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GLI ALIENI
Prima, lui
Lei usava spesso quella parola. Osare. Diceva proprio così. Dovete osare. Abbiate coraggio e osate.
E qualcuno di noi l'aveva presa sul serio. Aveva osato. Forse anche troppo. Anch'io adesso sto
osando. Ho cominciato poco fa. Quando ho digitato quelle parole.
Suicidio. Metodi suicidio. Modi per suicidarsi. Tecniche suicidio.
Parole di chi osa e ha coraggio. Al massimo della forza.
Pensare che.
Tutto era cominciato con.
E guarda un po' com'è finita.
Fino a qualche giorno fa. Calma piatta. Vita regolare. Niente di strano. Mentre ora. Un gran casino.
E sono qui. A un metro dal traguardo. Cosa incongrua. Per uno della mia età. Incongrua. Già.
Ma sono qui. Mi trovo in questa stanza. Casa di corte. Il cortile di mia nonna. Che se n'è andata per
una settimana. A stare dall'altra figlia. La sorella di mia madre. Che sarebbe poi mia zia. Con lei non
ho molta confidenza. Anche se è più giovane di mia madre. Questa era la sua camera. E' una stanza
grande. Arredata con mobili vecchi e passati di moda. Qualche poster ingiallito alle pareti.
Complessi o attori antichi. Che non conosco. L'odore è diverso rispetto a quello di casa mia. Più
vecchio e ammuffito. Anche se zia è giovane. Più di mamma.
No non potevo farlo a casa. Nella mia stanza. Magari con mio fratello che piomba dentro senza
bussare. Ho bisogno di calma. Di spazio. Di tempo. Qui ne ho quanto ne voglio. Nessun vicino a
curiosare. Nessun rompiscatole che arriva all'improvviso. La vicina di casa è una vecchia
rimbambita. Sorda e semiparalizzata. Non mi avrà nemmeno sentito entrare.
Prima mi sono documentato su internet. Ho messo la parola chiave su guggle. So come si scrive e
come si pronuncia. Ma c'è ancora chi lo fa in quel modo. Compresi dei miei compagni di classe
secchioni. Volevo andare in biblioteca. Per stare più tranquillo. Anche se la bibliotecaria è una che
rompe. Ma poi mi sono ricordato che era domenica. E ho dovuto passare da casa. Per forza. Ho
acceso il pc di mio fratello. Lui non lo sa che ogni tanto lo uso. Ma io conosco la sua password. E
comunque non lo saprà mai.
Ho digitato suicidio. Metodi modi tecniche. Parole così. Ho trovato del materiale molto
interessante. Sì proprio interessante.
Persino il sito tuttoperilsuicidiopuntocom. Da non crederci.
Dissanguamento. Affogamento. Combustione. Elettroesecuzione. Questo è davvero incredibile.
Esplosione. Impiccagione. Salto o defenestrazione. Avvelenamento. Un classico. Armi bianche.
Armi da fuoco.
Meno male che non ero in biblioteca. La bibliotecaria certe volte è un'impicciona. Sicuro che
passava dalle mie parti. Con la scusa di risistemare dei libri. Vedendo certe immagini piuttosto
crude mi avrebbe sgridato. A parte che esiste la privacy. Ma questo non gliel'avrei detto. Avrei
risposto seccato che si trattava di una ricerca per la scuola. Che strane ricerche vi danno i vostri
insegnanti. Così avrebbe ribattuto e girato i tacchi.
Ormai ho deciso quale metodo utilizzare. Anzi non solo ho deciso. Sto già per farlo.
Ma ora mi devo concentrare.
Devo passare alla fase operativa. Mi piace questa espressione. Fase operativa.
Ecco qui. E' ora di preparare per bene la scena. La scena del delitto. Come quelle di Csi. Chissà se
capiranno che cosa è successo. Com'è andata davvero.
E pensare che tutto è cominciato con il furto di un cappello.
No non si era trattato di un cappello vero e proprio. E forse nemmeno di un furto vero e proprio. Si
potrebbe definire un prelievo. Come quando si passa e si tira su una cosa. Quasi senza pensarci. Era
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lì abbandonata. Tutta sola. Poi c'è qualcuno che passa. E anziché tirare dritto butta l'occhio attorno.
Stira il braccio. L'afferra senza neanche guardarla. E se la ficca in tasca. Prima era lì per terra. Un
secondo dopo sta viaggiando nel suo giubbotto.
C'è da chiederselo. E da rompersi la testa. Un gesto così innocuo come tirar su una cosa. E poi una
lunga fila di fatti che parte da lì. E non sai dove arriva. Un filo che diventa una matassa
chilometrica. Una cosa da niente che diventa una tragedia. Osa. Così diceva lei. Osa e abbi
coraggio. E qualcuno lo ha fatto. Come me adesso.
Mi fermo per un attimo. Sto pensando troppo. La testa mi brucia. Non devo pensare a quel che è
successo. Tutto era cominciato.
Già.
Quando.
Sarà stato giovedì. Meno di quattro giorni. Una goccia e un diluvio. Mi fa troppo male. Più male di.
Come faccio a saperlo. Lo immagino. Dare un taglio netto. Anche se tutto è stato scritto e deciso. E
nulla può cambiare. Tutto. Dalla a alla zeta. Dalla prima all'ultima parola. Dal primo all'ultimo fatto.
Accidenti che situazione.
Ho digitato suicidio metodi tecniche. Parole così. Non so nemmeno se ho paura.
Dio mio. Che so che non esisti. Perché mi hai abbandonato.
Sei incongruo anche tu.
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Seconda, gli altri
Quel giorno gli era andato tutto storto, ma dopo un sms ricevuto alle 19.21 e qualche secondo, le
cose sembrarono finalmente volersi rimettere sulla carreggiata giusta. Rispose al messaggio e ne
inviò un altro ad Alex, raccomandandogli di farsi trovare pronto nel giro di un quarto d'ora. Poi si
sfilò la tuta, la gettò in un angolo del bagno e s'infilò sotto la doccia canticchiando.
Il racconto parte da Matte, ma potrebbe anche partire da uno qualunque dei suoi amici della Ganga,
poco importa, tanto tutto porterebbe alla stessa identica conclusione: una volta che qualcosa è
capitato è capitato, e soprattutto una volta che è andato storto...
Comunque, per Matte, prima di quell'sms, la giornata era stata davvero malata.
I suoi genitori erano stati chiamati a rapporto dalla scuola, quella mattina, con tanto di lettera
controfirmata dal direttore che praticamente ordinava loro di andare a colloquio con una buona metà
dei professori – una specie di consulto che rischiava di assomigliare a un plotone di esecuzione.
La cosa era preoccupante perché capitava in un periodo delicato, a nemmeno un mese dagli esami
finali di licenza media. Non tanto per gli esami, quanto per lo scooter stellare che Matte stava
aspettando da almeno un anno. Si trattava di un modello di importazione, che qui nessuno aveva
ancora. Un bestione rosso e scintillante, con rifiniture da paura, la sella che sembrava una poltrona e
alcuni accorgimenti tecnici che nemmeno le auto da corsa... vabbé, lui forse tendeva un po' ad
esagerare quando ne descriveva agli amici le prestazioni. Così finalmente avrebbe mollato quello
giurassico ereditato dalla sorella. Un rottame che si fermava ogni due per tre, e che in uno di quegli
improvvisi stop gli stava costando caro. Era dovuto scappare per i boschi, quella volta, inseguito da
quei tipi: gli venivano solo i brividi a pensarci.
-Se passi l'esame è tuo – gli aveva giurato la madre un giorno mentre si passava il rossetto sulle
labbra, fissandolo da dentro lo specchio dell'anticamera.
-Con qualsiasi voto? - le aveva ribattuto mentre calzava le Nike candide, appena tolte dalla
confezione, un'enorme scatola color senape con bande azzurre sui lati. Stava seduto sullo sgabello,
dietro alle spalle della madre che continuava a fissarlo dentro lo specchio che occupava mezza
parete e faceva all'occorrenza da attaccapanni.
Lei lo aveva guardato ancora un po' in tralice e alla fine aveva storto la bocca, sbaffandosi sul lato
destro.
-Cazzo! - aveva detto piano, ma non tanto da non farsi sentire dal figlio, che subito si era messo a
ridacchiare mentre stringeva l'ultima stringa imbambolato a contemplare linea e forma delle scarpe
fiammanti.
-Davvero belle! - mormorava tra di sé tutto soddisfatto.
Lei doveva essersi accorta dello sguardo svagato del ragazzo - una faccia da triglia - e aveva finito
per tagliar corto senza pensarci su due volte:
-Sì, con qualsiasi voto.
“Veramente, se tu...” - avrebbe voluto aggiungere, ma lui aveva sorriso e se l'era svignata
saltellando ora su un piede ora sull'altro, come un pupazzo a molla, lasciandola pensierosa mentre
riponeva i trucchi nell'armadietto.
La madre di Matte lavorava al CCMX, lo sterminato Centro commerciale MegaX. Un vero e
proprio paese dei balocchi che dalla fervida immaginazione dell'autore del più celebre dei burattini
si era materializzato nel giro di pochi anni su quell'ampia superficie al margine est del paese, un
tempo contesa da cave e discariche. Svariate migliaia di metri quadrati, almeno tremila dipendenti e
decine di migliaia di visite al giorno – una bolgia a suo modo ordinata quasi più di un formicaio.
Matte si ricordava bene di quel dialogo allo specchio. Aveva puntualmente rammentato alla madre
la promessa e ora, dopo aver ricevuto quella lettera così minacciosa dalla scuola, cominciò a
preoccuparsi. Ancora non aveva saputo com'era andato il colloquio – la madre era di turno fino al
tardo pomeriggio e lui aveva pensato bene di evitare di rispondere a due sue chiamate. Avrebbe
fatto in modo di non farsi trovare per cena e a quel punto sarebbe stato salvo almeno fino al mattino
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dopo. E anche se era giovedì sera, per nessuna ragione al mondo avrebbe rinunciato ad uscire con
gli amici.
L'estate sembrava essere cominciata in anticipo, dopo un inverno che dal novembre precedente non
aveva quasi mai dato tregua, tra nevicate fitte, gelo e piogge torrenziali. Gli ultimi tardivi fiocchi
erano caduti in pieno aprile, sopra i residui campi e gli alberi fioriti dei giardini, dopo di che,
saltando praticamente una stagione, era esploso un caldo torrido che non lasciava presagire nulla di
buono per i mesi estivi a venire. Ma a Matte le previsioni del tempo o gli allarmi climatici non
interessavano granché, e quella calura improvvisa gli stava fornendo piuttosto l'occasione per
indossare la canotta nera con l'enorme drago rosso che la sorella gli aveva portato l'anno prima da
Boston, un capo forse plebeo, ma che aveva il vantaggio di esaltare il principio di muscolatura.
Quanto ci aveva lavorato quell'inverno alla palestra del MegaX (abbonamento scontato del 10%
grazie alla madre)!
Uscì dalla doccia ancora canticchiando, indossò l'accappatoio e poi lo gettò accanto alla tuta. Si
fermò per qualche minuto davanti allo specchio della porta, ammirando i bicipiti e gli addominali ;
poi si inondò di profumo - preso dall'armadietto di Greta, la sorella – si vestì, si pettinò con cura e
sgattaiolò svelto dal retro della casa, senza farsi vedere dal padre.
Avevano un bar che dava sulla strada principale del paese, e anche se la concorrenza era dura e certe
volte persino sleale, in qualche maniera tiravano avanti. Se ne occupavano principalmente il padre e
la sorella, la madre solo se il turno al MegaX non era stato pesante, mentre lui ci stava
occasionalmente. Aveva imparato a fare il caffé e un paio di cocktails – tra cui il mohito, quello che
gli aveva procurato la prima sbronza a tredici anni. Anzi, a dodici e mezzo per la precisione. Un
buon numero al ribasso per le statistiche allarmate dei massmedia nazionali. Fortuna che a trovarlo
semisvenuto era stata Greta, insospettita da una strana risatina proveniente dalla sua camera, e che
si era pure dovuta sentire in colpa per avergli insegnato a farlo, quel mohito che lo aveva steso per
alcune ore. L'omertosa complicità tra fratelli evitò ulteriori problemi. Però Greta, da quel giorno,
aveva smesso di insegnare a Matte i segreti del mestiere di barista.
Quella sera arrivò da Alex tutto raggiante. La canottiera che odorava ancora di naftalina, il profumo
della sorella che si sentiva a un chilometro, la frangetta stirata sugli occhi verde chiaro: Alex lo
osservò divertito dandogli del finocchio.
-Cos'hai lì nella tasca dei pantaloni? - gli chiese poi ridendo e puntando l'indice verso l'inguine.
-Bella Alex! Questo è whisky! Perché, cazzo credevi? - l'amico intanto lo aveva invitato ad entrare
in casa con un gesto della mano, senza smettere di ridere. Matte si toccò la protuberanza ridendo a
sua volta e mimando un gesto autoerotico.
-Io comunque ce l'ho molto più grosso – disse dandogli una pacca sulla spalla.
Poi tirò fuori dalla tasca una minuscola bottiglia cilindrica, grigia satinata con un vistoso tappo
turchese.
-Ma che cavolo di bottiglia è quella? - chiese Alex.
-Boh, ne ho presa una a caso e l'ho riempita. Doveva solo essere piccola, in modo da poterla
nascondere. Sei solo in casa?
-Mmm mmm. Dai entra. Stavo finendo di prepararmi. Spero solo che tu l'abbia risciacquata.
-Risciacquato cosa?
-La bottiglia, cretino! Chissà cosa cavolo c'era dentro, prima.
-Qualsiasi cosa fosse, quel che ora c'è dentro lo avrà coperto di sicuro.
Si avviarono verso il bagno, dalla cui porta socchiusa usciva un profumo di bagnoschiuma
all'albicocca e i vapori di una recente doccia.
-E' andata tua madre a scuola? - chiese Alex mentre tornava a piazzarsi davanti allo specchio, non
prima di aver passato uno straccio per ripulirlo dalla patina umida che lo aveva annebbiato.
-Boh, credo di sì. Ha chiamato due volte.
-E?
-E io non ho risposto, ovvio.
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-Che coglione.
-Fino a domani mattina niente rotture di palle. L'unico rischio che corro è di essere svegliato a
mazzate.
-Beh, tanto c'è scuola, esci prima del solito e...
-Sì, ma io mi sa che domani non ci vado a scuola.
-Ah no?
-Anzi, che ne dici di bigiare insieme?
-Mmmm, mia madre mi marca stretto in questo periodo... e poi domani abbiamo due ore di Bonati.
-Il solito cacasotto.
Alex aveva l'aria di essere molto concentrato mentre con ampi gesti della mano stendeva il gel sui
capelli.
-Ma che marca usi?
-Hai sentito gli altri? - le domande uscirono in contemporanea e i due si misero a ridere. Alex passò
il flacone all'amico che prese ad osservarlo con gravità.
-Non è granché questo. Usa il PentaCult, lo trovi in offerta al MegaX. Sì, abbiamo appuntamento
alla panchina tra mezz'ora. Intanto che ne dici se ci facciamo un sorso?
-Non so, io non l'ho mai bevuta quella roba.
-Beh, c'è sempre una prima volta no?
Matte tolse il tappo variopinto e diede una gran sorsata. S'asciugò la bocca con il dorso della mano e
passò il bottiglino all'amico.
-Mica male – disse poi fissando la fronte di Alex.
-Mica male cosa?
-I tuoi capelli. Le ragazze ti sbaveranno dietro stasera. Ragazze-che-sbavano-dietro-a-un-frocetto.
Praticamente un ossimoro. E anche se la marca del gel è scadente.
-Che bastardo! - urlò Alex.
-Allora bevi o no?
-Ossimoro! Ma l'ha detto ieri in classe la Bonati. E tu mica sapevi cosa voleva dire! - a quel punto
portò anche lui il collo della bottiglia alla bocca, ma si fermò dopo averne annusato il contenuto.
C'era un odore laggiù sul fondo opaco che non lo convinceva.
-Naaaa! Perché tu lo sapevi? - lo prese in giro Matte, anche se già conosceva la risposta.
-Io... sì. Ma che cazzo c'era dentro in 'sta bottiglietta?
-Ti ho già detto che non lo so. Al massimo c'era del dopobarba di mio padre – e giù a ridere – non ti
preoccupare, manda giù.
-Matte, pensi davvero che qualcuna mi noterà?
-Seeee, magari qualche vecchia sdentata. Hai presente la Balcona?
-Chi, quella che va in giro a raccogliere stracci con quel carretto scassato?
-Lei. Potresti fare colpo. E magari aiutarla a spingere il carretto.
-Un vero amico!
-Comunque con un sorso di questo avrai meno problemi, tutto sarà più facile – disse Matte
passando ad Alex di nuovo la bottiglietta con quella roba color té dentro, dopo averne ingollata
quasi metà.
-Sei pazzo? Ti vuoi proprio ubriacare?
-Ma va, coglione! Prova anche tu, vedrai che dopo ti sentirai meglio, e il mondo... ti sorriderà! sembrava il ragazzino di uno spot demente per prodotti per adolescenti. Lo stava decisamente
pigliando per il culo.
-Avevi bevuto questa roba... l'altra sera? - si lasciò scappare Alex, che cominciò a tossire al primo
sorso.
-L'altra sera quando?
-Ma sì, dai, hai capito...
-Chi te l'ha detto? - un'ombra improvvisa coprì tutto quel ridere incontrollato.
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Matte rivide la scena. Lo scooter giurassico che non ripartiva e lui costretto ad abbandonarlo lì sul
ciglio della strada, mentre se la dava a gambe nel bosco, con quei tizi poco raccomandabili alle
spalle, e il più esaltato che gli avrebbe rifatto volentieri il naso, se solo lo avesse preso. Sentiva
ancora il loro fiato sul collo, i rumori dei passi sulle foglie secche e le urla nelle orecchie – e meno
male che erano troppo fatti per raggiungerlo. Se l'era vista davvero brutta.
-Ma chi erano? - provò Alex, senza però insistere troppo.
L'ombra sulla fronte di Matte lo guardò:
-Degli stronzi marocchini di merda! Dei veri e propri sfigati – disse senza però specificare le
circostanze della tentata aggressione. Alex capì che era il caso di lasciar perdere.
-A proposito di sfigati, non dobbiamo passare a prendere Quattrocchi?
-Sì – finalmente Matte riprese a ridere – magari lasciamogli un sorso, così vediamo cosa succede.
-Un vero esperimento sociale – disse Alex ridendo a sua volta.
Uscirono nella serata precocemente calda e percorsa da scie dense di moscerini già agguerriti.
Erano le 19.21 del 13 maggio e proprio in quel momento – qualche secondo dopo che lo zero aveva
ceduto sul display il posto all'uno - il cellulare di Matte annunciò con una risata sguaiata l'arrivo di
un messaggio.
Tutto sarebbe cominciato da lì, da quello stupido messaggio.
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Terza, lei
che voglia che ho di far lezione, avrò dormito sì e no tre ore stanotte, ieri sera riunione
politica fluviale come al solito quando bastava mezz'ora, e poi a chiacchierare fino alle tre del
mattino di questo e di quello, esistenze al limite della deriva psicologica, menti stralunate e corpi
ondeggianti per qualche bicchiere di pinot grigio in più
nemmeno un caffé decente sono riuscita a prendermi, era l'alba quando la sveglia è suonata,
ma c'è voluta una mezz'ora buona prima che realizzassi, giusto il tempo di stuccare un po' il viso e
di rendermi presentabile allo scibile umano, e poi via di corsa alla fermata del tram, tre piani di
scale, meglio non prendere l'ascensore liberty, non si sa mai, specie di prima mattina o in tarda
serata, cinquecento trafelati metri a piedi, tram, autobus, altri cinquecento metri smadonnando per il
ritardo, il tutto in un'ora e mezza quando va bene, cinque giorni alla settimana, quasi sempre alla
prima ora, questa la mia attuale condizione di docente pendolare
pure la sigaretta è andata a ramengo, dopo soli due tiri l'ho dovuta gettare sul marciapiede, a
pochi centimetri dall'ammasso di ferraglia in arrivo, puntuale come la morte, in queste mattine
tiepide e luminose di maggio, e mai che arrivi al momento giusto, sempre un minuto dopo
d'inverno, il tempo che le dita congelino, ma detesto i guanti, e nessuno mi convincerà mai a
portarli, nemmeno sull'Everest, dove peraltro non vedo perché dovrei salire, non son mica una yeti,
sempre un minuto prima nella bella stagione, quando accendi, fai giusto due tiri ed ecco che il muso
arancio e scintillante compare all'orizzonte, annunciato da quell'allegro sferragliare, ma di allegro
c'è solo lui, tutti quelli che lo aspettano stanno a testa bassa, gravati dai pensieri e con occhiaie che
quasi escono dalla circonferenza del viso, per non parlare di chi, come me, abita proprio sopra i
binari del tram
ma ora son qui, di fronte ai miei ventisette alieni ventisette, non uno che sia a casa ammalato
o che abbia dato buca, sembrano detestare a parole la scuola, ma in realtà gira e rigira son sempre
qui, mai un'assenza, anche di pomeriggio, anche dopo gli esami di licenza media, in cerca di radici
di un senso di un'identità, li capisco così fluttuanti e metafisici come sono, corpi sbalestrati qua e là
da genitori che non sanno e non capiscono nulla di loro, con migliaia di pellicole dell'apparenza
cucite addosso, senza che ce ne sia una buona, nessuno destinato a essere qualcosa di diverso da
quel che altri hanno deciso per le loro vite
son qui e li guardo ad uno ad uno, tutti e ventisette, attenti e adoranti nonostante la mia
mente stia ancora appiccicata alle lenzuola, prof di qua prof di là, mi chiamano in continuazione, mi
chiedono consigli su ogni cosa, anche le più stupide, anzi soprattutto sulle più stupide, anche se
sono solita dir loro che non esistono domande stupide, solo le risposte talvolta, le domande mai, non
abbiate mai paura di domandare, disseminate il mondo e le dure orecchie degli adulti di domande, a
raffica, senza pietà, perché perché perché, prima erano solo le ragazze, poi a rimorchio ci si sono
messi anche i ragazzi, sono diventata una specie di faro illuminante mio malgrado, e si capisce, alla
ricerca come sono di qualcuno che li ascolti e che dia loro anche solo un milligrammo di credito
tre anni fa all'inizio di questo viaggio erano dei bambocci, qualcuno avrebbe voluto ancora
considerarmi la mamma maestrina delle elementari, io li ho subito inibiti facendo la dura e pura, ma
l'ho fatto dandomi loro anima e corpo, severità e indulgenza insieme, senza mai risparmiarmi, e
spremendo da loro anche la più piccola goccia di intelletto e possibilità, e il risultato eccolo qui
davanti a me
ventisette alieni meravigliosi, che amo e odio come me stessa, con i quali e senza i quali non
potrei mai vivere, ventisette alieni in bilico tra il richiamo del mondo là fuori e la mia figura quasi
sacerdotale, ma tanto so che il tempo sta per scadere, tra un mese la dannata logica del centro
commerciale l'avrà vinta per sempre, e non c'è intelligenza che tenga, merci e desideri di bassa lega
mieteranno una dopo l'altra le mie spighe mature, saranno loro a coglierle e non gli alti ideali che
stanotte mi hanno tenuta sveglia fino allo sfinimento
sì è vero, quel motto che ogni tanto scandisco sembra averli colpiti, lo ripetono ogni volta
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che se ne presenta l'occasione, spesso a sproposito, anzi dovrei verificare un po' meglio che cosa
passa nelle loro teste quando lo dicono, esibendolo come una bandiera, non vorrei che quel prof lo
ha detto lei nascondesse chissà quali risvolti spiacevoli, e che un'innocente frase, osate e abbiate
coraggio, non finisca per diventare una pericolosa fucina di teppisti e sbandati
prof la vediamo un po' rintronata stamattina, ma come ti permetti rispondo ridendo, è il
biondino genio a metà a provocarmi, e io lo sfido come al solito a giocare con le parole, bene bene
graziani, vediamo un po' di capire da dove viene la parola rintronare, etimologia dicono in due o tre
a gran voce, questo gioco piace loro da impazzire, forse perché è l'ossimoro che meglio li
rappresenta, sradicate creature per le quali il tempo e lo spazio non hanno alcun significato né
correlazione
prof lo sa che abbiamo visto seba stamattina qui in giro, si è tinto i capelli e aveva
un'abbronzatura paura, ma come diavolo parli tripodi, li chiamo solo per cognome, è un mio antico
vezzo, mai per nome e soprattutto mai conceder loro il tu, chi ci ha provato dei miei colleghi è stato
fatto a pezzi, e ben gli sta
ah sì, e cosa ci faceva gargiulo qui a scuola, non aveva cominciato a lavorare con lo zio,
domando con dissimulato interesse, però mi sembrava che stessimo cercando un etimo, com'è che
siamo finiti a parlare dei miei ex alunni, piccole carogne che non siete altro
loro sanno che ho un debole per quella canaglia assoluta che è stato il peggior scacco della
mia carriera scolastica, e il più bell'alunno che abbia mai avuto, secondo me qualcuno si è pure
accorto che ero sull'orlo di prendermi una cotta, io a trentacinque anni che sbavo dietro a un
quindicenne pluribocciato che adesso offre al sole dei cantieri i suoi bicipiti tatuati
beh almeno risparmia sulle lampade, dice quel cretino di vignati, seguito a ruota da cujaj e
da fayed, la sezione migrante della classe, nonché punta avanzata di una possibile futura
intelligentsia, fosse solo per naturale rivalsa etnica prima ancora che cosmopolitica, ma non
importa, si lavora sul materiale che si ha a disposizione, ed ora c'è questo
basta ragazzi, torniamo alla nostra lezione di linguistica, a meno che non vogliate fare tutti
quanti la fine del vostro collega gargiulo
ma lui guadagna già mille euro al mese, e con questo è detto tutto
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Quarta, gli altri
Non usciva di casa da settembre.
Aveva occhiali spessi quasi un centimetro, la faccia smunta ricoperta di brufoli violacei, una
pettinatura medievale, spalle cadenti montate su un corpo magrissimo e poco sviluppato e la madre
che gli stava sempre addosso; ciò nonostante, per una qualche misteriosa ragione, era stato
ammesso nella Ganga. Del suo nome si era persa memoria, così come di lui si sapeva solo che era
stato ammalato per anni: si era sparsa la voce che gli fosse venuto un cancro ai testicoli, e che
questa disgrazia glielo avesse fatto crescere a dismisura, anche se per il resto era rimasto
mingherlino. “Magari sono tutte palle. Palle su un tumore alle palle!” - qualcuno un giorno se ne era
uscito così - ma nessuno della Ganga aveva mai osato chiedergli dettagli sulla faccenda.
Resta il fatto che sua madre non condivideva affatto le ambizioni del figlio in tema di status sociale,
e così, per evitare problemi, lo aveva tenuto chiuso in casa, a doppia mandata, praticamente dalla
fine dell'estate precedente. Durante tutto l'anno scolastico lo si era visto soltanto a scuola. Chissà
quali argomenti aveva usato per forzare il blocco e uscire quella sera. E chissà quale ora impossibile
di coprifuoco gli era stata imposta dalla matriarca. Se solo avesse immaginato quel che stava per
succedere, avrebbe certo buttato la chiave.
-Bella Quattrocchi! – fece Matte con la sua voce squillante al citofono – sbrigati, abbiamo
appuntamento con gli altri alla panchina tra meno di mezz'ora.
Si sentì gracchiare e subito dopo urlare qualcosa di imbarazzante. Alex e Matte si guardarono e
scoppiarono a ridere, immaginando la scena tra Quattrocchi-madre e Quattrocchi-figlio, su di sopra,
nell'anticamera di casa, con le ultime domande dell'interrogatorio cominciato due giorni prima e la
sfilza finale di raccomandazioni. Roba da sprofondare di vergogna.
Aspettarono a lungo nel parcheggio antistante la palazzina dove abitava Quattrocchi. Era un
caseggiato marrone di tre piani, scrostato lungo un lato e con gli infissi divorati dal sole. Il portone,
che qualche volta rimaneva bloccato, finalmente si aprì. O meglio, se ne aprì uno spiraglio, perché
qualcosa aveva subito risucchiato all'interno il povero ragazzo, una felpa o un portafogli
dimenticato, per poi sputarlo fuori dopo un minuto buono con un calcio.
-Quattrocchi, ma come ti sei vestito? A parte che si muore di caldo, non è che la felpa che hai
addosso faceva parte del guardaroba di tuo bisnonno?
-Veramente...
-Dai Matte, lascialo stare – finse di difenderlo Alex.
-Aspetta, fammi un po' vedere come si è messo 'sti capelli...
Matte aveva una fissazione per le pettinature, e il suo giudizio in proposito era temutissimo e
insindacabile. Passava ore a fare ricerche sui siti specializzati, a guardare foto, a scovare fogge
strane e impossibili e sapeva tutto dei prodotti per capelli e del mondo dei parrucchieri. Del resto
ognuno si sceglie le sue fissazioni. Anche Alex aveva le sue. Lui era un patito dei giochi della play e
di internet. Nessuno, però, sapeva quali fossero quelle di Quattrocchi.
-Forza ragazzi, andiamo, siamo in ritardo. Ma prima di andare alla panchina – disse Matte mentre
con le dita disfava una ciocca di Quattrocchi che si era appiccicata dietro un orecchio – devo fare
una cosa.
Faceva un po' il misterioso, lo si capiva dalle pause. Di solito Matte parlava a raffica, senza mai
respirare tra una parola e l'altra, o tra una frase e l'altra, come chi non usa la punteggiatura. Ma
quando metteva i puntini di sospensione... beh, allora voleva dire che nascondeva qualcosa. Aveva
in serbo una sorpresa.
-E' per l'sms di prima? - chiese Alex. Matte non gli rispose, era troppo preso dai capelli di
Quattrocchi.
-Praticamente sono irrecuperabili – sentenziò – non c'è verso di spiccicarli dalla cute. Sembra che
aderiscano al cranio... più o meno come fa tua madre con te.
-Dai piantala. Ti ci metti anche tu... Ma cos'è che si fa, stasera? - Quattrocchi provò con un
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diversivo, dando una lieve spinta al braccio di Matte.
-Ho appuntamento con Seba tra mezz'ora.
-Davvero? - fece Alex, mentre qualcosa a metà tra l'invidia e la gelosia gli balenava dietro
l'espressione stupita.
-Ma... la panchina? - disse Quattrocchi.
-Ci troviamo tutti lì più tardi. Prima però passiamo a prendere la Nanastronza. Ci aspetta sotto casa.
-Ok – si limitò a dire Alex. Si capiva però che moriva dalla voglia di saperne di più.
Lasciarono il parcheggio ed attraversarono di corsa la strada, evitando per un pelo una Honda che
andava a una velocità folle. Da una finestra della palazzina, dietro di loro, si sentì una voce, che
doveva essere forte visto il concorrente frastuono della moto che era già sparita alla vista.
-Cazzo, mia madre! - disse Quattrocchi tra i denti, evitando di girarsi. Cercò maldestramente di
infilarsi le cuffie dell'ipod per fingere di non aver sentito, ma la voce diventò un ululato scomposto
e dovette per forza voltarsi.
-Scusate ragazzi, vado a vedere cosa vuole.
-Sbrigati, noi ti aspettiamo al muretto.
Quattrocchi corse sotto la finestra, inciampando due volte, mentre gli altri due proseguirono per un
centinaio di metri e si sedettero sul muretto di fronte a una gelateria.
-L'hanno aperta prima – Alex indicò l'insegna luminosa, il solito cono gelato ricoperto da tre palle
coloratissime che si accendevano ad intermittenza.
-Sarà per il caldo – disse Matte.
-Quasi quasi... - fece Alex, che puntò il naso in direzione della porta a vetri che si apriva tramite una
cellula fotoelettrica.
-Naaa, meglio fumarci una paglia.
Sputò e prese una sigaretta dal pacchetto da dieci che teneva nella tasca di dietro dei pantaloni. Ne
passò una all'amico e fece per cercare l'accendino.
Proprio in quel momento passò accanto a loro un signore ben vestito sui cinquanta che portava a
passeggio il cane. Sembrava un impiegato di banca, dall'aria paciosa e dimessa. Matte gli chiese da
accendere. Quello lo guardò con aria interrogativa.
-Che, sei sordo? - disse il ragazzo con un'aria di sfida.
L'altro rimase imbambolato, quasi non credendo alle proprie orecchie.
-Ma che...?
Non fece in tempo a replicare che Matte cominciò a lanciargli una sfilza di parole, in decrescente
ordine di gentilezza. Il pacioso tirò a sé il cane, un grosso terranova nero che cominciava a dare
segni di nervosismo, e fece dietrofront.
-Ma tu vedi sto sfigato di merda! - fu l'ultima invettiva che sfiorò il deretano del presunto bancario
mentre si affrettava a cambiare zona.
-Guarda che ce l'ho io l'accendino – disse Alex – che bisogno c'era di rompere a quel tipo?
-Ma non hai visto che faccia aveva? 'sta testa di cazzo! Aveva la cravatta viola e una pelata da
vomito. Che schifo!
Si passarono la sigaretta l'un l'altro, e giusto all'ultimo tiro spuntò trafelato Quattrocchi.
-Che cosa voleva?
Farfugliò qualcosa, ma gli altri due si alzarono dal muretto, si tirarono su i pantaloni, che subito
ridiscesero a metà delle chiappe, foderate da un vistoso “homme”. Si avviarono di buona lena verso
l'appuntamento, senza nemmeno ascoltare la risposta dell'amico, il quale arrancava dietro di loro
implorandoli di aspettarlo.
10
Quinta, lui
Per la prima volta ho paura. Non che questo cambi qualcosa. Ormai sono in gioco. E giocherò la
partita fino in fondo. Un po' come succede al protagonista di Planet 666. Per chi non lo sapesse
Planet 666 è un gioco. Ma chi non lo sa è uno sfigato. Non si può non conoscerlo. La meraviglia
dell'ultima generazione della play station. L'invenzione di un genio assoluto. Un ragazzo moldavo.
Poco più grande di me. Una mente superiore. Se è stato capace di creare Planet. Lo hanno pagato
poco. Così ho letto su un sito. Ma la Play Digital & Co. ci ha fatto una montagna di soldi. Fosse
capitato a me. E' il gioco della play più bello che ci sia.
Si viene risucchiati in un'altra dimensione. E non si è più padroni del proprio corpo. Né della
propria mente. Un po' come mi sento io adesso. Si finisce per cedere piano piano. Un pezzo dopo
l'altro. Prima le varie parti del corpo. Un dito un piede un ginocchio una gamba un gomito. Il collo
il petto la pancia la schiena. Infine la testa. C'è un dominatore che se ne appropria. E tu non puoi
resistere. Gli occhi le orecchie. Ogni muscolo ogni tendine. Vieni depezzato. Una parola che ho
imparato dalla tv. Dalle serie tipo Csi. Il dominatore arriva. E si prende ogni parte del corpo. Tu per
un po' rimani in sospeso. Alcuni pezzi sulla terra. Altri su Planet 666. Un vero casino. Ma la
battaglia decisiva è quella per la mente. La mente fa più resistenza. Anche quando il corpo è già
tutto di là.
Però ho lo stesso paura. C'è odore di chiuso qui. Ma non posso aprire la finestra. Né fare troppo
rumore. Sento alcune voci di bambini provenire dal cortile. Scosto la tendina. Quel tanto che basta
per guardare senza essere notato. Ci sono due bambocci. Il primo è un tipetto mingherlino. Avrà
massimo quattro cinque anni. Porta dei calzoni corti rossi. E una maglietta a righe scolorita. Sembra
comandare sull'altro. Un tipo ciccione apparentemente più grande di lui. Uno che ha un'aria poco
sveglia. Di quello che si farà mettere sempre i piedi in testa. Ciccio esegue gli ordini di quello più
ganzo. Hanno per le mani degli oggetti che sembrano di legno. E corrono da una parte all'altra del
cortile. Stanno montando o smontando qualcosa. Poi il più piccolo lancia un urlo. E l'altro gli
risponde con un altro urlo. Una specie di grido di battaglia. Che gioco scemo.
Chissà se anch'io e mio fratello facevamo dei giochi scemi. Venivamo qui dalla nonna da piccoli.
Non è cambiato tanto il cortile. Lui mi odiava fin da allora. Aveva cominciato con piccole reazioni
di gelosia. All'inizio erano cose innocenti. Quasi divertenti. Come quando mi metteva il ciuccio nel
sale. O mi pizzicava di nascosto. Anche se era lui a divertirsi. Non io. Poi gli scherzi si erano fatti
più pesanti. Una volta mi aveva tagliato i capelli. Un'altra mi aveva legato alla sedia. Stretto ad una
cinghia per alcune ore. Io prigioniero e lui che mi guardava.
Nostra madre si era separata per la seconda volta. Da mio padre. Lo stronzo. Aveva altro per la
testa. E cominciò a preoccuparsi un po' tardi. Una volta mi sentì urlare. Non piangere solo urlare.
Per un ferro da stiro rovente. Me lo ero ritrovato sul braccio destro. Massacrò di botte il mio
fratellastro. E a quel punto intervennero i servizi sociali. Le fecero avere un contatto con uno
psicologo.
Io ero quello sveglio e intelligente. Come il mingherlino che sta qui in cortile. Mentre Lorenzo era
quello ritardato. Lui era nato dal primo marito di mia madre. Uno che non ho mai conosciuto. E che
è stato in galera un po' di volte. Eppure voglio bene a mio fratello. Per me è un fratello. Non un
fratellastro. Non ho mai capito perché ce l'aveva con me. Forse rabbia o gelosia o invidia. Avrà
anche smesso di odiarmi nel frattempo. Ora ha un lavoro. Una ragazza. L'anno prossimo farà la
patente. E' diventato un bel tipo. Uno muscoloso che va in palestra ed è benvoluto da tutti. Che non
si è mai cacciato in nessun casino. Certe cose si dimenticano. Ma so che lui non ci ha mai provato.
Non ha mai iniziato a volermi neanche un po' di bene. E la cosa in fondo mi ferisce.
Ciccio ha dato una sberla al piccoletto. Di sicuro l'altro non se lo aspettava. Pensava di comandare.
Ma non aveva fatto i conti con la stazza del più grosso. Dev'essere stata forte. Lo sciaff si è sentito
anche dietro il doppio vetro della finestra. Ora interverranno le madri. Intanto è partita la sirena del
pianto. Mi ritiro dalla finestra prima che qualcuno mi veda.
11
Mi viene in mente che a me non succedeva. Mi irrigidivo e trattenevo le lacrime dietro le ciglia.
Mai avrei dato a mio fratello la soddisfazione. Vedermi piangere o urlare per qualche sua
prepotenza. Non se ne parlava. A parte quella volta del ferro da stiro. Però avevo urlato. Non pianto.
Quando se ne accorgeva la nonna interveniva a metter pace. E a fargli la predica. Lui era il
maggiore e doveva avere più giudizio. Peccato poi che tutti pensavano diversamente. Il giudizio
stava solo dalla mia parte. E precisamente nella mia testolina. Maturità precoce mista a lacrime
impredicate. Non so che cosa vuol dire quest'espressione. L'ho letta da qualche parte in rete. Forse
su facebook. Mi è piaciuta e l'ho usata. Ma ora ho altro a cui pensare.
Estraggo dalla confezione blu le lamette argentate e luccicanti. Le ho comprate poco fa al MegaX.
Era pieno come un uovo. Meno male che non ho incontrato nessuno. Di conosciuto intendo. Il
MegaX è aperto anche di domenica. Tutte le domeniche dell'anno. Erano in offerta speciale. Ma
erano le più costose lo stesso.
Pensare che non potrò usarle. Nemmeno una piccola rasatura. La prima chissà quando. Un uso
incongruo. Mi sa che questa parola mi piace.
Ma io non voglio farla finita come quel tipo. Quello appeso nel bosco. Proprio no.
12
Sesta, gli altri
-Io sono una stronza! – si era presentata così, come se quello fosse il suo biglietto da visita. E
siccome era piuttosto bassina e aveva uno o due anni meno di loro, il soprannome si era costruito
quasi da sé.
-Sono una stronza ma sono anche simpatica – aveva detto al gruppetto di ragazzi che
chiacchieravano e si passavano l'unica sigaretta scroccata a un passante, svaccati sulla scalinata
della biblioteca. In un angolo c'era un mucchietto di carte bruciacchiate, e già una volta quel
pomeriggio la bibliotecaria, con voce isterica e gli occhi fuori dalle orbite, era uscita a minacciare
sfracelli e telefonate ai vigili se non se ne fossero andati via all'istante.
La bibliotecaria era miss antipatia, stava sempre addosso ai ragazzi, imponendo loro il silenzio, e
qualche volta tiranneggiandoli. Era una tipa piuttosto folle, una zitella acida, ormai rinsecchita e
poco appetibile, magra come un chiodo, con in testa una criniera rosso fiammante che portava in
giro come un trofeo da esibire. Sembrava una tigre hippy con gli artigli spuntati, e si aggirava
sbraitando tra gli scaffali con addosso chili di ciondoli, braccialetti, amuleti e col collo fasciato da
sciarpe indiane di seta, sia d'inverno che d'estate. Sclerava persino quando loro si mettevano buoni
buoni a fumare all'ingresso della biblioteca.
Quando era apparsa la Nanastronza avevano continuato a chiacchierare e a sputare qua e là come al
solito. La ragazzina li aveva guardati ad uno ad uno, poi aveva gettato un'occhiata alla scalinata
punteggiata di macchie di saliva biancastra. Solo a quel punto aveva chiesto:
-Qualcuno vuole una sizza?
Nessuno le aveva risposto, ma lei aveva tirato fuori un pacchetto sano cominciando a offrire a tutti
quanti. Solo a quel punto erano usciti dal torpore e avevano cominciato a guardarla con curiosità.
Sembrava una tipa a posto, forse persino simpatica, anche se un po' svitata, e vuoi per le sigarette
vuoi per la faccia furba, era stata ammessa senza tante discussioni nella Ganga.
Si era appena trasferita dalla città. La sua famiglia aveva comprato una delle case più lussuose del
paese – un villone liberty circondato da un parco enorme, che doveva essere costata “un botto”,
come commentavano i ragazzi. Aveva cominciato ad organizzare feste in taverna quasi subito, cosa
che le aveva fatto guadagnare altri punti.
Ad una di queste feste ci aveva provato con Alex, il ragazzo biondino e dolce che le era apparso un
po' smarrito in mezzo a tutta quella confusione. Lei era arrivata con un bicchiere di aranciata in
mano e lo aveva convinto ad uscire in giardino. Lui non riusciva a sentire quel che lei diceva, per la
musica a palla, ma l'aveva seguita obbediente. Si erano ritrovati in una zona un po' appartata, dietro
a dei cespugli. Era stata lei a condurre il gioco, ma a lui non è che piacesse molto. L'aveva lasciata
fare per un po', fino a che le loro labbra non si erano sfiorate, poi lei aveva provato anche a toccargli
il collo, ma lui si era sottratto subito ridendo. Non ci era rimasta male, anzi si era messa a ridere
anche lei. E da allora erano diventati buoni amici, e qualche volta si erano fatti anche delle
confidenze.
-Ciao Matte, ciao Alex, mi date una sigaretta? - disse trafelata appena li vide, baciandoli tre volte
ciascuno sulla guancia. - Ah, ci sei anche tu, Quattrocchi!
-Ciao Gin – il nome di Nanastronza era Ginevra, un nome di cui i genitori andavano fieri, molto più
di quanto ne andasse fiera lei.
Fu Quattrocchi ad offrirle la sigaretta, che a quel punto ricevette la sua razione di baci.
-Minchia Quattrocchi – disse Gin riconoscente – se lo sa tua madre che hai le sigarette...
-E devi vedere come sfumazza – Matte era divertitissimo.
-Cosa facciamo ragazzi? - chiese Gin mentre accendeva e cominciava a buttar fuori fumo come una
ciminiera – però spostiamoci da qui, non vorrei che mia madre mi vedesse.
-E come fa? La villa sta a un chilometro da qui - disse Alex.
