Per una cultura dell`accoglienza
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Per una cultura dell`accoglienza
Da Lampedusa al Brennero Per una cultura dell’accoglienza Che cosa resterebbe da fare a un tuo emulo oggi, caro San Cristoforo? Qual è la Grande Causa per la quale impegnare oggi le migliori forze, anche a costo di perdere gloria e prestigio agli occhi della gente e di acquattarsi in una capanna alla riva di un fiume? Qual è il fiume difficile da attraversare, quale sarà il bambino apparentemente leggero, ma in realtà pesante e decisivo da traghettare? (Alexander Langer, 1990) Quaderno della Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus Nr. 3, maggio 2015 Indice Editoriale, pag. 2 Apriamo le nostre porte, di Alexander Langer, pag. 2 Premio Langer 2014 a Borderline Sicilia, pag. 3 Monitorare l’indifferenza intervista a Borderline Sicilia, pag. 4 Africa in movimento di Anna Maria Gentili, pag. 8 Negare non equivale a impedire di Gianfranco Schiavone, pag. 12 E i profughi intanto che fine fanno? di Luigi Manconi, pag. 12 Il permesso di ingresso per “ricerca di lavoro”, intervista a Enrico Pugliese, pag. 15 Migranti in transito. intervista a Fulvio Vassallo, pag. 18 Il patto d’accoglienza, di Fausto Stocco, pag. 22 Uomini e fantasmi. di Luigi Monti, pag. 24 La parola “aiutare” e la parola “grazie”, intervista a “I Girasoli”, pag. 27 200 euro e un biglietto per la Germania, intervista a Yaya e Samuel, pag. 30 Quel sogno ricorrente intervista a Carlo Bracci, pag. 34 I Dublinati, intervista ad “Asinitas”, pag. 36 Da Lampedusa al Brennero. di Monika Weissensteiner, pag. 38 Fratellanza euromediterranea, pag. 40 Da quando il Comitato scientifico della Fondazione ha deciso di assegnare il Premio Alexander Langer 2014 all’associazione Borderline Sicilia ci siamo imbattuti in due fortunate coincidenze. Dopo aver consegnato nel 1997 il primo premio Langer alla femminista algerina Khalida Toumi Messaoudi, siamo venuti a sapere che l’ultimo discorso di Alex tenuto al Parlamento Europeo il 29 giugno 1995 era stato proprio dedicato alle donne algerine che cercavano rifugio in un’Europa ostile e diffidente. Seconda coincidenza. Nel film “Alexander Langer, Uno di noi”, realizzato da Dietmar Höss nel 2007, si racconta tra l’altro la storia della nave Cap Anamur, messa in mare dall’omonima associazione tedesca, di cui l’ex comandante Stefan Schmidt e il responsabile del Comitato umanitario Elias Bierdel erano allora sotto processo ad Agrigento perché accusati di aver portato clandestinamente a Palermo, nell’estate 2004, 37 profughi del Darfur, salvati da un gommone in panne nei pressi delle coste libiche. Poi veniamo a sapere che questo fatto aveva segnato l’inizio dell’impegno di alcuni dei promotori di Borderline Sicilia. è iniziato così il nostro percorso di esplorazione e apprendimento che ha consentito di fare di “Euromediterranea 2014”, con la consegna del Premio Alexander Langer a Borderline Sicilia, uno spazio di confronto tra diversi volontari e associazioni che lavorano dal basso e nelle istituzioni per promuovere una cultura dell’accoglienza e dell’integrazione di profughi e immigrati. Questo terzo Quaderno della Fondazione, realizzato in collaborazione con la rivista Una Città, vuole rendere conto di questo lavorio e delle importanti relazioni che ci ha consentito di intrecciare. Un’analogo dossier, che consigliamo, è stato realizzato dalla rivista Gli Asini, con l’inserto “Accogliere o respingere” del numero 25, gennaio/febbraio 2015. Dopo Lampedusa, è venuto naturale che il Brennero, nostro prossimo, ci venisse incontro. Il Brennero è in Sudtirolo uno dei confini interni dell’Europa, che viene attraversato da chi intende raggiungere parenti e conoscenti nei paesi del nord e mette quindi in risalto alcuni nodi problematici della politica e della pratica d’asilo e d’accoglienza locale e internazionale. Migranti per mare Giulia Fantoni Hanno bevuto il mare i nostri fratelli migranti sorsi piccoli e poi grandi, sempre più grandi più grandi più grandi ma il mare era troppo grande per poterlo finire a sorsi e dopo gli spasimi e i tormenti, il respiro si placò Tra le onde, nel buio soli nell’immensità tra speranza e paura, furono lamenti sussurri preghiere rimpianti bestemmie ricordi grida dolore e nessuno che viene a salvarti Infine, quando rimase solo terrore, fratello mare pietoso se li abbracciò uno a uno e se li è portati nella pace e nel silenzio Ora i sacchi neri di morte tengono corpi lividi senza nome e invano, da dove sono venuti, altri affetti sperano ancora là dove tormenti guerra fame fanno buchi nella carne e voragini nel cuore Come ci manchi sorella Giustizia... (4 ottobre 2013, dopo la tragedia di Lampedusa) Dal libro: Sotto il cielo di Lampedusa Annegati da respingimento. Rayuela Edizioni, gennaio 2014 Apriamo le nostre porte Delle volte noi guardiamo ai rifugiati, in questo caso per esempio alle donne algerine, come una specie di peso per la nostra società. Invece noi dovremmo guardare con altri occhi. Accogliere persone che oggi nel loro paese non possono esercitare i propri diritti, o che sono addirittura minacciate spesso nella loro stessa vita. Accoglierle nel nostro paese è anche un investimento, è un investimento democratico che ci permette per il futuro di costruire i rapporti con coloro che in quel paese possono ricostruire un dialogo civile. Nel caso dell’Algeria, in particolare, noi tutti sappiamo quanto quella società sia oggi attraversata da contraddizioni profonde, in cui si mescolano eredità di un vecchio regime, una profonda attitudine antidemocratica e spesso violenta dell’integralismo islamico, in cui abusi da parte del potere -in particolare del potere militare- fanno perdere fiducia a molte persone. Allora vogliamo o non vogliamo sostenere coloro che possono in qualche modo essere una terza parte, una sponda diversa per la ricostruzione di un dialogo civile? E in questo le donne in Algeria, organizzate o no che siano, le donne che oggi rivendicano i loro diritti spesso contro un forte pregiudizio, in cui l’essere donna diventa motivo di persecuzione, l’essere donna e rivendicare diritti politici diventa oggetto di ulteriori discriminazioni; aprendo noi le nostre porte a loro, riconoscendole come perseguitate politiche, riconoscendo in loro delle titolari di diritto all’asilo, noi compiamo appunto un investimento democratico, un investimento di rippacificazione verso la società algerina, perché sappiamo bene che la società algerina avrà bisogno proprio di queste risorse per potersi evolvere in senso democratico. Quindi apriamo le nostre porte. Alexander Langer (1995) 2 Premio Langer 2014 a Borderline Sicilia Un ponte fra chi soffre e chi può imparare a condividere il dolore Da anni sul Sud Italia, e particolarmente sulla Sicilia, stanno ricadendo le urgenze (e le inerzie) di più mondi. I drammi dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia, con i conseguenti flussi di popolazioni in fuga da guerre, dittature, terrorismo, carestie, bande locali, in cerca di una nuova vita. Il sistema di accoglienza in Italia, ancora bloccato nella logica dell’emergenza, non può che essere giudicato fallimentare da un punto di vista umanitario e gravemente inefficiente relativamente al rapporto costi-efficacia degli interventi. Cieca e sorda appare l’ostinazione della Ue, che rifiuta di modificare il Regolamento di Dublino, secondo cui i profughi sono costretti a chiedere asilo nel paese d’arrivo, e che di fronte a emergenze come la guerra civile in Siria e il conseguente esodo, esita persino ad attivare procedure per il riconoscimento di permessi di protezione, come invece è avvenuto durante le crisi in Albania, ex Jugoslavia, Kosovo, Libia. Una delle condizioni indispensabili e preliminari per qualsiasi serio intervento è una sistematica indagine sul campo volta a portare a conoscenza della opinione pubblica e dei decisori a tutti i livelli, le reali condizioni dell’intero processo della accoglienza in tutte le sue ramificazioni. E diventa cruciale un’analisi sul ruolo che svolgono le istituzioni pubbliche e la miriade di onlus, associazioni, cooperative, che abbracciano realtà anche molto diverse fra loro. Alcune di loro si sono trasformate in strutture pletoriche, verticistiche, burocratizzate, in cui i costi per mantenere la struttura superano ampiamente quelli destinati all’aiuto, e dove a volte i lavoratori e gli utenti sono trattati come oggetti passivi, privi di voce e di capacità di iniziativa. Questa capacità di monitoraggio, senza la quale la parola “trasparenza” è una formula vuota e non sono concepibili politiche e interventi minimamente adeguati, è ciò che più caratterizza l’attività di Borderline Sicilia e il motivo principale che ci ha indotto a assegnarle il premio internazionale Alexander Langer 2014. La capacità di valorizzare e potenziare le iniziative già presenti sul territorio, consente a BS di promuovere un vasto raggio di iniziative con una struttura sorprendentemente “leggera”, formata attualmente di sole tre persone più tre collaboratori, tutti volontari, dentro una rete di relazioni che BS ha stretto sia con istituzioni e iniziative italiane ed europee, sia con realtà locali. Coadiuvata da centri universitari e da esperti, BS ha partecipato a una ricerca etnografica transnazionale sul tema dell’europeizzazione del diritto di asilo e di immigrazione in Italia, a Cipro e in Spagna, ricerca che, accanto ai rapporti sullo stato delle strutture di accoglienza in Sicilia, offre le basi per una aperta e seria discussione sul rapporto controverso fra salvataggio e militarizzazione, tipico delle operazioni Frontex e Mare Nostrum. Lo slogan di BS “esserci dove gli altri non ci sono” non sta solo a indicare la presenza di operatori sul campo, fonte di rilevazioni dirette e rigorose, che di per se stesse sono una critica alle informazioni distorte e superficiali di gran parte dei mass media su questi temi, ma è anche ricerca di interlocuzione con tutti i livelli istituzionali che contano, senza complessi e senza subalternità, secondo un principio per cui le regole della convivenza vanno rispettate, ma i cittadini hanno il diritto di conoscerle, di discuterle collettivamente ed eventualmente di partecipare alla loro riscrittura. Facilitare la partecipazione della società civile italiana ai processi decisionali delle organizzazioni e istituzioni nazionali e internazionali, è accanto al monitoraggio sul campo, il tratto distintivo del lavoro di BS. Questo sguardo al di là delle barriere, è forse il tratto che Alex Langer avrebbe amato di più, lui che si muoveva dal parlamento europeo e dal dibattito internazionale alla dimensione locale e di base, senza supponenza verso il primo ambito, senza paternalismi verso il secondo. E che proprio alla necessità di accogliere le donne algerine in cerca di rifugio aveva dedicato il suo ultimo discorso al PE il 28 giugno 1995 nel nome di una nuova fratellanza euromediterranea. Come quando BS si è fatta carico di combattere con mezzi legali gli attacchi di alcuni giovani palermitani a due ragazzi tamil, stimolando la solidarietà del loro quartiere di residenza. Come quando si è prodigata per identificare uno per uno i 17 giovani affogati vicino alle coste siracusane, mettendo in contatto le loro famiglie con la popolazione della zona. Uno per uno vuol dire riconoscere alle vittime il diritto alla sepoltura materiale e simbolica che connota l’appartenenza alla comunità degli umani -e dare alle famiglie un luogo per ricordare. Oggi il richiamo al dovere di memoria è spesso rituale. Ma la “memoria attiva” di cui parla BS è altra cosa, punta a promuovere conoscenza, confronto, cambiamento, estensione di buone pratiche a chi ne è escluso. Con l’iniziativa di Siracusa, si sono sottratti quei giovani al destino di “profugo ignoto” così frequente negli esodi di massa, cercando di oltrepassare il compianto effimero e impersonale delle celebrazioni ufficiali. Non ultimo, si è gettato un ponte fra chi soffre e chi può imparare a condividere il dolore. (Il premio dotato di 10.000 euro è offerto dalla Fondazione Cassa di Risparmio-Südtiroler Sparkasse di Bolzano/Bozen). Le deputate della presidenza della Camera, con Laura Boldrini e Marina Sereni, incontrano il 2 luglio 2014 Giovanna Vaccaro, Paola Ottaviano e Elio Tozzi, di Borderline Sicilia, Marianella Sclavi e Bettina Foa, Fondazione Langer (Foto Presidenza Camera). 