Vanità delle vanità, tutto è vanità

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Vanità delle vanità, tutto è vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità
L’indicazione di vita dell’Ecclesiaste
di Marcello Cicchese
“Temi Dio e osserva i suoi comandamenti”, questa è la conclusione a cui arriva
l’Ecclesiaste al termine del suo libro. E’ una conclusione un po’ banale, penserà qualcuno.
Molti, anche tra gli increduli, trovano avvincente il libro dell’Ecclesiaste per il suo carattere
enigmatico, paradossale, inquietante: si può quindi capire che possano restare delusi dalla
sua conclusione, considerata forse un po’ troppo piatta e moralistica.
“Temi Dio e osserva i suoi comandamenti”: sono cose fin troppo note, penserà ancora
qualcuno. Tanto note da non dover essere continuamente ripetute, se non si vuole correre il
rischio di deprimere chi ascolta: instillare nel prossimo sentimenti di paura e caricarlo di
obblighi morali è un tragico errore per chi annuncia l’Evangelo. Oggi le persone si
mostrano aperte ai discorsi religiosi: bisogna dunque saper sfruttare questa favorevole
disponibilità presentando loro un messaggio che non li intimidisca e non li respinga. E
dobbiamo fare questo anche con i nostri figli, se non vogliamo che rifiutino annoiati i nostri
discorsi moralistici e vadano a cercarsi i piaceri là dove vengono abbondantemente offerti,
cioè nel mondo. La chiesa deve essere competitiva in fatto di offerte di felicità, se vuole
trovare ancora chi la stia a sentire. Questo potrebbe sempre dire quell’ipotetico qualcuno.
Ma la conclusione a cui arriva l’Ecclesiaste è proprio questa: “Temi Dio e osserva i
suoi comandamenti”:
Chi non ha letto il libro potrebbe pensare che l’autore sia un tipo un po’ all’antica, uno
di quei dogmatici intransigenti che, in nome di astratti imperativi etici, proibiscono a sé e
agli altri di godere senza troppi scrupoli le tante cose buone che ci sono nella vita. Ma non è
così.
“Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu
godrai il piacere!»” (Ec 2.1).
Anche l’Ecclesiaste avrà sperimentato, come tutti noi, quegli acuti sentimenti di
insoddisfazione che segnalano un vuoto, qualcosa che dovrebbe esserci e non c’è, qualcosa
che la vita offre ma non viene sperimentato, e che dunque deve essere ricercato.
L’Ecclesiaste non ha voluto restare con il dubbio che il senso di vuoto da lui provato
potesse essere causato dal fatto che gli mancasse qualche esperienza di felicità. Essendo un
potente re d’Israele, non ha avuto difficoltà a procurarsi tutto quello che desiderava: piaceri
della tavola, realizzazioni architettoniche, gratificazioni artistiche, soldi, comodità, donne.
Tutte le cose piacevoli che la vita poteva offrire, l’Ecclesiaste le ha ottenute. E tutto quello
che ha raggiunto è espresso in queste parole:
“Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto
odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento” (Ec 2.17).
E’ tremendo pensare che il godimento di tutti i possibili piaceri offerti dalla vita possa
condurre a odiare la vita! Ci saremmo aspettati il contrario. Ci saremmo aspettati un
atteggiamento di gratitudine verso la vita e un rinnovato desiderio di continuare ad
assaporare i gusti piacevoli che essa sa offrire. Invece l’Ecclesiaste continua a ripetere il
ritornello che fa da sottofondo a tutto il suo discorso: “Tutto è vanità”.
E’ importante sottolineare la parola “tutto”. Sappiamo bene che nella vita ci sono
piaceri frivoli e vacui che non vale la pena di inseguire; ma sappiamo anche che la vita sa
offrire molte cose valide e belle; e siamo capaci di fare le dovute distinzioni: questi piaceri
sono buoni, questi altri sono cattivi; questi sono leciti, questi altri sono illeciti: i primi sono
da ricercare, i secondi da fuggire.
Ma l’Ecclesiaste dice, dopo averne fatto personale esperienza, che tutto è vanità.
