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Università degli Studi di Bologna
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Storia e civiltà orientali
Tesi di Laurea triennale in:
Storia Contemporanea
OPERAZIONE PIOMBO FUSO:
STORIA E TESTIMONIANZE
Relatore:
Tesi di Laurea di:
Prof.ssa Gemelli Giuliana
Lena Eleonora
Correlatore:
Dr. Bortolazzi Omar
Terza Sessione
Anno accademico 2011/2012
1
A mia madre Elsa.
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INDICE
PREMESSA .......................................................................................................................... 5
GEOGRAFIA DEL TERRITORIO ........................................................................................ 6
LA PALESTINA: UNA TERRA STORICAMENTE SEGNATA DA LOTTE E CONFLITTI 8
L’occupazione egiziana e la rivolta del 1834..................................................................... 10
Il nuovo secolo e l’arrivo degli inglesi .............................................................................. 11
La città di Gerusalemme................................................................................................... 13
La rivolta del 1936 ........................................................................................................... 14
La nascita dello Stato di Israele......................................................................................... 17
La diaspora....................................................................................................................... 19
I primi conflitti arabo-israeliani ........................................................................................ 21
Arafat, Al Fatah e l’OLP................................................................................................... 22
La Guerra del Kippur e gli anni ‘80 .................................................................................. 25
L’Intifada del 1987 ........................................................................................................... 26
Gli accordi di Oslo e la Seconda Intifada .......................................................................... 27
Hamas .............................................................................................................................. 29
HAMAS E FATAH: DUE “WELTANSCHAUUNG”
DIVERSE ....................................... 30
OPERAZIONE PIOMBO FUSO ......................................................................................... 34
La fase aerea..................................................................................................................... 38
La fase via terra ................................................................................................................ 39
Le vittime ......................................................................................................................... 39
ALCUNI INCIDENTI CHE HANNO COINVOLTO CIVILI .............................................. 44
Le due case al-Samouni .................................................................................................... 45
Uccisione di civili che lasciavano le proprie case per andare in un posto più sicuro .......... 46
La moschea al-Maqadmah ................................................................................................ 47
La casa della famiglia al-Daya.......................................................................................... 48
OPERAZIONE PIOMBO FUSO: L’ASPETTO STRATEGICO E TECNOLOGICO ........... 49
Le armi utilizzate durante il conflitto ................................................................................ 52
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DUE PREZIOSI TESTIMONI: ZIYAD CLOT E VITTORIO ARRIGONI........................... 56
OPERAZIONE PIOMBO FUSO: L’ASPETTO MEDIATICO ............................................. 60
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PREMESSA
Come molti ben sanno, il conflitto israelo-palestinese è in corso ormai da molti decenni;
difficile trovare un inizio ben definito, e pressoché impossibile intravedere una fine delle
ostilità tra i due popoli o lo spiraglio di una soluzione diplomatica –benché, come si vedrà, ne
siano state intraprese molte, anche con l’aiuto di grandi potenze straniere.
Siamo sicuramente davanti a una delle più grandi sfide dell’età contemporanea: creare, cioè,
le condizioni per la convivenza e prima ancora la coesistenza di due nazioni caratterizzate da
un odio reciproco.
Lo scopo di questo lavoro non è senz’altro quello di trovare chi sia nel giusto e chi nel torto;
non è nemmeno quello di suggerire una possibile soluzione. In questa breve analisi si cercherà
invece di comprendere le dinamiche che caratterizzano quest’antagonismo ormai radicato a
fondo e che si tramanda di generazione in generazione. Si farà, certamente, una sintesi della
storia israelo-palestinese a partire circa dalla metà del XIX secolo, mettendo in evidenza gli
avvenimenti più salienti. Successivamente ci si concentrerà in particolar modo su un episodio,
peraltro molto recente: la cosiddetta Operazione Piombo Fuso. Come mai si è scelto proprio
questo scontro? Non certo perché si ritenga che esso possa essere esplicativo da solo di un
conflitto così complesso che si trascina dalla nascita del sionismo, né che da esso si riesca ad
avere una visione d’insieme e quindi una delucidazione totale. Operazione Piombo Fuso è
stata presa come oggetto di analisi per diversi motivi.
Innanzitutto, il numero delle vittime: Israele e l’Autorità Palestinese presentano numeri
diversi, ma in ogni caso si supera di gran lunga il migliaio – la cifra varia dai 1300 ai 1444. Si
tratta dunque di uno scontro rilevante dal punto di vista dell’emergenza umanitaria, ma non
solo. Si guarderà infatti anche al lato militare-strategico e a come in questo la guerra in
Libano tra Israele ed Hezbollah sia stata una fondamentale premessa per Piombo Fuso.
Successivamente, si analizzerà anche l’aspetto tecnologico-
quindi l’utilizzo di particolari
armi- e quello mediatico, ovvero il ruolo dei media nello scontro. I media sono infatti ormai
un elemento fondamentale nelle guerre per far pendere la bilancia dell’opinione pubblica in
un senso o in un altro. Naturalmente non tutti i media sono uguali, e di conseguenza lo stesso
avvenimento viene raccontato in maniera differente a seconda del filtro attraverso cui le
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informazioni passano. Per questo motivo, si è ritenuto indispensabile ricercare articoli di
giornali di nazionalità diverse: americani, inglesi, arabi ed italiani.
La speranza è che il seguente lavoro risulti il più obiettivo possibile –anche se si lascerà
spazio alle testimonianze dirette di chi ha vissuto lo scontro o vi è comunque stato coinvolto;
poiché solo una volta isolati i fatti si potrà cercare di comprenderli.
GEOGRAFIA DEL TERRITORIO
Fonte foto: atlante.unimondo.org
Fonte foto: www.mapsofworld.com
La Palestina è una regione storica i cui confini sono segnati da:
-il Mar Mediterraneo a ovest
-il deserto siro-arabico a est
-il deserto del Negev a sud
-il monte Hermon a nord
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Questi confini sono stati ridisegnati più volte nel corso della storia, poiché la Palestina non è
mai stata uno Stato vero e proprio. Al momento della nascita dello Stato di Israele, nel 1948,
questo non comprendeva né la Cisgiordania (chiamata “West Bank” in inglese), né la striscia
di Gaza1, né le alture del Golan, allora appartenenti alla Siria. Solo successivamente, dopo la
Guerra dei sei giorni nel 1967, tutto il territorio palestinese che fu sotto il controllo inglese nel
periodo 1920-1948 venne incluso nello Stato ebraico. In aggiunta Israele riuscì a conquistare
anche le alture del Golan – tutt’oggi israeliane- e la penisola del Sinai, in seguito restituita
all’Egitto.
La Palestina copre una superficie di 20.255 kmq, poco meno della Sicilia. Un territorio
piccolo dunque, eppure estremamente vario. Si divide in quattro regioni: la Cisgiordania a est;
la regione desertica del Negev a sud, dopo la città di Beersheba; la pianura costiera da Gaza al
Libano; la regione da Acri ai monti di Al-Jalil, la valle di Marj Ibn Amir e il Baysan.
Per quanto riguarda il clima, la Palestina si trova nella zona sub-tropicale, ma più
precisamente la si può dividere in 3 fasce verticali: la zona costiera ha un clima mediterraneo,
con piogge concentrate nel periodo invernale; quella centrale - caratterizzata dalla presenza di
montagne- uno temperato; quella più vicina alla Giordania, infine, presenta un clima di tipo
torrido. Più si va verso l’interno, più le precipitazioni diminuiscono.
Malgrado la scarsità di acqua e i problemi di siccità annuali che conseguentemente ne
derivano, la Palestina è sempre stata un territorio di contadini e di pastori, e la sua società si
basava inizialmente sull’agricoltura stanziale dei fellahin 2 combinata alla pastorizia dei
nomadi beduini.
Le coltivazioni principali sono la vite, gli agrumi, l’olivo, i fichi, i datteri e il grano.
1
2
In seguito alla guerra arabo-israeliana del 1948-1949, la Cisgiordania venne occupata dalla Giordania, mentre
la Striscia di Gaza dall’Egitto.
Il termine arabo “fellah” –plurale fellahin- indica i contadini e gli agricoltori. Si tratta di un vocabolo già in
uso nel periodo dell’Impero Ottomano
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LA PALESTINA: UNA TERRA STORICAMENTE SEGNATA DA LOTTE E
CONFLITTI
TAVOLA CRONOLOGICA:
1831-1840: gli egiziani governano la Palestina con Ibrahim Pasha
1834: rivolta contro l’occupazione egiziana
1904-1914: grande ondata di immigrazione ebraica
1917: le forze ottomane di Gerusalemme si arrendono agli inglesi. Dichiarazione di
Balfour
1918: inizia il mandato britannico in Palestina
1932: si forma il primo partito politico moderno palestinese: l'Istiqlal, con una forte
connotazione panislamica
1936: seconda grande rivolta palestinese, stavolta contro ebrei ed inglesi
1937: la commissione Peel pubblica un rapporto sulla situazione palestinese,
dichiarando la necessità di dividere la Palestina in due Stati, uno ebraico ed uno arabo
1938: la commissione Woodhead dichiara l’impossibilità di applicare il piano Peel e
propone una conferenza arabo-ebraica-britannica per risolvere la questione palestinese
1946: dopo la fine della seconda guerra mondiale, la Commissione d’Inchiesta
Anglo-Americana decide l’emigrazione in Palestina di 150000 ebrei
8
1948: a maggio scade il mandato britannico e viene proclamata la nascita dello Stato di
Israele. L’Alto Comitato Arabo rifiuta la spartizione e non riconosce il nuovo Stato
1956: Crisi di Suez: l’Egitto si oppone all’occupazione militare del canale da parte di
Francia, Inghilterra e Israele
1959: Arafat crea il gruppo Al-Fatah, che propone la lotta armata per la liberazione
della Palestina
1964: Viene fondato l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina)
1967: Guerra dei Sei Giorni che vede Israele combattere contro Egitto, Giordania e
Siria. Israele conquista l’intero territorio dell’ex Palestina mandataria
1973: Guerra del Kippur nella quale si scontrano Israele e un’alleanza di Egitto e Siria.
Vince Israele, ma non in maniera netta come nel 1967. La fine dello scontro fu imposta
dalle Nazioni Unite
1987: scoppia l’Intifada nella Striscia di Gaza, da cui si diffonde anche in Cisgiordania
1993:vengono siglati gli accordi di Oslo
2000: scoppia la Seconda Intifada
2006: Hamas vince le elezioni parlamentari
27 dicembre 2008: inizia l’Operazione Piombo Fuso
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L’occupazione egiziana e la rivolta del 1834
Il primo scontro in età contemporanea che segnò profondamente la Palestina fu la rivolta del
1834. Questa fu causata dai cambiamenti portati dall’impero egiziano nel territorio palestinese
durante l’occupazione (1831-1840).
Nel 1831 infatti gli ottomani persero il controllo sulla Palestina a favore del governatore
dell’Egitto Muhammad Alì, che lasciò al figlio Ibrahim Pasha l’incarico di gestire le nuove
terre conquistate. Pasha modificò radicalmente la società contadina che si trovò a governare, e
non necessariamente in negativo: rese infatti il territorio più sicuro di modo da permettere a
pellegrini e commercianti di viaggiare liberamente per la Palestina. A queste novità positive
–che non saranno modificate neppure al ritorno degli ottomani- se ne aggiunse tuttavia una
che fece ribellare soprattutto la maggioranza musulmana della popolazione: la leva
obbligatoria.
Nel 1834 così si unirono i beduini dispersi, gli sceicchi rurali, i notabili urbani, i fellahin e
perfino le autorità religiose di Gerusalemme, contro un nemico comune.
La rivolta portò quindi all’alleanza e unione di questi gruppi, che avrebbero formato il futuro
popolo palestinese. Gli scontri si conclusero con la netta sconfitta dei ribelli, che dovettero
subire il disarmo; ciò fu sentita come una punizione molto crudele, poiché “per i musulmani il
fucile era divenuto parte della loro identità, un simbolo di onore e libertà”.3
Nel 1840 ritornarono gli ottomani, ma lasciarono inalterate le riforme fatte dagli egiziani:
cominciò così una presenza europea in Palestina, e l’agricoltura si aprì al mercato mondiale.
Per quanto riguarda gli ebrei, essi trassero forza dalle nuove riforme e cominciarono ad
acquisire nuovi diritti. Iniziò dunque una fase di maggior sicurezza per loro.
Ancora scarsi erano i contatti tra fellahin e ebrei, tuttavia anche quelle poche terre acquistate
dagli ebrei influirono sui futuri rapporti con gli arabi. Collaboravano, ma già allora i rapporti
erano aspri.
3
B. Kimmerling, I palestinesi: la genesi di un popolo, editore La Nuova Italia, 1993. Pag. 11.
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Il nuovo secolo e l’arrivo degli inglesi
All’inizio del ventesimo secolo la società palestinese si trovò così scissa in due sfere distinte,
una situazione che si trovarono a dover gestire gli inglesi durante il loro mandato in Palestina
(1920-1948). Essi adottarono un atteggiamento conservatore, cercando sostegno dalle
famiglie più ricche ed influenti di Gerusalemme. Gli obiettivi che cercarono di perseguire
furono tre: 1)interferire il meno possibile lasciando le leggi ottomane, rispettando usi e
tradizioni locali; 2)aumentare la pressione fiscale; 3)tentare di migliorare le condizioni di vita
degli abitanti dei villaggi, in grande degrado.
Per gli ebrei -ancora molto pochi- gli inglesi furono un grande aiuto: ai loro occhi, l’arrivo
degli inglesi aveva legittimato l’idea di una nazione ebraica in Palestina. Durante il loro
mandato il movimento sionista nacque e divenne sempre più importante. Maturava obiettivi
sempre più ambiziosi, come la possibilità di far arrivare in Palestina dai 4 ai 5 milioni di ebrei.
Influenzarono anche l’economia, relegando i fellahin ad un ruolo economicamente sempre più
marginale rispetto alla parte più privilegiata del Paese. Naturalmente ciò non lasciò gli arabi
indifferenti, bensì molto preoccupati per ciò che cominciava ad apparire come una vera
minaccia: il potere sempre maggiore nelle mani degli ebrei.
Economicamente, la prima metà del ventesimo secolo fu caratterizzata da un certo dinamismo
e, in particolare, dall’ascesa delle città costiere: Jaffa ed Haifa diventarono due città prospere,
seconde a Gerusalemme solo per politica e religione. Insieme includevano il 10% della
popolazione araba della Palestina, comunque ancora prevalentemente incentrata sul villaggio.
Questo, tuttavia, era destinato a cambiare, seppur lentamente: dal 1880 al 1918, infatti, la
popolazione delle 6 principali città palestinesi ebbe un incremento del 3% annuo.
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Moltissimi furono gli europei che si trasferirono o venivano regolarmente a Jaffa ed Haifa:
militari, commercianti, pellegrini, ecclesiastici che si trovavano davanti a una società araba
cambiata, con sindacati, banche, associazioni femminili, farmacie, cliniche, ristoranti, negozi.
Una tale crescita economica portò, nel mondo ebraico, alla nascita dell’Histadrut 5 : la
4
5
Ibidem.
Fondata nel 1920 ad Haifa e attiva ancora oggi, l’Histadrut protesse sempre gli interessi dei lavoratori e, dalla
creazione dello Stato di Israele nel 1948, collaborò con le istituzioni nazionali, diventando uno tra gli
organismi più importanti di Israele.
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confederazione generale dei lavoratori ebrei della Palestina. Un’associazione esclusiva, che
tuttavia promuoveva “l’emancipazione dei lavoratori arabi dall’asservimento ai loro
oppressori e sfruttatori: i proprietari terrieri e i possidenti”6.
Malgrado ufficialmente queste fossero le intenzioni, le conseguenze furono diverse:
lentamente i lavori più umili vennero affidati agli arabi mentre quelli più lucrosi agli ebrei,
facendo sorgere nell’animo arabo la nostalgia per il villaggio.
Nacquero anche delle associazioni arabe, sebbene meno numerose di quelle ebraiche e
sioniste, che cercarono di rivolgersi a tutti gli arabi palestinesi, unendoli in un unico gruppo
sociale. Una delle istituzioni più importanti fu la rete delle Associazioni islamico-cristiane,
utili per smussare le ostilità tra cristiani e musulmani e per trascinare membri di famiglie sia
cristiane sia musulmane nella lotta contro il sionismo. I loro principi fondamentali erano
infatti l’antisionismo e l’unità nazionale palestinese -nel senso della Palestina come patria
comune.
Attraverso la stampa, ma soprattutto attraverso la poesia, si sviluppò un senso di identità
palestinese, di cui l’antisionismo era un elemento caratterizzante. L’intellighenzia palestinese
reagiva quindi con la scrittura –che poi spesso si trasformava in impegno politico- al senso di
frustrazione dato dalla presenza inglese e dall’ascesa degli ebrei. “Non stupisce, dunque, che
questa intensa dedizione alla causa palestinese abbia prodotto uno stato d’animo culturale
diffuso di angoscia e disgusto, di risentimento, resistenza, ribellione e morte”.7
6
7
B. Kimmerling, Op. Cit., pag. 51. David Ben-Gurion (1886-1973) fu il primo a ottenere l’incarico di Primo
Ministro di Israele, nel 1948. Ricoprì questo ruolo per tredici anni, dal 1949 al 1953 e dal 1955 al 1963.