3 Monitorare l’indifferenza Judith Gleitze è stata amministratrice del Consiglio per i rifugiati di Brandeburgo, Ong tedesca che si occupa dei diritti di profughi e rifugiati. Ha partecipato alla creazione di Borderline-Europe e nel 2009 è stata tra le fondatrici di Borderline Sicilia. Giovanna Vaccaro è responsabile per Borderline Sicilia del monitoraggio nella Sicilia centrale (Caltanissetta, Agrigento, Messina). Ti occupi di rifugiati da 20 anni. Judith. È stato intorno alla metà degli anni Novanta che abbiamo capito che l’arrivo dei rifugiati in Europa stava diventando un tema cruciale. All’epoca i rifugiati venivano prevalentemente dall’Est, c’erano i rifugiati ceceni che arrivavano dalla Russia, passando per la Polonia e quel confine era sempre più vicino. Alcuni colleghi infatti si sono presto spostati a Est, verso la Polonia, l’Ucraina; io invece ho preso la direzione dell’Italia. È stato in quel contesto che abbiamo creato Borderline-Europe. All’ultima riunione, la settimana scorsa, c’erano quindici volontari, in più lavoriamo in due a tempo pieno ma sempre pagati per massimo 10 ore la settimana. Oltre a me, Harald Gloede a Berlino. Come volontari, che lavorano regolarmente con noi, c’è l’ex comandante della Cap Anamur, Stefan Schmidt, che sta a Lubecca, ed Elias Bierdel, responsabile del Comitato umanitario Cap Anamur. La Cap Anamur è stato dunque un evento cruciale nella vostra storia. Puoi ricordare? Judith. La Cap Anamur è stata quel che si dice la goccia che ha fatto traboccare il vaso; a quel punto non si poteva più rimandare questa nostra idea di fare un’associazione che si occupasse dei confini europei, della Fortezza Europa. per noi era qualcosa di inaccettabile che delle persone potessero morire così, senza nemmeno sapere chi fossero Ricordo brevemente i fatti: nel 2004, la nave dell’omonima associazione umanitaria tedesca Cap Anamur era diretta in Iraq per portare attrezzatura ospedaliera. Era diretta verso il canale di Suez, ma nei pressi di Malta ci fu un guasto che venne riparato. Rimessisi in viaggio, durante un giro di prova, la Cap Anamur si imbattè, per caso, in un gommone alla deriva tra la Libia e Lampedusa con trentasette profughi subsahariani. Li salvarono. Da quel momento si scatenò un putiferio incredibile. Nessun porto infatti li voleva accogliere. L’Italia diceva che erano stati trovati nelle acque di Malta e quindi toccava a loro... Soltanto 21 giorni dopo, la nave ottenne il permesso di attraccare a Porto Empedocle, Agrigento e quei trentasette di- 4 sgraziati sbarcarono così in Italia, ma furono quasi tutti espulsi in Nigeria e in Ghana. Solo uno o due rimasero. Il presidente dell’associazione umanitaria Cap Anamur, il comandante e il primo ufficiale della nave vennero arrestati e subirono un lungo processo. L’accusa era favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: incredibile! Seguii personalmente l’iter giudiziario, che fu terribile perché distrusse la vita di queste persone: non avrebbero più potuto lavorare. In Germania infatti c’era stata anche una dura campagna mediatica contro di loro. A quel punto ci siamo detti: “Dobbiamo creare un’associazione che si occupi di queste cose”. Avendo nel frattempo conosciuto l’ex Comandante e il capo del comitato, abbiamo loro proposto: “Voi siete conosciuti, non vorreste venire a fare un’associazione con noi?”. Ecco, Borderline-Europe è nata così. Quando è iniziato invece il vostro impegno in Sicilia? Judith. Ero già venuta in Italia, sia come Borderline-Europe, ma ancora prima per il Consiglio dei rifugiati. Da metà degli anni Duemila, come dicevo, ho seguito il processo alla Cap Anamur e così ho intanto conosciuto Germana, che è appunto di Agrigento e fa l’avvocato. Assieme abbiamo seguito diversi progetti anche sui minori non accompagnati. Dopo qualche tempo però questo andirivieni non era sostenibile e allora ho deciso di trasferirmi in Sicilia e mettere su un gruppo, che è diventato poi Borderline Sicilia. Nel 2007 sulla spiaggia della riserva di Vendicari vennero ritrovati i corpi di diciassette persone. Erano egiziani e palestinesi, vittime del naufragio di una piccola imbarcazione partita dall’Egitto. Per noi era qualcosa di inaccettabile che delle persone potessero morire così senza nemmeno si sapesse chi fossero. Riuscimmo a recuperare i nomi e, assieme ai parenti arrivati, organizzammo una commemorazione che si è poi ripetuta per diversi anni, sempre a novembre. Da lì è nata l’associazione vera e propria. Nel 2011 è arrivata l’emergenza Nordafrica... Judith. Con l’arrivo dei primi rifugiati, abbiamo deciso di aprire un blog per documentare quello che succedeva in Sicilia. All’inizio accettavamo il contributo di tutti quelli che volevano scrivere. Se un ragazzo ci diceva: “Vengo in Sicilia a luglio-agosto, a Lampedusa, avete un lavoro per me?”. “Sì: monitoraggio”. C’era una sorta di vademecum su come scrivere, però, con tante persone diverse era difficile avere uno stile omogeneo, per cui c’era chi la prendeva larga: “Abbiamo preso il tè con le immigrate...” e chi faceva un report fin troppo conciso, testi molti diversi. Abbiamo subito creato anche dei blog con i testi in inglese e tedesco, per una distri- buzione più ampia. Una fondazione ci ha sostenuto per un anno per le traduzioni in inglese. Il blog tedesco, fin dall’inizio, ha funzionato solo con i volontari coordinati da una nostra collega. la nostra informazione è anche sempre una denuncia: quello che vediamo lo scriviamo Nel 2013, abbiamo deciso di cambiare metodo e di cercare delle persone responsabili per le varie zone, così oggi abbiamo Alberto per la Sicilia occidentale, Elio per la Sicilia orientale e poi Giovanna che gira nel mezzo, Caltanissetta, Agrigento, Messina. Infine ci siamo noi tre, Germana e Paola come avvocate e io come coordinatrice, che individuiamo i luoghi dove andare a monitorare. Ma cosa significa concretamente monitorare? Judith. Il problema è che noi -a parte poche eccezioni- non abbiamo accesso ai centri. Solo dopo un lungo iter di autorizzazione a volte ci viene concesso. Questo evidentemente non aiuta. A dicembre 2013 ho accompagnato una deputata del parlamento tedesco, che voleva entrare a Mineo e all’Umberto I di Siracusa, così sono potuta entrata anch’io. Quando è possibile cerchiamo di accompagnare chi ha accesso: giornalisti, politici, ecc. Altrimenti ci rechiamo in loco e parliamo soprattutto con gli immigrati che escono. Elio, Beatrice (fino a novembre 2014) e Lucia si recano al porto quando sanno dell’arrivo di una nave ma anche il monitoraggio in questo senso non è facile. Per esempio, già ad Augusta non è possibile entrare nel porto. Per questo, per raccogliere informazioni è molto importante anche parlare con gli operatori di Praesidium, cioè Acnur, Oim, Save the children e Croce Rossa. Oppure cerchiamo contatti con persone in loco. Per noi è sempre importante valorizzare le risorse locali che ci sono nei vari contesti e fare un lavoro continuo nei territori per creare e rafforzare la rete. In questi anni sono entrata diverse volte, sia a Salina Grande che a Trapani, Lampedusa, Mineo. Il fatto è che devi sempre chiedere. A un certo punto poi era diventato letteralmente impossibile, perché era uscita una circolare in base alla quale nessuno poteva più entrare. La ministra Cancellieri l’ha ritirata, però l’iter è rimasto sfiancante. Funziona così: tu chiedi il permesso, la richiesta viene inoltrata alla prefettura competente, Caltanissetta, Mineo, Catania, dipende, dopodiché loro la mandano a Roma e Roma decide. È un iter troppo lungo. Non vi limitate a raccogliere informazioni e inserirle nel blog, cercate anche, laddove possibile, di cambiare le cose. È un “monitoraggio attivo”. Judith. La nostra informazione è anche sempre una denuncia: quello che vediamo, lo mettiamo. Se poi io vedo che c’è una persona che da una settimana ha il braccio rotto e non viene curato, segnaliamo l’episodio alla questura, alla prefettura, e poi pubblicamente. Avvisiamo i responsabili: “Se tu non fai niente, noi lo dobbiamo rendere pubblico, mi dispiace”. Se serve? A noi interessa che serva all’interessato. Poi è chiaro che con queste azioni a volte succede che non vogliono più parlare con noi. Giovanna. Il monitoraggio a Caltanissetta era stato iniziato da tempo da Alberto, il quale aveva già notato gli accampamenti attorno al centro governativo la scorsa estate. Al mio arrivo in ottobre la situazione era peggiorata: erano ormai quasi duecento i richiedenti asilo costretti a vivere negli accampamenti attorno al centro governativo in attesa di avere accesso all’istanza di protezione, ma ora l’inverno era alle porte e il freddo si faceva già sentire. Poiché, nonostante l’evidenza di questa realtà, istituzioni e cittadinanza rimanevano totalmente indifferenti, abbiamo deciso di affiancare all’attività di monitoraggio (che eseguivo anche rispetto alle condizioni all’interno del centro governativo) una serie di iniziative che da una parte potessero coinvolgere gli autoctoni e attirare l’attenzione sugli accampamenti, dall’altra potessero garantire un supporto a queste persone abbandonate a loro stesse… quanto meno dar loro un segno di solidarietà. Così è iniziata una prima attivazione della rete attraverso una raccolta e distribuzione di indumenti, seguita dalle lezioni di italiano negli accampamenti, e, infine, da momenti di formazione sul tema del diritto d’asilo con altre importanti realtà locali, come, ad esempio, lo sportello immigrati (retto da oramai dieci anni da quattro volontari). Nel corso di queste iniziative non abbiamo comunque mai smesso di denunciare la situazione sul nostro blog e anche su altri quotidiani. i viaggi sono tremendi, possono durare settimane, ma anche anni La condivisione di questa esperienza con le altre realtà e con le persone che vivevano negli accampamenti è stata molto importante, sia per promuovere una conoscenza reciproca che per instaurare un rapporto di fiducia con le persone che vivevano negli accampamenti, anche dopo che queste sono entrate nelle diverse strutture di accoglienza distribuite in tutta la provincia (in cui le abbiamo ritrovate poi durante i monitoraggi successivi). Che cosa significa la vostra presenza sul territorio? Giovanna. Vogliamo essere un punto di riferimento per coloro che non sanno a chi rivolgersi, dare evidenza a importanti lacune istituzionali e intervenire concretamente con azioni dirette o attraverso segnalazione ad altre organizzazioni umanitarie. Sono diverse le storie che potrei raccontare, ma quella di M. è senz’altro quella che ha segnato particolarmente i miei mesi a Caltanissetta. Era gennaio e un pomeriggio mi trovavo a monitorare la situazione negli accampamenti insieme ai referenti dello Sportello immigrati. Alcuni dei ragazzi che ormai mi conoscevano hanno attirato la nostra attenzione su un ragazzo. Era seduto su di un materasso e un suo amico gli stava allacciando le scarpe, mentre lui era in completo stato catatonico. A raccontarci tutta la storia sono stati i suoi amici: M. era stato ospite del Cara fino a qualche ora prima, dallo scorso agosto. All’entrata al centro aveva con sé una prescrizione del suo psichiatra pachistano e degli psicofarmaci che gli servivano per i suoi disturbi. All’entrata nel Cara, come da prassi, tutti i medicinali gli sono stati sequestrati dai militari all’ingresso e da quel giorno, in un posto in cui M. non sarebbe neanche dovuto transitare, nessuno si è più preso cura della sua vulnerabilità e neanche del malessere che, in assenza della terapia, ha iniziato a manifestarsi in maniera sempre più evidente, fino allo stato catatonico in cui l’abbiamo trovato noi. Gli amici ci hanno raccontato di aver provato per settimane a segnalare il problema ai medici, ma che questi si limitavano a dire: “Se non è lui a dirci che cos’ha, non posso farci niente” e, poiché M. perdeva man mano tutte le facoltà (gli si doveva dire “vai in bagno, bevi, mangia”), non sapendo più