale e pratica. Usa un ’immagine molto
efficace di origine evangelica: «Veniamo incoraggiati a edificare la città, ma forse
bisognerà abbattere il modellino che ci eravamo disegnati nella nostra testa. Dobbiamo
prendere coraggio e lasciare che lo scalpello di Dio raffiguri il nostro volto, anche se i
colpi cancellano alcuni tic che credevamo gesti». La pars destruens, che consiste nell
’abbattere il “modellino ”, e funzionale a lasciare alle mani di Dio lo scalpello. Ecco un
’altra nota interessante per comprendere l’azione di Francesco. Ne è esempio notevole il
movimento impresso alla chiesa intera con la III Assemblea generale straordinaria del
sinodo dei vescovi. Esso è stato pensato come un processo che è stato avviato da un
ampio questionario rivolto a tutto il popolo di Dio, è confluito nel sinodo straordinario e
ha aperto un anno di riflessione prima di riconfluire in una Assemblea ordinaria dello
stesso sinodo. Ma la dinamica di parresia, di chiarezza e libertà di espressione e di
ascolto nella quale il processo e stato vissuto, ha avviato nella chiesa intera una
dinamica che ha persino spaventato molti. Eppure e proprio nei lontani anni Ottanta che
Bergoglio certificava la sua fiducia nei processi, e dunque una radicale fiducia nello
Spirito santo: la sapienza del discernimento «implica abbandonarsi alla volontà di Dio, e
questo a sua volta comporta rinunciare a controllare i processi con criteri meramente
umani ». E ancora: «Nei processi, aspettare significa credere che Dio e più grande di noi
stessi, che e lo stesso Spirito che ci governa » (ES 365), che è il «'Padrone' a far
crescere attento [...] il seme». Il papa vive una costante dinamica di discernimento, che
lo apre al futuro. Anche al futuro della riforma della chiesa, che non e un progetto, ma
un esercizio dello spirito che non vede solamente bianchi e neri, come vedono coloro che
vogliono sempre fare 'battaglie'. Bergoglio vede sfumature e gradualità: cerca di
riconoscere la presenza dello Spirito nella realtà umana e culturale, il seme già piantato
della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni
profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali. E il seme non è l ’albero:
spesso è sepolto e dunque invisibile a un occhio poco attento…
Pag 25 Ora è più agevole per i preti latini sposare i fedeli ortodossi di Gianni
Cardinale
Roma. I sacerdoti cattolici di rito latino possono ora battezzare lecitamente anche i bimbi
figli di «cristiani non cattolici», qualora lo chiedessero. E, col permesso del vescovo,
benedire i matrimoni di cristiani delle Chiese orientali non in «piena comunione» con
Roma, non prima di aver avvisato «con la necessaria prudenza» l’autorità della Chiesa
non cattolica interessata. Sono queste due delle novità pratiche introdotte nel Codice di
diritto canonico con il motu proprio De concordia inter Codices, firmato da papa
Francesco il 31 maggio e diffuso ieri. Nel testo si ricorda che l’aumentata «mobilità della
popolazione» ha «determinato la presenza di un notevole numero di fedeli orientali in
territori latini», come accaduto ad esempio in Italia e in l’Europa Occidentale con l’arrivo
di fedeli ortodossi e orientali da Romania, Ucraina, Moldavia, Egitto e Medio Oriente. Di
qui la necessità di una maggiore «armonia» tra le norme del Codice di Diritto Canonico
del 1983 e quelle del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali del 1990. Con l’obiettivo di
trovare «un giusto equilibrio tra la tutela del Diritto proprio della minoranza orientale e il
rispetto della storica tradizione canonica della maggioranza latina», in modo da evitare
«indebite interferenze e conflitti» e promuovere «la proficua collaborazione tra tutte le
comunità cattoliche presenti in un dato territorio». Come spiegato a Radio Vaticana dal
vescovo Juan Ignacio Arrieta, segretario Motu proprio Francesco ha deciso la modifica
del Codice di diritto canonico per l’aumento in Occidente di cristiani orientali del
pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, «già si sapeva che c’erano alcune piccole
divergenze nei due Codici, però il problema si è accentuato soprattutto con la mobilità e
con la emigrazione degli ultimi tempi». Il presule ha ricordato ad esempio che «secondo
la regola orientale, per la benedizione degli sposi è necessario un sacerdote; nella
disciplina latina basta un diacono ». E col motu proprio si specifica «che per sposare i
cattolici orientali ci vuole sempre un sacerdote, non un diacono». Il nuovo documento
pontificio stabilisce cambiamenti ed integrazioni in undici canoni del Codice. Per quanto
riguarda i battesimi, si riafferma il criterio dell’appartenenza del bambino alla Chiesa sui
iuris del genitore cattolico e si introduce l’obbligo di indicare la Chiesa di appartenenza
nel registro parrocchiale dei battesimi. Per ciò che concerne, poi, l’eventuale passaggio
ad altra Chiesa sui iuris, si stabilisce che, salvo dispensa specifica, venga fatto in questi
casi un atto formale di passaggio davanti all’autorità competente e che il suddetto
cambiamento venga annotato anche nel libro dei registri di battesimo. Sempre ieri è
stata diffusa l’interpretazione autentica, preparata dal pontificio Consiglio per i testi
legislativi e confermata dal Papa, di un canone del Codice. Con essa si precisa che anche
coloro che non erano cattolici al momento di incorrervi sono da ritenersi soggetti
passibili di quelle irregolarità che costituiscono divieto di ricevere l’ordinazione diaconale,
sacerdotale o episcopale, senza la necessaria dispensa da parte dell’Autorità. In
particolare riguarda chi avesse tenuto in passato comportamenti riprovevoli, come chi
avesse commesso omicidio, o aborto, o avesse mutilato gravemente se stesso o un
altro, o tentato il suicidio.
LA STAMPA
Enzo Bianchi: la libertà nasce dalla lotta interiore di Enzo Bianchi
I termini «asceta» e «atleta» non solo condividono la stessa etimologia, ma riguardano
una cerchia ben più ampia di quanti mettono alla prova anche il proprio corpo nella
ricerca di Dio o nelle competizioni sportive. L'agone, la lotta riguarda ciascuno di noi,
chiamato ad affrontare il duro mestiere di vivere e l'esigente sfida del proprio essere
«animale sociale». E se «agonismo» può indicare un'istanza di competitività, a volte
eccessiva nel suo pretendersi criterio esclusivo, la lotta spirituale ne è il sano
contrappunto. Esigenza radicale per una vita interiore robusta, presente in tutte le
religioni e in numerose scuole filosofiche, la lotta spirituale nella tradizione ebraicocristiana appare fin dalle prime pagine della Bibbia: chiamato a «dominare» all'interno
del creato, l'essere umano deve esercitare un dominio su di sé, sul male che lo
minaccia: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu
dominalo» (Genesi 4,7). Si tratta dunque di una lotta interiore, non rivolta contro esseri
esterni a sé, ma contro le tentazioni, i pensieri, le suggestioni e le dinamiche che
portano alla consumazione del male. L'apostolo Paolo, servendosi di immagini belliche e
sportive (la corsa, il pugilato riemerge l'accostamento atleta/asceta), parla della vita
cristiana come uno sforzo, una tensione interiore a rimanere nella fedeltà a Cristo, che
comporta lo smascheramento delle dinamiche attraverso le quali il peccato si fa strada
nel cuore umano, così da poterlo combattere al suo sorgere. Il cuore, infatti, è il luogo di
questa battaglia. Il cuore inteso nel senso, derivato dall'antropologia biblica, dell'organo
che meglio può rappresentare la vita nella sua totalità: centro della vita morale e
interiore, sede dell' intelligenza e della volontà, il cuore contiene gli elementi costitutivi
di quella che noi chiamiamo la «persona» e si avvicina a ciò che definiamo «coscienza».
Ma tutto questo, nel cristianesimo, non è affatto semplicemente un movimento di
«discernimento e di aggiustamento psicologico»: questa, dice Paolo, è «la lotta della
fede» (1 Timoteo 6,12), l'unica lotta che può essere definita «buona». È cioè la lotta che
nasce dalla fede, dal legame con Cristo manifestato dal battesimo, che avviene nella
fede, cioè nella fiducia della vittoria già riportata dal Cristo stesso, e che conduce alla
fede, alla sua conservazione e al suo irrobustimento. La lotta spirituale mira, secondo la
tradizione cristiana, a custodire la «sanità spirituale» del credente. Disciplina
indubbiamente faticosa, ma capace di trasformare la fatica in bellezza, qualità della vita
autentica e della convivenza. Le è necessaria la resistenza spirituale nei confronti di
pulsioni, suggestioni, ossessioni che sonnecchiano nel profondo del nostro cuore, ma che
sovente si destano ed emergono con una prepotenza aggressiva che le rende per noi
tentazioni seducenti. Se il fine della lotta spirituale è l'apatheía, questa va intesa non nel
senso dell'impassibilità, ma dell'assenza di patologie: così questo combattimento
quotidiano mette in atto la valenza terapeutica della fede. Essendo la vita spirituale una
realissima e concretissima vita, essa deve essere nutrita e corroborata per poter
crescere e dev'essere curata quando è minacciata nella sua integrità. Occidente ed
Oriente cristiano hanno codificato ambiti e spazi in cui va esercitata tale lotta per
mantenere sempre il credente in un sano atteggiamento di comunione e non di
consumo. E le diverse tradizioni spirituali hanno anche indicato molto concretamente le
modalità di tale lotta, a cominciare dall' indispensabile apertura del cuore in una
relazione di fiducia con un «anziano», un «padre» spirituale. Ad essa si uniscono la
preghiera, l'ascolto e l'interiorizzazione della Parola di Dio e una vita di relazione, di
carità intensa e autentica. Questa lotta esige poi una grande capacità di vigilanza su di
sé e sui molti rapporti che si intrattengono e sui quali può innestarsi la tentazione, nelle
sue molteplici forme che abbracciano la molteplicità dei rapporti antropologici
fondamentali. Il rapporto col cibo, col proprio corpo e la propria sessualità, con le cose
(in particolare i beni, il denaro), con gli altri, con il tempo, con lo spazio, con l'operare e,
infine, con Dio. Sempre, in tutti questi ambiti, la tentazione si configura come seduzione
di vivere nel regime del consumo invece che in quello della comunione. Chi è
sperimentato nella vita spirituale sa che questa lotta è più dura di tutte le lotte esterne,
ma conosce anche il frutto di pacificazione, di libertà, di mitezza e di carità che essa
produce. È grazie ad essa, infatti, che l' amore, ogni nostro amore viene purificato e
ordinato.