-La vedi quella? - la ragazza puntò il dito verso una telecamera, posta sopra la colonna di pietra che
faceva da cardine al cancello in ferro battuto.
13
-Vuoi dire che tua madre...
-Non si sa mai. Dai, leviamoci di torno.
Costeggiarono il muro della villa per oltre duecento metri, saltellando e urlando a turno, poi
attraversarono la strada e si diressero verso il centro del paese. Erano tutti molto allegri e accaldati.
-Tu e Quattrocchi cominciate ad andare alla piazzetta, io e Alex passiamo a prendere Seba e poi vi
raggiungiamo – Matte dispose i movimenti della serata.
-C'è anche Sebaaaaaaa? Quello strafico? - disse urlando una nana entusiasta, che si era fatta la fama
di provarci un po' con tutti – voglio venire anch'io con voi.
-Naaa, impossibile – fece secco Matte – ci vediamo tra un quarto d'ora. Alla panchina.
Il cerchio della bocca di Gin si restrinse fin quasi ad imbronciarsi, ma subito lo riaprì per mitragliare
di parole Quattrocchi, fumandogli sul collo e ridendo senza tregua.
Alex e Matte proseguirono spediti fino alla rotonda del cimitero. La evitarono però accuratamente
perché c'erano i neanderthaliani attorno alle panchine del giardino adiacente, e non avevano nessuna
voglia di incontrarli. Senonché li vide Greta, che li chiamò.
-Cazzo, mia sorella! Fai finta di niente, Alex.
-Perché? Io voglio bene a tua sorella. Anzi ne sono follemente innamorato, anche se non capisco
come fa a frequentare quella banda di trogloditi semianalfabeti – disse prendendolo un po' in giro,
sapendo quanto era geloso.
-Se ti azzardi a toccarla ti rompo il culo – disse Matte, sottolineando la minaccia con una manata
sulle spalle magre dell'amico, che per poco non ruzzolò in terra.
Alex riprese l'equilibrio e corse verso Greta tutto felice, la quale lo ricompensò abbracciandoselo e
sbaciucchiandoselo tutto.
-Che schifo di scena! – fece Matte torcendo la bocca.
-Dove state andando, voi due ragazzini? Matte, lo sai che mamma ti sta cercando con un fucile a
tracolla per spararti un bel po' di pallini nel culo?
-Eeeeh? - fece la faccia da tolla, come solo lui sapeva fare, soffiandosi sulla frangetta.
-Sé sé, fai finta di niente. Intanto lo scooter te lo scordi.
-Eeeeeeee? - raddoppiò l'espressione da finto tonto e strabuzzò gli occhi – ma che cazzo stai
dicendo sorellina del mio cuore?
-Vedrai quando rientrerai in casa stasera, fratellino di 'sto cazzo!
-Beh io non rientro mica. Alex, mi ospiti tu, vero?
-Per me...
-Guarda che mamma è davvero incazzata. Rischi l'ammissione agli esami, lo sai o no?
-Ma tu perché non ti fai i cazzi tuoi? Alex, andiamocene via.
-Dove state andando?
-La risposta è: come sopra. Dai forza, sbrighiamoci, mica ci aspetterà in eterno. Sai com'è fatto
quello.
-Quello chi? - chiese la sorella, ma Matte era già schizzato verso il cimitero, che stava chiudendo
proprio in quel momento con un sibilo prolungato che avvisava i visitatori di portarsi alle uscite.
Qualche vedova inconsolabile uscì frettolosamente, avviandosi verso il viale fitto di cipressi. Una di
queste, che sembrava provenire da una delle tombe, gettò un mazzo di fiori secchi in un cestino e,
dopo averli guardati attentamente, cominciò a sorridere ai due ragazzi, i quali non sapevano bene
come comportarsi. Poi la porta di ferro si chiuse automaticamente con un tonfo sordo, e il rumore li
tolse dall'imbarazzo; infine sgattaiolarono via salutando con un cenno la vecchiarda.
-Minchia Alex, hai fatto conquiste. La tua pettinatura funziona.
-Piantala, cretino.
-Che ne dici di andare a fare un giro nel cimitero una di queste notti?
-Ma tu non eri quello che aveva paura dei fantasmi?
-Sì, quando avevo cinque anni, coglione! Dai, facciamo di corsa l'ultimo pezzo, che siamo in un
pauroso ritardo.
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-Aspettami – fece l'altro tirandosi su la cintura dei pantaloni, che subito ridiscesero al punto di
prima. “Homme” fece di nuovo capolino, ma lì intorno, a vedere, c'erano solo i lumini che
occhieggiavano dalle lastre di marmo.
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Settima, lei
il vostro compagno gargiulo che ha ormai sedici anni, non ha certo scelto lui di essere o di
fare la teppa, è stata la sua famiglia a inchiodarlo e a scegliere per lui, cosa normale, dato che è
quasi sempre la famiglia o la società a farlo, a scegliere per noi, nascita educazione vizi tanti e rare
virtù, colore degli occhi e della pelle, modi di parlare e di pensare, non c'è quasi cellula di un
individuo che non sia predeterminata da quei portatori di dna occasionali che rivestono il ruolo di
mamma e papà, e io sono una determinista convinta, ma quando arriva questo cavolo di autobus, è
già la terza sigaretta che accendo
tu credi nella discussione, ci credi davvero, mi ha detto stamattina il gobbo di notre dame
che si masturba nell'ombra, tu insegni ai ragazzi a farsi domande, a cercare di rispondere, cose del
genere, ci credi davvero, certo che ci credo, gli ho risposto, non per finta come la maggior parte dei
miei colleghi, compreso te avrei dovuto aggiungere, tutti si presentano come disponibili e
democratici, aperti al dialogo, mentre poi, tu sembri un po' un'eccezione rispetto alla media degli
insegnanti, mi fa lui, tutti piuttosto alieni e freddini, quando non stronzi, e tu caro il mio gobbo in
che zona ti collocheresti, sarà perché guadagniamo e contiamo poco, mi fa lui, cosa che in genere ci
rende acidi e malmostosi, oppure dei burocrati senz'anima, ma io voglio sapere di te non della
categoria, ma ho desistito, a volte la desistenza è meglio della resistenza
eccolo, è pieno come un uovo, ma riesco a rimediare un posto decente senza venire
schiacciata sul finestrino, salve prof, salve rispondo anche se non so bene chi sia, io invece no, non
sono solo chiacchiere e buone intenzioni, io li ascolto davvero i ragazzi, provo ad entrare in sintonia
con loro, e così finisco per sembrare un'aliena in mezzo ad altri alieni, che cosa intendi per destino
vignati
quella volta era stato difficile resistere alla tentazione di aggiungere il nome, o il nome
diminuito, quella tipica ed insopportabile decapitazione onomastica causata dall'indolente necessità
di risparmiare persino sul fiato degli appellativi, ma ho resistito lo stesso, pur essendo alquanto
divertita e desiderosa di entrare in confidenza con quel ragazzo un po' strafottente che fino ad allora
non mi era nemmeno stato tanto simpatico, un ripetente che aveva una pessima influenza sui
compagni, come si suol dire, anche se mai faccio trasparire questi sentimenti, che tengo tuffati nel
fondo della mia anima docente, a differenza dell'altro, quello da cui non si separa mai, il tenero
biondino, così apparentemente fragile, che però è straordinariamente intelligente, c'è un traffico
pazzesco, prima non arrivava mai alla fermata adesso non arriva mai a destinazione, sempre in
viaggio, sempre in transizione, in permanente transumanza, che bella questa parola, l'adoro
specie se paragonato al resto della classe composta da ignoranti totali, o, per meglio dire, da
ragazzi normalmente analfabetizzati da tv, cellulari e computer, che è quel che penso in genere di
loro e della loro generazione, senza mai farlo emergere in superficie, pensieri di nuovo tuffati laggiù
nel pozzo più fondo del fondo degli occhi, e pur volendo loro bene in maniera asfissiante e
difendendoli sempre a spada tratta contro tutto e tutti, anche e anzi specialmente da loro stessi
vignati, conosci il significato di questa parola, sì lo conosco, destino vuol dire, ma la
campana ci ha interrotto e io ho promesso che ne avremmo presto riparlato, forse quel baluba
faceva solo finta, a differenza di quella dell'amico biondino che gli sta sempre incollato, la sua è
un'intelligenza che va sbattuta in faccia agli altri, brandita come un'arma, lui ti mitraglia di parole, e
di fuffa, una montagna di fuffa e di apparenza, come gli aveva detto una volta il collega stronzo che
insegnava inglese misto a napoletano, ma almeno quella volta ci aveva azzeccato, ma siccome
rompeva troppo qualcuno gli aveva fatto pagare l'arroganza rigandogli per bene il suv nuovo di
pacca, tre solchi sulla fiancata destra e due su quella sinistra, giravano tutt'attorno e sembravano non
finir mai, davvero un bel lavoretto, chissà chi glielo aveva fatto, vignati ne sai qualcosa tu, lo
stronzo poi era stato mandato in un'altra scuola, dalle parti di caserta
il destino, una parola perfetta per gargiulo, sebalateppa, tanto è un mio ex alunno, posso
anche omettere la regola del nome, il mio allievo prediletto, e ora l'idolo di mezza classe, per motivi
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radicalmente opposti beninteso, loro si ricordavano che una volta ne avevo parlato in pizzeria, in
una delle mitiche serate organizzate con la classe per socializzare meglio, lo avevo definito un
esperimento sociale fallito, un caso che avevo preso a cuore, al punto da frequentare la famiglia e da
sostituirmi all'assistente sociale, che non valeva un fico secco, sì perché anche sebastiano, questo il
suo vero nome, era intelligente, aveva una bella testa, oltre ad essere bello come un attore
hollywoodiano, la sua sfortuna era stata quella di venir fuori da una mala pianta, padre galeotto,
madre devastata da una decina di gravidanze, comprese un paio extra che le avevano fruttato alcuni
ricoveri in ospedale per contusioni e fratture dovute alle percosse, una sfilza di fratelli e sorelle per
metà volonterosi di seguire le orme del padre e per l'altra metà sempre in procinto di ficcarsi in
situazioni border-line, compresi un paio di tossici e un caso di prostituzione, un bel quadretto no, il
penultimo della nidiata era seba, venuto su per miracolo in mezzo a guai, botte, perquisizioni delle
patrie forze di polizia, interventi ripetuti quanto inefficaci di quelli che io chiamo sevizie sociali e
simili, se questo non è destino
finalmente sono arrivata a casa, e ora gli armadi verdolini, le vecchie scansie recuperate in
qualche scantinato della scuola, i cartelloni tutti uguali scritti a pennarello e pieni di foto ritagliate
che raccolgono le inutili ricerche degli alunni, il cui unico merito è di ricoprire per intero le pareti
scrostate delle squallide aule scolastiche, tutto è così lontano e sepolto da qualche decina di
chilometri di rotante gommabus, chissà chi lo ha chiamato così, ma basta pensieri, mi accoccolo sul
sofà, accendo e sono pronta a godermi la prima sigaretta rilassata della mia infernale giornata,
alleluia
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Ottava, gli altri
Stava ritto sullo schienale della panchina, occupato a scambiare messaggi con la mano sinistra,
mentre con la destra si riavviava di tanto in tanto i capelli sopra le orecchie punteggiate di piercing,
guardandosi nello specchietto dello scooter. Faceva tutto questo come se si trattasse dei gesti più
naturali del mondo. Appariva alto già così, ma se si fosse alzato in piedi avrebbe fatto una certa
impressione con il suo metro e 85 in continua espansione, cui andavano aggiunti alcuni centimetri
del tacco degli stivali e del ciuffo un po' roccabilly sopra la testa – in totale un buon metro e novanta
di figura slanciata. Era magro ma muscoloso, lo si intuiva dalle volute corporee che qua e là
fuoriuscivano dalla camicia che stava indossando quella sera, aperta a metà del petto e chiusa in
basso da una vistosa cintura nera con un'enorme aquila al centro. Inforcava occhiali da sole
piuttosto raffinati, lenti rettangolari squadrate, bordi blu notte, anche se il sole era già calato da un
pezzo, e a dispetto della discutibile finezza degli altri capi, ma nulla di quel che indossava era privo
di una qualche celebre griffe del mondo della moda. Un'aura di profumo lo circondava, ad esaltare
ancor più l'afrore di un corpo adolescenziale nel pieno delle sue funzioni.
Aveva capelli e occhi nerissimi e lucenti, bocca carnosa e sensuale e naso leggermente a punta,
ciglia lunghe, mento e mascella regolari, tutto disegnato con sorprendente cura. Ma questo non
sarebbe certo bastato a farne il più bel ragazzo della zona. Era come l'intera sua figura si muoveva
nello spazio, il suo gesticolare, la voce già da uomo, il modo di camminare: ricordava davvero un
attore di Hollywood, solo che Seba non doveva recitare, era così, gli veniva spontaneo.
-Bella Matte. Sei in ritardo. Hai letto il mio sms? - continuò a digitare con la sinistra senza staccare
gli occhi dall'i-phone e appoggiò la mano destra sulla spalla di Matte, ignorando del tutto Alex.
Nessuno del loro gruppo faceva mai un gesto del genere, era roba da gay, ma Seba se lo poteva
permettere.
-Sì, allora? - buttò lì Matte, ma il modo in cui lo disse stava a significare come minimo un “certo
che l'ho letto, muoio dalla voglia di saperne di più”.
-Siediti un minuto.
-Non raggiungiamo gli altri? - Alex intervenne giusto per far sapere che c'era anche lui.
-Magari dopo, adesso devo spiegare una cosa a Matte...
Scese dalla panchina, ripose il cellulare nella tasca dei jeans, e, senza togliersi gli occhiali, fissò per
un momento Alex, in silenzio. Si girò a sputare, con calma. Un fiotto di bava biancastra scese
lentamente dalla sua bocca; sembrò controllarne la traiettoria fino a terra e, con l'aria soddisfatta,
tornò a guardare il ragazzo.
-Sì, puoi ascoltare anche tu – disse con il tono di chi avesse accolto una supplica.
Seba era un tipo laconico, piuttosto rude e diretto, usava sì e no un centinaio di parole, quasi nessun
aggettivo e, soprattutto, veniva sempre al dunque senza mai tirarla in lungo, come invece piaceva
fare agli altri.
Si disposero entrambi all'ascolto, Matte con aria furba, Alex più sospettoso, e finalmente venne
fuori la storia del cappello. Una storia che a tutta prima aveva l'aria di essere una cosa da niente.
-Voi avete presente cosa vuol dire “a cappello”?
Matte fece un'espressione incerta, allungando il mento e riaccendendo per la seconda volta il
troncone di sigaretta, dando mostra di non capire.
-Sono andato a fare un giro al Teatro comunale ieri sera.
-Tu? - chiese sorpreso l'altro.
-Sì, ero con una mia amica e per caso ho scoperto una cosa molto interessante – continuò senza
scomporsi.
-Cos'hai scoperto Seba? dai non tenerci sulle spine – Matte non stava più nella pelle.
-Insomma, avete presente o no cosa vuol dire “a cappello”? - chiese di nuovo, questa volta con tono
misterioso.
-Eeeeh? - fece Matte.
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-Io forse ho capito.
Seba, che anche se parlava al plurale si stava rivolgendo solo a Matte, girò leggermente la testa
verso Alex e alzò il mento, fissandosi quindi in una forma plastica davvero cinematografica.
Si vedeva che stavano crepando di invidia tutti e due, un'invidia mista a timore, ma non ebbero
tempo di districare il groviglio di sentimenti che si venivano via via affollando nella loro testa di
fronte alla studiata precisione di quei gesti, perché l'attore seccò Alex con una sola frase:
-'azzo hai capito, tu?
-Beh sai Seba, lui è una specie di genio – intervenne Matte - tu chiedigli qualunque cosa, il
significato di qualsiasi parola e lui te la trova in un attimo. E poi è il cocco della Bonati.
-Ma che cocco. Piantala di dir cazzate, Matte.
-Davvero? - fece Seba beffardo. Bloccò i due con un gesto della mano e continuò:
-Comunque lo spiego io cosa significa “a cappello”. Vuol dire che in certi spettacoli si entra senza
pagare e, prima di uscire, si lasciano dei soldi...
-Se lo spettacolo è piaciuto – interloquì ancora Alex.
-Sì sapientone, sarà così, ma qui la cosa importante è che di solito per raccogliere i soldi gli attori
usano dei cappelli.
-Quindi? - chiese Matte impaziente.
-Ma la cosa davvero interessante è che può succedere, com'è successo ieri sera, che i cappelli alla
fine vengono lasciati incustoditi, magari solo per un minuto. Alla fine dello spettacolo c'è molta
confusione, arrivano gli amici e i parenti a salutare, a fare i complimenti o cazzate simili e allora se
qualcuno si trova a passare per caso proprio in quel momento dietro il palco, nella zona delle porte
di sicurezza... che, come ho visto con questi occhi, ieri sera erano state lasciate aperte per il caldo...
la nostra fortuna è che pare che l'impianto di condizionamento non funziona, e questo caldo
anticipato ha fatto diventare il teatro una specie di forno... e quelle porte danno sui corridoi laterali,
e proprio lì ho visto un cappello con dentro certi foglietti di carta che sembravano dire “prendimi”,
senza nessuno a controllare. Poi, dopo un po', è arrivato uno degli attori, che tra l'altro sembrava un
frocio fatto e finito, ha preso in mano il cappello e si è messo a contare la grana, e vi assicuro che
non sembrava poca roba!
-Minchia! - si limitò a dire Matte, che evidentemente aveva subito l'influsso di alcune
frequentazioni sicule del suo bar.
-Allora?
Per controllare meglio la reazione dei due ragazzini, Seba si tolse gli occhialazzi neri e cominciò a
guardarli in silenzio. Passò un minuto buono senza che nessuno aprisse bocca, dopo di che si rimise
gli occhiali e alla fine ripetè:
-Allora, bambocci? Cosa ne dite?
-Io ci sto – disse precipitosamente Matte. Forse troppo. E continuò:
-Non dobbiamo forse osare? - e fece un cenno complice ad Alex che di rimando gli sorrise appena.
Seba, con l'aria interrogativa, stava per dire qualcosa, ma Alex lo anticipò:
-Io...
-Tu, frocetto? - chiese Seba con sufficienza, come se stesse parlando a un bambino o a qualcuno
sotto esame.
-Anch'io, ci sto – rispose Alex dopo un attimo di esitazione.
-Abbi coraggio e osa! - recitò Matte.
-Eeeeh? Ma che cazzo dite? - Seba non poté trattenersi. Poi però sembro ricordare qualcosa e annuì.
-Ma sei sicuro che ci saranno altri spettacoli... - svicolò Matte - come hai detto che si chiamano? A
cappella?
Alex scoppio a ridere e non diede a Seba il tempo di rispondere.
-A cappello, scemo. La tua cappella è lì sotto e puzza da fare schifo, bleah! – non smetteva di ridere,
mentre fingeva di sfiorare il cavallo dei jeans dell'amico. Poi, al termine dello show, continuò:
-E comunque “a cappella” è un'altra cosa, c'entra con la musica.
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-Ma qui abbiamo veramente un cazzo di intellettuale – riprese Seba – vedo che la Bonati è sempre
in forma. Quando la vedete a scuola salutatemela. Anzi, forse è meglio di no. Lasciate perdere.
Comunque la risposta è sì, Matte.
-Sì a che cosa?
-Ci sono spettacoli tutte le sere, fino a domenica. Ma dovete entrare voi in teatro, io ormai mi sono
bruciato. Qualcuno può avermi visto.
-Abbiamo bisogno di complici – disse Matte con l'aria di un ladro professionista.
-Manco per il cazzo – lo seccò Seba – meno gente lo sa meglio è. E poi significa dover dividere in
molte più parti. No, così non ci sto.
-Così non ci sto io – lo sfidò Matte, e il suo tono lasciò Alex di stucco. Stava sfidando la giovane
teppa, e sarebbe anche potuta finir male.
Seguì un silenzio imbarazzato, mentre lo scuro delle lenti nascondeva la reazione del capobanda.
-Non possiamo lasciar fuori gli altri della Ganga – disse Matte più conciliante.
-Vuoi dire quegli sfigati dei vostri amici, tipo Quattrocchi? - Seba ridacchiò e si accese un'altra
sigaretta, non prima di aver sputato sulle beole intorno alla panchina.
-Beh, ci sono anche la Nana e Dardan, che sono tipi svegli.
-Dardan chi è, l'albanese?
-Sì, è un tipo a posto – intervenne Alex, che per tutta risposta ricevette un pugno per finta nello
stomaco, che comunque lo piegò in due.
Le schermaglie proseguirono ancora per qualche minuto, tra tiri di sigarette, sputi e gesti osceni, il
tutto condito da qualche sonora bestemmia, giusto per dare più sapore alla discussione. Seba guardò
l'i-phone, disse che aveva altro da fare e non li avrebbe seguiti. Si salutarono con ampi movimenti
delle braccia, battiti di mani ad altezza di spalla e reciproche prese in giro. Poi il ragazzo più grande
mise in moto lo scooter, sgommò e lo impennò un paio di volte prima di imboccare a tutta velocità
la strada che portava in piazza. Alex e Matte stettero a guardarlo ammirati finché non sparì dietro la
curva, poi si avviarono a raggiungere gli altri.
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Nona, lui
Quel tipo era davvero strano. Lo hanno trovato appeso nel bosco. Ma io non voglio finire come lui.
E' stato un vecchio che abita nel mio palazzo a trovarlo. Uno che ci fa sempre dei segnacci quando
giochiamo o urliamo nel cortile. Una volta di sera in estate ci ha persino buttato un secchio d'acqua
addosso. Diceva che non lo facevamo dormire. E di andare a casa. Che eravamo solo dei piccoli
stronzi impertinenti. Dei teppistelli. Così diceva.
Comunque. Era una mattina di ottobre. Il vecchio bavoso esce con il suo cane. Un cagnone buono
come il pane. Che stona proprio col caratteraccio del padrone. Credo un Terranova. Si mette il suo
bel cestino al braccio. Non il cane ma il vecchio. E va a cercare funghi nei boschi. Una volta s'è
pure avvelenato. E' finito con la moglie al pronto soccorso. Ma tutti gli anni ci riprova. Alle prime
piogge di fine estate. 'Sto coglione.
Quella volta è tornato indietro subito. Senza nemmeno un fungo. Ma bianco come un lenzuolo. Così
raccontavano le donne del mio palazzo. Io sono stato a sentire tutte le versioni. Rimbalzavano da un
pianerottolo all'altro. Più passavano le ore più le storie diventavano colorite. Si arricchivano di
qualche nuovo particolare.
Per poco il vecchiaccio non sveniva. Lo aveva visto penzolare dal ramo di una quercia. Era il corpo
di quel ragazzone dell'ultimo piano. Un tipo un po' pazzo. Però buono come il pane. Anche lui come
il Terranova. Quando l'ho saputo era tardi per vederlo. L'avevano già portato via. Ci sono andato
dopo nel posto dov'è successo. Più e più volte. E ho cercato di immaginarmi la scena.
Era uscito di casa presto. Aveva salutato la madre che stava ancora a letto. La madre era esaurita. E
stava spesso a letto. Le aveva detto che tornava per l'ora di colazione. Il padre era già andato al
lavoro. Attaccava al turno delle cinque. Il ragazzo aveva preso lo zaino. Era montato sulla sua
mountain bike. E si era diretto a tutta velocità verso il bosco. Così ha detto la signora Rachele. Che
è la vedova pettegola del primo piano. A quella non sfugge mai niente. Il ragazzo aveva meno di
trent'anni. Cosa strana non aveva la patente. Certo per noi era già un po' vecchio. Però tutti hanno
detto che era solo un ragazzo. E lo dicevano come se. Non so come dire. Con le virgolette ecco. Lo
dicevano così.
Conoscevo bene quell'albero. Perché una volta da bambini ci giocavamo. Ci arrampicavamo. E
avevamo anche cercato di costruirci una capanna. Io e altri amici del quartiere. Ma senza riuscirci.
Insomma arriva a questa grande quercia. Il ragazzo con le virgolette. Si arrampica usando come
appoggio il sellino della bicicletta. Lega la fune ad un ramo robusto. Fissa l'altro capo al collo. E
con un calcio allontana la bici. In un attimo è fatta.
Non ho capito qual è stata la causa di morte. Se per rottura dell'osso del collo. O per soffocamento.
Mi sono anche chiesto quanto tempo ci ha messo. Quali pensieri gli sono passati per ultimi in testa.
Se ha avuto un piccolo ripensamento.
Il vecchio ha rischiato di restarci secco quando lo ha trovato. La faccia del ragazzo era deformata.
Le labbra blu. Il corpo gonfio che penzolava. Doveva fare impressione. Pesava almeno cento chili.
Un quintale di ragazzo. Impiccato. Si era tolto le scarpe. E le calze.
Nessuno sa bene perché l'ha fatto. C'è chi dice per una ragazza. Chi perché era esaurito. Come la
madre. Forse per solitudine. Mah.
Io però non voglio farmi trovare così. E non voglio una morte così violenta. Niente cose
drammatiche. Mi serve qualcosa di più morbido. Qualcosa di più leggero. Un po' come scivolare
piano piano nel sonno.
A parte il dolore iniziale. La lama che taglia. Prima la pelle poi la carne. La riga di sangue. Il
bruciore lungo la riga. Il sangue che brucia mentre esce. Ho letto però che subito dopo ci si rilassa.
E poi la vasca da bagno è l'ideale. Un bagno caldo per finire. Un po' di musica in sottofondo.
L'acqua che piano piano si colora. Prima rosa chiaro poi color arancio poi sempre più rossa. Nel
frattempo le palpebre calano piano piano. Le forze vengono meno. I sensi si attenuano. Tutto
comincia a girare lentamente. Il mondo oscilla. Poi si offusca. E infine dalle pareti fuoriesce il buio.
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Una striscia che sale e che spegne ogni cosa. Fino ad inghiottire anche quel che resta delle
emozioni. O della mente.
Chissà quanto tempo ci vorrà.
Quali pensieri avrò.
Se ci sarà spazio per un piccolo ripensamento.
Un rigurgito d'amore. Per me.
Oppure l'autoconservazione. Che scatta come una molla.
Non credo proprio. Però.
Chissà come andrà a finire.
Chissà.
Di sicuro non come lui. Non appeso a un albero. Proprio no.
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Decima, gli altri
Era arrivato in Italia che aveva sì e no cinque anni. Un bamboccino minuto e secco come un
giunco. Adesso, a distanza di una decina d'anni, si era solo allungato, ma era rimasto lo stesso
bamboccio di allora. Faceva parte di uno di quei carichi di bestiame umano proveniente dall'Europa
dell'est, gente fuggita dalla miseria, che aveva viaggiato fortunosamente su malandate barche, e che,
giunta sulle coste del belpaese, aveva affrontato la trafila della clandestinità, delle fughe, della
precarietà e che però infine, grazie al duro lavoro di padri o di fratelli robusti e di madri o di sorelle
cocciute, ce l'avevano fatta.
Dardan era ormai uno di loro. Uno degli altri. Della Ganga. Parlava come loro, vestiva come loro.
Si buttava in testa tonnellate di gel – e ora che si era fatto crescere i capelli, di cera – come e anzi
più di loro, e faceva il filo alle ragazze italiane, come avrebbero dovuto fare gli altri. Solo che lui
era più bravo nel fare tutto questo. Era come gli altri ma era più bravo degli altri.
Matte gli spiegò in maniera dettagliata il piano. Dardan era sveglio e non si faceva tanti scrupoli.
-Sì ci sto. Ma quanto si guadagna? - chiese ridacchiando come al suo solito e ruotando in maniera
strana la bocca, retaggio forse di qualche residuo della lingua materna.
-Ssssch, parla piano – Matte non era più sicuro, come poco prima con Seba, di voler condividere
con gli altri l'affare. Se solo pensava alla Nana o a Quattrocchi gli risultava davvero difficile
immaginare che la cosa potesse funzionare. Avrebbero senz'altro mandato tutto a monte. Alex lo
guardò, al di là della panchina, con aria interrogativa e per un altro minuto Matte non seppe cosa
fare. Gin lo vide strano e gli si avvicinò con la sigaretta in mano, sbuffandogli un filo di fumo
vicino all'orecchio, come a volerlo accarezzare.
-Piantala Nana – disse lui seccato.
-Che c'è? - chiese lei – cosa voleva Seba?
-Seba? - fece lo gnorri lui.
-Dai diglielo – intervenne Alex.
-Venite qua tutti – disse infine Matte rivolgendosi agli altri. Si avvicinarono al muretto dove si era
messo a sedere, chi in piedi chi appoggiato al platano ormai scorticato che per caso si trovava lì
intorno.
Ascoltarono quel che aveva da dire per un paio di minuti, senza interromperlo. Poi però ciascuno
disse la sua, in un crescendo di animazione e di confusione, finché tutte le voci non finirono per
sovrapporsi in un caos generalizzato. Tergiversarono ancora un po', mentre Alex li pregava
inutilmente di abbassare il volume, visto che qualcuno avrebbe potuto sentirli - e alla fine decisero
che l'affare stava bene a tutti.
Non potevano certo sospettare che stavano per ficcarsi nel peggior guaio della loro breve vita.
-Di cosa stavate parlando? - intervenne a quel punto una ragazzona piuttosto procace, che se ne era
rimasta in disparte, a parlare con qualcuno al cellulare, non senza tendere ogni tanto l'orecchio.
Aveva capelli neri, frangetta fitta fin quasi a tagliarle a metà gli occhi, neri anch'essi e truccati di
viola, e una voce quasi da maschio. Si chiamava Ludovica, per gli amici Lu, un vero terremoto
sociale, una a cui non si poteva nascondere niente – tanto veniva lo stesso a saperlo.
-Allora? - urlò fino a farsi sentire dalle panchine della piazza grande.
Cercarono di zittirla. Dardan, che aveva su di lei un certo ascendente, la tirò da parte e cominciò a
spiegarle che cosa bolliva in pentola.
-Figo! - si limitò a dire, sempre a voce altissima. Ora faceva parte anche lei della banda.
Matte pensò che Seba non sarebbe stato contento. Ma chissà, forse si sbagliava.
Si diedero appuntamento per le otto e mezza della sera successiva, nel giardinetto di fronte al teatro.
Dopo di che si dispersero nella piazzetta a due o a tre, fumando, muovendosi di continuo, sputando
copiosamente e parlando fitto, finché qualcuno non cominciò a sbadigliare e a dire che forse era ora
di tornarsene a casa. Erano già le undici passate – lo si capiva dall'aria nervosa e colpevole di
Quattrocchi. Presero a salutarsi colpendosi il palmo delle mani mentre si dicevano “bella” a
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vicenda. Stavano per andarsene quando Matte indicò la finestra della palazzina che stava di fronte a
loro.
-Ma quello non è...?
-Ma sì è lui, il frocio.
-Cazzo, è vero! Abita lì.
L'eccitazione prese subito il posto della noia. Si assembrarono sotto la finestra dietro il cui vetro era
possibile scorgere la sagoma di qualcuno, La tenda era scostata per metà, e il volto dell'uomo era
debolmente illuminato dalla luce giallastra di un abat-jour.
Fu Quattrocchi a cominciare.
-Frociooooo! - urlò in direzione della finestra.
Ben presto si aggiunsero le voci degli altri e si formò un coro. Qualche vicino aprì la finestra per
vedere che cosa stava succedendo. La tenda si richiuse e la luce nella camera venne spenta. Ma
quelli continuarono ancora per qualche minuto, ridendo come degli scemi.
Parlarono per un altro po' e si salutarono per la seconda volta. Le grida e i complicati rituali
adolescenziali si dissolsero infine nel magico chiarore della luna piena.
Un raggio di questa si riflesse sul volto pallido dell'uomo sbeffeggiato poco prima, che era tornato
ad affacciarsi alla finestra. La luce era rimasta spenta, e pareva che una maschera spettrale fosse
stata appiccicata al vetro.
Un cane, agitato per una qualche misteriosa ragione, ululò a lungo dietro la cancellata di una villetta
dei dintorni. Poi anche lui si quietò e la piazzetta, la piazza adiacente, i giardini di fronte al cimitero
e tutto il paese attorno sprofondarono in un silenzio tombale.
La sera dopo Alex e Matte andarono per la prima volta in vita loro a teatro. La porta d'ingresso a
vetri cigolava ogni volta che qualcuno entrava, e non fece eccezione quando anche loro vi si
infilarono. Salirono le scale senza guardarsi attorno e passarono oltre la pesante tenda di velluto
marrone, ignorando depliants e volantini sparsi sui numerosi tavolini ed espositori posti lungo tutto
il percorso. Lo chiamavano “teatro”, ma si trattava in realtà di un auditorium multiuso come ce
n'erano tanti in provincia. Il teatro vero c'era, e stava nella piazza centrale accanto alla chiesa. Era
uno di quei vecchi teatri d'inizio secolo da seicento posti almeno, con palco, camerini per gli attori,
foyer e acustica più che apprezzabile, che però costava troppo riammodernare. Nessuno degli
amministratori si era impegnato sul serio, e così le tarme avevano cominciato a fare il loro mestiere.
L'auditorium funzionava da sala riunioni, teatro, spazio per i concerti, sala proiezioni, aula
conferenze e molto altro. I ragazzi lo conoscevano bene, perché si trovava accanto alla biblioteca e
quando la bibliotecaria urlava più del solito, si spostavano a fumare e a bivaccare di fronte alle sue
vetrate. Una di queste portava i segni del lancio di una grossa pietra, e gli operai del comune si
erano limitati a coprire l'intera superficie incrinata con un cartone bianco, ormai ingiallito per il
sole.
Infilato il naso oltre la tenda, Alex e Matte si bloccarono all'istante. Per quanto fossero vestiti di
tutto punto, firmati dalla testa ai piedi, mutande comprese che facevano bella mostra dei loro colori
sgargianti sporgendo generosamente dai jeans bianchi, la loro aria spavalda si sgonfiò di colpo. Due
pavoni con le code mozzate.
-Ma cazzo, quella è la Bonati! - disse Alex che era impallidito quando con la coda dell'occhio aveva
notato la gonna lunga e il gilet fricchettone che soleva portare nelle occasioni mondane o festaiole.
Era così agghindata e colorata che la si sarebbe notata anche su un carro di carnevale.
-E adesso che cosa facciamo? - gli fece eco Matte.
Nessuno di loro si aspettava di trovarla lì, visto che dopo la scuola tornava sempre a casa, in città. A
ricaricare le pile, come diceva ogni tanto in classe. E la sorpresa fu reciproca, visto che anche la
prof non mancò di notarli e con un gran sorriso fece loro un cenno, dal quale traspariva un chiaro
segno di incredulità.
-Mi sa che dobbiamo andare a salutarla – disse Gin, che aveva raggiunto trafelata i due ragazzi, e
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che dovette interrompere il resoconto a Lu dei suoi ultimi spericolati contatti in chat.
Raggiunsero a malincuore la penultima fila delle poltroncine sul lato sinistro, dove la professoressa
Bonati stava in compagnia di un tizio austero con la barba, tutto vestito di grigio, che stonava vicino
a lei così colorata e vivace.
-Ciao ragazzi, anche qui mi tocca vedervi? Vi ha preso davvero la febbre per il teatro o che?
Gianmario, questi sono i miei graziosissimi alunni – disse ironica al barbuto che stava accanto a lei,
il quale li degnò appena di un cenno dopo essersi aggiustato gli occhialini appannati.
I ragazzi stavano tutti attorno imbarazzati, quando la Lu, che era la più scafata, si mise ad ululare
una serie di sciocchezze ridanciane e al limite dello sguaiato, che però risultarono i convenevoli
giusti per evitare un congedo troppo frettoloso.
-Bene, adesso raggiungete i vostri posti, che tra poco lo show comincia. Sempre che abbiate
intenzione di restare davvero – disse la prof arricciando la bocca – non so se riuscirete a resistere
per più di cinque minuti, comunque se così fosse lunedì ne parliamo in classe. Forza, smammate!
Non poté fare a meno di notare l'imbarazzo dei ragazzi, e persino il pallore sul viso di qualcuno. Li
seguì per un po' con lo sguardo, mentre quelli girovagano per l'auditorium, indecisi su dove prender
posto, e intanto ricominciò a parlottare amabilmente con il suo compagno, che si guardò bene
dall'abbandonare quell'aria seria e compunta.
I ragazzi non potevano uscire subito, avrebbero dato nell'occhio. Si sistemarono così nell'ultima fila
dalla parte opposta della loro insegnante, aspettarono una decina di minuti dall'inizio dello
spettacolo e, dopo essersi scambiati un paio di occhiate complici, decisero finalmente di
squagliarsela. Non fu un'uscita discreta, dato che Ludovica incespicò e sbatté contro i piedi di
qualcuno e lanciò un sonoro “cazzo!” nel bel mezzo di un monologo, richiamando l'attenzione di
mezza sala. Che era esattamente quello che non doveva succedere. Naturalmente la cosa non sfuggì
nemmeno alla Bonati.
Seba divenne furioso quando li vide arrivare alla piazzetta così presto, e avrebbe voluto mettere le
mani addosso a qualcuno. Alex e Matte abbozzarono, mentre le due ragazze cercavano di riportare
la calma.
-Seba, dobbiamo rimandare a domani sera – fece Matte affondando le mani nelle tasche, fin quasi
alle ginocchia.
-E perché?
Glielo spiegarono, ma lui non sembrava voler sentire ragioni.
-Siete dei conigli – concluse.
“Beh, allora fattela da solo la tua rapina”, Alex avrebbe voluto sfidarlo, ma le parole gli rimasero
impigliate sulla lingua.
-Scusate ragazzi – disse Seba, diventato improvvisamente gentile – è che sono un po' nervoso, è da
due ore che non tocco una sigaretta, non è che ne avreste una da offrirmi?
-Te la do io – intervenne la Nanastronza.
Discussero ancora per qualche minuto cercando di abbassare la voce. Alla fine convennero di
ritentare il colpo la sera successiva. Di sabato – sottolineò Matte – avrebbero senz'altro racimolato
molta più grana.
In quel mentre arrivò Dardan, tutto raggiante, che indossava una felpa nuovissima e bianchissima, il
cui candore era rotto da due vistose strisce amaranto sulle maniche. Agitava ritmicamente la testa,
dove mezzo chilo di cera tentava inutilmente di trattenere gli innumerevoli ciuffi.
-Tutto bene raga? - disse ridendo, come al suo solito.
-Non l'avrete mica detto anche all'albanese? - chiese Seba.
Fece per alzare la mano, ma Matte fu più veloce e lo scansò.
-Vaffanculo Seba – rise per sdrammatizzare – e comunque te lo avevo detto: o tutti quelli della
Ganga, o nessuno.
-Sé sé, la Ganga... anche quella stordita fa parte della vostra banda? - indicò Ludovica, che non capì
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ed anzi gli rispose con un sorriso fin troppo compromettente.
-Mi sa che quella ti viene dietro – disse Matte a bassa voce. Seba non rispose, limitandosi a sputare
per terra.
Poi arrivò anche Quattrocchi e la banda fu al completo. Seba deturpò la bocca in un'espressione
ghignante e sibilò tra i denti qualcosa che assomigliava a uno “stronzi”. Si tolse gli occhiali da sole
e sputò ripetutamente per terra in direzione dei piedi degli ultimi due arrivati. Le nike bianche con i
lacci dal doppio colore, azzurro e giallo, si scostarono senza protestare.
-Andate affanculo voi, tutti quanti.
Fece per andarsene, ma poi tornò indietro, si mise lentamente la sigaretta tra i denti soffiando
piccole nuvolette di fumo dalla bocca, e quasi avesse studiato quella parte fino all'ultimo dettaglio
aggiunse, con un mezzo sorrisino:
-Ci vediamo domani sera alle otto qui in piazzetta, frocetti! Direi che le iscrizioni sono chiuse. Se
vedo qualcun altro oltre a voi cinque, sei o quanti cazzo siete diventati, salta tutto. Compreso anche
qualche dente.
Nessuno fiatò per un paio di minuti. Poi ripresero a parlottare e a fumare come al solito. Ludovica,
intanto, se lo mangiava con gli occhi.
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Undicesima, lei
non me la raccontano giusta, pensiero fisso per tutto il tragitto di ritorno, martellante come
giancoso insolitamente loquace che mi parla dei suoi progetti per l'estate, e cosa ne dici se vado di
qua se vado di là, l'offerta di su il pacchetto di giù, l'agenzia ics o quella ipsilon, tenta persino di
coinvolgermi, ma io devo proprio essere un muro impenetrabile perché desiste quasi subito
sono distante anche mentre ci salutiamo, oh gianmario grazie di tutto, allora ci vediamo
domani sera al concerto, dico meccanicamente mentre lui mi aiuta a scendere dall'auto, e butta lì
distrattamente la proposta di un goccetto, ma faccio ancora muro, no tesoro, sono molto molto
stanca e domani sarò a scuola, ma come non è chiusa adesso di sabato, sì è vero però in compenso
ogni tanto ci piazzano un bel convegno, e io avrei preferito di gran lunga i miei alunni, piuttosto che
un branco di esperti, esperti di che poi, che si metteranno a cianciare per ore di offerta formativa,
pof, puf e patapaf, e tutte quelle meravigliose trovate e sigle del ministero, le griglie, le valutazioni,
i progetti extra, la formazione e quant'altro, tutto tranne che didattica ed insegnamento, è ovvio
ci diamo appuntamento per l'indomani sera, per fortuna che non sarò sola, ci sarà anche
gabriella, così il filo filotto si dividerà in due, e magari si smarrirà nei nostri labirinti di madri
mancate, in ascolto ma non troppo di maschi in cerca di compensazione ed equilibrio, mentre lui
veleggia verso la costa azzurra senza farsi sentire, il mio esotico peter pan
stanno tramando senz'altro qualcosa, il chiodo fisso torna a girarmi per la testa mentre cerco
le chiavi di casa nella borsa piena di cose e saluto serafica il mio accompagnatore sulle spine, il
quale comunque molto gentilmente sta aspettando che io entri prima di mettere in moto e andarsene,
perché non si è ancora levato dai cosiddetti
dapprima confusamente, poi in maniera più nitida riaffiorano alcune scene della serata, e una
volta richiuso dietro di me il piccolo portone, mi ricordo di aver visto con la coda dell'occhio i
ragazzi in compagnia di gargiulo prima dello spettacolo, o almeno visto di spalle sembrava lui,
anche se non ne ho la certezza, e comunque la cosa non promette nulla di buono, non tanto perché
stavano insieme, ma per quell'aria un po' misteriosa e imbarazzata che avevano avuta tutti quanti nel
vedermi lì, certo erano rimasti sorpresi, ma c'era qualcosa di più, come dire, di più innaturale, ecco
no non era per gargiulo, no di certo, avevo adorato quel ragazzo, avevo fatto di tutto per
tirargli fuori qualcosa, un talento teatrale straordinario tra l'altro, ma quando aveva cambiato casa e
scuola dopo la separazione dei genitori lo avevo perso di vista, e il tutto era stato piuttosto
traumatico dato che la madre poveretta si era presa una coltellata, e quello stronzo del marito era
finito dentro, per un po' non si era nemmeno visto a scuola, poi si era trasferito dai nonni, era
venuto un paio di volte a trovarmi in classe, cosa che mi aveva fatto un gran piacere
lo avevo visto indurito e incattivito, con quel piglio cinico sempre in primo piano stampato
sugli eterni occhiali da sole quasi si stesse arrendendo al suo destino, e nel frattempo era diventato
ancora più bello, roba da mozzare il fiato, se non ci fossero stati tutti quegli anni di mezzo, un
pensierino ce lo avrei anche fatto, e a dire il vero ce l'ho fatto, ma che vado a pensare, però fatico ad
ammetterlo anche a me stessa, preferirei che certe cose se ne restassero ben chiuse laggiù, sigillate
nella scatola oscura dell'inconscio
buonasera professoressa bonati come va, mi sento chiedere dall'androne delle scale mentre
sto chiamando l'ascensore dimenticando che è meglio non farlo a quest'ora di notte, faccio un salto
visto che sono sovrappensiero, ma riconosco dopo mezzo secondo la voce e mi giro con un gran
sorriso, un po' più sincero di quello di poco fa, è la mia dirimpettaia, anziana donna discreta con la
quale di tanto in tanto, specie nei pomeriggi grigi e piovosi, passo una mezz'ora a chiacchierare del
più e del meno davanti a una tazza di té, che serve meravigliosamente, il migliore che abbia mai
assaggiato dai tempi delle riunioni pomeridiane tra mia madre e le sue due sorelle vedove, e che
sempre accompagnava con delle lingue di gatto fragranti, come se fossero state appena sfornate
oh signora ines cosa ci fa a quest'ora in giro, sono andata in sciambola stasera, la parola è
mantovana e sta ad indicare che è stata a una festa da ballo o a cena da qualche amica, non posso
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trattenermi dal sorridere in attesa che lei ricambi e che si stabilisca la consueta empatia tra di noi,
succedanee incrociate di madre e figlia
venga saliamo insieme, e le porgo il braccio mentre lei imperterrita continua ad infarcire di
axì e axì i suoi discorsi, e per me è davvero un piacere sentire quell'antico accento mantovano, tanto
che ne approfitto mentre saliamo fino all'ultimo piano per chiacchierare un po' e ascoltare il
resoconto della serata, axì e axì
mentre ci auguriamo la buonanotte il rovello di prima si è già dissolto, la mia vecchietta
preferita mi calma i nervi, meglio di una qualunque tisana, la lascio rivolta verso la porta lucida di
noce, con la crocchia grigia sulla nuca che odora di lillà, chissà quale profumo usa, tanto da
sembrare un quadro di un altro secolo, forse una figura ottocentesca, la nonna di un giovane pittore
che si esercita su un soggetto che reputa facile e che invece è una vera e propria sfida, secoli e
secoli di gesti silenziosi e raffinati di fogge di colori di forme di figure di celate emozioni tutte
concentrate lì, in un profilo ritto sulla soglia
fumo ancora due sigarette mentre tento di leggere qualche pagina del romanzo aperto sul
comodino rococò, ma è inutile, le palpebre calano ormai sugli occhi lucidi come drappi pesanti, e
così alla fine prendo sonno senza troppa fatica, anche peter pan si è dissolto tra le nebbie dei miei
flebili pensieri
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Dodicesima, gli altri
-Che schifo di posto – urlò lei – è buio e umido. Andiamo via.
