Cucine di Romagna, Pozzetto - estratto

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Cucine di Romagna, Pozzetto - estratto
cucine del territorio
“cucine del territorio”
volumi già pubblicati:
La cucina abruzzese dei trabocchi, di Maria Teresa Olivieri
La cucina ampezzana, di Rachele Padovan
La cucina aretina, di Guido Gianni
La cucina bresciana, di Marino Marini
La cucina dei Genovesi, di Paolo Lingua
La cucina della Terra di Bari, di Luigi Sada
La cucina delle Murge, di Maria Pignatelli Ferrante
La cucina del Piemonte collinare e vignaiolo, di Giovanni Goria
La cucina ferrarese, di M.A. Iori Galluzzi, N. Iori, M. Jannotta
La cucina fiorentina, di Aldo Santini
La cucina istriana, di Mady Fast
La cucina livornese, di Aldo Santini
La cucina maremmana, di Aldo Santini
La cucina modenese, di Sandro Bellei
La cucina padovana, di Giuseppe Maffioli
La cucina picena, di Beatrice Muzi e Allan Evans
La cucina reggiana, di M. A. Iori Galluzzi, N. Iori
La cucina trapanese e delle isole, di Giacomo Pilati e Alba Allotta
La cucina trevigiana, di Giuseppe Maffioli
La cucina vicentina, di Giovanni Capnist e Anna Capnist Dolcetta
Le cucine di Parma, di Marino Marini
Mangiare triestino, di Mady Fast
Graziano Pozzetto
Le cucine
di Romagna
Prefazione di Tonino Guerra
Consulenza storica di Piero Meldini
Le cucine di Romagna
di Graziano Pozzetto
Tutti i diritti sono riservati
Giugno 2013
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Largo Giacomo Matteotti 1
Castel Gandolfo (RM)
Indice
Prefazione di Tonino Guerra XVII
Un montanaro XVII
La Romagna XVIII
I romagnoli XVIII
Il dialetto XIX
L’identità XIX
Osservazioni ai romagnoli XX
Quella riga lunga e blu – Il mare di Tonino Guerra XXI
Dediche dell’autore XXIII
Introduzione 1
Storia e letteratura 5
Nota storica sulla cucina romagnola del prof. Piero Meldini 5
Nota bibliografica 13
Saggio storico-letterario del prof. Alberto Capatti 14
La scoperta e l’invenzione della Romagna 14
L’Artusi 18
Dopo il 1911 23
Cucina romagnola, cucina nazionale 25
Ricordanze e memorie di cibo 27
I mangiari della memoria del poeta Tonino Guerra 27
Le minestre della mamma di Tonino Guerra 29
VI
le cucine di romagna
Le ricordanze di Tino Babini: viaggio nella memoria
della gastronomia di Russi 36
Il viaggio a casa di Giulio Ricci detto Juli 36
Lunedì 37
La sera del lunedì 39
Martedì 39
La sera del martedì 41
Mercoledì 41
La sera di mercoledì 43
Giovedì 44
Venerdì 44
La cena di venerdì 45
Sabato 45
La sera del sabato 47
Domenica 47
La sera della domenica 48
Riflessioni finali 48
La grande tradizione dei brodetti di mare nelle marinerie
romagnole 49
Brodetti della costa romagnola 52
Escursus storico dei brodetti romagnoli 53
La cucina marinara
(secondo lo storico Piero Meldini) 57
Riflessioni sul brodetto di Piero Meldini 59
Altre brevi riflessioni di Michele Marziani e Piero Meldini 60
Il contributo di Gino Pilandri 61
Il contributo di Alfio Troncossi 66
La testimonianza di Leo Maltoni sulla grande tradizione dei
brodetti di Cesenatico 72
indiceVII
E’ brudett (il brodetto) di Giuseppe Valentini 74
Le specialità romagnole nella testimonianza della Guida
Gastronomica del TCI anno 1931 83
Provincia di Forlì 85
Provincia di Ravenna 88
Riflessione finale del sottoscritto 90
Le minestre tradizionali e povere 91
Le minestre con le rane 110
Miti e passioncelle gastronomiche dei vecchi romagnoli 113
Il buon brodo della domenica 113
I paganelli (ghiozzi) 115
Gli “uomini nudi” 118
I gamberi di fiume e d’acqua dolce 120
Il grasso suino 129
L’asparagina selvatica e l’asparago dei boschi 130
Stridoli o strigoli 133
I rosolacci 136
Il raperonzolo 137
La vitalba 138
Le uova sode delle osterie 139
I lupini 139
La “forma” 141
Il Trebbiano della fiamma 145
Una grande storia romagnola 151
Gli oli eccellenti di “Brisighella” D.O.P. (denominazione di
origine protetta) 151
Schede degli oli di Brisighella 154
“Brisighella” D.O.P. biologico 154
“Brisighella” D.O.P. 155
VIII
le cucine di romagna
Brisighella D.O.P. “Brisighello” 156
“Nobildrupa” 157
“Orfanello” 158
“Pieve-Tho” 159
La grande cucina con gli oli di “Brisighella” D.O.P. 159
1980 161
1981 162
Ezio Santin, Chef titolare della “Antica Osteria del Ponte” di
Cassinetta di Lugagnano (MI) 162
Antonio Casadio dell’Hotel “La Meridiana” di Brisighella
(RA) 162
1982 163
Silvana e Franco Colombani della “Locanda del Sole del 1464” in
Maleo (Mi) 163
Tarcisio Raccagni del Ristorante “Gigiolé” in Brisighella (Ra) 164
1983 164
Dino Boscarato della “Trattoria dall’Amelia” in Mestre (Ve) 164
Gino Baruzzi del Ristorante “Tre Colli” in Brisighella (Ra) 165
1984 165
G. F. Bolognesi del Ristorante “La Frasca” in Castrocaro Terme
(Fc) 165
Guerriero del Ristorante “Trattoria Bolognese” in Brisighella
(Ra) 166
1987 167
Paolo Teverini del Ristorante “Paolo Teverini” in Bagno di
Romagna (FC) 167
Antonio Casadio dell’Osteria con uso cucina “La Grotta” in
Brisighella (Ra) 167
1988 168
Igles Corelli del Ristorante “Il Trigabolo” in Argenta (Fe) 168
indiceIX
Vincenzo Camerucci dell’Osteria “La Grotta” in Brisighella
(Ra) 169
1989 169
Gino Angelini del Ristorante “Le Colonne” Grande Hotel Des
Bains in Riccione (RN) 169
Tarcisio Raccagni del Ristorante “Gigiolé” in Brisighella (Ra) 170
1990 171
Marina Garramone della “Locanda della Colonna” Tossignano
(BO) 171
Gualtero Marchesi del Ristorante di Via Bonvesin de la Riva, 9
Milano 172
1991 173
“Da Guido” Ristorante, Piazza Re Umberto I – Costigliole d’Asti
– Asti 173
Valentino Marcattilii del Ristorante “San Domenico”, Imola
(Bo) 174
1992 174
Stefano Bartolini della Trattoria “La Buca”, Cesenatico (Fo) 174
Annie Feolde dell’“Enoteca Pinchiorri”, Firenze 175
1993 176
Alfonso Iaccarino del Ristorante “Don Alfonso 1890”, Sant’Agata
sui due Golfi (Na) 176
Angelo Lancellotti del Ristorante “Lancellotti”, Soliera (Mo) 177
1994 178
Francesco Ricatti del Ristorante “Bacco”, Barletta (Ba) 178
Ristorante “Fini”, Modena (Mo) 178
1995 179
Massimo Ferrari del Ristorante “Al Bersagliere”, Goito (Mn) 179
Pier Luigi Raccagni dell’Osteria “La Grotta”, Brisighella (Ra) 181
1996 181
X
le cucine di romagna
Giuseppina Beglia del Ristorante “Balzi Rossi”, Ventimiglia
(Im) 181
Gianfranco Bolognesi del Ristorante “La Frasca”, Castrocaro Terme
(FC) 182
1997 183
Tarcisio Raccagni dell’Albergo-Ristorante “Gigiolé”, Brisighella
(Ra) 183
Piatto medioevale, per circa 4 persone. Ricetta tratta dal testo Le
Viandier di Guillaume Tirel detto Taillevent (1312-1395) 183
1998 183
Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante Gigiolé, Brisighella
(Ra) 183
Piatto medioevale, per circa 4 persone. Ricetta di Anonimo
Toscano tratta da Arte della Cucina di E. Faccioli, ed. il
Polifilo 184
1999 184
Tarcisio Raccagni dell’Albergo-Ristorante “Gigiolé”, Brisighella
(RA) 184
Ricetta medioevale di Anonimo Toscano tratta da Arte della Cucina
di E. Faccioli, ed. Il Polifilo 185
Rielaborazione di Tarcisio Raccagni 185
2000 185
Tarcisio Raccagni dell’Albergo-Ristorante “Gigiolé”, Brisighella
(RA) 185
Ricetta medioevale tratta dal frammento di un libro di cucina
del XIV secolo, citata da O. Guerrini (Stecchetti) in un suo
scritto 186
2001 186
Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella
(RA) 186
Ricetta medioevale tratta dal frammento di un libro di cucina
del XIV secolo, citata da O. Guerrini (Stecchetti) in un suo
scritto 187
2002 187
indiceXI
Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella
(RA) 187
Ricetta medioevale dal Liber de Coquina di anonimo trecentesco
della Corte Angioina. 188
2003 188
Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella
(RA) 188
Ricetta medioevale da Il libro della Cocina di anonimo toscano del
’300. 189
2004 189
Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella
(RA) 189
Ricetta medioevale di Tarcisio Raccagni 190
2005 190
Tarcisio Raccagni dell’Albergo Ristorante “Gigiolè”, Brisighella
(RA) 190
Ricetta medioevale di Tarcisio Raccagni 191
2006 191
Mattia Valzania della Cantina del “Buonsignore”, Brisighella
(RA) 191
2007 191
Andrea Berardi dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi
Alberghieri e della Ristorazione “Pellegrino Artusi”, Riolo Terme
(RA) 191
2008 193
Cugino Nicola Pio dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi
Alberghieri e della Ristorazione “Pellegrino Artusi”, Riolo Terme
(RA) 193
2009 194
Dall’Omo Riccardo dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi
Alberghieri e della Ristorazione “Pellegrino Artusi”, Riolo Terme
(RA) 194
2010 195
XII
le cucine di romagna
Ancarani Sabrina dell’Istituto Professionale di Stato per i Servizi
Alberghieri e della Ristorazione “Pellegrino Artusi”, Riolo Terme
(RA) 195
2011 196
Angelo Randi e Mirko Conti del ristorante “La Grotta”, Brisighella
(RA) 196
Le grandi eccellenze di Romagna: storie artigianali di cibo 199
Premessa 199
Un grande artigiano della carne: Domenico Celli
di Novafeltria (RN) 200
Lombetto colonnato 203
Mandolino del Montefeltro 203
I salumi conservati nelle cera d’api 205
Il salame conservato nella cenere 205
Zampone del Montefeltro 206
Il Cuore di Prosciutto 206
Fiocco di Prosciutto 206
Le Golette 206
Pancette 206
Altri salami 206
Altra norcineria 207
Il bue del Montefeltro 207
I formaggi selezionati, affinati e infossati di Anna e Renato
Brancaleoni di Roncofreddo (FC) 208
Premessa 208
