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Resti del passato, fondamenta del futuro.
Storia
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ORIGINE DI MAENZA
Una lapide antica di circa 2000 anni, inserita nel muro adiacente alla Chiesa di
S. Eleuterio, sta a testimoniare l'antica civiltà del territorio sul quale si
estende Maenza.
Il nostro paese, alto 360 m. sul livello del mare, domina un vasto orizzonte,
posto com'è ai contrafforti dei Monti Lepini, con lo sguardo si può arrivare
fino al mare e spaziare su buona parte della pianura Pontina.
Stabilire la data di nascita del paese e la derivazione del nome non è un
problema di facile soluzione. In origine il territorio fu occupato da una
ramificazione della gente Volsca, quindi il borgo di pastori e contadini si
rafforzò sempre di più, sia per la posizione occupata, facile a difendersi, sia
per gli abbondanti pascoli, che favorivano la sua economia pastorizia, pur
continuando a gravitare nell'orbita di Pipernum, considerata la Capitale dei
Volsci.
Maenza era dunque nel periodo più antico uno dei tanti villaggi che
sorgevano su alture e dove in origine le abitazioni erano delle umili capanne
coperte di paglia, com’è possibile vederne ancora nelle campagne, allora
difese da terrapieni e palizzate.
Infatti «Nel Lazio, via battuta dagli invasori e conquistatori, la forma
frequentissima di stanziamento delle popolazioni fu a villaggi. I risultati degli
scavi e soprattutto i tipi vascolari hanno dimostrato l'esistenza nel Lazio di
uno strato di popolazioni, le quali possedevano una civiltà in tutto simile a
quella dei terramaricoli, popolazioni delle quali si trovarono tracce anche nel
Sud del Lazio, nel paese dei Volsci, nell'antica Satricum. (1)
II popolo Volsco, ancor prima della fondazione di Roma, aveva raggiunto un
alto grado di civiltà, e solo dopo 15 accanite guerre contro i romani, che
durarono circa due secoli, fu sottomesso. La caparbietà con la quale i Volsci
difesero la propria indipendenza fece scrivere a un grande storico romano:
«Parvero dal destino destinati a tenere il soldato romano eternamente in
esercizio». (2)
D'altra parte bisognava considerare che il territorio dei Volsci controllava e
limitava l'espansione romana verso il sud, mentre i fertili campi di grano
erano un bisogno vitale per Roma.
Più vicino nel tempo, quando nell'850 d.C. Pipernum fu distrutto dai barbari,
la sua popolazione si frantumò e parte formò il nucleo della nuova città,
mentre i rimasti rafforzarono i luoghi vicini, tra i quali era Magentia.
Uno storico della zona così scrive di Maenza e dei paesi vicini: «Ancora si
scorgono imponenti resti dell’antica città distrutta, prove sicurissime della
grandezza e imponenza di quella, ma non potendo tutti i cittadini di quella
stabilirsi entro le mura della nuova città, alcuni fondarono Roccagorga, altri
Asprano, altri Maenza, altri Perseo, altri il Forte della Croce, altri Sonnino e
quei castelli che divennero famosi, i quali, tuttavia, sottomessi nel giorno di S.
Pietro, pagano a Priverno un tributo annuale». (3)
Questo tributo, a riconoscimento della loro origine, pagato dai cittadini dei
vari paesi a Priverno, fu causa di continue liti. Più tardi le invasioni litoranee
dei pirati e la malaria spingeranno le popolazioni delle cittadine costiere dalla
pianura ai paesi della montagna. Così dai castelli fortificati baroni audaci e
guerrieri dominano la pianura e la rocca diventa il naturale centro di vita degli
abitanti che vi si raccolgono intorno.
Quella di Maenza, a pianta quadrata, sicuro rifugio nei momenti di pericolo,
più volte distrutta e sempre ricostruita, rimane il simbolo della tenace volontà
della gente che vi dimorò.
Il nome del paese è fatto derivare da alcuni dal leggendario eroe Magentio, il
Mezentius di origine etrusca, che fu costretto ad allontanarsi dalla patria Cére
e che è ricordato nel libro X dell'Eneide, dove combatté come alleato di turno
contro Enea.
A nostro parere il nome di Magentia si può trarre anche da una radice Mag
(crescere, essere forte), che, unita a Gens, vuole significare popolazione che
cresce, gente forte.
Storia
ORIGINE DI MAENZA
Un'ultima ipotesi sulla derivazione del nome e fondazione del paese
potrebbe essere che un qualche signore germanico, al quale potrebbe farsi
risalire la fondazione del Castello, abbia voluto ricordare la città di Maenza,
posta nei pressi di Francoforte sul Meno: Mainz.
Notevole è il contrasto tra il Gregorovius, che fa derivare la fondazione del
castello di Maenza e di tutti quelli della zona Volsca dagli invasori che
s’insediano nel territorio occupato e quindi il nome potrebbe giusta¬mente
derivare da Mainz, e il Contatore, il quale li vede originarsi solo dalla
popolazione che si disperde in seguito alla distruzione di Pipernum.
Considerato Pipernum capitale dei Volsci, una capitale non può nascere e
vivere isolata, quindi la comunità di pastori e guerrieri doveva prosperare
sulle alture che meglio potevano essere a un tempo, difese e collegate con la
capitale, e di esse si devono necessariamente tener conto parlando
dell'origine dei molti castelli e paesi della nostra zona, tra i quali Maenza.
Ci sembra, tuttavia, che nonostante la derivazione antichissima della nostra
gente si può ragionevolmente supporre che la trasformazione di villaggi
fortificati in cittadine risalga ai primi dell'800.
Posto lo sviluppo del paese nell'800 circa con il passaggio da semplice nucleo
fortificato a cittadina, consideriamo come si presenta Maenza in questa sua
prima espansione.
Nella parte centrale dell'abitato acquista una propria fisionomia che rimarrà
inalterata attraverso i secoli; adotta inoltre un modo di costruire che ripeterà
ogni volta che dovrà estendersi.
Il castello risulta, per evidenti ragioni di difesa, isolato dalle altre costruzioni.
Un grande campo, eventuale piazza d'armi, si estende dove si trova l'attuale
chiesa dedicata a S. Maria Assunta in cielo.
Cattedrale del paese è la chiesa di San Giacomo, che per molti secoli rimarrà il
principale tempio del culto.
Il paese ha solo da una parte completamente chiuso da mura; l'altra parte è
difesa da abitazioni che guardano l'esterno, costruite una appoggiata all'altra
in modo da formare come un solido muro continuo; l'imbocco dei vicoli è
sbarrato da potenti porte sormontate da archi sui quali è ugualmente
costruito, com’è evidente, camminando lungo le strade del paese.
