Echi magici nella narrativa di Sgorlon degli anni Settanta e il loro

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Echi magici nella narrativa di Sgorlon degli anni Settanta e il loro
Echi magici nella narrativa di Sgorlon degli anni Settanta e il loro riflesso nella pittura friulana del periodo
Nel secondo Novecento vi sono scrittori per i quali il mondo reale è solo un punto di partenza che immette in un’altra dimensione invadendo i territori del sogno, dell’incubo, dell’immaginazione e del paradosso. Nella produzione narrativa di quegli anni abbiamo riscontrato la presenza di due procedimenti tipici
della letteratura fantastica, inaugurati dai maestri ottocenteschi del genere, l’americano Poe e il tedesco
Hoffmann: l’abolizione dei confini tra reale e immaginario e dall’altra l’intrusione repentina del mistero
nel quadro della vita reale.
Ricordiamo, in relazione al primo procedimento, i romanzi fantastici di Italo Calvino: il Visconte dimezzato, il Barone rampante, il Cavaliere inesistente e i racconti dedicati a Marcovaldo. In questo caso siamo
di fronte a divertimenti narrativi e fantastici che assumono un evidente valore allegorico. Appartengono al
secondo filone, invece, opere quali Menzogna e sortilegio (1948) e l’Isola di Arturo (1957) di Elsa Morante, romanzi in cui gli elementi fiabeschi arricchiscono la triste vita dei protagonisti oppure Il deserto
dei tartari di Dino Buzzati (1974): qui, nella Fortezza Bastiani, un luogo sperduto e lontano, i soldati controllano un confine che nessun nemico verrà mai a minacciare. Qualcosa di misterioso aleggia sul protagonista e sugli altri personaggi. Anche parte della produzione del friulano Carlo Sgorlon può rientrare a
buon diritto in questo filone, d’altronde lo scrittore nella sua autobiografia, a proposito dei suoi interessi
letterari giovanili, scriveva: “Mi piacevano piuttosto gli scrittori fantastici, magici, inventivi, capaci di
trasformare la loro immaginazione in qualcosa di classico e di compatto sulla pagina. Cominciai a leggere
gli scrittori sudamericani che Giangiacomo Feltrinelli veniva proponendo ai lettori italiani, […] Amado,
Borges, […]. Moltissimo mi piacevano la Morante e Buzzati, e anzi con Elsa mi sentivo in sintonia,
quando la scrittrice romana affermava che i libri molto belli danno una sensazione di aumento della vitalità, e che lo scrittore di fantasia deve rappresentare in modi realistici la psicologia dei personaggi, per fornire un valido puntello alle sue invenzioni, perché la poesia non è mai arbitraria e fondata sulle nuvole,
ma sempre contiene un fondo di realtà. Di Buzzati mi piaceva invece il vertiginoso, angoscioso disorientamento cosmico e universale, fatto grandemente naturale in chiunque mediti sul mondo in cui siamo stati
gettati dal destino” (Carlo Sgorlon, La penna d’oca, pagg. 46-47).
Nel nostro lavoro abbiamo voluto esaminare le opere dello scrittore di Cassacco pubblicate negli anni Settanta, opere che secondo noi descrivono personaggi disorientati da episodi imprevisti che sospendono le
leggi di funzionamento del mondo reale, personaggi investiti dall’esperienza dell’assurdo, personaggi che
colgono “il senso magico scoperto nella vita quotidiana degli uomini e delle cose”, come scriveva uno dei
maestri del Realismo magico del primo Novecento, Massimo Bontempelli, in un articolo del 1927. Abbiamo capito che lo stupore e la magia emergono nella narrazione di Sgorlon come un’eccezione spiazzante da uno sfondo di anonima quotidianità e si manifestano in un luogo, il Friuli, che nel periodo da noi
scelto era, in parte, ancora un mondo arcaico, “fiabesco, pullulante d’incantesimi” (Sergio Romano). Infatti, a proposito del suo legame con la nostra regione, nel 1982 Carlo Sgorlon ha scritto di essere “uno di
questi scrittori fortunati, secondo la celebre frase di Balzac, che hanno una provincia da raccontare. Fortunati
perché possiedono delle radici e hanno alle spalle una
cultura, una storia, una tradizione … Fortunati perché
sanno chi sono, possiedono un habitat, una collocazione
precisa nella infinita varietà del reale …” (Luciano Morandini, Riscoprire la sacralità, Messaggero Veneto,
30/04/1993).