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4 – ISTITUZIONI, ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI
IL GAZZETTINO
Pag 21 “Ti do la mia parola”, festa inter-etnica al Centro Kolbe: gastronomia,
reading e spettacoli teatrali di scrittori migranti
Il Centro Kolbe di Mestre in collaborazione col Servizio Immigrazione del Comune di
Venezia promuove per questo fine settimana un festival ("CultFest") per dare risalto alle
diverse culture che si incontrano sul territorio e contribuiscono a creare una società
plurale. In programma in via Aleardi a Mestre, reading e spettacoli teatrali da opere di
scrittori migranti, danze multietniche, musica, proiezioni cinematografiche, una tavola
rotonda con l'obiettivo di scambiare esperienze e buone pratiche. Il programma prevede
anche momenti conviviali in cui poter conoscere e apprezzare diverse ricette
gastronomiche. Colazioni, pranzi, aperitivi e cene verranno preparati dalle Associazioni
di immigrati attive nel nostro Comune. Oggi, dopo l’aperitivo di benvenuto alle 17, ci
sarà un reading sul tema "Quando l’immigrazione diventa matura", quindi una cena
etica, l’inaugurazione di una mostra d’arte collettiva e la proiezione del film "Breakfast in
Beirut", domani e domenica, per tutto il giorno, incontri, giochi per bambini,
gastronomia etnica e spettacoli serali.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag VI Marcianum, si volta pagina di Paolo Navarro Dina
Scelto il presidente che guiderà l’ente: sarà Roberto Crosta. “Va rilanciata l’attività di
ricerca e di studio d’ispirazione cristiana. Discontinuità col passato”
Il Marcianum volta pagina e si affida da un nuovo gruppo dirigente. Dopo la "burrasca"
che coinvolse, solo in maniera tangentale, la Fondazione di ispirazione cristiana, fondata
nel 2008, dall’allora Patriarca, cardinale Angelo Scola, che causò seri contraccolpi
all’attività culturale e educativa, ora si riparte con una nuova squadra, anche dopo
un’operazione di "ricostruzione" e di rilancio che ha visto intervenire in prima persona
l’attuale Patriarca, Francesco Moraglia. Presidente sarà Roberto Crosta, attuale
segretario della Camera di Commercio Venezia-Rovigo ("Continuerò anche in
quell’incarico, ma qui lavorerò senza compenso") in sostituzione di Gabriele Galateri di
Genola. Insieme a Crosta entreranno a far parte del nuovo assetto tre sacerdoti: Marco
De Rossi, direttore della Pastorale diocesa per i problemi sociali; Fabrizio Favaro, rettore
del Seminario patriarcale e Angelo Pagan, vicario generale del Patriarcato. Insieme a
loro Gianpiero Menegazzo, vicedirettore di Confindustria; l’avvocato Roberto Senigaglia e
Alberto Peratoner, docente di Filosofia alla Facoltà teologica del Triveneto. Una squadra
che dimostra la volontà di rilanciare la dottrina sociale della Chiesa, tema da sempre
caro al Patriarca. E anche il sottosegretario Pier Paolo Baretta ha commentato:
«Scegliere Crosta è stato importante. Si tratta di persona di qualità»
Presidente Crosta, un compito importante per rilanciare la Fondazione veneziana.
«Senz’altro. E sono onorato di questo incarico. Puntiamo a rilanciare questa Fondazione
come luogo di incontro e di dialogo, secondo una visione cristiana, della società che ci
circonda. Continueremo a svolgere il nostro ruolo di osservazione e di analisi, anche in
discontinuità con il passato. Ma il Marcianum vuole essere ciò che è sempre stato un
"think tank". Un luogo del pensiero».
I primi appuntamenti del nuovo corso?
«Lavoreremo, secondo le linee indicate dal Patriarca, sui temi religiosi e sociali. Siamo
già impegnati su argomenti importanti. Stiamo preparando alcuni incontri per discutere
di riforme costituzionali in previsione del prossimo referendum; sulle sofferenze del
mondo del credito e sul rapporto tra le generazioni».
Il Marcianum rinnovato tornerà ad essere al centro delle dinamiche cittadine.
«Certamente. Siamo chiamati ad un riposizionamento e ad una nuova visione della città,
anche in forma metropolitana. Cercheremo di percorrere queste strade con grande senso
di responsabilità, impegno e sobrietà».
Pag X Iusve, pioggia di richieste. Ammesso uno su sei di Melody Fusaro
L’Istituto salesiano alla Gazzera ha superato i 2.500 iscritti
Le richieste di iscrizione superano di sei volte i posti disponibili. Così tanti che un primo
filtro è stato messo ancora prima del test d'ingresso, così chi non aveva i requisiti non è
stato nemmeno ammesso. E, a conti fatti, per quest'anno allo Iusve uno entra e cinque
restano fuori. L'università salesiana di Mestre, in via Asseggiano, piace ai neodiplomati
ma anche a chi è pronto per una laurea magistrale o un master, e l’Iusve riparte con
800 nuovi studenti. In tutto il campus mestrino tocca i 2.550 iscritti (con 214 docenti) di
cui 790 "matricole", 425 alle triennali, 230 alle magistrali e 135 ai master. «Molti
genitori ci chiedono perché con così tante richieste scegliamo di tenerne così pochi spiega Mariano Diotto, direttore del dipartimento di comunicazione -. Noi lo facciamo per
gli studenti, perché ci piace seguirli uno a uno, conoscerli per nome e offrire loro
concrete opportunità lavorative». Psicologia, per esempio, deve fare i conti con l'esame
di stato, per comunicazione e pedagogia i conti si fanno tenendo conto di reali posti
disponibili nel mondo del lavoro. Tra le novità di quest'anno tanti nuovi progetti di
ricerca (come quelli legati alla realtà virtuale) e l'aggiunta di alcuni master, come quelli
di fotografia e video creativity per i laureati in comunicazione e il "corso biennale di alta
formazione per educatore di pastorale giovanile". «Quest'anno - aggiunge Nicola
Giacopini, direttore del Dipartimento di psicologia - puntiamo a rinforzare le
collaborazioni con le istituzioni, in particolare con i Comuni di Venezia, con cui seguiamo
progetti di ricerca sulla psicologia giuridica, il carcere e la sicurezza, quello di Treviso per
il progetto Erasmus che coinvolge Belgio e Francia sul tema della coeducazione, e con
Verona per un programma legato all'educazione». Altissimo (addirittura il 100% tra i 40
studenti delle magistrali di comunicazione) il tasso dei laureati o degli studenti che
terminano il master e trovano un lavoro grazie ai tirocini proposti da Iusve. «Una linea
che stiamo seguendo - aggiunge il preside Arduino Salatin -, in particolare legata al
Nordest, è quella del consolidamento del rapporto con le imprese. Collaboriamo con le
aziende che lavorano sull'export e cercano figure nel campo della comunicazione e con le
piccole imprese con particolare attenzione a quella familiare».
LA NUOVA
Pag 18 Marcianum, nuovo corso. Roberto Crosta presidente di m.a.
Il patriarca Francesco Moraglia ha nominato il Consiglio d’amministrazione. Al vertice
l’attuale segretario della Camera di Commercio, sacerdoti e docenti
Il Marcianum inaugura un nuovo corso nel segno della “sobrietà” e della “sostenibilità
economica”. È con queste premesse che il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, ha
nominato il nuovo consiglio d'amministrazione e il nuovo presidente per la Fondazione
Studium Generale Marcianum, che sarà d'ora in poi guidata da Roberto Crosta, attuale
segretario generale della Camera di Commercio di Venezia Rovigo Delta Lagunare. Il
capo spirituale della Chiesa veneziana, sulla base di uno statuto e di una struttura
organizzativa rinnovati e resi molto più agili rispetto al passato, ha provveduto alla
nomina di un nuovo consiglio di amministrazione composto per il prossimo triennio,
insieme allo stesso Crosta, dai seguenti membri: don Marco De Rossi (direttore della
Pastorale diocesana per i problemi sociali e del lavoro nonché parroco a Marghera), don
Fabrizio Favaro (rettore del Seminario patriarcale e della basilica della Salute), Gianpiero
Menegazzo (attuale vicedirettore di Confindustria Venezia), Roberto Senigaglia
(avvocato e professore di Diritto Privato all'Università Ca' Foscari), Alberto Peratoner
(docente di Filosofia alla Facoltà teologica del Triveneto) e don Angelo Pagan (vicario
generale del Patriarcato e docente della Facoltà di Diritto canonico S. Pio X). «Ringrazio
coloro che hanno raccolto l'invito a partecipare al nuovo corso del Marcianum», ha
dichiarato il Patriarca alla prima riunione del nuovo Consiglio, «che viene ripensato in
base alla sostenibilità effettiva e alle risorse disponibili ma che anche, nello stesso
tempo, vuole essere rilanciato. Da una parte, infatti, siamo invitati ad una sobrietà
massima e dall'altra ad essere significativi in città, trovando un suo focus specifico:
l'attenzione al territorio su tematiche che riguardano, in particolare, la dottrina sociale
della Chiesa». «Il Marcianum», ha commentato Crosta, «pur essendo presente da non
molti anni, è un'istituzione che ha saputo accreditarsi moltissimo in città. Il nuovo
Marcianum è oggi chiamato ad un riposizionamento e ad una nuova visione nei confronti
della città. Sarà questo il compito che, con il consiglio d'amministrazione, cercheremo di
percorrere con grande senso di responsabilità e con il massimo impegno». I primi fronti
di attività saranno un approfondimento sui temi della riforma costituzionale, le
sofferenze nel mondo del credito, la questione antropologica al rapporto tra le
generazioni.
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 1 La libertà è generativa di Francesco D’Agostino
Il “Fertility Day” e l’urgenza italiana
L’iniziativa del Ministero della Salute per un 'Fertility Day' ha provocato dibattiti molto
accesi, che spesso sono sconfinati in poco composte forme di protesta e di sarcasmo,
per la 'qualità' delle iniziative grafico-pubblicitarie promosse (e sulle quali, forse troppo
precipitosamente, Beatrice Lorenzin ha dichiarato di non avere difficoltà a fare marcia
indietro). Lasciando da parte questi profili, davvero marginali, possiamo individuare
alcuni punti cruciali che sono emersi da questi dibattiti. Il primo è che nessuno, o quasi,
tra coloro che hanno criticato la ministra è arrivato a negare la gravità della crisi
demografica che colpisce l’Italia e che è causata in massima parte dal volontario rinvio
della decisione di concepire, che ha portato l’età media in cui una donna ha il suo primo
figlio oltre i trent’anni. Credo che sia la prima volta che su questo punto, davvero
essenziale, non abbiamo sentito ripetere le affermazioni insulse, andate di moda fino a
ben poco tempo fa, quelle di chi continuava ad invitare gli italiani a non preoccuparsi del
calo demografico, che si sarebbe potuto fronteggiare grazie alla procreazione assistita o
ai flussi immigratori. In effetti, basta un minimo di ragionamento per capire che la
fecondazione artificiale non può, per la sua invasività, per l’altissimo numero di
insuccessi, per i suoi costi, che restare una prassi statisticamente marginale. Ancora più
semplicistica e ingenua l’ipotesi che il posto degli italiani 'non nati' possa essere
stabilmente occupato da immigrati: è impossibile per qualsiasi Paese, e per l’Italia in
particolare, mantenere o semplicemente proteggere la sua identità storica, artistica,
culturale, religiosa ed economica, quando si trovi nell’arco di poco decenni a essere
abitata, in alta percentuale, da stranieri portatori di tradizioni belle e rispettabili, ma
anche radicalmente diverse. L’immigrazione, se ha come finalità l’integrazione e non il
mero sfruttamento degli immigrati, ha bisogni di tempi lunghi per realizzarsi e il crollo
demografico non la favorisce, ma paradossalmente ne amplifica la problematicità. La
questione, insomma, non solo è reale, ma ormai urgentissima e finalmente sembra che
da tutte le parti ci si sia convinti di questa verità. Viva il 'Fertility Day', quindi? È giusto
esortare le italiane a fare figli e soprattutto convincerle a non rimandare la decisione di
diventare madri, facendo violenza alle indicazioni dell’«orologio biologico»? Niente
affatto, dicono i critici della ministra. Da una parte (e qui non hanno tutti i torti, come su
questo giornale è già stato ricordato da Massimo Calvi) sostengono che il fatto che le
donne facciano meno figli dipende anche da condizionamenti sociali, che nessuna
campagna ministeriale è in grado di alterare. Dall’altra, però, interpretano l’iniziativa di
Lorenzin come un attentato alla libertà sessuale delle donne, come un’indebita
intromissione nelle loro scelte procreative, che andrebbero considerate insindacabili e
lasciate alla loro totale autonomia. E qui arriviamo al punto cruciale della questione.
Questo argomento, che è dilagato nei giornali e nei media, mostra che non si riesce più
a percepire come maternità e paternità abbiano un valore antropologico intrinseco e
oggettivo (peraltro riconosciuto da tutte le culture e da tutte le tradizioni religiose).