Accadeva così, in caso d’invasione, che ogni rione o via poteva costituire
altrettante sacche di resistenza che il nemico doveva espugnare prima di
arrivare al castello. L'abitato, in questo primo periodo, comprendeva: il
castello, l'ancora esistente chiesa di S. Giacomo e il gruppo di case, racchiuso
nelle attuali Via del Duomo, Via Colorito, Via dell'Oca e Via San Giacomo,
mentre Corso d'Italia o Via Maiuni (4) può essere considerata come la via fuori
le mura, la prima circonvallazione del paese.
Le vie d'accesso, come quella che porta alla chiesa di San Giacomo sono molto
strette, in modo da essere più facile da difendere. Del resto l'aspetto esterno
è cambiato poco attraverso i secoli e si presenta in una struttura unitaria,
dove gli archi che permettevano di chiudere il vicolo con porte, i balconi, i
davanzali e le scalinate in pietra si estendono dal castello alla Via della
Villanza, seguendo il ritmo di un'ondata costruttiva di stile unico attraverso i
tempi.
Il paese è collegato in questo periodo con la Strada Madonna dei Martiri a
Privemo, mentre con un’altra strada Madonna le Grazie, si può raggiungere
Montacuto oppure deviare verso Asprano o Roccagorga.
Il territorio si presenta in modo diverso dall'attuale: folti boschi ricoprono i
monti e la grande vallata, uniti dai larghi pascoli; le sorgenti più ricche d'acqua
e non ancora imbrigliate sono i naturali affluenti dell’Amaseno.
Il clima è molto più umido e piovoso e la fauna è rappresentata dal lupo, dal
cinghiale, dall'aquila e da altre innumerevoli specie che in seguito andarono
gradualmente riducendosi per scomparire a volte del tutto.
IPOTESI SULLA FORTIFICAZIONE DEL CASTELLO DI MAENZA NEL SECOLO XV
CARTA TOPOGRAFICA CON LE QUATTRO FASI DI SVILUPPO URBANISTICO
LE STRADE SONO INDICATE CON IL NOME ATTUALE
MAPPA DELL'ATTUALE CENTRO STORICO
PROSPETTI DEMOGRAFICI
II primo censimento, di cui vi è notizia storicamente certa, riguardante il nostro comune, è quello ordinato da Papa Alessandro VII
nell'anno 1656 per lo Stato Pontificio.
Fu compiuto il giorno di Pasqua dai parroci, i quali contavano i componenti di ciascuna famiglia che doveva poi pagare allo Stato la
somma di 75 baiocchi, il cosiddetto focatico. Avendo il censimento un fine puramente fiscale, in esso non erano compresi i
bambini al di sotto dei tre anni e gli ecclesiastici. Per tutto lo Stato Pontificio la popolazione fu di 1.800.184 abitanti. Maenza
denuncia in questo primo censimento abitanti 965. La nostra gente, aggiunti i bambini e gli ecclesiastici, superava di poco i mille
abitanti.
Da questo periodo vi è tuttavia un graduale aumento della popolazione fino ad un'improvvisa diminu-zione dell'anno 1736. Di tale
fenomeno cosi ne parla uno studioso:«Tutte le città accusano un forte aumento di popolazione, viceversa Priverno, e specie
Maenza, hanno subito una fortissima diminuzione di ben 1180 anime complessivamente, vale a dire che la popolazione si è ridota
di circa un terzo. Ignoro le cause di questo fatto: forse bisogna escludere una recrudescenza della infezione malarica che si sarebbe
manifestata, come è ovvio, anche in altri paesi della zona.
Probabilmente qualche epidemia, per esempio di tifo, vaiolo o scarlattina, può avervi imperversato menando strage tra la
popolazione, come spesso avveniva in un passato non molto remoto».
Cosi, pur essendovi un graduale aumento della popolazione, vi sono oscillazioni negative dovute a morbi di carattere endemico e
qualche volta più estesi come la «spagnola» del 1918. La malaria stessa colpì, nei periodi di massima espansione i Maentini, anche
se non con lo stesso effetto dei paesi che si trovavano in immediato contatto con la pianura.
Dai dati statistici si nota come, pur essendovi un incremento delle nascite, non vi è aumento degli abitanti per l'emigrazione di
alcune famiglie che si spostano per lo più da Maenza alla pianura pontina ed in particolare modo a Latina naturale centro di
emigrazione interna per noi. L'industria con la dinamica, che le è propria, ha agevolmente superato i redditi della nostra
tradizionale agricoltura ed il contadino anche se a malincuore ha accettato di trasformarsi in manovale. Così la pianura pontina,
con le sue industrie rimane la terra promessa, alla quale molti nostri concittadini cercano di arrivare.
I «Salvus conductus» rilasciati, secondo la legge emanata nel 1402 da Bonifacio IV per agevolare i pastori che, dagli Appennini
discendevano alla campagna romana, rimangono ancora il simbolo di questa perenne spinta dalla montagna alla pianura, subita
dalla popo-lazione montana e che, attraverso i secoli, si rinnova per fattori diversi, ma sempre con netta prevalenza di quello
economico.
Storia
I SIGNORI DI MAENZA
I CONTI DI CECCANO - LA FAMIGLIA CHE DOMINÒ MAENZA DAL 1123 AL 1436
II presente percorre la strada che il passato ha tracciato
spesso attraverso dure esperienze di popoli.
Per comprendere non solo i grandi avvenimenti ma anche
la vita quotidiana del servo della gleba che ritrova la dignità
del cittadino, del figlio che non è più legato al mestiere del
padre, dell'uomo che riacquista l'onore di difendere con le
armi il proprio territorio, è necessario riportarci con la
mente all’organizzazione feudale della società e
considerare la grande importanza delle famiglie che
dominavano il paese.
II grande storico Gregorovius parlando dei Conti di
Ceccano, che ebbero sotto il proprio dominio anche
Maenza, li considera di origine tedesca. Scrive, infatti:
«Nei Monti Volsci primeggia dinastia antichissima della
contrada la casa dei Conti Ceccano che, per ricchezza e
dignità, era nella chiesa tenuta in gran conto. Quei signori si
erano fatti potenti, prima ancora che sorgessero in fiore i
Colonna.
LO STATO DELLA CHIESA
Maenza, in questo periodo sapientemente amministrata
da un ramo dei Conti da Ceccano, e ben difesa, sviluppa la
sua economia divenendo ricca di vigneti, di oliveti, di
grano.
I cavalli (5), portati nel periodo estivo a pascolare nelle
piccole valli interne dei monti, appositamente disboscate,
cese (6), sono la più rinomata ricchezza del luogo.