Il vento nel vigneto, scritto in lingua italiana nel 1960,
poi riscritto in friulano e arricchito nel tono elegiaco dieci anni più tardi con il titolo Prime di Sere e ritradotto in italiano nel 1973, viene concepito da Carlo Sgorlon durante il tragitto che lo porta presso la nonna Eva residente a quel tempo a Rizzolo di Reana del Rojale (viene qui riproposta la copertina con il dipinto del pittore friulano Arrigo Poz). Il romanzo racconta le vicende di Eliseo Bastianutti, un ergastolano
graziato dopo ventisette anni di prigione, il quale fa ritorno al proprio paese natale nel Friuli collinare:
Cassacco. La sorella Iolanda lo accoglie malamente: né lei né altri sono disposti ad ospitarlo, a causa della
sua cattiva fama di ex carcerato. Si scoprirà in seguito che Eliseo ha ucciso, “per un’ora di rabbia bestiale”, l’uomo che aveva offeso suo fratello paralitico. L’unica a dimostrarsi disponibile nei suoi confronti è
Rita, una vedova che abita con il figlio Riccardo a Treppo, la quale cortesemente gli affitta una stanza
senza badare alle voci diffuse in paese sul suo conto. Eliseo, trovato inoltre un lavoro sicuro come straccivendolo, riconquista la benevolenza e la fiducia della sorella, che tanto lo aveva avuto in odio e, pur
trovando l’affetto e il conforto della vedova e del figlio, non riesce a formare una vera e propria famiglia
dal momento che Rita non accetta di sposarlo per non perdere il denaro della pensione che assicura gli
studi al figlio. In questo processo di reinserimento di Eliseo all’interno della società affiorano alcuni elementi tipici del Friuli d’un tempo quali ad esempio un afflato religioso e mistico: Eliseo prova infatti un
interesse verso gli antichissimi rituali come la Messa in coena Domini del Giovedì Santo - che ricorda
l’ultima cena di Gesù - e le tradizioni magico-popolari legate alla Pasqua come quella del Truc o “Buttar
l’uovo” (a Pasquetta vi era l’antica usanza di far merenda sui prati e far correre le uova sode colorate
sull’erba) o quello dei batacchi, in friulano batacui, e delle raganelle, in friulano scraçulis, arnesi di legno
che i ragazzini agitavano in Chiesa il Venerdì Santo in sostituzione di campane e campanelle.
L’elemento centrale della vita dell’ex ergastolano è però la natura, il cui ritmo e le cui stagioni regolano
l’esistenza di Eliseo: il narratore, parlando del protagonista, afferma che “egli sentiva il progresso della
stagione e della campagna come se lo riscoprisse nel suo sangue” evidenziando uno stretto legame fra la
vita interiore del protagonista e la natura circostante che oltretutto da natura mater, qual è, fornisce gli alimenti-base dell’alimentazione di Eliseo: granoturco adatto alla preparazione della polenta e uva legata
alla vendemmia. A riprova di tutto ciò lo stesso scrittore, nella sua autobiografia, dichiara che “la realtà e
la natura sono quello che sono, e noi ne facciamo parte” (Carlo Sgorlon, La penna d’oca, pag. 54). La na-
tura è nostra madre, nostra sposa e nostra sorella dal momento che quotidianamente intratteniamo con essa un familiare ed affettuoso rapporto simile a quello che possediamo con i nostri più stretti parenti: “noi
non soltanto abbiamo legami indissolubili con essa, ma siamo, tout court, natura, e non solo perché dalla
natura deriviamo l’idea stessa della bellezza e dei suoi canoni, ma perché alla natura apparteniamo in modo completo, totalizzante" afferma lo scrittore in un articolo pubblicato nel 2008 sul Messaggero Veneto.
Dal romanzo inoltre è stato tratto un film in lingua friulana (Prime di sere), realizzato dal regista gemonese Lauro Pittini nel 1993.
Una meravigliosa natura, regina indiscussa del romanzo è qui rappresentata dal pittore carnico Enrico De Cillia.
Successivamente viene pubblicato La notte del ragno mannaro (di cui a lato alleghiamo la copertina
dell’edizione originale, illustrata anche stavolta
con un dipinto di Arrigo Poz, incentrato sullo
sguardo attonito del soggetto raffigurato), in cui si
trova ancora (come ne Il vento del vigneto) un legame tra l'uomo e il paesaggio che lo circonda, legame tuttavia di natura diversa, ma che comunque riprende alcuni aspetti dell’opera precedente, soprattutto quelli legati al sogno e al desiderio: il protagonista
del romanzo è immerso in una realtà onirica, una realtà che non riconosce.
Il romanzo narra la vicenda del nevrotico camionista Walter, che una notte non riesce a dormire a causa di
un rumore. Cercando di scoprire da dove esso provenga, egli inizia una ricerca che lo porta a vivere situazioni bizzarre o paradossali (l'incontro con un ferroviere, una famiglia strana e numerosa, una ragazza di
cui si innamora, il luna park, il mulino ad acqua....), per poi ritornare nella sua casa, nel suo letto, e sentire di nuovo quel fastidioso rumore...
Il fantastico emerge già dal titolo: il ragno mannaro (che ricorda appunto
il lupo mannaro o licantropo). Esso ricorda l'aspetto fisico del protagonista Walter, dalle gambe lunghe e affusolate come quelle di un ragno: tuttavia in lui non vediamo l'aggressività del licantropo, sembra invece un
"ragnetto innocuo".
Solo per un attimo sta per avvenire una specie di metamorfosi, quando
l'autore scrive: "si solleva sulle braccia e sulle gambe come un ragno gigantesco"; tuttavia questa trasformazione non si completa, e addirittura il
protagonista stesso si paragona più volte ad una giraffa, ma non ad un ragno.