cosa fare lo hanno convinto a firmare una rinuncia all’accoglienza per trovare il modo di fargli raggiungere lo zio a Roma, per poi provvedere a rimpatriarlo, perché neanche lui sapeva cosa fare. E così è stato dimesso dai responsabili 5 dell’ente gestore del centro, nonostante si trovasse in condizioni tali da non poter neanche affrontare un viaggio da solo. E infatti, quel pomeriggio, l’intenzione dei loro amici era quella di accompagnarlo in stazione con la speranza di trovare un connazionale a cui poterlo affidare per il viaggio verso Roma. Abbiamo allora proposto ai suoi amici di darci la possibilità di trovare una soluzione: in quello stato non poteva partire, ma soprattutto aveva diritto a un altro tipo di accoglienza. Inizialmente erano restii, del resto l’esperienza con chi nel centro doveva prendersi cura di lui non era andata troppo bene, quindi, perché fidarsi. Seppur diffidenti hanno lasciato che attivassimo la rete locale per provvedere a un’accoglienza e all’accesso alle cure. Nel giro di qualche settimana, piano piano, è riuscito a riprendere le cure. L’ultima volta che l’ho visto mi ha detto che sta studiando l’italiano. È una storia che è finita bene. Ma è stato solo un caso. Non tutte vanno così. Ma qual è l’iter che aspetta chi sbarca nel nostro paese? Giovanna. I viaggi sono tremendi, possono durare settimane, ma anche anni. Stanno chiusi per giorni in questi tir, tant’è che ormai hanno imparato e iniziano a non bere dal giorno prima, perché poi non hai modo di... così si disidratano però. Judith. La rotta Libia-Italia è drammatica, arrivati in Libia sono costretti a lavorare per mettere assieme i soldi e molti finiscono in carcere. in questo periodo di crisi, tanti operatori degli Sprar confessano agli stessi immigrati di non poter far nulla Giovanna. Tanti non arrivano. Judith. Le donne subiscono pressoché tutte delle violenze incredibili. Comunque quando arrivano vengono trasportati spesso su una nave militare ma anche su navi cargo a Porto Empedocle, Pozzallo o Augusta, o in altri porti siciliani o della terraferma. Da lì vengono smistati, ma siccome non c’è posto è altamente probabile che dopo quel viaggio terribile, finiscano in una tenda. Dalla fine del 2013 viviamo di nuovo in uno stato di emergenza, anche se non è stato proclamato. In questa fase dell’accoglienza il problema più grave è che non ci sono i posti. Il rischio è che qualsiasi appartamento possa diventare accoglienza: ci metti dentro un tot di persone e ti guadagni un bel po’ di soldi. Le convenzioni sono scarnissime, alla fine il messaggio che passa è: cerchiamo posti, chi vuol partecipare? Certo, sulla convenzione c’è scritto che il Ministero dell’Interno si riserva la possibilità di monitorare, ma è difficile crederci perché proprio manca il personale. Comunque, una volta sbarcati, i rifugiati vengono smistati in centri più o meno informali, a volte in tendopoli, vecchie scuole, palestre o altre “strutture ponte”. Da lì dovrebbe seguire il trasferimento in un Cara, il centro per i richiedenti asilo o in un Centro d’accoglienza (Cda), per quelli che non vogliono fare la richiesta. Il fatto è che tali trasferimenti avvengono anche dopo mesi; 6 mesi di totale inattività. Nel centro Umberto I di Siracusa, una vecchia scuola, sempre sovraffollata, ci sono tutti questi uomini che trascorrono due, tre mesi senza fare nulla, senza nemmeno poter presentare la richiesta d’asilo perché a rigore lo possono fare solo in un Cara. Mesi che passano così, per niente. Quando infine vengono trasferiti (se non se ne sono andati prima, cosa che succede spessissimo) vanno in un Cara e, nel caso, in uno Sprar, centri pensati anche per i più vulnerabili dove dovrebbe essere previsto un accompagnamento più forte con un’integrazione fatta di scuola, formazione, ricerca di un posto di lavoro. Ovviamente, in questo periodo di crisi e pesante disoccupazione, tanti operatori degli Sprar confessano agli stessi immigrati di non poter far nulla per loro. Ora hanno aperto più di settemila nuovi posti, però, anche lì, metà delle convenzioni riguardano gestori nuovi, che non sai chi sono. Di gestori ce ne sono di tutti i colori, privati, cooperative cosiddette rosse, di tutto e di più e anche questo rende difficile il monitoraggio. L’accoglienza è anche un affare per qualcuno. Attualmente la tariffa per ospite (attenzione: riscossa dai gestori, non dai migranti) nei centri di prima accoglienza per richiedenti asilo è di trenta euro al giorno. Come trascorrono le giornate in questi centri? Judith. Non fanno niente perché non c’è niente da fare. O meglio, dipende dal centro. Non tutti i centri sono bruttissimi, però quelli grandi, governativi, sono tutti brutti, al massimo c’è un corso di italiano, però, se ogni giorno cambia l’insegnante, tu non riesci a seguire e allora non ci vai più. Se, come a Mineo, tieni il corso due o tre volte alla settimana, con duecento persone per volta, non ci vai più. Certo, possono uscire, ma dove vanno? Non hanno soldi. Quando va bene ricevono due euro e mezzo al giorno. Giovanna. La situazione è anche peggiore nei centri di primissima accoglienza arrangiati in qualsiasi tipo di struttura (tensostrutture, palestre, scuole) dove il tempo limite di permanenza dovrebbe essere di 72 ore (ovvero quello strettamente necessario per l’identificazione e individuazione di centri in cui collocare i richiedenti asilo) ma che spesso, troppo spesso, diventano i luoghi in cui i richiedenti asilo rimangano interi mesi, peraltro nella totale promiscuità: donne, neonati, uomini, minori. La situazione dei minori è particolarmente critica. Anche qui devo dire che la nostra presenza comunque un ruolo lo svolge perché è un occhio esterno che vede e che ha i mezzi per denunciare e segnalare ciò che vede. Judith. Comunque, per concludere l’iter, quando accedi a un Cara fai finalmente la tua richiesta d’asilo. Per il momento abbiamo dieci commissioni territoriali dove presentare la richiesta. Siccome non bastano, hanno riaperto altre dieci chiamiamole sub-commissioni, però, per dire, a Trapani, parliamo di una media di 12-15 mesi per essere sentito dalla commissione. Dovrebbero aumentare a 20 nel 2015. Ma già nelle commissioni esistenti il personale spesso non è ben preparato. Chi sceglierà i prossimi membri? Quali i criteri? Quale la formazione? Il fatto è che non c’è programmazione. Oggi tutti i media puntano a dire che ne “arrivano tantissimi”. Non è vero. Certo, se arrivano quattromila persone in due giorni la logistica va in tilt, ma sarebbe un problema per qualsiasi stato; su questo non si può accusare l’Italia. Quello che non si capisce è com’è possibile che ogni anno sia una grande novità che arrivano delle persone da paesi in guerra o dove non sono tutelati i diritti minimi. servirebbero dieci persone posizionate nei punti caldi, ma non possiamo permettercelo La vera colpa dell’Italia è di non aver imparato a gestire questa situazione. Sono dieci anni che viviamo nell’emergenza e questo è frutto di una precisa volontà politica. Noi in questo momento siamo in difficoltà perché non riusciamo a fare monitoraggio quando arrivano tutte queste persone in due o tre giorni. Servirebbero dieci persone posizionate nei punti caldi, ma non possiamo permettercelo. Facciamo quello che possiamo. Certo, d’inverno sono di meno, ma non mancano gli arrivi, nemmeno col mare grosso e molto più pericoloso. I flussi sono ovviamente legati a cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo. Per esempio da quando la Turchia ha chiuso le porte, i siriani hanno ricominciato ad arrivare via mare in Italia. Dipende sempre dalla situazione geopolitica. Comunque quando si chiude una rotta, non tarda ad aprirsene un’altra. I siriani adesso si imbarcano anche dall’Egitto. Rimane difficile generalizzare la tipologia di chi arriva, la situazione è molto variegata. Quello che possiamo dire è che arrivano veramente i più forti, se non altro perché sono sopravvissuti a viaggi inimmaginabili, dopodiché sono persone diversissime, si va dal medico siriano fino al contadino analfabeta. Quanto costa il viaggio? Giovanna. Anche quello dipende. Sembra che dall’inizio di Mare Nostrum, con la presenza delle navi militari nel Canale di Sicilia, la tariffa si sia abbassata e addirittura dimezzata perché i trafficanti organizzano viaggi su ogni tipo di mezzo che riesca a malapena a uscire dalle acque libiche. Ad ogni modo una famiglia di profughi per sfuggire a guerre, carestie e dittature è costretta a pagare migliaia di euro per assicurarsi un viaggio rischiosissimo nella speranza di salvarsi. Ora, senza Mare Nostrum, il pericolo e i prezzi aumentano di nuovo. Borderline Sicilia, in qualche modo, sta anche facendo giurisprudenza. Judith. Il lavoro di advocacy è molto importante per noi. Germana e Paola, assieme alla rete di organizzazioni e ai giuristi con cui lavoriamo, operano affinché questo lavoro di monitoraggio porti ad affrontare casi e cause pilota che possono creare una giurisprudenza. Io non sono un’esperta, ma, ad esempio, alcuni immigrati siriani senza permesso di soggiorno con problemi di salute arrivati in Italia, ma poi rifugiatisi in Germania, avevano fatto ricorso a un Tar tedesco per non essere rimandati in Italia. Ebbene, un Tar tedesco ha chiesto una perizia a Borderline-Europe sulla condizione di vita, accesso al servizio sanitario, ecc. è stata fatta una perizia di settanta pagine, grazie alla quale alcuni Tar hanno deciso di bloccare il trasferimento in Italia. Borderline Sicilia collabora inoltre con Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) per aiutare le persone vittime dell’incidente del 3 ottobre rimaste bloccate a Lampedusa, perché chiamate a testimoniare contro gli scafisti, insieme al ragazzo siriano che ha fatto il video. Siamo infine intervenuti per il ricongiungimento famigliare tra due persone finite una a Malta e una a Lampedusa. Ma sarebbero molti i casi da raccontare. Abbiamo seguito un caso pilota anche rispetto ai “respingimenti differiti”, riguardante nello specifico la competenza giurisdizionale dei ricorsi contro i respingimenti differiti emessi dalla Questura di Agrigento. Al momento di fare ricorso contro il decreto di espulsione, a causa di una lacuna legislativa, succedeva che il giudice ordinario, in questo caso il Giudice di Pace, si dichiarava incompetente passando l’incombenza al giudice amministrativo, al Tar, che a sua volta si dichiarava non competente. Insomma nessuno era competente. Nell’impossibilità di stabilire se spettasse al giudice amministrativo o a quello ordinario decidere nel merito, con un avvocato di Torino, Barbara Cattelan, abbiamo fatto ricorso alla Cassazione che ha infine indicato nel giudice ordinario il giudice competente. È diventato un precedente importante. Per noi è stata una grande soddisfazione. Sull’operazione Mare Nostrum le opinioni sono discordanti. Voi cosa pensate? Judith. Secondo me, semplicemente non puoi contrastare l’immigrazione con la militarizzazione. Non puoi dire, come ho sentito fare da un ammiraglio, che è una “operazione umanitaria contro i trafficanti”. È umanitaria o contro i trafficanti? Qui il problema è che si dà così un’immagine per cui i migranti sono qualcosa da contrastare, peraltro con una macchina da guerra. Allora, riguardo a Mare Nostrum, la cosa buona è che vengono salvate delle vite, però davvero l’immaginario è quello di una “Fortezza Europa” ancora più chiusa; già il verbo “contrastare” dice proprio che non li vogliamo, che li prendiamo giusto perché non possiamo farli morire lì. Oltretutto è un’operazione estremamente costosa: la sola Marina militare, da ottobre fino a marzo 2014, ha speso, secondo le nostre informazioni, circa quarantacinque milioni. Tra l’altro la Guardia costiera era molto amareggiata per questa decisione. Per lungo tempo sono stati loro a uscire in mare a tutte le ore, anche se sapevano che non venivano loro pagati gli straordinari. Questa operazione ci mette in difficoltà anche per un altro motivo. È in corso una discussione riguardo la presenza di organizzazioni non militari su queste navi. Io non sono d’accordo perché si avvallerebbe questa militarizzazione. Abbiamo la stessa discussione