Un fatto molto grave, accaduto nel settembre del 1123 al
confine di Maenza con Priverno, sconvolge la vita del
paese.
Un familiare pontificio, di nome Crescenzio, forse
incaricato dal Papa di riscuotere i tributi dovuti dal nostro
feudatario, è assassinato ai confini del feudo e rapinato di
quanto porta con sé. Il Papa Callisto non ritiene il Signore di
Maenza responsabile del fatto; muove immediatamente
un esercito contro il paese che è occupato con la forza e,
dopo un sommario processo, fa decapitare il barone sulla
piazza antistante al castello. (7)
L'uccisione di Crescenzio era però solo il sintomo del
diffuso malumore dei feudatari della zona che
probabilmente ritenevano troppo oneroso il tributo da
versare a Roma. Infatti, dopo breve tempo, i paesi della
campagna e della marittima si sollevano ancora in armi e il
nuovo esercito inviato da Onorio riduce all'obbedienza i
feudatari ribelli rioccupando, tra gli altri paesi, anche
Maenza.
I Baroni, amanti dell'indipendenza fino all'anarchia,
abituati alle lotte e alla rapinosa violenza, mal volentieri
accettavano la supremazia di Roma, che, faticosamente e
con la forza, cercava di costituire a unità territoriale lo Stato
Pontificio.
Le frequenti ribellioni a Roma erano, infatti, dovute non
tanto al tributo da versar, quanto alla limitazione del potere
che baroni e conti subivano man mano che l'unità spirituale
diventava anche unità politica. Essi, infatti, miravano a
limitare di fatto il potere del papato, in modo da detenere
l'iniziativa e il controllo della condotta degli affari dello
stato ed un aperto predominio nella vita amministrativa e
nella società. In tal modo, potenti come forza anarchica e
sovversiva, i feudatari non si presentavano quasi per niente
come elementi di stabilizzazione di un qualsiasi
ordinamento politico che non fosse quello da loro creato
con precari e instabili equilibri di forze.
Col tempo, imponendosi il potere della chiesa, si trasformò
gradualmente la struttura del feudo e il nuovo feudatario
non badò più come prima al riconoscimento del suo
dominio fondiario e alla riscossione delle imposte, ma
s’interessò sempre più alle attività economiche locali e
assunse la moderna figura del proprietario terriero. Solo
più tardi si creò nelle campagne una borghesia agraria che
assorbì definitivamente il sistema feudale.
Lo Stato Pontificio, di cui fece sempre parte Maenza, risale
all'epoca Longobarda e la nostra popolazione ne seguì
attraverso i secoli la sorte.
GRANDE ESTENSIONE DEL FEUDO DI MAENZA SOTTO BERARDO I
DAL 1204 AL 1254
La potente famiglia del Conti di Ceccano, nel periodo del suo massimo
splendore, riunì sotto il dominio dei suoi discendenti Maenza, Roccagorga,
Aspranum, Prossedi, Carpinete, Anagni, Giuliano, Cacumen, Montacuto e
altri paesi ancora. (8)
Capaci guerrieri e saggi amministratori dei loro beni costruirono un
complesso di feudi ricchi, popolosi e, quando riunirono le loro forze,
armarono dei veri e propri eserciti. Più volte invasero Roma e quando scesero
in aiuto dei Colonna contro gli Orsini la saccheggiarono. Infatti, nelle
frequenti rivolte che sconvolgevano la capitale i Colonna ebbero valido aiuto
dai Maentini.
Berardo I ebbe sotto di sé Maenza, Roccagorga, Prossedi e Asprano. Risiedeva
abitualmente nel nostro paese al centro dei suoi territori ed è proprio in
questo periodo che la nostra cittadina ha un forte incremento demografico
che porta la necessità di estendere l'abitato lungo l'attuale Via Cesare Battisti.
Siamo, infatti, in epoca di grande vitalità e i paesi della montagna straripano,
ancora una volta, verso la pianura e viceversa; ciò si ripeterà più volte
attraverso i secoli avendo come causa determinante i periodi di naturale
diminuzione o recrudescenza della malaria, che rendeva la palude quasi
abitabile. E' in questo periodo che si forma la comunità religiosa di Fossanova.
I monaci, esperti bonificatori, guadagnano la coltura di nuovi terreni,
eseguendo spesso ardite opere idrauliche.
La nostra stessa vallata, sotto la spinta demografica, è completamente
bonificata; estesi boschi scompaiono e, si cominciano a coltivare addirittura
le valli interne dei monti. I resti di una chiesa, quasi scomparsa, sul monte S.
Martino, in località Tre Pozzi, devono probabilmente ricollegarsi a questo
periodo storico.
CONFISCA DI MAENZA - DAL 1296 AL 1297
Le lotte violente, che così spesso sconvolsero Roma per la sanguinosa rivalità
tra Orsini e Colonna, si riaccesero improvvise nel 1298 e la campagna romana
subì ancora una volta il movimento degli armati che accorrevano a sostenere
il partito amico.
A Roma era allora Papa l'energico Bonifacio VIII, il quale, sostenuto dagli
Orsini, non solo fiaccò i Colonna, ma colpì duramente chi li aveva aiutati,
confiscando il feudo di Maenza a Landolfo e affidandolo prima a Guglielmo e
Riccardo di Ceccano, poi, con bolla 28 maggio 1300, lo passò direttamente
sotto il dominio del Cardinale Matteo Rossi Orsini, che, per levare ai Maentini
ogni volontà e forza d'insorgere ancora contro Roma, mandò un legato, la cui
principale preoccupazione fu di gravare di tasse i sottoposti.
Fortuna volle che il Papa Benedetto XI, agli inizi del 1304, restituisse il feudo ai
Conti di Ceccano, dopo formale atto di sottomissione da parte di questi.
Questa confisca di Maenza e successiva restituzione deve essere vista nella
sconfitta subita dai Colonna, i quali ebbero distrutti i feudi di Palestrina e
Zagarolo e scomunicati Giacomo e Pietro Colonna, ai quali fu tolta la porpora
cardinalizia.
Accorta politica di Giacomo I nel tempestoso periodo del trasferimento della
Santa Sede in Francia e divisione del Feudo agli eredi.
Il papato, in modo diretto e indiretto, fa sentire la sua influenza su tutti i
tenitori che circondano Roma, spesso intervenendo come arbitro nelle lotte e
appoggiando il parere con la forza delle armi, se questa fosse richiesta.
Quando però fu eletto il pontefice Clemente V, francese, che trasferì la Santa
Sede dall'Italia, lacerata da discordie interne, ad Avignone, mancò l'azione
moderatrice, che partiva da Roma. Fu Gregorio XI, dopo circa settanta anni a
ritornare in Roma il 17 gennaio 1377.