Ibidem. Le parole sono di Tarif Khalidi, storico e islamista palestinese contemporaneo. Nato a Gerusalemme,
la sua fu una delle famiglie costrette all’esilio dalla Nakba, ovvero la nascita di Israele. Attualmente insegna
all’Università Americana di Beirut, in Libano.
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La città di Gerusalemme
E’ sicuramente doveroso spendere qualche parola sulla città più importante della Palestina. Si
tratta di un luogo molto caro sia ai cristiani che agli ebrei che ai musulmani, un elemento
cruciale per tutte e 3 le fedi8. A partire dalla metà dell’ ‘800 si risvegliò assieme al resto del
territorio palestinese, la popolazione aumentò e la superficie si estese di quasi sei volte nel
periodo antecedente la prima guerra mondiale.
A partire dall’occupazione egiziana, ci fu un costante aumento demografico degli ebrei, che
già nel 1870 costituivano quasi la metà degli abitanti di Gerusalemme e alla vigilia della
grande guerra ne costituivano i 2/39.
Come abbiamo visto, i centri economici della Palestina divennero Jaffa ed Haifa;
Gerusalemme tuttavia mantenne il potere religioso e politico, concentrato nelle mani degli
arabi. Gli ayan di Gerusalemme riuscirono infatti a tenere il controllo malgrado il calo della
popolazione musulmana nella città. Ciò durò finché la Palestina si trovava nell’Impero
Ottomano: con l’inizio del mandato britannico le cose erano destinate a cambiare.
Con l’arrivo degli inglesi nel 1919, si gettarono infatti le basi per un massiccio insediamento
ebraico nel paese: inizialmente i palestinesi credevano che, con la distruzione dell’Impero
Ottomano, sarebbe stata concessa loro l’indipendenza, ma poi si resero conto che così non
sarebbe stato. Gli ebrei erano felici di governare insieme alle autorità britanniche, sicuri che
queste avrebbero acconsentito a tutte le loro richieste: reclamarono l’uso dell’ebraico come
lingua ufficiale al posto di quella araba, una rappresentanza nei consigli municipali, la
creazione di una maggioranza ebraica in Palestina. Non tutti i loro desideri furono esauditi,
ma è innegabile che il governo mandatario abbia acceso le loro speranze in un futuro Stato
ebraico in Palestina.
Nella Dichiarazione di Balfour del 191710, si auspicava la nascita in Palestina di un’ “agenzia
8
Gerusalemme è “Città Santa” per le tre maggiori religioni monoteiste del mondo: per gli ebrei si tratta di un
luogo santo poiché vi si trova il Muro del Pianto, residuo del vecchio tempio di Gerusalemme distrutto dai
romani; per i cristiani è il luogo del processo e della crocifissione di Gesù Cristo; per i musulmani, infine, è il
luogo da dove, secondo il Corano, il profeta Maometto è salito in cielo.
9
Kimmerling, Op. Cit., pag.71.
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Documento inglese che stabilisce la spartizione dell’Impero Ottomano dopo la Grande Guerra.
13
ebraica” che collaborasse a governare e potesse acquistare terre. Nell’Impero i proprietari
terrieri finora erano sempre stati
musulmani, simili ai feudatari europei nel periodo
medievale. Essi lasciavano quindi che la loro terra fosse lavorata dai contadini che, pur non
possedendola, potevano ugualmente godere dei suoi frutti pagando il fio al proprietario.
Quando l’agenzia ebraica iniziò ad acquistare queste terre, la gente che vi viveva se ne doveva
andare.
In un’atmosfera del genere, le ostilità tra palestinesi e ebrei non fecero che acuirsi: il
nazionalismo arabo venne esacerbato e la Gran Bretagna considerata come un’avanguardia
del sionismo. Gli arabi palestinesi escogitarono un piano di obiettivi che si articolava in 6
punti:
1. Un primo riconoscimento pubblico della Palestina come entità politica distinta;
2. Rifiuto di qualsiasi diritto morale o politico degli ebrei sulla Palestina;
3. Unità tra gli arabi palestinesi andando al di là di clan, religione o regione;
4. Impedire il trasferimento agli ebrei di terre appartenenti agli arabi o allo Stato;
5. Fermare ogni ulteriore immigrazione ebraica in Palestina;
6. Riconoscimento del Comitato Esecutivo Arabo come organo rappresentante la
popolazione davanti alle autorità britanniche.
Come si può vedere, c’era l’idea di un’unità palestinese; tuttavia, questa era costantemente
minacciata da una serie di conflitti e ostilità interni agli arabi palestinesi. Non erano uniti
come popolo e, sebbene si trovassero a dover fronteggiare un nemico comune, si percepivano
comunque come estremamente diversi tra di loro.
La rivolta del 1936
Fu la prima vera dimostrazione di uno spirito di nazione. La scintilla che fece scoppiare la
ribellione fu l’uccisione di 2 ebrei il 15 aprile del 1936; non si seppe mai se si trattò di un
semplice atto criminale o se ci fosse un secondo fine politico, in ogni caso la reazione ebraica
non tardò ad arrivare. Gli omicidi si moltiplicarono fino a scatenare una sollevazione araba,
che coinvolse migliaia di arabi di estrazione sociale differente. I sionisti intanto cominciarono
14
a organizzare un loro esercito.
Si scontrarono due fronti quindi; eppure, ancora una volta gli arabi non erano uniti. C’era
infatti una diversità sostanziale tra la classe dirigente e i contadini; conseguentemente, i
partecipanti alla rivolta ne approfittarono per accanirsi non solo contro gli ebrei, ma anche
contro i ceti palestinesi più agiati.
Malgrado le diatribe interne, a causa di questa rivolta gli inglesi dovettero per la prima volta
ascoltare le richieste dei palestinesi.
Gli arabi palestinesi avevano da tempo accumulato tensioni non solo contro gli ebrei, ma
anche contro gli stessi inglesi, che ai loro occhi privilegiavano troppo la parte ebraica della
popolazione rispetto a loro. Volevano che cessasse il sostegno inglese al sionismo e che
finisse l’occupazione coloniale, in modo da poter finalmente creare uno Stato indipendente.
Ad aumentare le ostilità fu la decisione del governo mandatario di concedere ad alcuni
villaggi ebraici più isolati, negli anni ’30, la possibilità di tenere dei fucili.
Nel frattempo l’immigrazione degli ebrei continuava e, nell’immaginario collettivo, la figura
del contadino arabo cacciato da quella che fino a poco prima era stata la sua terra divenne, per
molti, un simbolo di lotta.
Ciò favorì indubbiamente la nascita di una coscienza di popolo, aiutata paradossalmente dagli
stessi inglesi che introdussero un sistema scolastico, favorendo l’alfabetizzazione. La
possibilità di leggere e scrivere avvicinò molti alla stampa in lingua araba, fautrice del
nazionalismo.
Allo scoppio della rivolta il governo dichiarò subito lo stato di emergenza, seguito da uno
sciopero generale a cui molti capi arabi aderirono. A Gerusalemme fu creato un organismo
nazionale, l’Alto Comitato Arabo, incaricato di trattare con gli inglesi e continuare lo sciopero
quanto più possibile.
La rivolta era partita dunque bene, con il sostegno di molti arabi di ceti diversi. Ma il ricorso
spregiudicato alla violenza da parte dei ribelli mise in allarme i palestinesi più agiati, che
temevano che tale violenza si sarebbe rivoltata contro di loro e avrebbero preferito delle
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trattative diplomatiche con gli inglesi. Conseguentemente, costoro non poterono più
continuare a dirigere la rivolta: oltretutto, già nel 1937 la maggior parte della popolazione
urbana era stanca degli scontri. Ciò non significa però che questi fossero terminati: si erano
semplicemente spostati tra la popolazione rurale.
La rivolta nacque quindi nelle città per poi trasferirsi nelle campagne, dove i contadini erano
convinti che la gente di città si era lasciata ammorbidire dagli inglesi e dai sionisti.
Alla fine le autorità britanniche riuscirono a sfruttare i contrasti religiosi e le rivalità tra gli
stessi contadini e riuscirono a vincere lo scontro.
La reazione sionista successiva alla rivolta si snodò in due punti: da un lato crearono
un’economia ebraica autosufficiente, in modo da non aver bisogno di alcun aiuto degli arabi,
mentre dall’altro rafforzarono le forze armate clandestine. Quest’ultimo concetto si identificò
nell’ havlagah.11
Negli anni successivi alla rivolta, gli inglesi investirono molto in Palestina, aiutandola a
crescere economicamente: un fatto positivo, certo, ma che comportò un’ulteriore
disgregazione della società contadina. Le basi della civiltà araba palestinese venivano infatti
minacciate: la famiglia, il villaggio e il movimento nazionale.
I palestinesi si trovavano quindi sempre uniti di fronte alla minaccia sionista, ma sempre più
disorientati dalla società in trasformazione, sradicati dalle loro tradizioni e disorganizzati.
Oltretutto nel frattempo gli ebrei continuavano ad acquistare proprietà originariamente
appartenenti ad arabi, malgrado in teoria ci fossero delle restrizioni stabilite nel 1939
all’interno del Libro Bianco12.
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12
Havlagah, dall’ebraico “difesa”, era una politica ebraica che riguardava le azioni intraprese contro i gruppi
arabi che attaccavano i villaggi ebrei. Come si può intuire dal nome, essa consisteva nella mera autodifesa
armata dagli attacchi arabi, evitando però le rappresaglie sui civili arabi innocenti. Tale strategia fu attiva,
sebbene con discontinuità, durante il mandato britannico in Palestina.
Si tratterebbe in effetti del Terzo Libro Bianco (i primi 2 erano stati pubblicati nel 1922 e nel 1930). Fu
pubblicato dal segretario delle colonie McDonald in seguito alla rivolta del 1936 e serviva per placare i
tumulti da parte palestinese. A questo proposito, esso limitava la vendita di terreni agli ebrei e
l’immigrazione ebraica, affinché gli ebrei non fossero più di 1/3 della popolazione totale. Vi si esprimeva
inoltre il desiderio di creare uno Stato indipendente a maggioranza araba nel giro di una decina d’anni. Le
regole imposte dal Libro Bianco non furono sempre applicate con la dovuta alacrità, e la prima legge votata
dal neo-Stato di Israele nel 1948 riguarderà proprio l’abrogazione del Libro Bianco.
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La nascita dello Stato di Israele
Con la fine della seconda guerra mondiale e la scoperta degli orrori dell’olocausto, la
Palestina diventò oggetto di discussione tra le più grandi potenze mondiali. Il presidente degli
Stati Uniti d’America Truman, così come la Commissione d’Inchiesta anglo-americana fecero
pressioni sulle autorità inglesi in Palestina affinché accogliessero nel territorio 100000
profughi ebrei e togliessero le restrizioni del Libro Bianco –il solo che desse delle speranze ai
palestinesi, per quanto i suoi contenuti non fossero sempre osservati. La Gran Bretagna rifiutò,
ma ciò non bastò a rassicurare i palestinesi.
Intanto, gli Stati Arabi indipendenti vicini alla Palestina non restarono indifferenti alla
questione palestinese: le loro intromissioni tuttavia portarono alla nascita di ulteriori rivalità
tra gli arabi. Gli interessi di questi Stati infatti spesso entravano in collisione con le idee dei
capi palestinesi, che diventarono sempre più marginali. Ci fu una “neutralizzazione politica e
militare degli arabi palestinesi”13.
Le tensioni tra arabi, inglesi ed ebrei aumentarono e, quando raggiunsero l’apice nel 1947,
molti furono gli arabi che decisero di emigrare all’estero.
Così, tra dicembre 1947 e aprile 1948, a causa della seconda guerra mondiale e dell’esodo, la
popolazione araba in Palestina venne decimata.
Negli stessi anni, la Gran Bretagna agì anche su un piano diplomatico internazionale: pose
infatti il problema della Palestina a un Comitato Speciale delle Nazioni Unite, che stabilì una
spartizione del Paese tra palestinesi ed ebrei e l’indipendenza.
A questo punto gli inglesi erano ansiosi di lasciare la Palestina, per paura di compromettere i
rapporti con gli Stati Arabi vicini a causa di questa spartizione. Inoltre, erano ben consapevoli
dei tumulti che ne sarebbero derivati: basti pensare che nella configurazione dei due Stati
ideata dalle Nazioni Unite, all’interno del futuro territorio ebraico oltre il 40% della
popolazione era araba.
Come era facilmente immaginabile, una tale spartizione non fu riconosciuta dall’Alto
13
B. Kimmerling, Op. Cit., pag. 141.
17
Comitato Arabo, che spiegò che non avrebbe accettato l’autorità dell’ONU né la creazione di
uno Stato ebraico, considerato come aggressione. L’organizzazione mondiale sionista accettò
invece l’idea di una spartizione parziale, sebbene con alcune critiche verso il progetto ONU.
In un tale clima, ripartirono le violenze e i disordini, facendo sì che gli ebrei abbandonassero
l’idea dell’havlagah e rispondessero agli attacchi.
Durante questi scontri, gli ebrei si trovarono molto più organizzati dei palestinesi, anche sul
piano logistico –viveri, armi, munizioni, studio delle operazioni da eseguire. Oltretutto, i capi
palestinesi erano in rapporti di ostilità anche con la Lega Araba14, che si oppose all’idea della
creazione di un governo palestinese dopo il ritiro degli inglesi e spesso non riconobbe
l’autorità dell’Alto Comitato Arabo.
La comunità palestinese, già disunita, si disgregò ancora di più: come si è detto, molti tra i più
ricchi fuggirono all’estero; tanti altri invece, dopo la creazione dello Stato di Israele nel
maggio 1948, si ritirarono in città completamente arabe, come Nablus e Nazareth.
Gli ebrei vincitori dell’Haganah 15 attuarono il Piano Dalet 16 : “questo consisteva,
essenzialmente, nell’espulsione delle forze realmente o potenzialmente ostili al di fuori del
territorio assegnato agli ebrei, così da creare una continuità geografica fra i principali
insediamenti ebraici e garantire i confini del futuro Stato”17.
Volevano dunque espellere tutti i palestinesi? Una risposta è molto difficile da dare, poiché
nello stesso Piano Dalet si parla sia di espulsione sia di amministrazione autonoma in zone di
sicurezza. Sta di fatto che vi fu un esodo massiccio, e tra aprile ed agosto 1948 le autorità
14
15
16
17
Nel 1945 viene creata la Lega degli Stati Arabi, alla quale aderiscono inizialmente Egitto, Iraq, Giordania,
Libano, Arabia Saudita, Siria e Yemen. Successivamente si uniranno anche Libia, Sudan, Marocco, Tunisia,
Kuwait e Algeria. Tra questi il Paese leader dell’area islamica diventerà l’Egitto, sotto la guida di Nasser dal
1952.
Organizzazione paramilitare ebraica attiva dal 1920 al 1948. Haganah in ebraico significa “difesa”.
Il Piano Dalet, approvato nel marzo 1948, aveva lo scopo di rendere sicuri i confini e i territori del neo-stato,
garantendo anche la salvaguardia degli insediamenti ebraici più isolati. Era un piano di tipo difensivo, ma
non escludeva l’uso della forza pur di espellere gli elementi ostili: “Si possono effettuare queste operazioni
nella maniera seguente: distruggere i villaggi (dandogli fuoco, facendoli saltare in aria e minandone le
macerie) e specialmente quei centri popolati difficili da controllare con continuità; oppure attraverso
operazioni di rastrellamento e controllo, con le seguenti linee guida: circondare i villaggi e fare retate
all’interno. In caso di resistenza si devono eliminare le forze armate e la popolazione deve essere espulsa
fuori dai confini dello Stato”. La citazione del Piano Dalet è reperibile su http://baruda.net/tag/piano-dalet/ ed
è tratta da “La pulizia etnica della Palestina” di Ilan Pappe, Fazi Editore, 2008.
B. Kimmerling, Op. Cit., pag. 156.
18
ebraiche stabilirono l’impossibilità dei profughi palestinesi di tornare nei territori lasciati. Ciò
servì sia per rassicurare gli ebrei, che si erano nel frattempo impadroniti dei beni appartenuti
ai palestinesi emigrati, sia per fare spazio ai profughi ebrei in arrivo.
La diaspora
Ecco quindi in cosa consiste la Nakba, ovvero la catastrofe, per gran parte del popolo
palestinese: la fuga dalle loro terre, nel momento della nascita dello Stato di Israele, e la
consapevolezza di non potervi mai fare ritorno.
Per coloro che rimasero invece nel territorio israeliano, cominciò un sentimento di estraneità
nei confronti di coloro che avevano partecipato alla diaspora: non erano ovviamente ebrei, ma
erano comunque cittadini israeliani, il che li separava psicologicamente e socialmente dai loro
fratelli.
Gli ebrei, da parte loro, si sentivano non solo parte del neo-Stato, ma quasi padroni delle sue
istituzioni: esercito, inno, bandiera erano stati creati da loro. La loro principale
preoccupazione era di accogliere i nuovi ebrei in arrivo; conseguentemente gli arabi rimasti
nel territorio furono isolati sempre più.
Nel giro di qualche anno gli arabi erano passati da maggioranza a netta minoranza nel
territorio palestinese e la loro vita divenne sempre più difficile: gli israeliani venivano infatti
privilegiati in ogni ambito. Sul lavoro, ad esempio, si preferiva assumere israeliani laddove
possibile; gli arabi, inoltre, erano esclusi dal servizio militare, il che impediva loro di avere
accesso all’assistenza sociale; nel campo immobiliare, infine, spesso si trovavano discriminati
apertamente dai venditori.