Probabilmente la bestialità del ragno mannaro allude al comportamento del giovane Walter durante la
lunga notte di ricerca, durante la quale si aggira per le strade come un animale sperduto. Oppure, come
ricorda Stefano Lazzarin nel saggio Sul fantastico di Carlo Sgorlon, il titolo potrebbe anche richiamare
una scena metamorfica della storia, ovvero la danza dello stregone Mirko, il padre della numerosa famiglia che abita vicino al protagonista: lo stregone inizia a dimenarsi sul pavimento, si contorce ed urla, viene messo in evidenza il pelo irto sulla schiena (definita "scimmiesca"); questa scena è un misto tra una
metamorfosi ed una danza misteriosa, quasi diabolica. Queste scene metamorfiche (la trasformazione di
Walter e quella di Mirko) richiamano naturalmente La Metamorfosi, celeberrimo testo di Kafka, uno dei
principali modelli a cui si ispirò Sgorlon e a cui non a caso
dedicò la sua tesi di laurea.
Le vicende di Walter sono a metà tra la realtà ed il sogno: senza accorgersene egli si trova catapultato in situazioni diverse,
dalla caotica casa dei "piranha" alla silenziosa villetta nei
pressi di un fastidioso mulino. I diversi luoghi che fanno da
scenario non sembrano familiari al protagonista, la realtà in
cui egli è immerso muta di continuo; anche sul tempo non vi
sono certezze, il protagonista stesso dubita se la sua avventura
sia durata una o due notti. Questa continua incertezza si riflette nell'animo di Walter, che si affanna tutta la notte per inseguire qualcosa che probabilmente non arriverà mai, o qualcosa
che forse si trova solo nella sua immaginazione.
L’atmosfera notturna in cui è immerso il protagonista è ben richiamata dal dipinto sopra riportato,
L’ultimo gelso: inoltre l’immagine allude all’idea della solitudine, unica compagna di Walter durante la
sua ricerca. Anche questa tela è stata realizzata dall’artista Arrigo Poz, più volte richiamato perché lo
scrittore lo considera “una sorta di fratello nello spirito”.
Realtà e finzione si intrecciano quindi continuamente in questo romanzo, definito dallo stesso Sgorlon
autobiografico (Carlo Sgorlon,La penna d’oro, pag. 67), poiché l'inquietudine che da esso emerge, è una
nevrosi che affliggeva anche l'autore; tale nevrosi portò Sgorlon a fuggire dall'inconsistenza della vita per
rifugiarsi nei miti, nelle favole e nella tradizione.
Nell’opera successiva il ruolo dell’elemento magico diventa ancora più determinante. La luna color ametista, come scrive l’autore nella già citata autobiografia (op.cit., pag. 67) nasce esclusivamente dal gusto
per la narrazione, ormai perduto secondo lui nella letteratura europea. Il suo modello è piuttosto quello
della narrativa d’invenzione. In questo romanzo Sgorlon, attraverso il fantastico vuole mettere in rilevo e,
soprattutto, criticare alcuni aspetti della vita moderna, convenzionale e consumista.
In uno sperduto paese friulano sconvolto da un’alluvione si svolge la vicenda di Riccardo e dei suoi amici. Il giovane conduce una vita modesta ed è molto impegnato nella lettura. Un giorno uno strano personaggio appare misteriosamente e comunica al protagonista la presenza di un ragazzo straniero che vive
nei binari abbandonati della vecchia ferrovia. Riccardo, incuriosito, trova questo ragazzo denutrito ed e-
stremamente debole, mezzo addormentato. Decide quindi di portarlo a casa. Da qui ha inizio il turbinoso
corso degli eventi. Forma un compagnia di amici, inizialmente curiosi e interessati alle condizioni del
nuovo arrivato, poi catturati dal suo fascino e dal suo spirito di iniziativa. Le domande sulla provenienza e
la lingua madre del ragazzo non troveranno risposta per tutto il racconto. La lingua, misteriosa e affascinante, dai suoni dolci e delicati verrà ben presto accantonata, sostituita da un italiano fluido imparato in
brevissimo tempo da Rabàl (questo il nome del misterioso nuovo amico); l’idioma originale ricompare
soltanto in quelle occasioni in cui egli viene affetto da misteriose catalessi e allucinazioni. Fin da subito le
bizzarre iniziative suggerite da Rabàl e intraprese poi con entusiasmo da tutto il gruppo (trasferitosi nella
grande casa occupata da Riccardo) divengono il centro dell'azione. La caccia ai gatti randagi muta nel
tentativo di allevare ogni specie faunistica della zona fino a quando in casa quasi non rimane più posto
per dormire. Rabàl allora intraprende la ricerca di un tesoro sepolto per poi abbandonarla, preferendo dedicarsi alla stampa di banconote in modo tale da creare nei sui amici una “mentalità commerciante”. Per