Durante l'assenza dei papi le potenti famiglie dei Colonna e degli Orsini
combatterono accanitamente tra loro, coinvolgendo nella guerra la capitale e
i paesi vicini. Giacomo I, in questo periodo Signore di Maenza, non rimase
fuori della lotta ed anche i nostri territori furono travolti dall'incendio che
correva sui territori pontifici. (9)
Giacomo I morì nell'anno 1363 all'età di 64 anni e chiese nel testamento dì
essere sepolto a Maenza in una cappella della chiesa di San Giacomo.
Giacomo I può essere, considerato senz'altro come uno dei più grandi
rappresentanti del ramo dei Conti di Ceccano, che a Maenza regna per
quattro secoli circa.
Il solido feudo che, con saggia politica aveva portato allo splendore più
fiorente, è diviso alla sua morte.
Dal testamento si apprende infatti, che istituisce eredi le figlie: Cecca,
Costanza, Bella, Pema, Giovanna, Rita.
Perna, che si trasferisce a Ceccano, ottiene anche metà del territorio di
Maenza; a Giovanna, moglie di Guglielmo Savelli di Roma, spetta in eredità il
castello di Montacuto, dove abita in maniera saltuaria con la famiglia.
Maenza, rimane alla più piccola delle figlie, Rita, che, nel 1384 lascia il feudo al
figlio Raimondello. Questo in sei anni di accanito lavoro, rinnova il castello ed
essendo aumentata la popolazione allarga nuovamente il paese, costruendo
una nuova cinta muraria, che si estende lungo Via dei Villici. La cittadina
acquista in questo periodo la sua struttura definitiva. Questa magnifica opera
di Raimondo è ben descritta in una lapide, posta all'ingresso del castello.
Questo Signore conclude degnamente la dinastia della famiglia su Maenza,
che dall’anno 1436 diventa feudo dei Caetani.
Il modo stesso in cui era organizzata la società del tempo fa sì che
inevitabilmente la storia del paese s’identifichi spesso con le vicende delle
grandi famiglie che lo rappresentano e non è quindi da meravigliarsi se,
facendo la storia di Maenza vediamo snodarla lungo il cammino percorso dai
suoi dominatori. (10)
Storia
MONTE ACUTO
Una notizia storica molto interessante su Montacuto risale alla data del 5
aprile 1224, quando Giovanni, Conte di Ceccano, nel fare testamento, lasciò
erede della maggior parte dei suoi beni il figlio Landolfo.
Il documento dice che tra l'altro «in primis reliquimus Landolfo figlio nostro
castrum vide licet Ceccanum, Amariam, Patricam, Cacumen, Montem
Acutum».
Montacuto è quindi ereditato da Landolfo (1224-1264) insieme con altri
castelli.
Questa rocca, con a fianco un piccolo ospedale e leggermente discostata dalla
chiesa dedicata a San Luca, era posta in posizione strategica a controllare il
passaggio obbligato tra due vallate, nei pressi della sorgente principale della
zona che, oltre a fornire l'acqua al castello e al piccolo ospedale, dava
possibilità ai cavalli di abbeverarsi scendendo dagli alti pascoli.
Annibaldo I succede a Berardo quale Signore di Maenza nel 1254 e dopo 10
anni eredita Montacuto, che unisce al suo feudo.
Montacuto nel suo complesso costituiva un tipico esempio di «rocca»
medioevale. Ora dell'antico abitato non rimangono che le mura perimetrali,
ben conservate, e sparsi resti di case, dai quali si può agevolmente ricostruire
il complesso che per lungo tempo prosperò aggrappato alla cima dello
scosceso monte.
Il castello di Montacuto, durato alcuni secoli, riuscì ad amalgamare intorno a
sé un gruppo abbastanza omogeneo di popolazione e a creare un dialetto che
almeno in parte si differenziava da quello della pur vicina Maenza. Tale
fenomeno si deve anche ricondurre all'influenza dei Vallecorsani, che si
stabilirono sul posto
Ora dei potenti Signori che vi dominarono e che scendevano in furia con i loro
armati a depredare o a difendersi, alleati e a volte nemici dei Maentini, non
rimane che l'eco degli illustri nomi e sui muri del castello, già così pieno di vita
operosa, cresce il fico selvatico, che smuove e spezza la pietra, e corre la
capra, che il pastore richiama con voce gutturale e antica.
Ruderi di Monte Acuto
Storia
I SIGNORI DI MAENZA: I CAETANI
Avvolte nella leggenda sono le origini di
questa grande famiglia. Secondo la
tradizione più accreditata trae origine dai
Consoli o Duchi di Gaeta del secolo IX. La
genealogia documentata comincia però dal
secolo XII. Vi sono i rami di Napoli, Pisa,
Roma, Anagni, dai quali derivano i Caetani di
Maenza, che s’imparentano con la famiglia
Conti di Roma e acquistano importanza con
Bonifacio V (1294-1303). Alessandro VI nel
1499 cercò di sterminare i Caetani di
Sermoneta, di cui confiscò i beni dandoli a
Lucrezia Borgia. Con Bolla «Romana Pontificis Providentia» Giulio
reintegra i Caetani nei beni.
Dal 1530 il ramo di questa famiglia, al quale appartenevano anche i Signori
di Maenza, adotta il nome di Caetani invece di Gaetani.
I Caetani, con la forza delle armi, dell'oro e della chiesa, subito realizzano
con Pietro II l’unificazione dì gran parte dei feudi della Marittima e della
Campagna e creano così una serie di possedimenti, che si estende da S.
Felice Circeo a Carpineto, Montelanico e Segni. Il traffico, che corre verso il
Sud, è sotto il loro diretto controllo con il dominio da una parte dei Lepini,
dell'Appia e della Strada consolare che si svolge tra le pendici dei monti,
mentre sull'altro versante, nella valle del Sacco e lungo il tracciato della
Casilina, i loro feudi sono posti in posizione strategica.
Bonifacio V, con Bolla «docum specta Sedis» del 10 febbraio 1303, ratificò
in favore di Pietro Caetani tutti gli acquisti fatti e da farsi nella Marittima e
nella Campagna. Nella stessa bolla sono elencati inoltre diciannove feudi
già in possesso dei Caetani.
TRUPPE DI MAENZA INVADONO ROMA - NUOVA CONFISCA
DEL FEUDO
Una famiglia numerosa, che si rivelerà insofferente dell’autorità paterna,
toccò in sorte a Francesco III, che sposato a Margherita de Cabannis, ebbe
sette figli: Raimondo, capostipite, Iacobello, Giovanni, Cristoforo, Taddea,
Giovannella, Araguasia.