In aggiunta a tutto ciò, non c’era più una classe dirigente nazionale che potesse guidarli;
questa verrà formandosi nel giro di vent’anni tra i rifugiati a Gaza, in Giordania e in Libano.
Il risentimento da parte araba crebbe : le azioni intraprese in questo periodo limitavano tutte le
libertà principali, confinando la popolazione araba sempre più ai margini. Basti pensare che
“agli arabi non era consentito di lasciare il proprio ghetto (praticamente tutti i villaggi arabi
19
erano considerati aree chiuse) senza il permesso delle autorità (ovvero del governatore
militare). […] tutte le zone di Lydda abitate da arabi, come la nostra, stavano sotto il comando
militare, mentre così non era per il resto della città abitata dagli ebrei. […] gli ebrei,
ovviamente, erano liberi di circolare ovunque tranne che nella nostra zona”18.
La conseguenza fu che la popolazione araba si disgregò ancora di più, senza la possibilità di
incontrarsi nemmeno tra villaggi vicini.
Malgrado tutte le restrizioni, vi fu un’iniziativa positiva che il governo intraprese: la
scolarizzazione. Questa ebbe dei risultati degni di nota, poiché insegnò a molti bambini
palestinesi non solo a leggere e a scrivere, ma anche la lingua ebraica oltre all’arabo. Nel
1955, il tasso di scolarizzazione era già il doppio rispetto a prima del 194819 . C’è da
sottolineare, comunque, che gli scolari arabi rimanevano a livelli più bassi rispetto ai loro
coetanei ebrei, e più aumentava il grado di istruzione più la differenza era evidente.
Le autorità israeliane speravano che la scolarizzazione avrebbe portato a una nuova identità
arabo-israeliana, diversa da quella dei palestinesi emigrati; il risultato, tuttavia, fu di grande
disorientamento e confusione degli allievi, che si trovavano davanti a due lingue e culture
molto diverse.
La coscienza nazionale palestinese resisteva nelle menti e nei cuori non dei palestinesi
israeliani, ma negli ex fellahin ed operai emigrati e residenti in campi profughi, lontano dalla
loro terra. Molti di loro si trovavano nel neo-Stato giordano20, dove inizialmente avevano
appoggiato il re Abdallah nella speranza che egli liberasse la Palestina in modo da consentir
loro di tornare nella terra natia. Così accettarono l’ordine politico e vi si integrarono anche: i
palestinesi più istruiti –quelli che provenivano dalle città- prevalevano in molti campi sui
giordani, che però restavano padroni dei ministeri e dell’esercito.
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19
20
La situazione degli arabi a Lydda è ben descritta dal giornalista palestinese Fouzi El-Asmar. Nato ad Haifa
quando questa era ancora Palestina, egli è stato uno dei più grandi fautori della lotta per la liberazione del
territorio palestinese. Attualmente insegna a Washington D.C. e possiede sia la cittadinanza statunitense sia
quella israeliana.
B. Kimmerling, Op. Cit., pag. 174.
Nato nel 1946.
20
Per gli arabi della Striscia di Gaza le condizioni di vita erano spesso peggiori. Il territorio
divenne infatti uno tra quelli a più alta densità abitativa. L’80% della popolazione si riversò
nelle città, poiché gran parte delle terre agricole erano andate perdute -conservò solo 1000 di
5000 acri destinati a piantagioni di agrumi, ad esempio.
La striscia diventò sempre più una grande riserva di profughi, chiusa, dove il ricordo della
Palestina pre-israeliana era ancora vivo, ma chi la ricordava era isolato dal resto della società
e aggrappato al passato poiché nel presente c’erano solo povertà e miseria.
I primi conflitti arabo-israeliani
A metà degli anni ’50, poco dopo la salita di Nasser21 al potere in Egitto, emerse anche la
figura di Arafat, che elaborò un programma per il suo popolo, i palestinesi.
Due personalità diverse, eppure entrambe significative per il destino palestinese: Nasser fu
infatti uno dei principali fautori del panarabismo22, ovvero la creazione di un solo Stato arabo
che unisse i territori dal Marocco alla Penisola araba, già uniti per lingua e religione. Ciò
riguardava naturalmente anche il territorio palestinese, ed è per questo che molti profughi gli
dettero fiducia, nella speranza di ritornare in patria.
Il primo scontro con Israele si verificò nel 1956, in occasione della nazionalizzazione del
canale di Suez. In realtà ad essere danneggiata dalla decisione era soprattutto la Compagnia
del Canale, prevalentemente francese. Francia ed Inghilterra approfittarono di quest’occasione
per dichiarare guerra all’Egitto: la Francia, oltre a difendere i propri interessi economici,
voleva impartire una lezione al governo egiziano che stava offrendo sostegno ad alcuni
movimenti indipendentisti nel Maghreb –dove vi erano ancora molte colonie francesi;
l’Inghilterra, invece, sperava di riprendere il controllo sul canale di Suez, perso nel 1952.
21
22
Gamal Abd el-Nasser è stato un militare e politico egiziano, salito al potere nel 1952 e creatore di una
dittatura militare. Fin da subito Nasser mostrò il desiderio di creare un’unica entità politica araba. Ciò
naturalmente lo pose in ostilità con Israele, chiaramente un intruso all’interno di quell’area destinata ad
essere araba, e con le potenze europee di Francia e Gran Bretagna.
Il panarabismo fu l’ideologia alla base della nascita della Lega Araba (1945) e su cui si fondava la RAU
(Repubblica Araba Unita nata nel 1958) che, su volontà di Nasser, univa Egitto e Siria. Il progetto fallirà nel
1961, quando la Siria si staccherà poiché non concordava con la linea politica egiziana.
21
Il ruolo di Israele in tutto ciò stava nella decisione di Nasser di chiudere il canale alle navi
israeliane; così Israele si unì a Francia ed Inghilterra, e riuscì ad occupare gran parte della
penisola del Sinai. Malgrado il successo militare da parte delle forze anglo-franco-israeliane,
lo scontro terminò col ritiro delle forze israeliane dal Sinai e di quelle franco-britanniche da
Suez, in seguito a minacce di guerra da parte dell’URSS e di condanna dell’operazione da
parte degli USA.
Israele dimostrò di essere forte militarmente e in grado di difendere il suo territorio, il che lo
rese ancora più minaccioso agli occhi del mondo arabo. Per quest’ultimo, il neo-stato era un
estraneo, ed erano in molti a vederlo come un avamposto dell’Occidente, il quale cercava così
di insinuarsi nel mondo arabo.
Di conseguenza, le ostilità continuarono, sfociando nella Guerra dei Sei Giorni nel 1967.
La scelta egiziana di chiudere il Golfo di Aqaba alle navi israeliane nel giugno 1967 è
l’episodio scatenante della guerra: Israele attacca di sorpresa Egitto, Giordania e Siria e in sei
giorni riesce ad impadronirsi di tutta la Palestina, delle alture del Golan e del Sinai.
E’ una terribile sconfitta per tutto il mondo arabo: segna la fine del progetto panarabico. Le
aspettative dei palestinesi furono definitivamente disattese.
Arafat, Al Fatah e l’OLP
Il secondo personaggio emerso negli anni ‘50, Arafat, fu il creatore dell’organizzazione
politica e paramilitare Al Fatah23, che cercava di trovare seguaci tra i profughi palestinesi.
Ebbe tuttavia più difficoltà di quante si possano immaginare, poiché il suo obiettivo era
esclusivamente la Palestina e non il progetto panarabico di Nasser. C’era dunque una
divergenza di interessi tra i due: per Nasser infatti la questione palestinese divenne sempre più
marginale rispetto al sogno di un’unità araba.
23
Nata nel 1959.
22
Al-Fatah divenne, negli anni ’60, la guida del popolo palestinese. Ciò avvenne grazie a una
contingenza di eventi internazionali favorevoli, come il fallimento della tentata unità tra
Egitto e Siria nel 1961 e la sconfitta di tutto il mondo arabo ad opera di Israele nella guerra
del 1967.
Al-Fatah si trasformò così in un’organizzazione internazionalmente riconosciuta, riportando il
centro dell’attenzione sui palestinesi. Arafat diede al movimento una connotazione di lotta:
intraprese infatti la via della lotta armata contro Israele. Non era però facile per il Comitato
centrale di Al-Fatah mobilitare la popolazione, per la maggioranza ancora estranea al
movimento.
Al-Fatah non riuscì infatti a mobilitare le masse come avrebbe voluto.
Venne fondato intanto, nel 1964, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina): si
trattava di un’organizzazione creata dal primo vertice arabo che si riunì al Cairo, e rientrava
nei progetti di Nasser. Due anni più tardi, l’OLP creò l’Esercito di Liberazione della
Palestina.-
Come abbiamo visto, la disfatta araba del 1967 portò per Al-Fatah delle conseguenze positive,
mettendo fine al progetto nasseriano che aveva relegato a problema marginale la questione
palestinese: tutti i territori dell’ex Palestina mandataria facevano ora parte di uno stesso Stato,
Israele.
Ciò permise a Al-Fatah di farsi conoscere molto di più dalle masse e creare un’ampia rete di
servizi sociali; inoltre, l’OLP passò sotto il suo controllo.
Un altro risvolto positivo della guerra lo si vide nella qualità della vita degli arabi israeliani:
assunsero infatti un ruolo nell’economia, fondando imprese piccole e, talvolta, anche grandi.
Negli anni ’80 si sviluppò perfino un settore industriale arabo, che occupava circa il 6% della
forza lavoro complessiva. Vi fu un periodo di dinamismo economico dunque, che portò a una
crescente domanda di manodopera.
La prosperità economica non fu, comunque, senza difficoltà per gli arabi, i quali venivano
23
spesso discriminati.
L’OLP aveva 3 obiettivi prefissati: il diritto al ritorno dei profughi, il diritto
all’autodeterminazione e, naturalmente, il diritto a una nazione indipendente.
Ben presto quest’organizzazione diventò il simbolo di un movimento nazionale, dotato di
forza e autonomia e in grado quindi di ridare speranza ai palestinesi in una risoluzione non
violenta del problema. Eppure si trovava ancora distante dalla vita quotidiana dei palestinesi,
soprattutto dalle realtà dei villaggi e dei campi profughi; così erano numerose le
organizzazioni di gruppi armati che agivano per conto loro e spesso in antagonismo le une con
le altre.
Un altro problema tutt’altro che secondario che l’OLP si trovava a gestire era che doveva
perseguire gli interessi palestinesi senza farsi condizionare dai Paesi vicini. Ciò significava
avere completa autonomia decisionale, cosa che però preoccupava molto il mondo arabo.
Malgrado le difficoltà, il presidente dell’OLP Arafat divenne assolutamente paragonabile a
qualunque altro capo di Stato in termini di potere. “Il suo non era più un umile movimento
rivoluzionario, ma una possente entità parastatale, con una burocrazia in espansione che
amministrava gli affari dei palestinesi ovunque si trovassero e con un bilancio più grande di
quello di molti piccoli Stati sovrani”24.
Negli anni ’70 fu creato il Fronte Nazionale Palestinese25 allo scopo di coordinare le attività
dei vari territori; più che l’OLP esso rappresentava i cisgiordani e la gente della Striscia di
Gaza. Agiva infatti con molta autonomia, pur riconoscendo l’OLP, cercando di diminuire la
24
25
Come ben spiega Rashid Khalidi, autore di queste parole. Khalidi è uno storico americano del Medio-Oriente,
professore alla Columbia University di New York e direttore del Middle-East Institute alla Columbia’s School
of International and Public Affairs. Tuttavia, secondo Kimmerling, quando Khalidi sostiene che l’OLP era in
grado di “amministrare gli affari dei palestinesi ovunque si trovassero” esagera; vi era in effetti una fetta
consistente della popolazione palestinese dalla quale l’OLP non era riuscito a farsi conoscere.
I palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza erano coloro che crearono un’identità nuova, una
sottocultura dopo la fuga: non semplici palestinesi, ma cisgiordani o gente di Gaza. Solo dopo la guerra del
1967 e l’unificazione della Palestina queste due sottoculture si incontrarono. Nei primi anni ’70 si delineò
quindi una strategia per favorire la nascita di organizzazioni sindacali e sociali di vario tipo in Cisgiordania e a
Gaza, più che insistere esclusivamente sull’insurrezione armata. Per questo nacque il Fronte Nazionale
Palestinese col quale l’OLP ebbe sempre rapporti complessi: ufficialmente esso era nato per volontà
dell’undicesimo Consiglio Nazionale Palestinese nel 1973, ma in realtà gli artefici erano dei dirigenti
comunisti cisgiordani. La dirigenza del Fronte quindi finì soprattutto in mano al Partito Comunista.
24
dipendenza economica della Cisgiordania da Israele.
Il Fronte divenne sempre più popolare, e l’OLP temette di non essere in grado di gestirlo,
anche perché si trovava fisicamente distante dalla Cisgiordania. Ciononostante,
non c’era
molto che potesse fare: dovette lasciare al Fronte ampia autogestione e autonomia sulle scelte
locali –non sulle politiche generali però.
Il fatto che l’OLP spesso non si trovasse in armonia con le organizzazioni locali era
comprensibile: lavoravano per obiettivi diversi. Se l’OLP cercava di costruire uno Stato
palestinese, localmente si lavorava per creare una società civile che rendesse la popolazione
più omogenea.
Dal punto di vista di Israele, i nuovi territori acquisiti dal 1967 rappresentavano nuovi mercati
per i loro prodotti e
manodopera a basso costo, perciò cominciarono a vedere i lati positivi
della convivenza con i palestinesi, che sempre più spesso lavoravano per imprese ebraiche.
La Guerra del Kippur e gli anni ‘80
La Guerra dei Sei Giorni, per quanto vittoria schiacciante israeliana, non segnò la fine della
tensione tra Israele e i Paesi vicini. L’ennesima occasione di attacco la si ebbe nel 1973,
mentre in Israele si celebrava la festa di Yom Kippur26. Egitto e Siria attaccarono insieme su
due fronti, il Sinai e il Golan. Israele riuscì a difendersi e bloccare l’avanzata del nemico. La
guerra durò solo poche settimane; alla fine, Israele mantenne le alture del Golan e la Striscia
di Gaza, ma accettò di restituire il Sinai all’Egitto.
Alla fine degli anni ’70 cominciarono a intravedersi delle prospettive di pace, ma si trattò solo
di un’illusione. La pace firmata tra Egitto e Israele nel 1979 lasciava infatti estremamente
scontenti sia la Lega Araba, che espulse l’Egitto, sia gli islamici più radicali egiziani che
vedevano da parte di Sadat, successore di Nasser, un completo tradimento. Così nel 1981
26
La festività ebraica dello Yom Kippur è una tra le più importanti dell’anno e celebra l’espiazione dei peccati.
A tale scopo in questo giorno è proibito mangiare, bere, lavarsi, truccarsi ed avere rapporti sessuali.
25
Sadat fu assassinato.
Nel frattempo in Libano scoppiava, nel 1975, una sanguinosa guerra civile che riguardava
direttamente i profughi palestinesi, presenti a centinaia di migliaia nel territorio libanese.
Comunque, nemmeno i palestinesi residenti nel territorio di Israele stavano vivendo un
periodo di pace. È vero che la situazione economica israeliana era sufficientemente stabile da
garantire un certo benessere ed erano molti a lavorare per imprese ebraiche, tuttavia il
governo israeliano aveva avviato un processo che avrebbe concorso alla ribellione palestinese:
la colonizzazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.
L’Intifada del 1987
Al Fatah aveva tra i suoi obiettivi, si è visto, la lotta armata per mobilitare le masse di Gaza e
Cisgiordania: ebbene, infine esplose una rivolta in questi territori, anche se non come
insurrezione armata. Fu invece una resistenza a oltranza chiamata Intifada, e iniziò nel
dicembre 1987.
Il motivo della nascita di questa rivolta fu che ci si rese conto che, per quanto dal punto di
vista economico l’occupazione israeliana avesse portato anche dei vantaggi, questa non
sarebbe stata affatto temporanea. I palestinesi si sentivano minacciati non solo
dall’occupazione militare, ma anche dal crescente numero di ebrei, che colonizzavano
Cisgiordania e Striscia di Gaza, e dalle nuove forze economiche interamente gestite da Israele.
Inoltre, il vivere nello stesso Stato li aveva resi più coesi socialmente e più solidali gli uni con
gli altri: si erano sviluppati gruppi studenteschi, organizzazioni sindacali e perfino
associazioni femminili.
Come se non bastasse, verso la fine degli anni ’70 anche le certezze economiche vacillarono:
l’economia israeliana, che fino al 1973 aveva garantito un relativo benessere generale, entrò
in un periodo di recessione. I salari reali diminuirono sempre di più, creando un malcontento
26
economico che si aggiungeva a quello politico e sociale già diffuso tra i palestinesi.
La goccia che fece traboccare il vaso fu un camion israeliano che l’8 dicembre 1987 si scontrò
con 2 furgoni che trasportavano operai di Gaza al campo profughi di Jabalya, uccidendone 4
sul colpo. Si vociferò che non si era trattato di un incidente, bensì di un atto voluto. Si diffuse
così un volantino di denuncia. Nei mesi successivi gli “incidenti” aumentarono a dismisura;
nacque l’Intifada, ovvero il “Risveglio”. La resistenza non era più solo passiva ma attiva.