-Sccch. Per adesso dobbiamo accontentarci.
Dovevano anche stare attenti a non farsi sentire dai passanti, non erano poi così distanti dalla via
principale. Si sentivano delle voci e delle risate, qualcuno nonostante l'ora era ancora in giro.
Si trovavano in un deposito abbandonato dell'azienda elettrica, un casotto di pochi metri quadrati
completamente vuoto. Seba aveva forzato con facilità la serratura ed erano entrati.
C'era odore di chiuso e di muffa e ogni tanto si sentivano degli scricchiolii. Quando sentirono
muoversi qualcosa in un angolo, lei cominciò ad urlare, ma lui le tappò la bocca in tempo.
Poi la prese tra le braccia e la spinse contro il muro ruvido. Lei lasciò fare, calmandosi. Lui si sfilò
con una mano l'iphone dalla tasca posteriore dei jeans e provò ad usarlo a mo' di torcia. Gli sembrò
una buona soluzione, anche perché da fuori non si sarebbe notato nulla. Tornò a stringerla e ad
avvinghiarla a sé.
La ragazza faticò per fargli togliere gli occhiali scuri, che lui si ostinava a portare anche lì dentro, in
quella squallida stanza buia. Poi assaggiò con piacere, per alcuni lunghissimi minuti, la sua lingua
salata. Lui si fece toccare e la cosa le piacque. Ci aveva già provato con altri ragazzi, ma poi,
quando loro volevano ricambiare, lei si irrigidiva.
Capì che lui voleva darsi da fare. Non si oppose. Le sbottonò la cerniera dei jeans, glieli abbassò di
qualche centimetro e lentamente, passando attraverso le mutandine, cercò di infilare la mano tra le
sue cosce. Le immaginò bianche come la neve, nonostante la debole luce azzurrina nella quale si
trovavano immersi.
-Fermati – gli disse lei con poca convinzione. Lui non obbedì. Le piaceva toccarla, aveva la pelle
morbida e vellutata.
-Perché devo fermarmi?
-Stasera con me, e domani sera? - lo guardò dritto negli occhi. Ma c'era troppa penombra per capire
che cosa gli stava passando per la testa.
-Allora, perché non mi rispondi? - insistette lei.
-Dai Lu, fatti accarezzare. E poi perché pensi a domani? Concentrati su noi due, qui, adesso.
Domani non esiste.
-Sì, sì, tu dici così, ma lì fuori c'è la fila che aspetta.
-Esagerata – ripartì pazientemente dal collo, le slacciò il reggiseno e le infilò la mano tra i seni tondi
e sodi, avvicinò la bocca e cominciò a leccare. Aveva l'aria di essere esperto. Lei gemette di piacere,
nessuno finora l'aveva fatta sentire così. D'altra parte non era mai stata con un ragazzo così... bello.
-Seba, è tardi, i miei mi ammazzano se torno dopo le undici. E poi questo posto... è così...
-Ma domani è sabato, mica devi andare a scuola.
Ci riprovò ancora, e lei a quel punto si lasciò andare. La bocca di lui ridiscese a cercarle il pube e vi
si infilò come un uccello nel mezzo di fitte fronde paradisiache e profumate. Lei gemette di piacere
e gli afferrò la sommità dei capelli disfacendo parte della banana roccabilly. Sentì una fiammata al
ventre e poi una scarica lungo la spina dorsale, come una scossa elettrica che prese a diramarsi in
molteplici direzioni, verso le gambe le braccia il collo. Non le era mai successo di perdere il
controllo del corpo e di ritrovarselo poi, dopo quella strana scomposizione energetica, ancora intero
ma spossato dal piacere.
Ora era lui a ritrovarsi contro il muro. Avrebbe voluto togliersi il giubbotto, ma decise di non farlo
per risparmiare almeno la camicia, dato che sentiva la superficie ruvida dietro le spalle.
Ripresero a baciarsi, e poi, in maniera del tutto naturale, accarezzandogli piano piano il petto glabro
che sporgeva dalla camicia slacciata, la ragazza fece camminare le sua dita fino all'ombelico, glielo
solleticò infilandovi il mignolo e poi glielo baciò ridendo.
-Ahi, mi hai fatto male – disse piano il ragazzo, ansimando – hai delle lame affilate al posto delle
unghie.
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Lei lo guardò ridendo e lui ne approfittò per posare una mano sulla chioma nera e spingere appena
un po' più giù. La ragazza si soffiò sulla frangetta dritta come una scopa, abbassò la cerniera dei
jeans senza fretta, mentre sentiva aumentare il ritmo del respiro di lui, sopra la sua testa ancora
scossa. Accompagnò con le sue le mani di lui che a fatica cercavano di far scendere i pantaloni
aderenti alle gambe in preda al tremore, diede l'ultimo strappo e appoggiò la bocca sui boxer rosa,
in prossimità della protuberanza ormai ben visibile. Tolse di mezzo l'ultimo lembo di stoffa che
separava la carne dalla carne e gli prese il pene tra le labbra viola. Era caldo e la punta sembrava
molto più scura del resto. Sapeva di buono e di pulito. Non ci volle molto perché lui godesse a sua
volta. Lei si pulì la bocca con le dita e sorrise, cercando di indovinare nella penombra l'espressione
di lui, prima di alzarsi. Risero ancora e tornarono a baciarsi.
-Lo sai che cosa vuol dire, questo, vero?
-Che sono diventata la tua donna?
-Mi sa di sì, Lu.
-Non mi dispiace. Ma guarda che sono gelosa da morire. Ti avverto: se ti metti con me devi
scordarti tutte le altre. Adesso per te esisto solo io. Se no ammazzo loro e poi ammazzo te.
-Mmmm, non so se ho fatto un buon affare.
Lei storse la bocca, gli mise una mano sul collo come a volerlo strozzare e poi gli disse piano, con
una voce che nessuno finora aveva potuto ascoltare:
-Baciami. Baciami ancora.
Si strinsero forte, mentre il faro di un'automobile in lontananza penetrò dal buco di una tapparella
malridotta. Solo a quel punto lui si accorse che l'iphone era ormai scarico e che emetteva una luce
debolissima, quasi spettrale. Le sussurrò nell'orecchio le parole dolci che conosceva.
-Adesso fai il poeta? - rise lei.
Protestò quando lui la invitò a sdraiarsi sul pavimento.
-Nemmeno morta. Sarà sporco e pieno di scarafaggi. Usciamo da questo posto di m...
-Però è il nostro primo posto. Ci hai pensato?
-Purtroppo sì. Una casa che... ma che casa è questa?
-Dai, usciamo.
Attorno al casotto c'era una boscaglia di robinia soffocata da rovi e cespugli che nessuno curava da
tempo immemorabile. Un lampione illuminava debolmente i dintorni, aumentando la sensazione di
abbandono e di tristezza. Ormai non c'era in giro più nessuno e il silenzio era rotto solo dal frinire di
qualche grillo – i primi della stagione – e dagli ultimi cinguettii serali, prima del commiato e della
buonanotte. Se si fossero trovati in un altro luogo, magari su un prato circondato da rose e siepi di
gelsomino, si sarebbero abbandonati felici, avvinghiandosi l'uno all'altro e rotolandosi sul fresco
manto erboso. Poco importava, erano felici lo stesso anche in mezzo a quello squallore, ma
evitarono di dirselo. Ora erano solo stanchi e quel che desideravano di più al mondo erano una
doccia e un letto.
Si avviarono verso lo scooter, parcheggiato cento metri più in là, quando un fruscio proveniente dai
rovi dietro il casotto, dalla parte opposta a quella da dove erano usciti, li fece risvegliare di colpo
dal torpore.
-Chi è? - sibilò Seba a voce alta, mentre Lu sbarrava gli occhi per lo spavento.
Il ragazzo si guardò attorno. Vide un'ombra sgusciar via veloce a sinistra del casotto. Le corse dietro
per un pò, mentre la ragazza lo chiamava preoccupata. L'ombra non si fermava, anzi accelerava e
Seba si chinò a raccogliere un sasso e glielo tirò. Quella finalmente si fermò.
-Ti prego Seba, non farmi male – cominciò a piagnucolare.
-Guarda guarda chi c'è. Il mussulmano del cazzo.
Sputò e lo fissò.
-Chi è? - nel frattempo era arrivata anche Ludovica che si aggiustava il caschetto.
-Quel pakistano sfigato che gira sempre qui attorno e non si fa i cazzi suoi – la mano di Seba tastò
la tasca interna del giubbotto, sputò senza levargli gli occhi di dosso ed estrasse un coltello a
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serramanico, con l'impugnatura avorio intarsiata da greche di croci uncinate.
La lama scattò con un suono secco.
-Alì? - chiese Lu.
-Cosa vuoi fare? - rispose l'altro terrorizzato.
-Dai Seba, lascia perdere. Quello non c'è con la testa.
Nel mentre il ragazzo ne approfittò per scappare. Aveva le gambe lunghe, ma un po' zoppicava,
forse il sasso era andato a segno. Comunque era difficile lo stesso tenergli dietro. Seba lasciò
perdere, anche perché Ludovica cominciava a frignare e a protestare di voler andare a casa.
-So io come fargliela pagare a quello stronzo di merda – disse mentre rimetteva in tasca il coltello e
si accendeva una sigaretta. Si riavviò i capelli e scostò la mano di lei, che voleva carezzargli il lobo
di un orecchio. Nessuno fiatò per un minuto.
Poi andarono in silenzio fino allo scooter, parcheggiato in un vicolo che dava sulla piazzetta. Lui
mise in moto e lei salì dietro imbronciata. Erano tutt'e due senza casco, e i loro capelli svolazzavano
nella sera, come in quel film dell'estate prima, che aveva elettrizzato tutti i loro coetanei.
Lui pensava ancora al ragazzo pakistano, e stava già pregustando la vendetta, mentre lei aveva gli
occhi e la bocca ancora saturi di quei gesti e di quel sapore così nuovi e fino ad allora inimmaginati.
Era persa nei suoi pensieri e stringeva forte la vita del corpo che le aveva offerto tutte quelle novità
solo pochi istanti prima. Tutto il resto non contava più, e per la prima volta sentì di avere il mondo
nelle sue mani. Si chiese se anche per lui era lo stesso, ma evitò di chiederglielo.
E fece bene, lui stava già pensando ad altro, la poesia della sera era svanita. Sulla lingua di Seba
rimase solo un sapore ferroso, come di sangue. E quando gli venne in mente, in un lampo, il modo
di farla pagare a quel tipo inutile, sulle sue labbra affiorò un sogghigno cattivo.
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Tredicesima, lui
Perché cavolo Alì è passato di lì. Proprio quella sera. Mi chiedo io. E questo pensiero mi fa
impazzire. E' stato il caso dirà qualcuno. Sì certo. Casualmente abbiamo conosciuto quel tale. E poi
quel tizio. Abbiamo avuto quei genitori e non altri. Gli occhi azzurri anziché neri. Siamo nati qui e
non in Africa. Casualmente siamo nati. Ma queste sono cose da filosofi non da ragazzi.
Come se i ragazzi non avessero il cervello. Rispondo io. E fossero solo dei coglioni. Cui si dice quel
che devono o non devono fare. Possono o non possono. Delle marionette o degli automi
radiocomandati.
Ma questo non c'entra. Io stavo parlando di quello stupido di Alì. Già non capisco perché è venuto
via dal Pakistan. Non stava bene là tra la sua gente. Col suo corano i caffetani le barbe e i muezzin.
I suoi amici e parenti. Nella sua cavolo di città nel suo quartiere nella sua strada. Dicono che si
spostano per il lavoro. Che da loro non ce n'è. Che c'è molta povertà. Io non sono mica stupido.
Queste cose le so e le capisco. Anche mio bisnonno era emigrato in America per un certo periodo.
Faceva la fame. E' andato a lavorare e a far fortuna in Venezuela. O in qualche stato del Sudamerica
che non ricordo bene. Ma poi è tornato indietro più povero di prima. Un fallimento totale.
Io non so se la famiglia di Alì ha migliorato le sue condizioni. So che prima stavano a New York.
Ma che dopo l'attacco alle Torri sono dovuti emigrare qui in Italia. Ci pensate. Dalla Grande Mela a
questo buco di paese. Io glielo dicevo sempre ad Alì. Ma chi ve lo ha fatto fare di andar via dalla
metropoli. Anche perché se fossero rimasti laggiù. Non sarebbe mai successo. Eh no. Alì di sicuro
non lo avrebbe mai fatto. Non si sarebbe appostato quella sera dietro al cespuglio. A fare il
guardone. E nessuno si sarebbe fatto male.
Certo se Osama Bin Laden. Quel pazzo. Se non avesse deciso di far schiantare gli aerei l'undici
settembre. Alì se ne sarebbe rimasto a New York con la sua famiglia. E magari avrebbe potuto
frequentare il college. Oppure sarebbe entrato a far parte di una di quelle gang di quartiere. Una
gang vera non come la nostra. E sarebbe morto in qualche rissa. A causa di una profonda ferita
all'addome. Per una dannata arma da taglio. E non avrebbero fatto in tempo a salvarlo. Come in
quella serie americana del pronto soccorso. Alì comunque a New York. Non qui. Non dietro al
cespuglio. Non in quella casa.
La mia mente sta viaggiando a mille. Ma il pensiero fisso torna su di lui. Quel cavolo di ragazzo.
Quella pertica allucinata dalla pelle olivastra. Con le cuffie sparate sempre nelle orecchie. Ad
ascoltare la sua musica rap. A muoversi al ritmo dell'hiphop. A ridere sempre come uno scemo.
Qualcuno diceva che era ritardato. Io non lo so se è vero. Però strano era strano. Era amico di tutti.
E di nessuno nello stesso tempo. Per un certo periodo andava in giro con una tipa. Una che
sembrava una bambola gonfiabile. Troppo finta e sfigata. Ma è durato poco.
Però Seba. Seba non doveva fare quello che ha fatto. Anche se il pakistano a dire il vero se l'è un po'
cercata. E noi come dei coglioni ci siamo andati di mezzo. Ormai la catena si era avviata. Il
cappello è stato solo l'inizio. Ma non è niente in confronto a quel che è successo dopo.
Dopo c'è entrata gente che non doveva entrarci. Cose che con noi ragazzi non c'entrano.
Tutto si è complicato. Ad Alì è successo quello che è successo. E io adesso sono qui. Mentre guardo
la vasca da bagno riempirsi. Millimetro dopo millimetro. Ed è colpa anche di Alì. Lui è un anello
della catena. Se quella sera non si fosse appostato dietro quel maledetto cespuglio. Se avesse
trattenuto il respiro. O tenuto il cappellino ben calcato sulle orecchie. Quello scemo.
Tasto la temperatura dell'acqua. Forse devo miscelare un po' di quella fredda. Non vorrei
ustionarmi. La musica che ho messo è la stessa che ascoltava sempre Alì. Forse c'è persino un suo
brano. Cantava da schifo ma scriveva bene. L'ipod potrà funzionare anche lì dentro. E'
perfettamente impermeabile. Me l'ha regalato mia zia. Sapeva quanto mi sarebbe piaciuto ascoltare i
miei mp3 preferiti nuotando. Certo non avrebbe mai immaginato che. Che avrei usato il suo regalo
qui. In queste circostanze. Una piscina molto particolare.
Chissà se anche quello scemo sapeva nuotare.
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Quell'idiota.
E' anche colpa sua se adesso mi trovo qui.
E mi fa una rabbia.
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Quattordicesima, gli altri
Quel sabato mattina piovigginava. Nella notte c'era stato un colpo di scena meteorologico, tipico
delle bizzarrie ed intemperanze primaverili. Più che un maggio travestito da luglio sembrava ora
novembre. Le stagioni a volte anziché avanzare arretrano. Come gli esseri umani, né più né meno.
Un gruppetto si riunì sul tardi, verso le undici e mezza, nel parcheggio delle moto del MegaX. Era
uno dei loro consueti ritrovi. Siccome era sabato, e per di più una giornata irrimediabilmente senza
sole, il centro commerciale si stava riempiendo come un uovo. Lunghe file di auto si accalcavano
dalle diverse vie d'accesso, formando dei pigri serpentoni che poi finivano per intasare i parcheggi,
quelli a terra, quelli dei due piani sotterranei e quelli sopraelevati. Ancora non era cominciato il
deflusso di mezzogiorno, e di tanto in tanto si sentiva qualcuno imprecare dai finestrini per la
difficoltà di trovare posto entro tempi ragionevoli.
-Ciao raga, avete visto quante macchine? - disse Quattrocchi ad Alex e Gin che erano appena
arrivati. Nessuno gli diede retta. Dardan era entrato a vedere se c'era qualche felpa in offerta, mentre
ancora di Matte nessuna traccia. Di sicuro stava ancora a letto, prima di mezzogiorno quello non si
alzava. Sempre che sua madre non l'avesse davvero impallinato per il colloquio con i prof.
La ragazza si accese una sigaretta, sbuffò di lato e poi si sedette sul muretto, dopo aver buttato a
terra una lattina di birra che forse stazionava lì dalla sera prima. A due passi da loro c'era un
MacDonald molto frequentato sia di giorno che di sera. Quattrocchi, non sapendo che altro fare,
cominciò a dar calci alla lattina.
-Io mi vado a prendere una brioche – disse la Nanastronza dopo aver fatto due tiri – vuoi finirla tu?
Si rivolse ad Alex che aveva gli occhi ancora semichiusi e continuava a sbadigliare.
-Guarda che ci si mette la zampa davanti!
-Eeeeh? Chi...?
-Ciao raga – Dardan, che usciva in quel momento da una delle porte a vetri, aveva la solita aria
canzonatoria.
-Tutto a posto per stasera? - chiese ad Alex.
-Penso di sì, ma chi ha organizzato tutto sono Matte e Seba. Devi chiedere a loro.
-Certo – rispose ridendo il ragazzo albanese, e arrotando per bene la lettera erre, con l'aria di chi ti
sta pigliando per il culo, e che però lo fa in maniera simpatica, senza voler strafare.
Quattrocchi continuò per un po' a dar calci alla lattina finché, dopo una telegrafica comunicazione a
denti stretti al cellulare che sapeva di casa e di ordini tassativi, salutò tutti con la solita aria
imbronciata e un po' colpevole.
Tranne Gin che lo baciò, non lo degnarono di attenzione, a parte un cenno vago col mento che
poteva voler dire qualsiasi cosa.
-Però siete proprio degli stronzi! – disse la nana. Ma nessuno dei due le diede retta.
Un flash passò nella testa di Alex, nel momento in cui Quattrocchi spariva ciondolando dalla loro
visuale. Un servizio alla tv visto la sera prima – due minuti e alcuni fotogrammi, niente di più, che
gli erano passati davanti agli occhi mentre si stava spargendo il gel sui capelli. Ne aveva intercettato
solo dei frammenti, dato che la madre lo stava cazziando in seguito alle lamentele di un vicino per
la musica ad alto volume. Un'enorme nave piena di innumerevoli esseri umani – questa l'immagine
che gli era rimasta impressa – stipati fino ad occupare ogni centimetro quadrato della superficie
calpestabile e ogni centimetro cubico del volume, accalcati, abbarbicati e aggrappati come insetti
lungo tutto il perimetro e persino sui fianchi e sulle funi rovesciate in mare, sui pennoni, le vele, gli
alberi, i camini, le gru, e ovunque ci fosse un appiglio.
-Cazzo, Dardan! Ieri ho visto la nave con cui sei arrivato qui in Italia. C'era un servizio alla tv...
Il sorriso del ragazzo si spense come se qualcuno avesse pigiato un interruttore, i lineamenti del
volto si indurirono, la bocca si serrò e uscì una voce chioccia che nessuno aveva mai ascoltato.
-Un cazzo! - fece a muso duro – io non sono venuto con la nave. Il mio era un gommone. E poi a te
che te ne frega?
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Alex rimase interdetto. Non conosceva ancora bene Dardan, che fino all'anno prima frequentava
un'altra classe e solo da un paio di settimane usciva con la Ganga.
-Scusa Dardan, non volevo...
Quello per tutta risposta ebbe una reazione al limite della schizofrenia. Si girò, si accese una
sigaretta, poi lentissimamente si rigirò e sbuffò ad Alex il fumo in faccia. Lo stesso dito di poco
prima schiacciò ancora il tasto e riaccese tutto quanto, la luce della faccia, il sorriso, il tono
scherzoso.
-Dai, vieni che ti offro una coca – fece passandogli la sigaretta per un tiro.
Alex si sorprese per la seconda volta: di solito nessuno offriva niente, almeno non in quel modo.
Gin, con l'ultimo boccone di brioche in bocca, gli fece l'occhiolino, chissà perché, forse perché era
innamorata persa di Dardan (come lo era un po' di tutti, del resto) e con la bocca ancora piena disse
loro di sbrigarsi, che li avrebbe aspettati per non più di cinque minuti. Tanto più che si era vestita
leggera e l'aria si era rinfrescata per la pioggia.
-Non abbiamo capito niente, Gin – fece Alex – e comunque hai la maglietta piena di briciole.
Lei appallottolò il tovagliolo di carta e glielo tirò, lui lo schivò e cominciò a prenderla in giro.
-A dopo.
-Ok – disse lei ridendo – vi aspetto qui.
I due ragazzi si avviarono verso il Mac del centro commerciale, entrambi con le mani affondate
nelle tasche, con il tipico passo babbuinico della loro generazione.
-Io non parlo mai di queste cose con nessuno – attaccò a bassa voce il ragazzo albanese – né con i
miei amici, né a scuola o con i prof. Anzi, nessuno sa un cazzo di come sono arrivato in Italia.
-Fa niente Dardan, io dicevo per dire.
-Tu mi sei simpatico, Alex. So che sei un tipo a posto, che non vai in giro a raccontare le cose al
primo che capita. Come fa invece il tuo amico Matteo...
-Eh sì, hai ragione. Matte ha la lingua un po' lunga certe volte, però non lo fa apposta.
-Allora, la vuoi sentire questa storia o no?
L'altro ebbe un attimo di esitazione, mentre salivano sul tapis roulant che li stava conducendo al
MacDonald. Gli ripassò la sigaretta e fece cenno di sì con la testa.
-Ehi voi due! Sì, proprio voi! Guardate che qui non si fuma! – un tipo enorme con la testa rasata e la
scritta “security” sul braccio si rivolse a loro in modo brusco. Non poterono far altro che spegnere la
sigaretta sotto il tacco della scarpa. Ma all'energumeno non bastò: fece loro un cenno e capirono al
volo che dovevano tirar su la cicca e andare a depositarla in uno dei contenitori di sabbia posti
all'esterno delle entrate. E senza replicare o provare a dire una sola parola: capace anzi che se al tipo
giravano, li avrebbe anche costretti a pulire il pavimento con straccio e spazzolone. Meglio non
provocarlo.
Quando finalmente ritornarono dentro ed entrarono nel locale, l'odore di patatine fritte impregnate
di ketchup e maionese li investì come un'ondata nel momento esatto in cui la porta a vetri, con uno
scatto improvviso, si aprì per poi richiudersi lentamente dietro alle loro spalle. I due si diressero a
un tavolo, ingombro dei vassoi che qualcuno non aveva provveduto a riporre ed impilare negli
appositi contenitori. C'erano tovaglioli sporchi di sugo e macchie di bibite sparsi su tutto il tavolo,
dai cui margini colava un liquido appiccicaticcio.
-Cazzo che porci! - non poté trattenersi Dardan.
Arrivò subito la cameriera, una tipa che poteva avere al massimo sedici anni. Indossava una
minigonna con stampigliata sul davanti una grossa M, un cappellino arancione fosforescente con
una M più piccola e scarpe basse dello stesso colore. Masticava nervosamente una cicca, muovendo
la bocca con lo stesso ritmo con cui passava lo straccio sul tavolo; nel frattempo i due ragazzi
cercavano di guardarle le bocce sotto la maglietta, lanciandosi segnali eloquenti. Le si stampò un
sorriso in mezzo alla faccia lentigginosa e chiese che cosa volevano.
Ordinarono due vaschette giganti di patatine e due maxi coche con cannuccia. Arrivarono dopo un
paio di minuti.
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-Avevo cinque anni, quando ho fatto la traversata per la prima volta – esordì Dardan, addentando
una patatina abbrustolita. - Mio padre era venuto in Italia alcuni anni prima. Lui sì che era arrivato
con una delle navi che hai visto tu in tv. Tutti scappavano dall'Albania in quel periodo. Non c'era
niente. Ero piccolo, ma mi ricordo che io, mia madre e mia sorella...
-Chi, Dhurata?
-Sì, lei, ma tu non dirle niente, mi raccomando.
-Certo, non preoccuparti. Mi passi quella bustina di maionese? Grazie.
-Era quasi buio. Ci hanno fatto salire su questo gommone. Era giallo, mi ricordo. Poteva portare al
massimo dieci persone, ma noi eravamo più di venti. Tutti donne, ragazzi e bambini. Quelli
dell'equipaggio erano in quattro o cinque. Continuavano a urlare e a dare ordini come in una
caserma. Mi ricordo che c'erano dei sacchi pieni di qualcosa (sarà stata sabbia) per non far alzare
troppo quella bagnarola sulle onde. C'erano delle onde mica male, e io ho vomitato. E uno dei tipi
mi ha urlato nell'orecchio. Ma io cosa ci potevo fare? Ci hanno fatto mettere tutti in cerchio, e se
qualcuno si alzava per qualche motivo urlavano, perché la barca si piegava. Hanno anche dato una
sberla a una donna, perché si metteva in piedi troppo spesso e si agitava. Un po' ho pianto, ma poi
mi sono addormentato. Anche se avevo paura ero contentissimo di venire in Italia.
-Ma quanto ci avete messo?
-Tutta la notte. Ad un certo punto mi ricordo che c'erano delle luci puntate sull'acqua. Il capo ci ha
raccomandato di non dire una parola. Nemmeno fiatare, altrimenti ci buttava in mare.
-Ma cos'erano quelle luci? - chiese Alex afferrando l'ultima patatina della vaschetta – ne ordiniamo
un'altra, cosa dici?
-Sì, va bene. Era la polizia che controllava la costa. In quel periodo c'erano un sacco di sbarchi, e
parecchia gente aveva rischiato la pelle. Anzi, certe persone erano proprio annegate.
-E poi?
-Siamo riusciti a sbarcare alle prime luci dell'alba, senza che ci avvistassero. C'era una pineta, ma
non avevamo certo il tempo di fermarci ad ammirare il paesaggio. Un furgone bianco ci ha prelevati
e ci ha portati via. Eravamo tutti addossati uno all'altro. Un viaggio di merda, per 3000 euro.
-Accidenti! Cioè, avete speso quasi 10.000 euro per venire in Italia dall'Albania!
-Era come giocare alla lotteria. Ne valeva la pena, anche se la puntata era alta e rischiosa. Tanto non
avevamo niente da perdere...
Intanto la ragazza di prima aveva portato altre patatine e bibite e se ne era andata sculettando.
-Io quella me la faccio – disse Dardan.
-Naaa, è troppo grande. Ma dove siete arrivati?
-Eeeeh? - gli occhi di Dardan seguivano ancora il corpo ondeggiante della ragazza. Poi tornò a
rivolgersi ad Alex:
-A Milano. Poi qui. C'era mio zio, e per un po' di tempo siamo stati da lui. Nove mesi. Ma non era
possibile vivere in quel modo. Eravamo in tredici in due stanze...
-Cazzo! Ma come avete fatto?
-Beh, dopo nove mesi siamo dovuti tornare indietro. Altri due anni in Albania. Intanto mio padre ha
fatto i documenti per tutti e tre, e finalmente due estati dopo siamo ritornati. Questa volta un viaggio
regolare in traghetto e poi in treno. E una casa vera, solo per noi.
-Quindi per quei primi nove mesi sei stato un...
-Sì, ero un clandestino. Un moccioso di cinque anni, ma sempre clandestino. Però le maestre della
scuola materna, che lo sapevano, non so perché, ma mi volevano bene un casino, e mi coccolavano
sempre. In quei pochi mesi ho imparato a cavarmela anche con la lingua italiana.
-Ma dopo, quando sei tornato?
-Mi hanno iscritto alla seconda elementare, anche se non sapevo scrivere. Ma ho recuperato in
fretta. E a quelli che mi chiamavano “albanese di merda” rispondevo con un fracco di botte.
-Davvero?
-Sì, ogni parola sbagliata uno spintone o uno sgambetto. E se non bastava, schiaffi in faccia e calci s
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sugli stinchi.
-Accidenti, ti sei fatto rispettare.
-Noi albanesi abbiamo il sangue caldo. Perdiamo subito la pazienza. E' vero che siamo più
aggressivi di voi.
-Ma tu ti senti più italiano o più albanese?
Dardan lo guardò un po' di sbieco serio, poi sorrise come al solito, con quella piega un po' sorniona
della bocca:
-Adesso sta diventando una specie di intervista della tv. Vorrai mica fare il giornalista tu?
-Beh, perché no? E' un bel lavoro. E tu che cosa vorresti fare?
-Io voglio andare in America. Qui mi trovo bene, ma l'America è meglio. New York! Hai il mondo
nelle mani in una città come quella. Puoi fare quello che vuoi – e i suoi occhi si fecero sottili.
-Accidenti, pensa che Alì ci è nato a New York!
-Chi, il pakistano? Quello che ha tutti quei fratelli e quella sorella fighissima?
-Sì, proprio lui!
-Comunque mi sento albanese fino al buco del culo. Solo la pelle... e i vestiti sono italiani. Qui voi
vi vestite benissimo. Però il cuore è albanese al cento per cento.
Avevano spazzato tre confezioni giganti di patatine e svariate bustine di ketchup e maionese. Anche
il litro di coca a testa era finito. Perciò si alzarono ruttando come due maiali, e si avviarono
all'uscita, ma dopo aver pagato Dardàn raccomandò ancora una volta all'amico di non farsi scappare
una sola parola su quanto gli aveva appena raccontato.
Ginevra se n'era già andata. Solo in quel momento Alex vide il messaggio che gli aveva spedito un
quarto d'ora prima. Nel parcheggio degli scooter non c'era quasi più nessuno, e il serpentone di
automobili si era dissolto. Aveva anche smesso di piovigginare, senza che però uscisse un solo
spicchio di sole.
-Allora ci si becca stasera – disse Alex mentre rispondeva una qualche scusa alla nana.
-Sì, non vedo l'ora di sapere come va a finire la storia.
-Ti diverte tanto?
-Perché a te no?
-Boh, non sono così convinto.
-Ma non è per i soldi. Se poi ci sono meglio. E' giusto per fare qualcosa di diverso. E poi Seba è
davvero un figo.
-Sì, è quello che pensano tutti.
-Perché tu no? Io vorrei proprio essere come lui, sputato.
-Per la faccia tosta, per le ragazze o per che cosa?
-Ma, per tutto.
-Se lo dici tu.
Dardan gli diede una pacca sulla spalla.
-Dai, vieni che ti do un passaggio in scooter.
-In due, senza casco...
-E chissenefrega! Alex, mi sa che tu te la meni un po' troppo.
-Sì, forse hai ragione. Però se vediamo qualche sbirro in giro...
-Logico. Tu scendi e io sgommo.
Lo scooter partì rombando e accennando un'impennata che fece urlare entrambi. Zigzagarono un po'
tra le residue code di auto e poi si dileguarono lungo una stradina secondaria, per evitare di passare
dal centro e fare così brutti incontri. Si era fatta quasi l'una, e il MegaX era pronto a ricevere le
nuove, ancor più consistenti, ondate di clienti del sabato pomeriggio. Per almeno sei-sette ore
sarebbe stata una bolgia infernale: automobili, carrelli, famiglie, casalinghe e immigrati, vecchi con
i nipoti per mano e madri con le carrozzine infiocchettate, gruppi ululanti di adolescenti in ogni
dove a decine di migliaia e per decine di migliaia di metri quadrati. Un'inconsulta babele di fogge,
lingue, stili, attraversata ed accomunata da un'unica vibrazione, da un'enorme, irrefrenabile,
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incontenibile - quanto irrealizzabile - brama: comprare tutto!
Quindicesima, lei
peter pan non chiama, sembra svanito nel nulla, e io sono qui a sciropparmi questo
dannatissimo convegno, un cumulo di sciocchezze per le quali varrebbe davvero la pena di prendere
una tanica di benzina, e dar fuoco a grida e circolari, ma la secolare insipienza del sistema
scolastico italiano non si farebbe scalfire nemmeno dal napalm, ormai dovrei saperlo bene, con una
scusa mi allontano lungo i corridoi verdastri della scuola, che senza ragazzi sembra un vascello
fantasma, l'unica cosa che rende vivo e vivibile questo posto, sento odore di vernice, figuriamoci se
aspettavano luglio per rinfrescare le pareti, prima che il conato mi prenda alla gola rimedio la porta
di sicurezza che dà sulla balaustra zona fumo, provo ad accendere quello stupido aggeggio
elettronico, non prima di essermi accesa una sigaretta, priorità delle accensioni, non vedo comparire
nessun messaggio nessuna chiamata, provo a farlo io, forse si è davvero rifugiato nell'isola che non
c'è oppure è stato catturato dai pirati
vieni con me in crociera in costa azzurra il prossimo venerdì, così il mio bellimbusto aveva
esordito due settimane fa nel nostro bistrot preferito, dopo aver ordinato la solita bottiglia d'annata
per far colpo, e ti sembra che io possa permettermi di venire in barca con te, nell'ultimo mese
dell'anno scolastico poi, grazie caro sei gentile ma anche un po' fuori di testa, lui annusa il tappo,
non permette mai al cameriere di aprire la bottiglia, la brandisce ammirando la raffinatissima
etichetta di sapore medioevale, mi pare di intravvedere la merlatura di una torre ghermita da un
falco, e poi versa con gesto elegante negli ampi bicchieri da degustazione
che ne dici, ma soltanto dopo un minuto di silenzio nel quale si è concentrato sui profumi
che si sprigionano dal calice e a voce bassissima, del vino non della mia proposta, aggiunge, sono
eccellenti entrambi se è per questo, rispondo io, il sagrantino di montefalco è davvero squisito e si
sposa bene con un certo formaggio umbro che lui ha scelto con cura, evitando per delicatezza nei
miei confronti ogni tipo di salume, skắl dico io sollevando il bicchiere, mentre faccio scivolare
come al solito la esse sulla kappa in un suono che adoro sentire in bocca, tanto che vorrei ripeterlo o
conservarlo all'infinito, scccckol, alla tua crociera caro, immagino non mancherà un'altra occasione,
ma non è che c'è qualche donzella pronta a rimpiazzarmi, vorrei chiedergli, ma mi sembra così
volgare anche solo accennare ad un sentimento che non mi appartiene, mi limito a fissare un po' più
intensamente i suoi occhi neri come l'ebano
ma dove sarai adesso, è dal giorno della tua partenza, ormai siamo a tre, che non ho tue
notizie, niente di niente, non sarà mica successo qualcosa, d'altra parte non posso certo chiamare
quell'arpia di tua madre, che mi odia con tutta se stessa, e sarebbe ben felice di sapere che mi hai
piantato in asso, ecco, questo pensiero non mi aveva ancora sfiorata davvero, forse che, ma no, non
può essere, perché farmi questo, usare una fuga in barca per fuggire da me, eppure a pensarci
meglio sarebbe un addio degno di noi e del nostro rapporto, un modo elegante e un po' letterario di
lasciarsi, perché mai sarebbero necessarie parole o chiarimenti, un gesto denso di metafore è molto
più acconcio, almeno per quelli come noi dal palato fine, e magari lui lo aveva messo in conto, se
mi dice di no la mollo, se mi dice di sì non la mollo, un po' come quell'odioso m'ama non m'ama,
ma il responso non era prevedibile, stai a vedere che il mio principe si sta rivelando un po' stronzo
e ti pareva se il gobbo non doveva ronzarmi intorno, anche al convegno me lo ritrovo, sarà
mica che si è preso una cotta per me, questo bigotto maleodorante, vedo laggiù la collega di italiano
dell'altro corso, forse se le faccio un sorriso a mille denti, i miei poi così poco smaglianti, lei che è
tutta anema core e utero, chissà magari mi viene in soccorso, e mi salva da notre dame, ciao cara sei
fuggita anche tu, non ne potevi più, sì sì, andiamo a farci un caffé, vada per il caffé taglio corto e
taglio fuori anche l'impiastro, e accendo subito un'altra sigaretta, così poi me ne posso fare un'altra
ancora dopo il caffé, insomma mi voglio davvero male, o tanto tanto bene, punti di vista
aspetta, devo fare una scappata in segreteria, pronuncia le esse grasse e partenopee come il
mio skắl nordeuropeo, non la seguo, detesto quell'ufficio, sembra di entrare in una cella frigorifera,
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una schiera di segretarie una più antipatica dell'altra, appollaiate sulle loro scrivanie, prima che
qualcuna alzi lo sguardo quando varchi la porta devi aspettare le calende greche, dopo di che vieni
investito da una corrente polare artica, e puoi solo fare due cose, andartene sconsolato con la coda
tra le gambe oppure affrontare la bufera di neve, pensare che fino all'anno scorso c'era ancora la
povera fiorella, la madre di francesco, uno dei miei alunni più intelligenti e sfortunati, l'unica a
scoccarti un sorriso grande come un girasole, quella da cui meno te lo saresti aspettato, bombardata
com'era dal cancro, che non è riuscita a vincere, povera stella, a soli quarant'anni, credo fossimo
coetanee
non riesco a cacciare dalla testa il pensiero di lui, non capisco come possa avermi presa in
giro così, fibre della passione che di solito restano ben nascoste, non è da me, sarà stato il suo
aspetto esotico, un armeno adottato da una famiglia ricchissima, tra le più in vista in città,
incontrato per caso a una festa, quando mi ha mostrato nel suo salotto il caravaggio disperso e poi
ha attaccato con quella canzone al piano dimostrandomi di averla scritta lui, ma tutto ciò non aveva
l'aria esibizionista di certi maschi pleistocenici, nient'affatto, in lui acquistava una sorprendente
naturalezza, non c'era nessun io io songo io, e comunque non era stato nulla di tutto ciò a colpirmi
più banalmente il disegno del suo viso, con quei tratti così marcati, un peter pan armeno con
la barba folta e occhi neri nei quali annegare, il nome francese e tutto il resto, compresi i denari
peraltro non suoi, e di cui comunque non mi importa un fico secco, erano solo dettagli, ogni volta
tornavo a contemplare e badare al sodo, l'essenziale, la sua figura, quel pelo folto da arricciare con
le dita, quegli occhi pericolosi sui quali sporgersi, ma non devo appassionarmi troppo, devo
mantenermi vigile e con il lume della ragione acceso, non sia mai che il corpo docente affondi
bonati mi fai morir dal ridere con questa storia del corpo docente, tutta anema core e utero,
dopo un'accesa discussione con le segretarie stronze, si sta ora sollevando le tette che non ha per
mimare il mio ormai celebre gesto, il problema è che lo fa a sproposito e sempre nei momenti meno
opportuni, con le sue grasse e sguaiate risate neoborboniche, bevimmu u café, guarda che è ora di
tornare in chillu mortorio, sé sé ora arrivo, saluto u collega salentino, uè, uè, mi allontano da questo
pittoresco quadretto sudista, condito con un po' di tric e trac e baccalà, per un quarto son terrona
anch'io ma appunto per questo il mio livello di sopportazione non va oltre quella misura, e poi
voglio riprovare a chiamare sull'isola che non c'è, prima che i pirati o il coccodrillo si facciano vivi
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Sedicesima, gli altri
Il loro piano criminale stava filando liscio come l'olio.
Si esibiva quella sera in teatro la compagnia più conosciuta della zona, che quindi avrebbe attirato
più gente, più soldi nel cappello... e di conseguenza nelle tasche della banda di Seba.
-Noi non siamo la banda di Seba. Siamo solo la vecchia Ganga – aveva protestato Alex quando
l'espressione era uscita, ridendo, dalla bocca di Matte.
Si erano ritrovati mezzora prima degli altri, non alla piazzetta, ma ad una delle panchine del
giardino di fronte al cimitero, a quell'ora deserto.
-Qui l'unica banda del paese è quella dei neanderthaliani – continuò – e la mia missione speciale è
di portar via tua sorella da quel villaggio preistorico.
-Dal capo dei neanderthaliani che le ronza intorno, vorrai dire. Quello ti fa a pezzettini se ti vede
ancora vicino a lei. Fa palestra tutti i giorni. Pesi, flessioni a non finire, roba dura. È un esaltato.
-Con un bicipite al posto del cervello!
-Beh comunque questa sera, che tu lo voglia o no, sarà così: saremo la banda di Seba!
-Se lo dici tu... Ma stamattina dov'eri, ti abbiamo aspettato per ore al MegaX.
-Ronfavo.
-E ti pareva. Tua madre?
-Tutto a posto.
-Davvero? - Alex fece un'espressione poco convinta.
-Sì, sì. Abbiamo contrattato. Le solite cose. Solo che ho poco tempo e...
-... e un cazzo di voglia!
-Già. Ma sembra che la Bonati ci metterà una buona parola se...
-Se tu fai almeno finta di impegnarti un minimo.
-Ma chi sei, la mia balia? E comunque basta parlare di scuola. Tu che hai fatto oggi?
-Io ho parlato un botto con Dardan – siamo diventati amici, stava per dirgli, ma si era trattenuto
all'ultimo momento.
-Con l'albanese? - gli rispose un po' piccato Matte - e che cosa vi siete detti?
-Boh, abbiamo parlato del più e del meno. Di ragazze, di prof (stronzi), di vestiti... cose così.
Matte lo guardò storto per un attimo e poi cominciò a punzecchiarlo con un piercing che si era tolto
dall'orecchio.
-Cazzo fai? - urlò l'altro arretrando.
-Ti faccio un tatuaggio, no? - Matte zigzagò in aria come se si trattasse di una figura di scherma e
scoppiò a ridere.
-Sei proprio un coglione.
Si scolarono quel che rimaneva della birra che Matte aveva rubato al bar del padre, la gettarono al
di là della spalliera della panchina e si recarono all'appuntamento con gli altri.