Francesco, uomo d'azione, duro verso se stesso e gli altri, amante delle armi,
si schierò concretamente a favore dei Colonna, seguendo in ciò la tradizione
di coloro che l'avevano preceduto a Maenza. Infatti, il 23 aprile del 1431,
radunò gli armati del feudo di Maenza e insieme al fratello Ruggero, che aveva
raccolto truppe di feudatari amici e partigiani di Antonio Colonna, occupò
Roma. La spedizione riuscì felicemente.
Francesco non dovette però guardarsi solo dai nemici esterni nel difendere il
suo territorio, che comprendeva Maenza, Roccagorga e Sermoneta.
Nell'anno 1453 ebbe, infatti, una sgradita sorpresa dall'inquieto figlio
Iacobello, che insoddisfatto di San Lorenzo, (11) avuto in dono dalla Madre, e
confederatosi con il Conte Onorato di Fondi, il quale gli prestò alcuni uomini
per l'impresa, con azione militare rapida e improvvisa, tolse al padre Maenza
e Roccagorga.
La pace sarà fatta in famiglia solo tre anni dopo. Francesco II, accorto politico
oltre che guerriero, difenderà i suoi tenitori con la diplomazia e, divenuto
amico del Papa Callisto III, otterrà nel 1455 una riduzione dei tributi dovuti da
Maenza allo Stato Pontificio.
Il figlio maggiore, Raimondo, è per un certo periodo uomo d'arme di re
Ferdinando d'Aragona. Alla morte del padre visse, però stabilmente a Maenza
e dispose nel suo testamento di essere sepolto in una cappella della chiesa di
S. Antonio in Piazza Santa Reparata; ciò avvenne il 18 aprile 1504.
Un grave pericolo fu passato da Raimondo, quando l'allora Papa Alessandro
VI, seguendo la politica di espansione e di prestigio che aveva imposto alla sua
gente, cercò di sterminare i Caetani, confiscando contemporaneamente
Maenza, Roccagorga e Norma nell’anno 1499. Il feudo, passata la bufera dei
Borgia, fu restituito con atto di giustizia da Giulio II a Raimondo nel 1503.
CONGIURE, SACCHEGGIO DI MAENZA DA PARTE DI GIOVANNI MEDICI DALLE BANDE NERE
Un periodo di lotte interne convulso e travagliato si abbatte ora su Maenza
costringendo i suoi abitanti a rimanere continuamente in armi.
Una prima congiura per impadronirsi di Sermoneta è tentata dai Maentini nel
1515, quando un certo Francesco Colamatti tratta con Ercole Nigri, sergente
della fortezza, che aveva in «custodia« le chiavi di una porta del castello di
Sermoneta. Il Nigri riferisce al suo capo il complotto e questo primo tentativo
cade nel nulla come quello compiuto due anni dopo.
L'inimicizia, che corre tra i signori di Maenza e quelli di Sermoneta, si acuisce
ancora di più quando Prospero Colonna nel 1519 induce i Caetani di Maenza a
brandire le armi contro Guglielmo e suo figlio Camillo per ucciderli e
impadronirsi della fortezza di Sermoneta.
La guerra corre così ancora una volta tra le due famiglie con risultati alterni e
brevi periodi di pace. Divampa quando Camillo chiede a Francesco Caetani di
Maenza di pagare certi denari che gli doveva il fratello Pietro. Francesco
risponde che suo fratello è un gentiluomo e che pagherà il debito tornando
dall'Inghilterra, dove si trova con il Cardinale Carafa.
La risposta non soddisfa Cammillo, che fa catturare un branco di porci di
Francesco, facendoli poi vendere a Bassiano. L'affronto spinge Francesco a
chiedere aiuto a Prospero Colonna, che invia 150 uomini armati, i quali nella
notte tra il 7-8 novembre 1520 si riuniscono a Roccagorga aspettando l'arrivo
dei Maentini. Questa truppa, attraverso la Semprevisa, invade Bassiano
saccheggiandola. Gli armati sono guidati da Onorato Caetani di Maenza,
assistito dal fratello Francesco e da Giovanni. Da Sermoneta giungono a sera i
rinforzi per la cittadina che sta subendo il saccheggio e gli invasori sono
costretti a ritirarsi. Cammillo risponde immediatamente all'insulto,
rivolgendosi per aiuto al cugino cardinale Farnese, che prega Leone X di
mandare lo strenuo condottiero Giovanni Medici dalle Bande Nere con un
esercito contro i ribelli di Maenza, Roccagorga e Norma, che sono quindi
occupate e saccheggiate.
Ne segue un lungo processo nel tentativo di stabilire di chi è la colpa della
guerra intercorsa tra i due paesi e si giunge infine a un accordo nel 1522, per
cui i Caetani di Maenza rinunciano a qualsiasi pretesa sulle terre di Cammillo
di Sermoneta.
Onorato ritorna a Maenza nel 1522 e, nel periodo di pace che segue, riordina
il territorio riparando i guasti apportati dal saccheggio. Ma, come Iacobello
brigò contro il padre, così ora un fratello insorge contro Onorato per
prendergli il feudo. Di notte Nicolo si accampa a Maenza, l'invade e cerca di
impadronirsi del castello. Onorato, con un'azione rapida quanto spietata,
riunisce gli armati, piomba sugli oppressori disperdendoli e, nella mischia
rimane ucciso il fratello. Siamo nella primavera del 1532.
Un Raimondo, nipote del precedente, nel sec. XVI restaurò la rocca di
Maenza; lo attesta l'iscrizione incisa sull'architrave della porta interna:
«RAIMUNDUS CAETANI HANC ARCEM RESTITUIT RAIMONDO CAETANI
RESTAURO’ QUESTA FORTEZZA».
E' l'ultima testimonianza che questa grande famiglia lascia sul castello di
Maenza.
Il testamento di Raimondo Caetani, redatto nel 1504, fu scritto e sottoscritto
da un notaio di Maenza: «Nicolaus Tutii Parrini de Magentia, imperiali
auctoritate notarius scripti et signum meum opposui».
Nell'anno 1597 il feudo, venduto dai Caetani, passò agli Aldobrandini e
precisamente a Giovanni Francesco Aldobrandini.
Dagli Aldobrandini castello e terreni passarono al Segretariato di Stato,
Ministro degli Interni, Cardinale Antonelli. Questi, ben conoscendo la
situazione degli abitanti della zona infatti la sua famiglia era di Sonnino, con
un provvedimento eccezionale finanziò a spese dello Stato tutti coloro che
volevano impiantare nuovi oliveti oppure volevano migliorare quelli esistenti.