Molti volantini si diffusero, portando la firma del Comando Nazionale Unificato della Rivolta
nei Territori Occupati e, successivamente, dell’OLP. Inizialmente questo comando era formato
da rappresentanti di Al-Fatah, del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, del Fronte
Democratico di Liberazione della Palestina e del Partito Comunista Palestinese.
I volantini esortavano a boicottare i prodotti israeliani, a evitare rapporti con la loro
amministrazione civile, alle dimissioni di massa di poliziotti ed esattori palestinesi e a
rifiutarsi di pagare le tasse.
Malgrado l’inizio prorompente, già dopo i primi sei mesi l’Intifada aveva perso parte della sua
spontaneità, anche perché il Comando fu decimato e l’OLP lo controllava sempre di più.
All’inizio degli anni ‘90 l’OLP dovette cessare gli atti terroristici e riconoscere il diritto
all’esistenza di Israele, premessa per poter trattare diplomaticamente con gli Stati Uniti
d’America al fine di creare uno Stato Palestinese.
Gli accordi di Oslo e la Seconda Intifada
La questione palestinese era ormai conosciuta a livello mondiale e il presidente degli Stati
Uniti, Bush sr.27, voleva tentare di risolvere la situazione aprendo trattative diplomatiche tra
israeliani, palestinesi e Paesi arabi vicini. Da parte israeliana questo progetto era aiutato dalla
27
George H.W. Bush è stato il presidente degli Stati Uniti dal 1989 al 1993. È un esponente del Partito
Repubblicano.
27
vittoria alle elezioni del laburista Itzhak Rabin28, che prese una decisione molto importante:
bloccò la costruzione di nuovi insediamenti israeliani nei territori di Gaza e Cisgiordania.
Nel 1993,dopo alcuni incontri tra Rabin e Arafat, i due firmarono ad Oslo un accordo che
segnalava delle aree, in Cisgiordania e a Gaza, che sarebbero dovute passare sotto il controllo
dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP): era una premessa per la costruzione di uno Stato
palestinese.
Apparentemente dunque si era raggiunto un compromesso, ma a risvegliare ancora una volta
dal sogno della pace fu l’assassinio di Rabin da parte di un estremista israeliano nel 1995.
Così il processo di pace si fermò: i coloni israeliani non abbandonarono le terre occupate,
l’esercito non indietreggiò.
La rabbia e la frustrazione dei palestinesi crebbero, sfociando nella Seconda Intifada. Essa
scoppiò a Gerusalemme nel settembre del 2000. Il casus belli fu la visita di Sharon29, allora
capo del Likud30, alla Spianata delle Moschee, luogo sacro sia per ebrei che per musulmani.
L’atto di Sharon fu considerato dai palestinesi una provocazione, come se volesse rivendicare
l’autorità israeliana su un luogo sacro anche a loro. Così ripartì la rivolta, che causò la morte
di 4626 palestinesi e 1050 israeliani.31
Non è facile definire un termine della Seconda Intifada –anche se sicuramente non prima del
2004, ad ogni modo già nel 2002 il problema catturò l’attenzione delle più grandi potenze
mondiali, che avviarono il progetto “Road Map for Peace”32: esso consisteva nel ritiro dei
coloni israeliani e dell’esercito da Gaza e dalla Cisgiordania, affidate all’ANP, a patto che
cessassero gli atti di terrorismo compiuti da gruppi estremisti islamici come Hamas33.
28
Itzhak Rabin ha ricoperto il ruolo di Primo Ministro di Israele dal 1974 al 1977 e dal 1992 al 1995. Ha
ricevuto il Premio Nobel per la Pace nel 1994, insieme a Yasser Arafat e Shimon Peres.
29
Ariel Sharon, politico e generale israeliano, è stato Primo Ministro dal 2001 al 2006.
30
Likud è un partito nazionalista liberale che nasce dal movimento sionista riformista. Dopo il ritiro da Gaza
voluto da Sharon nel 2005, esso si divise: una parte formò il Kadima, un’altra restò sotto il nome di Likud.
Attualmente questo partito sostiene la soluzione a due Stati per risolvere la questione palestinese.
31
Fonte http://it.peacereporter.net/conflitti/paese/4571. I dati si riferiscono all’arco di tempo incluso tra lo
scoppio della Seconda
Intifada, nel settembre 2000, al giugno 2007.
32
Il progetto fu sostenuto da Usa, Europa, Russia e le Nazioni Unite.
33
Hamas è un’organizzazione paramilitare e politica fondata nel 1987, a seguito dell’Intifada. Propone un
28
L’idea sembrava poter funzionare, ma due eventi hanno complicato ulteriormente la
situazione: da un lato, nel novembre 2004 morì Arafat, presidente dell’OLP e dell’ANP e
favorevole al progetto “Road Map for Peace”; dall’altro, Hamas –del quale si parlerà meglio a
breve- riscosse sempre più consensi nella parte di popolazione che aveva ormai perso le
speranze in un accordo con Israele, fino alla vittoria delle elezioni parlamentari nel 2006.
Ciò provocò una reazione di Israele, che capì di non potersi fidare di un popolo che dava il
voto a un’organizzazione estremista: sospese così il progetto “Road Map for Peace” e,
sentendosi sempre più minacciato dagli attacchi missilistici di Hamas –per quanto sporadiciintraprese l’Operazione Piombo Fuso nel dicembre 2008.
Hamas
Negli ultimi decenni un altro protagonista si è imposto sempre più nel futuro di tutto il
Medio-Oriente: l’Islam. A Gaza in particolar modo, il principale gruppo islamico chiamato
Hamas si è sempre contrapposto alle visione e alle soluzioni proposte dall’OLP.
Hamas puntava infatti alla costruzione di uno Stato islamico in Palestina, non laico e
multiconfessionale. Non intendeva inoltre riconoscere lo Stato d’Israele.
Dietro Hamas c’era la figura dello sceicco Ahmad Ismail Yasin di Gaza.
Malgrado la diversità d’idee, Arafat e Yasin condividevano l’astio contro gli ebrei e l’idea che
loro fossero il principale nemico del popolo palestinese, perciò gli scontri fra di loro furono
abbastanza contenuti.
Durante l’Intifada, Hamas ignorò i volantini che venivano diffusi dal Comando e si basò
invece su direttive e decisioni proprie.
Col passare degli anni, Hamas si staccò sempre di più dai metodi diplomatici perseguiti
dall’OLP: quando, ad esempio, quest’ultimo partecipò ai negoziati di pace di Madrid, nel
nazionalismo palestinese basato sull’ideologia islamica e un forte antisionismo. Vorrebbe infatti rimpiazzare
l’attuale Stato di Israele con uno Stato Islamico Palestinese. E’ diventato molto popolare grazie al suo
programma di aiuti sociali alla popolazione (ospedali, scuole, biblioteche e molti altri servizi). Di Hamas si
discuterà in maniera approfondita più avanti.
29
1991, il pensiero di Hamas fu il seguente: “Queste conferenze non sono altro che decisioni
arbitrarie degli infedeli sulla terra dei musulmani”34:
Ancora oggi le idee di Hamas sono contrapposte a quelle dell’OLP e di Al-Fatah, causando
ulteriore disunione nel popolo palestinese.
HAMAS E FATAH: DUE “WELTANSCHAUUNG”35 DIVERSE
Il poeta e filosofo romano Seneca nelle “Lettere a Lucilio”36
scriveva: Ignoranti quem
portum petat nullus suus ventus est, ovvero “Nessun vento è favorevole per il marinaio che
non sa dove andare”. E’ una situazione che i palestinesi si trovano a vivere ormai da diversi
decenni: il desiderio di indipendenza e di libertà è certamente diffuso, ma come riuscire a
raggiungere un tale obiettivo? La risposta non è la stessa per tutto il popolo palestinese, e
questo è senz’altro un ulteriore motivo di disunione.
Si è visto che Hamas, l’organizzazione politica e paramilitare islamica, sin dalla sua nascita
nel 1987 si è distanziata dalla politica dell’OLP. Laddove quest’ultimo cercava un dialogo con
Israele per trovare una soluzione diplomatica, Hamas ha sempre prediletto la via della lotta
armata, vedendo Israele come un estraneo in un territorio che dovrebbe invece appartenere al
popolo palestinese.
All’OLP è affiliata Al-Fatah ed entrambe, dopo la morte del loro leader storico Arafat nel
2004, sono passate sotto la gestione di Mahmoud Abbas, meglio noto come Abu Mazen37.
Abu Mazen si è dimostrato disponibile al compromesso con lo Stato israeliano in più
occasioni, favorendo quindi una soluzione due-Stati che garantisca la convivenza dei 2 popoli.
34
Kimmerling, Op. Cit., pag. 281.
Il termine “Weltanschauung” appartiene alla lingua tedesca e non ha una vera a propria traduzione in italiano.
E’ un concetto molto complesso ed esprime l’idea di una “visione del mondo”, un modo di concepire ciò che ci
circonda.
36
Le “Epistulae morales ad Lucilium” sono l’opera principale della tarda produzione di Seneca. Si tratta di 124
lettere divise in 20 libri.
37
Abu Mazen è president dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) dal 2005, quando ha preso il posto di
Arafat. E’ inoltre presidente dell’OLP dal 1996.
35
30
Una tale politica implica necessariamente alcuni sacrifici, come la consapevolezza che la
Palestina non tornerà mai più ad essere solo palestinese e che molti palestinesi che han dovuto
abbandonare le loro terre durante la Nakba non potranno mai più farvi ritorno. L’ultimo
concetto è il cosiddetto diritto al ritorno38
e, malgrado sia considerato uno dei concetti
fondamentali di un’eventuale indipendenza palestinese, l’OLP si è spesso dichiarato disposto
a scendere a compromessi e a discutere in maniera ragionevole anche su questo punto.
E’ evidente che, per la stessa natura delle due organizzazioni, tra Hamas e Fatah l’unica con la
quale il mondo occidentale e Israele accettano di trattare è la seconda. Tutte le volte che si
sono tentate delle trattative diplomatiche di pace –spesso sotto la supervisione di grandi
potenze mondiali come gli Stati Uniti d’America- queste avvenivano tra governo israeliano e
membri dell’OLP e di Fatah. Tuttavia, sarebbe decisamente sbagliato affermare che l’OLP
rappresenti la totalità dei palestinesi: esso, con sede principale a Ramallah, è vicino
soprattutto al popolo della Cisgiordania. Ma esiste anche un’altra realtà, dove l’OLP e Fatah
non riescono ad attirare a sé l’opinione pubblica: la striscia di Gaza, nella quale è invece
Hamas ad avere ormai il controllo.
Questa sottile zona costiera divenne territorio israeliano dopo la Guerra dei Sei Giorni nel
1967, quando fu sottratta all’Egitto. L’occupazione durò ufficialmente fino al 1994, anno in
cui, con gli Accordi di Oslo, si dichiarava la Striscia territorio palestinese e dunque da passare
nelle mani dell’ANP39 . In effetti fu però solo nell’agosto 2005 che Gaza venne davvero
evacuata dagli israeliani, i quali durante la ritirata distrussero case e fattorie da loro costruite
durante l’occupazione. Per le IDF, le Israeli Defense Forces, fu “un’umiliazione”40
dover
abbandonare quel territorio.
Ariel Sharon, allora capo del governo d’Israele, aveva infatti dichiarato che il ritiro da Gaza
sarebbe stato un contributo importante per mettere finalmente in atto la soluzione due-Stati
tanto attesa. Era già dal 2004, inoltre, che la Corte Internazionale di Giustizia, il più
38
Il diritto al ritorno sostenuto da molti palestinesi ritiene che le decine di migliaia di palestinesi cacciati nel
1948 e ora rifugiati possano ritornare nei loro luoghi d’origine e rivendicare le terre che a suo tempo gli furon
tolte. Naturalmente lo Stato di Israele vi si oppone fermamente: non è pensabile un ritorno così massiccio dei
palestinesi in territori oggi israeliani, perché ciò minerebbe la sicurezza interna di Israele.
39
L’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) è l’organo che si occupa del governo della Palestina. E’ stato creato
nel 1994, in seguito agli accordi di Oslo tra Israele e l’OLP.
40
A. Shlaim, “How Israel brought Gaza to the brink of humanitarian catastrophe”, in The Guardian, mercoledì 7
gennaio 2009.
31
importante corpo giuridico al mondo, aveva dichiarato che Israele non aveva diritti né sulla
Cisgiordania, né su Gaza, né su Gerusalemme Est araba: tutti questi erano Territori Occupati
Palestinesi41.
Gli israeliani non erano quindi legittimati a impadronirsi e colonizzare queste
terre, secondo la legge internazionale.
Ecco allora che gli avvenimenti del 2005 potrebbero sembrare davvero un passo avanti nelle
trattative di pace; eppure, solo l’anno successivo venne permesso ad altri 12000 colonizzatori
israeliani di insediarsi nella Cisgiordania42 . Ciò naturalmente si scontrava con la volontà di
creare uno Stato indipendente palestinese: come fare a unire Cisgiordania e Gaza, territori già
fisicamente distanti, se in più nella prima zona la colonizzazione si faceva più intensiva?
Non solo; Israele ha ritirato da Gaza i suoi abitanti e l’esercito, è vero, ma quest’ultimo
controlla ancora oggi tutti gli accessi alla Striscia via terra, mare ed aria. Gaza è diventata una
prigione a cielo aperto43 , dove gli israeliani hanno totale controllo sulle telecomunicazioni,
l’acqua, l’elettricità, le fognature, i registri della popolazione44.
Ne ha anche sempre di più l’aspetto: si tratta di una delle aree più densamente popolate al
mondo, ed anche meno sviluppate dal punto di vista economico. Non è un semplice
sottosviluppo, è proprio uno sviluppo volutamente mancato
45
. Durante gli anni
dell’occupazione, infatti, Israele ha cercato di impedire il più possibile lo sviluppo industriale,
in modo che la gente di Gaza continuasse ad essere economicamente dipendente da Israele.
Le conseguenze sono facilmente immaginabili: le condizioni di vita sono di estrema povertà.
L’80% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno46
e la malnutrizione è un
problema talmente diffuso da permettere al rapporto delle Nazioni Unite sul diritto al cibo di
classificare Gaza allo stesso livello delle nazioni più povere nel sud del Sahara47.
I tassi di
mortalità infantile e di persone affette da anemia sono molto elevati, creando una situazione di
crisi umanitaria. Lo studioso di Medio-Oriente Juan Cole, nota che “circa il 10% dei bambini
41
N. Finkelstein, “The Facts about Hamas and the War on Gaza”, in
http://www.counterpunch.org/2009/01/13/the-facts-about-hamas-and-the-war-on-gaza/, 13 gennaio 2009,
42
A. Shlaim,Op. Cit.
43
Ibidem
44
R.Goldstone, C.Chinkin, H.Jilani, D.Travers, United Nations Fact Finding Mission on the Gaza Conflict,
2009. Pag. 57.
45
N. Chomsky, “Impressions of Gaza”, in http://chomsky.info/articles/20121104.htm, 4 novembre 2012;
A.Shlaim, Op. Cit.
46
A.Shlaim, Op.cit.
47
J. Carter, “An unnecessary war”, in The Washington Post, 8 gennaio 2009.
32
palestinesi sotto i 5 anni a Gaza sono rachitici a causa della malnutrizione. In aggiunta,
l’anemia è molto diffusa, e colpisce più dei 2/3 dei neonati, il 58,6% dei bambini e più di 1/3
delle donne incinte”48.
In tali condizioni nel 2005 la Striscia di Gaza fu lasciata nelle mani di Al-Fatah; tuttavia, a
gennaio del 2006 furono indette delle elezioni parlamentari per il Consiglio Legislativo
dell’Autorità Palestinese. Queste furono vinte da Hamas, un gruppo che gli israeliani
conoscevano già e di cui temevano per ovvi motivi la salita al potere.
Così sia Stati Uniti che Israele incoraggiarono una guerra civile tra Fatah ed Hamas, che
terminò come si vedrà con la conquista da parte di Hamas della Striscia di Gaza. Ciò
naturalmente non ha segnato la fine delle ostilità tra le due fazioni: basti pensare che una parte
del Rapporto Goldstone49 sull’Operazione Piombo Fuso è dedicata alla violenza interna tra
membri di Fatah e membri di Hamas.
Sono molti i casi di prigionieri tenuti in ostaggio da una parte o dall’altra solo perché
appartenenti al gruppo rivale: l’arresto, la prigionia, la tortura e spesso l’assassinio erano e
sono ancora oggi all’ordine del giorno50.
48
N. Chomsky, Op. Cit.
Il Rapporto Goldstone è un’inchiesta dell’ONU che è stata preparata dal giudice sudafricano Richard J.
Goldstone in collaborazione con altri avvocati. Questo gruppo è stato creato nell’aprile del 2009 per investigare
sui crimini commessi durante l’Operazione Piombo Fuso da entrambe le parti.
50
D.Rose, “The Gaza Bombshell”, in Vanity Fair, aprile 2008. Qui è possibile leggere, ad esempio, la
testimonianza di uno studente dell’Università Islamica di Gaza e membro di Hamas detenuto e torturato per
undici mesi da Fatah.