con Frontex, che è un organismo europeo. Nello specifico si sta discutendo della possibilità che Frontex possa fermare le barche, chiedere di identificarsi ed eventualmente riaccompagnarle nel paese da cui sono partite. Per fare questo è necessario che ci sia a bordo qualcuno che garantisca la tutela dei diritti umani e quindi cosa facciamo? Ci mettiamo uno dell’Alto Commissariato per i rifugiati? Ma sarebbe terribile! Andremmo a legittimare qualcosa di veramente brutto. Giovanna. In questo processo di delocalizzazione delle frontiere, noi non sappiamo quello che succede su quelle navi. Quando arrivano in porto sono cariche perché se il primo giorno ne soccorrono trecento, quei trecento poi devono aspettare fino a che il mezzo non si riempie e così intanto passano anche due, tre giorni buttati sul ponte. Per non parlare della pratica dell’identificazio- Domanda di protezione internazionale Una domanda di protezione internazionale può essere presentata nel momento d’ingresso nel territorio nazionale presso la Polizia di Frontiera o successivamente nell’Ufficio Immigrazione presso una Questura italiana. Si struttura in 4 momenti: 1) “fotosegnalamento”; 2) la compilazione del modello C3 -“Modello per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra”; 3) l’audizione presso la Commissione Territoriale di competenza, organo preposto al riconoscimento o diniego della domanda d’asilo; 4) l’acquisizione della decisione della Commissione Territoriale. La legge italiana stabilisce che l’audizione si svolga entro 30 giorni dalla presentazione della domanda e che la Commissione Territoriale decida nei tre giorni successivi. In realtà le persone spesso aspettano oltre un anno per l’appuntamento in commissione. ne a bordo. Addirittura c’è chi scende già col decreto di espulsione. Judith. Per noi ora è molto importante far capire cosa sta succedendo, informare. Ho ricevuto tantissime chiamate di giornalisti che esordivano: “Mare Nostrum è una bella cosa, vengono salvate le persone...” e io subito a dire: “Attenzione...”. È molto difficile spiegare questa contraddizione interna del connubio salvataggio-militarizzazione. Che altro dire? Noi ci proviamo. “Triton” non è stato creato per salvare, bensì per “contrastare l’immigrazione” Dare ora un giudizio sulla mission di Frontex, Triton, è molto più facile: l’agenzia Frontex opera per il controllo delle frontiere. Triton non ha lo stesso incarico di Mare Nostrum, non è stato creato per salvare, bensì per “contrastare l’immigrazione”. Però gli arrivi continuano e anche le navi che operano per Frontex vengono chiamate per il salvataggio, e per le convenzioni internazionali non possono dire di no perché sarebbe omissione di soccorso. Così il direttore operativo di Frontex, Klaus Roesler, ha chiesto allla Capitaneria del Centro di soccorso in mare a Roma di non chiamare più le navi di Frontex per il salvataggio -una mostruosità incredibile. (a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa). Blog: www.siciliamigranti.blogspot.com (versione italiana); www.migrantsicily.blogspot.com (versione inglese); www.siciliamigrants.blogspot.com (versione tedesca); borderline-europe: http://www.borderline-europe.de/ Merica Merica Trenta giorni di macchina a vapore Nella Merica che semo arrivati/ Non abbiamo trovato né paglia né fien. Merica, Merica, Merica, Merica, Merica, in Merica voglio andar. Abbiamo dormito sul nudo terreno come le bestie che van riposar E la Merica l’è lunga l’è larga circondata da fiumi e montagne e con l’aiuto degli altri italiani abbiano formato paesi e città. (Canzone popolare) 7 Africa in movimento Nostalgia di frontiere impermeabili Anna Maria Gentili ha insegnato Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Bologna. Tra i suoi scritti: Il leone e il cacciatore, storia dell’Africa sub-sahariana (Carocci editore, 1995). Quello che segue è il suo intervento alla conferenza “Ruanda 20 anni dopo il genocidio” (Bolzano, 4 luglio 2014) con la presenza di Yolande Mukagasana, premio Alexander Langer 1998. Vorrei partire da una parola che Yolande Mukagasana cita spesso, la parola dignità. Il discorso sui rifugiati e sui migranti deve partire dal diritto alla dignità, dal riconoscere che è nostro dovere appoggiarli nel difficile percorso per sottrarli alla ghettizzazione in campi di vero e proprio concentramento, in cui si vedono negato il diritto a ritornare al più presto a una vita umana e civile. In Africa il più grande numero di rifugiati Il continente africano dagli anni Cinquanta e Sessanta sopporta il più alto numero di sfollati interni e rifugiati, prodotti da conflitti, ma anche da calamità naturali. Tutti in condizioni precarie privi di diritti e di prospettive. Un rifugiato interno mozambicano mi diceva anni fa che la sua vita, da anni oggetto di carità internazionale, non era vita, perché vivere da uomini e donne significa vedersi riconosciuta la dignità appunto di esseri umani con pieni diritti civili. In Kenya esiste il più grande e il più terribile campo di rifugiati, eredità dell’incorporazione, nel 1964, della North Eastern Province, parte dello Jubaland, regione etnicamente a maggioranza somala. A quell’accorpamento, avvenuto malgrado le proteste veementi del governo somalo, seguì una guerra in realtà mai conclusa e, con la dissoluzione della Somalia, l’arrivo di altre massicce ondate di disperati in fuga. Essendo considerata ad alto rischio, questa regione è sempre stata governata dal Kenya col massimo della durezza: non si contano i massacri, gli abusi perpetrati da un regime di polizia che in nome della sicurezza colpisce in primis i più deboli, i rifugiati appunto. Le organizzazioni internazionali presenti nei campi non hanno né i mezzi, né il mandato per controllare la situazione. D’altra parte non è mai stata adeguatamente valutata nemmeno la bomba rappresentata dai conflitti in Congo, e nell’intera regione, che dagli anni Sessanta ha provocato un costante flusso di rifugiati deflagrato all’indomani del genocidio in Rwanda del 1994. Per decenni si è lasciata incancrenire una situazione di continua instabilità, in cui i rifugiati sono stati usati come arma di ricatto, di destabilizzazione, ma anche come amorfo ammasso di popolazione diseredata da cui reclutare braccia per perpetuare conflitti e criminalità. Tutto questo è accaduto e accade perché internazionalmente la questione dei rifugiati viene trattata solo sotto il profilo umanitario, mentre i conflitti che li hanno prodotti sono inscritti nella dinamica di interessi politici che si posizionano e interagiscono a ogni livello, globale, regionale, nazionale e locale. Sicché i campi di rifugiati, che sempre si presentano come provvisori, diventano permanenti perché flebili sono gli sforzi e gli impegni per negoziare soluzioni condivise. Abbiamo rifugiati antichissimi, che risalgono al tempo delle lotte per l’indipendenza, e rifugiati di tutti i conflitti successivi. I rifugiati ruandesi, così come i rifugiati congolesi in altre aree, sono stratificazioni che risalgono ai vari conflitti degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta. Ai tempi del genocidio ruandese si sono scritti volumi in cui si giurava e prometteva che mai più si sarebbe tollerato un altro genocidio. I potenti della terra, fra cui l’allora Presidente Usa Clinton, si battevano il petto: “Abbiamo capito, abbiamo imparato”. Da allora e sotto i nostri occhi, nella Repubblica Centrafricana, e ancora nel Sud-Sudan, sono avvenuti pogrom a cui sono seguiti altri massacri e masse in fuga oltre ogni confine. Questo in presenza di una comunità internazionale sempre più impotente. Si tratta di conflitti “dimenticati”, forse perché considerati marginali, ma che in realtà producono il maggior numero di rifugiati, e anche il massiccio aumento di giovani migranti che premono alle porte dell’Europa e non solo. Perlopiù sono giovani uomini, ma aumentano le donne e i minori. Certo, partono per trovare lavoro, per studiare, ma anche per fuggire da abusi terrificanti. Pochi, travalicando una frontiera, trovano accoglienza, quale ci si aspetterebbe da paesi fratelli. Fuggendo dalla guerra in Liberia, 3800 rifugiati hanno ottenuto il permesso di residenza in Ghana. È un caso eccezionale. La verità è che, benché si continui a parlare di panafricanismo, di solidarietà africana, ed esista un organismo regionale -l’Unione Africana- che rappresenta tutti gli stati africani, pochissimi sono i paesi che hanno concesso uno status dignitoso ai rifugiati. Solo la Tanzania, ai tempi del Presidente Nyerere, ha concesso la cittadinanza ai rifugiati ruandesi e burundesi dei genocidi precedenti a quello del 1994. L’attuale governo della Tanzania sta invece cacciando rifugiati e migranti, spingendoli a ritornare in paesi poverissimi e sovraffollati, come sono appunto il Rwanda e il Burundi, paesi piccoli e con la più alta densità di popolazione per chilometro-quadrato in Africa: più di 300 e passa abitanti. In Sudafrica non si contano i campi di rifu- Glossario migrazione forzata (uno sguardo sul contesto globale) Paesi di origine Afghanistan 2.556.600 51.2 milioni di persone Siria 2.468.400 Somalia 1.121.700 16.7 milioni di rifugiati Sudan 649.300 Rep. Dem. del Congo 499.500 33.3 milioni di sfollati interni Birmania 479.600 Iraq 401.400 1.2 milioni richiedenti asilo Colombia 396.600 Viet-Nam 314.100 Eritrea 308.000 Oltre l’80% di tutti i migranti forzati e gli sfollati restano nella loro regione d’origine. Persone in fuga Paesi ospitanti Pakistan Rep. Islam. dell’Iran Libano Giordania Turchia Kenya Ciad Etiopia Cina Stati Uniti 1.616.500 857.400 856.500 641.900 609.900 534.900 434.500 433.900 301.000 263.600 Resource: UNHCR Global Trends (2013, published in 2014) 8 Kalida Messaoudi Toumi, Yolande Mukagasana, Jacqueline Mukansonera, Premi Alexander Langer 1997 e 1998, Città di Castello giati e i migranti si affollano alle frontiere. Per fermarne il flusso, il governo post-apartheid ha adottato leggi draconiane contro l’immigrazione e dal 2008 si sono moltiplicati episodi di grave xenofobia che hanno colpito immigrati mozambicani, congolesi, somali. In Nigeria stanno aumentando i rifugiati interni, e non solo a causa delle azioni terroristiche di Boko Haram, ma anche per via dei conflitti negli stati del Delta, cassaforte del petrolio e quindi del potere. Nel Camerun, ci sono rifugiati interni e altri provenienti da Nigeria, Niger, Ciad. Nel Niger, ci sono rifugiati antichi provenienti dalle guerre del Ciad, che a sua volta ha rifugiati delle guerre che hanno scosso il Darfur e la Repubblica Centrafricana. E così via in una catena che sembra infinita. Nel Sudan ci sono i rifugiati del Sud Sudan, che si aggiungono alle migliaia di rifugiati del Darfur, che peraltro si trovano in tutti i paesi della regione. La Namibia, nel tempo, ha concesso permessi di soggiorno ai rifugiati angolani, prodotti dalla lunga guerra civile. Frontiere che dividono culture comuni Le frontiere che travalicano i rifugiati spesso dividono popolazioni che hanno la stessa lingua, gli stessi interessi, che hanno continuato ad avere relazioni matrimoniali, di scambio commerciale. Sono frontiere, fra l’altro, che nessuno stato africano è mai riuscito a controllare. Del resto nemmeno gli Stati Uniti, dotati di ben altri mezzi e tecnologie, riescono a controllare la frontiera con il Messico e questo anche dopo la costru- zione di una barriera elettrificata. Tutte le frontiere sono permeabili, e in Africa sono più che altrove delle finzioni. Quindi quando ragioniamo su questi contesti, dovremmo pensare in termini regionali e individuare gli elementi che uniscono le popolazioni, invece di quelli che le dividono. In cinquant’anni di ricerca e insegnamento in vari paesi africani, ma soprattutto di rapporti con il mondo intellettuale africano, come pure con il mondo contadino, ho visto grandi progressi e grandi tragedie e ho capito una serie di cose. Facendo ricerca sul terreno, ho capito, ad esempio, che bisogna lasciare che l’altro parli, non imporgli la parola, non interrogarlo, non sovrapporre le nostre problematiche al suo modi di percepire la situazione che vive. A una signora bianca anziana con occhiali e un libro di appunti in