utilizzare questi soldi riapre una casa da giuoco del paese ormai abbandonata e convince gli amici a rimetterla a nuovo. Strani commerci via posta, riapertura di una fabbrica di carne in scatola, rappresentazioni
sceniche sono altre iniziative che si alternano a periodi meditativi, mistici in cui egli si dedica alla lettura
e all'astronomia alla ricerca dell'“Io astrale”. Rabàl dunque incarna lo spirito più vivo della magia, l’estro
inventivo, lo slancio entusiastico e al contempo l’esoterico enigma che ogni incantatore ha in sé, misteri
rappresentati magistralmente anche da Il mago, una celebre opera del pittore tarcentino Toffolo Anzil,
considerato da Sgorlon il più grande artista friulano. I colori molto accesi, giocati sulle tinte contrastanti
dei primari rosso e blu, simboleggiano la fervida fantasia che caratterizza e arricchisce il personaggio,
mentre la sua profondità arcana è raffigurata nello sguardo vertiginoso e abissale, memore di antichissimi
riti e sortilegi. Il fervore e l'animosità con cui il personaggio creato da Sgorlon si avvicina a queste sue
imprese sono pari soltanto alla velocità con la quale le abbandona, anche se la sua forza di attrazione è tale da rianimare la vita del paese ormai semi-abbandonato dopo
un’alluvione. Però un giorno Rabàl sparisce misteriosamente, così come era comparso nel paesetto friulano. In
Riccardo, in Rosa e negli altri compagni subentra allora
un dolente torpore: e tutti riprenderanno la vita stanca ed
incolore di prima, sperando che si possa ancora ritrovare
"un uomo o un fanciullo con sulla tempia una luna color
ametista". In questo romanzo il fantastico, che secondo
Todorov è “l'esitazione, provata da un essere il quale conosce soltanto le leggi naturali, di fronte ad un avvenimento apparentemente sovrannaturale” (Remo Ceserani,
Il fantastico, pag. 49) si manifesta nella forma del mera-
viglioso. Solo all'inizio infatti, colui che ascolta il racconto di Riccardo dubita dell'esistenza di Rabàl. In
seguito la storia procede vorticosamente in un turbinio di eventi che si susseguono senza sosta rendendo il
piccolo gruppo di amici un'entità meravigliosa al punto da attirare l'attenzione degli abitanti del paese che
si uniscono alle loro bizzarre iniziative. Il mondo fatato di Rabàl e dei suoi amici è un inno alla gioia di
vivere, in nome della riscoperta del valore dell'amicizia, un microcosmo fantastico, situato in una periferia in accordo con la natura.
Dopo il sogno magico de La luna color ametista, Sgorlon decide di scrivere un’altra favola, riscoprendo
“in profondità il mito e l’archetipo” che, come dice l’autore stesso, insieme al sacro, alla leggenda, alla
fiaba, “si conservano attraverso il tempo […], e con le loro strutture arcane e suggestive ridanno al reale
un volto poetico” (Carlo Sgorlon, La penna d’oro, pag. 70-71)
Nasce così Il trono di legno (Premio Campiello 1973), l’opera più celebre dell’autore friulano, in cui la
storia e la crescita interiore del protagonista Giuliano Bertoni diventano il simbolo di una vita trascorsa
nell’ “aspirazione al meraviglioso e al fiabesco”, nel continuo desiderio insoddisfatto di viaggi e avventure, ma soprattutto nella ricerca dell’irraggiungibile e misterioso Danese, di cui la leggenda è ancora viva,
e che il ragazzo scopre essere suo nonno. La vita di Giuliano si intreccia con quelle di vari personaggi che
incontra nel suo cammino, dall’esuberante Flora, “assetata di vita” (C.S., La penna d’oro, pag. 72), per
cui Giuliano è inizialmente travolto dalla passione, alla dolce e mite Lia, al loro nonno Pietro, abile narratore di racconti ispirati alle sue avventure e “simbolo del Friuli migrante” (pag. 73). Solo dopo molto
tempo trascorso in continui viaggi e peregrinazioni alla ricerca della sfuggente Flora e al contempo del
Danese, Giuliano comprende infine di essere destinato a vivere con Pietro, il Rosso, e il figlioletto avuto
da Lia, nell’immobile tranquillità di Cretis, un villaggio nel cuore delle Alpi, la cui quiete venne immortalata da molti artisti friulani tra cui spicca Giovanni Pellis (Mattino a Valbruna), un artista che ritrasse ripetutamente le amate montagne locali con tonalità a
volte accese, a volte chiare e rosate, come
nell’immagine qui di seguito allegata, volta ad esprimere figurativamente la mistica pace dei paesini
sperduti ai piedi di cime maestose e sacrali.