Divenire madri e padri non significa infatti rendere un cieco omaggio alla 'natura' o
soddisfare desideri personali e privati (per quanto rispettabilissimi). Significa piuttosto
collocare se stessi nel contesto della famiglia umana, che è per sua struttura diacronica
e generativa e la cui dimensione personale e affettiva ha certamente una radice fisicobiologica, ma ancor più possiede una vocazione che va coraggiosamente ritenuta come
'metafisica'. Lo dimostra il fatto che la generatività qualifica sempre, sia in positivo che
in negativo, l’esperienza di tutti gli uomini e di tutte le donne: come fonte di felicità, per
chi accoglie i figli come un dono, come biasimevole chiusura egocentrica, per chi li rifiuta
ritenendoli un ostacolo alla propria realizzazione sociale, come causa di sofferenza, per
chi non riesce ad averli (ad esempio per ragioni patologiche), o come sublimazione, da
parte di chi rinuncia ai figli non per egoismo, ma operando la scelta mistica di farsi
«eunuco per il regno dei cieli» e, spesso, di vivere ed esercitare una paternità o
maternità spirituale. Un ben inteso 'Fertility Day' non può avere come obiettivo quello di
togliere alle donne e agli uomini la loro libertà procreativa o anche solo di incrinarla, ma
quello di far aprire loro gli occhi: la libertà umana autentica non passa attraverso la
liberazione dalla generatività. Aiutare le nuova generazioni a capire questo punto
fondamentale si sta rivelando come uno dei punti cruciali e più complessi dell’etica
sociale del nostro tempo.
Pag 3 I “social”, palazzo di vetro dove non c’è compassione di Chiara Giaccardi
La tecnologia non libera se non ne capiamo il senso
Una giovane donna si suicida, dopo che il video di un suo rapporto sessuale viene diffuso
da chi doveva tenerlo per sé, diventando virale. Rabbia, vergogna, incredulità per le
parodie e la totale mancanza di solidarietà e sdegno per questa gogna digitale hanno
spezzato una vita forse già fragile. Facile dire ora che non avrebbe dovuto lasciarsi
filmare, e soprattutto non avrebbe dovuto condividere il filmato con quei pochi che poi
non hanno esitato renderla zimbello del web. Diciamo anche a margine che non sempre,
e questa ne è prova lampante, i contenuti generati dall’utente sono una conquista e un
motivo di orgoglio: possono diventare «prodotti ad alto inquinamento sociale», con una
efficace espressione di Leonardo Becchetti. Ma al di là dell’amaro impasto di tristezza,
indignazione per la violenza simbolica (che ha sempre effetti molto concreti) e del «certo
che poteva evitare» è necessario cercare di imparare qualcosa da questa triste vicenda,
che non fa onore a nessuno. Fermarci a pensare. Thinking what we are doing, come
invitava a fare Hannah Arendt, in tempi bui, per non soccombere al male intorno.
Questo caso, nella sua tragica concretezza, ci può far riflettere su processi più generali,
nei quali siamo immersi anche come parte attiva, ma spesso troppo poco consapevole.
Ne menziono tre, sui quali questa vicenda, e troppe altre che le somigliano, devono farci
meditare. Il primo è quello che tra gli studiosi viene definito il 'collasso dei contesti'. È
stata la Tv a dare inizio a una riconfigurazione della geografia della vita sociale,
sganciando l’esperienza dal luogo, riscrivendo i modi della vicinanza e della lontananza,
rendendo pubblico il privato. Con i social media questo processo si radicalizza:
desideriamo raccontarci (l’atteggiamento di 'estimità' ed estroflessione che è il contrario
dell’intimità) e pensiamo di essere in una stanza a parlare coi nostri amici, mentre
invece siamo su un palcoscenico senza confini. Viviamo di fatto come in un palazzo di
vetro, dove tutti vedono tutti. E questo crea un problema. Noi negoziamo infatti le
nostre identità nelle relazioni con gli altri, in contesti diversi che richiedono una capacità
di sintonizzarsi e assumere comportamenti appropriati; e questo implica la possibilità di
rivelarci selettivamente ai diversi 'pubblici'. Non è, si badi bene, una forma di ipocrisia,
bensì di consapevolezza delle differenze. Non si sta in famiglia come sul lavoro, non ci si
comporta a una festa come a un funerale.
Oggi la gestione consapevole del nascondere/mostrare è diventata molto più difficile. E
non è un caso che l’universo social stia privilegiando le applicazioni che consentono
un’interazione più 'privata', più intima, più simile ai tradizionali contesti faccia a faccia: il
tentativo è quello di suddividere di nuovo in stanze separate l’open space creato dai
social media, di ripristinare la pluralità dei contesti. Ma siamo ancora lontani, e i rischi
non mancano comunque. Con i social media, in ogni caso, il broadcasting del sé
raggiunge una scala molto ampia, lasciando tracce permanenti e recuperabili nel tempo,
la cui accessibilità è al di fuori del nostro controllo. Esserne consapevoli è fondamentale.
E introduce il secondo punto cui prestare attenzione: quello della comunicazione social è
un mix tra self-generated (prodotto dall’utente) e other-generated content (immagini
'taggate', commenti ai post etc.). Le audience per i contenuti creati e condivisi sono
multiple, interconnesse e invisibili, potenzialmente illimitate. E non controllabili. Ciò che
noi produciamo non ci appartiene più e può essere usato contro di noi. L’illusione di
essere 'proprietari' di ciò che abbiamo postato, delle nostre tracce nel web è davvero
pericolosa, come si dimostra. E infine, anche se le questioni sarebbero ancora molte, il
rischio della perdita di realtà, che ci rende disumani. La mediazione del dispositivo che
'documenta per condividere' rischia di anestetizzarci, se ci adeguiamo semplicemente
alla logica della fattibilità. Dove tutto è possibile, niente esiste davvero, scriveva
Benasayag. Dove tutto è trasformabile in post e capitalizzabile in likes, nulla esiste
davvero fuori di questa logica. Il 'capitalismo delle emozioni' ci porta a produrre, anche
cinicamente, contenuti che possano diventare rapidamente virali, senza altro ordine di
considerazioni se non quello quantitativo, in prospettiva autoreferenziale. Sì perché tutto
questo, anche se non ci piace sentirlo dire, è figlio di un individualismo radicale dove
niente conta più veramente, al di là di me. Dunque, non c’è solidarietà, compassione,
rispetto che tenga. Nessuna ragione per mettere un limite alle nostre azioni. Perdita di
realtà, anestesia, sé 'quantificato': non sono effetti necessari ma rischi in cui si cade
senza accorgersene, se non si pensa a quel che si sta facendo. Se non si esce dalla
logica di ciò che il dispositivo rende possibile, diventando puri esecutori di istruzioni
scritte da altri, in preda al bisogno smodato di essere visti. Ecco perché, per citare un
altro caso su questa scia, si arriva fino a filmare, sghignazzando, l’amica violentata nel
bagno della discoteca. Probabilmente, pensando a quanti rilanci avrà il video. Perché del
riconoscimento, della relazione il nostro io ha bisogno. E nella cornice dell’individualismo
assoluto questo bisogno assume forme pervertite e disumane. È cronaca di questi giorni.
Le donne, vittime, arrivano a farsi stolidamente complici dei carnefici. La tecnologia non
libera affatto, se non ne capiamo il senso, ma anzi può essere piegata a forme subdole e
sempre più perverse di umiliazione e violenza. Pensiamo a quel che stiamo facendo, a
dove stiamo andando, a dove sta il senso. Per far sì che il dolore non sia inutile. Per non
rendere vana questa triste morte. Che Tiziana, ora, riposi in pace.
LA NUOVA
Pag 4 I diritti sono solo su carta di Roberta Carlini
Dovevano rientrare in Italia a giorni, i cinque figli e la moglie di Abd Elsalam Ahmed
Eldanf. Adesso piangono la salma del loro papà e marito. Morto a Piacenza durante una
protesta operaia, mentre rivendicava i suoi diritti. Una notizia giunta nella notte, che ha
fatto piombare un’intera famiglia nel lutto e il nostro Paese in una scena da Ottocento
operaio. Le prime testimonianze, del fratello e dei compagni di Eldanf, raccontano di un
picchetto sfondato dal camion; una veloce ricostruzione della procura avvalora la tesi di
un incidente; i sindacalisti della Usb - Unione sindacale di base, sigla molto presente nel
mondo della logistica e in particolare nel polo di Piacenza, il più grande d’Italia - parlano
di assassinio. Non ci vorrà molto per una ricostruzione attenta: rispetto all’Ottocento
abbiamo in più, adesso, video, messaggi, comunicazione istantanea. Quello che non
abbiamo in più, purtroppo, è la garanzia che i diritti scritti sulla carta valgano davvero
per tutti e ovunque. Quello della logistica è un settore trainante, in espansione ovunque.
La sua efficienza può fare la differenza tra un’economia e l’altra, tra una regione e
l’altra. Piacenza, per geografia e infrastrutture, si è trovata al posto giusto e ha attratto
il più grande centro italiano, che serve tutt’Europa. Nei suoi magazzini ci sono i marchi
che affollano le nostre case, le merci delocalizzate che poi, per essere consumate,
devono tornare a noi. Essere immagazzinate, smistate, caricate e scaricate. Nell’era
della preannunciata fine del lavoro, il vecchio lavoro del facchino non è affatto finito.
Quel lavoro faceva Eldanf, e le cronache sottolineano che aveva un contratto a tempo
indeterminato dal 2003, dunque stava protestando non per sé ma per tredici colleghi
precari, con contratto a tempo determinato, che attendono l’assunzione. Contratti,
sindacati, scioperi: sembra tutto molto avanzato, sono le conquiste del nostro
Novecento. Senonché, i contratti di questo tipo sono siglati con cooperative, che
lavorano per i grandi corrieri. E queste cooperative cambiano ogni anno, si sciolgono e si
riformano, assumendo in parte le stesse persone in parte no. Sono il lavoro più flessibile
che ci sia, garantendo più o meno la stessa formazione e fedeltà del lavoratore, ma a
condizioni che si ricontrattano di continuo, in base alle esigenze del ciclo produttivo. Le
paghe sono bassissime, ferie e malattie un lusso inconcepibile: la parola cooperativa,
idea nobile sempre dell’Ottocento, è capovolta nel suo contrario. E tutto questo per la
parte emersa, poi c’è anche il nero per chi vuole ancora maggiore flessibilità. Per almeno
l’80 per cento questo tipo di lavoro è svolto da immigrati. E al loro interno c’è un
particolare turn over, man mano che una comunità comincia a organizzarsi e rivendicare
dei diritti ne subentra un’altra. È un universo, un mondo del lavoro che non
consideriamo quando parliamo dei numeri dell’aumento o della riduzione
dell’occupazione, e neanche quando parliamo del contributo degli immigrati al Pil: le
badanti nelle case le vediamo, mentre quelli che permettono alla nostra libreria
smontabile o ai vestiti che abbiamo ordinato online di arrivare in tempi rapidissimi nelle
nostre case sono più nascosti. Possiamo permetterci, dopo che la tragedia di Piacenza ha
acceso i riflettori su questo mondo del lavoro, e a prescindere dalle responsabilità
individuali e dalla verità giudiziaria che verrà accertata, di non vedere più tutto questo?
Può permetterselo un ministro del Lavoro che del mondo della cooperazione, quella
“forte”, era uno dei massimi dirigenti? Scrive Enrico Moretti nel suo testo sulla Geografia
del lavoro che sono i lavori nuovi, quelli della conoscenza, che porteranno lo sviluppo,
ma che questo sviluppo sarà fatto dell’insieme dei lavori che i settori hi-tech trascinano
con sé, soprattutto nel settore dei servizi. Il benessere dei lavori “buoni”, è la tesi, porta
con sé anche l’onda dei servizi che gli crescono intorno. Ma purché i servizi non siano
svolti da servi, ma da altri lavoratori con le stesse regole e diritti di base. Lo impone la
nostra Costituzione, in quella sua parte - l’uguaglianza sancita nell’articolo 3 - che non è
modificabile.
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XI “Parcheggi e bus troppo cari”, don Lionello contro Save e Actv di Mauro
De Lazzari
«È un'assurdità dover pagare oltre 5 euro se sosti qualche minuto in più dei 10 concessi
al parcheggio dell'aeroporto, e lo è altrettanto non poter usufruire della tariffa urbana
Actv da 1,50 euro nella breve tratta che dallo scalo aeroportuale porta al centro di
Tessera». Il parroco delle comunità di Tessera e Ca’ Noghera, don Lionello Dal Molin, ha
dato voce alle proteste dei residenti della zona nel corso del dibattito organizzato l'altra
sera alla "Sagra dea sbrisa", attaccando sia Save che Actv e Comune per le tariffe esose
applicate a questi due servizi. «Mi capita, di tanto in tanto, di andare a ricevere qualche
vescovo o confratello che arriva all'aeroporto per accompagnarlo in macchina alla sua
destinazione. Ebbene - spiega don Lionello - qualche volta gli aerei arrivano con po’ di
ritardo e così si va oltre i 10 minuti di abbuono che vengono concessi al parcheggio.