Dopo il Cardinale Antonelli il feudo passò ai Conti Pecci di Carpineto, il cui più
grande rappresentante fu Gioacchino Pecci, Papa Leone XIII che soggiornò
più volte a Maenza.
In seguito la storica costruzione ed annesse terre furono del Commendatore
Èrcole Micozzi.
Attualmente il complesso dei terreni è stato frazionato e venduto a più
proprietari, mentre il castello è stato acquistato dall'Amministrazione
Provinciale di Latina.
Storia
ORIGINE DI MAENZA
Alcuni affreschi di incerta datazione sono in una sala inferiore del castello e
potrebbero ancora essere salvati da un'accurata opera di restauro. Stemmi
sono ritratti in una grande sala superiore. Sopra, uno degli stemmi è scritto:
“AQUILA REGNABIT, REGNABUNT SIDERA, DRAGO CONIUNCTUM IMPERIUM
CUM IOVE PAULUS HABET”.
Su di un gran camino, nello stesso salone, è riportato lo stemma degli
Aldobrandini con la scritta: “SIDERA SEMPER ERUNT SIDERA SEMPER IDEM”
Ma la lapide più bella è certamente quella in caratteri gotici, posta in alto,
all'ingresso del castello e che dice : “MILLE SUIS VICIBUS TRECENTOS
FRUGIFER ANNOSNONAGINTA VAGO RENOVAVERAT ORDINE TYTAN ARX
TUA DUM VALIDIS CINGERAT MOENIA MURIS FELIX RAYMUNDUS CECHANI
SCENA COLENDUM CLARA DEDIT GENITRIX GENEROSO PATRE CABANUS
EMINET ALTA SUIS FORMOSA MAGENTIA CAMPIS DANT OLEUM COLLES
CEREREM BACCHUMQUE VALLES”.
(II titano fruttifero (il sole) aveva rinnovato in vago ordine trecento novanta
anni con mille sue veci (giri) allorché ebbe cinto la terra con salde mura il felice
Raimondo Cabani. Lo partorì da un padre generoso, un'illustre genitrice,
rampollo onorando di Ceccano. Maenza alta si aderge sui propri campi danno
olio e frumento i colli e vino le valli.)
Il castello con frequenza si inserisce nella storia del paese, anche se la storia di
un piccolo centro è spesso ripercorsa ed intesa solo attraverso le sue
leggende, come quasi sempre inevitabilmente avviene per la memoria
popolare, che ricorda più facilmente le grandi calamità o le gesta eccezionali,
dimenticando quegli elementi che entrano a far parte della vita quotidiana.
Forse per tale ragione nessuna importanza attribuisce la nostra popolazione a
quel castello all'ombra del quale la maggioranza di essa è cresciuta.
Comunque la rocca, per tutta l'antica vita del paese, rappresentò il centro e
l'anima, ed è per questo motivo che è stata in queste pagine così spesso
ricordata.
Così le mura, che cingevano il paese, le porte e gli archi, disposti con sapienza
a chiudere l'entrata dei vicoli, in modo da poter dividere il paese in tanti
compartimenti stagno, in caso d'invasione, il complesso di difese, creato
intorno al castello per respingere i sempre frequenti attacchi dei nemici nel
turbolento periodo del Medioevo, non fu in seguito demolito ma fu
conservato per difendersi da nuovi e temibili nemici: i briganti!
Lapide scritta in caratteri gotici posta all’ingresso del castello
IL BRIGANTAGGIO
I BRIGANTI
«...cappellaccio a punta,
fazzoletto al collo e carabina
... era la loro divisa»
II brigantaggio, pur non essendo un fenomeno esclusivo del nostro paese, si
manifestò anzi su scala nazionale, deve tuttavia essere inserito nella storia di
Maenza per il profondo turbamento che portò nel vivere della nostra gente,
come risulta dai leggendari racconti che ad essi si riferiscono ed a fatti storici.
La società libera e ribelle dei castelli Medioevali e dei Comuni si inserisce
infine e rimane assorbita nello schema politico più vasto dello Stato
Pontificio. I territori, già dominati con la forza degli eserciti, sono ormai
unificati.
Nella Pasqua del 1656 si ha il primo vero censimento della popolazione:
Maenza conta 965 abitanti. Il paese fa parte dello Stato Pontificio, confina con
il Regno di Napoli, del quale vede le montagne, che arrivano sull'abitato di
Sonnino; e questa vicinanza ad una frontiera crea una delle condizioni per
l'affermazione di un nuovo fenomeno sociale: il brigantaggio.
Infatti chi, per un qualsiasi motivo, aveva dei conti da regolare con la giustizia
del proprio paese, varcava i confini; il sistema più facile per vivere era
diventare brigante. Altre volte il brigantaggio era una reazione a qualche
sopruso ricevuto, oppure, come durante la dominazione francese, era di
origine politica.
Abilissimi nel maneggiare le rozze armi che avevano, si riunirono in bande.
Imponevano di solito una taglia agli abitanti più facoltosi, si limitavano a
chiedere viveri ai pastori, ma, quando vollero raffermare il loro dominio,
basato sulla paura che potevano incutere, diedero luogo ad atti di grande
ferocia. Così quando dovevano chiedere il riscatto di una persona,
mandavano ai familiari un orecchio della vittima, significando che se non
avessero avuto il denaro nel tempo stabilito, la seconda volta avrebbero
mandato la testa, e ciò accadeva regolarmente.
Sonnino(12), Maenza, Carpinete, Prossedi, Roccagorga erano infestati dai
briganti.
Un episodio di brigantaggio, che ancora si ricorda nel nostro paese, è quello di
un bambino rapito sulla strada della Madonna delle Grazie e quindi portato
sul Monte S. Martino in attesa del riscatto.
Più sanguinosa fu l'incursione compiuta contro il farmacista di
Maenza, Cesaroni: in pieno giorno i briganti si presentarono alla
farmacia, posta dove una volta era il bar del sig. Amilcare Cochi
(proprio a fianco di una delle porte del paese, che veniva chiusa
solo a sera) e fecero fuoco sul proprietario della farmacia,
uccidendolo. Un signore presente, Forcinella Augusto, si salvò per
la presenza di spirito che ebbe nel nascondersi dentro un bigoncio
che si trovava sul posto.
Dopo questa azione, ritirandosi, i briganti spararono contro un
macellaio di nome Ranellucci Ludovico, ferendolo gravemente.