mano, in mezzo a contadini africani che ne sanno più di lei sui loro problemi, può capitare di essere trattata con soggezione, come un essere diverso, perlomeno superiore. Bisogna saperlo e fare ogni sforzo per trattare gli interlocutori come persone di cui si rispetta la dignità, il che significa ascoltarli con discrezione e empatia. Il lavoro di ricerca deve essere una condivisione in cui si rispetta la reciproca dignità di essere umano. Maschio femmina, bianco nero, di diversa etnia, lingua o religione. Non ho capito invece perché quando si ragiona di Africa, soprattutto qui nella diaspo- ra, prevalgano ricostruzioni complottistiche sui vari conflitti. Penso che sia assolutorio e troppo semplificatorio affermare che sia tutto e sempre colpa in primis dell’Imperialismo. È sicuramente giusto e necessario ammettere e analizzare le nostre responsabilità, come cittadini di un determinato stato, come membri di un gruppo economico, culturale e/o religioso, di una famiglia, comunità locale, nazionale, regionale e internazionale. Sicuramente la questione dei rifugiati è sempre stata affrontata con pochi mezzi e, ancora peggio, pochissime competenze. Ma sta soprattutto ai governi e alla società politica e civile africana collaborare per trovare le strade di negoziazione tese alla conciliazione e a una soluzione duratura dei conflitti. Altrettanto importante è trovare mezzi e appoggi interni -e non solo dipendenti dall’azione internazionale- in grado di restituire ai rifugiati una vita più umana e civile. Il caso dei rifugiati del Rwanda in Kivu è clamoroso, ma non un’eccezione. Vari antropologi, a partire da Johan Pottier, hanno osservato come all’interno dei campi si fossero ricostruite delle strutture di potere e di autorità, che commettevano abusi su altri rifugiati non solo sulla base della diversa origine etnica, Hutu o Tutsi, bensì per i diversi interessi che circolavano nel sistema di gestione degli aiuti. Le associazioni delegate dall’Onu a gestire i campi preferivano spesso chiudere gli occhi, piuttosto che affrontare queste situazioni. Riconoscere la dignità dei rifugiati ruandesi, capire le ra- 9 gioni profonde di una divisione che in Rwanda è stata politica prima che etnica significa non disconoscerne la complessità storica che è strettamente intrecciata con la storia della decolonizzazione del Congo e della sua regione orientale, il Kivu. Se andiamo a vedere altri campi di rifugiati presenti nelle zone sensibili, nel Sud Sudan, nella Repubblica Centrafricana e in Africa Occidentale, in Costa d’Avorio, Liberia, Sierra Leone, Guinea Conacry, ecc., riscontriamo le stesse dinamiche. Il problema non è tanto o solo la scarsezza di mezzi materiali, ma la mancanza di sensibilità, nei governi locali e negli organismi internazionali. Per questo ripeto che è imperativo trattare i rifugiati come soggetti portatori di diritti universali, soprattutto qui nella ricca e sviluppata Europa dove la presunta mancanza di mezzi spinge a ghettizzare rifugiati e migranti e a trattarli come “altri” diversi, privati anche del diritto di essere ascoltati. Scontri etnici e interessi di potere I conflitti in Africa vengono invariabilmente fatti risalire ad animosità di carattere etni- Dadaab, campo profughi del Kenya 10 co, senza considerare che alla radice degli scontri etnici c’è la gestione del potere, le eredità delle divisioni, gerarchie e memorie storiche, l’affermarsi di interessi egemonici della decolonizzazione e dall’indipendenza in poi, in cui s’intrecciano interessi, internazionali e interni a ciascun contesto. La testimonianza di Yolande Mukagasana ci svela che l’identità etnica esiste come portato di storie familiari, sociali, politiche, ma nello stesso tempo è qualcosa che si costruisce a seconda delle congiunture sociali e politiche. Dietro questa costruzione c’è la competizione per il potere, e contestualmente c’è la negazione dell’altro come persona. Questo discorso riguarda anche, e direi soprattutto, il migrante. Noi italiani, proprio per la nostra storia, dovremmo capirlo più di ogni altra nazione-etnia. La gestione dei campi rifugiati, così come la gestione dell’accoglienza, dovrebbe ripartire da questa consapevolezza. Come stiamo facendo in questi giorni qui a Bolzano nel contesto del premio della Fondazione Alexander Langer dovremmo mettere le persone insieme a raccontare, a discutere, confrontandoci criticamente con la riproduzione di reciproci stereotipi, pregiudizi, preconcetti; con franchezza, quindi smontando le teorie complottiste, escludenti, perché quello è il discorso del potere. Parlare, parlarci per capire e capirci, pone dei problemi ovunque e tanto più in Italia dove generalmente c’è una scarsissima conoscenza dell’Africa e le sue problematiche. L’Africa è un continente di circa un miliardo di abitanti, perlopiù giovani, che probabilmente saranno due miliardi nel 2050, e rappresenta il 60% delle terre ancora non coltivate e oltre un terzo delle ricchezze minerarie mondiali. L’Africa non è, come troppo spesso si rappresenta, un antiquato museo di tribù e etnie, di tradizioni obsolete, ma un mondo in ebollizione che sta assistendo a rapide e traumatiche trasformazioni, un mondo ricco di talento culturale, dall’enorme e diversificata vivacità, musicale, artistica. L’Africa è anche la diaspora sparsa in tutto il mondo. Rifugiati ambientali Un altro elemento importantissimo e spesso dimenticato è che molti dei rifugiati dell’Africa sono rifugiati ambientali, scampati e sopravvissuti a grandissimi disastri ambientali, perché l’ Africa, fra l’equatore e i due tropici, ha una natura estrema, molto difficile e crudele. Anche la rinnovata corsa ad appropriarsi e sfruttare le ricchezze naturali di questo continente (foreste, terre, miniere, acqua) sta mettendo in pericolo la stabilità ambientale. Il cambiamento climatico a sua volta ha creato disastri, alluvioni alternate a devastanti siccità che si ripetono in cicli sempre più riavvicinati. Da ultimo si dibatte su un fenomeno qui poco valutato ovvero l’acqua. I paesi arabi desertici, casseforti di petrodollari, nella Rift Valley, stanno comprando territori che sono veri e propri serbatoi di acqua. Yolande ha parlato del fatto che in Rwanda è stata introdotta la proprietà privata della terra. Il Rwanda è un paese povero, non ha grande risorse, produce caffè, tè, pochissimo altro. Anche altri paesi hanno adottato nuove leggi di riforma della terra, e ovunque si tenta di equilibrare il discorso della proprietà privata con il mantenimento di proprietà di tipo comunitario, con risultati controversi. Di fatto chi ha il potere riesce ad appropriarsi di aree o di territori che hanno un forte valore, non solo agricolo. Continue sono le denunce di abusi e numerose le proteste e i conflitti sulla gestione delle riforme dello statuto della terra. Popolazioni senza altra risorsa che la terra, nel contesto delle politiche di liberalizzazione in auge dagli anni Ottanta-Novanta, sono messe di fronte a un’accelerazione della commercializzazione delle risorse naturali. Dal 2000 il tasso e i ritmi dei trasferimenti del possesso o proprietà della terra hanno visto un’accelerazione: si tratta di trasferimenti non sempre volontari, non sempre trasparenti. Nelle comunità contadine la perdita della terra implica la perdita dei fondamenti della sopravvivenza anche perché sono poche le alternative sul mercato del lavoro. La privazione è ancora più significativa se si pensa che la terra non è solo una risorsa economica, ma è uno spazio sociale, culturale, politico. Oggi si parla molto di Land grabbing, fenomeno peraltro non nuovo, molto complesso e diversificato. In epoca coloniale vennero create piantagioni e i grandi parchi per la “protezione” (e la caccia) dei grandi animali, trasferendo con la forza le popolazioni che in quei territori vivevano coltivando o pascolando i propri armenti. Nairobi sorge in una zona di pastorizia dei Masai. Nel 2004 venne dato un Premio Nobel a una formidabile attivista ecologista kenyana, Wangari Maathai, impegnata nella lotta contro la deportazione della popolazione dalle terre fatte proprie da potenti élite politiche, alleate a imprenditori europei e asiatici. Molti dei conflitti in paesi africani sono conseguenze di rapporti di potere molto diseguali, in cui élite politiche e economiche espropriano coltivatori e pastori sfruttando la complessità e la sovrapposizione di diritti spesso informali e per questo non difendibili legalmente. Le norme che finiscono per prevalere in questi conflitti sono il risultato di dinamiche di potere legate alle diverse fasi politiche: colonizzazione, decolonizzazione, indipendenze, crisi degli anni Settanta, aggiustamento strutturale degli anni Ottanta, processi di democratizzazione formale, ecc. La costa del Kenya, dove i turisti vanno a fare i bagni in alberghi bellissimi, è stata espropriata alla popolazione locale, prevalentemente musulmana, da joint ventures tra potenti del governo e aziende e imprese europee, per costruirvi lussuosi alberghi. Naturalmente questo ha creato frustrazione e sovversione, e da tempo questa dissidenza, non a caso, è diventata anche terreno di coltura di movimenti terroristici locali e internazionali. L’11 settembre negli Stati Uniti è stato annunciato dal bombardamento di due ambasciate americane, una a Nairobi e una a Dar-es-Salaam. I terroristi non avrebbero potuto agire senza appoggi interni Da sudditi a cittadini Per concludere. L’Africa è stato il continente martire della nostra storia recente. È stato l’ultimo a essere colonizzato e con metodi abusivi e brutali. L’Africa indipendente è stata poi la prima vittima, la più importante (insieme all’America Latina), della Guerra Fredda che ha frenato o reso impossibile processi di possibile democratizzazione condonando e rafforzando ovunque regimi autoritari. Dagli anni Ottanta in poi, in un’Africa prostrata dalla crisi mondiale, sono state negoziate e messe in atto politiche di “aggiustamento strutturale, ovvero di risanamento e di austerità, sul modello liberista del “meno stato più mercato”. Eravamo agli inizi degli anni Ottanta, quando il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan ammonì tutti gli stati che vivevano “al di sopra dei loro mezzi”. Il messaggio era rivolto anche a noi europei, soprattutto noi pieni di debiti, ma allora ritenemmo che non ci riguardasse. Pensavamo si riferisse ai paesi poveri di recente indipendenza accusati di essere poco virtuosi ed eccessivamente statalisti. Ad ogni modo, per l’Africa, l’aggiustamento strutturale ha significato il crollo di quell’inizio di costruzione e integrazione statuale, che si fondava sulla promessa di libertà; una trasformazione da sudditi a cittadini che prometteva scuole e salute accessibile a tutti, fine della povertà e opportunità di lavoro attraverso il controllo e la gestione delle risorse economiche. In quegli anni i nuovi “cittadini” dei paesi africani sono stati trasformati in “poveri”, masse oggetto delle preoccupazioni di una miriade di organizzazioni internazionali, governative e non governative. Ha ragione Yolande, qualsiasi critica si faccia al governo ruandese, questo è uno dei pochi governi che sta tentando di fare delle riforme gestibili e credibili dall’interno e non solo dipendendo dall’aiuto internazionale. Negli anni Novanta si è aperta l’era dei processi di democratizzazione, spesso più definiti nella forma che nella sostanza. Dopo l’11 settembre tuttavia la priorità internazionale è diventata la sicurezza, il che ha frenato ovunque processi di tipo democratico. La rinnovata corsa alle risorse di cui l’Africa abbonda, l’aggressiva politica di penetrazione economica della Cina, hanno poi inaugurato incisive e inaspettate trasformazioni economico-sociali causate da alti tassi di crescita, in tutti i paesi africani, anche i più poveri. Un processo caratterizzato da una crescente disuguaglianza fra quelli che hanno accesso e si sono molto arricchiti, la massa che continua a sopravvivere precariamente e quelli che non hanno nulla, i più vulnerabili, i contadini senza terra, i giovani senza lavoro, gli anziani senza protezione, le masse di orfani delle guerre e delle malattie, in primis l’Aids. i conflitti in