Conclusioni 212
Le eccellenze casearie dei Brancaleoni: 5 formaggi erborinati, il
cerato, il merlino, alle foglie di noce, al fieno, alla cenere 216
I formaggi erborinati 216
Blu del Montefeltro 217
indiceXIII
Blu di San Giovanni 217
Blu Firenze 218
Blu notte 218
Blu di capra 218
Formaggio cerato 219
Merlino 219
Il formaggio alle foglie di noce 220
Il formaggio al fieno 220
Il formaggio nero o alla cenere 221
I formaggi caprini de “Il Pastorello” di Ciola Araldi
di Roncofreddo (FC) 221
Domenico Ghetti di Marzeno di Brisighella (RA), salvatore e
divulgatore dei frutti dimenticati delle Romagne 227
Pesche 228
Mele 229
Pere 229
Albicocche 230
Susine 230
Ciliegie 230
Uve 230
Cachi 231
Sorbe 231
Nespole 231
Azzeruolo 232
Corniola 232
Giuggiola 232
Melagrane 232
Cocomero 232
La frutta secca 232
XIV
le cucine di romagna
Conclusioni 233
Il miele 235
La grande tradizione del miele in Romagna 235
I grandi maestri storici dell’apicoltura romagnola 238
L’apicoltura razionale in Romagna: i fratelli Silvio e Pietro
Gardini 240
La Famiglia Rondinini di Pieve Cesato 242
Tiziano Rondinini 246
Da Albino a Cesare Brusi, una storia che continua 247
Classificazione, tipologie e caratteristiche
dei mieli romagnoli 251
Le caratteristiche dei principali mieli di Romagna 252
Il miele in cucina 256
Introduzione 256
Conservazione 257
Gli abbinamenti gastronomici del miele 257
Il miele in cucina nei secoli 258
Il miele nella Ristorazione professionale e nella cucina italiana 259
Altre istruzioni per l’uso 261
Le ricette al miele dell’antica cucina
della Valmarecchia e del Montefeltro 264
Antipasti 265
Minestre 266
Secondi 268
Dolci 270
Le ricette al miele della cucina medioevale dello chef Tarcisio
Raccagni (“Gigiolè”) di Brisighella 271
Le ricette degli studiosi ricercatori riminesi coordinati da
Antonella Chiadini 274
Ricette romagnole al miele 285
indiceXV
Ricette al miele dei grandi chef professionali romagnoli 291
Le ricette di Igles Corelli 293
Ricette al miele varie 312
Il miele nella tradizione romagnola
secondo Maurizio Matteini Palmerini 317
Miele e bellezza 339
Bibliografia sul miele 340
I vini di Romagna 345
Zone vitivinicole 348
Areale di Castel San Pietro, Toscanella, Dozza e Imola 350
Areale Castel Bolognese-Serra-Riolo Terme 350
Areale Faenza Tebano 350
Areale Brisighella e Fognano 350
Areale Marzeno-Modigliana-Sarna 351
Areale Oriolo dei Fichi-Petrignone-Castrocaro-Vecchiazzano 351
Areale Predappio-Meldola 351
Areale Colinello-Bertinoro-Fratta 351
Areale Cesena-Mondaino-Longiano Borghi-Santarcangelo 351
Areale Covignano-Rimini-Verucchio-Coriano 352
Areale San Clemente-Morciano-San Giovanni in Marignano 352
I vini di Romagna 352
I vitigni autoctoni 357
Le D.O.C in Romagna 358
Romagna Albana D.O.C.G. 358
Romagna D.O.C. 358
Colli d’Imola D.O.C. 361
Colli di Faenza D.O.C. 361
Colli Romagna centrale D.O.C. 362
Colli di Rimini D.O.C. 363
XVI
le cucine di romagna
Bosco Eliceo D.O.C. 364
Vini I.G.T. 364
Postfazione: La settima Romagna 367
Bibliografia 373
Premessa 373
Ringraziamenti 395
Indice dei nomi citati 397
Indice dei ristoranti citati 405
Indice analitico delle ricette 407
Indice alfabetico delle ricette 415
Prefazione
di Tonino Guerra
Dedico queste storie ai contadini, che non hanno abbandonato la
terra, per riempire i nostri occhi di fiori a primavera.
Un montanaro*
Un montanaro quando si è accorto
che stava per morire
ha cominciato a salutare la sua roba.
Agli alberi da legna
che erano sotto la montagna
gli ha detto che dovevano perdonare
se gli aveva rotto le braccia per venderle ai fornai.
Agli alberi da frutto ha cominciato ad accarezzare
le pere, le mele e le susine
che erano cariche di sole.
A tutte le foglie dell’orto: l’insalata
la cipolla e i cavoli,
gli ha dato un’occhiata lunga.
Poi, prima di mettersi a letto
che si sentiva molto stanco, è arrivato a salutare un filo d’acqua,
buona da bere, che sgocciolava da una roccia
come fosse un respiro bagnato
e le ha detto: “Acqua che vai giù
fino a marina saluta il mare
che ho visto una volta soltanto
e mi ha fatto grande impressione
perché da quassù è soltanto
una riga lunga e blu”.
* Traduzione in italiano di una poesia, da Piove sul diluvio, a cura di Ennio Grassi, Pietroneno Capitani Editore, Rimini, 1997.
XVIII
le cucine di romagna
La Romagna
La Romagna non è altro che una parte della regione Emilia e questa
regione è tra le più importanti d’Italia con le sue grandi città ed è
piena di industrie, di attività, di intelligenze.
La Romagna ha un suo carattere particolare. La Romagna ha avuto
una grande generosità e ha sempre avuto un occhio felice e bello per
gli altri, ha saputo difendere gli altri, fare qualche cosa per gli altri.
La Romagna non è una cosa unica: c’è la Romagna bagnata dal mare
e c’è la Romagna a maggio fiorita, stupenda, attorno a Cesena e
quindi le colline…
E ha quelle montagne grandi che da lontano diventano trasparenti.
Respiri un’aria ancora molto salubre e da lassù puoi vedere il mare
che è una riga lunga e blu.
Quindi la Romagna è un posto dove ti senti bene.
L’ha descritta bene anche Carlo Levi nel finale del suo libro sul Sud
dell’Italia, Cristo si è fermato a Eboli.
La Romagna è una terra lavorata dai contadini, è una terra che se la
vedi dall’alto è piena di rettangoli, di zone fiorite, è piena della mano
dell’uomo. Non c’è paesaggio che non senta l’influenza dell’uomo:
questa è la Romagna!
I romagnoli
Il romagnolo mi piace perché, essendo molto sentimentale, lui non
lo vuole dimostrare, e questo lo fa in modo inverso. Ecco, una cosa
che mi piace moltissimo è quando incontri un amico dopo dieci anni
e ti arriva addosso una battuta veramente romagnola, commovente:
“Ma come, sei ancora vivo?”. Questo può far piangere un romagnolo.
Poi ha questi bagliori di vanità grossa, abbiamo questa mania di vantarci di tante cose. Sì, questa quantità di cose il romagnolo ce le ha
ma sono parole, poi nella sostanza ha una sua tenerezza.
Per esempio, se i turisti vengono in Romagna, non vengono certo per
le spiagge indimenticabili romagnole, vengono qui perché c’è un’at-
prefazioneXIX
mosfera familiare giusta, perché il romagnolo ti dice buon giorno
anche se ti vede di traverso. E questo è molto bello!
Parlo spesso di qualità del romagnolo ma anche dei difetti e dico: il
romagnolo legge poco, non ha gusto, anche le donne, anzi soprattutto le donne. Invece devono capire che il viso si può abbellire se
tu ti nutri di più, con la poesia, la lettura, gli occhi diventano più
profondi, questo è il vero maquillage che le donne dovrebbero fare.
Il dialetto
I romagnoli hanno sempre parlato in dialetto.
C’è un sudore dentro le parole in dialetto, c’è una potenza.
Perdendo il dialetto è venuto meno un grande strumento all’umanità
e succederà ancora peggio quando tutti parleranno inglese e l’italiano
sarà un dialetto.
L’identità
La cosa che è più vicina a noi e non ci conosciamo.
Il mio problema non è tanto di conoscere ma di riconoscere e non è
una questione di memoria. Non riconosco più l’uomo: è diventato
un meccanico senza le caratteristiche di una volta. Un tempo le persone avevano addosso dei continenti, quello era inglese, quest’altro
tedesco, quella mia moglie, questa la donna di servizio. Quello era
contadino con un mondo di magia dentro.
Vivevamo addosso ad altri. Adesso siamo delle piantine senza radici
in un terreno deserto.
[La voce di Tonino Guerra è tratta dal video “Via Emilia. Due o tre
cose che so di lei – Tonino Guerra e la Romagna”. A cura di Francesco
Conversano e Nenè Grignaffini. Produzione Movie Movie.
Regione Emilia-Romagna, Provincia di Bologna,
Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna, Rai Educational.]
XX
le cucine di romagna
Osservazioni ai romagnoli
Da spettatore un po’ distaccato e dopo tanti viaggi per il mondo,
trovo che la nostra cucina di oggi si è arroccata attorno a pochi piatti,
che spesso vengono serviti in modo sbrigativo e senza rito.
I locali e in genere i luoghi dell’ospitalità rispecchiano sovente la
testarda cocciutaggine dei romagnoli, efficienti finché si vuole, ma
senza cultura.
Ci si siede, con i piedi sotto la stessa tavola, avendo davanti agli occhi magari delle pareti lucide e plastificate, ma nient’altro che aiuti a
calarti in un’atmosfera di felice intimità.
Come sarebbe bello se i proprietari dei ristoranti viaggiassero per
capire che il loro mestiere è un’arte che va continuamente approfondita.
La cucina romagnola che troviamo in giro non ha i “secondi” (o ne
ha pochissimi) di radice tradizionale.
Quasi quasi consiglierei di mangiare, uno dopo l’altro, alcuni primi
piatti nella speranza di trovarvi, sotto gli occhi, una scodella di pasta
e fagioli e qualcuno dei piatti prediletti di una vita.
Ho voluto parlare di cattive abitudini perché il nostro cuore, ma
anche quello di altri romagnoli, merita di meglio.
Ci sono cose che gridano vendetta alla memoria e alla cultura dei
nostri padri.
Qualche valle romagnola è ancora una terra felice, ove tanti ottantenni e anche novantenni sono nati, qui hanno goduto – pur con
qualche parentesi legata alla Grande guerra – della casa, del paese
natale, del territorio, dei mangiari e dei prodotti della terra romagnola; qui con emozione ripetuta ogni volta – dopo tanta acqua e
aceto – hanno bevuto Sangiovese dal profumo di viola.