Si organizzarono in coppie. Tre coppie così disposte: Dardan e Alex si sarebbero piazzati in punti
diversi dell'auditorium, con il compito di comunicare via sms a Lu e a Gin, appostate fuori delle
porte di sicurezza, il momento buono per intervenire; mentre Matte e Seba sarebbero rimasti
discosti, senza farsi notare, a controllare la via di fuga. Quattrocchi, l'unico scoppiato... beh, lui, per
insindacabile decisione di Seba non avrebbe fatto nulla, e se ne sarebbe stato buono buono in
piazzetta, ad aspettare la fine del colpo, senza fiatare.
Una volta passati attraverso la pesante tenda marrone, Dardan e Alex osservarono attentamente le
file delle poltroncine color senape e videro che, almeno quella sera, la professoressa Bonati non
c'era. Poco prima dell'inizio dello spettacolo, annunciato dal calare intermittente delle luci di sala,
Dardan prese posto in terza fila, nel settore di sinistra, mentre Alex si piazzò al lato opposto, nella
fila in fondo.
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Lu e Gin fumavano una sigaretta dopo l'altra e parlottavano a bassa voce di ragazzi e prof (stronzi),
vestiti e cose così, senza mai scollare lo sguardo dal cellulare.
-Pensa che palla se toccava a noi star lì dentro.
-Minchia Gin, hai ragione. Sarei morta di sicuro. Peggio della scuola.
-Beh esageri, peggio della scuola non ce n'è. Senti, ma è vero che tu e Seba...?
-Io e Seba cosa?
Lu fece la gnorri e continuò a fumare e a mandare messaggi a non si sa chi, mentre Gin sollevò lo
sguardo e cercò di penetrare negli occhi dell'amica per capire come stavano le cose. L'altra alzò dal
piccolo monitor, per una frazione di secondo, le ciglia appesantite dal mascara, la guardò di
sottecchi e fece finta di rannuvolarsi.
-Aaaah, ma allora è vero! - esclamò la Nana.
-Zitta cogliona – rispose Lu – per adesso deve restare tra di noi. Non voglio che lo sappiano gli altri.
-Promesso. Ma quanto durerà 'sta palla?
-Booh?
Le due ripresero a fumare e a messaggiare al mondo come se nulla fosse. La Nana avrebbe voluto
saperne di più, ma per ora di fronte alla faccia scura della sua socia non volle insistere.
Seba e Matte stavano intanto nei pressi delle scale di fuga, che dagli spazi antistanti alle porte di
sicurezza conducevano all'esterno, a un centinaio di metri dal teatro, in direzione ovest. Era quella
una zona dove di solito non passava nessuno.
Seba prese dalla tasca dello zaino un cacciavite a stella, armeggiò per qualche minuto sui
portalampada delle due luci che illuminavano la rampa d'uscita, oscurandole una dopo l'altra, e
contemplò con soddisfazione la sua opera. Matte, che lo aveva seguito attentamente, fischiò
ammirato.
-E' meglio oscurare anche lì sotto – fece Seba con l'aria di uno molto prudente – dai scendiamo.
Scesero la scala esterna all'auditorium e raccolsero alcune pietre che stavano lì intorno.
-Qui tanto non sente nessuno – disse Seba, e cominciò a fracassare il primo lampioncino. Si
fermarono solo quando tutte le luci furono spente.
-Adesso però siamo al buio noi – disse Matte.
-Ma va', coglione.
Seba tirò fuori dallo zainetto una torcia che lo fece apparire un vero ladro professionista. Matte
fischiò di nuovo.
-Adesso possiamo risalire.
Salirono le scale, ma non fu necessario accendere la torcia: proprio in quel momento la luna si
affacciò da dietro una nuvola e illuminò debolmente i gradini. Arrivarono in cima e si sistemarono
in un'intercapedine dove nessuno avrebbe potuto vederli.
-Ecco, comincia adesso – disse Matte con tono allegro, dopo aver letto il messaggio sul cellulare.
Lo spettacolo era un'opera di teatro d'avanguardia. I sette attori – tre uomini e quattro donne –
indossavano una specie di divisa nera, la cui uniformità era rotta solo da una fascia rossa o
arancione che ciascuno teneva legata in un punto diverso del corpo: chi sul collo, chi alla caviglia,
chi sulla fronte, chi al ginocchio... I magnifici sette si dimenarono per una cinquantina di minuti su
e giù dal palco, correndo ogni tanto all'impazzata in mezzo al pubblico, accorso numeroso, senza
dire non più di un centinaio di parole – non a testa, ma in totale.
Ogni tanto qualcuno di loro urlava, poi si piegava in due lamentandosi, quindi dava un pugno al
petto o sulla schiena dell'attore vicino, fino al compimento di vere e proprie orge di corpi che
rotolavano uno sull'altro, senza un ordine apparente.
Seba – contento di ignorare quel che succedeva lì dentro - era rimasto taciturno per un pezzo.
Sembrava quasi non trovarsi lì e pensare a tutt'altro. Dopo un po' cominciò a scambiare dei
messaggi convulsi con qualcuno, lanciando tra di sé bestemmie ed improperi. Chiamò dal cellulare,
attese impaziente che l'altro rispondesse ed emise piano non più di tre monosillabi. Infine si
acquietò e tornò a concentrarsi sull'azione in corso. Matte lo aveva osservato per un po', finché non
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aveva deciso che era meglio dare un'occhiata al suo profilo facebook.
-Tu che cosa pensavi di farci con i soldi? - azzardò quando Seba sembrò essere tornato presente.
-Cazzo pensi di poterci fare, non è poi tutta questa cifra – rispose l'altro tra l'irritato e l'indifferente.
-Se ci va bene facciamo 400, massimo 500 euro. Duecento per me, e il resto da dividere in 5.
-Tra i 40 e i 60 euro. Beh, qualche gioco della play ci scappa. O anche un lettore mp3. O una felpa.
-Scarsa però. Senza firma.
-Beh, tu con i tuoi duecento te la passi meglio.
-Hai qualcosa da dire? Io ho avuto l'idea, io ho organizzato...
-No, no, Seba, non intendevo...
-Se voi coglioni l'avete detto a mezzo mondo non è mica colpa mia. Bastavano, oltre a me, una
massimo due persone. E allora erano 100-150 a testa.
-Vabbé, a me non interessa quanto. E' tutta la storia che mi piace. Un po' di azione, di brivido...
-Sé sé, l'azione! – lo canzonò Seba che gli fece segno di allungargli l'accendino per accendersi una
canna che tirò fuori già pronta dalla tasca interna del giubbotto.
-Che roba è?
-Buona. Tu non ci pensare. Anzi, dopo ho appuntamento con un tipo per...
-Aspetta, un messaggio. E' Alex, dice che è finito, il pubblico sta applaudendo.
-Bene, adesso cominceranno a tirar fuori i cappelli.
In quel preciso istante, infatti, tre attori, dopo aver fatto una serie di inchini e salamelecchi,
piazzarono subito sotto il palco, in bella vista, altrettanti capienti e variopinti cappelli, e con gesti
cerimoniosi e ammiccanti invitarono il pubblico a versare l'obolo prima di uscire.
-Minchia Alex – disse Dardan che lo aveva raggiunto al termine dello spettacolo – c'è un sacco di
gente che si sta mettendo in fila. Si mette bene.
-Ssssccch – lo zittì l'altro, mentre stava mandando un messaggio alle due ragazze di tenersi pronte.
Gironzolarono per un po', come d'accordo, davanti al palco, dove già si stavano assiepando amici e
parenti degli attori. Chiacchierarono confusi tra la folla del più e del meno, finsero di salutare
qualcuno e intanto fecero ben attenzione a tutto quel che succedeva sul palco e nel retro, fin dove
poterono spingersi senza tradire le loro intenzioni. Già che c'erano non mancarono di pavoneggiarsi
con le loro magnifiche tenute adolescenziali, sfoggiando le capigliature scolpite e i sorrisetti
ammiccanti e un po' stronzi, ma poi si ricordarono che forse era meglio non dare troppo nell'occhio
– in quel momento era molto più importante non scollare lo sguardo dai cappelli nei quali la gente
stava riponendo con generosità monete e banconote.
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Diciassettesima, lui
Mi sto spogliando come al rallentatore. Nell'ordine. Calze bianche. Maglietta di cotone. Lacoste
bordeaux e blu. Cintura dolceegabbana. Jeans larghi in vita e stretti in fondo. Boxer viola. Prima di
togliermeli mi guardo per l'ultima volta allo specchio. Ma quello del bagno è troppo piccolo. E così
mi sposto nella camera da letto. Lì mia nonna ci tiene i suoi cimeli di famiglia. Tra cui un enorme
comò con i cassetti bombati. La specchiera è circondata da una cornice dorata. Anche questa è un
po' troppo piccola. E allora salgo in piedi sul letto. Ma la parte superiore del corpo dalla vita in su
resta fuori. E io mi voglio vedere per intero. Almeno l'ultima volta.
Voglio vedere la mia faccia montata sul corpo che sta per lasciare questo mondo. Il collo. Il petto
ancora liscio. I fianchi e i muscoli delle cosce che si stanno rassodando. Le gambe diritte e con poca
peluria. Ben piantate sui piedi lunghi. Tutti mi chiedono che numero ho. Forse perché ho dei piedi
troppo grandi. Specie se confrontati con la mia altezza.
Poi mi viene in mente che c'è uno specchio lungo. Nell'armadio a quattro ante alla mia sinistra.
Ricopre l'intera parete laterale della stanza. Dovrebbe esserci ancora. Ricordo che nonna si
aggiustava il vestito. Prima di uscire di casa. Proprio lì davanti. E tanto che c'era si dava una
sistemata ai capelli. Due colpi di spazzola veloci. Un gesto che ho fissato in testa. Mi incantavo a
guardarla. Strano per un maschio.
Scendo dal letto e poi dal tappeto. Il pavimento è freddissimo. Con un unico salto raggiungo
l'armadio. Apro tutte le ante prima di trovare quella giusta.
Eccomi lì. Ora lo specchio mi riflette per intero. Le spalle non sono poi così male. E sulla faccia
non ho nemmeno un brufolo. A parte i capelli un po' selvaggi mi sembra tutto a posto. Forse stavo
per diventare davvero un bel ragazzo. Qualche segnale cominciavo a riceverlo anche dalle ragazze.
Sempre più spesso mi cercavano. Chattavano con me. Mi invitavano alle feste. Qualcuna ha voluto
persino provarci. Anche se io non sono stato molto generoso con loro. Solo qualche bacio veloce e
qualche piccola palpata. Niente di più. Peccato. Mi sa che mi perderò un sacco di cose interessanti.
Ma ormai è tardi per pensarci.
Non so più nemmeno se quello lì nello specchio sono io. Oppure qualcun altro. Uno che mi sta
guardando con gli occhi sbarrati. E la bocca chiusa.
Mi accorgo solo ora della lametta. La figura la stringe tra le dita. Se la porta vicino ad un polso. E
comincia a strofinare leggermente. La bocca si contorce in una specie di smorfia. Poi sembra quasi
sorridere. Due gocce di sangue scendono sul pavimento. Lui si piega a guardare. Poi torna a
sollevarsi e a fissarmi. Si cala anche i boxer e resta completamente nudo.
Anche il sesso è un po' cresciuto. Ma è soprattutto il pelo ad essersi infoltito.
Ora porta la lametta ad altezza del viso. Se la passa sulle sopracciglia. L'ho visto fare in un film.
Forse lo ha visto anche lui. Infine si accarezza il collo. Anche qui compare qualche goccia di
sangue. Non credo si sia mai fatto la barba. Da come muove la mano direi proprio di no. La
telecamera si avvicina alle guance. Un primo piano a tutto schermo. La peluria è chiara. E' ancora
quella dei bambini. Solo qualche leggero pelo che preannuncia un'idea di baffi. Ma troppo biondi
per poter essere visti da una certa distanza.
Zoom sul collo e poi sull'avambraccio. Dove un tatuaggio ci starebbe bene. Fatto come Dio
comanda. Farebbe la sua porca figura. Più sotto sul braccio. C'è una macchia rossa. Striature di una
crosta recente. Segni di graffi furiosi. Si tocca e fa ancora male. Ora lo zoom si sposta sul naso. Poi
su un lobo dell'orecchio. Lì ci starebbe bene un bel piercing luccicante. Decorazioni che
arricchirebbero il disegno del corpo. Lo renderebbero più sensuale.
La lametta perlustra altre sue parti. Come a voler verificare che sia ancora tutto intero. Tutto
collegato ai centri nervosi. Un profondo silenzio ha invaso la stanza. Nessun rumore proviene
dall'esterno. Né quello dei bambini in cortile già rientrati da un pezzo. Né il cinguettio di un uccello.
O il rombo di qualche automobile. Niente di niente.
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La sagoma nello specchio chiude gli occhi. Ora oltre al silenzio è buio pesto. Una patina di
malinconia sembra essere scesa su tutte le cose.
Dopo un tempo indefinito riapre gli occhi. Sembra vedermi per la prima volta. Ci guardiamo fissi
nelle pupille. La lametta alzata a mezz'aria macchiata di rosso. Non so più se sia io o lui a urlare.
Vedo la sua bocca spalancata. Ma il grido sembra uscire dalla mia gola. La sagoma si affloscia e in
un attimo è sul pavimento.
Sento il freddo sotto la pelle. Fin dentro le ossa. Non riesco a capire che cosa sia successo. Se io sia
svenuto né quanto tempo è passato.
Mi rialzo piano e ora dall'altra parte ci sono io. Lui è sparito. Le strisce di sangue sono però sul mio
corpo. Non so come sia potuto succedere. Visto che era stato lui a ferirsi poco fa.
Sento qualcosa. Uno strano rumore. Ma non viene da questa stanza. Come un gorgoglio non ben
definito. Ssssccccchhh. Lo scorrere quasi impercettibile di qualcosa.
Forse si tratta del rubinetto della vasca. Magari non l'ho chiuso.
Torno in bagno. In realtà il rumore non è solo quello. Il getto d'acqua che continua a scendere. Ne
distinguo un altro. Quello della cascata che sta uscendo dalla vasca. E che ha quasi allagato la
stanza.
Accidenti. Questo non ci voleva. La vecchia al piano di sotto. Se vede il soffitto bagnato si
allarmerà. Sarà anche sorda ma credo ci veda ancora bene. Chiudo il rubinetto. Lo stringo fin quasi
a slogarmi il polso. Cerco uno straccio e comincio ad asciugare il pavimento. Mi chino per terra con
le ginocchia. Nudo e infreddolito. Provo a canticchiare una canzone. Ma la voce trema e viene
inghiottita dalla gola.
Faccio defluire l'acqua in eccesso. Mi calo finalmente nella vasca. Mi infilo le cuffie del lettore
nelle orecchie. Infine mi immergo. Fino a farmi ricoprire interamente. Assaporo per qualche minuto
quel tepore. Giusto il tempo di far cessare il tremore. Dal collo e dalla bocca si è diffuso lungo tutto
il corpo. Sollevo la testa dall'acqua per catturare un respiro. Un secondo e mi rituffo. Lo faccio più
volte. Come a seguire un'onda ritmica. Su e giù su e giù.
Riemergo per l'ultima volta. Afferro la lametta che avevo appoggiato poco prima sul portasapone.
La faccio scivolare sull'acqua sfiorandone il pelo. Poi l'avvicino al primo polso. Quello di sinistra.
Non a perpendicolo ma longitudinalmente. Così ci si dissangua prima. L'ho letto su quei siti che
parlano di suicidio.
E' davvero ora di farla finita.
Mentre la lama sfiora la pelle il ricordo di lei. Forte e inatteso. Invade la mia mente. L'immagine
della ragazza bionda sembra uscire dall'acqua. E stamparsi sui miei occhi sbarrati.
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Diciottesima, loro
Nel preciso istante in cui la professoressa Bonati riceveva una certa telefonata, e i cappelli venivano
riempiti, Alì Meyed Sebai venne prelevato dalla cantina di un palazzo dove tre ore prima era stato
rinchiuso. Uno dei tre tizi che prima lo avevano portato lì, controllò che il cerotto sulla bocca fosse
ancora al suo posto e che le mani fossero ben legate dietro la schiena con il filo elettrico. Fece un
cenno a uno dei soci che prese un cappuccio dalla tasca del giubbotto e lo infilò al ragazzo. Questi
spalancò ancor di più gli occhi, ma i tizi non fecero mostra di preoccuparsene. Due di loro lo
sollevarono per le spalle e lo trascinarono fino ad una porta di ferro, sul retro del palazzo. Il terzo li
aveva preceduti per accertarsi che non ci fosse nessuno in giro. Lo caricarono sul sedile posteriore
di una Bmw nera in cattive condizioni, parcheggiata proprio di fronte all'uscita, e lo portarono in un
posto che tutti chiamavano “Cascina dei Marangoni”.
Per arrivarci uscirono dal paese, presero per una sterrata che costeggiava un campo, e s'inoltrarono
nel bosco. Il conducente bestemmiò un paio di volte, lamentando di essersi perso, e per due volte
fece retromarcia mentre gli altri due ridevano. Alì stava di dietro, accanto al tizio più robusto che lo
teneva schiacciato nell'angolo, contro la portiera di destra. La seconda manovra per poco non li
scaraventò in un fossato, Alì si agitò e il suo custode gli afferrò i capelli ordinandogli di stare calmo.
Alla fine, dopo una buona mezz'ora, arrivarono alla cascina. Era una vecchia fattoria abbandonata
nel mezzo del bosco fitto di robinie, circondata su un lato da una immensa distesa di campi di
granturco – l'unico segno che qualcuno frequentava ancora quei luoghi. Trascinarono il ragazzo su
per le scale diroccate fino al secondo piano, senza mai aprir bocca. I loro modi non proprio gentili
procurarono al prigioniero qualche sbucciatura sulle braccia e sulle gambe.
Lo rinchiusero nel solaio della cascina, ingombro di carcasse di mobili e di suppellettili
impolverate, che mostravano i loro profili solo grazie alla torcia impugnata dal più previdente dei
tre. C'era lì dentro un tanfo insopportabile, accumulato da decenni di depositi di muffe e
infiltrazioni di umidità. Si sentì squittire, e a quel suono il ragazzo cominciò a scuotere tutto il
corpo, mugolando di paura.
Gli tolsero il cappuccio. Espirò ed emise un debole lamento. Poi si immobilizzò, guardando con gli
occhi sbarrati i suoi rapitori, che se ne andarono senza dire una sola parola, dopo averlo legato ad un
pilastro corroso dal tempo. Gli tolsero anche il cerotto dalla bocca: se anche avesse gridato lo
avrebbe fatto invano. Tutt'attorno, per chilometri e chilometri, c'erano solo boschi, campi e rovine.
Nient'altro.
Alex e Dardan comunicarono alle loro complici il momento in cui sarebbero dovute intervenire
dietro le quinte. Come Seba aveva previsto, la confusione fu tale che i cappelli per qualche istante
vennero piazzati in uno sgabuzzino che rimase incustodito e a cui, del tutto non viste e indisturbate,
Lu e Gin ebbero accesso con grande facilità, entrando dalle porte di sicurezza sul retro. Qualora
queste non fossero state aperte - come tutti si aspettavano, visto che il condizionatore non era stato
riparato nemmeno quel giorno - ci avrebbero pensato Dardan e Alex dall'interno della sala. Ma
questa era comunque un'opzione di riserva, piuttosto sfavorevole, visto che il movimento sarebbe
stato sospetto.
Non ce ne fu bisogno, e tutto filò liscio. Le due ragazze afferrarono le banconote dai cappelli, con la
facilità con cui un bambino prende da una ciotola un pugno di caramelle. Le ficcarono nelle borsette
di plastica rossa che portavano a tracolla, senza dimenticare di raccogliere dal fondo le monete.
Dopo essersi scambiate uno sguardo d'intesa, a metà tra lo stupito e il divertito, si allontanarono alla
svelta, senza mai voltarsi indietro. Percorsero i corridoi posti in fondo all'auditorium e scesero la
scala di sicurezza illuminata debolmente dalla luna.
Matte e Seba le stavano aspettando di sotto.
-Ciao amore – disse Lu, a voce troppo alta.
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-Sccch – Seba le pose un dito sulle labbra e subito dopo le infilò la lingua in bocca.
Matte, che non sapeva niente di quella nuova tresca, restò come imbambolato, mentre la Nana lo
afferrava per il braccio e gli faceva capire a gesti di darsi una mossa. Discosti l'uno dall'altro e senza
alcuna fretta, il quartetto fece un giro piuttosto largo prima di raggiungere il luogo dove si erano
dati appuntamento con gli altri.
Arrivarono alla panchina del parco posto sul retro del cimitero – quello davanti era troppo
frequentato, soprattutto dai neanderthaliani – da dove Quattrocchi aveva loro inviato un messaggio
di via libera. In effetti non c'era nessuno. Dopo pochi minuti li raggiunsero anche Alex e Dardan.
Erano parecchio eccitati e facevano schioccare le mani sulle mani, appoggiavano l'una all'altra le
spalle, si scambiavano segnali vari e ridevano silenziosamente ma spalancando bene le bocche,
intervallando il riso con il resoconto dei vari momenti dell'azione appena conclusa. Si sentivano al
centro di un film e si complimentavano con Seba per la riuscita della scena: attori, comparse o
registi che fossero, poco importava.
La teppa gongolava, ma era anche preda di improvvisi malumori. Intanto prese il denaro dalle
borsette delle ragazze e cominciò a contarlo; divise le banconote in due mazzette, e le ripose nelle
tasche interne del giubbotto; soppesò per un momento il gruzzolo di monete con una mano, mentre
con l'altra prendeva un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni. Appoggiò il mucchietto sulla panchina,
scartò i pezzi da 10 o 20 centesimi, allargò il fazzoletto e ci mise le monete di taglio maggiore. Lo
richiuse, annodando le punte e facendone un fagotto che consegnò Lu. Lei sembrò non capire che
cosa dovesse farne, finché lui non indicò la borsetta che giaceva abbandonata a terra.
-Dividiamo domani – disse Seba dopo essersi seduto come al solito sulla spalliera della panchina.
-Perché non stasera? - chiese Matte accendendosi una sigaretta.
-Dammi fuoco – era una frase che Seba usava spesso, dato che la prima volta aveva riscosso
reazioni molto divertite. Tirò fuori la sigaretta con studiata lentezza direttamente dalla tasca interna
del giubbotto di pelle, se la portò alla bocca e attese che l'altro si avvicinasse con lo zip
fiammeggiante. Aspirò a lungo senza quasi buttar fuori il fumo, poi sputò e riprese a parlare.
-A te risulta forse che dopo un colpo si deve per forza dividere il bottino?
-Non saprei, però...
-Però cosa? Adesso è tardi, qui c'è poca luce, c'è in giro gente...
-Sì, di là ci sono i neanderthaliani – fece la Nana.
-E chi cazzo sono? Comunque, la cosa migliore è trovarsi domani alla Cascina dei Marangoni.
-E dov'è sto posto? – chiese Dardan.
-Lo so io – fece Alex.
-Ci troviamo lì alle nove precise.
-Naaa, domani è domenica Seba, non possiamo fare più tardi? - disse Lu, che pensava anche
all'eventuale coda romantica della serata. Non le sarebbe dispiaciuto fare un bis.
-Ecco perché adesso si va tutti a nanna, e senza tante discussioni.
Ora si sentiva davvero un capobanda, dava ordini e disponeva le cose a modo suo, con ostentata
determinazione. Gli altri non poterono replicare granché, era lui ad avere il coltello dalla parte del
manico.
E poi qualcosa era cambiato nel suo sguardo e nel suo modo di fare, anche se nessuno ci aveva fatto
caso. Chissà, forse si era montato la testa. Tutta quella storia del colpo, la sua nuova tipa, l'episodio
della sera prima con Alì... Proprio ad Alì pensò in quel momento, e il tono e i gesti si fecero ancora
più duri e determinati.
Scese dalla panchina e chiamò tutti a raccolta:
-Allora siamo d'accordo. Ci vediamo domani mattina, alle nove in punto alla Cascina dei
Marangoni. E quando dico che ci vediamo, dico tutti. Non ci sono scuse – guardò per primo
Quattrocchi, che sembrava non aver capito, e poi gli altri, uno per uno.
-Naturale – rispose Matte. Mica penserai di tenertela tutta tu la grana.
Seba sorrise, si toccò gli occhiali da sole (che mai si era tolto in tutta la serata) e gli diede un
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leggero cazzotto sotto il mento. Poi riprese con maggior enfasi:
-Lì facciamo tutto con calma. E anzi, vedrete che ci sarà una bella sorpresa...
Matte e la Nana lo guardarono con una certa ammirazione, Alex non seppe bene cosa pensare,
mentre Dardan ridacchiava come al solito. L'unico che continuava a non capire era Quattrocchi. Lu
si avvicinò e appoggiò le sue labbra sulla bocca di Seba, che lasciò fare. Si misero a limonare
appassionatamente senza preoccuparsi dei presenti. Lui cominciò anche a palpare vistosamente il
fondoschiena di lei. A quel punto gli altri si salutarono e sciolsero la riunione. Fecero ben attenzione
a non incrociare i neanderthaliani e sgattaiolarono a casa.
-Ci vediamo domani Lu – disse Seba scollandosela di dosso un po' bruscamente.
-Ehi! Ma no dai, restiamo qui ancora un po'.
-Domani abbiamo tutta la giornata. E poi faremo festa, vedrai.
-Cos'hai in mente, amore?
-Vedrai, sarà una sorpresa.
Gli restò appiccicata ancora un po', poi lui prese lo scooter e lei montò dietro, stringendolo forte
come se avesse paura di perderlo.
Venne assalita da una tempesta di pensieri tristi, in rapida successione, che cercò di cacciare via
altrettanto in fretta. Tirava una brutta aria in casa. Suo padre in cassa integrazione, la madre
depressa e impasticcata e il fratello che non perdeva occasione per ficcarsi nei guai. Qualche sera
prima suo padre era stato chiamato alla caserma dei carabinieri e aveva trovato il figlio ubriaco
fradicio e con gli occhi pesti. Non aveva voglia di tornarci in quella casa, né quella sera né... mai.
Avrebbe tanto voluto andarsene. Non aveva importanza dove e con chi (ora un'idea ce l'aveva),
purché fosse lontano da lì.
L'aria tra i capelli, sempre più fresca al crescere della velocità dello scooter, fece volar via i pensieri
tristi. Alla fine appoggiò la guancia sul giubbotto di lui, e distese le labbra in un sorriso amaro.
Proprio mentre Ludovica cercava di svuotare la mente, Alì, in mezzo alla stanza umida e fredda,
ebbe un brivido e scoppiò a piangere come un bambino. In un'altra situazione se ne sarebbe
vergognato profondamente, ma ora non era certo il caso di porsi simili problemi. Tremava come una
foglia, era affamato e aveva la gola riarsa dalla sete. Lo avevano abbandonato lì da più di un'ora – o
almeno, così gli sembrava. Aveva urlato per un po' chiedendo aiuto, ma non era servito. Poi,
finalmente, dopo un lungo silenzio interrotto solo dal mormorio che gli usciva dalla gola senza che
ne avesse coscienza, scoppiò a piangere.
Un pianto amaro quanto inutile.
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Diciannovesima, lei
preda di un tremendo mal di testa fin dal pomeriggio, un'emicrania lancinante, di quelle che
arrivano all'improvviso, si siedono in cima alla testa e poi discendono, ampliando progressivamente,
un millimetro alla volta, il loro cerchio d'azione insieme alla loro intensità, e che sembrano non
avere più nessuna intenzione di passare, mi vedo costretta a disdire l'appuntamento, uno dei nostri
riti periodici, mio e della mia amica di sempre, non prima però di avere architettato il modo di
cedere il biglietto, sempre che possa interessare a qualcuno
peccato mi fa lei al telefono, dicono che sarà un concerto memorabile, perché usi quella
parola, le vorrei replicare, la detesto così tanto insieme a quella pandemia di espressioni tossiche
come per antonomasia, davvero splendido, era un tipo solare, ma lascio perdere, oltretutto, continua
lei girando il coltello nella ferita, la seconda di mahler non la danno così spesso, e il maestro abbado
si concede ancora meno, ma la perdono perché è gabriella, la mia amica più cara
sarà stato quel maledetto congresso di stamattina, una sequela di sciocchezze che altro che il
mal di testa, ci pensi tu allora a prendere il biglietto, lo lascio in portineria così è più semplice, e
quel pollo di gianmario, giancoso vorrai dire, giancoso lo avviso io, ora chiamo subito isham, non
abbiamo mai avuto in questo condominio un portiere così gentile ed efficiente, pensare che all'inizio
quelle vecchie carampane che abitano qui erano tutte allarmate, ma come un arabo in portineria, in
un palazzo così rispettabile, adesso lo adorano le cariatidi, gli stanno sempre addosso
anche tu, sento ridere dall'altra parte, se intendi che lo adoro ebbene sì, anzi un pensierino ce
l'ho anche fatto, bello com'è, con quegli occhi grigioverdi e quella voce sensuale da farti
accapponare la pelle, mentre sull'essere anch'io una cariatide beh, lei ride e mi dice che nemmeno
con una trivella a perforarmi il cranio perderei il mio spirito, non mi sfugge la sua delicatezza
nell'evitare di chiedermi se ho notizie di peter pan, ci sentiamo domani così mi racconti con calma
com'è andata, perché non a pranzo da me, così magari sarò io a ragguagliarla e a sfogarmi un po',
d'accordo tesoro porto una bottiglia di chardonnay, e chiudo il telefono prima di sentirla concludere
con un vecchia carampana che non sei altra
ora sono qui in catalessi sulla poltrona mentre cerco di leggere qualcosa senza riuscirci, ho
preso in mano almeno quattro libri diversi uno dei quali è una cinquecentina sbucata all'improvviso
un paio di giorni fa da una delle librerie stipate fino all'inverosimile che mio padre mi aveva lasciato
in eredità, a me non a mia madre o a mio fratello, un'eredità non certo materiale quanto spirituale e
simbolica, dunque molto più impegnativa, un libro di marsilio ficino, una vera perla che mai avevo
visto prima, tanto che sono tentata di chiederne conto a mia madre, sempre che i neuroni le
consentano di rispondere
dopo mezza pagina lascio perdere, provo allora con la musica ma niente da fare, non c'è
verso di rilassarmi, e il mal di testa nonostante i due cachet presi non è calato nemmeno di un
milligrammo, un macigno sta premendo contro la calotta cranica, alla fine mi arrendo, oscuro la
stanza, mi metto un cuscino dietro la schiena, poggio i piedi sul puf e mi immobilizzo in questa
posizione, cercando di svuotare la mente e di non pensare più a nulla, solo un massaggio di tanto in
tanto alle tempie, lieve lieve, subito seguito da una goccia di tisana, giusto per inumidire le labbra
sono in questo stato di doloroso torpore da non so quanto tempo, quando nel buio silente
della stanza squilla il telefono, ho un soprassalto ma non penso nemmeno lontanamente ad alzarmi,
può squillare quanto vuole, e lui vuole, perché squilla così tanto che sembra non finire mai, come in
quel film di sergio leone
dopo la seconda serie di squilli avvicino la borsa, senza sollevarmi dalla poltrona e quasi
slogandomi un polso per raggiungere la sedia sulla quale è appoggiata, voglio controllare che il
telefono portatile sia davvero acceso, e infatti non lo è, ma sul display, incredibile che io abbia solo
pensato quest'orribile parola, non compare nessuna chiamata
è la terza volta, e questa volta davvero non smette, altro che sergio leone, devo rispondere
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per forza, sollevo la cornetta e lascio che sia l'altro a parlare, dovessi farlo io per prima avrei un
tono talmente acido da autoimpressionarmi, il mio antagonista è una lei che attacca subito con tono
allarmato a raccontarmi una serie di cose, a raffica, da cui non cavo nulla di sensato, la prego si
calmi, prenda un bel respiro e ricominci da capo
non so se ricorda, io ricordo tutto, quel certo alunno che, sì certo non ne dimentico uno
nemmeno a distanza di molti anni, io sono la madre di, però non riesco ad assegnarle un viso o a
collegarvi la voce, dal tono mi pare una di quelle genitrici cotonate e impossibili con la tripla
pelliccetta una più pacchiana dell'altra che lascia dietro di sé un chilometro di scia profumata, che
non capisce nulla di scuola né di figli e che anzi non vede l'ora di disfarsi dell'una e degli altri per
poter andare in tutta libertà dalla parrucchiera di fiducia o al bar con le amiche per una partita a
ramino e un drink, o più improbabilmente in uno squallido albergo a ore con un amante baffuto e un
poco più aitante e dotato di quella minchiamorta di suo marito, ma forse esagero
e di fatti la storia che mi racconta dissolve un quadro per disegnarne subito un altro dalle
tinte molto diverse, come ormai non usa quasi più in quel della verde provincia, non che la grigia
città sia meglio, ma insomma la figura becera di poco fa lascia il posto ad una massaia per metà
bigotta e per l'altra metà tutto senso pratico, un donnone che sa sempre che cosa fare e come
affrontare qualsiasi emergenza
no professoressa la polizia è meglio di no, si tratta di una famiglia che è qui in italia, come
dire, sì insomma son clandestini povera gente ma che lavora e se vengon fuori i poliziotti magari li
portano via e, sì sì ho capito ma io cosa, cosa posso, io
al nome seba ho un sobbalzo, cosa c'entra gargiulo, ma il suono muore in bocca mentre
sollevo la mano dalla cornetta tornata al suo posto, e mentre gli occhi dilatati seguono il filo nero
come la pece fino alla presa sul muro, come a voler trovare il bandolo
so già che non dormirò, ed anche per questa notte dovrò montare di vedetta,
shomermamilaila
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Ventesima, loro
Le piantine di mais si intravvedevano appena, ma di lì a poco sarebbero diventate delle pertiche che
nelle annate buone potevano arrivare anche a due metri di altezza, con pannocchie gonfie come
zucche allungate. L'ideale per nascondersi negli assolati mesi estivi. Ma anche negli altri periodi
dell'anno, visto che da quelle parti non passava quasi nessuno. Solo avventori occasionali: qualche
tossico allo stadio terminale, immigrati straccioni senza il becco d'un quattrino, un paio di
spacciatori di fumo. C'era poi il solitario contadino che in cima al suo trattore veniva
periodicamente a seminare, sarchiare, concimare, diserbare e raccogliere. Era un tizio enorme, reso
quasi invisibile da un cappello di paglia a tese larghissime, con una perenne sigaretta che spuntava
dal lato sinistro della bocca, e che per nessuna ragione scendeva mai dal potente mezzo sul quale
percorreva in lungo e in largo i campi, corpulento imperatore agricolo assiso sul comodo trono della
tecnica.
Seba aveva ragione, era il posto ideale per dividere il bottino e fare tutto con calma, nessuno li
avrebbe disturbati.
Arrivarono alla spicciolata, piuttosto presto per essere di domenica.
C'era un'insegna illeggibile all'ingresso della casa, forse recava il nome degli antichi proprietari. Si
potevano indovinare una V e una C, anch'esse smangiate, ma niente di più. Ci fece caso Alex,
quando arrivò sullo scooter insieme a Dardan. Tentò di decifrare la scritta, ma dovette lasciar
perdere.
-Grazie per avermi fatto guidare – gli disse riconoscente, mentre l'altro sbadigliava a ripetizione
senza preoccuparsi di portare la mano alla bocca, né tanto meno di rispondere.
Alex aveva già ottenuto la patente, tramite la scuola, ma era come non averla, anche se il mese
prima era stato il suo quattordicesimo compleanno. La madre gli avrebbe comprato lo scooter solo
al termine degli esami e solo se li avesse superati con il massimo dei voti.
-Se vuoi ce la puoi fare benissimo Alex. Chi più di te? - gli aveva detto proprio il giorno della festa.
-Mamma, per favore...
-Ogni voto in meno, un mese in più di attesa...
-Dai, stai scherzando vero? Almeno oggi potresti lasciar perdere...
-No che non scherzo. Qui c'è l'assegno, ma lo firmo solo dopo aver visto la pagella.
-Bel regalo! Un assegno vuoto... E se poi...
-Mettilo via, che nessuno te lo tocca. Ora incassare dipende solo da te.
Dardan, che non ne sapeva nulla, abbozzò il suo sorriso di facciata, un po' appannato per la
levataccia, e piazzò lo scooter sotto una quercia, in una zona del terreno non troppo sconnessa e
libera dall'intrico dei rovi.
Si sentiva della musica provenire da una delle stanze della cascina. Una vecchia canzone di un
gruppo hip hop americano, roba di almeno dieci anni prima.
-Guarda Alex – Dardan puntò un braccio, mentre con l'altra mano si toglieva il cappuccio della
felpa - c'è un'automobile. Di chi sarà?
-Accidenti, è vero, non è che...?
-È una Bmw vecchissima, il modello è ormai fuori serie. Era una bella macchina, ma questa mi pare
un catorcio.
-Te ne intendi.
-Eh sì!
-Venite raga, da questa parte.
Si sentì una voce femminile uscire da dietro le imposte rotte di un balcone che dava sul piazzale nel
quale la strada sterrata terminava. Sembravano devastate dalla grandine e dalle intemperie. O
magari qualcuno si era divertito ad usarle come un tiro a segno.
-Lu? Sei tu?
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-Sì, dai sbrigatevi – sussurrava in modo strano, come se urlasse a bassa voce, forse per non farsi
coprire dalla musica o magari per non farsi sentire da qualcuno.
I due ragazzi si guardarono perplessi. C'era qualcosa di strano lì in giro. Poi videro affacciarsi dal
balcone un tipo con un paio di occhiali da sole – e questa volta il sole c'era davvero: le nuvole si
erano dissolte nella notte, ma ancora il tepore del primo mattino non era riuscito a penetrare nella
umidità residua.
-Forza frocetti, cosa aspettate? – li pigliò in giro Seba mentre si accendeva una sigaretta. Solo in
quel momento lo riconobbero. Era in maniche corte, a dispetto dell'ora e della temperatura: portava
una camicia color porpora e dei jeans neri attillatissimi in prossimità delle Nike alte, e dopo averli
canzonati ancora un po' si girò e rivolse il viso in pieno sole. Sembrava ci dovesse essere qualche
fotografo lì in giro, se non addirittura un aiuto regista con la camera in spalla, pronti ad
immortalarlo in quella posa un po' statuaria. Da dietro le imposte si sentirono dei movimenti, come
uno sbattere di oggetti contro il muro o il pavimento, e subito dopo un lamento.
-Arriviamo – dissero entrando nel cortile infestato di rovi e pieno di detriti. Lu nel frattempo era
scesa e stava venendo loro incontro. Aveva la faccia scura e si limitò ad annuire indicando la scala.
-State attenti, la seconda rampa è senza ringhiera e ci sono dei gradini rotti – disse dopo un po'
distrattamente, come se si rivolgesse a qualcun altro.
-Che posto di mmmerda! - disse Dardan. Sputò per sottolineare il disgusto.
-Aspettate – fece Ludovica con uno scatto improvviso – fumiamoci una sigaretta prima di salire.
-Il tuo ragazzo non è geloso?
-Di chi? Di voi due sfigati?
Dardan, per tutta risposta, si mise a fare dei gesti pornografici con le mani e con la bocca, e Alex
cominciò a ridere a tutto spiano.
-Se dici qualcos'altro ti fracasso la testa con questo – Lu prese un mattone spezzato da terra, senza
far capire se stesse scherzando o meno.
Presero a parlare del più e del meno, spostandosi sotto una tettoia posta sull'altro lato del cortile. Le
chiesero di chi fosse l'auto.
-Boh, amici di Seba – rispose vaga, deviando lo sguardo. Cambiava umore di continuo.
La lastra sopra le loro teste era di eternit e Alex, che se ne era accorto, disse che forse sarebbe stato
meglio spostarsi. Si sedettero su una panchina di legno, sotto una magnolia che esibiva i primi
timidi fiori, candidi come la neve. Era l'unico esemplare vegetale che aveva conservato un certo
stile e che si stagliava con grazia nel mezzo di quel lurido cortile abbandonato. Tutt'attorno c'erano
sedie rotte, cassetti semidistrutti, calcinacci, piatti e tazze sbreccate, bottiglie quasi sempre in
frantumi, mucchi di lattine, vasi da balcone incrinati con i portavasi arrugginiti, contenitori con le
etichette scolorite; tavole di legno e parti di mobili marci, la cui residua vernice andava
inesorabilmente disfacendosi; oggetti non sempre riconoscibili d'ogni colore e misura, ricoperti di
macchie purulente e di croste, come se fossero preda di malattie rare o all'ultimo stadio. In tutto
quel lerciume spiccavano alcune suppellettili: una poltrona sfondata di color verde pistacchio, un
paio di materassi squarciati in più punti, un tappeto arrotolato di cui era ormai impossibile
riconoscere i motivi floreali e persino un vecchio giradischi con alcuni vinili spezzati disseminati
intorno.
-Guardo se ci sono dei pezzi sani tra quei dischi – disse Alex – magari trovo qualcosa per mia
madre.
-Perché, colleziona quella roba? - chiese Lu fingendo interesse.
In quel mentre arrivarono altri colpi, un sibilo e poi lo stesso lamento di prima dal piano di sopra;
contemporaneamente, dalla strada sterrata esterna, si sentì il rombo di un motore. Le loro occhiate
mute correvano da un viso all'altro, viravano subito verso l'alto, per poi scendere in picchiata
dirigendosi all'esterno della casa. Il rumore dello scooter li catalizzò per un momento.
-Questo dev'essere Matte – fece Alex, che si affacciò dall'androne lasciando gli altri due a finire la
sigaretta e a continuare il loro gioco di sguardi.
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-Cosa succede di sopra? - chiese Dardan fingendo indifferenza.
-Perché, cosa deve succedere? - rispose Lu scurendosi ancora di più in volto. Aveva un'aria davvero
tetra, adesso.
Il lamento che seguì non prometteva nulla di buono.
-Bella - fece Matte entrando nel cortile e mostrando a tutti la mano. Dal giorno prima non aveva
ancora smesso di molleggiarsi sulle sue scarpe fiammanti. Sembrava che camminasse su un tappeto
a molle.
-Dai saliamo.
-Sì, sarebbe anche ora – Seba si era affacciato sulla balaustra del cortile interno e li guardava
ridacchiando – chi manca ancora?
-La nana e Quattrocchi. Dovrebbero arrivare in bici tra un attimo, siamo partiti insieme – disse
Matte cominciando a salire sui gradini consumati, senza smettere di saltellare.
Nel frattempo, come dal nulla, apparve accanto a Seba un tizio tarchiato, non troppo alto, con la
testa rasata, che indossava giacca e cravatta. Dal taschino della giacca sporgeva un lembo nero, che
non si capiva cosa fosse: poteva essere un fazzoletto, o anche un fiore esotico. Nessuno dei ragazzi
seppe riconoscerlo.
-Ma chi cazzo è? – borbottò Dardan a bassa voce, attento a non farsi sentire.
Il tizio elegante li guardava muto. Poi disse qualcosa al suo socio e tornò dentro.
-Vengo giù – esclamò Seba dopo un minuto – vi porto qualcosa da bere.
-Bravo amore – commentò con voce cantilenante Lu.
Matte era rimasto per tutto il tempo con un piede sul primo gradino e l'altro a terra, mentre la faccia
a punto interrogativo era rivolta agli altri, che lo guardavano come incantati. La situazione
cominciava ad assumere un carattere di surreale sospensione. Nessuno aveva voglia di parlare, ed
era come se non si fossero ancora del tutto svegliati. Cominciarono, a turno, a sbadigliare
ostentatamente: fauci spalancate, schiene ricurve e mani sprofondate nelle tasche.
Si sentì uno scalpiccio provenire dall'alto della scala e, dopo pochi secondi, la faccia beffarda di
Seba fece capolino. Lui, al contrario degli altri, appariva sveglio e arzillo. Stringeva in una mano un
sacchetto giallo, dal quale sbucavano i colli scuri di alcune bottiglie di plastica. Dalla loro forma e
dai tappi rossi si capiva che era coca-cola, la loro bevanda preferita dopo la birra. A quell'ora del
mattino era quello che ci voleva.