atto e impedire che altri ne sorgano. Il grande esodo Yolande, scrivendo, è riuscita a parlare di una parte dei suoi traumi profondi, a intrecciare un rapporto sia con il suo paese, sia con il Belgio, sia infine con amici di tutto il mondo e i parenti sopravvissuti. Noi oggi non permettiamo ai rifugiati che arrivano qui di poter elaborare il proprio trauma. Questo è il grande problema. Ecco, penso che usare la testimonianza in tutta la sua purezza e verità possa aiutare a iniziare un dialogo fra noi e loro. I giovani che migrano, fuggono per le più svariate ragioni: perché si sentono minacciati, perché cercano migliori condizioni di vita, perché vogliono avere il diritto di circolare come tutti. Uomini e sempre più donne trovano qui delle barriere che non sono solo quelle legislative e fisiche, ma sono barriere radicate in pregiudizi discriminatori che sottendono un razzismo mai risolto e che vanno contro il diritto di essere considerati essere umani con una propria dignità, individuale e collettiva. L’unità, l’integrazione nazionale, la solidarietà, così forti al momento delle indipendenze, valori fondanti l’identità africana (la dignità di essere cittadini e non più solo sudditi coloniali o sudditi degli interessi internazionali o degli interessi dei politici e dei potenti nazionali o locali) è ora in discussione e in pericolo, se non si troveranno in Africa volontà e forza etica per risolvere È questo il grande problema e su questo dovremo lavorare. Cosa chiediamo alle istituzioni, di fronte al grande esodo, che si è moltiplicato proprio a causa delle politiche economico-sociali locali appoggiate da quelle internazionali? Chiediamo la consapevolezza che si tratta di problemi non solo loro, ma sempre più nostri. Una consapevolezza che smantelli la continua saga di legislazioni che vorrebbero contenere e respingere, che non hanno mai funzionato nella storia. Queste forme di contenimento servono solo o soprattutto a radicare il pregiudizio che coloro che fuggono, i rifugiati, i migranti sono irrimediabilmente “diversi” e cioè inferiori, e dunque possono essere trattati come nuovi schiavi. L’espressione “nuovi schiavi” è tornata di moda, la troviamo sulla stampa ogni giorno; contro tutto questo bisogna combattere e lavorare. Paura Nina Sadeghi Profughi Mohamed Malih Qui, una nuvola grande quanto il mio cuore sta piangendo. Qui, in questa spiaggia solitaria, compagna degli eterni tramonti, una nuvola bagna il sentimento. Sì, oggi con questi occhi posso piangere, con questi occhi, lo sapete? Io ho paura. In sella ai nostri anni migliori sfidiamo il mare scrutando rotte di mille altri destini alla deriva l’approdo è un azzardo alle porte di Lampedusa altre storie verranno a galla impigliate nelle reti dei pescatori l’enfasi lasciamola ad altri esodi noi siamo solo profughi protagonisti della cronaca e clandestini alla storia Dal libro: Sotto il cielo di Lampedusa. Annegati da respingimento. Rayuela Edizioni, gennaio 2014 11 Negare non equivale a impedire Schematici appunti Gianfranco Schiavone è componente del direttivo dell’Asgi (Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione) di Trieste. Il sistema di asilo in Europa oscilla costantemente tra due opposti: da un lato l’affermazione, contenuta nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (art. 18) e in altri strumenti di diritto dell’Unione, dell’asilo come di un diritto fondamentale della persona; dall’altro la pulsione costante, specie in momenti di acute crisi, ad attuare, anche se in modo dissimulato e indiretto, delle politiche volte a ridurre il numero dei rifugiati nella UE attraverso misure di contrasto al loro arrivo nel territorio dell’Unione. Dal 1951, anno di adozione della Convenzione di Ginevra, ad oggi si possono identificare, in modo molto schematico, tre fasi nell’evoluzione del diritto d’asilo in Europa. 1. Una fase, temporalmente molto lunga, che va appunto dal 1951 al 1990 caratterizzata sul piano politico dall’assenza di una politica comune in materia di asilo e sul piano giuridico dal riferimento alla sola nozione di rifugiato contenuta nell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, non idonea a rispondere alle migrazioni forzate dovute a violenze indiscriminate in situazioni di conflitto; 2. una seconda fase caratterizzata dal lento avvio di una armonizzazione delle normative sul diritto d’asilo nella UE, con l’adozione di standard comuni (all’inizio minimi) su “qualifiche”, procedure d’accoglienza e con l’introduzione della assai discussa norma (prima sotto forma di Convenzione, poi di Regolamento) volta a definire i criteri per individuare lo stato competente a esaminare la domanda di asilo in Europa (oggi cd. Regolamento Dublino III); 3. la fase attuale, che proprio mentre dichiara di volere giungere a un effettivo sistema unico di asilo in Europa mostra tutti i limiti, gravissimi, di una mancata integrazione tra i sistemi di protezione dei rifugiati nei diversi stati dell’Unione e soprattutto la radicale mancanza di una politica europea di più lungo respiro che fornisca risposte ai bisogni di un numero di rifugiati in forte crescita che fuggono da conflitti devastanti che si svolgono in aree geografiche assai vicine all’Europa, sia verso sud (Africa) che a est (Medio Oriente). Tra i molti limiti della politica europea (e dei singoli paesi dell’Unione) in materia di asilo, colpiscono in particolare i seguenti aspetti: - L’utilizzo distorto della nozione di protezione sussidiaria (nozione giuridica in sé del tutto positiva, introdotta per la prima volta nel diritto UE dalla Direttiva 2004/83/CE e oggi dalla Direttiva 2011/95/UE) al fine di indebolire di fatto la portata applicativa della nozione di rifugiato prevista dalla Convenzione di Ginevra. - L’adozione di misure drastiche di controllo delle frontiere, contrasto all’immigrazione irregolare con esternalizzazione dei controlli stessi, attraverso accordi con i paesi “di transito”, anche laddove ci si trovi di fronte a regimi autoritari. Si tratta di accordi politici intergovernativi spesso sottratti a ogni controllo democratico e di misure di polizia dai confini e dal mandato indefinito, sottratte a un vero controllo giurisdizionale. - L’accanimento nel voler ancora utilizzare una norma palesemente iniqua e inefficace adottata sulla base di un approccio squisitamente ideologico quale fu la Convenzione di Dublino da cui si sviluppò il successivo Regolamento Dublino II (Reg. 343/2003) e l’attuale Regolamento Dublino III. La Convenzione di Dublino nacque con l’obiettivo formalmente dichiarato di “evitare situazioni che lascino troppo a lungo un richiedente l’asilo nell’incertezza quanto all’esito della sua domanda e desiderosi di dare a ogni richiedente l’asilo la garanzia che la sua domanda sarà esaminata da uno Stato membro e di evitare che i richiedenti l’asilo siano successivamente rinviati da uno Stato membro a un altro senza che nessuno di questi Stati si riconosca competente per l’esame della domanda di asilo”. Ben al di là degli obiettivi dichiarati, l’obiettivo reale della convenzione fu quello di intervenire, con una norma draconiana che eliminava del tutto la libertà del richiedente di scegliere il paese europeo in cui chiedere asilo, per riequilibrare il carico dell’accoglienza dei richiedenti asilo all’interno dei paesi della (allora) Comunità Europea; uno squilibrio lampante posto che all’inizio degli anni Novanta dell’altro secolo i paesi della comunità (e specie i paesi del sud Europa) che avevano confini esterni, ricevevano e trattavano un numero medio anno di domande di asilo assolutamente irrilevante rispetto ai paesi del nord e del centro Europa. La risposta al problema reale dato da questo squilibrio nel carico delle domande di asilo nei diversi paesi UE non venne però trovata, come dovrebbe essere di regola nel Diritto, attraverso un bilanciamento tra i diritti di libertà del richiedente asilo e l’applicazione del principio di solidarietà interna all’Unione in relazione alla ripartizione del carico delle domande di asilo, quindi elaborando norme che da un lato limitassero (non eliminandola quindi alla radice) la libertà del richiedente nello scegliere il paese di asilo e dall’altra imprimessero una accelerazione al processo di ar- E i profughi intanto che fine fanno? Reprimere il traffico di esseri umani è un’azione necessaria e indifferibile, da attuare con la massima severità, ma che rischia di rivelarsi clamorosamente insufficiente. Che ne sarebbe, infatti, di quelle centinaia di migliaia di persone che si rivolgono ai trafficanti per trovare una via di fuga e un’opportunità di vita, se non adottassimo strategie legali e sicure per garantire loro una via di salvezza? Quelle strategie legali e sicure sono alla nostra portata. Difficili, difficilissime, ostacolate da massicce resistenze politiche, e tuttavia le uniche ragionevoli, concrete e praticabili. Innanzitutto va ripristinata, e nel più breve tempo possibile, la missione Mare Nostrum, con quelle stesse responsabilità e con quelle stesse competenze, come iniziativa di dimensione europea; e, dunque, con il coinvolgimento -in risorse economiche, uomini e mezzi- di tutti i paesi membri. Un’opera- 12 zione che, come quella svolta in precedenza dalla Marina italiana, dovrebbe perseguire tre compiti essenziali: interventi di soccorso e salvataggio; azioni di filtro sanitario e di sicurezza, realizzate già a bordo; misure di contrasto del traffico di esseri umani, a partire dal sequestro delle navi madre, dalla distruzione dei barconi intercettati. è necessario, inoltre, rimuovere tutti gli ostacoli di natura esclusivamente politica che impediscono all’Europa di garantire protezione ai profughi, senza che questi siano costretti a rischiare la vita nel Mediterraneo e a ricorrere ai trafficanti di morte. In altre parole si deve realizzare, in tempi rapidi, un piano di «ammissione umanitaria», che preveda l’anticipazione della richiesta di asilo già nei paesi in cui si addensano e transitano i flussi migratori. Si tratta di istituire in quei paesi -laddove è possibile e dove già qualcosa in questo senso è in atto come in Giordania, Libano, Egitto e nel Maghrebun sistema di presidi realizzato dalla rete diplomatico consolare dei paesi dell’Unione e del Servizio europeo per l’azione estrema, insieme a Unhcr e alle altre organizzazioni umanitarie internazionali. Qui i profughi potrebbero essere accolti temporaneamente per poi essere trasferiti con mezzi legali e sicuri nel paese europeo in cui chiedono asilo, secondo quote di accoglienza concordate tra gli stati membri. Un piano da affiancare e combinare ad altre proposte allo stesso modo concrete e praticabili, quali il reinsediamento, l’ingresso protetto e i corridoi umanitari. Tutto ciò è terribilmente arduo e richiede una vera e propria lotta politica a livello europeo. Ma è la sola alternativa a un’ecatombe senza fine. Luigi Manconi (tratto da “Il manifesto”, 23 aprile 2015) monizzazione degli standard procedurali e di accoglienza nei diverso paesi europei. Si scelse invece una risposta insieme semplice ed estrema, lontanissima dal principio del bilanciamento degli interessi, ovvero quella di annullare ogni possibilità per il richiedente di scegliere in parte il proprio progetto migratorio. Tale profonda compressione dei diritti della persona non ha neppure prodotto i risultati tanti attesi giacché numerosi e autorevoli sono gli studi che evidenziano l’inefficienza del meccanismo regolatore voluto dal Regolamento Dublino. - L’impedimento ai rifugiati riconosciuti in uno dei Paesi dell’Unione a potersi stabilire in un altro Stato dell’Unione. Il rifugiato viene infatti legato, per ciò che riguarda il suo diritto di soggiorno (non di circolazione) al paese in cui gli è stata riconosciuta la protezione creando in tal modo delle “gabbie geografiche” all’interno dello stesso spazio comune europeo nella UE. Si tratta di un approccio totalmente irragionevole, appena mitigato in minima parte dall’adozione della Direttiva 2011/51/UE relativa al rilascio del permesso di soggiorno lungo anche ai beneficiari di protezione internazionale. In sintesi possiamo dire che buona parte della politica europea sull’asilo ha inseguito l’idea di limitare o impedire l’esercizio di alcuni diritti della persona ritenendo così di controllare meglio alcuni fenomeni sociali. Ma l’idea che “negare equivalga a impedire” si è rilevata ancora una volta sbagliata; negare l’esercizio di ciò che i destinatari del provvedimento percepiscono acutamente come un loro diritto non equivale affatto a impedirne l’esercizio ma, in assenza di alternative legali, genera solo disagio, sofferenza, marginalità sociale e in ultima analisi illegalità. Governare i processi sociali significa indirizzarli senza negarli. Limitazioni e impedimenti, pur necessari, per essere efficaci debbono essere ragionevoli, ovvero non devono porsi in contrasto radicale con il fenomeno che si stanno appunto tentando di regolamentare, non di impedire. Le attuali politiche UE in materia di asilo non sembrano in grado di gestire la complessità dei nuovi scenari internazionali e alcune riforme appaiono quanto mai urgenti e necessarie. Anche sulla base delle riflessioni che Asgi sta conducendo, propongo delle riflessioni attorno ai seguenti due assi. UE pur nella consapevolezza che si tratta di cambiamenti che vanno gestiti con tappe progressive. Come avvicinare la protezione Rimane ancora denso di incognite, anche sul piano giuridico, il tema dell’esternalizzazione al di fuori della UE delle procedure per la presentazione e l’esame delle domande d’asilo. Non intendo in questa sede affrontare questo tema che oggi viene trattato talvolta con eccessiva disinvoltura senza avvedersi dei rischi in esso insiti. Ciò su cui invece intendo richiamare l’attenzione sono le seguenti tre misure tutte realizzabili a legislazione vigente. 