Questo vuol dire che da nessuna parte sotto il sole esiste qualcosa che possa colmare il
senso di vuoto che afferra chi vive in una realtà distaccata da Dio. E’ vano sperare di
trovare sotto il sole un rimedio alla vanità: tutto è vanità. Chi non crede questo ed è
convinto che da qualche parte sotto il sole ci sia qualcosa che possa riempire la vita, è
destinato a fare l’esperienza dell’Ecclesiaste: dopo averle provate tutte, le illusioni
cadranno ad una ad una e alla fine si farà avanti lo spaventoso pensiero che il vuoto è
incolmabile. Non è strano, in queste condizioni, che si arrivi a odiare la vita.
Ma allora è proprio vero, penserà qualcuno, che l’Ecclesiaste è un libro tetro,
pessimista. Se anch’io penso così, e per questo motivo non mi sento attratto da questo libro,
probabilmente vuol dire che ho un particolare bisogno di rileggerlo e di meditare sulla sua
conclusione:
“Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l'uomo” (Ec
12.13).
Forse avrei preferito che l’Ecclesiaste avesse usato un po’ più di moderazione: avrebbe
potuto dire che quasi tutto è vanità, e avrebbe potuto invitarci a scegliere, tra le molte cose
inutili e nocive, le poche cose utili e buone. Ma se tutto, proprio tutto, è vanità, come si fa
ad evitare che il senso di vuoto ci attanagli?
L’Ecclesiaste non ammorbidisce il suo discorso, non fa come certi padri cristiani che
nel timore vedere i figli “sganciarsi” da loro e andarsi a cercare i piaceri nel mondo fanno
capire che la frase di Gesù: “Così dunque ognuno di voi, che non rinunzia a tutto quello
che ha, non può essere mio discepolo” (Lu 14:33), non deve essere presa troppo alla lettera.
In fondo - si pensa - è comprensibile che i giovani si prendano le loro legittime
soddisfazioni.
Il rimedio dell’Ecclesiaste al tedio della vita non consiste nell’attenuare il suo discorso,
ma nel portarlo fino alle sue estreme conseguenze. E le conclusioni a cui arriva sono due:
una intermedia e una conclusiva. Quella intermedia è: “Tutto è vanità”; quella conclusiva
è: “Temere Dio e osservare i suoi comandamenti è il tutto per l’uomo”.
Sembra che oggi i cristiani sopportino male le forti contrapposizioni bibliche come
vita-morte, luce-tenebre, verità-menzogna, salvezza-perdizione. Si preferisce parlare in
forma sfumata, attenuata. Naturalmente, parole taglienti di Gesù come “Chi vorrà salvare
la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per amor mio, la salverà” (Lu
9:24) non vengono negate; si cerca però di “contestualizzarle” inserendole in un discorso
complessivo più ampio e ben calibrato, in modo da non turbare troppo né chi ascolta né chi
parla.
La Bibbia invece è un libro di forti contrasti: il paesaggio che descrive ha picchi
altissimi e baratri spaventosi. Anche il libro dell’Ecclesiaste non fa eccezione. C’è un
“tutto” negativo che conduce alla morte e un “tutto” positivo che conduce alla vita. Non ci
sono altre possibilità. Non si prendono in considerazione casi intermedi, perché le questioni
di vita e di morte non si esprimono in termini di percentuale.
Sotto la guida di Dio, l’Ecclesiaste è portato dalla sua esperienza a soffermarsi
principalmente sul “tutto” negativo. Descrivendo estesamente i suoi tentativi di raggiungere
la felicità e riportando con sincerità le analisi e le riflessioni che l’hanno condotto a
riconoscere amaramente che tutto è vanità , l’autore del libro fa un grande uso della prima
persona singolare: “Io ho visto, io ho detto, io ho riconosciuto, io ho esaminato, io mi sono
applicato, io ho trovato, io presi la decisione, io intrapresi grandi lavori, ecc.”. Manca del
tutto, in questi passi e nel resto del libro, l’espressione tipica della Scrittura: “Così parla
l’Eterno”. Sembra che l’Ecclesiaste abbia voluto, per un certo tempo della sua vita,
verificare fin dove si può arrivare senza ascoltare altre voci e ubbidire ad altri stimoli che
non siano i propri pensieri e i propri desideri. Quello che alla fine arriva a dire è noto:
“Tutto è vanità”.