Essersi nutriti per decenni, dall’infanzia alla vecchiaia, di pochi piatti, materni, sempre riconoscibili, stagione dopo stagione, ha consentito a tanti di loro di arrivare agli ottanta e novanta anni e oltre.
Più invecchio e più vado cercando – in piccola quantità, per carità – i
cibi e i mangiari poveri di una volta, quando la fame era più fame e
col pane si mangiava anche la fantasia.
prefazioneXXI
Devo ricordare che mio padre e mio fratello più grande erano cultori
del mangiare e io li seguivo a una certa distanza, ero meno coinvolto
dal cibo, tuttavia la natura e la buona fattura di certi piatti preparati
dalla mamma riuscivano a catturarmi più di oggi, ricordandoli e talvolta ritrovandoli, che un tempo.
Quella riga lunga e blu – Il mare di Tonino Guerra
[Dal discorso tenuto da Tonino Guerra in occasione del suo ottantaduesimo compleanno, nel Teatro Vittoria di Pennabilli, il 16 marzo
2002.]
Bisogna rispettare il mistero
quando si ha la fortuna d’incontrarlo
Ho sempre voglia di andar lontano, ovunque ci sia un profilo di favola, un sapore di magia, la dimensione della immensità.
Oggi è bello un viaggio in Russia. Un Paese straordinario che ti regala una incredibile vastità agli occhi e all’anima.
Quella che un tempo poteva dare, a noi qui, solo l’incontro col mare,
quand’io e gli amici Tito Balestra e Federico Moroni andavamo in
bicicletta fino alla riva dell’Adriatico.
In questi anni abbiamo avuto il difetto di togliere l’orizzonte, di cancellare l’infinito dei nostri occhi: non è solo che abbiamo perso un
momento di bellezza, è qualcosa di più, qualcosa forse che non si
comprende neppure fino in fondo.
È probabile infatti che ci siano nella memoria ancora i segni del nostro passato primitivo, e l’incontro col mare è qualcosa di misterioso,
una esperienza ancestrale.
Così per noi, quando da bambini, su carri da bestiame partivamo da
Santarcangelo e, arrivati a Igea, alla vista del mare gridavamo emozionati: “E’ mèr!”, Mentre ci arrivava addosso questo respiro, che si
andava a raccogliere la giù in fondo, scalzi, camminando sulle grandi
foglie verdi d’insalata degli ortolani, che per noi si piegavano dolcemente. E si giungeva vicino all’acqua con un po’ di paura, come se
XXII
le cucine di romagna
dovesse attenderci qualcosa che fa male, o arrivasse qualcuno a portarci via, da un altro mondo… perché di là non si sa cosa c’è.
Poteva capire meglio le avventure di Ulisse il ragazzo di allora, quando vedeva la grandiosità del mare che non riusciva a contenere negli
occhi, e che lo invitava a scoprire il mistero di quello che c’era al di
là, dove si poteva intuire una maestosità così potente da far pensare a
entità diverse, che stanno oltre la natura, all’origine del mondo. Era
il nostro percorso, la nostra esperienza mistica.
Adesso, oltre il cemento, ci sono solo frammenti di quella immensità
così necessaria per costruire favole.
Dediche dell’autore
Con intensa gratitudine a mio padre Pietro, contadino e bovaro tutta
la vita, uomo mite, laborioso, di poche parole. Mandandomi a scuola, in tempi peraltro difficili, con i tanti libri, quotidiani e riviste, di
parole me ne ha fatte incontrare tante. E, senza prediche e coercizione alcuna, mi ha insegnato da che parte stare nella vita.
Ricordo, assieme ad Elisabetta Fagiuoli, con affetto e riconoscenza,
Sergio Muratori di Montenidoli: sì Monte dei nidi, a qualche chilometro da San Gimignano.
Gli sono grato perché, prima di tutti, ma poco prima anche dell’Amico e Maestro Gino Veronelli, mi invitò a indagare e scrivere di
cultura e antropologia gastronomica della mia terra, intuendo forse
in me una certa vocazione e spirito anarchico.
Sergio è stato poeta tutta la vita, partigiano durante la Liberazione,
guida di montagna nel dopoguerra, maestro per anni di ragazzi con
problemi, in una parola patriarca biblico in terra.
A Montenidoli, appena sotto il grande bosco, con in basso il laghetto ove non sono mai mancate le rane (quale segno di purezza ambientale), con Elisabetta è stato protagonista della rinascita di antichi
campi, dedicati alla vite e agli ulivi (erano sepolti dai rovi), creando
superbi ed identitari vini e oli d’oliva di San Gimignano, legati a
una terra classica e rinascimentale, portandoli in giro per il mondo
ai tanti gastronomi innamorati della Toscana senese, che lui ha rappresentato con sapienzialità, lievità dell’anima, eleganza e coerenza,
nonostante i forti e civilissimi sentimenti.
Ricordo con affetto e riconoscenza Tino Babini, di Russi, uno dei
padri della cultura popolare romagnola, altresì memoria storica del
suo territorio, a metà strada tra Ravenna e Faenza.
Lo ricordo con le parole di Claudia Liverani, quale uomo generoso,
di grande impegno sociale e civile, attento studioso delle tradizioni:
da quella musicale orale, con le cante popolari, sacre e non; al dialetto con i proverbi, le filastrocche, gli indovinelli, i modi di dire, le
XXIV
le cucine di romagna
evocazioni; alla cultura gastronomica familiare e territoriale, con pagine di buona letteratura, come quelle riportate nel capitolo dedicato
alle ricordanze e memorie di cibo, che avevo prescelte prima della sua
scomparsa.
Lo nutrì una straordinaria passione e cultura per le campane, delle
quali fu collezionista ed esperto cultore, altresì virtuoso campanaro,
organizzatore di concerti molto partecipati, sia per fini sacri che profani, festosi, come in occasione della Fiera russiana.
Fu fondatore e sostenitore generoso, a partire dall’immediato dopoguerra, di organismi culturali, sociali, sindacali, civili, per la crescita
della sua gente e della Civis.
Aderì giovanissimo all’Idea Socialista, cui restò fedele in assoluta
onestà, disinteresse, coerenza, tutta la vita: tra i fondatori storici
della Camera del Lavoro, organizzatore del collettivo dei braccianti
agricoli, consulente sindacale, e in seguito Consigliere e Assessore
comunale. Fu cittadino a 360 gradi, tollerante e sempre impegnato a
persuadere più che a imporre, più attento a proporre che a criticare,
con estremo rigore e competenza, con una partecipazione personale
fattiva e concreta verso i più deboli, nelle loro gioie e nei loro dolori.
Ai tanti che l’hanno stimato e che hanno usufruito della sua instancabile operosità, lo ricordo assieme al figlio Stefano (che ne continua
l’attività professionale di Consulente del lavoro e Commercialista).
Proprio gli amici di Tino sono grati a Stefano per l’enorme impegno
che ha profuso a favore del padre, rendendogli lievi, proficui (sovente
aperti agli incontri con la sua gente), sereni gli ultimi e lunghi anni
di vita.
Sul piano strettamente personale, Tino (come Tonino Guerra) ha
rappresentato uno dei grandi regali della mia vita, quale prezioso
punto di riferimento culturale. Con Tino ho vissuto tanti orgogliosi
momenti di condivisione, per la sua autorevolezza e per la sapienzialità, che lo hanno caratterizzato.
Per la mia lunga attività di ricercatore e codificatore di cultura gastronomica ed antropologica delle Romagne, Tino ha rappresentato una
discriminante avversa a tante sciatterie, omologazioni, banalizzazioni, mistificazioni, che ancora oggi riescono così facilmente a sedurre
tanta gente e gran parte di una imperante nomenclatura, che poco
ama e apprezza la cultura del suo territorio.
Introduzione
Dopo una decina d’anni (sono già tanti!), riedito con Franco Muzzio,
nella sua rinverdita collana, dedicata alle cucine del territorio, con un
certo orgoglio, in quanto la reputo ancora la più bella, un’isola felice
in un mare di editoria, sovente mediocre e superficiale, inoffensiva e
neutrale o addirittura menefreghista o complice nei confronti delle
omologazioni in genere.
Riedito, dunque, ampiamente rinnovato il volume dedicato alle
Cucine e Prodotti delle Romagne, rigorosamente al plurale. Questa
edizione resta comunque identitaria, ma è diversamente caratterizzata in quanto impostata secondo criteri meno enciclopedici, ma più
selettivi e di approfondimento di certi temi centrali, in parte inediti, maggiormente rappresentativi (anche dell’odierna) della migliore
cultura gastronomica e antropologica della mia terra.
Si tratta di tessere eccellenti e “dorate” di un Mosaico identitario,
legato alla memoria e alla saggezza contadina, altresì artigianale (dei
giorni nostri, legata comunque alla migliore tradizione), della Romagna.
Un patrimonio sempre più vittima di omologazioni devastanti, ineffabili: avverto come insultanti le celebrazioni autoreferenziali di una
certa nomenclatura; le mistificazioni culturali praticate da disinvolti
colleghi; gli sciagurati ed invasivi disciplinari che dovrebbero tutelare
certi prodotti cosiddetti tipici, che continuano ad imperversare ed a
distruggere un’identità che appartiene a tutti i romagnoli; un mercato globale che viene rincorso con le cose peggiori, legittime per carità
ma peggiori, in relazione alla migliore tradizione e alla cultura di
questa terra, strumentalizzando e svilendo ai soli fini di marketing e
di un preteso business (che spesso si realizza alla grande) una cultura
identitaria comune, che non può diventare merce corrente, priva o
carente della nostra cultura.
Se tutte le strade sono legittime e percorribili sul piano commerciale
e mercantile, chiamiamo ogni cosa con il suo nome. Le autentiche
ed eccellenti tipicità, unicità culturali e produttive di questa terra
sono poche e quando sono vere, coerenti e ben tutelate, suscitano
2
le cucine di romagna
orgogliosa condivisione. Per le altre non resta che l’imbarazzo della
vergogna. L’ultima in ordine di tempo è l’IGP concessa alla piadina
nella versione precotta e confezionata, industrialmente, a mio parere
clamorosomamente priva di tipicità e legami con la migliore tradizione, anche se protagonista di un grande business.
L’esercito degli “omologatori” aumenta anno dopo anno, sul carro
dei “vincitori” continuano a salire in tanti: produttori, industriali,
nomenclatura, associazioni, lobbies, consorzi, funzionari incompetenti, pubblicisti di sostegno… È una questione di autorevolezza e
di credibilità, per cui ogni volta che firmo un lavoro di codificazione culturale ed antropologica, ne rivendico il rigore dell’indagine
culturale, storica e letteraria, la fedeltà alle fonti e ai documenti, la
coerenza con la migliore tradizione. Allo scopo mi affido alla consulenza e ai contributi scientifici dei pochi e più autorevoli studiosi, e
verifico maniacalmente l’autenticità dei racconti e delle testimonianze di cibo, il valore esemplare delle storie artigianali che onorano la
Romagna.