Scegliendo una vita tranquilla, Giuliano, rinuncia
anche a trovare il nonno, perché ha capito dopo tanti anni di preferire che egli rimanga una figura leggendaria, in modo che le sue straordinarie e sconosciute avventure si confondano nella sua immaginazione con i viaggi altrettanto epici di Ismaele (il
protagonista e narratore interno del romanzo Moby
Dick), che lo avevano affascinato fin da bambino, in una sorta di antologia di immagini. Tuttavia, prima
di comprendere tutto ciò, il protagonista, da ragazzo, è irresistibilmente affascinato dal Danese, una figura
avvolta nel mistero e velatamente diabolica che ricorda una delle tradizioni più suggestive della grande
tradizione letteraria del XIX secolo, la leggenda del Vascello Fantasma. Nata dal folklore nordico, essa
venne poi rielaborata e resa celebre da numerosi romanzi ottocenteschi, tra cui ricordiamo H. Heine, Dalle memorie del signor von Schnabelewopski, F. Marryat, Il Vascello Fantasma, e soprattutto l’opera romantica di R. Wagner, L’Olandese volante.
Secondo la leggenda, l’Olandese Volante è un vascello fantasma che solca i mari in eterno, avvolto da un
terrificante uragano, a causa della maledizione caduta sul capitano, che in un atto di forsennata hybris aveva giurato di doppiare il Capo Horn anche navigando all’infinito, e sui suoi marinai, tramutati in una
ciurma di spettri. Una variante del mito racconta inoltre che l’Olandese, per poter ottenere il suo scopo,
avesse promesso l’anima al diavolo, in un patto che rimanda a quello stretto tra Mefistofele e Faust, uno
dei personaggi letterari più famosi di tutti i tempi. Secondo lo studioso S. Lazzarin (Sul fantastico di Carlo Sgorlon), l’autore ha delineato la figura del Danese attingendo molti elementi da questa tradizione, a
partire dal fatto che il marinaio “che ha navigato in tutti i mari del mondo” (Carlo Sgorlon, Il trono di legno, Mondadori, Milano, 1973, pag. 44), proprio come l’Olandese Volante, acquista nei racconti degli
anziani contorni diabolici, poiché “essi avevano incominciato a vedere nel Danese l’immagine stessa del
Tentatore, e su di lui erano nate paurose leggende” (op. cit., pag. 41). Nel romanzo compare il tema del
ritratto diabolico, in quanto la sua figura è avvolta nel mistero. In particolare, il quadro che ritrae le fattezze di un personaggio diabolico di cui non ci sono più tracce, appare anche in Heine, in Wagner e nei
racconti di E. T. A. Hoffmann, e costituisce un topos letterario del genere fantastico. L’unica altra testimonianza della sua esistenza dopo la partenza, è una lettera ritrovata da Giuliano in un cassetto di Maddalena, che era pervenuta all’interno di una bottiglia, un motivo ricorrente nella letteratura marinaresca che
dà anche titolo a un importante racconto di E. A. Poe, Manuscript found in a bottle (1838).
Il Danese inoltre ha in comune con il demonio perfino alcuni tratti fisici e caratteriali: la risata sguaiatamente agghiacciante e diabolicamente beffarda come lo era quella della ciurma di fantasmi dell’Olandese
Volante, e la consuetudine con il fuoco, tradizionalmente associato alle pene dell’Inferno, che si manifesta
nelle scintille che sfavillano quando il Danese si pettina. In un particolare però Sgorlon ha scelto di distaccarsi dalla tradizione: mentre solitamente le figure diaboliche e misteriose sono insistentemente contraddistinte da un pallore soprannaturale, il Danese ha una “pelle cotta dal sole” (op.cit., p. 39), retaggio
di una vita da marinaio o forse manifestazione ulteriore della familiarità con gli scenari infernali di fuoco
e fiamme. Un altro motivo di fascino è sicuramente l’origine ignota, che nessuno, pur avendolo anche conosciuto di persona, era riuscito a scoprire: “Secondo lui [un falegname che l’aveva frequentato] il Danese non era affatto della Danimarca. Poteva venire piuttosto dalla Persia, dalla Georgia o dall’Ungheria
[…]. [Tuttavia lo chiamavano il Danese] perché era stato veramente marinaio in Danimarca e parlava
spesso di quel paese” (op.cit., p. 39). Lo stesso personaggio racconta a Giuliano anche della sua incredibile facilità nell’apprendere tutte le lingue, ciò che gli conferisce una sorta di aura diabolica, in quanto assume i tratti di una dote quasi soprannaturale. Il Danese però, non solo conosce e parla le lingue comuni,
ma ne inventa pure altre, “invenzioni farsesche per impressionare i suoi ingenui ascoltatori”: “quanto a
fantasia, poteva dare dei punti anche al diavolo” (op.cit., p. 39). Questa sua ambigua e arcana poliedricità
sembra collegarsi al mistero dell’inesauribile patrimonio in denaro sempre disponibile al Danese, di cui in
paese si discute l’origine, che rimane sospetta. E del resto, quando un giovane chiede al Danese stesso
l’origine di tutti quei soldi, il mistero, invece di essere risolto, s’infittisce ancor più a causa
dell’enigmatica risposta: “Disse che non si ricordava da dove venisse il suo denaro, e che la cosa era per