-Ecco qua raga, vi ho portato da bere. Checcazzo, adesso devo farvi anche da cameriere!
Vi fu qualche risolino mentre il loro gesticolare lento subì una brusca accelerazione: le mani
uscirono dalle tasche ad una velocità supersonica. Afferrarono a turno la prima bottiglia e bevvero a
canna la bibita fresca e scura, che gorgogliava mentre scendeva nelle loro gole infiammate dalle
troppe sigarette della sera prima.
-Io non ho sete – disse Alex con un filo di voce, quando toccò a lui.
Seba insistette e quello appoggiò la bocca sul collo della bottiglia, indugiando prima di mandar giù
il liquido marrone.
Proprio in quel momento Quattrocchi e la nana entrarono nel cortile. Stavano sulla bici di lui, che
pedalava in preda ad un affanno spasmodico, cercando a fatica di mantenere l'equilibrio, mentre lei
sgambettava e rideva seduta sulla canna.
-Minchia, che male al culo! - urlò scendendo dalla bicicletta e sceneggiando un passo sciancato
mentre si dirigeva verso di loro. Quattrocchi non fu pronto a riequilibrare il baricentro del mezzo,
dopo l'improvvisa discesa della ragazza, e ruzzolò a terra. Si sbucciò i palmi delle mani e cominciò
a lanciare bestemmie, provocando l'ilarità generale.
Alex approfittò della loro distrazione e si girò a sputare verso la magnolia il sorso di coca che aveva
ingurgitato. Dal vegetale nessuna reazione.
Intanto Gin stava abbracciando e baciando tutti, ma si accorse ben preso dai loro sguardi che
qualcosa non andava.
Aprirono la seconda bottiglia e la offrirono per primo allo sfigato, che non mancò di versarsi la
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coca-cola sul giubbotto e sui pantaloni impolverati.
-Quattrocchi, sei il solito coglione – Dardan non si lasciò scappare l'occasione di canzonarlo.
-Ma io... - gli presero la bottiglia e se la lanciarono ridendo, mentre quello cercava di riagguantarla.
-Che ne dite se saliamo? - detto da Seba, sembrava più un ordine che un invito.
Si passarono ancora per un po' la bottiglia e poi la gettarono sulla montagnola di rifiuti. Alex li
guardò salire in silenzio, con gli occhi spalancati, come se stesse presagendo qualcosa. Ma non
sapeva dire cosa.
53
Ventunesima, lui
La ragazza era bionda come un angelo caduto dal cielo. I capelli le scendevano dalle spalle. Erano
leggermente ondulati e le sfioravano l'osso sacro. Era quella la prima cosa a colpire. Subito dopo gli
occhi verdi e accesi. Appena sotto la fronte liscia.
L'avevo vista comparire davanti a me all'improvviso. In un tardo pomeriggio su una spiaggia della
Corsica. Ne ero rimasto abbagliato.
Ne sto parlando come se fosse un secolo fa. O addirittura un'era. E forse è così. Se penso agli anni
che ho. A quando è successo. Solo l'estate scorsa. E a quel che mi resta da vivere. Pochi minuti. Il
tempo di far passare questo ricordo.
Ero piuttosto imbranato l'estate scorsa. Non che adesso sia un ganzo. Ma l'estate scorsa sembravo
proprio uno sfigato. Quasi come Quattrocchi. Non avevo ancora cominciato a frequentare
seriamente gli altri. Li conoscevo solo di vista. E comunque non c'era ancora nessun gruppo. Ero
uno dei tanti bambocci sciolti. Uno dei tanti a metà strada. Né carne né pesce. Non più bambini
della scuola elementare. Non ancora ragazzi fatti della scuola media.
Ma questo non ha nessuna importanza. Ora non voglio più perdere tempo in sciocchezze. C'era lei
davanti a me. E voglio ricordarla ancora.
Ero andato in vacanza con mio padre. Il filosofo. O lo stronzo. A piacere.
Il filosofo stronzo ci aveva abbandonati da soli due mesi. Me mia madre e Lorenzo. Si era rifatto
vivo poco dopo la fine della scuola. Forse era in preda ai sensi di colpa. La seconda media era stata
un inferno. Era coincisa con il disastro dei miei genitori. Un vero e proprio crollo psicologico e
familiare. E io povero sfigato dodicenne pagavo il prezzo più alto. Mia madre era sull'orlo di un
esaurimento nervoso. Mentre io mi ero chiuso in un mutismo ostinato. Dopotutto erano affari loro.
Però a dire il vero era di lei che stavo parlando. Della ragazza bionda. Ma vedo che ogni tre secondi
qualcuno si mette di traverso. Nella visuale dei miei ricordi. E cerca di sporcarli. O di spezzarli. O
di anestetizzarli. Minchia bella questa parola. Mentre io voglio che pungano. I miei ricordi. Che mi
diano una botta di vita. Una frustata finale. Perché è tutto quello che mi resta.
Lei era davvero. Davvero figa. Bruttissima questa espressione lo so. La usano tutti i maschi della
mia età. Così come tutte le femmine useranno qualcosa di simile. Però rende bene l'idea.
Ma ci voglio riprovare.
Lei era davvero bella. La ragazza più bella che io avessi mai visto. Io stavo lì in quel dannato
campeggio. Da ormai quattro giorni. E mi annoiavo a morte. Contavo i sei giorni rimanenti. Meno
otto. Meno sette. Meno. In attesa che lo stronzo mi riportasse a casa. Della Corsica e del suo mare
turchese. Dei boschi e delle montagne meravigliose dell'interno. Delle passeggiate con mio padre.
Non me ne fregava niente. Quasi non parlavo. E non avevo voglio di fare un cazzo. Più che una
strategia per punire lo stronzo filosofo. Direi un modo per farmi i cazzi miei. Doloroso visto che il
tempo non passava mai. In quel cavolo di campeggio.
Poi la vidi comparire sulla battigia. Una sera poco prima del tramonto. Il campeggio si trovava nel
mezzo di una bellissima pineta. Più in là c'erano alcune dune. Io mi piazzavo lì. Concentrato
appunto nel mio non fare un cazzo. Al massimo a contemplare il tramonto. In perfetta solitudine.
Alla fine del quarto giorno ero ormai rassegnato. Una definitiva vacanza di merda. Quando però
vidi i suoi capelli svolazzanti. Fecero la loro comparsa all'orizzonte. Confusi lungo le linee dorate
delle dune. Un'apparizione mitica. Minchia questa è poesia. Una rottura della mia noia. E insieme
una nuova dannazione.
Lei camminava ancheggiando verso di me. Ma i suoi occhi guardavano in tutt'altra direzione.
All'inizio pensai di essere io il suo obiettivo. Povero ingenuo.
Fatto sta che ebbi. Un po' mi vergogno a dirlo. La mia prima erezione seria. Seria nel senso che non
fu solo lì. Non si risvegliò solo quel piccolo angolo del mio corpo. Ma molto di più. Ogni cellula.
Ogni lembo di pelle. Ogni terminazione nervosa. Tutto in me cominciò a pulsare e a battere. Ogni
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zona del mio corpo aveva un cuore. E sì. Era in erezione. Non un orgasmo. Ma mille centomila un
milione di orgasmi possibili. Forse il mio corpo sarebbe esploso. Se lei. Fosse venuta. Verso di me.
Cazzo. Un vero peccato che non sia accaduto. E che lei abbia deviato all'ultimo passo. Scartandomi
e andando oltre. Avessi guardato meglio. Fossi stato meno occupato a monitorare quel che
succedeva in me. Allora avrei notato che il suo sguardo non puntava verso di me. Io ero trasparente.
Non esistevo. Lei guardava attraverso di me. E se fossi stato sulla sua traiettoria. Beh mi avrebbe
calpestato. Senza pensarci due volte.
Al di là di me c'era uno stronzo. Un altro oltre a mio padre. Un tipo con dei baffetti biondi. Avrà
avuto almeno vent'anni. Insomma un vecchio. Fu sul suo corpo che lei si abbassò. Dopo avermi
scavalcato. Lui era lì sdraiato al sole. Con degli occhiali assurdi. Lei gli cinse il collo con le braccia
abbronzate. Lui fermo immobile. Con quella faccia da cazzo. E lei lo baciò sulla bocca con
passione. Senza pudore. Così davanti a tutti. Soprattutto davanti a me.
Mi sentii trafiggere dappertutto. In tutti i punti che prima erano stati eccitati. Uno dopo l'altro. Anzi
tutti in contemporanea. Il mio corpo a quel punto rischiò di implodere.
Non avevo fatto in tempo a conoscere Francesca. E ad innamorarmi di lei. Che già mi aveva tradito.
La stronza.
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Ventiduesima, loro
Mi sento strano – pensò Matte mentre saliva – ho le gambe molli, come di ricotta.
Forse sarà per le scarpe. Eppure prima di arrivare qui non stavo così. E' successo solo quando ho
cominciato a salire le scale. Mi è presa come una vertigine, qui alla testa. O magari è stata quella
cazzo di coca-cola. Troppo fredda. Mannò, io la bevo anche più ghiacciata di così. Eppure sento
qualcosa qui alla pancia. Uno strano movimento. Però a pensarci bene non è solo alla pancia, anche
le braccia sono... sono molli anche loro, come le gambe. Però non è male. E' come se... sì, è così, il
corpo si sta rilassando. E anche la pancia e la testa ora stanno meglio.
C'è qui davanti a me il culo di Lu e quasi quasi... insomma, mi è venuta voglia di toccarlo. Ma so
che non posso. Però la mano sta partendo da sola. Non riesco proprio a tenerla. Adesso si gira e mi
tira un cartone. La Lu è capace di farlo. Che bel culo, però! Massì, io adesso glielo palpo. Tanto
Seba è là davanti, mica mi vede.
Cazzo, come mi sento bene, però. Mai stato meglio in vita mia. Bella!
Non ci credo, si è girata e si è messa a ridere. Impossibile. Certo che se glielo va a dire io torno a
casa a pezzettini. Anzi, non torno a casa, vado dritto in ospedale. In sala di rianimazione.
La mano continua a muoversi, meglio pensare a qualcos'altro. Beh, non a quello sfigato che c'è qui
accanto a me. Adesso gli do una manata e lo faccio cadere ancora, 'sto pirla. E guarda come ride.
Sembra beato. Ha una macchia che gli scende dal collo fino al ginocchio, una striscia di zucchero
marrone schifoso, e ride. Cazzo c'avrà da ridere?
Bella – pensò Quattrocchi, mentre saliva accanto a Matte, che ogni tanto gli dava una spallata e lo
schiacciava contro il muro – oggi mi sa che succederà qualcosa di bello, me lo sento, me lo sento.
Era partita male. Mia madre non mi voleva far uscire. Che rompiballe mia madre. Ma io ho
inventato una scusa. E l'ho fregata. Dovevo studiare con Gin, e lei al telefono ha confermato.
E' qui dietro di me. Mi piace. Quasi quasi glielo chiedo. Finora non ho avuto il coraggio. Ho paura
di far figure.
Ma cosa sarà questo rumore alla testa? Boh, fa niente.
Ora mi giro e le dico la verità. Gin tu mi piaci. Davvero, mi piaci un casino. A lei non interessa che
gli altri mi dicono che sono sfigato. Lei è sempre carina con me. Mi manda i messaggi. Mi chiede se
voglio una sigaretta. Mi ha invitato alle sue feste. Anche se mia madre, quella rompiballe, non mi ha
dato il permesso.
Ah, che strano! Il rumore è più forte, e la gamba destra mi sta cedendo. Non posso mica cadere
ancora, sarebbe troppo una figura del cazzo. No, no, e poi lei è qui dietro di me. Adesso mi giro e...
Gin?
Ma guarda 'sto scemo che continua a girarsi – pensò Gin mentre saliva dietro Quattrocchi – cazzo
avrà da guardare? Sì, lo so che mi viene dietro, ma io che cosa ci posso fare? Con tutti i ragazzi che
ci sono in giro, minchia, proprio lui deve...
Cosa sarà questo calore al collo? E' come se avessi la febbre, però soltanto al collo. Impossibile.
Adesso cominciano anche le spalle.
Non girarti scemo, sennò ti do un calcio nel culo. Ma guarda che cavolo di pantaloni che ha.
Sembrano quelli di suo nonno.
E adesso? Il calore scende giù, sul fondoschiena. Le gambe sono molli e calde, anche loro. E i
piedi... li sento bollire, mi vien quasi voglia di togliermi le scarpe. Sembra che ci sia un incendio qui
dentro, cosa sta succedendo? Però è bello, non mi sento male. E' una sensazione nuova.
Giuro che se si gira ancora glielo tiro 'sto calcio. Anzi no, gli infilo una spilla nel polpaccio, così gli
calmano i bollenti spiriti.
A proposito di bollire... adesso è la faccia, ce l'avrò tutta rossa.
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Chissà che cazzo ci andiamo a fare lì sopra? Cosa dovevamo fare? Boh, non me lo ricordo più.
Cazzo che banda! - pensò Seba, capofila della salita – La banda degli sfigati! La Ganga! Ma che
Ganga e Ganga! Mettendoli tutti insieme non ne viene fuori uno sano. Però bisogna accontentarsi.
Questo c'è, per adesso. E comunque mi sa che il bello viene ora.
Max è un po' matto, però ci sarà senz'altro da divertirsi. Non ho ben capito cos'ha in mente, ma per
oggi lascio decidere tutto a lui. Il capo, oggi, è lui. Così io mi rilasso.
Per fortuna c'è anche Lu. Adesso che è la mia donna... Anche lei ha bisogno di rilassarsi. Magari
dopo andiamo a farci un giro.
Cazzo che botta! La testa mi gira, sta già salendo. Bella! Max aveva ragione. E poi fa effetto subito.
Non immaginavo.
Guarda quello scemo di Matte. Vuol provarci con Lu. Non me ne frega un cazzo, però dopo gli
spezzo una mano. O forse no. Per oggi stiamo tutti tranquilli e rilassati. Tra'. Oggi è un giorno di
festa. E a quel negro facciamo la festa.
Bollicine in testa e nella pancia. Mai stato meglio.
Forse è meglio non dire niente a Seba, sennò lo stritola – pensò Lu, che stava salendo dietro di lui e
davanti al suo palpeggiatore – però non mi ha dato fastidio, anzi. Mi ha fatto proprio piacere.
Strano, in un altro momento gli avrei dato un cazzotto. Eppoi, non è che quel Matte mi sta
particolarmente simpatico.
Però adesso... è diverso. Adesso mi sento in forma. Prima no, ero un po' rincoglionita. Tutta la
mattina a cambiare umore. Mentre adesso. E' cominciato con un mal di pancia: occazzo, ho pensato,
avrò mica le mie cose? Proprio oggi, no! E invece... subito una botta di energia nelle gambe e... sì,
anche nel culo, forse è per quello che a 'sto scemo dietro è venuta voglia di toccarlo.
Amore amore, ti prego, non girarti. Non farlo. Non adesso. Ah! Ancora! Adesso gli faccio vedere io.
Ecco, Seba si è girato. Gli starà venendo qualche sospetto. Ma sì, e se anche se ne accorge cosa può
succedere? A me di sicuro non mi tocca, al massimo sfonda la faccia a 'sto babbeo. Però ha una
bella mano, e sa anche dove appoggiarla.
Minchia come sto!
Mi è venuta un po' di nausea – pensò Dardan, penultimo della fila – ma è anche passata subito.
Forse la Coca fredda. O forse perché non ho fatto colazione. A proposito, ho una cazzo di fame.
Chissà se c'è qualcosa da mangiare su di sopra. Anche se non credo, questo è davvero un posto di
mmmerda.
Però è successa una cosa. Mi sono svegliato di colpo, e adesso sto bene. Mi sento in forma. Come
dopo la palestra. Anzi, meglio ancora, perché non sono stanco. Mi sento riposato, rilassato. Strano,
vista l'ora in cui è suonata la sveglia del cellulare. Almeno quattro ore in meno del sonno solito della
domenica. Eppure sto bene. Ho solo un po' di fame. Anzi, sbranerei un toro.
Ma guarda questi scemi qui davanti come si muovono, sembrano ubriachi. E poi Matte che cazzo
fa? Se lo vede Seba. Quattrocchi si è girato, ha proprio una faccia da scemo. Vorrebbe dire qualcosa
a Gin, si capisce lontano un chilometro. Ma non ha nemmeno un grammo di speranza. Un cazzo!
Però quasi quasi... ha un culo stretto stretto la Nana qui davanti, così stretto che glielo potrei
accarezzare con un dito. Le appoggio l'indice proprio al centro, e poi... Fruc! Ho le dita lunghe, io.
E non solo quelle.
Cazzo, che figata! Peccato solo essere qui, e non al mare. Con tutte le fighe in giro.
Ma cosa mi comprerò con la mia parte? Non è tanto, però...
Sono tutti strani – pensò Alex mentre li vedeva ciondolare uno dopo l'altro sulla scala - secondo me
c'era qualcosa nella coca-cola. Aveva un sapore... come di metallo. Ho fatto bene a sputarla.
Ogni due secondi si fermano, e poi ridono, si girano, fanno delle facce strane. Io quasi quasi me la
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batto.
Quel Seba non mi convince. Ma ancora di più quel suo amico. Chi è? Cosa ci fa qui? Cosa sta
succedendo lì sopra?
Era l'unico ad avere una faccia scura e preoccupata.
Tra un po' avrebbe cominciato a stonare, in quella spensierata ed allegra brigata. Come una faccia
seria in mezzo a un ballo in piazza, o una maschera grigia in mezzo a una sfilata di carnevale.
Ignorava, come tutti, che al termine di quella scala c'era un baratro ad attenderli.
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Ventitreesima, lei
ma ne sei sicuro, non ci posso credere, no non può essere, ma come, sono al telefono da
mezz'ora e sto trasecolando, non posso credere che stia succedendo tutto questo pandemonio, un
furto a teatro, praticamente sotto gli occhi di tutti, e poi il ragazzo pakistano sparito, nell'arco della
stessa sera, nessuno sa ancora dire se i due episodi siano collegati, ma certo c'erano stati strani
movimenti, e soprattutto in entrambi i casi si era fatto il nome di gargiulo, che poi tutti continuano a
chiamare con quel nomignolo disgustoso, seba, seba come il sebo, come se sebastiano fosse un
nome di cui vergognarsi, il mio ex allievo finito in un gran pasticcio, così sembra, era ormai la terza
telefonata, la prima mi aveva svegliato che non erano nemmeno le otto del mattino, praticamente
l'alba per i miei ritmi domenicali, la bibliotecaria aveva pensato bene di aggiornarmi sul furto del
cappello, mentre poco prima avevo parlato con la direttrice della scuola e con la collega di
matematica che abitava in paese, mi ero così arresa all'evidenza e avevo preso una decisione
il lavoro di un intero anno scolastico, anzi di tre, rischiava di andare a monte, anche se forse
tutto era già stato compromesso, ma forse qualcosa avrei potuto ancora fare, chiamo a malincuore
giancoso e gli chiedo con la voce più melliflua e seducente nella quale sono in grado di produrmi a
quest'ora del mattino, reduce oltretutto da una notte allucinante, se per caso non potrebbe passare a
prendermi ed accompagnarmi in quel cavolo di paese, giancoso soprassiede sulla mia voce da
zombie e dice sì non c'è problema, mentre io sempre con la vocina zuccherosa a velare
maldestramente i bassi da morta vivente mi spertico in elogi e ringraziamenti, per poi passare ad un
cavernoso ed ultimativo, quando riesci a passare
concordiamo per vederci di lì a un quarto d'ora, tenuto conto che è domenica mattina
dovremmo arrivare al paesello abbastanza in fretta, e comunque non oltre le dieci, forse ancora in
tempo per bloccare l'intervento della forza pubblica, dell'esercito e magari anche delle forze nato e
dei caschi blu, finora c'erano in mezzo un paio di genitori e di insegnanti, la direttrice, la
bibliotecaria e poco più, forse si è ancora in tempo per risolvere tutto, diciamo, all'italiana, senza
troppi danni, ad ogni modo del decoro me ne frego, quel che mi preme è evitare che i ragazzi si
caccino in qualche guaio serio, bastava già un furto risolvibile facilmente con la restituzione del
maltolto, ma un rapimento proprio no, anche se non sono proprio certa che sia andata davvero così,
o almeno mi impedisco preventivamente di crederci
gianmario è qui in anticipo, mentre mi do una mano di cipria sul naso, non che sia
importante in questo momento, ma devo avere un aspetto davvero orrendo, una via di mezzo tra uno
zombie e una strega, era stato uno dei miei alunni di terza di qualche anno fa a darmi quel grazioso
titolo, strega, rendendolo addirittura nel dialetto della regione da cui proveniva, streusa in siciliano,
era stata un'annata indimenticabile quella, erano tosti, e del tutto diversi da quelli con cui ho a che
fare ora, nel giro di un decennio tutto è cambiato, quei dannati aggeggi elettronici hanno stravolto il
loro modo di essere, di comportarsi, il linguaggio, persino la gestualità, pollici orecchi occhi
sguardo camminata, tutto è diverso, non dico che sia peggio o meglio, meglio no di sicuro, dico solo
che se le due generazioni a parità di età si incontrassero difficilmente riuscirebbero a comunicare,
sarebbe un incontro di alieni, figuriamoci con gli adulti
riesco a farmi venire tutti questi pensieri, e altri ancora che rampollano uno dall'altro senza
che possa controllarli, nell'arco dei tre o quattro minuti che mi ci sono voluti per rispondere al
citofono, recuperare le sigarette e la borsa, chiudere la porta e scendere le scale, smadonnando
perché qualche idiota ha lasciato di prima mattina la porta dell'ascensore bloccata a un qualche
piano
mi accendo la sigaretta mentre esco dal portone, e saluto affettuosamente il mio gentile
autista che viene ad aprirmi la portiera dell'auto e a prodigarsi nelle solite gentilezze, cerco di
contenere, per quanto mi è possibile date le circostanze, il mio tono emotivo, che in questa fase
alterna momenti di astio, di intemperanza e di preoccupazione, provo a nascondere il tutto dietro a
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un muro di ostentata sonnolenza
giancoso, che di norma è piuttosto silenzioso e riservato, questa mattina ha per mia sfortuna
deciso di interpretare la parte dell'amico querulo, io lo assecondo con i miei cenni di assenso ilare,
muta come un'orata al forno, anche se a pensarci bene la faccia da orata, in questo momento, ce l'ha
piuttosto lui, ma la mia mente corre dietro ai ragazzi, alle loro menti labirintiche e, soprattutto,
imprevedibili, il mio autista pontifica su questo e quello, e io mi figuro questo o quel volto, questa o
quella voce, questo o quel gesto dei ragazzi, con tutte le loro possibili implicazioni e conseguenze,
tracce passate per decifrare possibili sbocchi odierni, fosse facile, sfingi impenetrabili al mio
sguardo attento ma inadeguato, ormai il loro tasso di imprevedibile follia era cresciuto fino al
parossismo proprio con l'ultima leva, quella nativodigitale, cioè quella dell'analfabetismo assoluto
gianmario puoi accendere per cortesia la radio, questa mattina sono a corto di notizie, è vero
anche se è un diversivo, sì certo, va bene questo canale, ma ben presto si rivela una scelta
imprudente, dato che non solo non tace ma si mette addirittura a intercalare di commenti il
radiogiornale, hai sentito qua hai sentito là, tu che ne pensi, poi mi assopisco, e solo una brusca
frenata mi fa uscire dal torpore riportandomi al duro e inappellabile principio di realtà
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Ventiquattresima, loro
Aveva il dorso nudo e i polsi violacei per i legacci troppo stretti. Dalla bocca gli usciva uno strano
rantolo, mentre gli occhi erano semichiusi. Apparentemente nessuno gli aveva torto un capello: non
c'erano segni sulla pelle, lucida e color caffé, né ferite o altro – a parte quelli dei polsi. In quel
preciso momento, però, aveva l'aria di un manichino con il collo spezzato. Di qualcuno estenuato
da una situazione che non è più in grado di reggere, e che vorrebbe volgere la testa da un'altra parte
– solo che quest'altra parte non esiste.
Il ragazzo in giacca e cravatta gli sollevò il mento e, dopo essersi messo dei guanti di lattice, lo
schiaffeggiò appena, per farlo rinvenire. Sembrava quasi che lo accarezzasse.
-Alì Babà del cazzo, ti vuoi svegliare o no? - disse sottovoce, come se invece gli stesse sussurrando
una ninna nanna.
Sentì vociare dal piano di sotto, e fu indeciso se scendere subito o aspettare ancora qualche
momento.
-Torno subito, bellezza – gli soffiò, ancora più piano, nell'orecchio – non ti muovere.
Il manichino subito non reagì, e anzi sembrò replicargli: “e chi si muove?”.
Poi lo guardò. Non si capiva se lo stesse sfidando o implorando. Forse era solo stanco, e voleva
farla finita. L'altro non si scompose, girò piano le spalle e uscì dal solaio sollevando da terra piccole
nuvole di polvere. Mentre inforcava le scale si tolse una ragnatela dalla faccia. Sibilò una
bestemmia e, chissà perché, gli venne da ridere. Alì, dietro di lui, deviò lo sguardo verso il piccolo
rettangolo di finestra alla sua destra. Dietro il vetro in frantumi qualche raggio di sole cominciava a
filtrare, ma non bastò ad illuminargli le pupille spente e svuotate di vita.
Gli altri entrarono in quel momento nella stanza di sotto, in fila indiana. Furono come risucchiati
dall'ambiente in penombra. Ondeggiavano e ridevano, senza capire dove fossero finiti.
-Figo! - disse qualcuno.
-Chi l'avrebbe detto da fuori? Una casa che sta andando in pezzi... e poi, qui dentro... – aggiunse
qualcun altro.
-Seba, dov'è quel tipo in giacca e cravatta?
-Sono qui – comparve dietro di loro e si presentò – piacere, sono Max. Si tolse i guanti, e sul dorso
della mano destra comparve un tatuaggio in bianco e nero che copriva l'intera superficie. Era
l'effigie molto dettagliata di un uomo con la testa pelata, la mascella prominente e la bocca
atteggiata a un ghigno cattivo.
-Olà capo! - Seba lo salutò, metà serio e metà scherzoso, alzando il braccio destro.
-Ma quello è... - stava per chiedere Alex, che però subito si interruppe.
-La faccia del Duce, sì. E' stato doloroso, ma ne valeva la pena. Ti piace?
L'altro non seppe cosa rispondere, e venne tolto dall'imbarazzo dal vociare allegro dei suoi amici
che andavano spargendosi per la stanza.
Non era una topaia come il resto della casa. Era stata ripulita e arredata con divanetti e tavolini,
candele e poster alle pareti e c'era persino un fuoco che scoppiettava pigramente in un camino. Su
un lato c'era una lunga tavolata con cibi e bevande in bell'ordine, e sul lato opposto, in un mobiletto,
faceva mostra di sé un minuscolo impianto stereo cui erano state collegate quattro casse, uno per
ogni angolo della sala, che diffondevano della musica elettronica a basso volume.
-Che ne dite ragazzi? L'ho sistemata io così, ci ho messo un po' di tempo, ma mi sembra che sia
venuta bene.
Max strinse la mano ad ognuno di loro, sorridendo e facendo un sacco di complimenti. In un'altra
situazione si sarebbero trovati a disagio, con un tipo vestito così e con tutte quelle formalità. Anche
il tatuaggio, forse, aveva il suo peso. Ma non tutti sapevano bene chi fosse quel certo... Mussolini. E
poi, rintronati com'erano, non si posero minimamente il problema.
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-Allora raga, tutto a posto? – Seba si incaricò di rompere il ghiaccio.
-Sì certo, tutto regolare – fece Matte.
-Ora ci beviamo qualcosa e...
-Quand'è che dividiamo? - chiese Alex, facendosi largo con un guizzo, come emergendo da una
palude di corpi.
Max gli lanciò un'occhiata interrogativa, mentre gli altri si precipitavano come degli automi verso il
tavolo, lasciando il vuoto lì attorno. Si muovevano sempre in gruppo, quasi fossero uno sciame
incaricato di colonizzare la stanza. Si misero a sgranocchiare e a ripulire ogni piatto o ciotola
presente sul tavolo, come delle cavallette.
Siccome Alex non si era mosso con loro, Max richiamò la sua attenzione verso una valigetta nera,
quadrata e fornita di combinazione, appoggiata su un piccolo tavolino, accanto al muro.
-La vedi quella? - gli chiese.
Alex non mosse nemmeno un muscolo del collo. Si limitò a sbattere le palpebre più del solito.
Fu Seba ad aprirla.
-Soldi! Ma non erano così tanti – la faccia di Alex cambiò colore.
-Seee, la moltiplicazione dei pani e dei pesci – scherzò Dardan, che si era avvicinato al trio con la
bocca piena di popcorn e che in cambio ricevette da Max uno sguardo gelido e cattivo.
-Beh, c'hai quasi azzeccato... - sembrò trattenersi - tu sei l'albanese, vero?
-Sì, allora? - anche Dardan lo guardò cercando di fare il duro. Gli altri, intanto, avevano preso a
spalleggiarlo.
-Lo sai quanto c'è lì dentro? Diglielo Seba.
-Ci sono 5000 euro! - e subito prese a baciare Lu sulla bocca, che non lo mollava un attimo.
Sembrava ci fosse un'aria appiccicosa, lì intorno.
-Eeeeh? - urlarono tutti in coro.
-Falsi. Tutti di piccolo taglio, dieci o venti euro – Seba si scollò dalla ragazza e prese in mano una
mazzetta, facendola frusciare davanti alle loro facce mezze addormentate.
Nessuno fece una piega. Anzi, presero a ridacchiare.
-Sono stati cambiati con i vostri 600, e se riuscite a spacciarli tutti, alla fine vi tocca la metà.
Intendo di quelli veri. Dai 600 di partenza potrete averne 2500. E magari non finisce lì. Vero Max?
-Confermo, ragazzi.
-Sì, però se ti beccano è la galera – disse Alex.
-Non se hai meno di quattordici anni.
-Io li ho.
-Hai anche un po' di fegato, per caso?
-Se no ci vanno di mezzo i genitori – si intromise Matte.
-Sicuro?
-Sì, come quel tipo che...
Ne nacque una discussione disordinata, con esempi e controesempi, a proposito di responsabilità
penale, minori e simili.
Alex ammutolì, mentre la stanza cominciò a girare sempre più forte attorno a lui. Provò un moto di
nausea e chiese se c'era un bagno.
-E' là fuori – Max fece segno verso il balcone, e nello stesso tempo, muovendo appena le
sopracciglia, ordinò a Seba di non perderlo d'occhio.
Anche per gli altri la stanza vorticava, ma a giri molto più lenti e rilassati. Ridevano, mangiavano e
scolavano le lattine di birra e di aranciata che stavano impignate sul lungo tavolo. Non sembrava
gl'importasse più del motivo per cui si erano trovati lì, quella mattina. Il tempo e lo spazio andavano
sfaldandosi intorno a loro. Si toccavano, si lanciavano manate, ogni tanto si abbracciavano e,
soprattutto, ridevano. Dove andava uno, c'erano subito gli altri addosso.
Dall'alto della sua cravatta, qualche centimetro più su del nodo non proprio impeccabile, che a quel
punto però si era allentato di un dito, la bocca di Max si andava atteggiando ad un'espressione
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piuttosto compiaciuta. Ancora pochi minuti, e tutti sarebbero stati pronti a fare la festa al “negro”.
Venticinquesima, lui
Questo attimo sembra non finire mai. L'attimo in cui la lametta sfiora il braccio. E la mano che tiene
la lametta si ritrae. Poi torna a sfiorare la pelle. In un gesto ritmico. Ipnotico. Si avvicina si
allontana. Tocca non tocca più. C'è non c'è. Sento non sento. Vivo muoio.
Non riesco a vedere la mia faccia. Lo specchio non è in linea con la posizione della vasca. E non ho
nessuna intenzione di uscire da qui. Di abbandonare questo luogo protetto. L'acqua da cui si nasce.
La placenta di mia madre. Forse l'unica a non avermi tradito. E comunque anche lei mi ha lasciato
solo. E' andata ad accompagnare la sua. Di madre. Abbandonando me qui. In balia di questo ritmo.
In balia del sangue che pulsa qui sotto. Lo sento se mi tocco piano.
Mia madre. Perché non è qui. E dire che mille volte le ho detto. O non le ho detto. Silenzio.
Nessuna parola. Non ho bisogno di te. Fastidio anche solo nel dire. Mamma. Distacco. Cordone
ombelicale. E lei che abbassava la testa. Ma poco. E alzava gli occhi tristi. Scuoteva il capo. Io ero
cresciuto. Ero grande. Sono grande.
Mamma. Madre. Tu. Se solo potessi guardarmi. Se solo potessi ammirarti come me. Nello specchio
metallico qui tra le mie mani. Dove ho sbagliato. A dirlo non sarei io. Ma tu. Dove.
Perché sei partita. Come potevi immaginare. Lascio pronto in frigo. Torno domani. Ci sono le
lasagne. Le riscaldi nel microonde. Tuo fratello cena dalla sua ragazza. Chiamalo. Chiamami. Se
hai bisogno. E stasera a letto presto. Mi raccomando. Seee seeee. Uscendo distratto. Nemmeno un
bacio. Solo un cenno di saluto. Aria aria aria. Solo fuori vivo. Tornato dentro muoio. Come potevo
immaginare.
Non metto in conto lo stronzo. Lui mi ha tradito fin dal mio primo giorno. Sono nato e già mi
detestava. Il filosofo. Quello che vedeva in me un esperimento. Un oggetto da osservare. Tutto
meno che un bambino da coccolare. O amare. Che banalità. Figlio di puttana. Lo odio. Lo vorrei
morto. Ma morirò prima io.
Sia prima che dopo il divorzio. Sempre stato l'ultimo dei suoi pensieri. Prima veniva la scuola. Si
sentiva il miglior prof dell'universo. Carisma a gogo. Peccato che era il peggior padre dell'universo.
La politica. I suoi maledetti filosofi. Tutti i suoi impegni fuori casa. Io niente. L'ultima ruota del
carro. Una telefonata al mese. A dir tanto. Un'unica vacanza. Quella in Corsica. Solo perché mia
madre stava male. Quell'estate di due anni fa.
Pensare a lui mi ha distolto dal movimento ritmico. Aaaah. Urlo piano. Non vorrei che la vecchia.
La lametta è penetrata di qualche millimetro. La prima goccia di sangue sgorga sotto il mio occhio
paralizzato. Non pensavo mi facesse questo effetto. Ma è solo l'inizio. Un rivoletto. Poca cosa
rispetto al fiume che seguirà. Già m'immagino la vasca ripiena di liquido rosso. Anche se magari
svengo prima. E me lo perdo. Lo spettacolo. Chissà che rosso sarà. Se più carminio o amaranto o
scarlatto. Conosco bene i colori. Li ho studiati in artistica. So tutto delle loro misture e
composizioni. Mi pare più mattone che vermiglio. Le poche volte che ho fatto gli esami del sangue.
Mi giravo per non guardarlo. Anche quando mi sbucciavo le ginocchia da bambino. Non guardavo
mai. Ma ora sì. Devo.
Torno ai tradimenti. La ragazza mio padre e poi lui. Quello che mi ha ferito di più. Da lui proprio
non me lo aspettavo. Ci conosciamo da bambini. Abbiamo fatto tutto insieme. La scuola materna.
Le elementari. I giochi in cortile. Persino le vacanze. Siamo più di due fratelli. O almeno io credevo
così di lui. Lui è. Era il mio vero fratello. Quell'altro in confronto è un estraneo. E invece mi ha
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tradito. Il mio migliore amico. Il peggior Giuda della mia vita.
E lo ha fatto nel momento più grave. Di maggior bisogno. Urlavo il mio disagio con tutto il mio
corpo. E lui non solo non ha mosso un dito. Ma ha cercato di consegnarmi al mio carnefice. Per
trenta luridi denari. Giuda. Forse ora lo odio anche più di mio padre. Ma quanto odio me. Il mio
sangue. La mia vita.
Mi fermo allibito dopo averlo assaggiato. Per la prima volta. Ora so che sapore ha. Non è dolce
come dicono. E' piuttosto aspro e ferroso.
Mi viene da vomitare. Sbocco della bava giallastra. Che schifo. Cerco di farla colare sul tappeto alla
base della vasca. L'acqua deve rimanere neutra. Pronta a colorarsi del rosso giusto. Senza altre
sfumature.
Riafferro meglio la lametta. E ricomincio col ritmo. Però non mi piace. Questo sapore in bocca.
Prima la ruggine. Ora il vomito. Non ci avevo pensato. Vorrei mangiare una cosa buona prima di.
Chissà se nel frigo di mia nonna ci son fragole. O ciliegie. Magari le prime della stagione. Rosso su
rosso. Le fragole son più rosso veneziano. Le ciliegie. Beh c'è il rosso ciliegia. Ma dipende. Dal tipo
di ciliegia. E la mia gola. Che rosso è.
Esco dalla vasca. Un bel po' d'acqua fuoriesce con me. Nudo e sgocciolante. Con la lametta in mano
mi dirigo verso la cucina. A caccia di rossi per il mio trapasso.
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Ventiseiesima, loro
Il festino cominciò ad animarsi, il volume delle voci e delle risate si alzò. Erano arrivati anche due
amici di Seba, sbucati da chissà dove, seguiti da una ragazza che rideva in modo sguaiato, senza
mai fermarsi. Quasi non respirava, da quanto rideva, con la bocca spalancata al massimo della sua
apertura e i denti luccicanti, mentre dalla gola usciva un suono gutturale strano. Sembrava un
cavallo con un nitrito incastrato in bocca. Dovevano avere la stessa età di Seba, o forse qualche
anno in più. I due tipi erano massicci, uno brutto come il peccato da quanto era ricoperto di brufoli,
l'altro con un collo taurino e tatuato che sfoggiava come se fosse un campione di qualche sport di
lotta. Di sicuro facevano entrambi palestra. La ragazza continuava a ridere alle loro battute, senza
mai smettere. Poi tutti e tre si avvicinarono al tavolo imbandito, presero della birra e cominciarono a
bere e a fumare. Si facevano gli affari loro, come se gli altri non esistessero.
-Cazzo, ma è amaro come il veleno! - Matte, che era lì vicino, sputò per terra del vino che aveva
appena ingurgitato.
-Ehi, stai attento – disse quello col collo grosso.
-Scusa, ma sta roba fa davvero schifo. Ciao io sono... - ma l'altro lo ignorò e si girò per continuare
quello che stava facendo prima.
-Si chiama Rocco, ma tutti lo chiamano Rozzo, ed è davvero forte. È un tipo di poche parole - gli
fece Seba, che si era limitato a salutare i suoi tre amici con un cenno del mento. – Comunque, se mi
dici che è amara la birra ti posso capire, ma col succo d'uva è tutta un'altra cosa.
-Sì, ma la birra è buona, questo fa cagare.
-Raga. Non è che possiamo cambiare musica, a me 'sta roba elettronica fa proprio schifo! - fece la
Nana, che si strusciava addosso un po' a tutti come una gatta in calore – Max, dai, perché non
mettiamo della musica diversa?
-Tipo?
-Tipo quella che piace a noi.
Ora sembrava una bambolina pronta a tutto, con gli occhi da triglia e il culo microscopico che
zigzagava per la stanza.
Max armeggiò con l'i-pod e alzò il volume. La musica proruppe dalle casse acquistando via via di
potenza e inondò l'ambiente, saturandolo di suoni: si sparse nell'aria, camminò lungo le pareti,
penetrò nelle trombe di Eustachio dei presenti, vibrò sulle travi delle capriate in procinto di marcire,
si affacciò fuori dalle finestre del casolare e rimbalzò persino sulle piantine di mais, indifferenti a
tutto quel baccano. Poi ritornò dentro, prese la tromba delle scale e si riversò nei condotti auditivi di
Alì, che rinvenne dal torpore e cominciò a prestare attenzione a quello che stava succedendo lì
sotto. Non fece in tempo ad assaporare quelle nuove sensazioni, che sentì delle mani afferrarlo al
collo e alle braccia. Rozzo e il suo amico butterato lo portarono fuori dal solaio, senza tanti
complimenti. Alì si dimenò, ma quelli, senza mollare la presa, lo trascinarono giù per le scale come
se si trattasse di un tappeto o di un mobile.
Intanto il muro sonoro veniva investito dalle grida dei ragazzi, che erano già passati dallo stato di
rilassamento a quello di una nuova ed inedita eccitazione.
Seba lasciò Lu in compagnia della Nana e di Alex, che stava parlando fitto all'orecchio di Matte, il
quale non dava mostra di gradire, e anzi, dopo un minuto si spostò e andò a sedersi su una
poltroncina mezza sfondata, ma ricoperta da un telo arancio con arzigogoli arabeggianti che
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cercavano di nasconderne la fatiscenza.
Seba si avvicinò a Max, con l'alito che puzzava già terribilmente di birra.
-Che dici, possiamo farcela un po' di bamba? - gli disse ficcandogli la bocca nell'orecchio, visto il
frastuono che c'era attorno.
-Ma no, coglione. Se gli diamo anche la polvere bianca vien fuori un gran casino. Qualcuno
potrebbe finire all'ospedale - gli rispose urlando a bassa voce, per farsi sentire solo da lui, ma senza
infilare la bocca nel suo orecchio.
-Ah già, non ci avevo pensato, si mescolerebbe con...
-Ci sei arrivato, eh?
-Ehi amore, di che cosa parlate? - Lu gli si avvinghiò e gli baciò il collo. Max si girò dall'altra parte
per non mostrare la lieve espressione di disgusto che stava per stamparglisi in faccia.
Proprio in quel mentre Alì fece il suo ingresso nella stanza. Lo avevano portato giù con tutta la
sedia, così da non doverlo slegare e rilegare. Non aveva smesso un momento di agitarsi e quando
vide tutta quella gente allegra e sorridente si bloccò di colpo e tornò a sbarrare gli occhi.
L'espressione era allucinata, come se faticasse a comprendere quel che avveniva intorno a lui. Ma
anche gli altri erano allucinati, e il suo ingresso non fece più effetto di quello di una mosca che entra
in una camera con le tende aperte e svolazzanti in piena estate.
Max aprì un paio di scuri per fare un po' più di luce. Si avvicinò anche la ragazza amica di Rozzo e
del tipo brutto, che fino a quel momento aveva continuato a farsi gli affari suoi, a bere e a fumare
senza scambiare una parola con nessuno. Guardò il ragazzo pakistano che la fissava in silenzio e
cominciò ad annusarlo.
-Minchia raga, ma questo puzza come un maiale.
Tutti risero.
-Davvero, non sto scherzando. Provate a venire qui vicino e ad annusare, cazzo! Fa proprio
vomitare – e ci infilò una sonora bestemmia, giusto per sottolineare il suo disappunto.
-Si sarà cagato nelle mutande – disse Matte.
Intanto Max era uscito a prendere qualcosa nella tasca interna del soprabito nero, appeso ad una
gruccia, unica inquilina di un vecchio armadio che si trovava in una specie di anticamera, posta tra
la scala e il salone. Fu a quel punto che vide dalla finestra che dava sul ballatoio qualcuno
sgattaiolare via velocemente. C'era una grossa lepre in fuga! Pensò si trattasse di Quattrocchi –
l'anello debole della loro catena – oppure dell'albanese, ma tornando indietro si accorse che invece
stavano tutt'e due tranquillamente di là a riempirsi la bocca e il naso di bollicine, a fumare come
degli scemi e a urlare saltellando al ritmo dell'hip hop. Quattrocchi faceva davvero vomitare, forse
più dell'odore del pakistano; l'avrebbe preso a calci in culo e l'avrebbe volentieri fatto precipitare
giù dalle scale, curando che la spina dorsale gli si spezzasse in più punti. Ma ormai faceva parte
della comunità, e se lo dovevano tenere. Oltretutto si sarebbe dovuto presto ricredere sulla sua
presunta debolezza. Poi vide Matte da solo, in disparte, e capì al volo.
-Dov'è andato il tuo amichetto? - gli disse con voce leggermente indurita, ma non tale da farlo
preoccupare.