In questi dieci anni ho concluso, o quasi, il lavoro di ricerca e di codificazione editoriale, raggiungendo le due dozzine di volumi, equivalenti ad oltre 10000 pagine, complessivamente divenute letteratura
gastronomica di questa terra.
Nel contempo ho proseguito l’enorme e gratuito (o quasi) lavoro di
carattere divulgativo, attraverso la costante media di una cinquantina
di incontri annuali (privilegiando negli ultimi anni Corsi organici
sulla Romagna) condivisi con migliaia e migliaia di cittadini-consumatori-lettori-appassionati della Romagna.
Dopo circa quarant’anni di attività il mio archivio personale conta,
tra l’altro, oltre 2300 incontri culturali e divulgativi. Mai di marketing per carità (che pure reputo importante se proposto come tale),
in quanto mi occupo di cultura e non occupandomi di marketing,
sia privato che para pubblico, mi sono economicamente impoverito. Non mi sento né un incompreso né una vittima, in quanto in
cambio ho realizzato il grande progetto della mia vita. Mi hanno
ripagato non solo la felicità di ogni giorno, i riconoscimenti perseguiti a livello locale e nazionale, la condivisione di tanti romagnoli,
di amici, colleghi studiosi italiani tra i più prestigiosi, ai quali sono
stati regolarmente inviati, di volta in volta, i volumi appena editati.
Nel contempo i “nemici” sono aumentati pur restando una minoranza, non soltanto nel campo degli “omologatori” ma soprattutto
introduzione3
nell’ambito di una certa nomenclatura, che mi considera un’insidia e
mi liquida come “talebano” o “picconatore”. Per loro provo pena! E
provo comunque un dispiacere dell’anima.
Tornando più propriamente al presente volume, provo orgogliosa
condivisione per la consulenza ed i contributi scientifici di studiosi
del calibro di Alberto Capatti e Piero Meldini; ma anche del leader
dei sommelier romagnoli, il Maestro di tanti campioni, Giancarlo
Mondini.
Mi regala felicità assoluta il consueto, gioioso, poetico contributo di
Tonino Guerra, pur postumo, in quanto le sue riflessioni sulla Romagna e la memoria dei piatti della mamma continuano a restare un
patrimonio poetico ed emozionante per tanti.
Altresì le ricordanze di cibo del grande vecchio Tino Babini.
Mi hanno emozionato il viaggio e la ricerca sulla grande tradizione dei brodetti di mare delle Marinerie romagnole; il recupero delle
specialità romagnole in auge ai primi decenni del Novecento, secondo la Guida Gastronomica dell’epoca del Touring Club Italiano,
non senza le preziose considerazioni dei Proff. Massimo Montanari
e Alberto Capatti (rieccolo!). Come mi ha reso felice recuperare la
memoria delle nostre minestre povere di un tempo e quella dei miti
e delle passioncelle gastronomiche dei vecchi romagnoli, che avendo
superato i 71 anni, mi onoro di rappresentare.
In relazione alle eccellenze, leggi “tessere dorate” del Mosaico, ho
dedicato un capitolo alle esperienze sui grandi Oli di oliva di “Brisighella” DOP, corredato da una superba selezione di ricette a tema dei
grandi Chef romagnoli ed italiani.
Ho dedicato altresì un capitolone ad un’altra straordinaria eccellenza
di Romagna, sulla quale manca tanta consapevolezza culturale da
parte di tanti, il miele, sviluppando la cultura gastronomica specifica
attraverso tante informazioni e ricette a tema, e particolarmente il
contributo e la sapienza di due Apicoltori Leaders in assoluto della
Romagna (e quindi dell’Italia) Cesare Brusi e Tiziano Rondinini.
E veniamo alle belle storie artigianali, per le quali provo da tempo
consolidata ed orgogliosa condivisione, unita a piacere gastronomico, corredato dall’armonia del palato, del cuore e della mente, e
dall’amore e dalla passione per l’appartenenza alla nostra terra!
Le storie raccontate ed argomentate sono quattro: la norcineria dei
Celli della Bottega delle Carni di Novafeltria, nella media Valmarecchia. I formaggi selezionati, affinati, infossati, sublimati, dai Branca-
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le cucine di romagna
leoni di Roncofreddo, nell’entroterra collinare cesenate. I caprini e
gli altri prodotti dell’Azienda Agricola “Il Pastorello” di Ciola Araldi
di Roncofreddo (idem). Infine la testimonianza di una vita dedicata
al salvataggio e al rinascimento dei frutti dimenticati di Domenico
Ghetti di Marzeno di Brisighella.
Sempre a proposito di eccellenze, in questo caso letteraria, ho affidato la postfazione a Gian Ruggero Manzoni, scrittore, artista, intellettuale, uomo libero e anarchico, per l’analisi strepitosa che ha fatto
della Romagna.
Infine ringrazio in particolare Luciano Minghetti, il cui aiuto professionale, al solito, è stato fondamentale nella delicata fase di editazione computerizzata, ancor più preziosa considerando che, dopo quasi
mezzo secolo di giornalismo e scrittura, continuo a scrivere a mano
ed in bella calligrafia.
Ringrazio tutti dell’attenzione e arrivederci a uno dei tanti incontri
che farò su questo libro.
Storia e letteratura
Nota storica sulla cucina romagnola
del prof. Piero Meldini
È convinzione largamente diffusa che le cucine regionali e locali
quali oggi le conosciamo esistano da sempre – dalla famosa “notte
dei tempi”, come si usa dire – e che i piatti della tradizione di cui
i romagnoli sono i gelosi e un po’ fanatici custodi siano quelli che
gustavano i loro più remoti antenati. Le cose non stanno così.
Anche se troviamo piatti “a denominazione d’origine” già nei ricettari trecenteschi e quattrocenteschi (per esempio torte parmigiane, bolognesi e romagnole), non si riesce assolutamente a capire in che cosa
consista, di fatto, la loro connotazione locale. Lo stesso si dica delle
preparazioni alla milanese, alla genovese, alla romana, alla napoletana, alla “ciciliana” e così via che rinveniamo nei ricettari cinquecenteschi di Messisbugo, del Panunto e di Scappi, e in quelli seicenteschi
di Stefani e di Latini.
Il fatto è che la cucina signorile medievale, rinascimentale e barocca
che ci tramandano le raccolte di ricette e le cronache dei banchetti
(di quella plebea sappiamo ben poco, e altrettanto poco, forse, c’è
da sapere) è una cucina ‘globalizzata’ che si fa un punto d’onore di
mascherare i sapori naturali e che non conosce frontiere regionali
e nazionali. La lettura degli antichi ricettari provoca un’invincibile
sensazione di sazietà e di noia. Tutti i piatti si assomigliano. Tutti
sono ricondotti, con le buone o con le cattive, a un modello unico,
e sarebbe fatica sprecata cercare inflessioni dialettali nell’esperanto
gastronomico dell’antico regime.
I primi inequivocabili indizi delle cucine regionali compaiono solo
nel XVIII secolo, dopo la “rivoluzione gastronomica” che tra il 1715
e il 1750, a partire dalla Francia, aveva mutato radicalmente le basi
tecniche, la tavolozza dei sapori e la nozione stessa di gusto. La cucina delle cotture multiple, delle speziature furibonde, dell’ibrido
6
le cucine di romagna
dolce-salato, dell’azzeramento programmatico dei sapori naturali è
progressivamente soppiantata da una cucina che scopre gli alimenti
freschi, le verdure, le erbe aromatiche, le salse delicate.
Alla formazione del nuovo modello gastronomico europeo i cuochi
italiani partecipano, se non da protagonisti, da dignitosi comprimari, e non senza originalità: sia proponendo una cucina più semplice, fresca e garbata (anche se più artigianale) di quella francese, sia
soprattutto ponendosi per la prima volta il problema dell’identità
gastronomica, cioè dei rapporti con le tradizioni locali. Francesco
Leonardi, che nell’introduzione al suo monumentale Apicio moderno
(1790) abbozza il primo profilo storico della cucina italiana, presenta
– accanto a piatti francesi, tedeschi, inglesi, russi, polacchi e turchi –
svariati piatti regionali italiani – lombardi, veneziani, romani, napoletani, siciliani –, inclusi piatti relativamente poveri come la “Zuppa
di ogni sorte d’erbe alla napolitana”, la “Trippa di manzo alla romana” e il “Cappone di galera alla siciliana”. Anche Vincenzo Agnoletti
(La nuovissima cucina economica, 1814), attinge alle cucine locali, né
disdegna di registrare piatti umili come le “Panizze alla genovese”.
La mappa dei “cuochi” e dei “cucinieri” perlopiù anonimi stampati
e ristampati per oltre un secolo – dal Cuoco piemontese al Cuoco maceratese, dal Nuovo cuoco milanese economico alla Cuciniera genovese,
dalla Cuciniera delle Alpi alla Cucina casarinola co la lengua napolitana – copre in lungo e in largo buona parte dello Stivale. E tuttavia
chi sfoglia uno a caso di questi ricettari, alla ricerca delle radici della propria cucina materna, rimane sconcertato e deluso, perché dei
piatti che avrebbe detto più caratteristici della sua terra troverà scarse
tracce. Prendiamo La cuciniera bolognese (1874), un manualetto per
famiglie che è la ristampa pedissequa, salvo il titolo, del Cuoco bolognese (1857): non vi compaiono le ricette del ragù alla bolognese,
delle tagliatelle, delle lasagne verdi al forno, dei tortelloni di vigilia e
delle cotolette alla bolognese. Manca perfino la ricetta dei tortellini,
attestati altrove da quasi un secolo.
Se questa è la regola nei ricettari a stampa, a conclusioni non molto diverse portano i ricettari manoscritti d’uso privato che si vanno
pubblicando da alcuni anni a questa parte. Il ricettario degli Albini,
proprietari terrieri di Saludecio, databile intorno al 1880, contiene
pochissimi piatti tipici romagnoli: i cappelletti (in doppia versione:
di grasso e di vigilia), la “torta” di sangue di maiale, le castagnole. Si
aggiungano un paio di apporti marchigiani: la “crescia” pasquale e il
storia e letteratura7
“cirimbolo”, il più umile dei salumi, chiamato nella Romagna meridionale andrùghle o bartulàz.
Ciò non significa, naturalmente, che i piatti trascurati dai succitati
ricettari fossero ancora tutti di là da venire. Le cucine regionali italiane sono, nel loro complesso, il risultato dello sposalizio fra le cucine
popolari e la nuova gastronomia francese e francesizzante, ma i piatti
che le compongono sono di varia estrazione – contadina, marinara,
urbano-borghese, aristocratica – e di più o meno lontana origine.
Né mancano relitti delle più disparate “invasioni” e contaminazioni
culinarie: araba, ebrea, spagnola, mitteleuropea.
Perché si contraddistinguano compiutamente, alle cucine locali occorrono oltre cent’anni. Iniziato nel secolo precedente, il processo di
diversificazione occupa l’intero secolo XIX e, paradossalmente, viene
favorito e accelerato dall’unificazione del Paese. Solo al termine di
questo processo, ossia nel primo decennio del Novecento, agli occhi
degli studiosi della cucina e delle tradizioni popolari apparirà infine
nitido il quadro delle cucine regionali italiane.