Ma perché tutto? Perché considerare vanità anche cose che in sé sembrano buone e
lecite, come edificare case, piantare vigne, costruire parchi e giardini. Vane non sono le
cose, vano è l’uomo che si illude di raggiungere, attraverso il conseguimento di obiettivi
scelti in completa autonomia, quella pienezza di vita di cui ha estremo bisogno e che
inutilmente ricerca nella felicità che spera di trovare nelle cose. L’uomo che si è allontanato
dal suo Creatore ha un vuoto di dimensione infinita dentro di sé, e la speranza di riuscire a
colmare questo vuoto infinito gettando in esso un numero sempre maggiore di oggetti finiti
non può che far crescere la disperazione. L’Ecclesiaste l’ammette:
“Così sono arrivato a far perdere al mio cuore ogni speranza su tutta la fatica che ho
sostenuta sotto il sole” (Ec 2:20).
Ma riconoscere che tutto è vanità, se forse è stata la conclusione di un cammino di
esperienza dell’Ecclesiaste, è soltanto l’inizio del discorso contenuto nel suo libro. Un
inizio che forse si prolunga per molte pagine, ma che in ogni caso non costituisce la
conclusione del suo discorso. La conclusione, come sappiamo, è un altra:
“Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l'uomo” (Ec
12.13).
L’autore del libro non si sofferma molto a descrivere il “tutto” positivo a cui mirava fin
dall’inizio. Ma quello che dice è sufficiente a farci capire in quale direzione ci invita a
guardare: il tutto per l’uomo è temere Dio e osservare i suoi comandamenti.
“Chi ho io in cielo fuori di te? E sulla terra non desidero che te” (Sl 73:25).
Anche il salmista sottolinea, con altre parole, che per l’uomo, Dio è il tutto, perché non
esiste, non deve esistere né in cielo né sulla terra altro oggetto di desiderio fuori di Lui.
Tutte le altre realtà, persone e cose, pensieri e propositi, trovano il loro giusto posto solo in
Dio, e non accanto a Dio. Fuori di Lui non c’è salvezza, né eterna né temporale, né in cielo
né sulla terra.
Poiché l’Ecclesiaste non possiede ancora la rivelazione piena della volontà salvifica di
Dio, come poi si è espressa nel Signore Gesù Cristo, non è strano che nel suo libro
manchino indicazioni complete e precise su quello che significa oggi temere Dio e
osservare i suoi comandamenti. Altre parti della Scrittura, soprattutto del Nuovo
Testamento, servono a questo scopo. Ma se l’Ecclesiaste non si addentra nella descrizione
esauriente di quella che è la giusta Via, certamente si può dire che la indica in modo molto
chiaro. E in modo ancora più chiaro indica e descrive con abbondanza di illustrazioni,
riflessioni e ammonizioni la fallacità illusoria di ogni altra via che non sia quella del timore
del Signore. E dei suoi severi ammonimenti abbiamo oggi un urgente bisogno. Ne abbiamo
bisogno anche e proprio noi che ci confessiamo discepoli di Gesù Cristo, perché il tempo in
cui viviamo è un tempo di seduzione. Una seduzione che assume spesso la forma
dell’invito a “godere il piacere” (Ec 2.1); invito che naturalmente arriva corredato da
un’abbondanza di argomenti psicologici e teologici.
Tuttavia, in questo libro che a qualcuno può sembrare tetro e deprimente si trovano
inaspettati riferimenti alla gioia:
“Va', mangia il tuo pane con gioia, e bevi il tuo vino con cuore allegro, perché Dio ha
già gradito le tue opere” (Ec 9:7 ).