Una brutta avventura a lieto fine fu invece quella capitata ad un
Maentino, catturato dal brigante Masserone a Terracina ; «Erano
restati, dopo incredibili peripezie tre soli seminaristi in mano al
bandito, che dette ordine al suo subalterno, Pietro Paolo di Rita, di
ammazzarli; ma questi ne risparmiò uno, Tommaso Fasani di
Maenza, che gli aveva insegnato a leggere nei periodi di riposo tra
le fughe». (13)
II rapimento della moglie di Barbacini di Maenza, dette luogo ad
una vera e propria battaglia: l'incontro, accaduto tra il nostro
territorio e Maenza nell'atto che tenevano nelle mani la moglie di
Barbacini, ce ne porge una prova troppo chiara. I briganti erano in
una valle (Valle Minuta) cucinando una vitella; tenevano tre donne
in arresto con loro.
Sono incontrati da una compagnia di bersaglieri, soldati cacciatori,
in un numero di 17-18 eguale ai briganti; si spararono centotrenta
archibugiate senza cavare un pelo né dall'una né dall'altra
parte.(14)
Gasperone riuscì infatti a portare via le persone sequestrate a
Prossedi.
Vuole la tradizione che Piazza Coperta sia stata costruita per quelle
persone, che arrivando in paese quando le porte erano già chiuse,
potevano così passare la notte al riparo dalle intemperie.
Scomparsi i briganti, le porte che chiudevano il paese furono
abbattute e per raggiungere più liberamente i campi vennero
praticati nelle mura della cittadina dei passaggi chiamati: i buci.
I Buci
AGOSTO 1837: IL COLERA SI ABBATTE SU MAENZA
Un dramma, che ancora una volta sconvolse la vita della nostra gente, fu
quello del colera, che spazzò il paese nell'agosto del 1837.
Il piccolo ospedale allora esistente fuori porta, nella attuale casa del Sig. De
Santis Pietro, la prima a destra imboccando la salita che da Piazza S. Reparata
porta a Ferro di Cavallo, servì per ricoverarvi i primi malati, nel tentativo,
dimostratosi vano, di circoscrivere l'epidemia; ma ben presto tutto il paese fu
colpito. Una lapide, che fino a pochi anni fa poteva leggersi sul fronte di tale
casa, diceva: «questo ospedale non gode più di immunità». Si riferiva,
ovviamente, all'immunità per la quale chiunque, perseguitato dalla legge, si
fosse rifugiato in luogo sacro, non poteva essere portato via con la violenza.
Riguardo l'epidemia che colpì in questo periodo Maenza non vi sono dati
statistici, ma è certo che la percentuale delle persone colpite fu molto alta,
data la particolare violenza del morbo. Si pensi che il colera nella sola Roma
mietette undicimila vittime su un totale di 150.000 abitanti, quanti ne
contava la capitale in quel momento. Il nostro paese aveva 1.700 abitanti.
Per vari secoli il pericolo del colera fu uno dei più gravi malanni che potesse
minacciare il paese, ciò anche per le scarse risorse igieniche. L'organizzazione
del paese cercava di fronteggiare tale evenienza, e spesso si preferiva
ricorrere ai soldati.
In caso di emergenza un consiglio straordinario si riuniva a Piazza Coperta e
potevano parteciparvi tutti coloro che pagavano il focatico, cioè tutti i capi
famiglia; ma, a volte, si ritenne più opportuno ridurre tale partecipazione a
quaranta persone estratte a sorte. (15)
LA RIVOLTA DEL MARZO 1911
Nella primavera del 1911 il popolo si sollevò a Maenza e fu necessario un
plotone dell'esercito giunto da Roma per riportare l'ordine; mentre il sindaco
in carica Celestino Boria fu costretto a dimettersi con tutto il Consiglio
Comunale. Durante i disordini vi fu un tentativo, non riuscito, d'incendiare il
Comune ed alcuni dimostranti finirono per essere incriminati e subirono un
lungo processo presso il tribunale di Frosinone. La causa apparente di tutto
l'accaduto furono le dimissioni presentate dal medico condotto O. Del Duca,
molto ben voluto dalla popolazione; in realtà il paese era già da tempo diviso
in due fazioni e le dimissioni del medicò furono il pretesto abilmente sfruttato
dagli oppositori del sindaco per sollevare la piazza. (16)
Un'importante documentazione che fa rivivere giorno per giorno i clamorosi
fatti del marzo 1911 a Maenza, è data da una serie di articoli apparsi su alcuni
giornali dell'epoca e che riportano con immediatezza le vicende.
«Abbiamo da Maenza che sono giunti colà da Frosinone il procuratore del re e il giudice istruttore
con altri carabinieri ed il capitano comandante di quella compagnia. I tenuti disordini per ieri sera, al
ritorno cioè dei pastori in paese, non si sono fortunatamente verificati. Le autorità si sono insediate
al municipio per incominciare l'istruttoria sui fatti già accennati.
Alle dieci e mezzo sono giunti da Roma la compagnia di truppa ed il commissariato dì P.S. Ripandelli, il
quale dirigerà il servizio di P.S. insieme al delegato Grippo. Appena da Piperno la truppa giungerà a
Maenza si procederà agli arresti dei principali responsabili della rivolta. Gli arrestati verranno
trasportati subito nelle carceri mandamentali di Piperno».
Apprendiamo ancora dai giornali alcuni nominativi di coloro che parteciparono alla rivolta; Macci
Gaudenzio, Coco Pietro Paolo, Boni Venterio, Cacciotti Antonio, Salvagni Domenico, Soprani
Giuseppe, Temili Salvatore, Ranellucci Pasquale, Santarelli Domitilla, Terilli Renato, Cipriani
Ferdinando, Carboni Gervasio, Polidori Giuseppe, Taggi Rocco, Bove Alessandro.
Il processo, che circa un anno dopo si tenne a Frosinone, vide assolti tutti coloro che erano stati
imputati.
Il 17 marzo le truppe partono da Maenza e nel paese ormai tranquillo rimane solo un piccolo rinforzo
di carabinieri.
Il Comune di cui si minacciò l'incendio era posto sopra la chiesa di S. Antonio in Via C. Battisti e Pilluni.
Né vi era la possibilità di combattere la malattiacon qualche efficace medicina. Alcuni vecchi
ricordano che la cura più seguita era mangiare cipolle ed aglio con abbondanti bevute di vino, e
sembra in effetti che fosse la cura più efficace contro il male.
Molti ricordano lo stato di abbandono in cui cadde tutto il territorio. Il parroco passava per le strade
suonando il campanello per avvertire della sua presenza e dare a chi ne avesse avuto bisogno gli
estremi conforti.
Le autorità locali si trovarono in difficoltà e per mantenere in funzione i servizi pubblici fu chiesto ed
ottenuto l'intervento dell'esercito.