Bisognerà attendere il 1905 perché lo storico e geografo della cucina Alberto Cougnet, a conclusione del suo viaggio gastronomico
nei cinque continenti (Il ventre dei popoli. Saggi di cucine etniche e
nazionali), stenda un corposo capitolo su “La cucina e la cantina
italiana”: capitolo che fornisce un quadro completo e particolareggiato del patrimonio gastronomico regionale e municipale. Non c’è
piatto canonico che non venga menzionato, corredato da una più o
meno sintetica descrizione della pietanza e dalla sua denominazione
dialettale. La costituzione delle cucine locali italiane è, insomma, un
fatto compiuto.
Di lì a poco, nel 1909, verrà data alle stampe La nuova cucina delle
specialità regionali, “appositamente compilata dal Dott. V. Agnetti”,
che è la prima raccolta organica di ricette di tutte (o quasi) le regioni
d’Italia, dal Piemonte alle tre Venezie, dal Lazio alla Sardegna. La
trascrizione delle ricette, da fonti in gran parte orali, è esemplare. Se
non è il primo a pubblicare ricette di piatti regionali, Agnetti è tuttavia il primo a progettare e a compilare una raccolta comprendente,
con poche e non gravi eccezioni, tutte le regioni italiane. Il suo libro è
davvero, in tal senso, “un’autentica novità nel campo gastronomico”,
ed è perfettamente legittimo che l’autore tenga a sottolinearlo.
8
le cucine di romagna
La lunga premessa era necessaria, perché questa nota storica sulla
cucina romagnola non partirà da Adamo ed Eva, ma dalla fine del
Settecento. È solo in questo periodo, infatti, che si ritrovano le prime tracce di un’identità gastronomica della Romagna. Trascureremo,
quindi, gli spettacolari banchetti rinascimentali (come quello dato a
Rimini il 25 giugno del 1475 in occasione delle nozze fra Roberto
Malatesta e Isabetta da Montefeltro); o i pretenziosi e costosissimi
pranzi offerti nel Seicento dalle autorità municipali per accogliere
degnamente i “vip” di passaggio; o quanto venne servito nel Montefeltro romagnolo, nel giugno del 1705, a Giovan Maria Lancisi, archiatra di Clemente XI, all’abate Albani, nipote del papa, al cardinale
Tanara, e ai prelati e gentiluomini al loro seguito. Non c’è un solo
piatto di questa cucina signorile e aristocratica che presenti tratti locali. Le stesse materie prime impiegate – carni, pesci, verdure, dolci,
vini – erano importate da tutt’Italia e anche dall’estero.
Non qui bisognerà ricercare le radici della cucina romagnola, dunque, ma negli scritti sulla cultura contadina sette-ottocenteschi e nei
materiali prodotti dalle grandi inchieste sociali e “demologiche” del
XIX secolo, a partire da quella napoleonica. Un isolato incunabolo è
l’“operetta ridicolosa” Il villano smascherato (1694) del sacerdote Girolamo Cirelli, una satira sulle “malizie” dei contadini romagnoli che
ci tramanda qualche scarna notizia intorno al pranzo di nozze degli
stessi, dove conta “la quantità, e non la qualità della roba”. I cibi che
vi si servono – aggiunge don Cirelli – sono grossolani: carne di bue,
vitello e pollami, ma il tutto poco cotto e poco stagionato”, ossia non
sottoposto alle lunghe frollature e alle ripetute cotture caratteristiche
della cucina delle classi alte: ciò che per Cirelli è una prova schiacciante della barbarie culinaria dei contadini. Così com’è indizio di
inaudita rozzezza di costumi bere il brodo dal piatto, “come fanno i
porci”, e appoggiarsi con i gomiti sulla tavola, “come gli animali alla
mangiatoia”.
L’altra occasione di pranzo collettivo a cui Cirelli fa cenno sono le
cosiddette “nozze del porco”, celebrate nel giorno dell’uccisione del
maiale: carne di cui i contadini “sono più che d’ogn’altro ingordi”.
Nella circostanza si usa cucinare, oltre alla carne suina, “carne di
manzo” e “fare i tagliavolini per menestra”.
Quasi altrettanto parco di informazioni è Giovanni Antonio Battarra
nel famoso “Dialogo XXX e ultimo” della Pratica agraria (1782).
Del pranzo di nozze Battarra si limita a citare i “ciambellotti” e la
storia e letteratura9
“crema, che qui dicono casadello”, offerti dai parenti degli sposi. Un
paniere di “ciambelloni” viene donato anche alle puerpere il giorno
del battesimo del neonato. Canonica della cena che segue le esequie
è invece la “minestra di ceci”.
Dell’inchiesta promossa nel 1811 per aver lumi “sulle diverse costumanze, ad anche pregiudizi e superstizioni che si mantengono in
campagna” e nota come “napoleonica”, si conservano alcune schede
su paesi e frazioni del forlivese, quasi tutte di mano di sacerdoti, e il
rapporto finale del prefetto di Forlì, il milanese Leopoldo Staurenghi, redatto sulla scorta delle informazioni fornite da insegnanti e
podestà.
Sia le schede che il rapporto ci regalano qualche sparsa notizia sui
pranzi imbanditi per le feste solenni del ciclo dell’anno e di quello
della vita: sul “pranzo del puerperio”, che – riferisce il parroco Romiti – è “piuttosto mediocre [e] si chiama impajulata”: vi si servono “un
pajo di capponi, pane goloso, ova, formaggio” e, regalato dalla madre
della puerpera, “un grosso panniere di bracciatelli fatti col zucchero,
ova, e ben lavorati”; sul pranzo di battesimo, otto giorni dopo il
parto, in cui, “se fu partorito un maschio, mangiano i maccheroni, se una femmina, le lasagne”, con trasparente simbologia sessuale;
sul pranzo di nozze, “splendido e squisito”, per il quale i contadini
– moraleggia l’arciprete Vanni – “han Cuore di spendere una gran
parte della Rendita del Loro coltivato Podere”; sulla cena funebre,
consistente “in minestra ed un lesso che ordinariamente è di carne
grossa; la minestra indispensabilmente dev’essere di munfrigoli”; infine sul pranzo di Natale, giorno in cui “presso ogni famiglia si fa una
minestra di pasta col ripieno di ricotta, che chiamasi di cappelletti”.
“L’avidità di tale minestra è così generale”, scrive il malizioso prefetto
di Forlì, “che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse
di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al
numero di 400 o 500; questo costume produce ogni anno la morte
di qualche individuo per forti indigestioni”.
Il forlivese Michele Placucci, che nel 1818 (attingendo a man salva,
e senza mai citare la fonte, dall’inchiesta napoleonica) dà alle stampe
una memoria sugli Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, ci
tramanda scheletrici sunti delle ricette. La minestra del “pranzo del
puerperio” (chiamata “Impajolata, o Zuppa, ovvero Tardura”) è fatta
con “uova, formaggio e pane grattato”. Dei “così detti Manfrigoli”
della “cena mortuaria” (“specie di pasta casalinga, per lo più di uova
10
le cucine di romagna
e di farina ridotta in minuti granellini” spiega Antonio Mattioli nel
suo Vocabolario romagnolo-italiano, 1879) è fatto solo il nome. Relativamente dettagliata è invece la ricetta dei cappelletti natalizi, “minestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi; il tutto avvolto
in pasta, detta spoglia da lasagne”. Nel compenso è as­sente la carne,
all’uso prevalente nel cesenate e nel ravennate.
Sia l’inchiesta napoleonica che il trattatello di Placucci si limitano
a censire questi e pochi altri cibi della festa (gnocchi, maccheroni,
lasagne; salsiccia, salame, prosciutto, coppa; carne lessa, carne fritta,
galletti in umido, pollo arrosto; ciambelle). Quel poco che conosciamo, insomma, della cucina in uso nelle campagne romagnole si
restringe ai piatti festivi. Del cibo di tutti i giorni, invece, niente
sappiamo, o quasi, e non tanto per reticenza della fonti, quanto per
insussistenza dell’oggetto. Alla fine del Seicento Cirelli asseriva, con
brutale franchezza, che, “toltone il tempo di nozze, mangiano i villani come porci” (e non alludeva certo alla quantità, bensì alla qualità
del vitto). Come definire altrimenti, del resto, un regime alimentare
dove “il primo e principale rifugio di tutto il popolo della campagna”
è il pane di “tritello”, cioè di crusca rimacinata? Lo testimonia nel
1801 il medico Michele Rosa.
Le grandi inchieste sociali dell’Ottocento riconfermeranno l’ingrata
e precarissima alimentazione delle campagne. Condotta negli anni
1876-1881 sotto la direzione del conte Stefano Jacini, l’“Inchiesta
agraria e sulle condizioni della classe agricola” denuda da qualunque
addobbo pittoresco la dieta quotidiana dei con­tadini, di cui tratta il
ventesimo quesito (“Condizioni fisiche e sociali”) dei ventiquattro
posti a sindaci e funzionari comunali.
La relazione riassuntiva sulla 6a circoscrizione (Emilia-Romagna),
stesa dall’agronomo bolognese Luigi Tanari, disegna una sintetica ma
precisa geografia alimentare della regione. Premesso che “i tipi di vitto cambiano colla diversità dei luoghi [...] e colla diversità delle classi”, Tanari divide il territorio emiliano-romagnolo in quattro fasce:
quella montana (“niente vino o pochissimo [...]; pane pochissimo e
per lo più di mistura; qualche minestra di frumento condita al lardo;
molta castagna in polenta; molto granturco”; “pochissima carne ovina e più di rado porcina; poche ortaglie, uova, latte e formaggio”);
quella collinare (“pane di frumento più abbondante, ma non sempre
puro; più minestre, più ortaglie”; “meno le castagne e la carne ovina,
sostituita piuttosto colla suina e col pollame; il vinello ed il vino in
storia e letteratura11
mediocre quantità”); quella di pianura (“pane di frumento [...] in
maggior copia; più minestra, ma sempre moltissimo granturco in
polenta; la carne [...] almeno le solennità; più vino”); quella della
bassa pianura palustre (“eccesso del granturco e scarsità del vino e
della carne; anche l’acqua diventa molte volte poco potabile”).
Nei questionari e nelle memorie locali la situazione è presentata con
minor diplomazia. “Dire che l’operaio ravennate raramente mangia
cibo caldo e che durante i più penosi lavori non ha che pane duro,
pesante, indigesto da sbocconcellare e mandare giù insieme ad un
pezzo d’aglio o di cipolla o qualche altro erbaggio premuto contro un
po’ di sale [...], è esporre lo stato vero e generale”: sono parole di Guglielmo Barbieri, autore della monografia di Ravenna. Più caute ma
non meno eloquenti sono le considerazioni dell’anonimo estensore
della monografia riminese: “Il contadino si alimenta ordinariamente
di polenta [...]. I più agiati riserbano un po’ di grano per la minestra
specialmente nei dì di festa. Gli erbaggi e qualche po’ di pesce sono
ordinariamente il loro companatico”. Il compilatore del questionario
di base di Rimini aggiunge che “in quanto alle bevande, [i contadini] usano principalmente il vinello, l’acqua con l’aceto, e il vino
in giorni eccezionali”. “La bevanda è d’aceto inacquato, o di acqua
pura”rincara quello di Santarcangelo.