Capirei, come si paga all'ospedale di Mestre, se la tariffa dell'ora successiva fosse di un
euro, invece mi è successo di dover pagare 5 euro e 50 solo per aver sforato di qualche
minuto il limite dell'abbuono». Stesso discorso per la tariffa "aerobus". «Se dal centro di
Tessera si deve andare all'aeroporto - prosegue il parroco - o fare lo stesso percorso
all'inverso, si è costretti a pagare 8 euro al pari dei turisti armati di bagagli che partono
da Mestre o da Venezia. Credo che non si tratti di una cosa molto sensata e mi auguro
che chi di dovere ci metta mano quanto prima».
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8 – VENETO / NORDEST
CORRIERE DEL VENETO
Pag 9 Se Sgarbi fa “risorgere” Cristo di Martina Zambon
Padova, per la sua “Babele” il critico ritocca la foto del Papa con l’imam: “Al centro la
Resurrezione”. Ma l’Osservatore Romano: “Provocazione per l’Islam”
Padova. Dopo Toni Negri, il Cristo risorto di Perugino. La strada che conduce alla prima
edizione di «Babele», festival letterario voluto dal sindaco di Padova, Massimo Bitonci,
sembra essere una via crucis di polemiche. Rischi calcolati, d’altronde, se si decide di
affidare la curatela al pirotecnico Vittorio Sgarbi. Il casus belli, questa volta, non è il
nome di un ospite sgradito al sindaco patavino come nel caso dell’ideologo di Autonomia
Operaia, bensì la scelta del critico d’arte di modificare con un fotomontaggio
un’immagine dell’incontro fra papa Francesco e Ahmad al-Tayyib, grande imam della
moschea di Al Azhar del Cairo. Sgarbi vorrebbe utilizzare il fotomontaggio che ritrae i
due leader religiosi con, al centro, la Resurrezione di Cristo (quasi invisibile
nell’originale) come manifesto di «Babele». Gli scatti, però, sono di proprietà de
L’Osservatore Romano che ieri ha mosso alcune osservazioni al progetto, proprio
riguardo alla presenza dell’opera del Perugino. «Il Cristo sarebbe troppo dominante –
racconta il critico – e, secondo quanto ha risposto per iscritto L’Osservatore Romano ,
potrebbe apparire come una provocazione a favore del cristianesimo. Una posizione che
farebbe dire a Oriana Fallaci, se fosse viva, che avendo perso ogni decoro non meritiamo
di definirci cristiani o italiani». Tranchant come di consueto, Sgarbi difende
strenuamente la sua posizione «nelle fotografie di un qualsiasi storico incontro fra un
pontefice e i suoi ospiti nella Sala delle Udienze, il Cristo risorto campeggia dietro alla
figura del Papa. In questo scatto, il dipinto risulta quasi completamente nascosto dalla
figura dell’imam, lo si intravede sfocato. Si tratta di una bellissima immagine che dà il
senso del dialogo fra le due religioni ma nel nostro manifesto quella cristiana appare
come religione prevalente proprio grazie al reinserimento del dipinto al centro.
All’Osservatore Romano sono più realisti del re... neppure Bitonci ha avuto nulla da ridire
e ha inizialmente condiviso la mia scelta». Il Cristo da sfocare o da riportare al centro
del manifesto di Babele appare quanto mai ignaro delle polemiche che lo portano agli
onori della cronaca anziché nelle pagine di cultura. Ieratico, severo ma proteso verso i
soldati addormentati (tutti tranne uno) ai piedi dal sepolcro aperto, dalla mandorla che
lo incornicia insieme a due angeli sembra volgere lo sguardo sulle angustie terrene, un
dito ammonitore alzato, nell’altra mano il vessillo con la croce. E un gioco di sguardi è
proprio ciò che attrae nella foto scelta da Sgarbi: «il volto dell’imam è arguto, quasi
strafottente mentre regge un libro, e di libri si occupa il festival “Babele”. Papa
Francesco ha un’aria sorniona, intensa». Sgarbi parla di una «semiologia degli sguardi»
ed è difficile dargli torto. Modificare lo scatto facendo campeggiare sull’asse centrale il
Cristo in Mandorla del Perugino, quasi a dividere le due guide spirituali, fa sapere
l’Osservatore Romano, è un altro paio di maniche, meglio essere prudenti. Sarà l’effetto
Charlie Hebdo, sarà l’attenzione per i dettagli elevata ad arte in oltre duemila anni di
storia diplomatica vaticana, fatto sta che dal quotidiano della Santa Sede è arrivato un
fitto «papello», per dirla col critico ferrarese, che specifica la policy della testata
sull’utilizzo di foto coperte da copyright. Da battaglia culturale, insomma, a bega da
legulei. «Temevo che Bitonci considerasse la mia proposta eccessiva, - chiosa Sgarbi invece l’ha condivisa. Il paradosso di questa vicenda sono le osservazioni romane. Non
resta che capire se Bitonci voglia rischiare e sposare il manifesto modificato o se si
inserirà l’immagine originale così com’è. Confido in un’alzata di ingegno da parte del
sindaco». Il primo cittadino, però, sceglie il pragmatismo: «È un’immagine interessante
e l’abbiamo valutata insieme Sgarbi ed io ma pubblicheremo solo ciò per cui siamo
autorizzati, la presenza del dipinto per me è quasi residuale, ciò che conta in
quell’immagine è lo sguardo fra i due – spiega -. La manifestazione si intitola Babele e i
due protagonisti, papa e imam, uno di fronte all’altro, suggeriscono la domanda che
poniamo, ovvero se queste due culture parlino lingue talmente diverse da non potersi
intendere, proprio come all’ombra della torre di Babele. Si tratta di uno dei filoni della
nostra rassegna letteraria in cui inviteremo esponenti della cultura islamica che
spieghino perché c’è una incompatibilità non facile, se non impossibile, da rimuovere fra
le due culture».
LA NUOVA
Pag 1 Il Nordest snobbato da “Italia 4.0” di Stefano Micelli e Gianluca Toschi
La scelta di escludere gli atenei del Nordest dal piano “Italia 4.0”, rivolto ai centri di
ricerca e innovazione di eccellenza, ha suscitato molte polemiche. Un’area ad alta
intensità manifatturiera corre il rischio di rimanere senza un “competence center” capace
di accompagnare le imprese in quella che è stata ribattezzata la quarta rivoluzione
industriale. Per un territorio che ha fatto della manifattura di qualità il suo punto di
forza, si tratta di una scelta difficile da accettare e che merita di essere messa in
discussione. È utile ricordare, prima di tutto, che il digital manifacturing, ovvero
l’integrazione fra tecnologie e cultura del digitale e manifattura, non è una novità per le
imprese italiane, né tantomeno per quelle del Nordest. Molte delle tecnologie di cui oggi
parla la stampa specializzata (dalla stampa additiva al 3D scanning, dalla robotica al
taglio laser fino alla sensoristica di nuova generazione) sono state integrate da tempo
nelle imprese manifatturiere e non solo quelle di grandi dimensioni. Qualche statistica
relativa alla loro diffusione rivela uno scenario poco noto. Per quanto riguarda la stampa
3D, ad esempio, un quarto delle imprese con un fatturato superiore ai 2 milioni di euro
si è già confrontato con le sue potenzialità, in alcuni casi acquisendo la tecnologia «in
house», in altri ricorrendo a service esterni. Tra le imprese del Nordest questa
percentuale raggiunge il 34%. I numeri relativi all’utilizzo della robotica sono simili,
anche se in questo caso le regioni del Nordovest mantengono un primato legato a
specifiche specializzazioni settoriali. Le statistiche, inoltre, ci dicono che anche in settori
maturi come quello dell’abbigliamento e della calzatura, particolarmente importanti nel
Nordest, strumenti come il taglio laser sono ormai acquisiti in un’ampia quota di
imprese. Il digitale, in altre parole, già oggi caratterizza i processi produttivi della nostra
manifattura a conferma di uno sforzo di miglioramento costante della competitività delle
nostre imprese. Certamente non è il caso di adagiarsi sugli allori. Le imprese italiane (e
il Nordest non fa eccezione a riguardo) paiono avere le idee poco chiare rispetto a temi
chiave come per esempio l’Internet delle cose (IoT), una delle frontiere più rilevanti
nell’evoluzione del manifatturiero. I dati a disposizione ci dicono che più del 60% delle
imprese italiane non ha intrapreso alcuna azione su questo terreno e che solamente l'8%
sta testando il loro utilizzo. Siamo bravi nel ripensare i nostri processi produttivi, siamo
meno abili nell'immaginare prodotti “intelligenti” di nuova generazione. Proprio su questi
temi di frontiera è importante costruire un percorso di investimento in ricerca e
sperimentazione: è fondamentale che le nostre imprese possano venire a contatto con le
esperienze più innovative e possano mettere a punto nuove soluzioni di prodotto
coerenti con le richieste della domanda internazionale. Ciò richiede nuove competenze
tecnologiche, ma anche una nuova cultura del design così come rinnovati strumenti di
management. Proprio su questi temi a cavallo fra tecnologia, design e management è
fondamentale che si concentri un "competence center" in grado di accelerare e dare
consistenza a un percorso avviato in questi anni che ha bisogno di essere sostenuto e
sviluppato. È su questo terreno che avrebbe dovuto prendere piede un progetto di nuovo
Politecnico per il Nordest; è su questi temi che si dovrà necessariamente confrontare il
neonato Venice Innovation Hub collocato al Parco Scientifico Vega. Nel Nordest il dialogo
fra impresa e università non è un fatto acquisito. I dati elaborati da Fondazione Nordest
evidenziano che, per quanto riguarda l'accesso all'innovazione, gli interlocutori
privilegiati dalle imprese sono i fornitori di tecnologie e solo in misura molto minore i
parchi scientifici e le Università. Siamo lontani, insomma, dal poter contare su un ecosistema della conoscenza in grado di valorizzare soggetti diversi. Perché reclamare allora
un “competence center” di rango nazionale? La posta in gioco non è l’orgoglio (peraltro
legittimo) degli atenei del Veneto. Per il Nordest la scommessa riguarda la possibilità di
salvaguardare e rinnovare le specificità e i punti di forza di un sistema manifatturiero
che ha dato prova negli ultimi trent'anni di saper competere a livello globale e che oggi
può rappresentare un traino straordinario per l'intero sistema paese. Perdere
quest'occasione significa tradire questa specificità e questi forza rinunciando a
contribuire alla crescita del paese nel suo insieme.