-Di chi parli, Max? - rispose l'altro con la bocca piena di patatine.
Fece lo gnorri, ma capì benissimo a chi stava alludendo. C'era qualcuno là fuori: guardarono tutt'e
due dalla finestra in direzione della parte più fitta del bosco, in sincrono.
-Ma guarda guarda, il nostro Cappuccetto Rosso sta provando ad andare dalla nonna, però non sa
che da quella parte c'è il lupo cattivo in agguato... Seba, cazzo! - chiamò.
-Che c'è capo? Ti devo forse grattare la schiena? - rispose l'altro con una risata ebbra.
-No, però potresti farmi un pompino. Che idiota che sei! - rise, ma con una strana freddezza diffusa
tra i denti e il palato, come se la bocca fosse congestionata e non riuscisse a liberare una risata
convincente.
-Se vuoi chiedo a Lu... - non fece in tempo a finire la frase che gli arrivò un calcio sugli stinchi dalla
suddetta. Al che lui rispose con un ceffone. Secco, sulla guancia destra. Un sonoro sciaff.
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Tutti si fermarono a guardare la scena con un certo interesse, anche se non proprio con entusiasmo.
-Non ci provare più, stronza! - disse Seba scurendosi in volto. Tutta l'allegria si era dissolta e
confusa con la polvere della stanza. Il ragazzo si alzò in piedi e le mise davanti alla faccia la mano,
di taglio, come a volerla colpire di nuovo. Lei rimase per un attimo stordita. Poi, vista la sua
reazione e il suo stato, cercò di smorzare i toni:
-Ma amore... - lo guardò languida da sotto la frangetta nera, per poi abbassare gli occhi verso il
pavimento ingombro.
-Amore un cazzo.
-Tranquilli, ragazzi – intervenne Max – non c'è nessuna ragione per litigare. Seba, lascia perdere le
cazzate in famiglia, qui abbiamo un problema molto più grave.
-E cioè? Lu, per favore, vai a berti una cosa, lasciami in pace per una mezzora.
-Ma...
-Sì insomma, levati dal cazzo.
Lei sbuffò e andò sul balcone a fumarsi una sigaretta, strascicando i piedi. Mentre tutti gli altri
ripresero a ciondolare come prima, le onde della musica, le vibrazioni sulle pareti, e tutto il resto.
Sembrava un lentissimo sabba di un'accolita di manichini.
Seba scese di sotto bestemmiando e dando calci alle lattine sparse sulla scala. Lu lo guardava
risentita dall'alto, mentre spegneva il mozzicone sul muro, con la mano tremante di rabbia. Ma l'ira
si dissolse nel giro di pochi secondi, la chimica non perdeva il suo mordente sui neuroni dei ragazzi,
lì dentro in quella stanza. Disse qualcosa all'orecchio di Gin e riprese a vorticare lentamente con
tutto il resto della banda di automi.
Per un tempo che parve eterno non successe più niente di niente. Fu un momento di purissima
beatitudine. Max si rimise seduto a contemplare la scena: i ragazzi dondolanti, il negro in mezzo
alla stanza, piatti, bicchieri, bottiglie e mozziconi sparsi in giro. Qualcuno avrebbe dovuto dare una
ripulita, prima o poi.
-Che cazzo di situazione. La banda, sì! - disse tra sé e sé con una punta di acredine, che subito
ingoiò insieme a una pasticca di colore arancio, dalla forma allungata. Solo lui, finora, non aveva
ingurgitato nulla. Gli altri sì, e parecchio, anche se non lo sapevano. Ben presto si ritrovò preso
nello stesso vortice.
In un attimo Seba tornò col biondino, che non aveva l'aria di aver fatto molta resistenza.
-Stavo pigliando un po' d'aria – si giustificò.
-Ma come, proprio adesso che comincia lo spettacolo? - gli rispose Max premendogli forte la mano
sulle spalle. Un po' troppo forte.
Era venuto il momento di occuparsi del loro ospite. Fece un cenno alla ragazza ridanciana di levarsi
di torno, mentre quella non gradì affatto l'ordine implicito nel gesto. Bestemmiò piano tra i denti,
ma alla fine girò i tacchi e tornò a prendersi da bere. Ad un altro cenno la nana abbassò la musica e
Max poté esordire a voce sostenuta:
-Adesso comincia lo spettacolo, raga! Vedrete che ci divertiremo.
I corpi dei ragazzi stavano di fronte a lui ondeggianti, come sospesi in una bolla. Lo guardavano
con gli occhi socchiusi e con un sorriso ebete stampato in viso. Il tasso di inibizioni si era già
abbassato di parecchi gradi, e tra un po' sarebbe colato a picco, fin quasi a zero. Avrebbero
cominciato a fare tutto quello che desiderava che facessero – o meglio, che loro stessi desideravano
davvero fare, senza che prima lo sapessero. Cominciava l'antico, e sempre nuovo, gioco della
vittima e del carnefice. Il meraviglioso sabba della biologia. Sarebbero tornati tutti quanti quel che
davvero erano: delle cazzo di belve assetate di sangue.
-Avanti – disse con voce stentorea, senza però mai urlare o andare sopra le righe – chi vuol
cominciare?
E brandì un paio di forbici con una mano, mentre tra le dita dell'altra luccicava affilatissima la lama
di un rasoio.
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Ventisettesima, lei
cos'è successo, riapro gli occhi e mi sento ondeggiare sul sedile dell'automobile, fortuna che
avevo la cintura, altrimenti mi sarei ritrovata con la faccia spiaccicata sul vetro, ci metto qualche
secondo a rimettere a fuoco il mondo, a ritrovarne il bandolo, sì io sto qui, il mondo laggiù, col suo
solito ordine disordine, speculare al mio, son sull'automobile, vengo da, vado verso, tutto chiaro,
almeno mi pare
un cretino ha frenato di colpo, gianmario alla mia sinistra farfuglia qualcosa, ma piano,
garbatamente e senza alzare la voce, con un effetto quasi comico, tutto bene, domanda, credo di sì,
vorrei rispondere ma non ci riesco, la voce mi si blocca in gola, poi riemergo dal mio torpore e mi
rendo finalmente conto di dove ci troviamo, e che siamo in procinto di arrivare, ah, ma siamo già
qui, riesco a dire, possibile che abbia dormito per tutto questo tempo
sì, cara, ma ora devi dirmi dove ti devo portare di preciso, va benissimo all'ingresso del
teatro, dove siamo stati due sere fa, lì ho appuntamento con la collega di matematica e un paio di
ragazzi della mia classe con i loro genitori, o almeno è quel che mi hanno riferito poco fa al
telefono, ma c'è sotto qualcosa di grave, mi chiede dopo essersi macerato un altro po', strano che
non me lo abbia ancora domandato, beh, se ti dicessi di no potresti rispondermi, come mai ti ho
dovuto portare alle dieci di mattina della domenica di corsa in questo buco di paese, esatto, vedo
che hai centrato il punto, comunque, se non ti dispiace per ora preferirei non dire nulla, anche
perché, in effetti, non è che abbia capito bene che cosa sia davvero successo
annuisce in silenzio, e allora gli dico di non preoccuparsi, che è tutto a posto, e che una volta
scesa dall'auto può benissimo ritornare in città, che tanto mi fermo a pranzo dalla collega tal dei tali,
la quale mi darebbe poi uno strappo a casa nel pomeriggio, ma gli si legge la delusione in faccia,
tant'è che si mette a cinguettare di tutt'altro, io ne approfitto per evadere un po', da qualche tempo
mi alleno in questa che chiamo, ascesi in bilico, con un occhio e un emisfero sto di qua, vigile,
mentre con l'altra metà migro in una dimensione parallela, una sorta di schizofrenia controllata
lo faccio mentre gianmario comincia a parlarmi di un certo problema lavorativo, presso la
sua azienda, che sembra volerlo trasferire in oman, lui è un ingegnere molto quotato, specie per quel
che riguarda la gestione del territorio, e le sue competenze sono piuttosto accreditate, alla parola
oman e pozzo petrolifero il mio io sprofonda ancora di più, e mi trovo scaraventata in una caverna
oscura e gelida, dove lo sgocciolìo dell'acqua è l'unico suono udibile, mi concentro su quel lieve
gorgoglio, cercando di carpirne il significato, ma mi rispondo che non c'è nessun senso in quel
susseguirsi di gocce, se non che ognuna di esse deve essere diversa
in oman, capisci, cosa diavolo ci vado a fare io in oman, per non parlare poi di mia madre, tu
lo sai, ha quasi novant'anni, e secondo te potrei lasciarla sola
con la metà sommersa penso ai miei ragazzi, gocce anch'esse tutte diverse nonostante la
grande omologazione, e penso a quel loro narcisismo senza freni, gargiulo in particolare, così bello
e così pieno di energie, bisognoso di emergere dal fango di una famiglia e di un retroterra sociale
disastrati, farsi strada per lui è vitale, ma gli potrebbe anche essere letale, se solo trovasse qualcuno
che, lui ha bisogno, come tutti del resto, di un punto di riferimento, ma se al contrario troverà un
seducente principe delle tenebre, lui lo seguirà di corsa, senza pensarci due volte, e poi
eccola, dico mentre emergo dalla caverna, e le mie due metà si ricongiungono malamente,
non sempre da queste scissioni le parti tornano poi a combaciare perfettamente, c'è sempre
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un'unghia scombinata o un sopracciglio più sporgente
gianmario termina di colpo la sua invettiva antiaziendale ed accosta, una donna sulla
quarantina, età portata benissimo con un tailleur creta di siena e lunghi capelli color miele, fa segno
dal piazzale antistante il teatro, è tiziana, la mia collega preferita, che mentre mi viene incontro
sfodera il suo solito sorriso radioso, devo proprio essere tornata me stessa, visto che mi ha
riconosciuta, ciao tesoro, appena chiusa la portiera dietro di me corro ad abbracciarla e a chiederle
subito ragguagli, è praticamente impossibile vedere quell'angelo con il viso spento, ma questa volta
c'è come un velo d'ombra che ne attenua il candore
mi ricordo subito dopo che è però forse il caso di salutare un po' più garbatamente giancoso,
dopotutto era stato gentilissimo a portarmi fin lì, ci metto pochi secondi e torno subito da tiziana,
l'auto fa una svolta a u e prosegue per la sua strada, scomparendo in fondo al viale alberato, i tigli
cominciano ad avere quel tono verde deciso, ma nulla che lasci ancora presagire la fioritura, per
quella bisogna aspettare qualche altra settimana, questo è il momento dei fiori di robinia, con quei
grappoli candidi e odorosissimi, specie a sera, il cui profumo intenso e dolciastro ancora perdurava,
in questo placido mattino domenicale, confondendosi con gli altri profumi di stagione e i delicati
fiori di campo che qui, diversamente dalla città, si possono ancora sentire
non intendo più ritornare nella caverna, ed anzi l'immagine di un esteso prato verde
punteggiato di ranuncoli e fiori gialli di cicoria e altre strane infiorescenze senza nome, mi si fa
dinanzi, dilatandosi a dismisura dalle pupille fino ad occupare ogni angolo della mente, ma con
tiziana voglio essere tutta me stessa, aspiro profondamente quel misto di profumi e domando, ma
non dovevano esserci anche, sì, luca rossi e giada porfirio arriveranno tra un attimo, con le loro
madri, direi che intanto abbiamo tempo per un caffé, risponde mentre cerca il cellulare che sta
squillando dal fondo della borsa, anche due, andiamo al solito bar, sì, dovrebbe essere aperto anche
di domenica, scusa un momento, è una delle due genitrici, al che mi viene in mente che dovrò
chiamare gabriella per disdire il nostro appuntamento, ci rimarrà malissimo
dopo aver risposto, mi ragguaglia sulla situazione, dipingendomela a tinte piuttosto fosche,
sembra che questa volta ci sia lo zampino di qualcuno più grande anche di sebastiano, e che oltre al
furto della sera prima, che aveva già fatto notizia in tutto il paese, non si avevano ancora notizie del
ragazzo pakistano, quest'ultima cosa, però, era rimasta in secondo piano, ed anzi eravamo
praticamente solo noi, la famiglia del ragazzo e un paio di altre famiglie ad esserne a conoscenza,
certo, poteva anche trattarsi di una bravata, ma l'idea di non avvisare la polizia non mi convinceva
affatto, capivo benissimo che c'erano di mezzo questioni legate al permesso di soggiorno o
all'omertà delle comunità immigrate, ma a me la cosa sembrava davvero grave, dalla sera prima un
ragazzino di nemmeno tredici anni era uccel di bosco, e alcuni indizi riportavano questa sparizione
a un gruppo di altri suoi coetanei, che per inciso erano miei alunni, con l'ombra di ragazzi più
grandi, qualcuno sicuramente maggiorenne, con strane idee in testa e simboli inquietanti stampati
sul braccio
anche tiziana la pensa come me, ma rinviamo ogni decisione al consulto che di lì a qualche
minuto si sarebbe tenuto, intanto ci gustiamo il nostro caffé in religioso silenzio, sappiamo che ci
aspetta un chiacchiericcio fitto e senza tregua, la invito mentalmente a sdraiarsi un momento
all'ombra di una quercia, sul limitare del mio campo fiorito, lei soffia sul caffé e socchiude appena
le palpebre, velate di un leggero tocco di viola, che bella che è
69
Ventottesima, l'altro
minchiarraga
sono spaventato a morte sono già un po' morto e forse non lo so ancora prima credevo che
scherzassero che fosse tutto un gioco seba mi aveva tirato una pietra mentre stavo scappando e mi
aveva pure beccato un po' aveva ragione io lo stavo spiando mentre faceva delle cose con la sua
ragazza sì insomma stava facendo sesso con quella tipa mora e un po' pazza che avevo visto a
scuola un po' di volte io non capisco molto di ragazze o di certe cose a me interessa solo la mia
musica e basta del resto non mi frega un cazzo io scrivo canzoni sono un rapper e sono il più bravo
che c'è in giro da queste parti anche se per adesso lo so soltanto io però un giorno
minchiarraga
ma io cosa ci potevo fare se mi ero trovato a passare di lì proprio in quel fottuto momento là dietro a
quella casa abbandonata tra tutti i momenti proprio quel fottutissimo momento avevo scelto per
passare di lì e loro per per per fare sì insomma raga avete capito se non passavo di lì se loro stavano
un po' più zitti e io me ne andavo senza aver sentito niente se se se ma il sasso mi aveva preso sul
polpaccio e mi aveva fatto un male cane dio oh dio in poche ore mi era diventato nero e non avevo
potuto nemmeno metterci un po' di ghiaccio perché arrivato a casa c'era mia madre che mi aspettava
e ho dovuto far finta di niente lei rompe abbastanza il cazzo anche se non come mio padre il fatto di
essere pakistani forse dipende da quello noi ragazzi siamo sotto pressione i vecchi ci controllano in
continuazione stai attento qua stai attento là non fare questo non fare quello non andare di là scegliti
bene i tuoi amici ricordati sempre che noi siamo ospiti ospiti in che senso chiedo io ospiti e basta
rispondono loro stranieri ma per me questa parola stranieri non vuol dire un cazzo
minchiarraga
a volerla dire tutta quali cazzo di amici posso scegliermi io in queste condizioni mio fratello è stato
più furbo lui si è fatto crescere un po' di barba ed è andato in moschea prega sempre si gira verso
oriente verso la Mecca e s'abbassa fino a terra bacia il pavimento lo pulisce con quella stupida
barbetta uno spettacolo da vomito io invece non prego mai allah chi cazzo è allah dov'è allah dov'è
adesso che avrei bisogno di lui adesso che sono qui legato in mezzo a quelli che dovrebbero essere i
miei amici che prendono ordini da un pazzo che dice minchiate e ha gli occhi sbarrati e tiene pure
una lama in mano
minchiarraga
sono stato proprio sfigato il giorno dopo il lancio del sasso arriva questo pazzo con una macchina
nera come uno scarafaggio e grossissima e scende con gli occhiali neri e il mento alzato si vedeva
che aveva un po' la puzza sotto il naso io non l'avevo mai visto 'sto tizio lui mi dice solo tre parole
pakistano del cazzo e poi sputa per terra era tardi non c'era in giro nessuno e io non sono un tipo che
urla o che si spaventa per niente lui allora prende una mazza da baseball dall'auto e viene verso di
me con l'aria più tranquilla del mondo dice soltanto sali in macchina stronzo così dice e lo fa senza
quasi aprire bocca con le parole che gli escono dai denti
minchiarraga
io lì per lì volevo resistere solo che non avevo visto che sull'auto c'erano pure altri due tizi piuttosto
grossi che mi sembrano quei due che scortano la ragazza una grande stronza che mi ha trattato come
una bestia puzzolente ma i veri porci sono loro anzi mi sa che il porco che mangiano 'sti cristiani del
cazzo si sente uscire dai pori della pelle e chi come me non lo mangia se ne accorge subito insomma
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i due maiali mi bloccano e la mazza del tizio sfiora il mio orecchio sinistro un altro millimetro e mi
apriva il cranio
minchiarraga
come potete immaginare mi prendo di paura anzi mi cago sotto cazzo volete da me è l'unica frase
che riesco a dire cerco un po' di fare il duro ma loro mi afferrano per le braccia e mi caricano
sull'auto e poi mi mettono un cerotto in bocca e quello che comandava e che qui chiamano max mi
dice di stare zitto se non voglio che la mazza che ha in mano vada ad infilarsi tutta quanta in una
certa parte del mio corpo anche se aggiunge con un sorrisino da stronzo al vostro paese ci sarete
abituati sto pezzo di merda ma cosa potevo fare
minchiarraga
cosa potevo fare con sto tizio che continuava a parlare e con la scusa di seba e della sua ragazza e
dell'offesa mi dice che me la devono far pagare che non la posso passare liscia che non devo alzare
la cresta e che devo stare al mio posto così dice lui ma quale offesa cerco di rispondere io ma ogni
volta che apro bocca mi arriva un ceffone e allora sto zitto poi dopo un po' mi spingono fuori
dall'auto anche se non so dove mi stanno portando non conosco questa casa questo posto riportatemi
a casa vorrei gridare ma non ne ho le forze e poi non mangio da ieri e mi sono pure pisciato addosso
e puzzo da fare schifo sì raga da fare schifo lo so anch'io senza bisogno che quella puttana lo urla al
mondo anche se non è certo questo il mio problema più grosso in questo momento
minchiarraga
ho passato la notte legato e incerottato buttato come un salame io poi un salame proprio io a terra in
mezzo alla sporcizia con i topi che ogni tanto sentivo passeggiarmi sui piedi a me che i topi fanno
schifo e che non li posso soffrire e adesso ho paura allah dio o come cazzo vi chiamate dove siete
perché non state guardando da questa parte che cosa ho fatto di male io per meritarmi tutto questo
me lo dite raga che cosa e tutto comincia a girare la stanza le sedie le bottiglie i bicchieri di carta il
fuoco nel camino tutte le persone che sono qui e la musica che hanno messo che è una musica del
cazzo lo chiamano rap ma è roba di serie zeta io lo so
minchiarraga
però tutto adesso mi arriva come da lontano e l'unica cosa che sento è qualcosa che mi pulsa qui sul
braccio e ogni tanto il cuore che sembra esplodermi nel petto booom e le formiche che mi
camminano in giro io sono qui ma mi sembra di essere da un'altra parte è strano ma non me ne frega
più un cazzo di quello che sta succedendo di quello che mi stanno facendo quasi non sento più le
braccia e i piedi non appoggiano più per terra la testa è gonfia e vola sul soffitto come un pallone e
loro tutte quelle facce da cazzo max i suoi amici sbirri la loro amica puttana e tutti voi raga amici
che non siete più amici io non vi vedo più non vi sento più e non ci sono più nemmeno io il mondo
sta diventando più leggero forse tra un po' scomparirà e io non sento più niente né rabbia né dolore
né tristezza un cazzo di un cazzo niente di niente forse tra un po' il mio cuore fa booom e crepo
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Ventinovesima, lui
Nessuna fragola nessuna ciliegia. Che sfortuna. Però c'erano quei biscotti sottili. Mia nonna li tiene
sempre nella credenza. Lingue di gatto. Ecco come si chiamano. Sono davvero buoni. Me ne sono
preso una manciata. In una mano i biscotti. Nell'altra la lametta. Avvicino la prima mano alla bocca.
Facendo attenzione a non perdere il contenuto. Lecco la lingua con la lingua. Molto buffo. E con le
labbra la tiro su. Poi la passo in bocca. La sento sciogliersi sul palato. E la mando giù.
Il sapore di vomito rimane sullo sfondo. C'è ancora. Però ora lo sento meno. E forse dopo lo sentirò
ancora meno. Quando avrò svuotato il palmo della prima mano. L'altra mano tiene stretto il metallo.
Sottili biscotti in una. Sottile metallo nell'altra. I primi in gola. Il secondo dentro qualche vena.
Chissà come sarebbe recidere la giugulare. Forse è il modo più veloce.
Era stato Francesco a parlarmene. Franci come lo chiamavano tutti. Un tipo strano. Che con la
morte ha avuto un incontro ravvicinato. La madre ammalata di tumore. Praticamente fin dalla sua
nascita. Aveva partorito lui. E subito dopo quell'altro corpo estraneo. Quasi senza pause. Lui era
però uscito. L'altro corpo era rimasto conficcato dentro. Io mi chiedo come ci si può sentire. Che
situazione. Primo. Nasci vicino a un ammasso schifoso di cellule. Che non dovrebbe esserci.
Secondo. Tu nasci e tua madre si ammala. Quella che dovrebbe accudirti. Avere cura di te. Farsi
succhiare il latte e la vita. Al contrario. E' lei che deve essere accudita. Curata nutrita salvata. Un
vero casino. Franci è venuto su strano. Come assente. Intelligente è intelligente. Anzi più della
media direi. Ma è un po' toccato.
Un giorno se n'è uscito con questa storia della giugulare. Sua madre era a fare l'ennesimo ciclo.
Chemioterapia. Alternata a bombardamenti radioterapici. Un esperimento rischioso. Lei aveva
accettato. Lui non voleva saperne. Quando sua madre era in ospedale non andava mai a trovarla. E
intanto rideva e scherzava. Come nulla fosse. Si era messo a parlare di tagli alla giugulare. Si era
dipinto di rosso il tracciato sul collo. Rossa l'arteria blu la vena. Proprio come sui libri di anatomia.
E mi aveva preso le dita. Tocca qui mi aveva detto. La senti. Questa è la giugulare. Tu prova ad
addentarla. A questo punto mi aveva fatto paura. E gli avevo detto di smetterla. Che non era
divertente. Un lampo di follia gli aveva attraversato le pupille.
Dopo qualche mese sua madre era morta. Siamo andati tutti al funerale. Tutti i ragazzi di terza. E'
stato quest'inverno. Quella mattina aveva cominciato a nevicare. Eravamo spaventati. Dal fatto che
la neve ci eccitava. E che dovevamo avere un contegno. Tutti seri. Ma Franci se n'era fregato. Era
arrivato in chiesa che sembrava brillo. Non stava dritto. E non riusciva nemmeno a star serio. Suo
padre era a pezzi. E non sapeva cosa fare. Si vedeva che era imbarazzato. La sorella più grande lo
aveva afferrato per il collo. Lo accarezzava con una strana energia. E con lo sguardo perso nel
vuoto. Ma lui dopo un po' era scappato. E al cimitero non si era visto.
Eravamo lì attorno alla bara. Aveva cominciato a nevicare forte. Grossi fiocchi fitti. La bara si era
ricoperta di un leggero strato bianco. Fu a quel punto che. Un lampo di follia. Quella di Franci.
Contagiosa. Mi era venuta la tentazione di. Di fare una palla di neve. E di lanciarla nel fosso. Al
posto della manciata di terra. Meno male che non c'era. Se no lo avrebbe fatto lui. Io lo pensavo. Ma
lui lo faceva. Sicuro.
Forse a quel punto si era sentito libero. Lei era morta e con lei il tumore. Finalmente si erano
separati. Per sempre. L'ombra era sparita. Però a lui era rimasta la pazzia. Quella non se ne sarebbe
andata. Non tanto facilmente.
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Mi tocco la giugulare con la lametta. Ora sono tornato nella vasca. L'acqua si è intiepidita. Ed è un
po' torbida. Tiepida torbida. Mi viene quasi voglia di svuotarla. E di riempirla di nuovo. Ma c'è la
giugulare che mi attrae. Ci vorrebbe Franci. Lui forse mi aiuterebbe. Non a. No. Non mi direbbe
lascia stare. Lui mi aiuterebbe ad aprire. Lo squarcio. Magari lo farebbe con me. Due torrenti di
sangue dai nostri colli. Due affluenti per un unico fiume.
C'è stato un momento in cui Franci poteva esserlo. L'amico vero. Quello importante. Al posto di
quell'altro. Ma sarebbe stato un rapporto malato. Non un amico del cuore. Ma di giugulare. Non so
se questa sia una battuta. E non so se è buona. Ma non mi interessa. Ora sono solo. Nessuno mi può
dire se è buona o cattiva. Nessuno e Franci poteva esserlo. Ma poi ci siamo persi di vista. O forse
era lui ad essersi perso. E l'altro si era ripreso i suoi diritti. Amico del cazzo alla fine. Visto che è
stato il porco che mi ha tradito. Porco traditore e Giuda.
Sputo sul pavimento del bagno. Un gesto automatico immagino. Lui non c'entra. Un fiotto bianco
sulle piastrelle celesti. Un fiotto come un fiocco. Di neve. Sulla bara. Noce credo. Una due tre volte.
Uno due tre fiotti. Che si allargano. Però chissà perché. Ho pensato a lui. E mi è venuto da sputare.
Prima ho pensato alla ragazza bionda. E ho avuto un'erezione. Il corpo che funziona così.
Meccanismi dell'anatomia. Roba scientifica. Sto crepando ma funziona ancora benissimo. Tutto in
regola.
La giugulare. Ora la sento pulsare. Qui sotto la pelle. Sotto il metallo lucente. Cazzo. Direbbe
Franci tutto eccitato.
73
Trentesima, loro
Gli toccò inaugurare il rito. Max gli mise in mano il rasoio e gli altri cominciarono a fare il tifo.
Non era un tifo da stadio, sembrava più che altro un'invocazione da chiesa. Un oooooh prolungato e
salmodiante.
Afferrò debolmente il manico del rasoio, lo guardò senza capire bene che cosa fosse e si rivolse alla
vittima legata alla sedia. Alì rantolava, però era ancora sveglio e vigile, con lo sguardo abbassato.
Alex piegò la testa verso il pubblico che beccheggiava come una barca in balia di onde invisibili. La
stanza prese a girare vorticosamente. Aveva un'aria smarrita, e i suoi occhi seguivano come
ipnotizzati il movimento di ogni cosa: il “negro”, gli altri, Max, le pareti, il rasoio, il suo corpo, di
nuovo le sue pupille. Non fece in tempo a sfiorare le guance di Alì, che si piegò di lato a vomitare.
Max gli strappò il rasoio dalle mani e lo spinse via.
-Che bel lavoro hai fatto! Idiota! - sibilò tra i denti, con cattiveria.
A quel punto si fece avanti la ragazza sguaiata, che stese la mano per farsi passare il testimone.
Principiò a canticchiare qualcosa e subito, con gesti rapidi e decisi, cominciò a radere a secco tutti i
peli che le capitava di incontrare: l'accenno di barba, le basette, i baffi, la mosca nera e pronunciata
– zac e zac, come se fosse stata una del mestiere. Ebbe un attimo di esitazione solo al momento di
tagliuzzare le sopracciglia, quando due righe di sangue colarono dagli occhi del ragazzo. Infine si
girò, chinò appena la testa e distese il braccio di fronte ai ragazzi attenti, muovendo la lama da
destra a sinistra e fissando un punto nel vuoto.
Matte corse al centro della scena, afferrò dalla mano della ragazza il rasoio, si girò verso gli altri e
fece un inchino profondo. Tutti si misero a ridere. Dardan lo imitò ed afferrò le forbici che Max
aveva appoggiato sotto la sedia.
Fu come un segnale: si affollarono attorno al prigioniero e presero a depilarlo integralmente, da
capo a piedi. Gli rasarono ogni zona del corpo: capelli, peli delle ascelle, del petto, delle braccia,
delle mani, delle gambe, dei piedi. Toccò anche al pube, tra i risolini delle ragazze e i lenti gesti di
discredito dei ragazzi. Alì provò a morderli, come un cane rabbioso, ma Max gli allungò un ceffone
che lo convinse a desistere.
A turno i maschi lo bloccavano, mentre le femmine si dedicavano all'opera di tosatura. Quattrocchi
si rivelò il miglior immobilizzatore di tutta la squadra: con le sue tenaglie d'acciaio strette intorno
alle giunture e ai muscoli ormai sgonfi di Alì, da potenziale vittima si era trasformato nel più
efficiente dei carnefici.
Lasciarono la testa per ultima. Le folte ciocche, nere come l'ebano, caddero una dopo l'altra, a
formare un cerchio vellutato attorno alla sedia, dove luccicarono tristi e inerti. Rimase una nuca
maculata, con piccoli ciuffi di residui piliferi, alternati a chiazze desertiche punteggiate di rosso. La
nana accarezzò con le dita la cute del ragazzo e, fattosi passare il rasoio, decise che quella testa
doveva diventare liscia come una palla da biliardo. Il rumore della lama contro i peli residui non la
impressionò particolarmente. Dardan pensò che un po' di sputo avrebbe facilitato l'opera di rasatura.
Gin ebbe un moto di schifo e passò ridendo il rasoio a qualcun altro. Nel corso di quell'operazione
terminale Alì fu preso da un sussulto incontrollabile di risa scomposte, al limite dell'isteria.
-Cazzo avrà da ridere – disse Matte mentre posava a terra il rasoio insanguinato, dopo avergli
ripulito l'incavo sopra le orecchie.
La nana gli accarezzò di nuovo la testa e si dichiarò soddisfatta.
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-Liscia come il culo di un neonato! - esclamò. E si accese una sigaretta.
-Direi che può bastare, ora lasciamolo riposare – ordinò Max raccattando gli attrezzi e riponendoli
con cura in un sacchetto di cellophane, come se si trattasse di preziosi reperti.
A turno lo avevano ritratto con i cellulari e gli i-phones, scambiandosi pose, versi e commenti
divertiti. Ma il circo, dopo un po', si esaurì ed ebbe termine, così come era cominciato.
Si muovevano al rallentatore, come se la la stanza fosse piena di ovatta. Le linee si fecero curve, e
gli spigoli rotondi. Strascicavano qua e là i piedi rimbalzando sulle superfici delle cose, che
sembravano non avere più consistenza. Afferravano un bicchiere e lo fissavano a lungo prima di
portarlo alla bocca. Si contemplavano a vicenda senza quasi riconoscersi, come se fossero spaesati o
alieni gli uni agli altri. Ricordavano gli allievi di un laboratorio teatrale, nel corso di uno di quegli
esercizi in cui ci si deve incrociare senza mai sfiorarsi, cambiando sempre traiettoria.
Quando durante questi spostamenti incrociavano la sedia di Alì, strabuzzavano gli occhi e
cercavano di mettere a fuoco quel corpo più scuro, che sembrava essere precipitato lì per caso,
come giunto da un altro pianeta. Quel che era avvenuto poco prima non li riguardava più – anzi non
li aveva mai riguardati.
Nessuno badò più al ragazzo pakistano, che si ritrovò solo in mezzo alla stanza, racchiuso in un
cerchio di nera desolazione, fino a sprofondare in una voragine di insensatezza. Il tremito da cui a
tratti era scosso, lo esponeva in maniera definitiva alla lugubre freddezza del mondo. Nessuno però
ebbe modo di accorgersene.
Gli altri si disposero lungo il perimetro della stanza, con i volti schiacciati contro le pareti scrostate.
I loro occhi si erano fatti acquosi. Le gambe e le braccia pesanti contro il pavimento. Le teste
galleggiavano in cima al soffitto. Suoni misteriosi aleggiavano qua e là, come echi di parole
provenienti da un'altra dimensione. L'ovatta era diventata piombo; le linee arrotondate delle cose si
erano sfrangiate e tutte le forme parevano infine voler collassare.
Però il male aleggiava ancora lì attorno. Boli nerastri che non si sarebbero sciolti nemmeno a
gettarli nella bocca di una fornace ricolma di azoto liquido. Ma nessuno pareva rendersene conto.
-Prova ad immaginare mille situazioni come queste. Immagina che ad un certo punto dieci, cento,
mille gruppi di ragazzi in giro per il mondo comincino a costituire delle bande, e a mettere a ferro e
fuoco i paesi, le città. A dettare legge. A farsi rispettare da quei pisciasotto degli adulti. A mettere in
riga tutti i pidocchi che ci sono in giro. Le sanguisughe, gli approfittatori, le razze impure. Dieci,
cento, mille bande, che senza nemmeno bisogno di dirselo, agiscono, ognuna per conto suo ma
come se stessero insieme. E non perché si sono messe d'accordo prima, semplicemente perché
sentono le stesse cose, pensano nello stesso modo e desiderano un mondo fatto per bene. Ordinato,
pulito. Dove chi comanda è chi deve comandare, e non le teste di cazzo. Chi detta legge lo fa perché
sa cosa si deve fare. E chi deve ubbidire sa che deve ubbidire e basta. E nessun negro si permette di
alzare la voce. Nessun frocio si mette a sculettare per strada. Nessuna troia si silicona le tette e va in
televisione a farlo diventar duro a tutti quei bavosi di merda. Dieci, cento, mille bande di ragazzi
che mettono a ferro e fuoco la società, incendiano tutto, distruggono il vecchio sistema e ne fondano
uno nuovo. Senza più dinosauri in giro. A comandare, le nuove generazioni. Noi, le menti giovani,
fresche, pulite. Con nuove idee, ma niente grilli per la testa. Niente cazzate rivoluzionarie. Niente
droga sesso e rock'n roll. Roba da hippy di merda, gente che si è bruciata il cervello e che ha
inquinato il mondo. E poi, quando hai più di venticinque o trent'anni, fuori dai coglioni. Sei
vecchio, hai fatto il tuo tempo. Devi lasciare spazio. Solo sangue giovane, linfa vitale, razze pure.
Niente porcherie, niente vecchiume. Tutte quelle rughe, la pelle cascante, i seni come prugne secche
– che schifo! - le pance che escono dai pantaloni – doppio schifo! - le vene varicose, i piedi gonfi,
l'alito cattivo, il puzzo di cadavere che si portano dietro e che si sente venir fuori dai loro luridi
corpi sfatti. Mi viene da vomitare solo a pensarci. Cercano di rifarsi il trucco con la chirurgia
estetica, col silicone, le liposuzioni, i lifting. O andando in palestra. In piscina, a fare l'acquagym.
Che coglioni. Ma tu li hai mai visti alla mattina, anche in pieno inverno, con il gelo, uscire a
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camminare svelti, come pecore che scappano, delle ridicole pecore in tuta blu? Una bella ripulita
generale, ecco cosa ci vuole. Spazzar via tutta la merda che c'è in giro. Tutto il lerciume, il letame,
lo schifo. Passare con uno schiacciasassi e farli fuori tutti, porcodio! Accendere un fuoco grande
come la città, diocane! Inondare le strade e le piazze di acqua pulita. Un fiume che lavi le fogne,
tolga la melma. Ma per farlo, bisogna cominciare dalle piccole cose. Allenarsi come stiamo facendo
noi. Far nascere un movimento dal basso, che cominci da piccoli gruppi, piccole idee. E poi
crescere, e mandare tutto all'aria. Tutto e tutti affanculo. Cazzo, Alì Babà di merda, stai zitto o ti
prendo a schiaffi. Buttategli un po' d'acqua sulla faccia a 'sto cazzo di negro, e poi mettetegli
qualcosa addosso. Mi fa vomitare vederlo nudo così. Hai capito Seba? Dieci, cento, mille gruppi
come il nostro! Mi stai seguendo?
Ormai Max non si conteneva più, e dopo aver ricontrollato la pelle tagliuzzata e il cranio semirasato
del “negro”, si era adagiato su un enorme divano gettato contro la parete, sfondato in più punti, ma
ricoperto con un telo lercio, ornato da grossi girasoli. Seba era ubriaco fradicio e faticava a seguire
quel che stava dicendo, anche se dondolava la testa dando mostra di convinta adesione. In realtà era
stato solo un lungo monologo. Da almeno mezz'ora nessuno diceva più niente in quella stanza, né in
tutta la casa.
Il festino si trascinava pigramente, ormai privo di slancio. La musica e la chimica, da sole, non
bastavano più. Le loro onde si propagavano senza più sorprese tutt'attorno, e colpivano le pareti
rimbalzando sugli intonaci scrostati e su quel che rimaneva delle carte da parato, avvolgendo i corpi
scarichi di una decina di adolescenti trasmutati in automi dalla pelle bianca e liscia. Ci voleva
qualcosa che restituisse loro un po' di ritmo. Linfa vitale e sangue ad un organismo anemico.
-Seba, dobbiamo risolvere la faccenda di Alex. A proposito dove si trova? - disse Max dopo un po',
sollevandosi appena lungo la spalliera impolverata. L'altro ci mise un minuto buono a rispondere.
-L'ho riportato indietro, no? - disse stancamente, girando il viso dall'altra parte come a voler
riprendere il sonno interrotto.
-Sì, ma questo succedeva mezz'ora fa. E io son sicuro che non ha preso la medicina. Era troppo in
sé, per averla mandata giù. Oppure non gli ha fatto effetto. O magari... adesso che ci penso ha pure
vomitato. E' un po' pericoloso averlo in giro in quelle condizioni. Se scappa ancora... mi sa che
corriamo il rischio che arrivi qualcuno... magari gli sbirri...
-E allora? Stiamo forse facendo qualcosa di male? - farfugliò l'altro scolandosi quel poco che era
rimasto da una lattina di birra. Ormai era andato.
-Merda! – sbottò Max, che dovette rassegnarsi a sbrigarsela da solo.
Si alzò e cominciò a perlustrare la stanza, palmo a palmo, quasi fosse un rabdomante.
Chiese alla nana del biondino; quella mosse appena la testa e socchiuse languida gli occhi.
Dopo due minuti capì che se n'era andato di nuovo, ma questa volta sarebbe stato più difficile
riacciuffarlo. Sibilò una bestemmia tra i denti.
Poi tornò da Seba e lo fissò severo:
-Cioè, cazzo! Il nostro amico biondino se n'è andato ancora in giro per il bosco.
-Beh questa volta io non lo vado a prendere. Se vuoi vacci tu.
Non alzò la voce, anzi cominciò a saettare tra i denti le parole come fossero lame:
-Seba, forse non ci siamo capiti. Se quello incontra qualcuno, se dice qualcosa, qui finisce male. E
tu non vuoi che questa cosa finisca male. Che la nostra banda, i nostri progetti... vero che non lo
vuoi? Mi stai ascoltando?
-Ho capito, ho capito, cazzo. Adesso vado. Però prima di riportarlo qui gli spezzo il collo.
-Lascia perdere, ho un'idea migliore. Spegni quella musica del cazzo e chiama a raccolta tutti i
ragazzi.
Si alzò e in faccia sembrava che gli si fosse accesa una lampadina – proprio in mezzo alla fronte.
-Che cos'hai in mente? - gli chiese Seba guardandolo da sotto in su.
-Che ne dici di una battuta di caccia?
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-Cosa? Porco... Beh... dico che è un'idea davvero fichissima! - sembrò subito risvegliarsi dal torpore
alcolico e ringalluzzirsi come un soldato pronto a dar battaglia.
Dopo due minuti si ritrovarono tutti riuniti in cerchio.
Max si rilassò, prima di parlare, e anzi si mise a ridacchiare, mentre Seba dava l'ultima sorsata alla
lattina di birra. L'accartocciò con la mano e avrebbe voluto scagliarla contro il muro, ma ci ripensò
e la ficcò in un sacchetto nero dell'immondizia che si trovava riverso in un angolo.
-Allora ragazzi, che ne dite di una bella passeggiata nel bosco?
Trentunesima, lei
non mi capacito del fatto che un intero istituto scolastico vada in fibrillazione per un solo
alunno, questo tiziana proprio non lo capisco, dimmelo tu, non è forse questa una sconfitta generale,
e se anche non lo è non si tratta forse di un brutto segnale, che allude chiaramente a quel che sta
capitando in questa cavolo di società, che io francamente non riesco più a capire, tu mi dirai era così
anche quando eravamo ragazze noi, la società, la politica, la scuola ci sembravano degli
incomprensibili geroglifici, poi crescendo abbiamo cominciato a decifrarli e noi che credevamo di
aver capito tutto ecco che ci troviamo di nuovo spiazzate, non è forse così, non sei d'accordo con
me, stiamo prendendo un secondo caffé mentre mi scaldo, con tiziana è praticamente impossibile
non farlo, lei ti ispira solo a guardarla in faccia
tu hai perfettamente ragione, mi risponde mentre si versa una bustina di zucchero di canna
grezza e mescola con precisione e lentezza, come sempre la tua analisi è perfetta, ma poi, se ci
atteniamo ai fatti, il quadro può ribaltarsi, e che una scuola vada in tilt per un solo alunno come tu
dici può risultare plausibile, soprattutto se pensi a quel che sta accadendo ora, dopotutto si trattava
di pessimi segnali che noi avremmo dovuto saper leggere, anche senza la lente della teoria, alcuni
fatti sono solo dei semplici fatti, e se un alunno diventa ingestibile perché sputa in faccia a tutti,
prende a pugni un bidello, riga le auto degli insegnanti, urla in continuazione e vaga da una classe
all'altra, e sua madre arriva a scuola e non potendosela prendere con il frutto bacato del suo seme
bacato, se la prende col corpo docente e strattona la povera bacchiega occhialuta e quasi anoressica,
la afferra al collo con le sue dita da strega alcolizzata e la sbatte contro il muro una volta due volte
tre volte quattro e poi cinque e poi sei e poi non smette più finché io non mi metto a urlare, beh
allora il corpo insegnante, e qui allude ironicamente al mio celebre gesto, dovrà pur battere un
colpo, e cominciare anche a prendere a sberle, metaforicissimi schiaffoni, qualcuno
forse hai ragione, le rispondo, ma io non mi accontento mai di una semplice spiegazione e
men che meno di un'unica soluzione, mi sembra di voler chiudere la porta per sempre alla
possibilità, sono fatta così e non ci posso fare niente, continuiamo allegramente a disquisire di
massimi sistemi per un'altra decina di minuti quando dalla vetrata vediamo spuntare una figura che
ci fa cenno, e capiamo che è venuto il momento di smetterla con le chiacchiere per passare
finalmente all'azione
giadaporfirio è saggia e ha accettato di buon grado, insieme al suo potenziale fidanzato
lucarossi, di collaborare a sbrogliare la matassa, sono un po' scialbi e molto credenti, però hanno
delle belle teste, specialmente lei, e poco importa che vengano plagiate dal conformismo un po'
bigotto di provincia, potranno anche fare cose egregie, tanto più che ormai l'unica religione
imperante, il vero pensiero dominante, ha oggi a che fare con il tempio commerciale, il megacoso
che torreggia su tutto e tutti
le genitrici non mi adorano come i loro graziosi figli, son pur sempre
un'ateamaterialistaepicureaabortistaeccetera, e la cortese freddezza con cui mi salutano me lo
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rammenta se pure ce ne fosse stato bisogno, meno male che c'è tiziana a mediare, anzi mentre la
cara collega intrattiene le madri, io mi dedico ai miei alunni con i quali ho molta più dimestichezza,
porfirio rossi, proclamo in ordine alfabetico come all'appello, presenti, sembrano dire i loro occhi
ancora assonnati che avrebbero voluto restare chiusi ancora un pezzo nella candida ovatta delle loro
camere bomboniere, ci mettono trenta secondi buoni a cogliere la battuta, e accennano un timido
sorriso mescolato ad un inizio appena trattenuto di sbadiglio, serve un caffè chiedo io, ma i nostri
genitori, scherzo, per certe bevande siete ancora piccoli
quelli della ganga pare di no, ammettono a denti stretti, e cominciano a parlare senza alcun
bisogno che io glielo chieda di alcuni loro compagni avventati, e di certi soldi presi da un cappello,
e di sebalateppa, e di una festa che si starebbe svolgendo da qualche parte, che però non sono
riusciti a localizzare, a riprova dell'impossibilità di fare qualcosa di segreto a meno che non resti
sigillato nella mente, però al momento ci manca proprio l'informazione più importante
le madri nel frattempo si sono avvicinate, a sostenere la lingua biforcuta dei figlioletti, che
per fortuna almeno in questo caso non sanno mantenere il riserbo, io guardo tiziana che è
preoccupata quanto me, poi dietro di noi si sente un ticchettio che cresce di volume ed accelera nel
ritmo finché non viene sovrastato da una voce acuta e sull'orlo di una crisi di nervi, la bibliotecaria
hippy con i tacchi mi mancava, forse è la sua divisa domenicale, fatto sta che comincia a sbraitare
che non se ne può più, che questi ragazzi sono proprio strani, che ai suoi tempi non era così, e
questo e quello e quell'altro, mentre provo a fulminarla con lo sguardo senza ottenere alcun risultato
si son presi seicento euro come niente fosse, ci pensate, le suggeriamo di abbassare la voce,
anche se forse è inutile visto che pare che mezzo paese già conosca a menadito i dettagli della
rapina al teatro e persino quanti spiccioli sono rimasti nel cappello, ma come, chiedo io, quegli
scemi della compagnia hanno contato i soldi e poi li hanno lasciati lì in bellavista, sissì risponde lei,
chi andava a pensare che, c'era confusione, e ricomincia con la tiritera criminale e psicopatologica
sulle nuove generazioni affette da desiderio compulsivo e nichilismo radicale
ora però mi chiedo come mai tutti siano così sicuri che i ragazzi della ganga, che nemmeno
sapevo esistesse non dico come entità ma neppure come nome, sono colpevoli e già condannati
prima ancora di celebrare il processo, e a quel punto, visto che esterno i miei dubbi, che però già
tiziana aveva potuto leggere tra le rughe della mia fronte aggrottata, inzigata dalla madre
impellicciata si fa avanti giadaporfirio, la quale mi mostra col ditino il minuscolo monitor di un
cellulare, al che io devo aver fatto una faccia da vaderetrosatana, però alla fine vengo costretta a
guardare là dove non vorrei
insomma c'è il resoconto cifrato e sommario, per me inintelligibile ma chiarissimo alla
giovane fanciulla che ha ricevuto il messaggio, di quanto accaduto la sera prima al teatro, e il
mittente corrisponde all'identità della mia allieva gerardiginevra detta gin detta anche molto
gentilmente dai suoi graziosi amichetti nanastronza, cosa che vengo a scoprire soltanto ora
ma è solo una tessera del mosaico, far restituire dalla cosiddetta ganga il maltolto non sarà
certo una missione impossibile, il problema ora è sapere dove diavolo sono finiti tutti quanti, alieni
teppe neonazi e quant'altro, e soprattutto, sopra ogni cosa, dove si trova il povero alì, e al solo
pensarci mi tremano le vene dei sottili ma coriacei e vissuti polsi che mi trovo davanti agli occhi,
ora che sto sollevando senza sapere perché le mie braccia, come per togliere come son solita fare
tutti i miei anelli prima di cenare, in un gesto plateale che di solito non passa inosservato, e solo
sigmund sa il perché di questo gesto automatico proprio qui e ora
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Trentaduesima, loro
Si ritrovò da solo nel bosco. Realizzò solo a quel punto di non trovarsi in una situazione facile. Non
conosceva quei luoghi, aveva solo una vaga idea di dove fosse e, oltretutto, nella concitazione della
fuga aveva lasciato il giubbotto con il cellulare alla cascina.