Nell’Ottocento, tuttavia, a seguito di un mutamento climatico favorevole e grazie a quelli che Braudel ha chiamato “gli intrusi del
Nuovo Mondo”, mais e patate innanzi tutto, si diradano e infine
hanno termine le terribili carestie che, a partire dal Cinquecento, si
erano susseguite con la tragica, impassibile regolarità dei fenomeni
naturali. Non a torto si è parlato di “rivoluzione alimentare” e la si è
messa in rapporto con l’esplosione demografica del XIX secolo, arco
di tempo in cui la popolazione italiana quasi raddoppia, passando da
18 a oltre 32 milioni di abitanti.
Dalla metà dell’Ottocento in poi i contadini romagnoli non muoiono più di fame (semmai di pellagra), e questo è già un progresso.
Sulla quantità e qualità del vitto feriale le inchieste sociali fanno giustizia del mito retrivo e consolatorio di una cucina “semplice e sana”
trasmessa di madre in figlia e giunta intatta, o quasi, fino ad anni
recenti. Propriamente parlando, non si tratta neppure di cucina, ma
di un’ingrata, precarissima arte di arrangiarsi.
E tuttavia una cucina romagnola già esiste, o è in via di formazione.
Si compone di un numero limitato di piatti: quelli contadini dei
12
le cucine di romagna
giorni di festa e i meno poveri tra quelli dei giorni feriali; pochi piatti
marinari; alcuni vecchi piatti di ascendenza aristocratica in versione
semplificata; preparazioni i cui ingredienti e il cui stile culinario mostrano un’origine recente e recentissima. A praticare questa cucina e a
fornirle progressivamente un’identità è un ceto variegato che mescola
borghesia terriera, agricoltori benestanti, commercianti, artigiani e
parte del proletariato urbano. La cucina romagnola, così come quella
di altre regioni italiane, è il prodotto di apporti diversi e scambi vicendevoli in un’epoca di forte mobilità sociale.
Ho già accennato ai pochissimi piatti romagnoli che sono presenti
nel ricettario privato degli Albini di Saludecio, dell’ultimo quarto
dell’Ottocento. Un po’ più numerosi – una ventina in tutto – sono
quelli registrati nella Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (1892).
Ma su Artusi e la Romagna vedi il contributo di Alberto Capatti in
questo volume.
Libro pionieristico e di eccezionale interesse per quanto riguarda altre cucine regionali (e in particolare la piemontese, la ligure, la siciliana e la sarda), La nuova cucina delle specialità regionali di V. Agnetti
(1909) è invece deludente quando affronta la cucina emiliano-romagnola. Delle ventisette ricette di quest’area, infatti, venti sono copie
pedisseque di quelle di Artusi. I piatti romagnoli sono nove in tutto
e solo tre non derivano dalla Scienza in cucina: i “tartufi all’uso di
Romagna”, le “polpette alla Catalana” (“piatto esclusivamente romagnolo e gustosissimo” garantisce l’autore) e i “sugoli”. Dei cappelletti
è fornita una ricetta che diverge da quella artusiana, ma di dubbia
attendibilità.
Nell’ultimo capitolo del Ventre dei popoli (1905), intitolato “La cucina e la cantina italiana”, Cougnet dedica un paragrafo alla cucina
emiliano-romagnola. L’accorpamento amministrativo penalizza “le
Romagne” in favore di “Bologna la grassa” e dell’Emilia dei ducati. I
soli piatti romagnoli menzionati sono i “cappelletti in brod de capôn”
(sic), il “pasticcio di cappelletti, dove la pasta è alquanto zuccherata e
con un po’ di raschiatura di scorza di limone”, le “tajadèle assôtte”, le
“canocchie della costa marittima”, le “anguille fresche e marinate di
Comacchio” e i “zalètt o pinocchiata di Ravenna”. Sono citate, inoltre, alcune “specialità”: la “salsiccia stagionata” di Castelbolognese,
i “caci pecorini degli Appennini”, il “sapore” di Cesena (“conserva
di mosto con frutta, cotogne particolarmente, e pere dette moscardine”), le olive di Rimini, gli asparagi di Ravenna e i finocchi di
storia e letteratura13
Faenza. Tra i vini, sono ricordati “il sangiovese della Romagna, ma
specialmente di Bertinoro”, definito “vino fino da pasto, squisito”,
il “vino santo” di Imola, il “vino d’uva canina” di Ravenna e “quello
d’albola” di Imola. Sono giudicati eccellenti, infine, “i vini faentini e
quelli di San Marino”.
Nel 1913, in una nota su Come mangiano i Romagnoli pubblicata
sul periodico “Il Plaustro”, Antonio Sassi si ripropone di investigare
“non la cucina dei ricchi, la quale per le numerose leccornie importate da altri luoghi ha perduto quasi tutta la sua originalità, ma quella
del popolo, che conserva buona parte delle vecchie costumanze”. Segue il catalogo generale della cucina autoctona romagnola che, oltre
ai cappelletti e alla tardura già menzionati da Placucci un secolo prima, censisce i passatelli, le “pappardelle asciutte condite in perfetta
regola” (che però non sono peculiari della Romagna), il pollo arrosto
(diffuso ovunque) e la piada: un patrimonio gastronomico tutt’altro
che esemplare e sterminato, insomma. La sua modestia, con la quale
bisogna pure fare i conti, è spiegata non già con la recente formazione, ma, al contrario, con la dispersione e il dissanguamento di un
plurisecolare, se non millenario, capitale.
Né Sassi né, a maggior ragione, quanti verranno dopo di lui riusciranno a concepire la fresca origine delle cucine regionali, ma tenderanno a proiettarla in un passato altrettanto remoto che fiabesco:
un’Età dell’Oro della cosiddetta “cucina popolare”, situata per l’appunto nella “notte dei tempi”, di cui le odierne cucine locali sarebbero le legittime, ancorché immiserite discendenti. Ma questo Eden
alimentare e culinario è un caso patente – per dirla con Hobsbawm
– di “invenzione della tradizione”.
Nota bibliografica
Le fonti, in ordine di citazione nel testo, sono le seguenti: sugli antichi ricettari v. l’ampia antologia L’arte della cucina in Italia, a c. di
E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1987; La cuciniera bolognese, Bologna,
Tiocchi, 1874 (riediz.: Bologna, Forni, 1990); Il codice di cucina,
a c. di L. Bartolotti, Rimini, Panozzo, 1993; A. Cougnet, Il ventre
dei popoli. Saggi di cucine etniche e nazionali, Torino, Bocca, 1905;
V. Agnetti, La nuova cucina delle specialità regionali, Milano, Società Editrice Milanese, 1909 (rist. anast. a c. di P. Meldini: Firenze,
Guaraldi, 1977); G. Cirelli, Il villano smascherato, “Rivista di storia
14
le cucine di romagna
dell’agricoltura”, 1967, 1 (cfr., ivi, G.L. Masetti Zannini, Un trattato inedito e sconosciuto sulle tradizioni dei contadini romagnoli); G.A.
Battarra, Pratica agraria distribuita in vari dialoghi, Cesena, Biasini,
17822 (rist. anast. a c. di L. Faenza: Rimini, Ghigi, 1975); M. Placucci, Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, Forlì, Bordandini,
1818 (rist. anast.: Bologna, Forni, 1974); M. Rosa, Della ghianda e
della quercia e di altre cose utili a cibo e coltura, Rimini, Marsoner,
1801; A. Sassi, Come mangiano i Romagnoli, “Il Plaustro”, 1913, 30.
Saggio storico-letterario
del prof. Alberto Capatti
La scoperta e l’invenzione della Romagna
La descrizione della cucina di un territorio, e in particolare la ricerca
delle origini di quella romagnola, risale con estrema difficoltà ad un
periodo anteriore al XIX secolo. È anzi un luogo comune ripetere
che la sua prima codificazione è del 1891, con la pubblicazione de
La scienza in cucina. A differenza della città di Napoli che offre, nella
seconda metà del Settecento, una letteratura gastronomica ricca, e di
stati come la Toscana con un ricettario livornese, Il cuciniere italiano
moderno, di respiro nazionale1, questa terra fra l’Appennino, il mare
e le “valli”, appartenente al Papato e da esso male amministrata, aveva ben poco da vantare che fosse già noto ai visitatori di passaggio.
Lo stesso Artusi di cui tratteremo ampiamente, non si curava di approfondire la questione, non consultando i ricettari italiani che dal
cinque al settecento avevano fatto conoscere l’Italia, e quando pubblicava una pietanza del 1694, le polpette di trippa, ne aveva ricevuto
notizia e dettagli dall’amico bibliotecario Olindo Guerrini2. Per lui la
storia della cucina era cominciata con il suo anno di nascita, il 1820.
Ma è vero che non esistevano tracce dell’esistenza di una cucina romagnola ante litteram? la creazione delle cucine regionali è dunque
il risultato dell’unità d’Italia? Se frugare fra le pietanze ottocentesche, fra le decine di ricettari che grandi e piccole città stampavano
a propria illustrazione, includendovi piatti francesi, e ancor più fra
1 Il cuciniere italiano moderno, Livorno, Vignozzi, 1832 (ristampato sino al 1885)
2 Pellegrino Artusi, La scienza in cucina, Milano, Rizzoli, 2011, p. 350
storia e letteratura15
i libri di casa manoscritti e pubblicati negli ultimi trent’anni, porta
una quantità di informazioni su confini, economia, cuochi e piatti di
un territorio, è necessario arretrare ancora per cogliere la formazione
dell’idea geografica e storica di cucina. Paradossalmente questo servirà a comprendere l’inerzia dei notabili e il tardivo emergere nella
lingua italiana e non nel solo dialetto delle pietanze locali, quindi il
compito di coloro che per primi hanno contribuito a descriverle e
stamparle.
Nei ricettari italiani anteriori al Settecento, editi a Roma e a Venezia,
la Romagna è presente con i suoi prodotti. Ne diamo un sommario
elenco che permette di valutarne il numero e le relative fonti
Anici3
Caci4
Cipolle5
Marzolino6
Oche7
Ortolani8
Ulive9
I formaggi sono altresì designati come cascetti e casetti e casotti, a
prova della loro abbondanza. Si noterà come la prossimità della fonte renda disponibile il ragguaglio: a Ferrara, a Mantova e persino a
Roma, i prodotti che vengono dalla Romagna sono noti, e Bartolomeo Stefani, cuoco bolognese presso i Gonzaga, precisa che “Ben3“Conserva di Anisi freschi … Di questi se ne raccoglie gran quantità nella
Romagna, & ha semente distinta in chiocche a guisa di finocchio, benchè assai più
picciola” Stefani, L’Arte di ben cucinare, Mantova, Osanna, 1662, p. 91
4 “cascio di Romagna” Scappi, Opera, Venezia, Tramezzino, 1570, p. 215
5 “Cipolle … Si fanno ancora grossissime & eccellentissime in Romagna in un luogo
detto la Mossa de’ Lombardi” Pisanelli Trattato della natura de’ cibi et del bere,
Venezia, Imberti, 1611, p. 58 ; Stefani, L’Arte di ben cucinare, Mantova, Osanna,
1662, p. 85
6 “marzolini di Romagna “ Rossetti, Dello scalco, Ferrara, Mammarello, p. 70 2 seg.