Passò infine la tempesta ed il paese riprese a vivere, ma le profonde ferite cagionate dalla guerra e
dall'epidemia tardarono a rimarginare
I SIGNORI DI MAENZA
LA FAMIGLIA PECCI A MAENZA
Nella cronistoria di Maenza incontriamo per la prima volta il nome Pecci agli inizi
del 1600 cioè circa un secolo e mezzo dopo che un ramo di questa famiglia da
Siena si era trasferito nella vicina Carpinete Romano. In quel tempo una certa
Loreta Angiusti (o Giusti) di Maenza andò sposa di Pasquale Pecci di Carpineta.
Da questo matrimonio nacquero otto figli, dei quali uno intraprese la carriera
ecclesiastica e divenne arciprete di Maenza: D. Antonio Pecci, già noto per aver
tentato di appropriarsi del beneficio della chiesa di S. Reparata Vergine e
Martire.
Non molto tempo dopo una Anna Maria Pecci sposerà un Angiusti, nipote di
Loreta.
Ma la presenza di questa famiglia diverrà arbitrale per Maenza soltanto verso la
fine del 1700, quando a « Ludovico Pecci », padre di Leone XIII, eletto colonnello
delle milizie baronali (titolo quasi ereditario nella famiglia), verrà affidato
l'incarico di mantenere la sicurezza e l'ordine pubblico nelle terre di Maenza,
Carpinete e Gavignano ». (17)
Tale incarico lo poneva alle dirette dipendenze della famiglia AldobrandiniBorghese, proprietaria delle suddette terre.
Inoltre il 1 giugno del 1790 veniva eletto consigliere comunale di Maenza e il 28
settembre 1794 gli furono dati due aiutanti maggiori: Pietro Boria per i soldati a
piedi di Maenza e Carlo Cima per la milizia di Carpineto.
Tutti questi Uffici e l'avvenuto acquisto del castello baronale e della proprietà
Aldobrandini-Borghese portarono l'in-tero casato Pecci ad aver attenzione della
terra di Maenza.
Ludovico Pecci moriva l'anno 1836, all'età di soli 59 anni lasciando sette figli di
cui il penultimo, Vincenzo Gioacchino, sarà il Papa Leone XIII.
L'amministrazione della terra di Maenza passò nelle mani del figlio
(secondogenito), Giovanni Battista Pecci, il quale consolidò la proprietà, arricchì
il paese di una nuova chiesa, curò anche l'amministrazione comunale. (18).
Morto Giovanni Battista l'amministrazione della proprietà passò al Conte
Riccardo Pecci, il quale nel 1886 aveva contratto matrimonio con la
nobildonna Maria Maddalena dei Conti Vincenti-Mareri di Rieti. Fu lui ad
attuare un grande desiderio di Papa Leone XIII cioè l'educandato per ragazze
di « civile condizione » e a portare a Maenza un momento di giovanile
notorietà. Fu quello il momento più luminoso della famiglia Pecci a Maenza.
Infatti, con la morte del Conte Riccardo, la proprietà passa
al figlio, conte Stanislao Pecci, che l'amministra anche a nome delle sorelle,
Gabriella ed Agnese Pecci marchesa Canali (di Rieti).
I tempi erano cambiati di molto e le nuove ondate di giusti contenuti sociali
frantumavano ogni paternalismo economico; le classi delle armi e dei titoli
nobiliari lasciavano il posto, anche nei piccoli centri, alla nuova forza
borghese.
E così, l'anno 1930 addì 28 febbraio, il Conte Ricardo Pecci, Gabriella Pecci ed
Agnese Pecci, marchesa Canali,
«vendono... cedono e perpetuamente alienano a favore del Comm. Rag.
Ercole Micozzi » quasi tutti i loro beni, situati nel Comune di Maenza e di
Priverno, per la somma di lire 625 mila. Recentemente tutta la proprietà è
stata posta in vendita in regime fallimentare, passando nelle mani di privati
cittadini, mentre il castello baronale è stato acquistato dall'amministrazione
provinciale di Latina.
LEONE XIII A MAENZA
Ludovico Pecci si era sposato con Anna Maria
Prospero Buzi di Cori e dal loro matrimonio
nacquero sette figli, di cui cinque maschi e
due femmine. Al penultimo dei maschi, nato
il 2 marzo 1810, gli fu imposto il nome
Vincenzo Gioacchino, che sarà il futuro Papa.
Gioacchino nasceva in un clima familiare
particolarmente adatto alla vita clericale,
non soltanto perché tra i suoi antenati si
annoveravano molti prelati, suore e religiosi
(19), ma anche perché il padre era colonnello
dello Stato Pontificio.
Fin dai prima anni egli veniva portato,
durante la buona stagione, nella terra di
Maenza, dove, oltre le proprietà terriere, i
Pecci possedevano una lussuosa abitazione,
come già citato, con giardino ed acque
zampillanti e un villino di campagna assai
comodo e confortevole. Talvolta ciò non
avveniva perché le strade e la stessa Maenza
erano dominate da pericolosi briganti.
Fattosi più grande, sarà lui stesso a
raggiungere Maenza e le sue vallate,
circondate da alti monti, sia per fare
escursioni, sia per cavalcare e sia per andare
a caccia.
Così un giorno scriveva scherzosamente al
fratello Carlo: « Giocondo più che non
crediate mi riesce questo soggiorno di
Maenza con sì brillanti giornate. Poiché,
mentre voi vi giacete nelle minute
quisquiglie di Carpineto, io mi diverto andare
alla vigna ed alle nostre possessioni... Ieri ne
andai a Roccagorga, domani ne andrò a
Piperno, ecc. - Liberi finalmente dì ogni
timore che incutere ci poteva dianzi quel
forsennato Gasbarrone... che ora da terribile
leone è di un tratto divenuto pacifico agnello
» (pag. 386). (20)
Possiamo aggiungere un' altro brano di
lettera scritta sempre al fratello Carlo
residente in Carpinete e datata 13 ottobre
1812: « Quassù (a Maenza) voi lo sapete,
giornali non ne arrivano. Spero dunque che
voi mi farete il piacere di mandarmene e che
per giunta mi scriverete dicendomi qualche
cosa del Portogallo... »
Ormai la mente del futuro Pontefice
i n co m i n c i a a d a s s u m e re p ro b l e m i
economico-sociale di dimensioni intenazionali e Maenza doveva essergli particolarmente adatta per le grandi concezioni
che poi saranno delineate nella miliare
enciclica «Rerum Novarum».
Da questi ricordi d'infanzia e da queste
esperienze giovanili magentine egli ne
riporterà graditi e nostalgici ricordi sì che un
giorno, passando davanti al verdissimo e
ripido Monte Matarese, che era stato mèta
delle sue escursioni, esclamò, quasi con
rimpianto: « Bel Matarese, quante volte t'ho
salito ed ammirato! » (21)
Gioacchino Pecci: Papa LEONE XIII