L’uomo che ha voluto mettere il suo cuore alla prova con la gioia e che dalla sua
ostinata ricerca di piacere è uscito mortalmente disilluso, sa inserire nelle sue cupe
riflessioni un vero e proprio inno alla gioia:
“Così io ho lodato la gioia, perché non c'è per l'uomo altro bene sotto il sole, fuori
del mangiare, del bere e del gioire; questo è quello che lo accompagnerà in mezzo al
suo lavoro, durante i giorni di vita che Dio gli dà sotto il sole” (Ec 8:15 ).
Forse può sembrare un discorso un po’ materialista; forse ci saremmo aspettati un
linguaggio più “spirituale”. Ma anche qui, l’attenzione non deve essere posta sulle cose:
quello che conta non è il rapporto dell’uomo con le cose, ma il rapporto dell’uomo con Dio.
Chi cerca la felicità nelle cose senza interessarsi di Colui che ha creato ogni cosa, è
destinato a inseguire per tutta la vita un sogno ingannevole che lo porterà ad odiare la vita.
L’uomo che resta lontano da Dio e cerca la felicità nelle cose, non riesce mai a trovarla.
Quindi è costretto a spingersi sempre più avanti, verso cose sempre più sofisticate, per
arrivare infine a riconoscere che sta cercando qualcosa che non c’è. Trova il vuoto, la
vanità. Non vuole ammetterlo, ma la fame che lo rende insoddisfatto è la necessità profonda
di avere un rapporto vitale con il suo Creatore. E’ alla ricerca di qualcosa che sostituisca
Dio, seguendo una spinta interna che gli è stata data proprio al fine di condurlo a Dio. Ma
poiché Dio non ha sostituti, quello che trova è il vuoto. Il rapporto tra Dio e l’uomo non si
stabilisce, e l’uomo resta con una fame che nessuna cosa creata può appagare.
Al contrario, l’uomo che, invece di cercare affannosamente quello che presume essere
il suo bene, si mette nella posizione di disponibilità a ricevere i beni che Dio vuole
donargli, cominciando dal bene preziosissimo della Sua parola, risulta gradito a Dio e
riceve da Lui il dono della gioia. Il fondamento della gioia non sta dunque nelle cose, ma
nel vivente rapporto d’amore tra il Creatore e la creatura. L’uomo che dà gloria a Dio
accettando e vivendo questo rapporto d’amore non ha bisogno di piaceri sofisticati per
sentirsi appagato: può mangiare il suo pane con gioia, e bere il suo vino con cuore allegro,
perché sa che Dio, nella Sua grazia, lo gradisce.
“Gloria a Dio nei luoghi altissimi, e pace in terra agli uomini ch'egli gradisce!” (Lu
2:14).
L’Ecclesiaste non ci accompagna per un lungo tratto sulla via giusta, perché la sua
preoccupazione principale è quella di far capire quanto sbagliate siano tutte le altre vie
tentate dall’uomo; ma l’indicazione che da lui riceviamo è chiarissima:
“Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto per l'uomo” (Ec
12.13).
Con la Parola Dio ha creato il mondo: quindi per ogni essere creato non ci sono spazi
possibili al di fuori della Sua parola. Non ci sono per l’uomo zone neutre esterne alla vita:
tutto quello che l’uomo pensa, decide e fa avviene nella vita. Dunque la vita è il tutto per
l’uomo; e affinché non sia perso per l’eternità, questo tutto deve coincidere con l’ascolto
della Parola di Dio, che è la fonte eterna della vita.
“Sta scritto: Non di pane soltanto vivrà l'uomo, ma di ogni parola che proviene dalla
bocca di Dio” (Mt 4.4).
L’Ecclesiaste descrive molte vie sbagliate e indica una sola via giusta. Alla luce di tutto
il messaggio biblico, sappiamo che la via indicata dall’Ecclesiaste può essere soltanto Colui
che ha detto di sé: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14.6).
Temere Dio significa riconoscere pienamente la dignità divina della Sua persona;
osservare i comandamenti significa sottometterci incondizionatamente all’autorità
normativa della Sua parola.
“Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà amato
dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14:21).
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