7 “le ocche di Romagna” Garzoni, La piazza universale, Venezia, Polo, 1610, p. 297 v.
8 “ortolani .. liquali uccelletti nella Marca, & nella Romagna si conservano molto con
il miglio, & con il panico” Scappi, Opera, Venezia, Tramezzino, 1570, p. 56 v.
9 “Ulive di Romagna” Frugoli, Pratica e scalcaria, Roma, Cavalli, 1638, p. 28
16
le cucine di romagna
chè ogni paese sia fertile di Cipolle, nulla di meno la Romagna ne
produce gran quantità di grossezza, e bontà straordinaria, bianche di
colore, e di sapore che assai inchina al dolce; talche questa provincia
non la cede ad altre nella produzione delle cipolle”. Stesso giudizio,
prima di lui, del bolognese Pisanelli.
Altra cosa è la cucina. Gli ortolani in Romagna si usava cuocerli
con lo strutto e questo era noto persino nella città di Bergamo10.
Venivano considerate appartenenti a quelle terre la “torta d’herbe alla
Ferrarese, o romagnola”, con biete, latte, burro, ricotta e formaggio,
e la “lattarola alla romagnola”, citate, a Ferrara, da Messisbugo e da
Rossetti11. Anche se i caci viaggiano sino a Roma, e sono conosciuti
per la loro forma “di limoncelli”12, questo non basta per consacrare
“romagnole” tutte le torte che li prevedono. I prodotti dunque non
qualificano, fuori da una regione, la sua cucina, almeno sino al 1782
quando comincia a nascere una nuova economia rurale e a Cesena si
stampa la Pratica agraria di Antonio Batarra.
Va notato che, nel corso dell’ottocento, le menzioni di piatti romagnoli si mantengono scarse sia che si preferiscano denominazioni
generiche comprensive di più stati o provincie, come la minestra di
passatelli di Francesco Leonardi, sia che si alluda a delle preparazioni
estremamente localizzate, come il Polmone di maiale alla riminese 13.
La Romagna non aveva una identità forte nemmeno per i viaggiatori
che la attraversavano con diletto e si siedevano a tavola; la testimonianza de L’Italie confortable di Valéry sulle sue eccellenze, è chiara:
Imola buon vino
Faenza “Vini eccellenti e ben fatti, già vantati da Varrone e Columella”
Ravenna pinoli, buon vino
Cesena Vino bianco reputato
10 Il cocho bergamasco alla casalenga, Lodi Zazzera 2001, p. 32
11 Messisbugo, Libro novo, Venezia,Padovano, 1557, p.61 ; Rossetti, Dello scalco,cit., p.
285 e seg.
12 Scappi, Opera, cit., p. 200
13 Agnoletti, Manuale del cuoco e del pasticcere di raffinato gusto moderno, Pesaro,
Nobili, 1834. I. p.144
storia e letteratura17
Rimini pesce squisito, “buon vino della repubblica di San Marino già
lodato da Addisson”14.
Al di fuori del vino, ci sono i pinoli della pineta e il pesce a Rimini.
A Bologna vengono consigliati “tortellini o cappelletti”, “mortadella
e cotichini”, quanto più ci si allontana da essa, tanto più bisognerà
accontentarsi di qualche risorsa locale e di una cucina anonima.
A queste ragioni, sempre contestabili con la scoperta di nuove guide
o di testimonianze di viaggio, se ne aggiungono altre, interne alla
nomenclatura gastronomica. Laddove una provincia o una regione
non si è costituita una identità forte al suo esterno, penetrando nella
borghesia di grandi città e passando di bocca in bocca e contagiando
preparazioni già recepite, costituendone varianti, in questo caso “romagnole”, essa resta affidata a riscontri casuali, non sistematici. Così,
nella Toscana del Regno d’Italia, in un pregevole ricettario come Il
cuoco sapiente, si ritrovano i Castroni alla romagnola – “le castagne
così lessate chiamansi in Romagna castroni”15 e le Lenticchie alla romagnola. Queste ultime cotte con olio, cipolla, sale e pepe si direbbero alla fiorentina, non fosse l’aggiunta di “un poco di conserva o
sugo di pomidoro mezz’ora prima di ritirarle dal fuoco”16. È abbastanza, per chiamarle, “alla romagnola”? Ragionando con l’Artusi
forse sì, anche se questi due piatti facevano pensare alla miseria.
Questo è il quadro sommario da cui parte la presente descrizione resa
possibile all’inizio da osservazioni domestiche ed esperienze di viaggio, arricchita in seguito dalla lettura di qualche ricettario, per lo più
inutile e pieno di termini francesi storpiati, quindi dalla corrispondenza e dall’interesse manifestato dalla buona società campagnola e
cittadina per le usanze conviviali. La cucina, nel regno d’Italia, diventa un vezzo di buone maniere e buona compagnia e diventa un vizio
intellettuale, concretizzato da tavole imbandite ed armadi pieni di
liquori fatti in casa e conserve.
14Valéry, L’Italie confortable. Leipzig-Paris, 1840. pp. 121-122
15“castron castagna castrata, e cotta nell’acqua con alloro, sale e vino” Morri,
Vocabolario romagnolo-italiano, Faenza, Pietro Conti, p. 180
16 Il cuoco sapiente, Firenze, Moro, 1871, pp.122, 141
18
le cucine di romagna
L’Artusi
Pellegrino Artusi nasce l’anno che segue la pubblicazione de Le arti
del Credenziere Confetturiere e Liquorista di Vincenzo Agnoletti, una
figura di spicco di un mestiere esercitato presso le famiglie patrizie
romane e destinato a sopravvivere nelle botteghe, e un cuoco erede del grande Francesco Leonardi. Nulla di tutto questo nella sua
famiglia, con un padre commerciante a Forlimpopoli, di estrazione contadina. La cucina di mamma Teresa Giunchi e delle sorelle
maggiori è rimasta ignota e non una parola su di essa trapela nella
Scienza in cucina. Nella autobiografia compaiono qua e là animali
da allevamento e da caccia: tacchini, allodole, maiali, e una tazza di
cioccolata solo nel primo viaggio, a Venezia. La cucina di casa non
rappresentava, all’origine, un patrimonio, tanto meno quella di una
modesta famiglia di Forlimpopoli dove era nato nel 1820.
Artusi passa infanzia e fanciullezza in Romagna, poi comincia a viaggiare, da buon commerciante, e a vivere fra la ricca Toscana e Forlimpopoli, e infine a trentun anni si stabilisce a Firenze con i suoi genitori. Le radici gastronomiche romagnole si approfondiscono in questa
nuova vita, tanto più che gli Artusi si arricchiscono importando i
bachi da seta, oltre ai prodotti d’uso domestico, anici, mostarda e
quanto, di frutta, fagioli e polli, fornivano i due poderi forlivesi. Sino
all’età di novantanni continuerà a ricevere la spettanza mezzadrile,
consistente in un ampio paniere di derrate, dalle ciliegie primaticce
ai capponi e alle faraone natalizie, per non parlare dei doni “gentili”
dei suoi pari, principalmente i tartufi. Tutto arrivava per ferrovia,
compreso il pollame vivo, col suo becchime appresso. Niente vino,
perché tutta l’uva era venduta a carri, o meglio il vino bisognava
comprarselo: “O’ ricercato l’albana – gli scrive il 12 giugno 1907 il
fattore Bonavita – ma le partite assaggiate peccano tutte di dolce. Se
mi riescirà di trovarne asciutta e con corpo la informerò”17. Niente
torte dette latteruoli che figurano nella Scienza in cucina come dono
dei fittavoli alla ricorrenza del Corpus Domini. A Bonavita e al contabile Bandini, inviava invece, a natale, da Firenze, con gli auguri un
dolce fatto in casa.
Eppure Artusi è il primo codificatore della cucina romagnola. Da
dove gli nasceva cotanta passione? La scienza in cucina a sprazzi, o
17 Archivio Forlimpopoli, 403 a.
storia e letteratura19
meglio ad aneddoti, ci dice della memoria che s’appesantisce, a misura che la sua vita gravita nello studio, fra i libri, e nella cucina. È
lontano e vicino alla sua terra, controlla tutti conti, intesse una corrispondenza con i nipoti di Lugo e di Bertinoro. Quali sono le preparazioni che gli evocano la Romagna? Elenchiamo i titoli delle ricette
in cui menziona la sua terra d’origine, piatti, conserve e rosolio, i
primi sedici dell’edizione prima, del 1891, i restanti delle successive:
Sugo di carne detto brodo scuro
Cappelletti all’uso di Romagna
Panata
Minestra di Passatelli
Trippa di vitella vedi zuppa di ranocchi
Tagliatelle all’uso di Romagna
Salsa di pomodoro
Castagnole
Agnello coi piselli all’uso di Romagna
Pasticcio di maccheroni
Spinaci di magro all’uso di Romagna
Offelle di marmellata
Torta di ricotta
Latteruolo
Migliaccio di Romagna
Rosolio d’Anaci
Raviuoli all’uso di Romagna (1895)
Fritto ripieno di mostarda (1895)
Anguilla (1895)
Olive in salamoia (1900)
Cefali in gratella (1900)
Spaghetti da quaresima (1900)
Cavolfiore all’uso di Romagna (1906)
Più che ad un sistema, siamo di fronte a dei ricordi che rinverdiva
nell’estate in occasione della mietitura, quando ritornava, alloggiando all’Hotel Central di Forlì18, rendendo visita a parenti e conoscenti. Questi ricordi, lontani-vicini, venivano ricollocati in un ricetta18 Lettera di Giovanni Bandini a Pellegrino Artusi del 12 luglio 1901 (Archivio Artusi
di Forlimpopoli, 187 a).
20
le cucine di romagna
rio, ricevendo un numero d’inventario e figurando come elementi
descrittivi, destinati servir di modello. A tarda età, ottantasei anni,
si ricordava ancora del modo che i romagnoli avevano di condire i
cavolfiori, con un battuto di aglio e prezzemolo, e con un poco di
conserva di pomodoro. Ma non tutto restava nitido ed evocando
una pasta fritta, la sua lontananza dalla terra natale pesava: “Questo
fritto si può fare in Romagna ove d’inverno è messa in commercio la
mostarda di Savignano o fatta all’uso di quel paese, che una volta era
molto apprezzata; ma non saprei dirvi se siasi mantenuta a credito”19.