49
33
OPERAZIONE PIOMBO FUSO
Fonte foto:
http://baruda.net/2010/10/12/palestina-storia-di-una-pulizia-etnica-1-un-po-di-citazioni-per-in
iziare-a-capire/
Come si può vedere dalla cartina qui sopra riportata, la situazione dal 1946 al 2000 è molto
cambiata. Si parte dalla Palestina prima della nascita dello Stato di Israele per arrivare alla
divisione del 2000, che è sostanzialmente simile a quella odierna. C’è stato dunque un
rovesciamento anche nella popolazione: se inizialmente gli abitanti della Palestina erano per
la maggior parte arabi, oggigiorno essi sono una minoranza rispetto agli ebrei. Questi ultimi
controllano praticamente la totalità del territorio, hanno continuato la colonizzazione nei
cosiddetti “Territori Occupati” e hanno numerosi posti di blocco ben distribuiti nello Stato per
sorvegliare ogni movimento sospetto da parte dei palestinesi.51
Naturalmente, si tratta di una condizione che non può non creare tensioni. Hamas,
51
Soprattutto dei cisgiordani, che hanno comunque una libertà di movimento maggiore rispetto ai loro fratelli di
Gaza. Uscire o entrare nella striscia è infatti molto arduo: Ilan Pappe parla in The London Review of Books:
Responses to Gaza del 29 gennaio 2009 di una “sua graduale trasformazione in un ghetto”.
34
l’organizzazione paramilitare palestinese insediata soprattutto a Gaza, dal 2000 ha iniziato a
lanciare verso il sud di Israele dei razzi, i Qassam52, che non hanno nessun obiettivo preciso al
di fuori di quello di creare il panico tra la popolazione e di far sentire il grido di protesta di chi
li fabbrica. Non è importante insomma dove il razzo colpisca, purché sia in Israele. Facile
immaginare quindi come agli occhi di quest’ultimo Hamas sia considerata un pericolo,
un’organizzazione terrorista da eliminare per la stessa sicurezza del Paese. Non è certo
possibile trattare con Hamas.
Eppure nel 2006 Hamas vince legalmente le elezioni parlamentari, venendo quindi votata da
molti palestinesi, soprattutto nella stessa Gaza. Inizialmente si pensa sia possibile un governo
di coalizione che includa sia Hamas sia Fatah, ma tale prospettiva non riscontra i favori né di
Israele né degli Stati Uniti. Chi la incoraggia è invece il re dell’Arabia Saudita Abdullah53, che
nei primi mesi del 2007 cerca per settimane di convincere Abbas, capo di Fatah e dell’OLP, a
incontrarsi con Hamas nella città de La Mecca e formare un governo di unità nazionale.54
Nel marzo 2007 tale idea sembra diventare realtà, ma il rifiuto assoluto da parte di Israele di
negoziare con Hamas rende fin da subito il nuovo governo debole.
Così Fatah si lascia convincere dagli Stati Uniti a provocare una guerra civile con l’obiettivo
di eliminare Hamas dal governo appena creato. Il risultato tuttavia è ben diverso: a metà del
2007, Hamas acquisisce il totale controllo su Gaza. A proposito di tale episodio, David
Wurmser, capo consigliere del Vice Presidente statunitense Dick Cheney55 sul Medio Oriente,
commenta: “mi sembra che ciò che è accaduto non sia stato tanto un colpo di Stato da parte di
Hamas, quanto un tentato colpo di Stato di Fatah che è stato prevenuto”. Accusa inoltre
l’amministrazione del suo Paese di essersi “impegnata in una sporca guerra nello sforzo di
portare alla vittoria una dittatura corrotta condotta da Abbas”.56 Anche le autorità di Hamas
concordano con questa visione del fatto: “tutti qui riconoscono che Dahlan57 stava cercando,
con l’aiuto degli americani, di minare i risultati delle elezioni” spiega Mahmoud Zahar, capo
52
I razzi Qassam sono in acciaio, lunghi circa 70cm e pieni di esplosivo. Vengono prodotti direttamente da
Hamas. Sono molto rudimentali, perciò non è possibile prendere la mira dell’obiettivo da colpire. Le città più
colpite dai razzi sono Sderot ed Ashkelot, ovvero le più vicine a Gaza.
53
Il re saudita Abdullah è il sesto re dell’Arabia Saudita. E’ stato incoronato nel 2005.
54
D. Rose, Op. Cit..
55
Dick Cheney è stato Vice Presidente degli Stati Uniti durante l’amministrazione Bush Jr. (2001- 2009).
56
D.Rose, Op. Cit.
57
Mohammed Dahlan è un politico palestinese e il leader di Fatah a Gaza. Nel 2007 ha partecipato al piano
degli Stati Uniti per rovesciare il governo di coalizione tra Hamas e Fatah.
35
dell’ala militante di Hamas a Gaza.58
Hamas è certamente nata come organizzazione paramilitare che incitava alla resistenza armata
e ad atti di terrorismo, tuttavia, dopo la vittoria del 2006 che gli ha aperto i poteri istituzionali
di governo, ha iniziato a moderare il suo programma arrivando addirittura ad accettare la
soluzione due-Stati.59 Si è insomma relativamente aperto al compromesso e alla ricerca di
una soluzione diplomatica al conflitto, senza tuttavia smettere di lanciare i propri razzi nel sud
di Israele.
L’unica tregua si è verificata nel 2008, proprio poco prima di Piombo Fuso. Il 19 giugno 2008
entra infatti in vigore una tahdiyah60 di sei mesi tra Israele e Gaza, mediato dall’Egitto.
L’ambizioso progetto ha anche lo scopo di permettere il dialogo diplomatico che proprio nel
2008 si verifica tra l’OLP e Israele, nell’ennesimo tentativo, supervisionato dagli Stati Uniti,
di creare uno Stato palestinese.
I termini di questa tregua non vengono però scritti in nessun documento formale, e pertanto è
probabile che siano stati intesi in maniera diversa da Israele e da Hamas. Ad ogni modo,
secondo l’OCHA 61 , l’accordo prevedeva che i gruppi armati palestinesi fermassero
immediatamente gli attacchi verso Israele e che quest’ultimo cessasse le proprie operazioni
militari a Gaza; inoltre, si impegnava ad allentare il blocco sulla Striscia permettendo il
passaggio di più aiuti umanitari.62 Nonostante le premesse, durante i mesi di tregua si sono
verificati tanti piccoli ma continui incidenti, sia da una parte sia dall’altra; questa situazione si
è così protratta fino al 4 novembre 2008, quando, con un’incursione a Gaza, Israele viola
definitivamente la tregua con Hamas. In tale data, infatti, le IDF penetrano a Gaza uccidendo
sei membri di Hamas63: ciò segna inequivocabilmente la fine della tahdiyah. Appare evidente
come né la tregua né i numerosi incontri diplomatici abbiano portato a dei risultati
significativi.
58
D. Rose, Op.Cit.
Tale concetto viene ripetuto in: A.Shlaim, Op.Cit. ; N. Finkelstein, Op. Cit. ; H.Siegman e T. Ali in London
Review of Books: Responses to the War in Gaza, vol. 31 n°2, 29 gennaio 2009.
60
Il termine “tahdiyah” significa calma o quiete, quindi si addice perfettamente al periodo temporaneo di pace
verificatosi tra Israele e Hamas.
61
L’OCHA - Office for the Coordination of Humanitarian Affairs- è un ufficio dell’ONU creato nel 1991
destinato ad intervenire in caso di crisi umanitarie. Il suo budget è composto per la maggior parte da somme
donate dagli Stati membri dell’ONU.
62
R. Goldstone, Op.Cit, , pag. 72
63
Che sia stato Israele, e non Hamas, a violare la tregua di sei mesi il 4 novembre 2008 è una tesi ampiamente
sostenuta da molti giornalisti e scrittori: tra questi A.Shlaim, Op. Cit., e H. Siegman, Op.Cit.
59
36
Le principali date di Piombo Fuso:
4 novembre 2008: Israele viola la tregua con Hamas
19 dicembre 2008: Hamas dichiara conclusa la tregua (iniziata il 19 giugno).
27 dicembre 2008: ha inizio Operazione Piombo Fuso su Gaza. La prima fase riguarda
l’attacco dell’aviazione israeliana. Hamas risponde lanciando missili e razzi su Israele.
3 gennaio 2009: le truppe di Israele entrano a Gaza, ha inizio l’attacco via terra.
6 gennaio 2009: si verificano due episodi rilevanti. Il primo riguarda delle bombe lanciate
dalle IDF su un edificio a Zeytoun, credendo che fosse un deposito di armi mentre invece
non lo era; il secondo riguarda l’attacco a una scuola delle Nazioni Unite.
8 gennaio 2009: il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approva un’immediata e
duratura tregua, con un pieno ritiro delle forze israeliane da Gaza.. La soluzione delle
Nazioni Unite viene rifiutata sia da Hamas che da Israele.
15 gennaio 2009: le IDF lanciano tre bombe sull’ospedale Al-Quds; 400 persone sono
rimaste intrappolate dopo che l’edificio ha preso fuoco. L’attacco è stato giustificato dalle
IDF spiegando che i militanti di Hamas si servono spesso di ospedali ed ambulanze come
nascondiglio.
17 gennaio 2009: il gabinetto di Israele si esprime a favore di una tregua di 10 giorni, a
patto che Hamas cessi le ostilità.
18 gennaio 2009: anche Hamas annuncia una tregua se le truppe israeliane si ritireranno
da Gaza entro una settimana. Finisce ufficialmente Operazione Piombo Fuso.
37
Si tratta di un periodo di tempo molto limitato - circa tre settimane dal 27 dicembre al 18
gennaio- eppure ha segnato profondamente il destino della Palestina.
Per l’Operazione Piombo Fuso Israele ha agito su tre fronti, utilizzando la marina, l’aviazione
e l’esercito. La marina serviva per bombardare la costa; l’aviazione si è rivelata determinante
per la grande maggioranza delle operazioni della prima settimana, dando poi un aiuto valido
alle truppe dal 3 al 18 gennaio; l’esercito, infine, è stato il responsabile dell’offensiva via
terra.
Dall’altro lato, le fazioni armate palestinesi operanti nella Striscia di Gaza –e quindi
responsabili della maggior parte dei lanci di razzi e missili- sono le Brigate Izz ad-Din
al-Qassam64, le Brigate Martiri al-Aqsa65, la Jihad Islamica, le Brigate Abu Ali Mustafa66 e
infine le Brigate al-Naser Salah ad-Din67.
La fase aerea
La fase aerea è dunque durata tutta la prima settimana. Le IDF si erano probabilmente segnate
una lista di 603 obiettivi da colpire in quanto collegati in qualche modo ad Hamas. Il
portavoce di Israele confermò che 526 di questi obiettivi erano stati colpiti entro il 31
dicembre 2008; il Palestinian Centre for Human Rights (PCHR) 68 , tuttavia, spiega
chiaramente che sono stati colpiti anche 37 case, 67 siti di addestramento e sicurezza, 20
laboratori, 25 istituzioni pubbliche e private, 7 moschee e 3 edifici correlati all’istruzione.69
Aggiunge inoltre che sono stati attaccati, in particolar modo, il Consiglio Legislativo
64
Le Brigate Izz ad-Din al-Qassam, o semplicemente Brigate al-Qassam, sono state create nel 1992 per
supportare militarmente gli obiettivi di Hamas. Avevano diverse cellule operative in Cisgiordania, ma la maggior
parte di queste sono state distrutte nel 2004 dalle IDF.
65
Le Brigate Martiri al-Aqsa sono operative prevalentemente in Cisgiordania. Malgrado dal 2003 esse siano
state ufficialmente riconosciute come affiliate a Fatah e, conseguentemente, i suoi leader si siano generalmente
assunti il ruolo di ala militare di Fatah, il Rapporto Goldstone ha riscontrato anche la loro presenza durante
Piombo Fuso.
66
Le Brigate Abu Ali Mustafa sono attive dal 1967. Hanno rivendicato il lancio di 177 razzi e 115 mortai su
diverse città e villaggi di Israele durante il periodo delle operazioni militari a Gaza.
67
Le Brigate al-Naser Salah ad-Din sono l’ala militare del Comitato di Resistenza Popolare, presente nella
Striscia di Gaza. Hanno anche partecipato alla cattura del soldato israeliano Gilad Shalit, rilasciato nell’ottobre
2011 dopo oltre cinque anni di prigionia.
68
Il PCHR è un’organizzazione indipendente che si occupa della tutela dei diritti umani e di creare delle
istituzioni democratiche in Palestina. Si trova a Gaza City ed è stata fondata nel 1995.
69
R. Goldstone, Op.Cit., pag. 102.
38
Palestinese, cinque stazioni di polizia e la principale prigione di Gaza.
La fase via terra
Da nord e da est sono entrate le truppe israeliane a Gaza il 3 gennaio. L’obiettivo iniziale era
di dividere la Striscia di Gaza in due parti, in modo da frammentarla e rendere così più
difficile l’organizzazione di un contrattacco.
L’offensiva è stata molto pesante, specialmente in alcune zone come quella di Zeytoun, sul
confine sud di Gaza: qui si è infatti verificata una distruzione di massa, che naturalmente ha
portato a diversi incidenti che sono stati poi analizzati dal Rapporto Goldstone.
Intorno al 15 gennaio le truppe hanno iniziato a ritirarsi, tuttavia nel farlo hanno demolito in
maniera pressoché sistematica case e impianti idrici e danneggiato gravemente le terre
agricole nei dintorni, in modo da rendere la ripresa dopo la fine dell’Operazione ancora più
lenta e drammatica.
Negli ultimi giorni c’è stata un’altra fase di attacchi aerei, ma differente dalla prima: se nella
prima si cercava infatti di “selezionare” relativamente gli obiettivi, nell’ultima si colpiva in
modo più arbitrario.
Le vittime
È evidente che trattandosi di un attacco intensivo su un’area di soli 360km² mantenuta chiusa
fino alla fine delle ostilità, le vittime sono molte di più da parte palestinese che da parte
israeliana. Ciononostante, è impossibile stabilire un numero preciso che possa essere
universalmente accettato; ci sono comunque diverse organizzazioni che hanno fornito le loro
cifre.
Secondo la Commissione Centrale per la Documentazione e la Ricerca dei Criminali di
Guerra di Israele (TAWTHEQ)70, 1444 palestinesi sono morti durante Piombo Fuso; di questi,
70
L’associazione TAWTHEQ - Central Commission for documentation and pursuit of Israeli war criminals –
sembrerebbe direttamente collegata ad Hamas, poiché non si tratta di una ONG ma di una organizzazione di
governo. Proprio per questo il Rapporto Goldstone è stato duramente criticato per essersi fidato di dati
39
341 erano bambini e 248 membri della polizia.
Cifre simili, anche se non uguali, vengono date dal PCHR: 1417 vittime palestinesi, di cui 926
civili, 255 membri della polizia e 236 militanti. Dei 926 civili, 313 erano bambini e 116
donne.
L’Al-Mezan Center for Human Rights riporta invece 1409 morti palestinesi, di cui solo 237
militanti. I restanti 1172 erano civili, e tra questi vi erano 342 bambini e 111 donne.
B’Tselem, infine, abbassa ulteriormente la stima di morti palestinesi a 1387. Tra questi,
c’erano 320 minorenni e 109 donne.
Le organizzazioni che han fornito queste cifre sono tutte delle ONG; anche da parte di Israele
comunque è uscita una statistica sul numero di tragedie accadute in quel periodo. Secondo le
forze armate, le vittime palestinesi sarebbero 1166. Confermano che 709 di questi erano
terroristi di Hamas, mentre 295 erano civili non coinvolti nelle operazioni terroristiche.
All’interno di quest’ultimo sottoinsieme, 89 erano bambini sotto i 16 anni e 49 erano donne71.
Come si può notare, i dati forniti dalle ONG si assomigliano molto e il quadro che
costruiscono è, nel complesso, abbastanza chiaro. C’è da aggiungere tuttavia che all’interno di
queste cifre sono sicuramente incluse anche le eventuali vittime civili provocate
accidentalmente durante scontri tra IDF e gruppi palestinesi armati. Per queste, pertanto, è
molto arduo se non impossibile stabilire il carnefice.
Le vittime israeliane durante il conflitto ammontano a 4, tutti adulti residenti nel sud di Israele.
Si tratta di 3 civili e un soldato, a cui bisogna aggiungere altri 9 soldati uccisi dentro la
Striscia di Gaza durante gli scontri. Quattro di questi sono morti per colpa degli stessi
israeliani.
Un numero così elevato di vittime ha potuto verificarsi anche a causa della noncuranza, sia da
una parte sia dall’altra, per l’adozione di misure precauzionali che proteggessero i civili.
Per quanto riguarda i gruppi armati palestinesi, sono state riscontrate le seguenti violazioni dei
diritti dei civili:
provenienti da quest’ente, il cui scopo sarebbe di ingigantire i crimini di Israele.
71
R. Goldstone, Op.Cit., pag. 107.
40
•
Il lancio di razzi da aree civili e da siti protetti, come scuole, moschee e ospedali.
In questo ambito si sono rivelate molto utili le collaborazioni di ONG internazionalicome Amnesty International 72 , l’International Crisis Group 73 e Human Rights
Watch74- che hanno riportato come effettivamente i reparti lanciarazzi palestinesi
abbiano operato da delle aree densamente popolate. In particolar modo, Amnesty
International ha intervistato dei residenti di Gaza che han parlato del lancio di un razzo
dal cortile di una scuola di governo a Gaza City; tuttavia al momento dell’attacco, la
scuola era chiusa. Un altro episodio si è verificato quando un razzo è stato lanciato a
50 metri da un edificio residenziale; ciononostante, anche qui non ci sono prove che
testimonino che i razzi siano mai stati lanciati da case residenziali mentre i civili vi
erano ancora dentro.