-Che scemo! - si disse a voce alta, anche per misurare l'effetto della sua voce in quel posto per lui
inconsueto. “Incongruo” fu la parola che gli venne in mente.
Solo quando si fermò a riprendere fiato accoccolandosi alla base di una grossa quercia, si rese conto
di stare parecchio male: aveva vomitato a più riprese e il suo stomaco era sottosopra. Ma quel che
più lo aveva sconvolto, riguardava le cose successe poco prima, in quella casa infernale. Si ripeté
mentalmente più volte che mai avrebbe dovuto andar lì quella mattina; e, a pensarci bene, nemmeno
avrebbe dovuto partecipare a quel maledetto furto del cappello. Lui se lo sentiva che era una storia
nata storta, una cosa malata, e che tutti, compreso quello scemo di Matte, si erano fatti abbindolare.
Lui non capiva tutto quell'entusiasmo, quell'adorazione per Seba. Eppure aveva detto di sì anche lui.
-Che scemo! - ripeté alzando la voce, quasi urlando. Seba aveva qualcosa di strano negli occhi,
nella voce – a parte il fatto che ora era fuori come una mina. E poi quel tipo in giacca e cravatta! Se
ci pensava gli venivano i brividi. Era una compagnia di pazzi furiosi. Ma come avevano fatto gli
altri a fare quelle cose ad Alì? Sembravano delle marionette nelle mani di un burattinaio. Eppure
anche lui era stato lì fino a pochi minuti prima. Come gli altri. Ma aveva abbassato il rasoio, e poi lo
aveva gettato per terra, e aveva vomitato, ed era stato allontanato con una manata, in malo modo.
Sedeva sotto la quercia punteggiata di foglie minuscole di color verde chiaro, germogli teneri e
recenti di primavera, quando tutta la scena gli si era ripresentata vivida in mente. Smise di pensare
nel momento in cui cominciò a sentire freddo. Doveva già essere mezzogiorno, ma nel fitto del
bosco il sole primaverile filtrava debolmente. E poi indossava soltanto una camicia.
Si alzò e riprese a camminare lungo la strada sterrata, sforzandosi di capire in quale punto si
trovava. Non era mai stato un campione di orientamento. Quando suo padre, da bambino, lo portava
in montagna per le lunghe ed estenuanti passeggiate domenicali, gli importava solo che quella
tortura finisse. Camminare fa bene al corpo e all'anima. Fa crescere, forgia il carattere, plasma
l'intelligenza, scolpisce il corpo e affina i gesti. Eccetera eccetera. Quando cominciava con quella
tiritera non la smetteva più. Il genitore parlava, lo farciva come un tacchino di insegnamenti non
richiesti, su piante fiori sentieri vette percorsi salite laghi discese – ma a lui non interessava nessuna
di quelle cose. Gli importava solo di arrivare. Che tutto finisse nel più breve tempo possibile. Aveva
in mente solo la play a quell'epoca.
Scorse da lontano una radura, dove sembrava convergessero più sentieri. Se era fortunato, avrebbe
trovato qualcuno di quei preziosi paletti in legno che qua e là punteggiano i boschi per indicare
distanze e direzioni. Quando arrivò al crocevia si accorse che sì, i cartelli c'erano, ma erano stati
manomessi: qualche buontempone aveva segato via o piegato irreparabilmente le frecce. Gli venne
da piangere, per il nervoso. Ma dovette subito occuparsi d'altro, e lasciar spazio ad un'emozione più
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urgente e vitale: lungo il sentiero che aveva inforcato a caso, spostandosi di una quarantina di gradi
a nord, laggiù, a pochi passi di distanza, si stagliava una figura scura e immobile che lo stava
fissando. Aveva l'aria di aspettare proprio lui.
-Raga, ma dove cazzo andate? - urlò Seba in direzione del branco di ragazzi che stava sciamando tra
i filari delle piantine di mais - Il contadino quando vedrà il lavoretto che gli state facendo, si
arrabbierà parecchio. Gli verrà voglia di imbracciare il fucile – aggiunse mimando il gesto del
gigante sul trattore, senza nemmeno conoscerlo.
-E a noi? - risposero in due o tre cercando di saltellare con un po' più di energia in mezzo al campo.
-Già, a voi che ve ne frega! - si intromise Max - forse però è meglio che prima ci organizziamo.
Venite tutti qui, che decidiamo insieme come procedere.
Ora non stava più in giacca e cravatta. Indossava una mimetica e, visto da lontano, appariva come
uno di quei giovani esaltati che si eccitano subito quando si parla di divise e di battaglie. Gli si era
persino irrigidita e incattivita la faccia. Le mascelle avrebbero voluto assumere la stessa forma e
plasticità di quella tatuata sulla mano. Gli sarebbe tanto piaciuto poter dirigere una vera e propria
caccia all'uomo, una di quelle follie tutte americane da sport estremi, corsi di sopravvivenza, vita
selvaggia e simili. Eppure c'era qualcosa di grottesco in quel suo agitarsi e affannarsi, come una
sproporzione evidente tra le intenzioni e la realtà. Che cosa c'era, dopotutto, di così eroico nel dare
la caccia a un ragazzino impaurito, dopo averne torturato un altro legato a una sedia?
Ma non era così stupido, e si rese ben presto conto che la “campagna militare” si annunciava
quantomai difficoltosa. I ragazzi, e lui stesso, nonostante l'entusiasmo per la novità, avevano i
riflessi lenti. Più che correre arrancavano. Quello che sembrava più sveglio in quel frangente – il
sottovalutato Quattrocchi – lo aveva dovuto lasciare alla Cascina, a fare da carceriere. Anche se,
visto lo stato comatoso di Alì, forse non ce n'era nemmeno bisogno.
Quattrocchi si era mostrato entusiasta del delicato compito che gli era stato assegnato. Lui e Max
avevano concordato di scambiarsi degli squilli in caso di necessità. L'adorazione e lo zelo erano
cresciuti di un'altra spanna. Sarebbe stato un perfetto soldato, e quella era la prima volta che il suo
talento nascosto emergeva in maniera così prepotente. Quando salutò il suo nuovo comandante –
capitano mio capitano! - ci mancava poco che facesse il saluto militare e che, dopo il dietrofront,
raggiungesse il suo prigioniero al passo di marcia. Non ci fu bisogno di ulteriori raccomandazioni.
Ma il resto della banda era in preda ad uno stato di totale anarchia. Non solo i ragazzini, anche
Rozzo e il suo amico non sembravano propensi a farsi inquadrare. Seba poi, nonostante l'adrenalina
per l'apertura della caccia, aveva ingurgitato una tale quantità di alcol e di droghe, da apparire ormai
come uno schizofrenico all'ultimo stadio. Gli sbalzi d'umore erano diventati incontrollabili. Corpo e
spirito a molle. Le ragazzine, poi, si erano messe a parlare tra di loro, tutte e tre, compresa l'amica
di Rozzo, e sembrava non volessero più smettere.
Finalmente, dopo svariati tentativi, si ritrovarono tutti quanti attorno ad un pozzo abbandonato. Si
sedettero lì, e Max cercò di fare un po' di ordine, dividendoli in gruppi di due o di tre, e cercando di
assegnare a ciascun gruppo una direzione precisa.
-Avete capito? - disse alla fine quasi gridando. Ci ritroviamo alla Casa dei Marangoni al massimo
tra due ore. Si spera con la lepre in gabbia. Per qualsiasi cosa, ci mandiamo dei messaggi. Tanto i
cellulari prendono abbastanza bene su tutto il territorio. Domande?
Nessuno ne fece. Si alzarono rumorosamente e, prima di mettersi in marcia, passò un altro quarto
d'ora buono.
-Cazzo! - disse a Seba, che stava facendo pace grazie a una lunga e profonda limonata con Lu l'armata Brancaleone era molto più organizzata di noi!
-E chi cazzo erano 'sti Brancaleone? - rispose il ragazzo, mentre mordicchiava l'orecchio di lei, sotto
la frangetta scura.
Prima di fare dietrofront e di scappare a gambe levate, ci mise un po'. Quando finalmente si girò,
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poco mancò che andasse a sbattere contro un secondo uomo che stava a meno di dieci metri da lui.
Evidentemente era il compare del primo. Quello si mosse con destrezza, mentre Alex non sapeva
ancora cosa fare, se scartarlo come una saetta, salutarlo, urlare o girarsi di nuovo. Ma dietro di lui
c'era l'altra presenza. Insomma, si trovava circondato dagli alieni, e per di più era paralizzato dal
terrore.
Il tratto di terreno che lo separava dai due uomini, era ricoperto di sacchetti di immondizia rotti in
più punti, ammassati accanto a cartoni per la pizza macchiati d'olio e a bottiglie di birra, alcune
delle quali con il collo rotto. Dovette fare attenzione a scansare i vetri per non tagliarsi, oltre che
misurare i movimenti dei due tizi.
Il secondo uomo, quello che stava dietro di lui, aprì la bocca, mostrando i pochi denti rimasti,
tronchi marci e neri sul punto di sbriciolarsi e di lasciare del tutto sgombro il palato. Dentatura rasa
al suolo. Il ragazzo non fece in tempo a realizzare se si trattava di una smorfia o di un gesto di
simpatia oppure di un ghigno, dato che a quel punto si accorse della siringa che l'uomo stringeva in
una mano. Era gocciolante, e piena di un liquido arancione, almeno così gli parve. Cercò di scartare
di lato e schizzò via veloce nell'esatto momento in cui il tossico si avvicinava pericolosamente alla
sua figura in corsa. Nessuno dei due rallentò. L'uomo brandì l’ago come uno stiletto, la cui punta si
trovava ormai a pochi centimetri dal braccio di Alex. Questi riuscì a deviarlo per un pelo – il
fatidico pelo – e si lasciò alle spalle il mostro che voleva punzecchiarlo con il suo pungiglione
avvelenato.
Non si chiese che significato potesse avere quel gesto, o se interpretarlo come innocente, casuale,
beffardo oppure come una reale minaccia. Non ebbe tempo per tutto ciò. Il terrore, che come una
sottile linea ghiacciata gli colava lungo la colonna vertebrale, sembrò bloccarlo per un attimo, che
gli parve lunghissimo. Ma poi la paura si sciolse mettendogli le ali ai piedi, e finalmente schizzò
come un razzo. Corse all'impazzata per alcuni minuti, senza mai voltarsi indietro. Quando la
distanza gli parve sufficientemente sicura, si fermò a riprendere fiato e trovò il coraggio di girarsi.
Dietro di lui solo robinie in fiore, e il sentiero soffice ricoperto dal tappeto di foglie, ridotte ormai a
terriccio, dell'autunno precedente. Prese allora a toccarsi il braccio, nel punto in cui aveva rischiato
il contatto, analizzò ogni centimetro di pelle, se la tastò e cominciò a grattarsi furiosamente. Il
sangue non tardò a sgorgare, insieme a due grosse lacrime che gli scesero lentamente lungo le gote
chiazzate di bianco e rosso. Riprese a camminare, singhiozzando sconsolato.
Girarono a vuoto per un tempo che parve loro infinito. Il comandante Max aveva fatto in modo che
ci si muovesse grosso modo in maniera concentrica rispetto alla Cascina. In teoria questo avrebbe
permesso di battere il terreno palmo a palmo. Ma un conto era la teoria – e la mappa che sembrava
avere in mente – un altro la pratica, soprattutto se i battitori sono una banda di ragazzotti con
pochissima esperienza di boschi ed escursioni, disturbati oltretutto dai postumi di un festino a base
di sostanze chimiche. Per non parlare delle sconnessioni del terreno, dei grovigli di rovi, dei muri
cadenti, delle rogge e del Verdente che tagliava in due parti quasi simmetriche l'intera area.
Ogni tanto, dai rovi o dal terriccio spuntavano i rivestimenti in eternit che un tempo avevano
ricoperto i tetti del circondario. Pile ondulate e grigiastre abbandonate maldestramente di primo
mattino da avventori furbetti alla guida di grossi pick up. Uno dei sentieri che si trovarono a
percorrere sembrava un cimitero di quei materiali inerti, in procinto di sbriciolarsi e di avvelenare il
respiro di chi si fosse avvicinato troppo. Ma nessuno se ne rese conto, ed anzi calpestarono ridendo
come degli scemi le lastre grigie in disfacimento.
Il loro era oltretutto un muoversi lento e disordinato, senza capo né coda. Sembrava più che altro un
gesticolare nel vuoto.
Il primo ad arrendersi fu Seba. Le gambe non lo reggevano più in piedi. L'alcol gli era entrato in
circolo inducendogli ormai pesanti attacchi di sonno. Alla fine si sdraiò nei pressi del torrente, in
mezzo ad un praticello cosparso di piccole margherite e dei resti di un improvvisato pic-nic. Lu gli
si accoccolò vicino e cominciò con la mielosa tiritera del mama-non-mama, diradando ben presto i
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fiori appena spuntati e dondolanti al vento tiepido di maggio. Alla fine rimasero solo cartacce
frammiste a petali sparsi e gambi spezzati.
Si era arrampicato su un grosso faggio e da quel formidabile punto di osservazione li aveva scorti a
più riprese. Non era esperto di boschi né di camminate, ma di arrampicate se ne intendeva. Il
quadrato svedese era il suo forte nelle ore di educazione fisica, così come la fune e gli anelli. Per
non parlare delle capanne che con gli amici costruiva da bambino. Duravano poco, alla prima
pioggia o al primo vento venivano giù, ma vuoi mettere la soddisfazione di essere riusciti a tirarle
su?
Li vide arrancare a lungo, da lontano, e solo una volta un paio di loro passarono sotto la sua
fortezza-albero. Matte e l'amico del Rozzo si fermarono ad accendersi una sigaretta. Il primo aveva
deciso di sostare e di fumarsela in pace, mentre l'altro aveva proseguito.
Chissà perché gli era venuto in mente di bisbigliare? Ma chi glielo aveva fatto fare? Quello, al lieve
sussurro che proveniva da sopra la sua testa, alzò il naso e soffiò il fumo verso l'alto. Sulle prime
non lo riconobbe, poi lo mise a fuoco.
-Alex? Sei tu?
-Matte? – chiamò con un filo di voce dal ramo robusto e nodoso sul quale stava da una decina di
minuti. Aveva le gambe anchilosate, e i muscoli delle braccia doloranti. Aveva vomitato anche in
cima all'albero, e la faccia gli era diventata giallognola.
-Cazzo ci fai là sopra?
-Sccchhh, abbassa la voce!
-Ehiiii. Ehiiiiiii – cominciò ad urlare in direzione del Rozzo – guardate un po' chi ho trovato?
-Sporco Giuda. Traditore del cazzo – queste parole restarono tra i denti di Alex, incapace di
indirizzarle come avrebbe voluto all'amico. Non stette granché a pensare, prese un ramo in gran
parte spezzato, lo schiantò e lo scaraventò di sotto. Matte lo scansò per un pelo, e schizzò via
bestemmiando.
Alex scese svelto dalla sua fortezza, graffiandosi e sbucciandosi le mani. Si ruppe i pantaloni in più
punti e rischiò di perdere una scarpa. Dovette fermarsi a riallacciarla, ma in un lampo la lepre era
ancora in fuga. Per un po' sentì i passi di qualcuno e un respiro affannoso dietro di lui. Non capiva
se Matte lo stesse seguendo da solo o se fosse riuscito a richiamare l'attenzione degli altri.
Correva sempre più forte, col cuore in gola, evitando di girarsi per non perdere tempo. Sentiva l'aria
premere sulla faccia, e i muscoli del viso in tensione, come se qualcuno glieli stesse arpionando con
una fiocina. Poi si arrestò e deviò verso un sentiero secondario, quasi invisibile, che si diramava al
di là di una folta cortina di cespugli. Si accucciò dietro uno di questi e ascoltò a lungo. Sentì solo lo
stormire lieve delle giovani foglie degli alberi e lo stridìo fastidioso di una taccola in volo, mentre
gli effluvi violenti del fiore di robinia gli invadevano le narici.
L'avvistamento di Alex ridiede vigore alla battuta di caccia. Max e il Rozzo cominciarono a
perlustrare il terreno attorno al faggio da cui la preda era fuggita, e con il grosso della Ganga si
lanciarono, un po' più convinti, all'inseguimento.
-Drogati di merda, fuori dai coglioni! - si sentì urlare d'un tratto.
Il tipo con la siringa stava ancora nei paraggi: questa volta era da solo, e di fronte alle urla del
comandante e a tutta quella baraonda pensò bene di darsela a gambe. Sparì come per magia dietro i
cespugli appena rinati di more, e nessuno per quel giorno lo vide più. Il giovane in mimetica avvertì
un moto di soddisfazione, un calore inedito che dal petto si diffondeva in direzione della gola e
della testa – idee che dalla testa uscivano per farsi voce, grida, ordini, effettiva azione di pulizia.
Gongolò per un attimo, senza darlo troppo a vedere.
-Attenti, ci sono delle cazzo di siringhe qui intorno.
-Minchia raga, c'è il rischio di beccarsi l'Aids! - urlò Matte.
-Ma chi me lo ha fatto fare... - piagnucolò la Nana, che però alternava i lamenti con interminabili
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risate isteriche.
Di nuovo si ritrovarono tutti in mezzo ai campi di granturco. Se fosse stato lì lo avrebbero visto, le
piantine di mais erano ancora molto basse e nemmeno sdraiandosi a terra sarebbe stato possibile
nascondersi tra i filari. Doveva aver ripreso la via del bosco.
-Qui, qui! - Dardan urlò verso gli altri. Aveva trovato qualcosa.
-Guardate! - mostrò un braccialetto impigliato ad una canna.
-È suo. É di quel frocio – disse Matte, ancora infastidito per come se lo era lasciato scappare, e per
il tronco che per poco non gli spezzava il collo.
-Di là – fece Max. E senza troppa fretta si infilarono nel sentiero del bosco che portava alla cava.
Guardò con cautela verso il balcone. Nessun rumore, tranne il vento che si era fatto più forte.
Rachid aveva ragione, la strada che gli aveva indicato era quella giusta. Senza di lui si sarebbe
smarrito di nuovo, forse per sempre.
Aveva sentito parlare degli “abitanti del bosco”. C'erano anche loro, immigrati senza casa che
trovavano rifugio nelle vecchie cascine abbandonate. E lui, il ragazzo di nome Rachid, era uno di
questi. Lo aveva aiutato ad orientarsi e a sfilarsi dal vicolo cieco nel quale rischiava di finire.
-Non avere paura – gli aveva detto in un italiano stentato. Temeva fosse il tossico di prima. Il colore
della pelle pareva lo stesso, ma quella di Rachid era di un marrone più lucente. E non aveva
quell'aria sfatta e quel viso smunto.
-Ti sei perso, vero?
Non gli piaceva ammetterlo, ma aveva bisogno di lui. Avevano parlato per un po', si erano intesi
smozzicando parole condite di gesti ampi. Rachid aveva più volte alzato il bracco indicando la
direzione; poi lo aveva salutato stringendogli la mano, con un sorriso triste appena accennato. Infine
aveva appoggiato la mano sulla giacca lisa, all'altezza del petto, raccomandandolo ad Allah.
La casa del terrore stava ora di nuovo davanti a lui. Non aveva niente delle case del bosco delle
favole. Niente marzapane, niente magia. Era solo una vecchia lurida cascina che stava cadendo a
pezzi.
Fu indeciso sul da farsi. Prima di andarsene e chiuderla lì, avrebbe voluto salire di sopra a vederlo
per l'ultima volta. Non era per chiedergli scusa. Anche perché, a dirla tutta, Alì gli stava pure
antipatico. Anzi, l'espressione che gli venne in mente fu che “gli stava sul culo”. Ma questo non
c'entrava. Voleva rendersi conto bene del casino nel quale si era ficcato prima di tornare nel mondo
civile, dove qualcuno gliene avrebbe chiesto ragione. In un modo o nell'altro.
Urtò con un piede una trave e per poco non si conficcò nella suola un chiodo arrugginito.
-Ci manca pure di prendere il tetano – si disse. Sputò sui detriti e scartò di lato.
Lo scooter di Dardan si trovava sotto la magnolia, luccicante come uno scarabeo. Non doveva far
altro che montarlo e scappar via. Avrebbe voluto prendere quello di Matte, quel cavolo di traditore.
Ma era vecchio e poco affidabile, magari si sarebbe fermato e avrebbe avuto difficoltà a farlo
ripartire: ne aveva fatto esperienza diretta più di una volta. Molto meglio il bolide di Dardan, nuovo
di zecca. C'era però un piccolo particolare: le chiavi? È possibile far partire uno scooter senza
chiavi? Non ne aveva idea. Aveva sentito dire una volta da Matte che si poteva fare manomettendo i
cavi sotto la scocca anteriore. Ma se anche fosse stato così, se ci fosse stato il trucco per rubarli
come con le automobili nei film, lui non sapeva proprio come fare. Sapeva a malapena riconoscere
la scocca, figuriamoci farlo partire! Non c'era nessuno in quel frangente che avrebbe potuto aiutarlo.
Forse solo Matte avrebbe potuto. Ma ormai era fuori combattimento. Un Giuda e traditore da
evitare come la peste, d'ora in poi. Doveva cavarsela da solo.
Non staccava gli occhi dallo scooter. Ad un tratto gli parve di sentire qualcuno canticchiare. Fu la
molla che lo spinse a salire. Radente al muro, salì i gradini a due a due, evitando di fare rumore. Gli
occhi puntati in su, ad aspettarsi il peggio.
Di fronte a loro si distendeva il vasto perimetro della cava.
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-Minchia – disse Matte – ma è enorme.
-Se è sceso da quella parte non lo troviamo più – aggiunse Gin.
-Cazzate. Era il bosco a darci problemi. Qui è liscio come il deserto. Lo becchiamo subito –
commentò l'amico del Rozzo, sputando copiosamente sul limitare della duna.
-Mmmm. Se è qui, lo becchiamo, questo è sicuro. Ma...
-Ma cosa? - tagliò corto Dardan – dimentichi le tracce.
-Sei un coglione – e avrebbe voluto aggiungere “albanese” seguito da qualche epiteto – può
avercele messe lui le tracce, no?
-Guardate! - urlò Matte – laggiù!
Tutti corsero a rotta di collo verso una larga fenditura del terreno, dove spiccava un oggetto liscio di
color latteo. Sembrava quasi una lingua residua di neve, ma si era ormai ben oltre la stagione del
disgelo, anche se l'inverno quell'anno pareva non voler finire mai.
-È il suo giubbotto, lo riconosco – giurò Matte.
-Ne sei sicuro? - chiese Max, ancora scettico.
Dare un'occhiata lì in giro non costava nulla. Ma se lui li avesse depistati apposta? Il biondino si
stava rivelando un osso duro, e stava dando loro parecchio filo da torcere. Con un tic dapprima
impercettibile, poi sempre più evidente tra le pieghe della pelle, la mascella destra del comandante
cominciò a manifestare chiari segni di nervosismo.
Il “giubbotto” era in realtà un'incerata che stava lì da chissà quanto. Era ricoperta di macchie oleose
non meglio identificate, e le maniche si erano scucite in più punti. Il cappuccio era tutto
bucherellato. Continuarono a scendere cauti verso il fondo, declinando dolcemente, terrazza dopo
terrazza. Ogni tanto qualcuno incespicava in un sasso, rischiando di ruzzolare, e commentava con
una sonora bestemmia o con qualche colorita espressione del gergo adolescenziale. Non si capiva
bene che materiali venissero estratti da lì, e se la cava fosse ancora attiva. Regnava un silenzio
surreale, rotto solo dalle brevi folate di vento e dalle loro rare voci. Qualche uccello, di tanto in
tanto, gracchiava dalla cima di un albero.
-Sono corvi o taccole. Diventano cattivi, quando nidificano – disse Matte.
-E a noi? - gli rispose Max accelerando il passo.
-Beh, siccome questo è il periodo, è meglio stare attenti quando ce ne sono in giro. Se ti beccano gli
occhi sono cazzi. Possono anche divorarti le pupille.
-Certo che il senso del macabro non ti manca – interloquì la Nana.
Si fermò trafelata e si guardò attorno.
Chiese se qualcuno aveva una sigaretta da offrirle, ma non ottenne risposta.
-Però è strano forte questo posto – continuò senza che nessuno le desse retta.
-Laggiù! - urlò Dardan, che scattò in avanti.
-Ma va, scemo, non vedi che sono lepri! - rispose Matte, che ormai era diventato lo zoologo del
gruppo.
-A me non sembrano lepri...
Un grosso animale marrone, con un intrico fitto di corna, e con gli occhi immobili stava di fronte a
loro, cercando di studiarli.
-Minchia raga, è un daino. È grossissimo - disse l'amica di Rozzo, avvicinandosi.
D'improvviso l'animale schizzò via come una molla, e nello stesso tempo in cui quello sparì dalla
loro vista, un rumore assordante sovrastò ogni cosa. Tutti si girarono e videro, alle loro spalle, uno
strano meccanismo mettersi in moto. Una sorta di montagna russa fatta di cavi, binari, ruote dentate
e contenitori metallici semiarrugginiti cominciò a cigolare e a ruotare dall'alto verso il basso.
Giunse poi da lontano il rumore di qualcosa che si stava rovesciando. All'inizio pareva sabbia,
un'enorme quantità di sabbia che veniva ammassata da qualche parte. Poi si sentì un fragore
diverso, come di pietre che sbattono contro una parete di metallo. Nel frattempo sopra le loro teste il
traffico di carrelli e di catene andava intensificandosi. Dopo il primo giro di tutta quella ferraglia,
del pietrisco cominciò a cadere dall'alto.
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Ebbero l'impressione che un mostro di metallo si fosse risvegliato, disturbato forse dalla loro
intrusione, e che stesse avanzando rabbioso a grandi passi, deciso a divorare tutto quello che
incontrava. Un'anima meccanica dormiente da secoli sotto terra, che ora emergeva in superficie e
manifestava tutta la sua ira.
-Ma che succede? - Gin sbarrò gli occhi spaventata.
-Niente, credo che siano arrivati gli operai della cava. Qui ci conviene smammare – disse
saggiamente il comandante.
-Questi coglioni lavorano pure la domenica! Ma lui dove sarà? - chiese con un filo di smarrimento
nella voce l'ex amico del cuore. Puntò in alto lo sguardo e vide qualcosa scendere da un carrello.
Lanciò una bestemmia e cominciò a correre come una lepre in fuga, seguito da tutti gli altri.
Quando arrivò sul pianerottolo, ingombro su un lato di macerie, risentì la voce di prima. Non era un
canto: questa volta, ne era sicuro, le sue orecchie percepivano un flebile lamento. Qualcuno stava
piagnucolando, nel salone dove poco prima si era tenuto quel cavolo di party. Entrò, e prima di
vedere le due figure rannicchiate ebbe un lieve brivido di gioia: sulla poltrona contro il muro,
accanto al suo giubbotto, giaceva abbandonata la felpa grigia di Dardan. Era troppo bello per essere
vero.
Rovistò nelle tasche ma non trovò nessuna chiave. Quello stronzo se le era portate dietro! Aveva
lasciato lì la felpa ma si era portato via le chiavi, quell'idiota! Tornò a disperarsi, mentre recuperava
il suo giubbotto.
Intanto una delle due figure alla sua sinistra si era alzata e avanzava piano verso di lui. Alex non
parve farci caso, concentrato com'era sul suo angoscioso problema. Vide qualcosa brillare
debolmente per terra, si chinò e l'afferrò: era un mazzo di chiavi, e una di queste aveva tutta l'aria di
essere quella di uno scooter. Ebbe solo un attimo per rasserenarsi, il tempo di rialzarsi da terra,
quando sentì una mano gelida sfiorargli il collo. Fece un salto.
-Quattrocchi, che cazzo ci fai qui?
Il ragazzo aveva gli occhi rossi, tremava e non riusciva a parlare. Si girò muto in direzione dell'altra
figura, discosta poco più in là di qualche metro. Alex ne seguì il movimento e agghiacciò. Si
avvicinò al ragazzo pakistano e lo scosse ripetutamente. Poi diede una violenta spinta a Quattrocchi,
che si afflosciò sul pavimento come un sacco vuoto, e con le chiavi in mano ridiscese come una
furia le scale.
Si ritrovarono nel cortile della cascina, più di tre ore dopo la partenza. Quattrocchi li guardò arrivare
abbacinato, con il cellulare nella mano sinistra, mentre l'indice dell'altra giaceva inerte su uno dei
tasti.
-Quattrocchi, cazzo è successo? - chiese Matte con tono canzonatorio – la mammina è riuscita a
fulminarti con un sms?
L'altro lo guardò senza dar mostra di capire, e si limitò a spostare il dito dal cellulare puntandolo
verso l'alto. In quel mentre arrivò anche Max, che cominciò a scuotere per le spalle il ragazzo, senza
ottenere nessuna reazione.
-Cazzo, qui è successo qualcosa. Occazzo!
Salì di corsa le scale, seguito da Gin e da Rozzo, mentre gli ultimi arrivati chiedevano agli altri che
cosa stava succedendo.
-Un vero casino – rispose Dardan, senza nemmeno l'accenno di un sorriso. Fu solo a quel punto che
si accorse dello scooter. “Sarà stato quello stronzo del cazzo” – così pensò. Poco importava che ieri
fossero in procinto di diventare i più grandi amici della terra. Ora la cosa era completamente
diversa. E quello che contava era adesso. “Prima” non esisteva più.
-Merda, me l'hanno fregato – seguirono bestemmie bilingui e cattive. La sua faccia era diventata
livida. Ormai non c'era più niente da ridere. Ma anche quella cosa passò ben presto in secondo
piano. Alla fine, uno dopo l'altro, si ritrovarono nella stessa stanza dell'allegro party mattutino.
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L'ambiente non roteava più come qualche ora prima e le cose avevano ripreso la loro solita
consistenza. La luce che penetrava dagli scuri e dalle fessure sembrava impegnata in un corpo a
corpo con la penombra, tanto che i profili degli oggetti risultavano ora più netti e stabili. Anche i
loro corpi e i loro visi si erano immobilizzati, gli occhi rivolti verso il centro della stanza.
Il corpo di Alì giaceva lì disteso, più dinoccolato del solito. La testa formava, rispetto al tronco, un
angolo troppo vicino a quello retto per essere normale. Come se fosse staccata dal collo e
posizionata qualche centimetro più in là. Anche i piedi e le ginocchia erano piegati in modo
innaturale. Pareva un manichino spezzato in più punti.
Il primo ad avvicinarsi fu Max, che tastò il collo e il polso del ragazzo. Poi arretrò di colpo. La
faccia gli era diventata dello stesso colore della mimetica. Matte si chinò a sua volta, e gli parve di
avvertire un tremore dapprima impercettibile, che poi cominciò a crescere di intensità: ma si
accorse ben presto che non proveniva dal corpo di Alì, che anzi persisteva nella più caparbia
immobilità. Alcune facce sbiancarono, i corpi immobilizzati, i muscoli bloccati, la mente confusa;
tutti si erano fatti cupi e silenziosi, come distratti da qualche remoto pensiero. Ci fu chi provò a
deviare lo sguardo, forse per difendersi da uno spettacolo giudicato indecente se non disgustoso. Poi
la Nana urlò:
-E adessoooooo?
Si guardarono in tralice e cominciarono a mormorare qualcosa, dando segni di impazienza. La
stanza prese a rimpicciolirsi sulle loro figure già schiacciate dalle circostanze: la sensazione che
ebbero fu quella di trovarsi chiusi in una scatola, una sorta di parallelepipedo di cartone sigillato su
tutti i lati, che impediva ogni via di fuga, come se già non bastassero a bloccarli i loro corpi.
Provarono tutti quella sensazione, lo si leggeva chiaramente dalle loro facce, dai loro occhi, dal
torcersi delle loro mani.
Poi i muscoli delle gambe lentamente cominciarono a sciogliersi, finché qualcuno non ebbe il
coraggio di muoversi in quello spazio buio e asfittico, come dentro una pièce teatrale dell'assurdo
che richiedeva una soluzione. Una luce filtrò debolmente dal rettangolo buio in fondo, che piano
piano ridiventò visibile. La faccia più piccola del parallelepipedo si aprì ed una prima figura si
affacciò timidamente da quel lato, trovandosi lungo la balaustra malconcia che dava sulla scala. Ad
uno ad uno, in fila indiana, uscirono dall'antro e presero a scendere i gradini sudici senza nemmeno
rendersene conto. Un gruppo di automi avrebbe avuto più vita di loro.
Passò di casa in preda a qualcosa di simile alla febbre. Tremava dalla radice dei capelli fino alle dita
dei piedi. Non si era mai sentito così, nemmeno quando aveva avuto la broncopolmonite e aveva
superato i quaranta gradi di temperatura. Non sapeva cosa fare. Chiamare sua madre sarebbe stata la
cosa più ovvia. Non suo fratello, men che meno quello stronzo del padre.
Ma dentro di lui si stava ormai facendo strada tutt'altra soluzione. Cercò quel che gli serviva
nell'armadietto del bagno, ma non lo trovò. Suo fratello era ancora più glabro di lui, e la madre
usava delle creme o dei prodotti strani.
Entrò cauto nella camera semibuia di Lorenzo e accese il computer. Avviò la sessione senza
problemi, inserendo la password che conosceva ad insaputa del fratello. Cominciò a digitare le
parole che gli servivano, compilando i campi a destra del motore di ricerca, senza nemmeno
degnare di uno sguardo la tastiera. Lesse con attenzione per una decina di minuti e quindi, dopo
avere eliminato con cura ogni traccia dalla cronologia di firefox, arrestò il sistema.
Si diresse come un automa verso la cucina, salì su uno sgabello e da una tazza sbreccata posta
sull'armadietto più alto cavò fuori un mazzo di chiavi. Se lo mise in tasca, prese dei soldi dal
cassetto dove sapeva che sua madre teneva sempre qualche banconota, e uscì di corsa.
Pensò di usare ancora lo scooter, così avrebbe fatto più in fretta. Se qualcuno lo avesse visto,
avrebbe sempre potuto dire che Dardan glielo aveva prestato. L'importante era non incrociare gli
sbirri. Anche perché era senza casco: nella fretta lo aveva dimenticata alla cascina.
Parcheggiò al MegaX, affollato più che mai, e si avviò al grande magazzino degli alimentari,
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cercando di mimetizzarsi il più possibile. Trovò, con una certa fatica, il reparto di igiene personale,
dove acquistò il prodotto con la confezione più costosa e sgargiante, senza nemmeno leggere
l'etichetta. Passò, come faceva di solito, giusto per dare un'occhiata, dal reparto dei prodotti digitali,
e vide le offerte del giorno, stampate a grandi caratteri su cartelli sgargianti. Afferrò una lunga
scatola piatta, quasi meccanicamente, e si avviò rapidamente alle casse. Deviò all'ultimo momento,
e fu tentato di nasconderla sotto il giubbotto, ma si accorse che era troppo ingombrante, e poi non
voleva rischiare intoppi dell'ultimo momento.
La cassiera gli chiese con voce meccanica se aveva la tessera fedeltà. Masticava un chewing-gum e
sembrava pensare a tutt'altro. Le rispose di no e allungò le banconote sul piano rialzato di vetro.
Mise tutto nello zaino e uscì di corsa.
-Lo scontrino.
Lo inseguì una signora con i capelli cotonati, che sventolava il foglietto come se fosse un biglietto
vincente della lotteria. Lo afferrò senza ringraziare, girò i tacchi e riprese a correre con lo zaino
ballonzolante sulle spalle.
Non erano ancora le quattro del pomeriggio, quando di soppiatto si infilò nel portone del cortile
dove abitava la nonna. Nell'appartamento si percepiva soltanto il pigro ronzio del frigorifero, che
regolarmente attaccava e staccava. L'unico respiro lì dentro, a parte il suo. Cercò di calmarsi e di
concentrarsi. Non gli era rimasto molto tempo. Andò in bagno e appoggiò sul bordo della vasca la
confezione più piccola; poi tornò in soggiorno e cominciò a scartare quella più grande. Sfilò
delicatamente il contenuto, cercò una presa e cominciò a toccare lo schermo in modo convulso.
Dopo aver scritto alcune pagine si bloccò e osservò con calma l'oggetto liscio e luminoso, lì sul
tavolo e sotto la lieve pressione delle sue dita. Non si curò di spegnere, si alzò e si diresse verso la
camera di sua zia.
-Bene – esclamò ad alta voce – adesso facciamola finita!
Gli parve di vedere due corpi appesi ad una quercia, da lontano. Uno era scuro e seminudo,
sembrava quel babbo di Alì. Mentre l'altro era il corpo di una ragazza, con la pelle nivea. Non era
lei, anche se la frangetta nera era identica. Dondolavano uno accanto all'altro, e lui sotto la chioma
dell'albero saltellava e rideva. C'erano bottiglie di plastica sparse, con i tappi disseminati
tutt'attorno. Tappi rossi, gialli, verdi, blu elettrico, mentre sui contenitori le etichette risultavano
illeggibili. Con la faccia rivolta in su, e camminando come in bilico sul tappeto di rifiuti sintetici,
parlava ai corpi appesi, che a loro volta ridevano, anche se la loro lingua bluastra penzolava fuori
dalla bocca. “Cosa avranno da ridere”, pensò, e quelli, per tutta risposta, gli mostrarono file e file di
denti anneriti; questa volta, però, non c'era davvero niente da ridere. Inciampò, cadde e venne
sommerso da quel mare maleodorante di plastica; poi sentì una fitta, da qualche parte, e infine delle
voci confuse.
Venne svegliato da un calcio sulla gamba sinistra, prima ancora che dalla voce che gli gridava,
come da una trasognata e dolorosa lontananza:
-Amore!
Non fece in tempo a rispondere, che un secondo calcio, più forte, gli arrivò su un fianco. Prima di
capire quel che stava succedendo, come per istinto provò ad afferrare il coltello a serramanico che
teneva nella tasca laterale dei pantaloni, ma una voce imperiosa gli soffiò dentro l'orecchio:
-Fossi in te non ci proverei nemmeno, Sebastiano Gargiulo!
Era rintronato, ma capì al volo di essere braccato. Scattò in piedi e cercò di divincolarsi e di
rischiare il tutto per tutto. Ricevette per tutta risposta un paio di ceffoni secchi, duri come pugni, il
primo sulla guancia e l'altro al centro della faccia. Non si lamentò. Non voleva dare all'uomo in
divisa nessuna soddisfazione. Lo fissò per un attimo. Era davvero grosso, lo sovrastava di una
decina di centimetri e aveva le spalle larghe come un armadio. Seba si passò la mano sul naso e vide
colare il sangue. Lo guardò di nuovo, con aria di sfida.
-Allora, vuoi darti una calmata?
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La seconda voce si sovrappose alla prima, e fu ancora più perentoria:
-Vieni avanti, stronzo, e tieni alzate le mani, bene in vista.
-Cazzo, la polizia! – furono le uniche parole che pronunciò, quasi tra sé, mentre abbassava la
guardia. Lu si trovava a pochi metri da lui e lo guardava allibita; farfugliava qualcosa, cercando di
spiegare che lei con tutta quella storia non c'entrava niente.
“Sè, sé” – sembrava rispondere lo sguardo della giovane poliziotta che l'aveva presa in custodia.
La pattuglia perlustrò la zona palmo a palmo, finché non arrivò alla Cascina dei marangoni.
Fecero irruzione nel cortile, con le armi spianate. Erano almeno una dozzina e sembravano seguire
uno schema preciso. Alcuni salirono le scale con la chiara intenzione di ispezionare i due piani della
casa; qualcuno rimase a presidiare il cortile; mentre il resto della pattuglia si posizionò lungo il
perimetro della cascina. Agivano con precisione e professionalità.
Max, con il Rozzo e i suoi amici, stavano cercando in fretta e furia di avviare la macchina, così da
filarsela.
Gli altri, erano sparpagliati intorno alla casa e paralizzati dal terrore.
Senza sapere dove andare né cosa fare.
Fermi tutti, nessuno si muova. Come da copione.
Voi quattro, giù dalla macchina. Con le mani in vista.
Tu, spostati dal motorino.
Tutto avvenne con precisione, senza sbavature.
Almeno adesso sapevano che cosa fare. Dovevano solo obbedire agli ordini.
Mettetevi contro il muro. Piano, senza correre e senza fare movimenti bruschi.
Adesso gli agenti vi perquisiranno, e voi starete tranquilli.
Ecco, così, bravi. Tu vai insieme agli altri. Così, faccia e mani appoggiate al muro.
Gambe divaricate. Non c'è da lamentarsi né da piangere. Dovete stare solo fermi e farvi perquisire.
E basta. Zitta tu, non alzare la voce.