Il credito delle ricette romagnole dipendeva molto dalla semplicità
d’esecuzione e dal successo con cui erano ripetute. Ne nasceva una
cucina di casa, lontana dalle case in cui era nata, eppur familiare,
diversa e piacevole, alleggerita e aggiustata nei sapori. Riconoscibile
da un romagnolo, quando erano presenti gli anaci e la mostarda, un
po’ troppo fine altrimenti, e soprattutto accostata a minestre toscane
che sapevano d’olio, e a riso e risotti che erano sicuramente d’altrove.
Anche se corretti nelle dosi e nei gusti, erano tutti piatti di sostanza,
ed era la loro principale caratteristica. Una assenza di vaglia, la piada,
la piè, che era inutile tradurla con focaccia, pizza o schiacciata, perchè, per un borghese ricco, era troppo poca cosa.
Proviamo a vedere quali ricette fossero recepite dai suoi corrispondenti, e vedremo ancor meglio il pensiero d’Artusi. Rileggiamo il
Manuale di cucina di Giulia Turco Lazzari, stampato a Venezia anonimo dalla Tipografia Emiliana nel 1904 (quando La scienza in cucina curata dall’autore non aveva esaurito le sue novità). La signora
Turco Turcati sposa Lazzari, nata nel 1848, apparteneva alla aristocrazia trentina (non ancora italiana) ed era una figura intellettuale
di spicco, con salotto e tavola, ed aveva intrattenuto con Artusi una
corrispondenza vivace. Ecco i piatti della sua Romagna, terra remota
sia da Trento che da Venezia dove dimorava ed era stato stampato il
manuale:
Coppa di majale alla romagnola
Costolette di vitello alla forlivese
Crostini di ragoût alla romagnola
Crostini in agro-dolce alla romagnola
Fritto sfogliato alla romagnola con ripieno di crema
19
“Fritto ripieno di mostarda”, in La scienza in cucina, Firenze, Landi, 1895.
storia e letteratura21
Minestra di fagiuoli di magro alla romagnola
Minestra di strichetti alla romagnola
Passatelli
Pasticcio di cappelletti alla romagnola colla pasta frolla
Polenta colla salsiccia alla romagnola
Sformato di piselli alla romagnola
Stracotto alla romagnola fatto con manzo lesso
Risotto colla salsiccia alla romagnola
Spaghetti coi piselli alla romagnola
Tagliatelle alla romagnola
Tritura20
In questa lista sono ovviamente riconoscibili i piatti artusiani così
come nuovi titoli. Le Costolette di vitello alla forlivese sono un ritocco
delle cotolette di vitella di latte in salsa d’uovo del 1895; il Pasticcio
di cappelletti alla romagnola è invece una riformulazione di quello
artusiano con i maccheroni, con la precisa intenzione di dar maggior rilievo ad un piatto già “complicatissimo e costoso”. Ripetuta a
Trento e a Venezia e in chissà quante città italiane, la cucina romagnola cresce d’importanza, cattura gastrotoponimi nuovi – Artusi
non aveva mai usato il termine “forlivese” – va oltre le abitudini
del maestro che non si avventurava nella norcineria, con una Coppa
di majale che cominciava con un solenne: “Spaccate a metà la testa
di majale, estraetene gli occhi e il cervello e asportatene le guance”.
Quanto al risotto colla salsiccia alla romagnola è, al solito, l’impasto
contenuto nel budello, rinvenuto nel burro, colorato di pomodoro e
insaporito con una cucchiaiata di formaggio, il che sa di formula più
che di Romagna.
In quello stesso anno 1904, l’Almanacco Italiano di Roberto Bemporad che fra i primi aveva contribuito a lanciare La Scienza in cucina21,
20 Lazzari Turco, Manuale di cucina, Venezia, Emiliana, 1904, pp. 824 (coppa di
majale), 285 (costolette di vitello), 54 (crostini in agro), 54 (crostini di ragoût), 169
(fritto), 103 (minestra di fagioli), 69 (strichetti), 67 (passatelli), 246 (pasticcio), 138
(polenta), 216 (sformato), 252 (stracotto), 125 (risotto), 121 (spaghetti coi piselli),
116, (tagliatelle) 59 (tritura).
21 Alberto Capatti, “Noterella alla prima edizione”, in : Pellegrino Artusi, La scienza
in cucina e l’arte di mangiar bene, ristampa anastatica prima edizione 1891, Firenze,
Giunti, 2011, p. 38.
22
le cucine di romagna
pubblicava una Geografia gastronomica e potatoria d’Italia22. Nell’Emilia si potevano cogliere i seguenti toponimi romagnoli con relative
specialità.
Bertinoro Sangiovese
Castel Bolognese Salsiccia stagionata (si mangia cruda)
Cesena Sapore (conserva di mosto e frutta) – migliaccio
Civitella di Romagna Sangiovese (questa di Civitella è la qualità
più stimata di tutta la Romagna)
Comacchio Anguille – Anguille marinate
Faenza Cappelletti
Imola Vin Santo
Porto Corsini Brodetto (zuppa di pesce)
Ravenna Salsiccia – Asparagi (celebri sin dall’antichità) – Pignoli del Pineto – Zalett (pinocchiato) – Canina
Rimini Olive
Savignano di Romagna Mostarda
La settima edizione de La scienza in cucina era reclamizzata a tutta pagina in quello stesso Almanacco, e provava che la codificazione
della cucina romagnola andava di pari passo con la sua contestualizzazione geografica e la messa a fuoco, in una parte dell’Emilia detta
Romagna, di cibi e territori, analogamente a quelli che erano ormai abbinamenti comuni e noti ovunque: Bologna e la mortadella,
Milano e il risotto giallo. Di rilievo, è la localizzazione faentina dei
cappelletti che cominciano ad uscire dal grembo artusiano per riprendere una identità non genericamente romagnola.
La lista dei nomi dei piatti, con l’epiteto all’uso di romagna o alla
romagnola, era ovviamente destinata ad allungarsi, con ripetizioni
e conferme: basti citare Adolfo Giacquinto, e le sue Costolette alla
romagnola23 e Alberto Cougnet con la Panata alla romagnola e la
Zuppa crogiuolata con sugo di carne alla romagnola24 che ne provano
22G.F., Geografia gastronomica e potatoria d’Italia, Almanacco Italiano Piccola enciclopedia
popolare della vita pratica, Firenze, Bemporad, 1904, pp. 371 e 372.
23 Adolfo Giaquinto, La cucina di famiglia, Nuova raccolta, Bracciano, T. Romana,
1904, p.168.
24 Alberto Cougnet, L’arte cucinaria in Italia, Milano, Wilmant, 1910, t.I, pp.
storia e letteratura23
l’estensione e il favore nell’area romana e milanese. Più lenta era
la commercializzazione di prodotti o artefatti, perché alcuni di essi,
come la mostarda di Savignano restavano di consumo locale, mentre altri, le salsicce, avevano in Italia una diffusione così capillare, e
quindi si presentavano, spostandosi da un paese all’altro, in tali varietà da essere apprezzabili sono nella loro singolarità. Quando Artusi
richiedeva una palla di “coteghino” al suo fattore forlivese Bonavita
si sentiva rispondere: “Lunedì istesso le spedirò anche i cotegini; non
so poi se ne sarà contento perché i salumai un tempo rinomati non vi
sono piu e i nuovi non so quanto valghino”25. Per anni si era servito
della ditta Lasagni di Reggio Emilia poi, in seguito ad una delusione,
l’aveva cancellata da La scienza in cucina e aveva dovuto chiedere a
persone di fiducia, a Lugo, a Forlì, con questo risultato.
Dopo il 1911
Dopo la morte di Artusi, avvenuta nel 1911, le ristampe del suo
ricettario si stabilizzano intorno alle 10.000 copie all’anno, e continuano ad essere la fonte più autorevole della cucina romagnola. Si
moltiplicano tuttavia i plagi e le varianti delle sue ricette, cui se ne
accostano di “nuove”. A contribuire al successo dei piatti, giocano
fattori quali il turismo, il favore del modello bolognese che fa da traino a quello antagonista romagnolo, e, con l’avvento del fascismo, le
origini del Duce. Ritroviamo i Cappelleti alla romagnola, nei ricettari
d’ordinanza come Il cuciniere militare di Dario Fornari, affiancato
da un Risotto alla Predappio26 ispirato da altre cucine. Il soffritto con
olio e burro, la carne di maiale o la salsiccia, la mantecatura con
burro e formaggio ne collocano l’origine più che nell’Appennino
tosco-romagnolo, nelle piane risicole e nel milanese. False e vere
ricette si alternano con piatti di nuovo conio, anche nei centri deputati, ma due fattori contribuiscono alla stabilizzazione dei modelli
regionali, l’uno è il successo continuo del precitato Artusi, l’altro
La guida gastronomica d’Italia del Touring Club Italiano, del 1931.
Quest’ultima individuava la Romagna nelle due provincie di Forlì e
Ravenna, ampliando i ragguagli su prodotti, piatti e vini rispetto al
111 e 112.
25 Antonio Bonavita, lettera del 13/12/1907 (Archivio Forlimpopoli 429 a).
26 Dario Fornari, Il cuciniere militare, Novara, Cattaneo, (1930), pp. 131 e 136.
24
le cucine di romagna
1904, e mettendo a fuoco un quadro sistematico che resterà a lungo
valido. Quando nel 1969, Vincenzo Cunsolo procederà a rifondere,
per il Touring Club Italiano, la vecchia edizione in una nuova, ecco
il raffronto delle principali specialità
1931
1969
Piè, piada, piadina
Piada
papardèlPappardelle
maridè
caplèttCappelletti
Orecchioni
Furmai squaquaròn
Squaquaron
Cavoli romagnoli
Caplètt in timballo
Pasticcio alla romagnola
Tritùra, tardùra
Tardura
PassatelliPassatelli
Al pal ad curghèn
Palle di cotechino
Salame gentile
Salsiccia matta
MiazMigliaccio
Sapa
Zuppa inglese
Zuppa inglese
SfrappoleSfrappole
CastagnoleCastagnole
Sapori
Il bilancio è presto fatto: sono scomparsi i maridè (minestra di quadrettini di pasta all’uovo con fagioli), la sapa (mosto cotto) e i sapori
(dolci di mosto e farina); di nuovo compaiono: gli orecchioni (cappelletti giganti), i cavoli romagnoli, il salame gentile e la salsiccia
matta. Pur tenendo conto di un metodo di rilevazione diverso, e di
un maggior peso dato alla ristorazione, il quadro è stabile. A collocare al primo posto la piada era stata la guida del 1931 citando, in
mancanza di Artusi che non l’aveva menzionata, Giovanni Pascoli.
I ricettari regionali italiani, destinati alla cucina di casa che in buona
parte ignorano la piada, cresceranno sul copus artusiano, arricchendolo di piatti destinati alla cucina borghese quindi a menù modulati
dalla varietà dei prodotti e dalla eleganza delle preparazioni. Nella