Inoltre, è da sottolineare come diverse ONG - inclusa l’israeliana Breaking the
Silence75- abbiano dichiarato che molti soldati israeliani non hanno avuto nessuno
scontro diretto con militanti palestinesi. Sembra dunque che gli scontri armati diretti
siano stati molto pochi.
•
L’uso di siti civili o protetti come quelli sopra elencati come basi per attività
militari o come depositi d’armi. Il governo israeliano ha dichiarato di esser stato
costretto in alcune occasioni ad attaccare questi luoghi poiché “Hamas abusava della
protezione accordata ai luoghi di culto, depositando spesso le armi nelle moschee”76.
Purtroppo non si è stati in grado di verificare se effettivamente ci fosse questa pratica
diffusa; tuttavia, la Missione Goldstone ha investigato sull’attacco da parte delle IDF
alla moschea al-Maqadmah nel campo di Jabaliyah il 3 gennaio. Quindici persone
72
Amnesty International è una delle maggiori ONG al mondo. Fondata nel 1961, il suo scopo è quello di
tutelare i diritti umani e denunciare gli abusi, quando questi diritti inalienabili vengono violati. Ha ricevuto il
premio Nobel per la Pace nel 1977.
73
L’International Crisis Group è un’altra ONG fondata nel 1995 dal Vice-Presidente della Banca Mondiale
Mark Malloch Brown, il diplomatico americano Morton I.Abramowitz e lo specialista nel campo degli aiuti in
caso di disastri internazionali Fred Cuny. Lo scopo dell’organizzazione è di assistere i governi e la comunità
internazionale nel prevenire i conflitti mortali.
74
Human Rights Watch si occupa anch’essa della difesa dei diritti umani. E’ stata fondata nel 1988 e la sua sede
principale è a New York.
75
Breaking the Silence è una ONG israeliana fondata dai soldati delle IDF e da alcuni veterani che raccontano le
loro esperienze a Gaza, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.
76
R.Goldstone, Op.Cit., pag. 141.
41
hanno perso la vita durante l’attacco e altre quaranta sono rimaste ferite; la Missione
non ha trovato prove che confermassero l’uso della moschea come deposito d’armi o
luogo di attività militari.
•
Lo sfruttamento di strutture mediche e ambulanze. Israele ha affermato che
“Hamas ha sistematicamente usato strutture, veicoli e uniformi mediche per coprire le
proprie operazioni terroristiche […] Hamas ha utilizzato in particolar modo le
ambulanze, che spesso servivano come via di fuga da una battaglia con le IDF”77.
Sono molti i casi in cui, di conseguenza, alle ambulanze è stato negato l’accesso ad
aree che erano state colpite per soccorrere i feriti; tuttavia, secondo la Missione
Goldstone le IDF dovevano essere al corrente che non vi erano combattenti né tra i
feriti né sulle ambulanze né nelle immediate vicinanze. Di conseguenza, si tratta di un
atteggiamento non giustificabile.
•
L’utilizzo dei civili come scudi contro gli attacchi di Israele. Numerosi testimoni a
Gaza sono stati interrogati sul perché siano rimasti nelle loro case malgrado i
bombardamenti e le truppe israeliane che avanzavano; si cercava di capire se erano
stati costretti a restare nelle loro abitazioni. La maggioranza, tuttavia, ha dichiarato di
esser rimasta o perché aveva vissuto altre incursioni in precedenza e di conseguenza
non pensava che sarebbe stata in pericolo, oppure perché non aveva dove andare.
Perciò, anche in questo caso non ci sono prove che i civili siano stati costretti da
Hamas a trattenersi in casa propria.
Sempre all’interno dell’accusa di usare i civili come scudi, un altro fatto importante
notato dalle ONG è che generalmente i membri dei gruppi armati palestinesi non
portavano uniformi militari. In questo modo si mescolavano inevitabilmente alla
popolazione civile, rendendo molto difficile riconoscerli. Ciò è sicuramente vero, ma è
pressoché impossibile stabilire se sia stata una tattica volutamente messa in atto con
l’intento di proteggersi.
77
R. Goldstone; Op. Cit., pagg. 142-143.
42
Tutto ciò concerne le accuse rivolte ai gruppi armati palestinesi, ma anche da parte israeliana
ci sono probabilmente state delle violazioni ai diritti dei civili di Gaza.
Il governo israeliano ha assicurato di aver avvertito in diversi modi gli abitanti della Striscia
del pericolo che stava per incombere. Innanzitutto, sono state effettuate 20000 telefonate il 27
dicembre e altre 10000 il 29 dicembre; 300000 volantini di avviso sono stati lanciati
sull’intera Striscia il 28 dicembre; altri 300000 sono stati nuovamente lanciati all’inizio
dell’offensiva via terra, il 3 gennaio. In totale, sono state effettuate 165000 telefonate e circa
2500000 volantini sono stati lanciati78. Oltre alle telefonate e ai volantini, il Ministero degli
Affari Esteri Israeliano afferma di aver fatto degli annunci via radio e di aver lanciato
esplosivi molto leggeri sui tetti, il tutto nel tentativo di avvisare i civili. Tutto ciò è stato
confermato dalla Missione.
Per quanto riguarda i messaggi via radio, questi si limitavano a invitare la popolazione a
spostarsi verso i centri città; i volantini erano invece più specifici.
“Ai residenti della Striscia di Gaza
Le IDF agiranno contro ogni movimento o elemento che conduca attività terroristiche
contro i residenti dello Stato di Israele. Le IDF colpiranno e distruggeranno ogni edificio o
sito che contenga munizioni e armi. Con la pubblicazione di questo annuncio, ogni
possidente di munizioni e/o armi nella propria casa sta rischiando la vita e deve lasciare il
sito per la sua sicurezza e quella della sua famiglia. Siete stati avvisati.79”
In questo caso i volantini si rivolgevano a coloro che possedessero armi o munizioni; in altri,
invece, venivano avvisati tutti gli abitanti di una determinata area. Per esempio questo è stato
lanciato a tutti i residenti di Rafah:
“Poiché le vostre case sono utilizzate da Hamas per il contrabbando e il deposito di
equipaggiamento militare, le IDF attaccheranno le aree tra la Strada sul Mare e il confine
Egiziano. Tutti i residenti dei seguenti quartieri: Block O – al-Barazil – al-Shu’ara’ –
Keshta – al-Salam devono evacuare le proprie abitazioni fino ad oltre lo Strada sul Mare.
L’evacuazione entra in vigore da adesso alle 8 di domani mattina. Per la vostra sicurezza e
78
79
R. Goldstone, Op. Cit., pag. 152.
R. Goldstone, Op. Cit., pag. 154.
43
la sicurezza dei vostri figli, tenete conto di questo avviso.”80
Considerato quindi che la maggioranza dei civili era stata avvisata, ci si potrebbe chiedere
come mai così pochi abbiano effettivamente lasciato le loro case. Innanzitutto, affinché
l’avviso fosse efficace bisognava che i civili conoscessero un posto più sicuro dove andare: in
molti casi non era così. Oltretutto non bisogna dimenticare che c’erano già state altre
incursioni precedentemente, perciò la gente non credeva di essere davvero in pericolo; inoltre,
si sta parlando di una striscia di terra molto piccola dalla quale è molto difficile uscire.
Lasciare la propria casa dunque, ma per andare dove?
ALCUNI INCIDENTI CHE HANNO COINVOLTO CIVILI
“I colpi devono essere rivolti solo contro obiettivi militari e combattenti. E’ assolutamente
proibito colpire intenzionalmente i civili o obiettivi civili81”, così recitano le regole delle IDF.
Eppure si sono verificati ben undici incidenti dove sembra proprio che i civili siano stati
volontariamente attaccati: due riguardano gli attacchi alle abitazioni della famiglia
al-Samouni; sette, i più numerosi, concernono civili che stavano lasciando le loro case per
andare in un posto più sicuro, spesso agitando bandiere bianche e, in alcuni casi, seguendo le
stesse indicazioni delle IDF; un altro è l’attacco ad una moschea colpita durante il periodo di
preghiera, di cui si è già accennato; l’ultimo infine riguarda un edificio residenziale, dove
hanno perso la vita 22 persone.
Per ogni caso analizzato, sono stati intervistati testimoni e visitati i luoghi degli attacchi.
80
81
Ibidem
R. Goldstone, Op.Cit., pag.198
44
Le due case al-Samouni
In questi due incidenti hanno perso la vita 23 membri della famiglia al-Samouni. L’area
al-Samouni si trova a Zeytoun, a sud di Gaza City. Si tratta di una delle zone più colpite, più
rurale che urbana. L’attacco ha avuto luogo intorno alle 4 del mattino del 4 gennaio. A
quell’ora i soldati israeliani sono entrati in molte case del quartiere al-Samouni, tra cui, verso
le 5 del mattino, quella di Ateya Helmi al-Samouni. I soldati hanno lanciato una granata e, in
una coltre di fumo, il capofamiglia è avanzato verso i soldati con le braccia alzate e la carta
d’identità in mano per dimostrare che si trattava effettivamente del proprietario legittimo
dell’abitazione. Secondo testimoni oculari della famiglia al-Samouni, i soldati gli hanno
subito sparato, dopodiché hanno aperto il fuoco nella stanza dove erano radunate circa 20
persone.
Molti sono rimasti feriti, alcuni seriamente; tuttavia, le IDF hanno impedito all’ambulanza
–arrivata intorno alle 16 nelle vicinanze- di soccorrere i feriti, tra cui un bambino di quattro
anni. Hanno semplicemente intimato ai sopravvissuti di lasciare l’area.
Il secondo episodio è avvenuto la mattina del 5 gennaio, intorno alle 6.30/ 7 del mattino, nella
casa di Wa’el al-Samouni. Dopo l’attacco del giorno prima, a molta gente del quartiere era
stato ordinato dai soldati di andare proprio in questa abitazione, perciò al momento
dell’incursione circa 100 membri della famiglia al-Samouni vi erano dentro.
Cinque membri della famiglia si sono recati fuori per cercare della legna da ardere. I soldati si
trovavano sui tetti, perciò li potevano vedere chiaramente; quando i cinque son stati fuori, le
IDF hanno sparato uccidendone due sul colpo. Gli altri tre si son ritirati in casa, ma poco dopo
altri proiettili sono stati sparati dentro l’abitazione. Sono decedute in totale 21 persone e altre
19 sono rimaste ferite durante l’attacco. Appena finiti gli spari, i superstiti sono subito usciti
cercando di camminare verso Gaza City; i soldati, però, hanno loro ordinato di rientrare
nell’abitazione. I membri della famiglia al-Samouni han comunque deciso di non seguire
quest’ingiunzione e sono arrivati a Gaza City, dove hanno trovato assistenza presso la PRCS82
e han raccontato dei feriti rimasti nel luogo dell’attacco. A questo punto, sia la PRCS sia la
82
La Palestine Red Crescent Society, fondata nel 1968 dal fratello di Arafat, è un’organizzazione umanitaria che
fa parte del Movimento Internazionale della Croce Rossa. Fornisce quindi ospedali, medicine e ambulanze nella
Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
45
ICRC83 han chiesto il permesso di andare a soccorrere i feriti nel quartiere al-Samouni
–avevano già tentato di andarvi il giorno prima. Il permesso però gli è stato negato dalle IDF.
Soltanto il 7 gennaio, durante una temporanea tregua dalle 13 alle 16, le ambulanze sono
riuscite a raggiungere l’area.
Considerando i due episodi nel loro insieme, sembrerebbe che già il 4 gennaio i soldati
avessero il totale controllo del quartiere, dunque un attacco così violento sarebbe
ingiustificabile. Inoltre appare immotivato l’impedimento dell’arrivo delle ambulanze sul
luogo per soccorrere i feriti.
Uccisione di civili che lasciavano le proprie case per andare in un posto più sicuro
Gli incidenti di questo tipo sono i più numerosi: la Missione Goldstone ne ha investigati sette.
Spesso si trattava di gruppi di persone a cui veniva sparato mentre cercavano di lasciare le
loro case e andare verso Gaza City o Rafah. Non rappresentavano quindi certamente una
minaccia per i soldati, che già controllavano nella maggioranza dei casi l’area in questione. Le
IDF erano perfettamente consapevoli di aver davanti dei civili e non dei militanti; a volte
addirittura già li conoscevano, poiché vi avevano già interloquito e, spesso, erano stati proprio
gli stessi soldati a intimare ai civili di andarsene.
A volte i civili non venivano neppure colpiti in modo da causare una morte istantanea: nel
caso di Iyad al-Samouni84, per esempio, gli spari sembravano pensati non per ucciderlo ma
per impedirgli di fuggire. Eppure, minacciando con le armi la sua famiglia e i suoi amici che
erano con lui, hanno impedito che ricevesse cure mediche e, di conseguenza, l’han lasciato
morire dissanguato.
Altre volte i civili si muovevano agitando appositamente bandiere bianche in aree dove in
quel momento non c’erano combattimenti, semplicemente perché gli era stato detto di lasciare
la zona.
Non solo uomini, ma anche donne e molti bambini sono stati uccisi durante questi attacchi:
83
L’International Committee of the Red Cross è un’antica organizzazione umanitaria fondata nel 1863 in
seguito alla sanguinosa battaglia di Solferino del 1859 durante la Seconda Guerra d’Indipendenza italiana.
84
R. Goldstone, Op.Cit., pagg. 209-211.
46
nel caso della famiglia Abd Rabbo85 in particolare, pare che siano state prima colpite le tre
figlie - tutte bambine - poi una signora anziana e solamente alla fine la coppia adulta
marito-moglie.
Dopo gli attacchi, infine, in moltissimi casi veniva negato, come si è visto, alle ambulanze il
permesso di soccorrere i feriti. Ciò naturalmente ha causato ulteriori morti, che forse
avrebbero potuto essere evitate.
La moschea al-Maqadmah
La moschea al-Maqadmah si trova nel campo di Jabaliyah. La sera del 3 gennaio, tra le 17 e le
18, molta gente – tra le 200 e le 300 persone- si era radunata nell’edificio per le preghiere
serali. Nel momento in cui il sermone stava per iniziare, c’è stata un’esplosione nell’atrio.
Quindici persone sono morte, altre quaranta son rimaste ferite. La Missione si è
successivamente recata sul luogo e ha potuto constatare che c’erano significativi danni alla
struttura della moschea.
La giustificazione delle forze israeliane per l’attacco è stato il seguente: “[…] per quanto
riguarda il colpo contro la moschea “Maqadme” a Beit-Lahiya il 3 gennaio 2009, è stato
scoperto che, contrariamente alle affermazioni fatte, la moschea non è stata proprio attaccata.
Inoltre, è stato scoperto che i presunti civili non coinvolti che rappresentavano le vittime
dell’attacco erano in effetti dei combattenti di Hamas uccisi mentre lottavano contro le IDF.86”
Dalle indagini condotte, non risulta che in quel momento la moschea fosse utilizzata per
lanciare razzi, depositare armi o proteggere dei militanti. Sembra che non ci siano stati altre
esplosioni nelle vicinanze, quindi è probabile che si sia trattato di un attacco isolato senza
connessione con una battaglia in corso.
85
86
R. Goldstone, Op. Cit., pagg. 218-221.
R. Goldstone, Op. Cit., pagg. 235-236.
47
La casa della famiglia al-Daya
La casa della famiglia al-Daya si trova, come quelle della famiglia al-Samouni, a Zeytoun, a
sud-est di Gaza City. Il 6 gennaio alle 5.45 del mattino un missile lanciato da un aereo F-16
colpì la casa al-Daya uccidendo 22 persone, di cui 12 erano bambini sotto i 10 anni.
Le IDF si trovavano a Zeytoun dal 3 gennaio, e dei testimoni hanno dichiarato che girava da
qualche giorno la voce che l’esercito intendesse bombardare una casa nelle vicinanze;
conseguentemente, diverse famiglie hanno lasciato le loro case. Alcune tuttavia hanno deciso
di restare, compresa la famiglia al-Daya.
Sempre secondo le testimonianze dei vicini, sembrerebbe che nessuno di loro avesse ricevuto
una telefonata di avviso prima dell’attacco alla casa al-Daya e che nessun’altra casa nella via
sia stata colpita successivamente.
Quest’ultimo dettaglio è di particolare rilevanza, poiché le IDF hanno sostenuto che
“l’incidente in questione è stato il risultato di un errore operazionale con delle sfortunate
conseguenze. […] Le IDF intendevano attaccare un deposito d’armi che si trovava
nell’edificio accanto a quello della famiglia al-Daya87”. Dunque, il vero obiettivo era in realtà
un edificio vicino che veniva utilizzato come deposito d’armi e si è trattato semplicemente di
un tragico errore. Eppure, la Missione ha intervistato gli abitanti delle case vicine e tutti hanno
sostenuto che nessuna casa nelle vicinanze è stata colpita dopo la distruzione di quella della
famiglia al-Daya. Oltretutto, le autorità israeliane non hanno mai specificato quale fosse
precisamente la casa che intendevano colpire, il presunto deposito d’armi.
C’è anche da interrogarsi su cosa sarebbe successo se davvero le IDF avessero colpito con un
missile un deposito d’armi; sicuramente sarebbe stato pericoloso per tutta la zona circostante.
Ciononostante nessuno era stato avvisato della possibile minaccia.