lui del tutto priva d’interesse. Lui non pensava al passato né al futuro, e perciò non gli importava di ricordare l’origine dei soldi, né di sapere quanto sarebbero durati” (op.cit., p. 43). Le parole possono alludere
al fatto che il Danese vive solo nel presente, oppure suonare come un’allusione sinistra all’inquietante retorica diabolica mediante la quale il demonio stesso si fa beffe della gente e, nella tradizione, dei creditori. Dopo tante elucubrazioni, i vecchi del paese giungono ad una conclusione unanime e condivisa: il Danese si è procurato i soldi con il gioco d’azzardo. Quest’ultimo in letteratura è molto spesso associato direttamente al diavolo ingannatore e illusionista, che con i sui trucchi vince sempre il disgraziato avversario: una delle versioni della stessa leggenda del Vascello Fantasma vede il capitano intento a giocare a
dadi con il demonio in persona! Il Danese è un personaggio creato sull’onda di una grande tradizione letteraria, costruita sulla figura del diavolo che entra nella vita umana quasi incarnandosi in alcuni personaggi i quali appaiono al resto della gente soprannaturali, mutevoli, versatili, imperscrutabili nel loro segreto, enigmatici a tal punto da esercitare un fascino irresistibile sul prossimo. Sembra uno dei tanti personaggi incontrati da Giuliano nelle sue letture: infatti fin da bambino il protagonista studia e legge da solo, e via via nella sua mente si viene a creare un immaginario di racconti di esplorazioni, avventure e
viaggi pericolosi, che hanno come protagonisti personaggi originali, inquietanti e coraggiosi. Il primo di
questi è Ismaele, in cui Giuliano si identifica quasi totalmente, come se in una vita precedente fosse stato
proprio il marinaio della ciurma del capitano Ahab, l’unico
sopravvissuto, spettatore del tragico destino di morte che avvolge in unico vortice fin negli abissi oceanici allo stesso tempo l’uomo, l’odiata balena bianca e l’intero equipaggio, scena
sublimemente descritta nel finale di Moby Dick. Giuliano, inoltre, sempre “a caccia di archetipi per sé e per gli altri” (Stefano Lazzarin, op.cit., pag. 25), si paragona esplicitamente anche a Ulisse o all’Ebreo errante (costretto a viaggiare per sempre per aver negato l’ospitalità a Cristo in un momento della
Passione), a tal punto da divenire egli stesso una figura leggendaria, un uomo ramingo che vaga senza sosta – parte nella
realtà, parte nell’immaginazione – alla continua ricerca del
Danese e delle sue origini. Tra le avventure che il protagonista vive nella sua fantasia, è fondamentale ricordare il sogno che egli fa una notte: nella visione onirica vede da uno scoglio avvicinarsi su un mare
calmo e silenzioso un battello, che scivola sulle onde pur non avendo vele, né timoniere, né equipaggio
alcuno, come un marinaio avrebbe potuto scorgere all’orizzonte l’ombra del Vascello Fantasma. La nave
però prosegue il suo corso, finché si avvicina a tal punto che Giuliano riesce a sentire l’unico suono che
rompe il silenzio di morte, il canto spettrale di una melodiosa voce femminile, quella di sua madre. La
donna però, invisibile allo sguardo, non compare, e Giuliano non può vederne neppure il volto, come se il
suo canto provenisse da un fantasma o dal simulacro di uno spirito dell’aldilà, che indistintamente si rivela, ma rimane irraggiungibile nel suo inviolabile mistero. Una simile atmosfera di oscura impenetrabilità è
rievocata nel Sogno di Sant’Orsola, un’opera della pittrice friulana Dora Bassi, in cui, nonostante il soggetto diverso, le tinte fortemente sfumate e gli elementi rarefatti che rendono la composizione quasi astratta, il velo bianco della giovane dormiente, l’immobilità della scena ricordano l’evanescenza della
madre di Giuliano, mentre le due mani, tese l’una verso l’altra pur non arrivando a toccarsi, possono suggerire l’idea di dolorosa incomunicabilità tra il mondo dei vivi e l’aldilà.
Solo al termine del romanzo e del suo percorso di formazione, Giuliano capisce che cercare il Danese era
stata una follia, averlo trovato sarebbe stata una grande delusione, perché se anche l’avesse raggiunto, avrebbe visto solo un vecchio decrepito, affaticato dall’età e dallo sfinimento di una vita rocambolesca. E’
per questo che alla fine Giuliano non vuole profanare la leggenda in cui la sua stessa mente è vissuta fin
dall’infanzia, ma preferisce iniziare a scrivere e raccontarla in tutta la freschezza del suo ricordo, affidandone le gesta al potere magico della parola, che
con grande forza e vitalità è in grado di dar
forma a volti, idee, personaggi, suscitare precisi
sentimenti, spingere gli ascoltatori a dimenticare se stessi per lasciarsi risucchiare dal vortice
che li trascina direttamente nel punto più emozionante del racconto, e soprattutto, ogni volta
come in un incantesimo, dar vita ai ricordi che
altrimenti si dissolverebbero nel nulla, liberandoli così dalle trame inesorabili dell’oblio e
consentendo loro di librarsi in volo nel cielo
dell’immortalità.