Intanto qualcuno era sceso dai piani di sopra e aveva fatto rapporto al superiore.
-Hai già chiamato l'ambulanza?
-Sì commissario.
Era l'unico che non vestiva la divisa. Allargò le braccia e si diresse verso di loro scuotendo la testa.
-Ragazzi... - cominciò.
Partiva ora la girandola delle parole e dei rimbalzi di responsabilità.
Una bella parata di personaggi era pronta ad entrare in scena.
Ciascuno con la sua divisa, ruolo e funzione.
Gli inquirenti, il procuratore, i giudici dei minori, gli avvocati, gli assistenti sociali, gli psicologi, il
sindaco, i preti, le famiglie, il paese sgomento, la nazione allibita.
Il teatro giuridico-antropologico con la sua eterna rappresentazione.
E le voci dei vivi, di nuovo e come sempre, a ricoprire e seppellire per la seconda volta,
definitivamente, il corpo di un ragazzo morto. Chiacchiere letali come sostanze corrosive. In grado
di divorarne anche l'ombra, di risucchiarne l'anima, di fagocitarne la memoria.
Fino a che non sarebbe calato il sipario.
E tutto sarebbe tornato, più o meno, come prima.
88
Trentatreesima, lui
L'ultima persona gentile con me. Gentile. Strana questa parola. Incongrua. Noi non siamo gentili. Di
solito. E nessuno è gentile con noi. Strafottenti. Sia noi che loro. Ma Rachid lo è stato.
Ero spaventato a morte. Credevo di avere incontrato ancora il tossico. Quello con la siringa piena di
sangue. Che voleva bucare anche me. E portarmi all'inferno con lui. Brutto posto il bosco. Le favole
parlano chiaro. Anche i boschi tristi qui in giro. Ma lui è stato gentile.
Io sono scappato. E per la fretta sono scivolato. Battendo la testa. Lui si è buttato sopra di me. Non
ho urlato. Avevo paura degli altri. Che mi sentissero. Ma lui non aveva brutte intenzioni. Mi ha dato
la mano. Mi ha aiutato a rialzarmi. Ha preso un fazzoletto di carta. E una bottiglietta d'acqua. Dalla
borsa nera. Sulla ruota della bicicletta. L'ha bagnato. E me l'ha appoggiato sulla testa. Poi mi ha
dato da bere. Dar da bere agli assetati.
Mi chiamo Rachid. Così mi ha detto. Ho visto i tuoi amici. Andavano verso la cava. Quelli non sono
più miei amici. Gli ho risposto. E per poco non mi son messo a piangere. Che vergogna.
Abbiamo parlato un po'. Lui però non parlava molto bene. Mi ha raccontato che veniva da Agadir.
Mi ha spiegato che è sull'oceano. E che il suono delle onde è magico. Aveva fatto tremila
chilometri. Un po' in nave un po' camminando. Due frontiere a piedi. Tra le montagne. E ora si
trovava in quel posto di merda. Abitava nel bosco.
Così mi ha detto. Faceva il taglialegna. Il suo padrone gli aveva trovato un posto. Una baracca dove
dormire. È da quella parte. E aveva puntato il dito. Aveva unghie lunghe e nere. Lo aveva sfruttato
per bene. E adesso non lo pagava da sei mesi. Gli doveva tremila euro. Il figlio di puttana. Un euro
per ogni chilometro. Curiosa coincidenza. Questo l'ho pensato io. Per quello non se ne andava.
Doveva aspettare nel bosco. Che lui lo pagasse. Fino all'ultimo euro. Fino all'ultimo chilometro.
Come vivi gli chiedo. Domanda scema penso. Mi arrangio. Logico che mi risponda così. Un po'
giardiniere un po' muratore. Un po' qualche amico. Già. Gli amici. Mi verrebbe voglia di
raccontargli. Ma è complicato. Preferisco tacere. Né lui mi chiede niente. Ha gli occhi neri come la
pece. E i capelli crespi. Avrà sì e no vent'anni.
Però una cosa gliela chiedo. Deve aiutarmi ad andar via da lì. Visto che mi sono perso. Voglio
rischiare. Tornare alla cascina. Prendere lo scooter di Dardan. E scappare via. Via da tutto. E lui lo
fa. Mi aiuta. Gli stringo la mano. Bella Rachid. Lui mi guarda con gli occhi gentili. Neri lucenti e
buoni. Non li avevo mai visti. Degli occhi così. E si tocca il petto.
Mentre quelli che mi aspettavano lì sopra. Tutt'altra cosa. Occhi spenti. Fiato mozzato. Arresto
cardiaco. Forse. Guardo Alì e sbarro gli occhi. Per un tempo lunghissimo. Vorrei piangere. Ma non
ci riesco. Vorrei urlare. Ma dalla gola non esce niente. Lo scuoto. Una volta. Due volte. Tre volte.
Ma quello non si muove. Mi giro e vedo quello scemo. Il guardiano tonto. Con gli occhiali a terra.
Che sembra paralizzato. Gli do un calcio. No. Era una spinta. Gli urlo stronzo. O forse sto zitto. Già
me ne sono dimenticato. É lui a urlarmi qualcosa. Che non c'entra. Che lui non ha fatto niente. Che
non lo ha toccato. Non mi volto. Monto sullo scooter. E scappo col cuore in gola.
89
E' stato nel tragitto dal bosco a casa. Tutto è diventato chiaro. Ormai potevo fare solo una cosa. Che
è quella che sto facendo. Fatti concatenati. Uno dopo l'altro. Come i giochi della play. Ferrea
necessità. Fai una cosa ne segue un'altra. E poi un'altra. E poi un'altra. ABCDE. Non potevi
prevedere. No. Ma alla fine è chiaro. Che nell'inizio è scritta la fine. E qualcuno deve pagare. No
non è colpa mia se quello scemo è morto. Lo so. Avrà avuto il cuore debole. Non avrà retto. E io
non l'ho nemmeno sfiorato. Ma non ha importanza. La catena ha colpito me. A caso. E sarò l'unico a
dover pagare. Un prezzo così alto. Gli altri se la caveranno con poco. Ma degli altri non m'importa.
Ora qui ci sono io. Solo io.
In questa vasca. L'acqua ora è tiepida. E non voglio che si raffreddi. Basta cazzate. Basta pensieri.
Sfioro un braccio. Poi l'altro. Con le dita. E riafferro la mia amica. Dal portasapone bianco. Luccica
come una stella. Bagliori tutt'attorno. Bella sensazione. Bella Rachid. Bella gente. Bella Franci.
Bella mamma. Bella Lore. Bella Alì. Tra un po' ci rivediamo. Ma è più no che sì.
Affondo la lama nelle vene. Azzurre e trasparenti. Qui sotto la mia pelle. Prima sul braccio destro.
Poi sul sinistro. Fiotti arancio sotto il pelo dell'acqua. Guardo il soffitto. Sembra altissimo. Un
ronzio in testa. Che subito si attutisce. Mi pare di rilassarmi. Nelle narici quell'odore. Poi i sensi si
spengono. Ora sì che tutto quadra. Io sì che ho avuto coraggio. Io sì che ho saputo osare.
90
Trentaquattresima, loro
Gli agenti perlustrarono ogni centimetro della casa. Aprirono tutti gli scuri, ma qualcuno di questi si
staccò dai cardini arrugginiti e cadde rumorosamente sul balcone o sul crocicchio di fronte
all'ingresso, con un curioso tonfo. Tirarono fuori le torce per illuminare gli angoli bui.
Avevano radunato tutti i ragazzi nel cortile, sotto la tettoia di eternit. Nessuno aveva avuto da ridire,
e del resto Alex non c'era. Anche Seba era stato portato lì, con la sua ragazza. Ridacchiava e cercava
di scroccare una sigaretta agli sbirri. Forse non aveva ancora ben chiara la situazione, e del resto
nessuno gli aveva ancora detto che Alì se ne era andato al creatore. I fumi dell'alcol ristagnavano
come nuvole dense sotto la sua cute, e più di una volta aveva dovuto sedersi perché barcollava. Lu
lo guardava impaurita.
Nello stanzone del primo piano, oltre alle mazzette di banconote false sparpagliate su un tavolino,
un poliziotto aveva trovato in un angolo un sacchetto di plastica del MegaX. Dentro c'erano varie
scatole di antidepressivi ed ansiolitici, alcuni piuttosto comuni altri un po' più ricercati: fluoxetina,
litio, paroxetina, eclonazepam. C'era un po' di tutto: confezioni in compresse, bustine in polvere,
pastigliette di vari colori, persino una boccettina dotata di un lungo beccuccio giallo per la
somministrazione in gocce – il che faceva pensare che erano state rifilate in diversi modi e
probabilmente all'insaputa dei ragazzi. Comunque, non sarebbe stato difficile ricostruire quel che
era avvenuto. Chi aveva fatto, e cosa, a chi. Ma era compito degli inquirenti stabilirlo.
Nel frattempo era arrivata l'ambulanza e il personale paramedico si preparava a portar via il corpo
esanime di Alì, dopo l'accertamento del decesso. Anche il magistrato era in arrivo, e sarebbe toccato
a lui disporre l'autopsia.
Nessuno dei ragazzi era stato ancora interrogato, al di là di qualche generica domanda. C'erano
diversi minorenni, e gli agenti non volevano certo correre il rischio di complicare la situazione, già
delicata. Si limitavano a tenerli d'occhio, e a non farli allontanare dal cortile, in attesa di ordini più
precisi.
I ragazzi si guardavano come storditi, senza riuscire a dire una parola. Tutto accadeva come in un
doloroso dormiveglia, dal quale ben presto – ne erano certi - si sarebbero risvegliati. Ma per il
momento stavano ancora dentro una specie di bolla trasparente, impalpabile ma ben visibile alle
loro menti appannate. Lenti nei riflessi, pigri nei movimenti, bocche impastate e cucite. Sembrava si
fossero appena risvegliati da un sogno – o da un incubo – del quale cercavano di decifrare il
significato misterioso. Il fatto però di trovarsi tutti lì insieme, e non nei loro morbidi letti
domenicali, circondati per di più da quegli uomini in divisa, con i volti oscuri e indecifrabili, e non
dal chiacchiericcio premuroso delle loro madri – non faceva che aumentare l'effetto di straniamento.
Ogni tanto i cellulari squillavano. I loro genitori, ignari e preoccupati, li stavano cercando, anche
perché nel paese si erano sparse voci incontrollate; i ragazzi rispondevano farfugliando qualcosa,
ma i poliziotti decisero, per ogni evenienza, di farsi consegnare i telefoni, così le comunicazioni
vennero interrotte.
91
Lì sotto la tettoia i ragazzi cominciarono a dar segni di noia e di stanchezza. Le sigarette ormai
scarseggiavano. Nessuno aveva un ipod a portata di mano. E poi dovevano stare zitti e immobili.
Quasi fossero dei delinquenti.
-Saprei io come farvi passare la noia – si limitò a dire uno degli agenti più anziani, vedendo il
Rozzo che sbadigliava. Il commissario gli lanciò un'occhiata, e la cosa finì lì.
Tutto si svolgeva con una certa dose di ordinarietà e di strano grigiore. E con insistita lentezza. I
movimenti, le perquisizioni, gli spostamenti, gli ordini – ogni azione sembrava aver perso di
spessore, come se rispondesse a comandi esterni che le comparse lì presenti si limitavano ad
eseguire. Senza alcuna partecipazione o passione. Lenti automi distratti cui era stata assegnata una
parte, quasi per caso. La bolla, anziché dissolversi, si ingigantiva.
Si percepiva nell'aria che qualcosa non andava, che c'era un che di innaturale in tutto quel che stava
accadendo, come se un velo di finzione fosse stato calato su di loro. Qualcuno guardava oltre i
boschi, oppure in direzione del cielo, come se da lì si aspettasse l'arrivo di qualcosa, di una
soluzione che ponesse fine a quell'atmosfera cupa e sospesa. Le facce dei ragazzi erano diventate
pallide ed estenuate, mentre gli agenti non vedevano l'ora di togliersi da quell'impiccio.
-La televisione, ecco cosa manca! – esclamò Matte, ad un certo punto.
Tutti si girarono verso di lui, come sorpresi da quell'ovvietà e soprattutto dal fatto di non averci
pensato prima.
-Cazzo è vero! – gli fece eco Seba.
Non bastarono le intimazioni degli agenti a riportare la calma tra i ragazzi, eccitati dalla imminente
prospettiva di finire inquadrati nell'obiettivo di una telecamera.
-Ma quando arrivano? - si domandavano ignorando le minacce dei poliziotti e scambiandosi sguardi
d'intesa inappropriati alla situazione.
La bolla grigia si andava dissolvendo, e tutto pareva ora riacquistare ritmo e colore.
-C'è un pulmino in arrivo, lo vedi?
-Dove?
-Ma va, quello serve a portar via noi.
-Dici?
Qualche faccia tornò terrea.
Comunque prima o poi sarebbero arrivati anche loro. Con tutto il circo al seguito. Era solo
questione di tempo.
Il cuore dello spettacolo che stava per andare in scena.
La macchina senza la quale nulla sarebbe stato visto, percepito e, dunque, sarebbe esistito.
Quando si intravvide la sigla di una famosa tv nazionale lungo la fiancata di un minivan, un fremito
si diffuse tra i ragazzi, come l'onda che si propaga da un masso caduto all'improvviso sulle acque
putride di un lago.
-Figo! - disse qualcuno.
-Ma quella è tele...?
-Sì! - gli fece eco un altro.
-Così! Bella!
Solo a quel punto la realtà riacquistò definitivamente forma e sostanza.
92
Trentacinquesima, lei
non ero mai stata su un'ambulanza, anche se qualche anno fa ero stata costretta a chiamarne
una, la povera nicolettacozzi finita sotto le ruote di un automobilista ubriaco, stavamo in villa per
una festa, la nostra biblioteca con parco della mia scuola precedente, che accoglieva generosamente
le mie classi speciali, speciali nel senso buono non in quello ministeriale, è ovvio, insomma c'era un
clima davvero bello, quando arriva qualcuno allarmato che parla di una ragazza a terra, proprio
sulla strada davanti a noi, usciamo e io la riconosco e sbianco, una mia ex alunna tanto per
cambiare, ma non perdo tempo, rientro in villa e chiamo subito un'ambulanza, che in pochi minuti
arriva, nicoletta viene adagiata sulla barella, dolorante ma cosciente, io le stringo una mano e
abbraccio la madre, rientriamo in villa, la festa prosegue, ma in tono minore, striature sottili
d'angoscia la pervadono, i ragazzi mi guardano attoniti, so bene che cosa vuol dire quello sguardo,
lo sgomento che ci sta dietro, e sanno che la mia risposta non può essere che quella, sì certo,
potrebbe capitare a ciascuno di voi, in qualsiasi momento, la vita è così fragile, ma io levo il calice
di bianco con bollicine e con un plastico sorriso di plastica urlo prosit, finché a mezzanotte, quando
già i genitori stanno portando a casa i ragazzi sbadiglianti, squilla il telefono nella villa semideserta,
e il fratello di nicoletta ci dice che è tutto a posto, che c'è solo una piccola frattura al perone, e un
po' di contusioni qua e là, e che il colpo alla testa non ha provocato nessuna lesione, solo un leggero
ematoma che si riassorbirà in pochi giorni, dio, che non esiste, sia ringraziato
ora invece ci sto dentro a un'ambulanza, e mi tocca fare l'angelo custode ad un altro mio
alunno, tanto per cambiare, di nuovo, questa volta è il turno del povero alexgraziani, vita fragile che
ha bisogno di ali immense, che io certo non posseggo, ma sono in pista e ballerò, farò fronte, come
sempre, qui in prima linea, e del resto chi altri, son tutti ucceldibosco, famiglia in diaspora, meno
male che mi è venuto in mente, quando l'unico a mancare all'appello era lui, parlava sempre della
casarifugio della nonna, tiziana mi ci ha portato, ma il filo di un presentimento mi ha condotto qui,
son strega non per niente, ora chiamerò a raccolta tutte le mie energie, anche le risorse dei
giacimenti più segreti, quelli che non sai neanche di avere, scorte tutte femminili che gli uomini
manco si sognano, con il loro blablabla inconcludente, balbettii di fronte all'ineluttabile
è strano stare all'interno di un'ambulanza, di solito le vedi da fuori, sfrecciare con quel suono
assordante, che qui in paese fa ancora effetto, le donne scostano lievemente le loro ordinate tendine
di pizzo, gli omoni con il bicchiere in mano si affacciano dal bar, mentre in città nessuno ci fa più
caso, è un rumore come un altro, un sibilo che è parte della colonna sonora metropolitana, ma se ci
sei dentro è tutta un'altra storia, e io mi faccio volentieri distrarre dalle paratie e dalle
apparecchiature che incombono sul faccino d'angelo, lui sì, che ho qui sotto gli occhi, e che quasi
non ho il coraggio di guardare
e allora preferisco fissare quella specie di fornelletto che sta accanto alla lettiga, chissà cos'è,
e il verdino della poltroncina dove mi hanno fatto sedere, credendomi la madre, figuriamoci, madre
io, ricordo quella volta che dichiarai solennemente davanti alla faccia scettica di una mia collega
93
che mai e poi mai mi sarei riprodotta, ci sono donne che non son fatte per la riproduzione e io sono
una di quelle, ma come, mi disse lei inorridita, con un residuo di cattolicesimo mai smaltito ed
inconscio nello sguardo, ne parli come se si trattasse di cosa meccanica, di biologia applicata,
perché, le rispondo col mio solito cinismo, avresti una spiegazione migliore
ci sono poi vari tubicini che scendono dal soffitto, e un paio di monitor, attorno a cui la
ragazza paramedica bravissima che mi sorride sta manovrando, ci sono anche degli armadietti con
l'antina in plexigas che di certo conterranno medicine, appena sotto una serie di guanti monouso, di
color turchese, guarda un po', l'ambulanza che diventa una specie di fataturchina, e quello cos'è, la
ragazza, che mi dice di chiamarsi cecilia, mi spiega che si tratta di un materassino a depressione, e
mi spiega come funziona, io fingo di ascoltare interessata, nelle orecchie il fischio continuo e negli
occhi le luci gialle che lampeggiano sopra di me, e che si riflettono lungo le superfici laccate di
questo portento della tecnica
è venuto il momento di fissare il ragazzo, non lo faccio più da alcuni minuti, da quando
poco fa aveva sussurrato la parola bosco, con la testa minuscola emersa a metà dall'acqua rossastra,
che gli entrava e gli usciva dalla bocca, e che quasi lo soffocava, e non son stata in grado di
trattenere un urlo, aveva detto bosco e poi era svenuto, l'ho afferrato e ho tolto il tappo, e non
sapevo come adagiarlo a quella superficie latteesangue, ma ho dovuto abbandonarlo per il tempo di
una chiamata, tiziana sbiancata in volto, lo ha fatto per me dietro di me, io che avevo dita
paralizzate e voce rauca, di nuovo un'ambulanza per salvare uno dei miei ragazzi vitefragili
ma questa volta temo sia, no non voglio nemmeno pensarlo, però sento mormorare fin da
subito dai solerti ragazzi della crocerossa che ha perso troppo sangue, il pallore della morte si è
diffuso lungo tutto il corpo, la faccia esangue, non ha più ripreso coscienza, è tornato nel bosco, e io
sono nel bosco con lui, fitto e nero, la luce non filtra e c'è un silenzio desolante, qui attorno è
l'assenza di speranza a regnare, regina la nera disperazione, sue ancelle l'angoscia e il terrore,
persino lo scalpiccio sulle foglie sotto il tunnel piegato dei rami diventa un suono cupo e raggelante,
e allora mi fermo e lui mi dà la mano, e mi guarda, e mi chiede, prof da che parte stiamo andando, e
io non so che cosa rispondergli, lo afferro e tiro il suo braccio in una direzione qualsiasi, qualunque
cosa pur di muoversi da lì, ma non c'è uscita, la galleria di foglie e l'intrico dei rami si infittisce
ancor più, e ogni crocicchio e ogni curva del sentiero non allude a un'uscita ma all'ingresso in un
antro più buio, ora anche la sua voce diventa spettrale, io gli parlo e non riesco a farmi ascoltare,
solo un respiro soffocato esce dalla mia bocca, lui si ferma e mi mostra i polsi squarciati, ecco ho
avuto coraggio e ho osato, il mio urlo è muto, ma non quello dell'ambulanza, che mi risveglia dal
torpore
il ragazzo è bianco come le pareti di metallo, come le curve della vasca da cui l'ho tratto,
come il latte che da piccolo succhiava e che ora forse lo disgusta
troppo rosso è uscito dal suo corpo, troppa vita forse, vita fragile, e le mie non sono ali di
angelo, per lui, che forse un angelo lo è ancora, ci vorrebbe un'ala immensa, un manto intessuto di
caso e di fortuna e di preghiere che non so e non posso dire, un velo azzurro sotto, una coltre di
stelle sopra, ad avvolgere il suo corpo che pulsa piano, e un bacio di una qualche antica divinità
sulla sua bocca che gli sussurri
puoi, puoi ancora, tu puoi
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Trentaseiesima, tutti
Fa un caldo bestia – pensò Matte, che si era pentito di non aver messo la canotta nera – quella rompi
di mia madre non voleva farmi uscire. Non è così che ci si veste per un funerale, mi ha urlato per
due ore, prima e dopo colazione. Con la scusa del casino che è successo mi sta più addosso del
solito.
Checcazzo, già sono obbligato ad andarci: fosse stato per me, me ne sarei stato a casa. Ma poi, non
eravamo agli arresti domiciliari? Ennò, il giudice ci ha dato un permesso speciale. Fa parte del
programma di recupero, anche se il processo non è ancora cominciato. Però hanno già deciso che
siamo tutti colpevoli.
Comunque fa proprio caldo, non ne posso più. Siamo saltati da maggio a luglio senza accorgercene.
Peccato che invece la scuola non la saltiamo. Anche per quella, dispensa speciale. Non è che abbia
capito molto come funzionano questi arresti domiciliari.
Non ho ancora visto nessuno della Ganga. Sono qui, blindato da mia sorella, che cura ogni mio
movimento. C'è un sacco di gente. Anche la tivvù ha mandato di nuovo i rinforzi. Le acque si erano
calmate per un paio di giorni, ma ora, con la scusa dei funerali, eccoli ancora tutti qui.
Ennesima fermata. Tipo via crucis. Non ne posso più. Sudo come un animale. Adesso mi levo la
camicia e resto a torso nudo. Greta si accorge della mia insofferenza e mi fulmina con lo sguardo.
Penso che voglia parlarmi, ma ancora non c'è stata occasione. Forse non ne ha il coraggio. O sono
io che non riesco a guardarla negli occhi.
Chi immaginava di trovarsi in questo casino? Ma basta, sennò mi scoppia la testa. Già fa caldo, ci
mancherebbe anche quello.
Ecco una fontana. Guardo mia sorella che non sembra capire. Giro gli occhi su di lei e sull'acqua
che scorre, più volte. Sembra fresca. Lei mi strattona e mi ributta nel serpentone. L'altoparlante sta
gracchiando qualcosa. Ma quello non è...?
Che imbecille quel Matte – stava quasi per lasciarselo scappare di bocca, quando Seba lo vide – ha
bisogno che lo scorti la sorellina. Io almeno ho un'accompagnatrice più seria. La grande
professoressa salvatutti, che voleva salvare anche me e non c'è riuscita. Mi è andata bene che non
ho precedenti (mio padre non conta) e che sono ancora minorenne, così hanno messo ai domiciliari
anche me.
Lei ogni tanto mi guarda e sospira, anche se vorrebbe fare l'indifferente, ma io non so davvero che
cazzo dirle. Non è tipa da avere pietà, compassione o cazzate del genere. E meno male. Anche
perché io non ho fatto niente. Quello è morto per i cazzi suoi. Avrà avuto il cuore debole. E chi
poteva immaginarlo?
A parte Matte non vedo nessun altro della Ganga, qui intorno. Bella banda che mi sono scelto. Certo
che anche quegli altri quattro coglioni. Max, con i suoi tatuaggi e le sue manie di grandezza. La
politica, e tutto il resto...
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Mi sta vibrando la tasca del giubbotto. Un messaggio. La Bonati mi guarda seria. Faccio
l'indifferente e sfilo l'iphone come per guardare l'ora. Dove sei amore? Già, dove sarà finita Lu?
Non ci vediamo da quando mi hanno svegliato a calcioni nel prato. Io la vedo ancora appesa
all'albero, minchia che incubo, mi fa venire ancora i brividi.
Credevo che non mi avrebbe più cagato. E invece mi manda cento messaggi al giorno, Continua a
dirmi che mi ama e che non mi lascia da solo. Non è che sono innamorato, o cazzate del genere. E
poi non ho certo bisogno della balia. Sono abituato a sfangarmela da solo, io. Però un po' mi manca.
Chissà se gli manco – Lu si sollevò sulle punte per cercare di scorgerlo, rischiando di inciampare –
secondo me non mi ha ancora visto, con tutta 'sta folla! Non risponde mai ai miei messaggi, però
prima mi ha scritto che è qui, e io ho voglia di vederlo, cazzo! Ci hanno chiusi in casa, non è giusto,
io non ho fatto niente. Sì, insomma, è successo un casino, è vero, ma io che cosa c'entro? E' stato
quel bollito, quella testa calda; quello a me ha fatto subito paura, io l'ho detto a Seba di mollarlo,
che era malato, ma lui non mi ascolta. Sono cose che voi donne non potete capire – così mi ha
risposto.
Speriamo che 'sta storia finisca presto, sennò io impazzisco, chiusa in casa poi! L'ho detto
all'avvocato che preferivo stare in galera piuttosto che a casa, e lui mi ha detto che avrebbe provato
a chiedere di farmi andare a casa di qualche parente, magari di mia sorella, quella più grande che è
sposata. Solo che lei sta lontano da qui, e anche se non posso vederlo...
Accidenti, adesso che finalmente qualcosa mi cominciava ad andare bene.
Quella cogliona della nana mi ha chiesto se per caso non mi sentivo in colpa – in colpa per che
cosa, stronza?
Va bé, meglio stare calma... ah, eccolo lì, vicino alla prof, che sfiga, ma io non posso muovermi,
sono inchiodata qui, come tutti gli altri...
E' stata Tiziana ad accorgersene. A proposito dov'è? - si chiese la professoressa Bonati che a stento
reprimeva il desiderio di accendersi una sigaretta - non la vedo. Magari tocca anche a lei di fare la
guardia del corpo a qualcuno. Non riesco più a pensare ad altro.
Si trovava ancora acceso sul tavolo in cucina, e lui lo aveva usato fino a un momento prima – prima
di infilarsi nell'acqua per massacrarsi i polsi. Alex scriveva bene, io questo lo sapevo. Eccome.
Tiziana me lo ha mostrato quando sono scesa dall'ambulanza. Devo aver fatto la mia solita faccia da
vaderetrosatana. Uno schermo grigio scuro, liscio come una palla da biliardo, che si accende solo
sfiorandolo. Occupa mezzo braccio, sottile come un'acciuga. E funziona come un libro o un
quaderno. Ci si può scrivere sopra, lo si può leggere, sottolineare. Però non fruscia e non fa nessun
odore. Tablet, mi ha detto che si chiama. E che cosa sarebbe? Leggi qui, mi fa lei sconvolta
puntando il dito su una riga che appariva nitidissima e che mi si è impressa nella mente, come se
fosse stata scritta con un inchiostro indelebile. “Io sì che ho avuto coraggio. Io sì che ho saputo
osare”. Queste sono state le ultime parole che Alex ha scritto prima di...
Anche nel bosco, sull'ambulanza, me lo aveva rivelato.
E' da allora che un tarlo mi scava nel cervello. Dove, come, quando e perché si è potuto creare un
così madornale equivoco. Non ho più chiuso occhio. Sono ormai sei giorni.
Abbi coraggio e osa. Anche a questo bel manichino con gli occhiali da sole lo avevo detto tante di
quelle volte! Possibile che abbia sbagliato tutto?
Lo fulmino con lo sguardo mentre afferra il cellulare dalla tasca del giubbotto. Possibile che sia così
scemo? Anche qui? Possibile che la sua bellezza sia riuscita ad annebbiarmi la mente a tal punto da
non capire che...? Possibile che non me ne sia accorta?
Gli stringo il braccio e lui mi fissa per un secondo. Sembra uno stoccafisso. Ma non riesco a
decifrare il suo sguardo, sepolto sotto il nero delle lenti luccicanti al sole. Un sole che non dà
tregua, oggi. Ma so che il suo sguardo sarebbe alieno anche se lui se le togliesse. Vorrei stringere
più forte fino a fargli male. Peccato che abbia dei muscoli d'acciaio, e che le mie dita siano deboli
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come è debole la mia ragione.
Una sconfitta totale, su tutti i fronti. Débacle, si direbbe in linguaggio militare.
Meno male che avvisto Tiziana. Mi sorride triste. Ricambio, mentre alzo appena la mano.
Che figura essere scortati dalla prof – si vergognò Dardan proprio mentre le due colleghe si
salutavano – però vedo che anche Seba si è dovuto beccare la Bonati. Almeno a me è toccata la prof
di mate, che si fa un po' di più i cazzi suoi. Speriamo che questa menata finisca subito. Sono già
stanco morto. E poi si muore di caldo.
Oggi mia madre mi ha detto che ha dovuto annullare il volo per Tirana. Era piuttosto arrabbiata. E
ci credo, aveva prenotato a gennaio su internet per tutta la famiglia, un prezzo ultraconveniente. Io
le ho detto che doveva annullare solo il mio biglietto. Mi ha risposto se per caso non mi ero
rimbecillito del tutto, o cosa. E me lo ha detto in albanese. Quando mia madre si incazza con me o
con le mie sorelle si mette a parlare in albanese, le viene meglio, più spontaneo. E trova subito le
parole giuste.
Peccato che non le abbia trovate quando ha saputo dagli sbirri dei casini nei quali mi sono trovato.
Non ha detto niente, nemmeno una parola, quando mi hanno scortato a casa per gli arresti
domiciliari. Solo mio padre ha avuto una reazione, che già immaginavo. Mi ha tirato uno schiaffo
che, a distanza di tre giorni, mi fa tremare ancora la mascella. Dev'essere ancora arrossata. Solo uno
schiaffo, senza dire nemmeno una parola.
Il loro silenzio è la cosa che mi ha fatto stare più male, quel giorno. Solo mia sorella, la sera, è
venuta nella mia camera e si è messa a parlare con me. Scherzava un po', cercava di distrarmi. Però
mi ha fatto capire che i nostri genitori erano preoccupati perché... beh, logico, noi siamo albanesi,
abbiamo la data di scadenza del permesso di soggiorno stampata sulla pelle, non solo sul foglio in
questura. Siamo stranieri, già ci stanno addosso. Cazzo, che casino!
Ecco Gin. Sta ridendo come una scema, come se fossimo a una festa e non a un funerale. Va bene
che bisogna sdrammatizzare, però...
Certo che ha proprio un'aria sconvolta – pensò Tiziana mentre ricambiava il saluto – forse non avrei
dovuto mostrarle l'ipad di Alex, c'è rimasta di sasso. Si sente responsabile, anche se non riesco a
capire perché e soprattutto di che cosa. Ha solo scritto quello che gli era successo nel bosco, e poi
che aveva visto Alì con la testa che gli sembrava spezzata, ed era scappato via, e frasi sconnesse, e
che stava riempiendo la vasca nella casa di sua nonna, e che sarebbe andato tra poco a dormirci per
sempre, cose così. Certo, fanno impressione, ma non capisco la sua reazione.
Cos'avrà da ridere la Gerardi, poi. Persino Dardan oggi ha la bocca cucita e i denti a posto.
Però, che caldo. Se penso che c'è ancora un mese di scuola, e poi gli scrutini, e dopo gli esami –
arriverò a luglio cotta e stracotta. Dirò a Edoardo di portare i bambini al mare, una settimana in
giugno. E se gli fanno problemi in ufficio potremmo proporlo a sua madre.
A proposito di madri, stanno sorreggendo quella del ragazzo, riesco a vederla da qui, ha la testa
ricoperta di veli, ma non sembrano neri. Se penso che solo una settimana fa era venuta a colloquio,
con il suo italiano stentato. Sembrava preoccupata, ma io l'ho tranquillizzata. Chi poteva pensare
che sarebbe successo tutto questo...
Io adesso a questa cretinetta tiro un ceffone!
Minchia, mi ha sgamato – Gin abbassò la testa, ma non riuscì a trattenere il riso – adesso basta,
però. Devo fare la seria. È che non ci riesco. Quando mi scoppia la ridolera non mi ferma più
nessuno. Lo so, lo so, non si dovrebbe ridere a un funerale. Non sono mica scema.
Faccio segno alla prof di mate che ho capito, che è tutto a posto e che adesso mi comporterò come
si deve.
Però che voglia di fumare. Sicuro che non si potrà. Già i miei mi hanno fatto un sacco di menate.
Ecco a frequentare certi ragazzi che fumano, si drogano e chissà che cos'altro combinano. Come se
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io non fumassi già prima di arrivare in questo paese del cazzo.
E poi, cosa vogliono da me? Sono stati loro a portarmi qui. Io in città ci stavo bene. Avevo i miei
amici, i miei giri, le mie storie. Se loro non si trasferivano qui mica mi trovavo in questo casino, è
poco ma sicuro.
Oh no, mi ha visto. È quello sfigato di Quattrocchi che mi saluta. Si sbraccia, pure. Pensavo che sua
madre lo avrebbe sepolto vivo, e invece si vede che lo ha obbligato a venire. Ma no, perché si
avvicina a me? Meno male che la mammina se lo tiene stretto, e non molla la presa.
Però quasi quasi la sizza la chiedo a lui. Allora si che ci sarebbe da ridere.
Gliel'ho detto che non ci volevo venire – piagnucolò Quattrocchi mentre la madre gli afferrava il
polso e lo rimetteva nella fila – ma lei ha insistito. Ha detto che era un mio dovere e che non c'era
nemmeno da discuterne.
Sicuro che in galera mi trattavano meglio. E poi io già ci stavo agli arresti domiciliari. Solo che
adesso, dopo quello che è successo, è diventato carcere duro. Più che per i mafiosi. Niente cellulare,
niente internet, niente play. Niente di niente.
Devo rifare io il mio letto, riordinare la stanza, asciugare i piatti, portare in cortile la spazzatura. E
metterci non più di un minuto. Meno male che non posso uscire di casa, se no mi toccava anche
portar fuori il cane mattina e sera. Più sfigato di così.
Gin mi sta guardando storto. Domenica volevo chiederle di uscire, ma poi è successo tutto quel
casino. Chissà se mi avrebbe detto di sì. Le avrei offerto qualcosa, magari un gelato. E le avrei
chiesto... boh, non lo so, non mi viene in mente niente, avrei cercato di fare il simpatico, di
raccontare qualche barzelletta, di farla ridere. Però lo so che sono imbranato con le ragazze.
Max mi ha detto di non preoccuparmi, che crescendo sarei diventato più coraggioso. Che stavo già
dimostrando di essere uno tosto, e che nessuno se lo aspettava da me. Neanche lui, sicuro. Che
l'apparenza inganna, a volte.
Max, peccato che non posso più vederlo. E dire che all'inizio avevo l'impressione di stargli un po'
antipatico. Non tanto, solo un po'. Lui oggi non c'è. Non dev'essere un bel posto dove si trova
adesso. Spero di non finirci anch'io.
L'avvocato mi ha detto di stare tranquillo – si lamentava Max in quel momento, nella cella dove lo
avevano recluso – come si fa a stare tranquilli con tutti questi stronzi che ci sono in giro. L'ho
sentito quello che hanno detto alla televisione. Come stanno parlando di noi: i soliti giornalisti froci
e comunisti. E poi anche quelle psicologhe femministe del cazzo, con le loro spiegazioni. Disagio
sociale, culturale, vuoto di valori. Un mare di cazzate.
Mi ha detto di stare attento al linguaggio, di misurare le parole, il mio avvocato. Lo so anch'io,
coglione. Ma questo non gliel'ho detto. Adesso dobbiamo solo pensare a come tirarti fuori di qui.
Trovare le attenuanti, togliere di mezzo ogni eventuale aggravante, stabilire bene le responsabilità di
ognuno; poi mi ha citato il codice e gli articoli tal dei tali. Ma io stavo già da un'altra parte con la
testa.
Chissà se il Rozzo e il suo amico sono qui anche loro, o li hanno spediti a un altro carcere. Mi sono
dimenticato di chiederlo all'avvocato, anche se mi aveva detto che di solito in questi casi non si
viene mandati nello stesso posto, e di sicuro non nella stessa cella. E la loro amica, quella pazza
furiosa? Non mi ricordo neanche se era già maggiorenne.
E comunque sono da solo, come se fossi in isolamento. Si mangia da schifo, fa un caldo bestia, e c'è
una puzza di fogna che mi dà la nausea.
Te lo sei meritato, mi ha detto quello stronzo di mio padre, mentre mia madre ha fatto la
lacrimevole mezza disperata. Mi fanno vomitare anche loro. Sono vecchi nella testa, e mi devono
solo lasciare in pace. Io ho le mie idee e loro... non lo so cosa pensano, loro, non l'ho mai capito. E
comunque non me ne frega niente. Però non glielo posso dire, se no chi paga l'avvocato? Tra l'altro
è pure un amico di papà.
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Ma chi è che sta urlando? Non bastano il caldo e l'odore?
Lo dicevo io, che prima o poi sarebbe successo – la bibliotecaria arrancava di malavoglia nel corteo
funebre, il più possibile discosta da tutti gli altri, specie dai ragazzi – accidenti, ma chi me lo ha
fatto fare di mettermi ancora queste scarpe? Avrei dovuto chiuderle nell'armadio, e dimenticarmene.
Ma poi lui si sarebbe offeso. Già è stato così gentile a regalarmele, non è che capita tutti i giorni.
Però poteva pensarci meglio, mi conosce abbastanza per sapere che il mio guardaroba è di tutt'altro
genere. Comunque questa sera dovrò essere più elegante del solito, e certo sfoggiare di nuovo le
scarpe col tacco alto, altrimenti me lo scordo un altro invito a cena.
Se solo avessi potuto evitarmi questa scarpinata. Furba la mia collega. Ci vai tu al funerale, vero?
Perché, è proprio necessario andarci? Guarda qua – e mi sventola davanti agli occhi la lettera
dell'assessore che ci chiede di chiudere la biblioteca in segno di lutto e di partecipare alle esequie.
Ce lo chiede, non è che ce lo ordina. Però...
La furbona, con la scusa che così lei può passare un pomeriggio coi figli, e portarli al MegaX, mi ha
chiesto con tutto il miele di cui è capace se non potevo farle questo piacere, e di andarci io al
funerale.
E vabbé. Dopotutto la storia del furto l'avevo seguita io, ho parlato io con la direttrice e le
insegnanti e – purtroppo – sono io che conosco meglio i ragazzi.
Non son più quelli di una volta. Io non li riconosco più. Non si può far niente con loro. Non leggono
niente, non ti ascoltano, non capiscono. Sono... dei perfetti alieni. Proprio così.
Poverino, però, quel ragazzino. Non meritava di fare quella fine.
Si muore di caldo. Non che m'importi più – Alì stava immobile, al buio e con le mani incrociate sul
petto - però in questa bara si soffoca. Davvero. Comunque c'è un sacco di gente qui dietro a me. Ho
scoperto che si dice feretro. Adesso che non sono più arrabbiato posso anche usare parole come
queste, evitando di dire parolacce. Tanto non servirebbe a niente. Ormai sono in pace, con me stesso
e con il mondo.
Non ho ancora ben capito dove mi porteranno. La prima parte del funerale è come tutti i funerali
che si fanno qui: il corteo funebre, con dietro i parenti, gli amici, la gente che ti ha visto una volta
sola nella vita, o che magari non ti conosceva nemmeno. Poi alla fine ci sarà una benedizione, in
una stanza del cimitero, con rito islamico. Verrà detta una preghiera da un imam venuto dalla città.
Qui in giro non ci sono moschee, mentre ce n'è una importante in città, dove sono stato qualche
volta in occasione di feste importanti. Mio padre mi costringeva ad andarci, anche se io non ne
avevo voglia.
Mi è venuta l'idea per un testo rap. Così, per concludere in bellezza. Però non so chi potrebbe
cantarla, visto che ce l'ho tutta in mente, ma ho la bocca sigillata, e non credo che basti averla in
testa. Sono bloccato qui, e mi sa che lo sarò ancora per un bel pezzo. Forse dovrei dire per sempre.
Però non mi sono ancora abituato a questa nuova condizione.
Non capisco perché, pur essendo morto, riesco ancora a pensare. Sono sicuro di non sentire più
niente. Non mi ricordo più nemmeno che cosa ho sentito quando sono morto. Se non la vaga
sensazione di... qualcosa che mi si è rotto dentro, e poi...ecco, non me lo ricordo più. Ma poi, che
importa?
Devo solo abituarmi a questa immobilità. E a questo caldo. Anche se in teoria non dovrei sentirlo,
visto che non dovrei sentire più niente, no? E poi magari tra un po', quando mi caleranno giù in
quella buca che già hanno scavato ieri, di sicuro sentirò più fresco. E starò bene, come non sono
stato mai. E potrò pensare tutto il tempo alle mie canzoni. Finalmente.
Certo che fa caldo in questo ospedale – pensò Alex nell'esatto istante in cui la bara di Alì veniva
calata nella buca che gli avevano destinato – si vede che l'aria condizionata non funziona. O che è
ancora presto per accenderla. Dovrebbe essere maggio, a meno che... già, potrei trovarmi qui da
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molto più tempo, senza neanche essermene reso conto. Ma no, impossibile, avrei le braccia e le
gambe più rigide. E poi sarei molto più simile a... a uno zombi, o qualcosa del genere.
E' vero che quando sei in coma ti nutrono con le flebo. Diventi una specie di macchina, o sei la
parte biologica di una macchina più grande. Mamma diceva così, e diceva anche che lei non
avrebbe mai voluto vivere così. Attaccata a una macchina, come quella ragazza... come si
chiamava? Per più di 15 anni... No, io sicuro che sono qui da pochi giorni. Sento che il mio sedere è
in buone condizione, se no avrebbe già delle piaghe, no?
C'è silenzio qui attorno. Mi pare di avvertire solo uno strano ronzio. Sarà quello delle mie amiche
macchine. Io non lo so se ci vorrei stare attaccato così tanto tempo. Proprio non lo so. E comunque
non dipende da me. Mica mi posso staccare da solo. Però, magari un'altra soluzione ci sarebbe...
Solo che non mi viene in mente.
Non capisco nemmeno se qualcuno può entrare in questa stanza. Se possono vedermi da vicino,
toccarmi... o se chi mi viene a trovare può solo stare dietro a un vetro. Boh?
Chissà cosa stanno facendo gli altri adesso? Chissà se... Già, lo avranno fatto a quest'ora, sicuro.
Tutto finito. Almeno lui è a posto. In pace, sottoterra.
Mi viene da grattarmi, qui ai polsi. Ma le bende sono spesse, e anche volendo non posso muovermi.
Non so nemmeno dire se ho fame. Certo che però una bistecca... Ma no, al solo pensarci mi viene la
nausea.
La porta si sta aprendo, si infila piano nel cono di luce una sagoma bianca, dev'essere una delle
infermiere che tutti i giorni mi accudiscono. Non riesco a vederla in faccia, ma da come cammina
e... sì, insomma, da come è fatto il didietro direi che è quella più giovane. Chissà se è anche carina?
Armeggia un po' con i fili delle mie macchine, senza nemmeno guardarmi, controlla di sfuggita i
monitor e piano, così come era venuta, se ne va. La porta si richiude e tutto sprofonda di nuovo nel
silenzio.
Non capisco se sia giorno o notte.
Troppe le cose che non so, qui bloccato in questo letto.
Però il filo di un pensiero sembra riannodarsi, all'improvviso.
Adesso mi è venuto in mente: ecco che cosa potrei fare!
Ma sì, direi proprio che è una buona idea.
Senza perdere altro tempo.
Adesso lo faccio.
Adesso mi sveglio.
(md – stesura definitiva, febbraio 2012)
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