87
R. Goldstone, Op. Cit., pag. 239.
48
OPERAZIONE
PIOMBO
FUSO:
L’ASPETTO
STRATEGICO
E
TECNOLOGICO
A questo punto è evidente come il termine “guerra” sia un pò inappropriato per definire
Piombo Fuso, poiché con guerra si pensa solitamente a uno scontro tra due eserciti. In questo
caso ci si trova invece davanti al combattimento tra uno Stato, Israele, e un’organizzazione,
Hamas, che per quanto fosse stata eletta non può di certo rappresentare la totalità del popolo
palestinese.
Per questo è corretto parlare di guerra asimmetrica: si tratta infatti di un nuovo tipo di scontro,
con regole diverse e conseguentemente tattiche e strategie di combattimento diverse. Israele si
era già trovato in una situazione simile nel 2006 durante la guerra in Libano contro
Hezbollah88. Malgrado vi siano delle grandi differenze tra le due guerre, sono in molti a
sostenere che proprio la sconfitta subita da Israele nel 2006 è stata di lezione per la futura
Piombo Fuso89.
Nel 2006 ha avuto dunque luogo uno scontro tra Israele ed Hezbollah iniziato il 12 luglio e
terminato il 14 agosto con un cessate il fuoco mediato dall’ONU, anche se in effetti è solo l’8
settembre che Israele ha tolto il blocco navale dal Libano.
Il conflitto si è rivelato molto violento: parlare di cifre esatte in questi casi è sempre difficile,
ma quasi sicuramente si parla di oltre un migliaio di vittime libanesi e di oltre 160 israeliani
tra soldati e civili. Anche qui, come in Piombo Fuso, si pone il problema della proporzionalità
delle vittime; tuttavia, si tratta di una caratteristica intrinseca della guerra asimmetrica. E’
evidente che dove si scontrano un esercito con armi moderne e tecnologie avanzate e delle
forze paramilitari con mezzi decisamente più rudimentali, il numero delle vittime non può
essere uguale dalle due parti. Oltretutto, proprio l’inferiorità numerica e tecnologica potrebbe
spingere le forze estremiste all’uso dei civili come scudi umani e delle aree urbane
88
Hezbollah è un partito politico e paramilitare libanese fondato nel 1982. I suoi tratti distintivi sono il
fondamentalismo islamico e l’antisionismo, che ovviamente han comportato rapporti di aperta ostilità con lo
Stato di Israele. Quest’ultimo considera Hezbollah un’organizzazione terroristica.
89
A. Siegelman, “From Lebanon to Gaza: A New Kind of War”, reperibile su
http://www.dtic.mil/cgi-bin/GetTRDoc?AD=ADA497594 , marzo 2009. Pag. 2.
49
densamente popolate come barriere protettive. Conseguentemente, l’esercito avversario
sarebbe indotto a colpire obiettivi civili causando molte vittime innocenti nella certezza che vi
si nascondano dei pericolosi militanti.
A questo punto ci si chiederà come sia possibile arrivare a definire la guerra contro Hezbollah
addirittura una “sconfitta clamorosa” 90 se il numero di vittime israeliane è nettamente
inferiore a quello dei libanesi. La risposta è semplice: l’obiettivo di Israele era distruggere
Hezbollah e cessare così gli attacchi coi razzi verso il nord del Paese. Tutto ciò che doveva
fare Hezbollah per vincere era dunque continuare ad esistere.
Sia Hamas che Hezbollah appartengono a un nuovo tipo di nemico, che non gioca secondo le
regole e rifiuta di adattarsi alle tattiche di guerra tradizionali dell’occidente. Ne scaturisce un
conflitto anticonformistico, motivato dall’ideologia. Queste forze paramilitari sono
perfettamente consapevoli di non poter competere con la tecnologia dell’avversario, così
evitano la battaglia campale e gli scontri diretti91. Glorificano il sacrificio e il martirio, sicuri
che nemmeno la loro morte potrà porre fine all’ideologia per la quale loro hanno vissuto.
È esattamente per questo che Israele ha perso nel 2006. Come sostiene Ariel Siegelman,
Vice-Presidente nella Formazione della Sicurezza del Gruppo Draco92, “Hezbollah, come ogni
altro movimento terrorista, è un’ideologia, e a meno che non si voglia uccidere l’intera
popolazione, un’ideologia non può essere fatta crollare attraverso una conquista militare93”.
Ciononostante, vi è anche chi sostiene che in effetti Israele abbia vinto. Secondo Thomas
I.Friedman del New York Times, infatti, il vero obiettivo dello Stato israeliano non era tanto
di distruggere Hezbollah -progetto pressoché impossibile da realizzare- quanto di educarlo:
dargli una lezione attraverso gli stessi civili libanesi. Hezbollah, come Hamas del resto,
intraprendeva delle piccole azioni terroristiche di guerriglia verso Israele. Lanciava razzi
verso obiettivi civili, “sfidando Israele a infliggere degli attacchi massicci con molte vittime
civili pur di colpire i militanti di Hezbollah94”. Il risultato quindi dello scontro è stato che gli
90
Ibidem.
Goldstone stesso sostiene che ci siano stati pochi scontri diretti tra le IDF e Hamas anche durante Piombo
Fuso.
92
Il gruppo Draco si occupa di servizi di sicurezza per proteggere le infrastrutture e gli interessi statunitensi
ovunque nel mondo. Si diversifica in addestramenti alla sicurezza, sicurezza marittima, servizi investigativi e di
consulenza.
93
A.Siegelman, Op.Cit., pag. 5
94
T. Friedman, “Israel’s Goals in Gaza?”, in The New York Times, 14 gennaio 2009.
91
50
stessi civili libanesi si sono ribellati contro l’organizzazione per colpa della quale erano in
pericolo e lo stesso leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah95, ha dichiarato: “Non abbiamo
pensato, nemmeno all’1 per cento, che la cattura96 avrebbe portato in questo momento a una
guerra di tale magnitudine. Mi chiedete se, se avessi saputo l’11 luglio che l’operazione
avrebbe portato a una guerra simile, l’avrei comunque portata avanti? Rispondo no,
assolutamente no.”97
Si può dunque dire che la guerra ha portato all’educazione di Hezbollah in un certo senso,
poiché l’organizzazione ha imparato il prezzo che si paga minacciando un Paese in grado di
rispondere con attacchi e tecnologie devastanti per tutta la popolazione.
Nel caso di Hamas, invece, il risultato non è stato così evidente. Malgrado Siegelman affermi
che durante l’operazione Piombo Fuso gli obiettivi erano più realistici e non consistevano
quindi nel far distruggere completamente Hamas, bensì frustrarne il morale98, non è facile dire
se ciò abbia funzionato. Oggi, a distanza di quattro anni, Hamas resiste ancora e non ha
smesso di minacciare Israele. Si può dunque affermare che Israele abbia portato avanti con
successo un’azione militare dal potere deterrente? Ciò che è chiaro è che comunque la
maggior parte della leadership di Hamas è rimasta in vita, e non ha certo rinunciato ai suoi
principi. Certamente un attacco di simili proporzioni ha provocato comunque risentimento in
molti civili verso Hamas e il suo governo. Halima Dardouna, residente a Jabaliya, afferma per
esempio riferendosi a Piombo Fuso: “io non voterò mai per Hamas. Non sono capaci di
proteggere la gente, e se è a questo che intendono portarci, perché devono essere al potere? Se
pensassi che per loro fosse possibile liberare Gerusalemme, sarei paziente. Ma invece ci
portano questo.99”
Ad ogni modo, nella maggioranza dei casi la rabbia è stata ovviamente rivolta verso Israele:
“Se si vuole fare pace con i Palestinesi, loro sono stanchi di bombe, droni e aerei. Ma un
uomo a cui hanno appena ucciso il figlio non vuole la pace. Vuole la guerra.100” Così
commenta Mohammad Abu Muhaisin da Rafah. E’ dunque un circolo vizioso, quello
95
Hassan Nasrallah è il segretario generale di Hezbollah dal 1992.
Ci si riferisce al rapimento di due soldati israeliani avvenuto il 12 luglio 2006.
97
T. Friedman, Op. Cit.
98
A. Siegelman, Op. Cit. Pag. 7.
99
E, Bronner, “Parsing Gains of Gaza War”, in The New York Times, 18 gennaio 2009.
100
Ibidem.
96
51
riguardante il conflitto israelo-palestinese, difficile da spezzare, poiché naturalmente l’odio
non può produrre che altro odio, che si tramanda di generazione in generazione.
Le armi utilizzate durante il conflitto
Un aspetto molto interessante di Piombo Fuso è la tecnologia militare usata da Israele. La
missione Goldstone ha analizzato a grandi linee l’uso di queste armi soprattutto in relazione
all’obbligo –spesso ignorato- di prendere delle precauzioni per proteggere la popolazione
civile. Va detto che, anche in questo campo, la missione non ha ricevuto alcun aiuto nelle
indagini dallo Stato di Israele, il quale ha in effetti rifiutato l’intero rapporto delle Nazioni
Unite. L’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, Gabriela Shalev, ha per esempio
commentato all’uscita del rapporto che questo non teneva in considerazione il fatto che
l’intera operazione era stata fatta per autodifesa e, pertanto, non era stato accettato da
Israele101.
Da parte di quest’ultimo le armi utilizzate divenute poi oggetto di discussione sono state: il
fosforo bianco, le flechettes, munizioni DIME e uranio impoverito.
•
Il fosforo bianco: il fosforo bianco è la forma solida del fosforo, di aspetto
bianco-giallastro. Viene utilizzato per ordigni incendiari poiché è un elemento che
brucia nel momento stesso in cui viene a contatto con l’ossigeno e non smette fino a
che non si esaurisce o viene privato dell’aria. Di conseguenza rimane attivo a lungo
nell’aria, e provoca ustioni difficilmente curabili sugli esseri umani: si trattava per la
gente di Gaza di un’arma nuova, perciò gli ospedali erano impreparati. Il fosforo
causava infatti dei danni agli organi e ai tessuti molto più gravi di quanto si pensasse
all’inizio; molti pazienti sono così morti a causa delle ustioni. Purtroppo non bastava
fasciare la ferita: i dottori stessi raccontano che quando rimuovevano le garze da una
ferita che conteneva ancora dei frammenti di fosforo bianco, questa cominciava di
nuovo a emettere fumo e a bruciare, anche ore dopo l’incidente102. L’unico modo per
101
N. MacFarquhar, “Inquiry finds Gaza War Crimes from Both Sides”, in The New York Times, 15 settembre
2009.
102
R. Goldstone, Op. Cit., pag. 249.
52
eliminare ogni piccola particella di fosforo bianco, una volta attaccato ai tessuti, era di
asportare chirurgicamente tutta la carne e a volte anche i muscoli attorno all’ustione.
Sulla possibilità di usare il fosforo bianco in guerra si sta ancora discutendo, poiché
pone dei rischi molto elevati per la popolazione civile, se usato come arma chimica in
maniera sconsiderata. Peter Kaiser, portavoce dell’agenzia dell’ONU sul divieto di uso,
produzione e stoccaggio di armi chimiche, ha così espresso la situazione attuale:
“No, il fosforo bianco non è proibito dalla convenzione sulle armi chimiche nel
contesto delle operazioni belliche, purché non si faccia ricorso a tale sostanza per le
sue proprietà tossiche. Un esempio: il fosforo bianco normalmente è utilizzato per
produrre fumogeni che mascherino i movimenti e questo è considerato un uso
legittimo nel rispetto della convenzione. Ma se le proprietà tossiche o caustiche del
fosforo bianco vengono utilizzate come un'arma, allora è proibito. La convenzione è
infatti è strutturata in modo che ogni elemento chimico che venga usato contro l'uomo
o gli animali che provoca danni o la morte a causa delle proprietà tossiche è
considerata un'arma chimica. Quindi non importa di quale sostanza si parli, ma se lo
scopo è quello di causare danni con le proprietà tossiche, allora è un comportamento
proibito.103”
Nel caso specifico di Piombo Fuso, Israele ha utilizzato il fosforo bianco nella fase via
terra dell’operazione come munizioni esplosive lanciate come delle bombe dalle forze
navali e dall’esercito via terra. Usato in aree densamente popolate come la striscia di
Gaza, ciò ha naturalmente comportato un numero significativo di vittime tra la
popolazione civile.
•
Le flechette: le flechette sono simili a delle piccole freccette, fatte con metalli
compositi e solitamente sparate da delle mitragliatrici oppure inserite all’interno di
bombe. Quelle sparate a Gaza durante Piombo Fuso erano lunghe circa 4 cm e larghe
2-4 mm. Si tratta di un’arma pensata per delle aree e non per un obiettivo specifico:
questi dardi non sono infatti in grado di discriminare tra i bersagli dopo la detonazione.
Proprio per questo, si sono rivelati potenzialmente molto pericolosi per i civili
103
http://www.rainews24.rai.it/ran24/inchiesta/fosforo.asp
53
residenti in aree urbane.
•
Munizioni DIME: i dottori che si trovavano ad esercitare a Gaza hanno raccontato di
una percentuale molto alta di pazienti con gambe troncate come risultato dell’impatto
di questi particolari proiettili usati dalle IDF. Queste amputazioni erano sempre
accompagnate da delle ustioni di terzo grado circa 4-6 dita sopra il punto della
mutilazione. La carne era cauterizzata quindi a causa del calore. Inoltre i pazienti
riportavano delle macchie rosse sull’addome e sul petto e molti avevano delle ustioni
interne. Tali sintomi hanno portato a capire che Israele stava usando le bombe DIME,
pensate per uno scenario di guerriglia urbana nel quale causare il massimo danno
possibile.
Le bombe DIME contengono una mistura omogenea di materiale esplosivo e una
polvere di un metallo pesante, solitamente una lega di tungsteno, cobalto, nichel e
ferro. Le piccole particelle di questa lega vengono rilasciate e hanno l’effetto di una
lama che recide di netto qualunque cosa si trovi nel suo raggio d’azione. Non solo;
queste particelle sono anche estremamente cancerogene e talmente piccole da non
poter essere tolte dal corpo del paziente. Di conseguenza, c’è una possibilità
estremamente elevata che anche coloro che non vengono colpiti dalle DIME in
maniera letale muoiano, poco tempo dopo, di cancro.
•
L’uranio impoverito: questo aspetto è quello meno analizzato dalla Missione
Goldstone. Ciò che si sa è che l’analisi di un filtro dell’aria preso da un’ambulanza
durante le operazioni militari ha rilevato alte percentuali di uranio non impoverito e di
niobio.
Dalla parte delle forze paramilitari palestinesi, invece, abbiamo visto che la principale arma
usata consista nei razzi di vario genere. In totale, sembrerebbe che 230 razzi e 298 colpi di
mortaio siano stati sparati verso Israele tra il 18 giugno e il 26 dicembre 2008; di questi, 157
razzi e 203 colpi di mortaio sono stati sparati durante la cosiddetta tregua, terminata il 18
54
dicembre 2008104.
•
I razzi: i razzi palestinesi sono diversi. I principali sono i già citati razzi al-Qassam, dei
quali esistono almeno tre generazioni, ciascuna con l’obiettivo di migliorare la
precedente. I razzi al-Qassam sono infatti costruiti con materiali rudimentali e non
hanno un sistema per mirare, perciò non possono colpire obiettivi specifici. Sono
fortemente imprecisi, ma proprio per questo raramente letali.
Abbiamo poi i razzi Grad da 122mm, un’invenzione russa che può colpire fino a una
distanza di 20/25 km. Si tratta di armi decisamente più sofisticate dei razzi al-Qassam
e, dato che sono costruite con materiali non facilmente reperibili a Gaza, è probabile
che non siano fabbricati nella Striscia. Anche se la distanza media è di 20 km, alcuni
di questi razzi arrivano fino al doppio della gittata.
•
I mortai: i mortai sono armi con una gittata piuttosto corta, ma normalmente sono più
precisi dei razzi poiché possiedono dei rudimentali organi di mira. Normalmente
hanno una gittata di 2 km, ma alcuni arrivano fino a 15 km.
104
R. Goldstone, Op. Cit, pag. 451.
55
DUE PREZIOSI TESTIMONI: ZIYAD CLOT E VITTORIO ARRIGONI
Fonte foto: www.hanspeter.stalder.ch
Fonte foto: www.repubblica.it
Ziyad Clot e Vittorio Arrigoni sono due personalità molto diverse per nazionalità, per studi,
per scelte di vita, ma condividono qualcosa: l’esperienza diretta in Palestina e il trovarsi faccia
a faccia, sebbene in maniera differente, con la questione palestinese.
Il primo, Ziyad Clot, è un avvocato francese. Nato e cresciuto in Francia, educato secondo i
suoi valori, Clot ha tuttavia origini palestinesi. La madre infatti viene da Haifa e la sua
famiglia, come tante altre, è andata in esilio dopo la Nakba del 1948. Con la creazione dello
Stato di Israele, la famiglia ha perso tutte le proprietà, confiscate; si sono dunque recati in
Libano, dove gli è stata offerta la cittadinanza. Il nonno di Clot, tuttavia, non l’ha accettata per
sé, ma solo per sua moglie e i suoi figli; si sentiva senza patria, un orfano. Così mentre la
moglie e i figli si son trasferiti in Libano, lui è emigrato nel Golfo, dove è morto pochi anni
dopo.
Una storia come tante altre spinge Clot a visitare la Palestina nel settembre 2007. Inizialmente
la sua idea, in qualità di avvocato, è di insegnare diritto in un’università palestinese per un
anno, ma ben presto si unisce all’Unità di Sostegno dei Negoziati dell’OLP. Tale sezione
56
dell’OLP si occupa di coadiuvare il processo di pace con gli israeliani stabilito dalla
Conferenza di Annapolis105 del 2007.