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 L’autarchia non è una virtù di Angelo Panebianco
Noi e gli altri
Che cosa ha dato davvero fastidio a coloro che hanno contestato la «inammissibile
ingerenza» (sic), le dichiarazioni dell’ambasciatore statunitense John Phillips sul nostro
prossimo referendum costituzionale? Appare chiaro che ciò che ha più infastidito i
protestatari erano le verità contenute in quel discorso. Se vince il No, ha detto
l’ambasciatore, il segnale al resto del mondo, e ai mercati in particolare, sarà
inequivocabile: l’Italia è irriformabile, non potrà mai guarire, non potrà mai liberarsi
della sua cronica instabilità politica; è un Paese dal quale conviene stare alla larga. Ciò
che ha detto l’ambasciatore, naturalmente, è ciò che pensano quelli che contano,
ovunque, in Europa come negli Stati Uniti. Ma i protestatari fingono di non saperlo. È
bastato poi che a sostegno del discorso di Phillips arrivasse la convergente valutazione
dell’agenzia di rating Fitch, perché venisse subito denunciata, dai suddetti protestatari,
la congiura dei «poteri forti». Perché dunque l’ovvietà (gli altri ci guardano, ci prendono
le misure, e reagiscono alle nostre azioni) è così fastidiosa per tanti? Al di là delle
polemiche contingenti, c’è un grumo opaco nella cultura politica nazionale, frutto di un
mix di provincialismo e di superficialità. Possiamo definirlo «mentalità autarchica». La
mentalità autarchica si manifesta in tre diverse maniere. In primo luogo, con una sorta
di totale noncuranza per gli effetti delle nostre parole e dei nostri atti sul resto del
mondo. Chi è afflitto da mentalità autarchica sembra pensare - nonostante tutto ciò che
ci circonda, nonostante il web, persino - che una barriera invisibile impedisca a ciò che
diciamo e facciamo di rimbalzare fuori dai confini nazionali e di influenzare così i giudizi
degli altri su di noi (e le loro conseguenti azioni). Se una agenzia di rating gli ricorda che
le cose non stanno affatto così, egli va su tutte le furie. Il secondo modo in cui si
manifesta la mentalità autarchica consiste nel credere che dei legami con il resto del
mondo ci si possa sbarazzare facilmente, e senza pagare alcun prezzo. Da qui proclami
del tipo «usciamo dall’euro», innalziamo barriere protezioniste, eccetera. Non c’è nulla di
nuovo o di originale, da questo punto di vista, nel Movimento Cinque Stelle: come fanno
sempre tutti i movimenti estremisti, esso si limita ad esasperare tendenze (propensioni
autarchiche) già presenti e radicate nel Paese. Il terzo e ultimo modo riguarda
l’indisponibilità di tanti a guardare con un minimo di serietà, di attenzione e di rigore a
ciò che accade nel resto del mondo: una forma di pigrizia e di provincialismo che viene
gabellata per attaccamento alle nostre «specificità» culturali. Ad esempio, non c’è nulla
di male se un artista, un comico, si inventa una fola sulla «Costituzione più bella del
mondo». Ma c’è invece qualcosa di patologico, di viziato, di malato, se altri - che non
fanno gli artisti di mestiere - ripetono un simile insulso slogan. Se non avesse fatto loro
velo la mentalità autarchica, avrebbero potuto leggersi qualche altra costituzione
democratica. Avrebbero così scoperto cose interessanti. Per esempio, che il
bicameralismo paritetico non serve affatto al cosiddetto «equilibrio dei poteri». Serve
solo a garantire la debolezza, la ricattabilità e l’instabilità dei governi. Sempre a
proposito di propensioni autarchiche, pensate a quelli che si sono inventati «Mafia
Capitale», che hanno cioè proclamato urbi et orbi, hanno gridato di fronte al mondo, che
Roma è mafia. La mentalità autarchica non ha permesso loro di capire che dichiarare la
Capitale del Paese città mafiosa significava dire al mondo - al mondo intero - che tutti
noi (ivi compresi quelli che usano l’espressione Mafia Capitale) siamo una congrega di
mafiosi. Potrebbero poi apparire ridicole - ma sono solo penose - le reazioni
scandalizzate quando Charlie Hebdo o il dittatore turco Erdogan assimilano Italia e
mafia. Essi si limitano ad usare gli argomenti che noi abbiamo fabbricato (e diffuso in
giro per il mondo) allo scopo di colpire noi stessi. Gli autarchici si rassegnino. Non c’è
nessuno scudo spaziale a proteggerci o, se c’era, è disattivato da decenni. Non si
scappa: gli altri ci vedono, ci ascoltano, ci giudicano e, quando facciamo i furbi, ci
colpiscono.
Pag 1 La scomparsa di Emanuela Orlandi: un mistero con troppe falsità di Gian
Antonio Stella
«Di sicuro c’è solo che è sparita», potrebbe titolare il grande Arrigo Benedetti
parafrasando la celeberrima pagina sulla morte di Salvatore Giuliano. E Tommaso
Besozzi potrebbe ripetere oggi le stesse identiche domande: «Chi è stato a tradirla?
Dove è stata uccisa? Come? E quando?».Perché questo è il punto: la «verità» sulla
scomparsa di Emanuela Orlandi, ammesso che sia stata ricercata davvero, non c’è.
Meglio, una verità esiste senz’altro. Reale. Dura. Tragica, con ogni probabilità.
Sicuramente occultata da chi temeva e teme scoperte scomode. E va capito anche Pietro
Orlandi. Contro l’archiviazione dell’inchiesta sulla sparizione della sorella e di Mirella
Gregori, decisa da Giuseppe Pignatone (con il dissenso di Giancarlo Capaldo), si appella
a Sergio Mattarella perché le indagini vadano avanti e contesta «la mancanza di
collaborazione da parte dello Stato Vaticano» di cui Emanuela era cittadina ricordando le
parole di un inquirente: «Un diaframma frapposto tra lo Stato italiano e la Santa Sede».
Ma dopo tanti anni e tante «rivelazioni» e tanti «scoop» e tanti depistaggi, aveva senso
prendere una fanghiglia di fatti veri, verbali, ipotesi, voci, confessioni, sussurri e
impastarla per costruire una tesi? Mah... Più serio, forse, mettere in fila, una dopo
l’altra, le cose certe. Le carte processuali. I ricordi fissati nelle deposizioni prima che la
memoria li annebbiasse. Lasciando intatti i dubbi. Tanti. Troppi. La verità sta in cielo , il
nuovo film di Roberto Faenza nelle sale dal prossimo 6 ottobre prodotto da Elda Ferri,
Jean Vigo Italia e Rai Cinema, vuol essere appunto questo. La ricostruzione passo passo,
romanzata quel tanto che basta ma ancorata sempre a date ed episodi accertati, di una
storia che da trentatré interminabili anni toglie il sonno non solo alla famiglia della
quindicenne romana scomparsa nel nulla, con la sua t-shirt bianca, la borsa di pelle e la
custodia del flauto, la sera del 22 giugno 1983, ma a tutti gli italiani. La trama di
partenza è semplice: la reporter di origine italiana Maria (Maya Sansa) viene inviata da
una tivù inglese a Roma per ricostruire tutto dal principio. Nella scia di Mafia Capitale.
Intorno, tutti i personaggi d’obbligo come sono usciti da tre decenni di cronache. C’è
Enrico De Pedis (Riccardo Scamarcio), il «Renatino» della banda della Magliana che finirà
ucciso e sepolto con tutti gli onori in una cripta di Sant’Apollinare. C’è l’amante Sabrina
Minardi (Greta Scarano), l’ex moglie del calciatore Bruno Giordano destinata ad
abbruttirsi con sesso, alcool e droga dopo essere stata travolta da Renatino con una
grandinata di banconote: «Ce stanno centoventi o centrotrenta milioni qua dentro,
voglio che li spendi tutti!». C’è Raffaella Notariale (Valentina Lodovini), l’«inviata di un
noto programma televisivo italiano», identificabile con Chi l’ha visto?, che per prima
riesce ad agganciare Sabrina permettendo di avanzare una serie di ipotesi sulla
sparizione della ragazzina. C’è il cardinale Paul Casimir Marcinkus detto «Chink» (Randall
Paul), il potentissimo arcivescovo nato a Chicago dalle parti di Al Capone e salito su su
fino ai vertici dello Ior. C’è Pietro Orlandi, che interpreta se stesso, non smette di dar
battaglia per capire cosa è successo a Emanuela e offre la chiave del titolo raccontando
che papa Francesco, a lui e alla madre, ha sussurrato con un sospiro: «Lei è in cielo».
Cosa sia successo resta un grande e tragico mistero. Via via cresciuto, di anno in anno,
col sovrapporsi di nuovi dettagli. Sconcertanti. Come la Bmw di colore scuro che all’inizio
del film scompare dietro l’angolo proprio mentre sparisce Emanuela e una uguale che
riappare (è la stessa? è un’altra? è sempre rimasta lì?) nei parcheggi di Villa Borghese
tredici anni dopo, lasciando il dubbio sia quella usata secondo Sabrina Minardi da
«Renatino» («Bibì, quello che hai visto non l’hai visto, chiaro?») per disfarsi della
ragazza. E poi la misteriosa comparsa di un flauto che potrebbe essere di Emanuela fatto
ritrovare da un personaggio inquietante che si autodenuncia del sequestro. E
l’appuntamento dato alla reporter Maria da un certo «padre Albert, della Penitenzieria
Apostolica» che sul caso di Emanuela promette rivelazioni: «Come certamente sa, dopo
la chiusura delle indagini da parte della Procura di Roma, la Chiesa è stata investita da
numerose critiche, quasi fossimo noi a voler tacitare l’inchiesta... Siamo invece proprio
noi ad avere scoperto una nuova traccia...». Cioè? «Abbiamo ricevuto una
confessione...». Finché la cronista si ripresenta all’ora fissata. E scopre che il «padre
Albert, della Penitenzieria Apostolica» esiste sì, ma è un altro. E poi ancora la richiesta di
arresto e di estradizione di Marcinkus per quattordici milioni di dollari falsi inutilmente
consegnata da due funzionari del Dipartimento di Giustizia e dal detective Richard
Tammaro dell’Fbi arrivati apposta dall’America e liquidati con poche righe di risposta:
«Monsignor Marcinkus gode del diritto di extraterritorialità, garantita dallo Stato del
Vaticano. Non consentiamo pertanto né al suo interrogatorio, né alla sua estradizione».
E tutto intorno rivelazioni vere o false sui finanziamenti a Solidarnosc e i giochi oscuri di
Ali Agca, i Lupi Grigi turchi e le ambiguità del funzionario della Stasi Markus Wolf e poi
ancora le ricerche di «un virus letale e una micropsia nella statuetta sacra di Casaroli» e
l’appartamento della vedova di «Renatino» Carla Di Giovanni posizionato giusto in faccia
a quello di Giulio Andreotti a San Lorenzo in Lucina... Una giostra impazzita di rivelazioni
vere e rivelazioni false. Così difficili da decifrare da costringere gli autori de «La verità
sta in cielo» a mobilitare nove avvocati (nove!) per controllare una per una le fonti, le
tesi, le frasi, le virgole... Per poi procedere faticosamente, tra sorprese amare,
arretramenti e colpi di scena, alla ricerca della «verità». Verrà mai accertata? Chissà. In
ogni caso, vale la pena di rileggere Albert Einstein: «È difficile sapere cosa sia la verità,
ma a volte è facile riconoscere una falsità». E su Emanuela Orlandi di falsità, negli anni,
ne abbiamo viste davvero troppe...
Pag 26 Quel diritto all’oblio e gli sciacalli digitali di Caterina Malavenda
Quanti giorni ancora dureranno, prima di affondare nel silenzio, lo stupore,
l’indignazione e la pietà, quasi ostentati in questi giorni da opinionisti, giuristi e (per la
verità non molti) politici, per la drammatica e definitiva scelta di Tiziana? E saranno più
longevi gli sciacalli che ancora oggi, sulle spoglie della loro vittima, imbastiscono
macabri scherzi, pur di esserci ancora e poter prolungare una notorietà che fa ribrezzo?