Il potere della parola, però, si rivela interamente e coscientemente solo nel libro Gli dei torneranno, pubblicato del 1977. Il romanzo si apre con il ritorno in Friuli di Simone Zuliani, il quale decide di ritornare
al suo paese di provenienza, Jalmis, da dove era emigrato, giovanissimo, per andare in America. Il protagonista, quindi, appare fin da subito legato alla parola: nel periodo in cui era stato in Perù, aveva vissuto
facendo il cantastorie assieme a una ragazza, Moira. “Ritornato in patria come richiamato da una sirena
misteriosa”, come afferma lo scrittore nella sua autobiografia (Carlo Sgorlon, La penna d’oro, pag 88),
Simone si accorge subito del cambiamento avvenuto: il paese è quasi completamente disabitato e tutto
giace in uno stato di abbandono e trascuratezza; atmosfera evocata anche nel dipinto suggestivo, per l’uso
del rosso nelle sue diverse gradazioni, realizzato dal pittore isontino Cesare Mocchiutti.
Con l’avanzare quindi della storia, Simone si rende sempre più conto di quale sia lo scopo della propria
esistenza: riportare in vita il passato di Jalmis e del Friuli tutto, fatto di storie e credenze popolari che, se
non ci fosse qualcuno pronto ad ascoltare e trascrivere, verrebbero completamente dimenticate.
L’ispirazione gli deriva anche da una donna, Margherita, con cui il protagonista vivrà per il resto della sua
vita. Nel libro l’incontro tra i due sembra quasi fatale, inevitabile, stabilito. Simone, uscito per una passeggiata alla scoperta dei paesi attorno al suo, si allontana troppo e si perde. La neve inizia a scendere fitta, rendendo l’atmosfera ancora più particolare e pregna di significati nascosti, quasi irreale; il quadro di
Luigi Zuccheri, magicamente onirico e sospeso nell’inversione di grandezze degli esseri che lo popolano,
suggerisce nel migliore dei modi il momento.
Ad un certo punto, Simone vede in
lontananza una luce. E’ quella della
casa di Margherita de Crignis, discendente di una famiglia nobile ormai
decaduta, che vive a Cleulis, un paese
in condizioni addirittura peggiori di
Jalmis. Quando lei, sulla quarantina,
nubile, ma con un desiderio intenso di
avere un figlio, e lui, in cerca di
un’anima con cui passare il resto della
propria vita, si incontrano, sanno di
essere fatti l’uno per l’altra e di aver
vissuto tutta la loro vita aspettandosi.
La roccaforte dove vive la donna è come sospesa, sembra appartenere a un altro mondo. Margherita ci vive con una vecchia zia, ma quando è a casa si estrania completamente dal presente, immergendosi in un
passato costellato di parenti che non ha mai conosciuto, ma che, nella sua mente, abitano ancora la casa.
Ella fa rivivere tutti i suoi antenati così come le erano stati descritti da piccola, esplora le camere del castello, apre porte e cassetti e indossa abiti di secoli addietro. Margherita, però, non è l’unica donna importante nella vita di Simone. Questi, infatti, spesso si ricorda anche della “Clautana”, una sedonera, cioè una
donna che vende oggetti di legno viaggiando di paese in paese, chiamata così da lui perché proveniente da
Claut. A tal proposito Sgorlon scrive: “Tutti i personaggi femminili della mia narrativa hanno qualche lato
della fata e qualcuno della strega, e certo sono caratterizzati da un’atmosfera più o meno accentuatamente
magica […]”(Carlo Sgorlon, La penna d’oro, pag 85). Se quindi Margherita appare sicuramente un personaggio “fatato”, la Clautana è una figura più misteriosa, più vicina alla figura di una strega. E’ lei che
inizia Simone all’amore, quando questi si trova ancora in Friuli, e il suo ricordo resterà impresso nella
mente di lui per tutto il corso della vita. L’aria di mistero che avvolge la donna è dato certamente anche
dal fatto che giri da sola e non con una compagna, come di solito fanno le sedonere, ma viene ulteriormente enfatizzata nel libro dal fatto che poco o nulla si sa di lei. Anche quando Simone va ad abitare da
Margherita sono frequenti le volte che si ricorda di quella donna, spesso domandandosi che fine abbia fatto. Il protagonista, in ogni caso, anche in casa de Crignis continua a sviluppare il proprio compito, raccogliendo tutte le storie che le persone che incontra hanno da raccontare. Ripercorre quindi la storia del
Friuli a partire dai Celti, arrivando al periodo del Patriarcato, che egli giudica meraviglioso per il Friuli,
fino al 1420 con la sua soppressione da parte di Venezia e tutto ciò che ne è seguito, fino al dramma
dell’emigrazione. Simone, perciò, diventando l’interprete del proprio popolo, si va quasi a fondere con
Sgorlon, come racconta lui stesso: “[…] fuori del Friuli ero considerato per eccellenza il portavoce del
mio popolo, del suo inconscio e immaginario collettivo. […] Così in qualche modo cominciai a sentirmi
anch’io come mi vedevano gli altri. Ero colui che parlava in nome di molti, per dire le speranze, i rimpianti, le nostalgie, i lamenti e le gioie di un popolo intero. […] Fu questa convinzione di fondo che mi
suggerì Gli dei torneranno […].” (Carlo Sgorlon, La penna d’oro, pagg. 87-88) Il passato, però, è raccontato in chiave mitica, attraverso le storie che si sono andate a formare in ogni casa e che hanno ormai assunto una connotazione fantastica. L’intero libro è immerso in un’atmosfera surreale, dove tutto sembra
possibile. Accanto al racconto del popolo nel suo massimo fiorire, confrontato con lo stato di abbandono
in cui giacciono nel momento della narrazione i paesi, vi è però una nota di speranza. Lo stesso titolo se
ne fa portatore: il narratore, infatti, crede che, nonostante l’emigrazione, il Friuli tornerà a popolarsi e, assieme agli abitanti, torneranno anche gli dei che hanno abbandonato la regione tanto tempo prima. Non
sono infatti né il dio cristiano, né le divinità pagane dei Romani, ma degli dei ancora più antichi, che rendono ancora una volta la storia più suggestiva.