Clot si immerge fin da subito nella realtà israelo-palestinese: l’impatto non è certo dei
migliori. Sempre guardato con diffidenza dai soldati a causa delle sue origini, Clot parla di
“difficile coabitazione tra le diverse comunità106”, a Gerusalemme così come in tutta la
Cisgiordania. Innanzitutto i posti di blocco dell’esercito israeliano sono ovunque; inoltre, il
livello di vita di israeliani e di palestinesi non è assolutamente comparabile. “La prima
percezione del territorio lasciato ai palestinesi è quella di un immondezzaio abbandonato in
mezzo ad un ambiente caotico. Blocchi di cemento e cumuli di filo spinato sono sparsi sul
terreno, immondizie si ammassano un po’ dovunque. Il senso della circolazione non risponde
ad alcuna logica apparente107”, dirà Clot riferendosi a Ramallah, sua futura casa per un anno e
mezzo.
È chiaro dunque come Clot sia scettico nei confronti della riuscita di un accordo di pace per la
costituzione di uno Stato palestinese. Accetta comunque di impegnarsi nel progetto,
preoccupandosi soprattutto dell’aspetto dei profughi che vivono in campi nei Paesi vicini in
condizioni disagiate.
La scarsa fiducia iniziale di Clot non aumenta, anzi egli perde sempre di più le speranze.
Innanzitutto c’è il problema della distanza geografica: come riunire due territori –Cisgiordania
e Striscia di Gaza- non comunicanti? Oltretutto i contatti tra la Cisgiordania e Gaza sono rari e
di certo non incoraggiati da Israele.
In secondo luogo, gli incontri diplomatici tra esponenti dell’OLP e membri del governo
israeliano –tra cui Tzipi Livni108, ministro degli Esteri- si rivelano meno proficui di quanto si
pensasse. “Per quanto riguarda i profughi, in tutta franchezza la posizione israeliana è che la
costituzione dello Stato palestinese è la risposta al problema. Non voglio deludere nessuno,
ma nessun esponente israeliano […], né l’opinione pubblica, sosterranno il ritorno dei
105
La Conferenza di Annapolis riguardava la possibilità di trovare una soluzione diplomatica alla questione del
Medio-Oriente. Per la prima volta i leader palestinese e israeliano concordarono sulla creazione, di comune
accordo, di due Stati.
106
Z. Clot, Non ci sarà uno Stato Palestinese. Diario di un negoziatore in Palestina, Zambon Editore, 2011. Pag.
31.
107
Z. Clot, Op. Cit., pag. 38.
108
Tzipi Livni è membro della Knesset dal 2001. E’ stata Ministro degli Esteri dal 2006 al 2009. Attualmente è
leader del partito Kadima.
57
profughi palestinesi in Israele.109” Ciò naturalmente è in contrasto con il diritto al ritorno che
per molti palestinesi rappresenta un diritto di primaria importanza; per Israele, invece, le
priorità sono necessariamente altre, come la sicurezza e la protezione del proprio popolo. Per
questo, tra le richieste che vengono avanzate durante gli incontri diplomatici, c’è quella che il
futuro Stato palestinese sia completamente smilitarizzato.
Facile presagire l’insuccesso dell’operazione: “è un dialogo tra sordi110”, racconta Clot. A
tutto questo bisogna aggiungere le pressioni continue dell’amministrazione Bush sui membri
dell’OLP e su Fatah affinchè trovino al più presto un accordo con Israele; dall’altro lato, però,
non viene fatta nessuna pressione su Israele affinchè cessi la colonizzazione in Cisgiordania.
L’arrivo di Obama non cambia certo le cose: è proprio poco prima della sua entrata alla Casa
Bianca che si svolge Operazione Piombo Fuso. Clot arriva così ad affermare la frase titolo del
suo libro: “Non ci sarà uno Stato palestinese”. Dopo Piombo Fuso non solo Clot, ma la
maggior parte dei palestinesi abbandona le speranze nella riuscita di un accordo diplomatico.
“La Palestina e Israele hanno un destino tragico in comune. Ho compreso che è
inestricabile111”.
Il secondo testimone oculare è Vittorio Arrigoni, il quale raccoglie in un blog i suoi pensieri,
le sue esperienze giornaliere da Gaza City e Jabaliya durante Piombo Fuso. Nato in provincia
di Monza, fin da giovane egli viaggia lavorando per delle ONG e impegnandosi nel campo
degli aiuti umanitari. Nel 2002 compie il primo viaggio in Israele, a Gerusalemme est, e dal
2003 entra a far parte dell’International Solidarity Movement (ISM)112. Dal 2008 si trasferisce
definitivamente a Gaza, da dove racconta le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia.
Durante Piombo Fuso, quindi, egli è a Gaza: nel suo blog Guerrilla Radio scrive
quotidianamente ciò che accade e ciò ha un’importanza immensa, poiché con la chiusura delle
frontiere ai giornalisti stranieri non viene permesso di entrare a Gaza. “I giornalisti del mondo
sono tutti ammucchiati su una collinetta di sabbia a un paio di chilometri dal confine. Decine
di telecamere puntano verso di voi. Si sentono aerei che sorvolano, ma non si vedono,
109
Z. Clot, Op. Cit., pag. 93.
Z. Clot, Op. Cit., pag. 106.
111
Z. Clot, Op. Cit., pag. 235.
112
L’International Solidarity Movement (ISM) è un’organizzazione, fondata nel 2001, che si propone di
sostenere la causa palestinese nel conflitto con Israele attraverso azioni non violente e proteste pacifiche.
110
58
sembrano solo illusioni mentali finché non si vede il fumo nero salire all’orizzonte.113”
La testimonianza di Arrigoni è certamente da considerare parziale, tuttavia la sua è
un’esperienza degna di essere riportata. Nei suoi interventi sul blog Arrigoni insiste sulla
falsità dell’idea dell’ “operazione chirurgica” mirata solo a colpire le basi di Hamas. “Avete
presente Gaza? Ogni casa è arroccata sull’altra, ciascun edificio è posato sull’altro. Gaza è il
posto al mondo a più alta densità abitativa, per cui se bombardi a diecimila metri di altezza è
inevitabile che tu faccia una strage di civili.114” Sottolinea inoltre la responsabilità del resto
del mondo, che resta silenzioso davanti a ciò che accade: “Il silenzio del mondo civile è molto
più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte115”.
E’ essenziale comprendere che la solidarietà di Arrigoni non va tanto ad Hamas –che anzi lui
personalmente critica- quanto ai civili, vere vittime di Piombo Fuso. Ecco perché, in quanto
membro attivo dell’ISM, decide di passare le sue notti sulle ambulanze per aiutare i soccorsi
nella speranza che la presenza di civili stranieri faccia desistere le IDF dal bombardare i mezzi
ospedalieri. Tuttavia, come si è già precedentemente spiegato, le ambulanze non solo non
vengono risparmiate dagli attacchi dell’esercito israeliano, ma anzi il loro lavoro viene spesso
ostacolato: “I soldati non ci permettono di soccorrere i superstiti di questa immensa catastrofe
innaturale. […] a noi sulle ambulanze della mezzaluna rossa non è concesso avvicinarci, i
soldati ci bersagliano di colpi. Avremmo bisogno della scorta di almeno un’ambulanza della
croce rossa, in coordinamento con i comandi militari israeliani, per poter correre a cercare di
salvare vite: provate a immaginare quanto tempo porterebbe via una procedura del genere.116”
Gli attacchi alle ambulanze vengono giustificati dall’esercito israeliano con l’eventuale
presenza di combattenti di Hamas a bordo, ma è inevitabile che vengano coinvolti anche
medici e paramedici, che non fanno che svolgere il loro lavoro. Il giuramento di Ippocrate che
lo stesso Arrigoni riporta prevede infatti che si curino tutti i pazienti “con eguale scrupolo e
impegno indipendentemente dai sentimenti […] e prescindendo da ogni differenza di razza,
religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica.117” Dunque non è pensabile per
113
V. Arrigoni, Gaza. Restiamo umani. Dicembre 2008- Gennaio 2009, Editore Manifestolibri (collana
Contemporanea), 2009. Pag. 63.
114
V. Arrigoni, Op. Cit., pag. 17.
115
V. Arrigoni, Op. Cit., pag. 20.
116
V. Arrigoni, Op. Cit., pag. 41.
117
V. Arrigoni, Op. Cit., pag. 61.
59
un medico distinguere tra sostenitori di Hamas o di Fatah o semplici civili.
E’ un circolo di odio che non può che generare altro odio, ed è proprio contro questo
sentimento che Arrigoni si scaglia: “Analizzando questi tempi, il futuro pronuncerà la sua
sentenza inappellabile su come l’odio fosse il sentimento più puro, e il livore verso il diverso
muovesse eserciti e fosse il collante di intere masse di uomini.118” Questa frase esprime alla
perfezione il pensiero non violento di Arrigoni e il suo profondo desiderio non di vendetta da
parte dei palestinesi, ma di pace in questo conflitto ultrasessantennale.
OPERAZIONE PIOMBO FUSO: L’ASPETTO MEDIATICO
La guerra mediatica è un elemento non solo non trascurabile, ma decisamente fondamentale
all’interno del conflitto di Piombo Fuso. Nel corso del secolo scorso i media hanno, infatti,
acquisito sempre più rilevanza nel garantire l’informazione alle masse e, talvolta, anche a
manipolarla a proprio piacimento.
La prima volta che si cominciò a percepire il potere dei media fu durante i principali
totalitarismi del novecento: fascismo, nazismo e stalinismo sfruttarono i media per controllare
la popolazione, censurando informazioni scomode119 o attuando un sottile ma efficace lavoro
che mirasse ad una palingenesi fisica e morale120 dei popoli.
Ciononostante, il momento in cui divenne evidente il ruolo dei media anche in una
democrazia fu quando un piccolo oggetto entrò nella maggior parte delle case: la televisione.
La televisione rendeva possibile qualcosa che prima era impensabile: vedere con i propri
occhi ciò che accadeva nel resto del mondo. Per quanto esistessero già i giornali e le radio,
nessuno di questi due mezzi di comunicazione aveva questo immenso potere. Non è difficile
comprendere l’effetto che può avere sul cittadino la trasmissione di immagini, ad esempio di
guerra.
118
V. Arrigoni, Op. Cit., pag. 74.
Si pensi ad esempio alle veline durante il fascismo.
120
A questo proposito, il cinema si rivelò un valido alleato per imprimere facilmente messaggi politici nella
mente degli spettatori.
119
60
Tale effetto è stato dirompente durante la guerra in Vietnam, quando le immagini dei
bombardamenti statunitensi venivano trasmesse in tutte le televisioni del mondo, comprese
quelle americane. Ciò ha creato un dissenso interno sempre più forte verso il governo che
portava avanti quel conflitto con costi umani decisamente troppo elevati. Perciò gli Stati Uniti
si son trovati a fronteggiare una guerra in Vietnam e una rivoluzione civile nel loro stesso
Paese.
Da questo momento in poi si è capito che “le immagini televisive e i commenti che le
accompagnano sono parte integrante, non accessoria, dei conflitti, e dei conflitti asimmetrici
soprattutto: è da essi che dipende lo spostamento […] dell’orientamento delle opinioni
pubbliche delle democrazie occidentali121”.
Il potere dei media si accentua nei conflitti asimmetrici poiché è in questi che il numero delle
vittime non è assolutamente comparabile tra una parte e l’altra; asimmetrico significa infatti
che uno dei due nemici è militarmente molto più forte dell’altro. Per questo il più debole ha la
possibilità di sfruttare i media per screditare l’altro: più sono le vittime civili, più è possibile
che i media mostrandole facciano schierare la comunità internazionale contro l’esercito
nemico.
Sono in tanti a sostenere che anche Hamas abbia giocato questa carta durante Piombo Fuso.
Angelo Panebianco, per esempio, scrive su Il Corriere della Sera: “usare i civili come scudi
era per Hamas una necessità di guerra, il solo modo per tentare di ottenere una pressione
internazionale tale da fermare Israele122”.
La stessa decisione di Israele di chiudere la Striscia in modo che i giornalisti non potessero
entrarvi dimostra come si volesse evitare di dare la possibilità ad Hamas di usare le vittime
civili come arma mediatica.
Naturalmente, qualcuno è riuscito a farsi testimone di questo momento così drammatico.
Mentre quasi tutti i giornalisti occidentali rimanevano bloccati fuori dalla Striscia, riuscendo a
inquadrare solo delle bombe esplodere e del fumo nero alzarsi verso il cielo, molti giornalisti
residenti nella Striscia han potuto documentare Piombo Fuso dall’interno.
Se la copertura del conflitto da parte dei media occidentali si assomigliava e coincideva più o
121
122
A. Panebianco, “I Media come Arma”, in Il Corriere della Sera, 18 gennaio 2009.
Ibidem.
61
meno con ciò appena descritto, i media arabi non hanno documentato Piombo Fuso tutti allo
stesso modo. La maggiore differenza si è vista tra Al Jazeera123 e Al Arabiya124.
La prima ha mostrato immagini molto crude della strage di civili, condannando in maniera più
o meno esplicita l’intera operazione. Il capo delle notizie di Al Jazeera Ahmed Sheikh ha così
commentato la loro visione di Piombo Fuso: “La nostra copertura era più vicina alla gente Noi
non siamo neutrali quando si tratta di persone innocenti uccise in questo modo. La camera
inquadra ciò che accade nella realtà e la realtà non può essere neutrale. […] L’obiettivo di
documentare qualsiasi guerra è rivelare le atrocità che vengono commesse125”.
Al Jazeera non ha quindi risparmiato nulla ai suoi telespettatori, insistendo sui cadaveri e le
ferite delle vittime per creare uno shock negli spettatori e invitarli a prendere posizione.
Al Arabiya, invece, ha sempre mantenuto una linea più moderata, rifiutandosi per esempio di
usare la parola shahid126 per le vittime palestinesi. “Apparteniamo a due diverse scuole di
informazione televisiva nel mondo arabo. C’è una scuola che crede che i media abbiano una
scaletta del giorno sulla quale lavorare per ragioni politiche e ideologiche, come Al Jazeera.
Noi siamo nella scuola che crede che bisogna garantire la conoscenza attraverso il flusso
continuo di notizie senza però essere influenzati e cercando sempre di essere il più possibile
bilanciati127”.
Due metodi completamente diversi sono stati dunque adottati anche all’interno del mondo
arabo; va tuttavia aggiunto che Al Jazeera era l’unica emittente con reporter internazionali
all’interno di Gaza fino alla fine di Piombo Fuso.
Ciononostante, la copertura di Al Jazeera in arabo si è distinta da quella di Al Jazeera English,
pensata per essere vista da un pubblico internazionale. Se la prima abbiamo visto che non
risparmiava nulla agli spettatori, la seconda era più pacata, scevra delle emozioni che
risultavano invece evidenti nel network in lingua araba. Ad esempio, la parola shahid non
123
Al Jazeera è un’emittente televisiva fondata nel 1996 in lingua araba e nel 2006 in lingua inglese. La sua sede
è nel Qatar, ed è stata infatti fondata dall’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa Al Thani. Egli desiderava dare
maggiore importanza al suo Stato, facendolo diventare uno dei più influenti centri culturali della regione araba.
124
Al Arabiya è la principale rivale di Al Jazeera. Fondata nel 2003 con finanziamenti statunitensi, libanesi,
dell’Arabia Saudita e del Kuwait, essa si dedica interamente a notiziari e programmi di attualità. La sua sede
principale è a Dubai.
125
L. Pintak, “Gaza: of media wars and borderless journalism”, in Arab Media and Society, reperibile su
www.arabmediasociety.com, gennaio 2009. Pag. 3.
126
La parola shahid significa letteralmente testimone, ma viene spesso tradotto anche come martire. Lo shahid è
colui che manifesta la propria fede islamica arrivando a togliersi la vita.
127
L. Pintak, Op. Cit., pag. 3.
62
veniva mai usata e il titolo usato per l’intera copertura era “Guerra su Gaza”: su, non in. La
solidarietà era più verso i civili che verso Hamas, la condanna verso Israele meno evidente e
veniva mostrato anche l’impatto dei missili di Hamas sui cittadini israeliani.
Non è comunque una novità di Al Jazeera creare più versioni dello stesso canale a seconda del
tipo di spettatori che lo guarderanno. La CNN, per esempio, ha una variante per gli Stati Uniti
–domestic- e una per il resto del mondo –international. Durante Piombo Fuso nella CNN
domestica prevalevano dei commenti a favore delle azioni di Israele, come se la sofferenza
fosse uguale da entrambe le parti e, comunque, “gli Arabi meritassero ciò che stava
capitando 128 ”. Sul canale internazionale quest’idea però non trapelava in maniera così
esplicita: ci si concentrava invece sulle devastazioni prodotte dal conflitto nella Striscia.
Immagini, queste, che il cittadino americano non aveva alcun modo di vedere, così come il
cittadino israeliano. “I nostri media ci nascondono sistematicamente la sofferenza a Gaza, e
c’è solo un’opinione presente negli studi televisivi- quella dell’esercito129” ha commentato
Gideon Levy, giornalista israeliano.
128
129
L. Pintak, Op. Cit., pag. 1.
L. Pintak, Op. Cit., pag. 2.
63
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