Domani è un altro giorno, saranno certamente diffusi nuovi video virali e ci saranno altre
vittime più o meno consapevoli: spesso, infatti, è chi subisce la gogna ad averla
generata, affidando alla Rete, con incredibile leggerezza, immagini che non sarà più
possibile eliminare dalla realtà virtuale perché, come ha detto con disarmante sincerità il
Garante, che pure dovrebbe assicurarla, la tutela di una persona che finisce sul web è
praticamente impossibile, per mancanza di strumenti efficaci. Questo, mentre viene
rimossa, con un semplice clic, la foto della «Napalm girl», la bambina vietnamita che
corre nuda e piangente, dopo esser stata investita dal napalm, pedopornografica per
l’algoritmo - peggio fosse stato un uomo in carne ed ossa! - di Facebook, premiata con il
Pulitzer per la sua evidente forza dirompente e ripristinata solo dopo forti ed autorevoli
proteste. E mentre, con la stessa agile semplicità, grazie anche a sentenze poco
lungimiranti o utilizzate a sproposito, un terrorista conclamato può chiedere ed ottenere,
se nessuno se ne accorge, da siti e motori di ricerca la rimozione di tutte le notizie che lo
riguardano; un imputato, ancora sotto processo, può esigere la eliminazione degli
articoli che si sono occupati di lui; un politico può pretendere che si cancelli il suo
passato criminale, così di fatto azzerando la memoria un po’ per volta. Figli e figliastri,
dunque, certo a causa delle diverse modalità di circolazione di informazioni e dati che la
Rete offre, ma anche per un certo disinteresse di fondo, specie se la vittima non è
famosa - a chi interessa davvero, fino a che è viva, una oscura ragazza di provincia in
preda al panico ed all’umiliazione? - unito ad un senso di impotenza, capace di smorzare
anche gli slanci investigativi più ostinati, a causa della inadeguatezza degli strumenti
approntati, compreso quello penale. In realtà, l’immissione in Rete di dati personali,
specie se sensibili - e quelli sessuali ovviamente lo sono - senza consenso, è condotta
illecita che può essere perseguita e bloccata subito, ma solo entro i confini nazionali,
salvo improbabili ed inutili rogatorie all’estero. E non è certo il diritto all’oblio, di cui
molto e non sempre a proposito si parla, la panacea di tutti i mali. Non codificato in
Italia e riconosciuto a livello europeo, dal nuovo regolamento comunitario sulla
protezione dei dati (Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio
del 27 aprile 2016) garantisce al protagonista di passate vicende non encomiabili il
diritto di essere dimenticato, quando la funzione informativa si è esaurita, anche
mediante la rimozione di tutte le notizie che lo riguardano, se oramai prive di interesse
pubblico. Non era l’oblio, dunque, che cercava Tiziana, ma voleva sparire dalla Rete, del
tutto e per sempre e dimenticare quelle immagini che l’avevano esposta al pubblico
ludibrio: non ce l’ha fatta. Ci sarà una prossima volta e torneremo ancora ed inutilmente
a stracciarci le vesti, ad immaginare improbabili leggi e forme di educazione massiva di
coloro che, nativi digitali, vivono in Rete, ci si trovano benissimo, al punto da
considerare i ventilati interventi normativi un attentato alla libertà ai tempi di Internet e
l’oblio un concetto estraneo e persino eretico, sempre che non li riguardi personalmente.
LA REPUBBLICA
Pag 1 L’altra destra di Parisi di Stefano Folli
Stefano Parisi può cerchiare la data sul calendario perché oggi comincia la sua missione
politica. Finora ha svolto un certo lavoro preparatorio, ma adesso le suggestioni non
sono più sufficienti. E si capisce perché. L'elenco delle priorità per l’uomo nuovo della
destra moderata è così lungo da apparire sotto vari aspetti contraddittorio. In pratica si
tratta di recuperare alcuni milioni di elettori smarriti; costruire un rapporto non
subordinato con la Lega; evitare di infilarsi in una guerriglia permanente con quel che
resta della "nomenklatura" di Forza Italia. E soprattutto convincere gli italiani che il
centrodestra sta definendo una rinnovata e autentica leadership, non solo la
prosecuzione del berlusconismo con un altro nome (ma il vecchio leader dietro le quinte
in questa fase è essenziale). Ognuno di questi punti richiede tempo, freschezza ideale e
una buona organizzazione. Sono note le qualità di Parisi, un "manager" che conosce la
politica e le sue regole. Ma lui è il primo a sapere che non siamo più nel 1994, quando il
crollo del sistema permise a un abile imprenditore delle televisioni di presentarsi come il
leader liberale che in realtà non vorrà né saprà mai essere. Il buon senso e il
pragmatismo di Parisi sono doti preziose, ma oggi rimettere in piedi un'area politica
distrutta è un compito immane. Non basta avere qualche buona idea in politica interna e
internazionale. Bisogna avere la tempra per fare e vincere una serie di battaglie
realmente liberali, senza paura di scontentare - quando è il caso - intere categorie di
elettori e di intaccare sacche di privilegio consolidato. Nessuno infatti può credere che
quei dieci milioni di voti che Parisi vuole ritrovare siano tutti di liberali delusi. Ed è
meglio non illudersi che la futura alleanza con Salvini, a cui offrire magari un rilancio del
federalismo, sia un affare semplice, al di là dell'opportunismo. In fondo Berlusconi ha
sempre giustificato il proprio fallimento accusando le resistenze di vari soggetti: i suoi
stessi alleati, in primo luogo, poi le istituzioni e la cultura post-comunista diffusa. Oggi
gli alibi sono finiti da un pezzo e Parisi dovrà percorrere una strada diversa. Non potrà
essere l'interprete di una spinta anti-sistema poiché lo spazio è già occupato dai Cinque
Stelle. E anche perché non sarebbe la sua parte, essendo egli un uomo dell'
establishment, votato a restituire credibilità al centrodestra agli occhi dell'opinione
pubblica, sì, ma anche rispetto ai centri economici e alle cancellerie occidentali. Non a
caso i suoi nemici interni - non sono pochi - lo hanno criticato perché nelle scorse
settimane si è ben guardato dal criticare Angela Merkel ed è rifuggito dai soliti schemi
anti-Unione. Invece ha detto che i problemi del Paese dipendono dagli italiani e non dalle
congiure tedesche. Sarebbe strano se avesse fatto il contrario, visto che Forza Italia è
parte integrante del Partito popolare europeo e Parisi, avversario del populismo, vuole
irrobustire, non indebolire questa presenza. Di qui derivano una serie di conseguenze.
Ad esempio, è chiaro che nella nuova, possibile alleanza sarà assegnato alla Lega un
ruolo di fatto gregario. E Salvini dovrà riflettere a fondo prima di rifiutare, considerato
che gli ultimi sondaggi indicano un regresso leghista: circa due o tre punti al di sotto del
massimo storico. Ma la prova più ardua che attende a breve termine Parisi riguarda,
come è ovvio, il rapporto con Renzi e quindi la posizione sul referendum e la legge
elettorale. Ora il No è stato affermato con una certa decisione, dopo varie titubanze, ma
resta da capire se il leader designato riuscirà a mettere ordine nel caos del centrodestra
dove solo pochi (Brunetta fra tutti) si sono battuti fin qui contro la riforma renziana.
Anche sulla legge elettorale Parisi dovrà prendere una linea, anziché limitarsi a lasciare
la palla nel campo di Renzi per vedere come se la cava. Non basta dire che non si
faranno accordi sottobanco con il presidente del Consiglio. Dopo il referendum il quadro
cambierà in modo radicale a seconda che il premier esca vittorioso o sconfitto dalle urne.
Pag 29 “La Chiesa non deve pagare la vecchia Ici” di Alberto D’Argenio
Il Tribunale europeo conferma la scelta dell’Italia, che decise di rinunciare a incassare 5
miliardi dal Vaticano
Roma. Per i Radicali voleva essere un regalo postumo a Marco Pannella. Ma il Tribunale
Ue del Lussemburgo non ha dato ragione al loro ricorso contro le agevolazioni fiscali agli
enti ecclesiastici. Dopo anni di battaglie, la sentenza emessa ieri in primo grado dai
giudici comunitari salva la Chiesa da un conto salato: fino a cinque miliardi di euro. Nel
2012 la Commissione condannò l' Italia per aiuti di Stato illegali in favore degli enti
ecclesiastici in quanto gli sgravi di cui godevano cliniche, alberghi, scuole e altre attività
commerciali legate al mondo cattolico distorcevano la concorrenza danneggiando i loro
competitori, che le tasse le pagavano. Tuttavia Bruxelles a sorpresa non decretò il
recupero dell'imposta sugli immobili, l'Ici, non pagata dal 2008 abbracciando la tesi del
ministero dell'Economia per il quale era impossibile stabilire quanto e chi dovesse
mettere mano al portafoglio. Stime dell'Anci alla mano, un buco per le casse dello Stato
da 4-5 miliardi. Il contenzioso con la Commissione fu quindi chiuso con le nuove regole
istituite da Monti alla nascita dell'Imu, imposta che secondo la Ue metteva fine agli aiuti
di Stato. Altro punto messo in discussione dai Radicali, secondo i quali invece le regole
dell' Imu per gli enti non commerciali continuano a regalare un vantaggio competitivo
alla Chiesa di circa 500 milioni all'anno, così come la norma firmata Tremonti che
concede alle attività commerciali cattoliche uno sconto sull'Ires di 100-150 milioni
l'anno. Questi i quesiti dei due ricorsi promossi dall'ex deputato Maurizio Turco e dal
fiscalista Carlo Pontesilli per conto di una scuola Montessori romana e di un
bed&breakfast laziale. Con lo Stato italiano che nella causa si è schierato a fianco della
Commissione, dunque contrario a chiedere indietro i soldi non pagati. Nel merito i quesiti
del ricorso sono stati bocciati con la formula: i ricorrenti «non sono riusciti a dimostrare»
le loro tesi. Il Tribunale una svolta comunque l'ha data dichiarando ricevibile il ricorso e
per i giuristi si tratta una decisione rivoluzionaria in quanto allarga la platea di chi può
mettere in discussione le decisioni della Commissione. Un atteggiamento però, via libera
processuale e bocciatura nel merito, che porta i ricorrenti a parlare quanto meno di
«fatti straordinari». Ma proprio il riconoscimento in primo grado dell'ammissibilità della
causa apre le porte all' appello in Corte di giustizia europea che Turco e Pontesilli hanno
annunciato ieri.
AVVENIRE
Pag 2 La forza di quei giovani passati sui campi minati della vita di Massimiliano
Castellani
Gli sportivi, le medaglie e la lezione delle Paralimpiadi
Il 14 settembre 2016, d’ora in avanti, dovrebbe essere inserito nel nostro calendario
come il “giorno di grazia” dello sport italiano. La beatificazione degli atleti paralimpici
azzurri: quelli che hanno vinto l’oro, cinque, quelli che sono saliti sul podio, otto, ma
anche di quelli che non ce l’hanno fatta e magari non ce la faranno mai, e che però
restano comunque esseri speciali, di cui fidarsi ad occhi chiusi. La loro specialità non sta
nella disciplina che praticano e che li ha portati fino alle Paralimpiadi di Rio. L’essere
“speciale” sta nel saper affrontare la vita con la consapevolezza che i propri limiti e le
residue facoltà fisiche di cui dispone l’atleta paralimpico sono un patrimonio a
disposizione della società, tutta. “Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato
la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa”, ha raccontato spesso Alex
Zanardi dopo l’incidente che gli capitò nella sua “prima vita” di pilota. Ogni atleta è
passato per un tragico campo minato in cui ciò che non l’ha ucciso l’ha reso più forte.
Per ognuno di loro c’è stato “un primo e un secondo tempo”, così come Bebe Vio vede la
sua esistenza “prima e dopo la meningite”. La specialità non sta solo nel saper lenire e
combattere il male fisico quotidiano, la paura e l’incapacità di superare gli ostacoli e
quelle barriere che la società gli (ci) piazza davanti incivilmente, ma nella capacità di
ricostruirsi e di ridare un senso al proprio viaggio. Speciale è colui che sa ancora
approdare, con fatica e con coraggio, in un’oasi, uno spazio anche minimo di normalità.