La carrozza di rame, pubblicata nel 1979, è l'opera che conclude la fruttuosa produzione letteraria di questo decennio. Racconta la storia della famiglia De Odorico, dalla fine del 1800 fino al 1976, attraverso
matrimoni sfortunati, cattivi presagi, alluvioni, periodi di grande prosperità, alternati ad altri di siccità, e
termina con la descrizione del terremoto del Friuli, avvenuto lo stesso anno.
Il romanzo, però, non si limita a narrare le vicende dei De Odorico nel ciscjelat di Malvernis, paesino della pedemontana friulana, ma introduce diversi temi tipici della letteratura di Sgorlon, quali il contrasto tra
la civiltà agreste e la progressiva urbanizzazione, l’illusorietà umana e la fatale ciclicità della storia. Inoltre la vicenda è lo spunto per il recupero dell'enorme patrimonio mitico e leggendario della tradizione
friulana. Ogni personaggio, infatti, è intrappolato in un sogno, dal quale non riesce a svegliarsi. Prima fra
tutti, Valentina, madre di Emilio, il protagonista, la quale vive vagheggiando un possibile ritorno del suo
amato che, in seguito a una serie di sfortunati eventi (la morte dei cavalli che trascinavano la carrozza del
giovane sposo verso la chiesa, la scomparsa delle fedi...), l'abbandona dopo la prima notte di nozze. Ella è
talmente intrappolata in questa vana speranza da non riuscire a notare l'amore incondizionato che Caterino prova per lei, il quale a sua volta, immerso in un passato leggendario, non riesce a stare al passo con la
sempre più rapida modernizzazione dei tempi.
L'unico personaggio privo di sogni e di illusioni è il protagonista, Emilio, che dimostra di non appartenere ad una dimensione ben precisa, ma di essere proprio come il padre, che se ne andò prima della sua nascita, sempre teso verso la ricerca continua di una felicità inafferrabile. Il
suo spirito inquieto, dunque, lo traina, come
una carrozza, verso moltissime avventure ed
esperienze che contribuiranno alla sua formazione e maturazione. In questo viaggio egli è,
però, solo, in quanto è incapace di legarsi
stabilmente ad una donna. Il suo primo amore, Ines, è una fanciulla estremamente sensuale, ma senz'anima, ovvero non prova affetto per gli altri e nutre, invece, un grande interesse verso credenze superstiziose e riti scaramantici: addirittura sembra assumere i tratti di una strega, mentre richiama di notte lo spirito di Erode oppure quando
uccide con un pugnale il Carnevale, rappresentato da un fantoccio, evocato tra l’altro, in un dipinto del
pittore Anzil, che, affiancando colori caldi ad altri più cupi, riesce a trasmettere un’atmosfera carica di aspettative ma allo stesso tempo anche di inquietudine.
Sogni, illusioni, speranze, credenze e sterili conflitti, però, tramontano con il crollo del ciscjelat a causa
del terremoto che, nel 1976, distrusse e segnò irrimediabilmente il Friuli, e già preannunciato, nella storia,
da una serie di fosche profezie.
La fatalità degli eventi, la paura e il dolore per le cose
e le persone perdute durante il terremoto, ma soprattutto la sensazione di precarietà e il pensiero costante
di essere di passaggio e di non essere padroni della
propria vita sono efficacemente riassunti in un quadro
di Arrigo Poz, Terremoto (1976).
Tuttavia Sgorlon, anche in questo tragico momento
della storia friulana, riesce a proporre, traendola dalla
saggezza popolare, una nota positiva:
"Eppure il ter-
remoto non è la fine di tutto. Subito dopo le scosse,
come formiche pazienti, gli uomini cominciano a ricostruire, perché questa è l'eterna legge della vita"
(Carlo Sgorlon, La penna d’oro, pag.93). Una vita che si tinge di magico nel continuo fluire e ripetersi ciclico delle vicende umane.
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