E quello che per gli atleti diventa la pedana di una palestra, una pista d’atletica o la
piscina dell’ultimo paese di provincia in cui un sindaco illuminato ha capito che è bello
investire nello sport olimpico, ma che è straordinario credere e incentivare quello
paralimpico. Esistono ancora realtà, specie nelle aree metropolitane, in cui le barriere
architettoniche restano montagne invalicabili e non solo per i disabili, ma anche per i
bambini e gli anziani. Quando il presidente del Comitato paralimpico italiano, Luca
Pancalli, parla di “quel pezzo di welfare che può produrre lo sport paralimpico”, non
lancia uno slogan politico e nemmeno una strizzatina d’occhio ai Giochi olimpici e
paralimpici di Roma 2024, ma un invito a credere in quella che, a Rio, anche il premier
Matteo Renzi ha chiamato la “squadra Paese”. Uno dei fini nobili della politica è proprio
far sentire i suoi cittadini tutti di serie A, tutti appartenenti allo stesso collettivo. Lo sport
da parte sua ci mette le facce degli atleti, regala storie edificanti ed esemplari come
quelle che stiamo raccontando e apprendendo dalle Paralimpiadi di Rio. Dietro ogni
singola impresa sportiva c’è un piccolo grande riscatto, un successo ottenuto prima di
tutto contro l’indifferenza e la solitudine che sono le due peggiori avversarie – purtroppo
ancora forti – dell’inclusione sociale e della piena integrazione delle persone con una
diversa abilità. Uomini e donne, ragazzi e ragazze che si sono rimessi in gioco, hanno
accettato la sfida e chiedono soltanto di essere seguiti, di ricevere il nostro tifo, il nostro
calore umano. E se possibile non solo ogni quattro anni, ma ogni giorno, specie in quelli
bui in cui la malattia e il male di vivere si ripresentano e chiedono indietro le medaglie
vinte e i momenti di gloria vissuti. “Alla fine lo sport, tutto lo sport, è questo. Guardare
qualcuno che ottiene un grande risultato significa entrare nel percorso che l’ha portato
ogni giorno a mettersi in gioco e fare il meglio che poteva”, ha detto ancora Alex
Zanardi, che dal giorno in cui è salito sulla sua bici e ha cominciato la nuova avventura
nell’handbike si è fatto portatore sano del “desiderio”. La spinta per andare al passo con
gli altri, e non necessariamente andare più forte. Nel guardare il sorriso e gli occhi
scintillanti di ognuno dei nostri medagliati non c’è solo l’ammirazione verso il campione,
ma la condivisione per un percorso di cui ci dobbiamo sentire sempre più partecipi. Nel
vedere il loro “desiderio” realizzato ci scappa anche una lacrima di gioia, specie quando
la piccola grande Bebe Vio ci manda a dire che “lo sport è terapia. Rimani quello che sei
e segui la strada buona”.
Pag 4 Non è solo un incidente
Saranno le indagini e poi il processo a stabilire qual è l’esatta verità sulla morte di Abd
Elsalam, il lavoratore egiziano investito da un Tir durante un presidio davanti ai cancelli
della Gls di Piacenza, presso cui lavorava, impiegato da una ditta in appalto. Per il
momento contrastano le versioni fornite, da un lato, dal sindacato di base e dai
compagni presenti al fatto, dall’altro la ricostruzione subito offerta dalla Procura. Che è
sembrata voler chiudere il caso sul nascere, forse preoccupata da motivi di ordine
pubblico, suscitando però qualche perplessità. Abd Elsalam – da 14 anni nel nostro
Paese per lavorare – la moglie, i suoi 5 figli e tutti noi meritiamo qualcosa di più,
abbiamo il diritto quantomeno che tutte le ipotesi siano vagliate a fondo e che la vicenda
non venga ridotta a un banale incidente stradale, come invece è sembrato ieri. Perché se
anche venisse appurato che effettivamente l’investimento è frutto solo ed
esclusivamente di movimenti e manovre errati, è innegabile che questa 'fatalità' sia
stata favorita da una brutta tensione sociale. Agghiacciante, ieri, è stato il silenzio delle
aziende coinvolte, che non hanno saputo trovare neppure una parola pubblica di dolore e
compassione per il lavoratore morto. Come fosse un incidente, appunto. Solo un
incidente pure lui.
Pag 13 Salviamo Aleppo, Sarajevo del Duemila di Andrea Riccardi
Città simbolo della convivenza tra religioni, cerniera storica tra Asia e Occidente, scrigno
d’arte tutelato dall’Unesco: ma l’abbiamo lasciata distruggere
Ho conosciuto la guerra da vicino a trentadue anni in Libano, vedendone il volto orribile:
distruzioni, impazzimento… a Beirut nel 1982. Ricordo una Beirut distrutta, sventrata,
con i palazzi crivellati. Ricordo la vallata della Bekaa, piena di miliziani. Un’impressione
forte facevano i campi-profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Qui i kataeb, miliziani
della Falange, fondata da Pierre Gemayel, cristianolibanesi, uccisero i palestinesi,
distruggendo con i bulldozer le povere casette provvisorie: gli israeliani, che guardavano
a non molti metri, avevano dato l’assenso. La mattanza durò dal 16 al 18 settembre
1982. Ci furono dai 700 ai 3.500 morti. Vidi le donne e i bambini celebrare quel lutto tra
le rovine. Mi colpì vedere, sul muro di una casetta sventrata, alcune piccole immagini
cristiane. Lì c’erano palestinesi cristiani tra la maggioranza sunnita. I falangisti libanesi li
avevano colpiti ugualmente. Eppure, allora, in Libano si parlava di guerra di religione:
islam contro cristianesimo. Il che è avvenuto in modo crescente successivamente, tanto
che oggi stentiamo a dubitare che le religioni facciano la guerra o addirittura ne siano il
principale motore. Ha ragione papa Francesco che, quasi con brutalità, ha ricordato:
«Quando parlo di guerra, ne parlo sul serio, ma non si tratta di un conflitto religioso
perché tutte le religioni vogliono la pace. Qui si tratta di guerre fatte per interessi, soldi,
risorse, dominio di popoli». Non era guerra di religione a Sabra e Shatila. In tanti
conflitti dubito sull’esistenza di guerre di religione, anche se dobbiamo essere attenti alla
dimensione religiosa della guerra, della pace e della vita: attenti a sottrarla a una logica
perversa. Un’idea si è sfaldata nel secondo decennio del Duemila: le guerre loro e la
nostra pace. Parlerò di una storia concreta, la Siria, che marca il nostro decennio; si è
combattuta una guerra sanguinosa dal 2011: 273.000 morti, di cui 75.500 civili. Per altri
il doppio dei morti. I calcoli delle stragi e delle guerre sono difficili. Metà dei siriani oggi
sono sfollati. Quasi sei milioni all’estero: il 45% dei rifugiati è in Turchia e solo il 15%
sono arrivati in Europa. C’è poi un mondo di scomparsi: 20.000 nelle prigioni di Assad,
su cui abbiamo agghiaccianti testimonianze; 5000 sequestrati da Daesh; 2000
governativi nelle mani delle fazioni ribelli e 6000 dispersi. Un Paese distrutto. In 5 anni
di guerra si è distrutto qualcosa che non può essere ricostruito: non solo la vita degli
scomparsi, ma l’esistenza dei sopravvissuti. Basti l’esempio dei 13.600 bambini uccisi,
un settimo delle vittime nel conflitto. Molti piccoli sopravvissuti non vanno a scuola da
tempo. Scrive Miguel Benasayag: la «categoria dell’infanzia è in via di dissolversi». I
bambini sono vittime della guerra più degli adulti. Durante l’assedio di Aleppo ben
130.000 bambini erano a rischio per fame e assenza di medicine – ha denunziato
l’Unicef. Nel 2014 avevo lanciato un appello Save Aleppo, per una 'città aperta' con una
tregua. Bisognava salvare Aleppo per quello che significava. Aleppo, con le stratificazioni
della storia, rappresenta la città del vivere insieme. È un crocevia, una sutura tra Asia e
Mediterraneo. Un passaggio decisivo sulla Via della Seta tra l’impero cinese e quello
romano. La tradizione vuole che Abramo – figura cui ebrei, cristiani e musulmani si
riferiscono – abbia soggiornato nella collina della cittadella (ora gravemente
danneggiata). L’Unesco, nel 1986, dichiarava Aleppo 'patrimonio dell’umanità'. La
stratificazione della convivenza si rifletteva in un tessuto urbano in cui monumenti e
case storiche erano al centro di un reticolo di vita. Non intendo dare un’immagine mitica.
La città metteva insieme gente diversa con una levigata sapienza. Aleppo è stata rifugio
per i resti delle bufere della storia. Qui, nel 1915, approdarono i deportati armeni.
Aleppo era un laboratorio di vita comune, forgiato nei secoli, anche se il regime di Assad
era duro e occhiuto. Solo gli ebrei erano stati mandati via in larga parte fin dal 1947 con
il nazionalismo antisemita arabo e la nascita dello Stato d’Israele. La qualità di vita delle
minoranze è un indicatore di pace. La cultura aleppina era frutto di contaminazioni. Ad
Aleppo, cristiani e musulmani vivevano bene: si visitavano per le feste e lavoravano
insieme. Ho conosciuto bene il clima umano di questa città impregnata di cultura e
mercato. La sua convivenza era risposta e proposta a un mondo che s’interroga su come
vivranno in pace i fedeli delle due religioni. Uno dei grandi problemi della pace è
ancorare robustamente le religioni a una pratica pacifica, perché non siano travolte nella
legittimazione dell’odio. I cristiani erano 300.000 ad Aleppo, terza città cristiana del
mondo arabo. Greco-cattolici ortodossi, siriaci, protestanti e altre denominazioni. Molte
chiese, un quartiere cristiano. Ricordo un vescovo siriaco, Mar Gregorios Ibrahim, la cui
famiglia fuggì i turchi da Mardin nel 1920 in Siria, nella Jazira. Gregorios, nominato
vescovo ad Aleppo, era mio amico, uomo di relazioni con i musulmani, lo Stato e tanti
altri. Quando si combatteva attorno alla città, uscì con il vescovo ortodosso forse per
riscattare alcuni correligionari rapiti. Non sono più tornati dal 2013. Tra il 1992 e il 1996,
l’assedio di Sarajevo fu un simbolo. Morirono 12.000 persone. Non voglio fare contabilità
tristi, ma ad Aleppo ne sono morte molte di più. Aleppo è la Sarajevo del Duemila. Ma
non c’è stata mobilitazione. Ci contentiamo di salvare la nostra pace, difendendoci dagli
sbarchi. Impossibile: quella guerra travolgerà anche noi. Non si poteva salvare Aleppo?
Aver profanato un patrimonio dell’umanità mostra la barbarie dei combattenti e
l’irresponsabilità della comunità internazionale. Si doveva trovare subito il filo della
tregua che ora vede Russia e Stati Uniti assieme. Le rovine di Aleppo, città fantasma con
gli scheletri dei palazzi, tra cui vive ancora la gente, sono un atto di accusa. Aleppo è
stata stretta da un duplice assedio: i ribelli (tra cui Al Nusra legata a Al Qaeda – ora
Abhat Fatah Al-Sham) alla città vecchia dov’erano rifugiati i cristiani; quello alla parte
dei ribelli, abitata da 300.000 musulmani, assediati da Assad, hezbollah libanesi e
iraniani. Barili-bomba siriani su questa parte, missili sull’altra. Una coraggiosa
giornalista, Francesca Borri, ha scritto: «È una guerra del secolo scorso, la guerra di
Aleppo, è una guerra di trincea combattuta a colpi di fucile. Ribelli e lealisti sono così
vicini che s’insultano mentre si sparano – al fronte, la prima volta non ci credi: queste
baionette pensavi che non si usassero più dai tempi di Napoleone, oggi che la guerra si
fa con i droni. Invece qui si combatte metro a metro, con quella lama legata alla canna e
cariata di sangue, perché è davvero una battaglia corpo a corpo, i cani randagi fuori si
contendono un osso di tibia. Anche se non sono che pretoriani di un impero di morte».
Guerra incistata tra le macerie. Washington Post parla anche di una «miniguerra
mondiale». È un game pericoloso – si pensi all’aereo russo abbattuto dai turchi –, che
rischia innalzamenti di tensione. Nessuno ha avuto interesse a salvare Aleppo. Non i
'ribelli', che occupano la parte della città attaccata. Daesh, per mesi, è stata ebbra della
proclamazione del califfato né – mi pare – le vite umane abbiano valore nella sua visione
totalitaria. Il mondo dell’opposizione, frantumato in conflitti, non ha colto come salvare
Aleppo fosse segno di maturità. Non interessava a chi ha creduto di guadagnare con il
caos, come Turchia o Arabia Saudita o Qatar. Dispiace dirlo. Non va assolto il governo di
Damasco, che – con tante crudeltà – s’è squalificato bombardando il suo popolo. Per
molti, con alcune ragioni, Assad è il male minore. Ma è il male! Quanto scialo di tempo e
di vite umane, avvenuto per il fanatismo di alcuni e il perseguimento cinico dell’interesse
di troppi! È mancato un coraggioso realismo della pace, capace di comporre i di- versi
interessi, ma con lo scopo prevalente della sopravvivenza di Aleppo: l’interesse dei
viventi e di una città simbolo. Pur di non trattare con i russi, americani e occidentali
hanno confidato su forze divise, radicalizzate, trasformiste, anche se non sono mancati
combattenti per la libertà come molti curdi. Bisognava negoziare presto! Non si è voluto
capire che – con la guerra – tutto era perduto. Le rovine di Aleppo testimoniano come
settarismo, idiozia di potenti e cinismo abbiano perso per sempre la città del vivere
insieme. Forse alcuni saranno contenti. Salvare Aleppo poteva essere una battaglia di
civiltà. Voleva dire: abbiamo capito cos’è la pace! Negli anni Novanta, con la Comunità di
Sant’Egidio, sono stato mediatore nel conflitto civile in Mozambico, auspice il governo
italiano: più di due anni di negoziati. Alla fine la mediazione, che non aveva alcun
interesse di parte, ha fatto prevalere la domanda di pace che veniva da un popolo di 13
milioni di abitanti, ridotto allo stremo, coinvolgendo la comunità internazionale. Una
storia di successo. Allora era un altro mondo. Oggi, in quello globale, l’instabilità dei
conflitti si comunica, mentre si aggrovigliano politiche e interferenze tipiche di un mondo
multipolare. Oltre al bipolarismo russo-americano, tanti Stati possono aiutare la guerra,
ma non riescono a fare la pace. Le opinioni pubbliche sono distratte nell’impotenza. Nel
settembre 2013, per un momento, Francesco risvegliò il mondo, chiedendo non si
bombardasse la Siria. E non avvenne! Bisogna risvegliare la gente sul tema della guerra.
Nella guerra globale di Siria, abbiamo visto i governi prigionieri di cinismo e tatticismo.
Nel confronto con essa, ricomprendiamo il valore della pace nel XXI secolo. La pace
concreta deve ridiventare un tema d’interesse in una società conflittiva, non fosse per
l’educazione alla sfida quotidiana della competizione. Deve risorgere l’interesse per la
pace. Senza un movimento per la pace, questa non sarà raggiungibile con i rituali della
diplomazia multipolare. Per costruirla, bisogna ripartire dalle situazioni di guerra: senza
accettarla più, anche se con realismo. I cittadini d’Europa possono far molto, utilizzando
la pace di cui godiamo e la possibilità di pressione e comunicazione. Ha scritto Bauman:
«La fitta rete di interdipendenze ci rende tutti oggettivamente responsabili delle
sofferenze altrui». Internet è veicolo di attrazione alla violenza: un movimento di pace
può servirsi degli stessi strumenti. Spero in un nuovo protagonismo civile sullo scenario
internazionale. Tra l’altro, lo scenario internazionale e nazional-locale non sono così
lontani. Agire per la pace ha una presa locale, nel mondo delle periferie urbane e nella
realtà frammentata della società. Qui c’è una grande sfida, che il terrorismo ha colto:
incanalare la radicalizzazione delle giovani generazioni (specie musulmane) contro le
violenze. Qui bisogna ricreare tessuto umano e comunitario in società e periferie troppo
conflittuali, atomizzate. L’integrazione, ad esempio, è una sfida di pace, anche se ancora
aspettiamo una legge sulla cittadinanza ai figli d’immigrati. Non è che un aspetto di
un’azione che deve riprendere nella società e sugli scenari del mondo. La città, i singoli
hanno nuove possibilità nel mondo globale. Noi abbiamo la pace, da non consumare in
una specie d’isolazionismo impotente. Le grandi catastrofi possono mettere in
movimento le coscienze. La nostra pace è una chance, non un salvagente cui
aggrapparsi.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Rete e privacy, quei divieti necessari di Sebastiano Maffettone
Non tutto quello che si può fare si deve fare. Questa è la legge principale che regola i
rapporti tra progresso tecnologico e principi della morale e del diritto. Riguarda la
genetica, la fisica nucleare, l’informazione e le sue ricadute pubbliche, le questioni
ambientali e in generale l’impatto della scienza nella società. Si possono creare mostri
genetici, novelle chimere, ma non è il caso di farlo. Lo stesso vale per le bombe
atomiche, lo sputtanamento mediatico e l’inquinamento da gas. Naturalmente, per
questo non bisogna accusare la scienza, come pure fanno i pensatori reazionari, ma
responsabilizzare la politica nel senso più ampio del termine. Tocca infatti alla politica
stabilire quali limiti debbano valere nei singoli ambiti tecnologici e industriali e quali
regole servano per assicurare il rispetto di questi limiti. Ulisse si fece legare all’albero
maestro per non essere tentato dal canto delle sirene. La società, ponendo limiti e
regole al progresso tecnologico deve fare qualcosa del genere nell’interesse generale. E,
come è facile comprendere, spesso non è semplice riuscire in un’impresa siffatta. Le
spinte economiche e tecnologiche infatti sono tali da rendere duro il cammino di chi si
muove nello spirito del rispetto dei limiti allo stesso tempo ammirando il progresso
scientifico. Una premessa di questo tipo è necessaria per affrontare con tutta la serenità
possibile un caso drammatico e preoccupante come lo è quello di Tiziana Cantone. Ma
non è sufficiente. Perché bisogna riconoscere che l’universo del web ha reso questo tipo
di problema particolarmente grave e urgente. La morte di Tiziana è una tragedia dovuta
alla superficialità e alla stupidità delittuosa di alcuni. Ma è al tempo stesso la punta di un
iceberg. Rivela infatti e sottopone all’attenzione generale una questione più vasta che ha
a che fare con il diritto a preservare la propria intimità e la propria riservatezza contro
gli attacchi continui che le sono portati dalla invasività della rete. La vicenda è antica e
coeva con la nascita della stampa. Ne aveva scritto, con dovizia di argomenti, anche
Soeren Kirkegaard, vittima ai tempi suoi di una campagna giornalistica diffamatoria. La
questione è duplice perché riguarda da un lato la tutela della propria immagine e
dall’altro la durata. Il che vuol dire che, se devo potermi difendere da accuse
ingiustificate, dovrei pure essere protetto dalla durata potenzialmente infinita di
informazione vere sul mio conto. È ben possibile che abbia commesso qualcosa di cui
non sono fiero molti anni fa, ma non è detto che i media abbiano il diritto di ricordarlo a
tutti e per sempre. Esiste in sostanza un diritto all’oblio che, in tutte le democrazie,
protegge il cittadino dal perdurare sui media di informazioni rilevanti che lo riguardano e
che il cittadino stesso vorrebbe mantenere riservate. Ma un diritto del genere può
(forse) farsi valere con la carta stampata. Risulta molto più difficile proteggerlo
nell’ambito del web. A prima vista, il web ha una sorta di eternità immanente, che si
oppone per così dire naturaliter a ogni forma di cancellazione. E tuttavia non si tratta, al
solito, solo del mezzo tecnologico. Come si diceva alla fine della fiera la questione è di
natura politica. I grandi gestori del web non hanno interesse a cancellare la propria
memoria in nome della tutela della privatezza. Di conseguenza, agiscono
lobbisticamente in difesa di questa volontà negligente. E ve lo immaginate voi il
deputato di Catanzaro o di Cuneo che si confronta con gli esperti di Google o di
Facebook sulla questione del diritto all’oblio? Francamente, non c’è partita. La cosa, se
possibile, diventa ancora più complicata se al server principale si aggiungono migliaia di
telefonini ognuno con il suo software. Tutto ciò non vuol dire, a parere mio, che ci
troviamo in un cul de sac definitivo. Piuttosto dobbiamo fare tutti assieme uno sforzo per
rendere la questione etica e giuridica sull’informazione centrale anche nella prospettiva
dello sviluppo industriale e tecnologico del settore. Dai curriculum accademici alle
patenti legali, tutto il settore deve trattare la necessità di limitare l’informazione come
un vincolo interno e non esterno. Il che vuol dire che le norme regolatrici devono
costituire parte integrante dell’architettura del sistema informatico. Roba insomma per
computer scientists e non solo per filosofi, giuristi e religiosi. Solo in questo modo
capiremo come limitare l’informazione pericolosa e soprattutto potremmo prevenirne
l’uso invece che inseguirne le conseguenze. Alla politica resta il compito non banale di
comprendere prima e imporre poi una modifica di sistema di questo tipo.
LA NUOVA
Pag 1 A Pontida la sfida ai lepenisti di Francesco Jori
I tre tenori del centrodestra? Non esageriamo. Sarebbe un ruolo improbabile, per i tre
governatori (Maroni e Zaia per la Lega, Toti per Forza Italia) che oggi aprono il lungo
weekend del Carroccio a Pontida: un po’ per i rispettivi e diversi profili; molto perché
l’orchestra è momentaneamente priva di direttore, e gli aspiranti al posto usano la
bacchetta più per pestarsi le mani a vicenda che per far suonare all’unisono gli
orchestrali. Tuttavia, l’appuntamento odierno presenta spunti interessanti, specie se visti
nella prospettiva medio-lunga: cioè la ricostruzione di uno schieramento capace di offrire
un riferimento affidabile all’ampia area degli elettori moderati, dopo il flop del vecchio
forzaleghismo. Non bisognerà fermarsi alle parole di Pontida. Come e più di tutti gli
analoghi appuntamenti di partito, il destinatario vero è molto più interno che esterno: si
tratta di occasioni per ricompattare la propria squadra attraverso i consueti riti degli
slogan, dei proclami, degli applausi catturati alzando ad arte il tono della voce. Bossi è
riuscito per anni a farne una sorta di grande narghilè collettivo, alimentato a base di soli
celtici, elmi padani, rivolte virtuali, strappi mai nemmeno tentati; e così facendo ha
nascosto a lungo dietro quel fumo la mancanza di risultati concreti. Salvini, che di Bossi
è un bonsai e neppure dei meglio riusciti, farà sicuramente altrettanto: si potrebbe già
sintetizzare oggi, il roboante discorso che terrà domenica in chiusura, semplicemente
facendo un copia-e-incolla dei suoi proclami a raffica degli ultimi mesi. Uniche varianti,
la felpa o maglietta, e la scelta degli insulti. Molto più interessante sarà il riscontro
odierno, perché può delineare uno scenario di centrodestra alternativo e diverso rispetto
alla strada di un lepenismo all’italiana imboccata dal segretario della Lega. Tutti e tre i
governatori, nelle rispettive regioni, sono alla guida di una squadra costruita in sostanza
con lo schema di alleanze sdegnosamente rifiutato da Salvini; e non hanno alcuna
intenzione di rinunziarvi, anzi si battono perché esso venga replicato a livello nazionale.
L’idea-chiave è far leva su un Carroccio restituito al ruolo di riferimento del Nord, alleato
con una Forza Italia rilanciata a tutto campo, ma soprattutto recuperata nel vecchio e
inaridito serbatoio del Centro-Sud. Esattamente l’opposto del progetto di Salvini, che a
colpi di cambi di nome e di linea vorrebbe fare della Lega un soggetto politico leader
dalle Alpi alla Sicilia. Inoltre, almeno al momento, lo schema Maroni-Zaia-Toti ha basi
molto più solide di quello appena avviato da Parisi, a sua volta in primo piano in questo
week-end: il personaggio scelto-ma-forse-no da Berlusconi, per ora, è stato investito
molto più da critiche e distinguo che da una leadership sia pur embrionale. In un simile
scenario in pieno movimento, il Nordest potrebbe fungere da sala-collaudo: in Veneto,
per il ruolo di Zaia; ancor più in Friuli-Venezia Giulia, dove lo schema di centro-destra
impersonato dai tre governatori ha appena strappato al ceNtro-sinistra le piazze di
Trieste e Pordenone; e dove nel 2018 si terranno strategiche elezioni regionali. Se una
coalizione di quel tipo riuscisse a sconfiggere l’attuale governo Serracchiani, vale a dire
una delle figure più legate a Renzi, la ricaduta nazionale sarebbe sicuramente massiccia;
e a quel punto la bussola per restituire una casa politica ai moderati indicherebbe
tutt’altra direzione rispetto a quella su cui oggi Salvini vuole orientare il timone della sua
navicella. Magari anche contando sulla possibilità (o forse probabilità, visti i precedenti)
che l’imbarcazione del centro-sinistra dia una generosa mano agli avversari,
affondandosi da sola a forza di praticare buchi nello scafo, e spedire ai pescecani ogni
comandante che sia riuscito a issarsi sulla tolda.
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