1. L’Europa ancora non ha (e deve dotarsene al più presto) un programma comune di reinsediamento di rifugiati da paesi terzi di transito, focalizzato a intervenire sulle più acute crisi umanitarie del momento. Affinchè il programma comune sia efficace e venga attuato nel modo più adeguato possibile è necessario: - definire i parametri sulla cui base i singoli paesi partecipano al programma (es: popolazione, superficie, numero di rifugiati per abitante, domande di asilo avute nell’ultimo biennio, ecc); - definire, di concerto con l’Unhcr, le aree sulle quali intervenire e il numero annuo di rifugiati da reinsediare, facendo la massima attenzione nell’evitare di concentrare i programmi di reinsediamento solo in alcuni Stati (ciò produrrebbe un effetto attrazione verso di essi); - definire tempi uniformi (almeno sui tempi minimi) di accoglienza e avvicinare maggiormente gli standard di protezione e l’accesso ai diritti sociali e civili, prevedendo eventuali programmi europei di rinforzo verso i paesi con una minore tradizione di asilo e una situazione socio-economica difficile allo scopo di evitare il fallimento dei programmi di accoglienza e integrazione in alcuni paesi con conseguente fuga dei rifugiati da detti paesi verso altri stati dell’Unione. 1. La protezione non può iniziare solo quando il rifugiato arriva alle frontiere della UE ma va “avvicinata” ai rifugiati in fuga. La cd. “dimensione esterna dell’asilo” deve diventare qualcosa di concreto che vada oltre fumose dichiarazioni di principio e non va confusa con il contrasto all’immigrazione irregolare. 2. Va concordata una comune modalità di applicazione di quanto previsto dall’art. 5 del Regolamento Schengen sulle frontiere esterne che, come è noto, dà a ogni Stato la facoltà di consentire che cittadini di paesi terzi, che non soddisfano una o più delle condizioni per l’ingresso e il soggiorno, essere autorizzati a entrare nel territorio dell’Unione. La finalità principale di detta misura è consentire a stranieri che hanno legami familiari (anche in senso esteso) con rifugiati che vivono nell’Unione di poterli raggiungere in modo regolare senza cadere nelle mani delle organizzazioni che gestiscono il traffico internazionale di esseri umani. 2. L’approccio secondo il quale, nello spazio comune europeo, i richiedenti asilo e persino i titolari di protezione debbano rimanere “bloccati” dentro i confini del paese di arrivo, è anacronistico. Va quindi iniziato il superamento del Regolamento Dublino e vanno introdotte delle nuove norme comuni che favoriscano la libertà di soggiorno nella 3. Con l’operazione Mare Nostrum, operando anche in acque Sar non di propria competenza, l’Italia ha dato piena applicazione agli obblighi previsti dal diritto internazionale marittimo in materia di operazioni di ricerca e soccorso; gli interventi di mare Nostrum trovano legittimazione dalla oggettiva constatazione che i paesi formalmente Da Zebra, 5-6 2014 13 competenti per le operazioni Sar (search and rescue) quali la Libia, non sono in grado di potervi adempiere. L’operazione mare Nostrum attuata dall’Italia deve divenire un’operazione condivisa a livello europeo I cambiamenti all’interno della UE 1. L’Unione Europea deve prendere atto che il Regolamento Dublino non è più uno strumento idoneo di regolazione del sistema di asilo nella UE e deve dichiarare l’obiettivo di superare detto regolamento e non, come avviene finora, di ribadirne continuamente la sua presunta validità. Nelle more di detto non facile processo va concordata tra gli stati dell’Unione una comune applicazione flessibile ed estensiva di quelle disposizioni del Regolamento Dublino III (di fatto inapplicate) che permettono già ora di procedere “al ricongiungimento di persone legate da qualsiasi vincolo di parentela, per ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari o culturali” (art. 17 co. 2). 2. Vanno assunte misure per allargare le condizioni che legittimano il soggiorno dei titolari di protezione in altro paese rispetto a quello che ha operato il riconoscimento giuridico; è il tema del cd “mutuo riconosci- mento delle decisioni di asilo”. La direttiva 2011/51/UE, che ha esteso il permesso UE lungo soggiornanti anche ai beneficiari di protezione internazionale, è stato un primo passo ma del tutto insufficiente perché riguarda solo coloro che hanno già trovato una nuova integrazione nel paese nel quale hanno ottenuto il riconoscimento della protezione. D’altra parte il vecchissimo “accordo sul trasferimento di responsabilità” della protezione è uno strumento giuridico desueto. Nella consapevolezza che non è opportuna l’adozione di una norma europea che porti a un immediato e incondizionato diritto di trasferimento e insediamento dei beneficiari di protezione internazionale dal paese nel quale hanno ricevuto la protezione verso qualsiasi altro paese UE, vanno tuttavia sperimentate quanto prima misure quali: - autorizzare la possibilità per i rifugiati di sottoscrivere un contratto di lavoro in un paese UE diverso da quello in cui hanno la protezione, prevedendo che, qualora ricorrano determinati parametri di reddito e di durata del rapporto di lavoro, lo status di protezione può essere trasferito nel nuovo paese; Protezione internazionale e permesso di soggiorno per motivi umanitari Attualmente la direttiva europea vigente (decreto qualifiche) prevede due figure di status per richiedenti di protezione internazionale -lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria. In Italia esiste inoltre la protezione umanitaria, riconosciuta non come vero e proprio status ma come permesso di rimanere sul territorio italiano per motivi di carattere umanitario. Status di rifugiato Lo status di rifugiato viene riconosciuto dalla Commissione territoriale competente in seguito alla presentazione di domanda di protezione internazionale. Lo straniero, che dimostri un fondato timore di subire nel proprio paese una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra, può ottenere questo tipo di protezione. Il permesso per status di rifugiato ha una durata di 5 anni, prevede la possibilità di chiedere un ricongiungimento famigliare e può essere rinnovato. Inoltre il titolare può presentare richiesta del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, oppure chiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni. Protezione sussidiaria La protezione sussidiaria è uno status che viene riconosciuto dalla Commissione territoriale competente in seguito alla presentazione di domanda di protezione internazionale. Qualora il richiedente non possa dimostrare una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra, che definisce chi è rifugiato, ma si ritiene che rischi di subire un danno grave (condanna a morte, tortura, minaccia alla vita in caso di guerra interna o internazionale) nel caso di rientro nel proprio paese, può ottenere la protezione sussidiaria. Il permesso ha una durata di 5 anni, è rinnovabile e i titolari possono presentare richiesta del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Questo permesso di soggiorno consente anche il ricongiungimento familiare. Permesso di soggiorno per motivi umanitari Il permesso di soggiorno per motivi umanitari può essere rilasciato quando ricorrono “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”, per esempio in caso di diniego dello status di protezione internazionale o di revoca o cessazione dello stesso o in caso di riconoscimento della protezione temporanea per rilevanti esigenze umanitarie in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione europea. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari viene concesso dal Questore a seguito di raccomandazione della Commissione territoriale, può avere una durata dai 6 mesi ai 2 anni ed è rinnovabile in questura finché dura la situazione che ne ha motivato il rilascio. 14 - autorizzare il soggiorno dei rifugiati per un periodo superiore a tre mesi, con possibilità di ricerca lavoro, in presenza, da parte di terzi, di una sponsorizzazione; 3. Un autentico “buco nero” delle politiche UE sull’asilo è l’assenza di un piano europeo finalizzato agli standard per l’integrazione sociale dei titolari di protezione. Infatti, se al di là delle forti differenze socio-economiche tra i paesi dell’Unione, in un determinato Paese UE non si applicano misure di integrazione effettive per i beneficiari di protezione è evidente che ciò che avviene sono forti e incontrollati spostamenti dei rifugiati all’interno dell’Unione. L’Italia è uno dei paesi più carenti sotto questo profilo poiché la maggior parte dei rifugiati non ha accesso, dopo il riconoscimento giuridico di protezione, ad alcun effettivo programma di accoglienza e supporto all’integrazione. è ampiamente noto (ma non si intravede finora da parte del Governo italiano alcun serio intervento finalizzato a trovare una soluzione) il dramma dei rifugiati “senza fissa dimora” che vivono nella marginalità sociale nelle grandi aree urbane o sono oggetto di grave sfruttamento in agricoltura e in altri settori economici. Guardando le colonne di profughi da casa mia Valerio Magrelli Che poi è uno schifo, a osservarlo da vicino, un calcestruzzo di polvere, di paglia, di saliva, povero intreccio nato da secrezioni e steli con una vaga idea compositiva. Un filo oggi, un filo domani, e viene fuori un cestino in fibra vegetale, bolo raffermo, pasta che l'abitante, insieme, abita e mastica. Questa casa di bava è fatta come i figli che accoglie, materia generata, materiale genetico, tuorlo di trasmissione. Per questo, senza Nido, ora avanzano ciechi, perduti nella notte della loro identità. Da: Disturbi del sistema binario, Einaudi, 2006 Su un’aria del Turco in Italia Cara Italia, alfin ti miro. Vi saluto, amiche sponde G. Rossini Riposa tutta quanta la Penisola avvolta da una trepida collana di affogati. Ognuno di loro è una briciola fatta cadere per ritrovar la strada. Ma i pesci le hanno mangiate e i clandestini, persi nel mare senza più ritorno, vagano come tanti Pollicini seminati nell’acqua torno torno. Il permesso di ingresso per “ricerca di lavoro” Enrico Pugliese è professore emerito di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Sociologia della Sapienza-Università di Roma. Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell’Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Irpps-Cnr). Ha pubblicato, tra l’altro, Immigrazione e diritti violati (Ediesse, 2013); L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (Il Mulino, 2006) e L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con M. Immacolata Maciotti, Laterza, 2010). Hai studiato per tanti anni l’immigrazione. Possiamo ripercorrere le principali tappe dei flussi migratori in Italia? Io sono arrivato all’immigrazione dall’agricoltura e dalla emigrazione. Alla fine degli anni Sessanta mi ero trasferito negli Stati Uniti, come ricercatore, e avevo cominciato a studiare i braccianti agricoli in California, dove era in corso un grande sforzo organizzativo. Ai braccianti agricoli tra l’altro ero arrivato attraverso lo studio della povertà; era l’epoca della “Great Society” e delle politiche per l’eliminazione della povertà e dell’ingiustizia razziale. Ma poi i braccianti agricoli erano migranti e lavoravano in condizioni che le nostre mondine non hanno conosciuto. Le loro condizioni erano affini a quelle dei nostri braccianti immigrati, cioè violazione dei diritti sociali e non raramente anche dei diritti umani. Quindi dagli studi sull’agricoltura e l’emigrazione sei passato all’interesse per l’immigrazione. In quegli anni un amico e collega, Franco Calvanese, che aveva studiato l’emigrazione, comincia a drizzare le antenne su questo fenomeno nuovo della immigrazione. La prima immigrazione è in parte agricola o prettamente femminile nell’ambito dei lavori domestici (non c’erano ancora le badanti che arrivano nel corso degli anni Novanta). Le lavoratrici domestiche vanno nelle famiglie borghesi o anche piccolo borghesi dove le donne sono occupate; il loro ruolo è per così dire,di “sostituzione”, nel senso che sopperivano alle carenze del welfare, anche se poi c’era pure lo status symbol di avere la cameriera -come si diceva all’epoca- “di colore”. Emblematicamente se ne trovavano soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, cioè molto di più a Caserta che a Mantova. A Caserta per motivi di arretratezza socio-culturale, ma pure per carenze di welfare. Questo era un ambito. Poi c’era qualche venditore ambulante, la pesca in Sicilia e ovviamente l’agricoltura che, nel corso degli anni Ottanta, esplode in tutto il Mezzogiorno. Si può dire che la prima immigrazione agricola è immigrazione nel Mezzogiorno. È an- che la prima immigrazione maschile (con l’eccezione del Friuli e gli jugoslavi arrivati per la ricostruzione e della Sicilia per la pesca). Va da sé che parliamo di lavoro nero. Era lavoro nero e lavoro nero è rimasto. La mia tesi è che dall’agricoltura si va via. Cioè in agricoltura si arriva, perché tu arrivavi in qualche modo e quello trovavi, ma poi si va via. A pensarci oggi, sembra impossibile che prima del ’90 non ci volesse il visto per entrare in Italia. La prima legge in materia, la 943 dell’86, che comprende una sanatoria, è una legge molto progressista; la legge Martelli, che verrà dopo, nel 1990, non è così male, però è una legge ingenua e pertanto cattiva. Il principio è sempre: “Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori” e quindi viene istituito il sistema dei visti che, di fatto, determina un’ulteriore spinta alla irregolarità. Potrei dilungarmi sull’uso del termine regolare, irregolare, clandestino, ma andiamo avanti. Alla vigilia della legge Martelli, nel 1989, c’è l’episodio di Villa Literno, l’assassinio di Jerry Masslo, un sudafricano impegnato nella raccolta dei pomodori. i tunisini all’epoca con ventimila lire si compravano un posto in piedi in traghetto Martelli è ministro di giustizia e ha una linea molto avanzata, pur con tutte le ingenuità dell’epoca. Ad esempio si diceva che “gli immigrati prendono i posti che gli italiani lasciano”; una fesseria che non teneva conto della radicale trasformazione dell’economia. Ricompare in quegli anni il mercato delle braccia: venuto meno negli anni Settanta, torna negli anni Ottanta. È in quegli anni che comincio ad approfondire. Ci colleghiamo tra demografi. E poi dopo, all’università, comincio a dare le prime tesine di laurea, sempre a partire innanzitutto dalla mia competenza, che è il mercato del lavoro. Chi arriva in Italia in quegli anni? Arrivano i tunisini, che con ventimila lire si comprano un biglietto per un posto in piedi in traghetto, sbarcano a Trapani o a Marsala, e trovano lavoro. Considera che alcuni erano già impiegati nella pesca, dove ci sono ciurme internazionali. Se vuoi, la cosa divertente è che a Mazara del Vallo, città araba, dove la casbah è rimasta sempre identica, dopo mille anni sono tornati gli arabi! Comunque possiamo dire che prima dell’89, tu arrivi perché arrivi. Se sei polacca, dici che vieni a fare il pellegrinaggio e trovi lavoro come cameriera. Se sei jugoslavo, entri in qualche modo e lavori nella ricostruzione per il terremoto del Friuli. Poi cominciano ad arrivare i primi senegalesi, in genere wolof, quindi con solide tradizioni commerciali e di grande mobilità territoriale. Per la precisione arrivano in Italia perché qui possono entrare -i più sarebbero andati volentieri in Francia; e poi qui fanno il loro mestiere, quello di ambulanti. La prima immigrazione massiccia è senegalese; è una migrazione gruppocentrica, in cui i primi arrivati divengono poi i principali portavoce. Le comunità più outspoken sono i senegalesi e le filippine. Agli inizi degli anni Novanta, se una signora voleva una cameriera senza troppe pretese, prediligeva una capoverdiana, perché le filippine già cominciavano a mettere dei paletti sui loro diritti, forti del fatto che facevano parte di una comunità organizzata. L’altra nota curiosa è che in Sicilia, tutti i maghrebini vengono chiamati tunisini; nel continente, tutti i maghrebini vengono chiamati marocchini. Ci sono anche tanti stereotipi. Comincia subito la storia della prostituzione, che davvero grida vendetta. All’inizio di un seminario sull’immigrazione interno al corso di Sociologia del lavoro a Napoli, chiedevo sempre: “Quali sono le professioni che fanno gli immigrati? Cominciamo dalle donne”. E la prima risposta qual era? “Prostitute!”. In realtà per ogni prostituta che c’era sulle strade della Campania, c’erano almeno quattro, cinque, dieci cameriere. Le cameriere venivano dal Corno d’Africa, con gli italiani che tornavano dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia. Poi c’erano le filippine e le capoverdiane indirizzate qui grazie a reti cattolico-ecclesiali. I marocchini e i tunisini invece sono arrivati perlopiù per fatti loro, imprenditivamente; così i pachistani e i senegalesi che, girando girando, sono arrivati qui e hanno fatto i vu’ cumprà. Riguardo gli stereotipi, ricordo un film di Michele Placido, un film molto buonista, che per me non è una brutta parola (anche se in questo caso ci voleva un po’ di sale in zucca); comunque questo film, intitolato “Pummarò”, voleva raccontare una storia paradigmatica, edificante. Così abbiamo il bellissimo giovane nero, il caporale cattivo e la camorra. Lui poi si innamora di una fanciulla, nera pure lei, che ovviamente che mestiere fa? La prostituta! Se vuoi, veniva anche da sorridere, perché queste ragazze ghanesi spesso ricordavano un po’ le ragazze di Harlem come costituzione, basse, tracagnotte, col sedere grosso, con la gonna corta e quindi tutti a pensare che facessero le prostitute. In realtà erano semplicemente ragazze nere che si vestivano procacemente e che di lavoro facevano la serva, oppure erano impegnate in qualche stabilimento o, ancora, facevano le braccianti come il marito e il fratello. I ghanesi erano anche l’unico gruppo misto. Fino all’arrivo 15 degli albanesi. I ghanesi, anglofoni, non erano sotto il controllo della gestione pretesca, perché erano tendenzialmente o protestanti o animisti, quindi di fatto erano un gruppo più laico e, conseguentemente, non erano neanche sotto il controllo islamico. Il controllo dei Murid sui senegalesi comincia più tardi. Quelli che arrivavano all’inizio erano ragazzi scolarizzati; io li ho visti passare da una vita laica a pratiche religiose, ma quindici anni dopo, magari semplicemente per mantenere il potere di leadership; sono miserie che troviamo in tutto il mondo. In questi anni si iniziano a fare le prime stime del fenomeno, totalmente fantasiose. Già nel censimento dell’81 si era fatto un tentativo, per quanto folle, perché venivano censite le nazionalità, dimenticando che nel Mezzogiorno c’erano ancora un mucchio di nazionalità straniere legate all’emigrazione. Negli Stati Uniti vige lo ius soli, ma siccome la cittadinanza italiana ti spettava comunque, per ius sanguinis, te la tenevi. Così al censimento dell’81 si trovavano, nel Mezzogiorno, Di Gianna Pasquale, di professione coltivatore diretto, nazionalità Stati Uniti. Erano le famiglie tornate nel ’39, con le ultime navi. In campagna, una nostra vicina, una contadina, si chiamava Fanny... Questo era il Mezzogiorno. Quindi c’era questo equivoco dovuto al fatto che molti erano emigrati o nati fuori. L’altro dato interessante è che, nelle nuove nazionalità di immigrazione, c’era una perfetta distribuzione per genere: 50% femmine, 50% maschi. Con il piccolo particolare che le femmine erano tutte di certe nazionalità e i maschi tutti di altre! Pure nel rilevare questa sorta di parità emergeva la grande ingenuità. Ad ogni modo, nell’immaginario, negli anni Ottanta gli immigrati arrivano “alla grande”. In realtà sono poche centinaia di migliaia, ma i dati che vengono comunicati sono spaventosi, si parla di milioni. Alla conferenza nazionale sull’immigrazione, organizzata da Martelli, si fa una stima 16 alla buona e si parla di 730.000 persone. Un numero difficilmente difendibile dal punto di vista tecnico, ma che dal punto di vista della nasometria, andava benissimo, cioè se tu chiedevi a un prete che ne sapeva e ne capiva o a qualche demografo che studiava la sua regione, quello ti sapeva dire che in Toscana erano 50.000 e allora, se erano 50.000 in Toscana, potevi realisticamente supporre che la cifra reale fosse vicina a quei settecentomila. gli escamotage hanno permesso all’Italia di gestire in maniera semi-civile alcuni aspetti della politica migratoria Segue una grande ricerca del Cisp (Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione), diretto da una bravissima demografa, Nora Federici. Intorno a lei si consorziarono credo quattordici o quindici università, tutte impegnate in questa ricerca che dà una prima lettura, soprattutto demografica. Intanto si delineano meglio le aree di impiego: agricoltura ed edilizia, lavoro di commercio ambulante e, per le donne, lavoro servile, come domestiche, con tutte le tragedie... All’epoca c’era un problema grave che ora non c’è più. Il cosiddetto “sexual harassment”, cioè le molestie da parte dei datori di lavoro, che era diffuso. Nei centri di ascolto si parlava molto di queste cose, ora, con la maturazione dell’immigrazione e, soprattutto, con l’arrivo delle donne dall’Est, questo fenomeno è venuto meno. Nell’89 crolla il Muro. I processi sociali sono vischiosi, lenti, però gli albanesi sono partiti subito e il loro arrivo ha modificato il quadro, nel senso che gli albanesi entrano in tutti i mestieri e arrivano con le famiglie. Negli anni Novanta, si cominciano a contare gli immigrati un po’ meno fantasiosamente. La fonte è soprattutto quella della polizia, perché le anagrafi ancora non sono adeguate. Allora, studiando i permessi di soggiorno, anche se erano esclusi i minori, si comincia ad avere un’idea del fenomeno, che però man mano che lo conosci cambia, perché arrivano altre nazionalità. I marocchini, che sono stati la principale comunità fino a metà degli anni Novanta, verso la fine di quegli anni vengono superati dai rumeni. Quella dei rumeni è una sorta di esplosione che era stata preceduta da un’altra, quella appunto degli albanesi. Quindi l’asse si sposta verso est, anche se continuano a venire un po’ tutti: aumentano i tunisini, aumentano i filippini, si sposta il peso delle varie comunità. Cominciano i primi tentativi di delineare le caratteristiche associate alle varie componenti dell’emigrazione. Per esempio, all’epoca, se tu eri cattolico, automaticamente facevi la cameriera ed eri donna. Se eri islamico, in Campania facevi il venditore ambulante o il lavoratore autonomo. Piano piano, al Nord, gli immigrati cominciano a entrare nei servizi e timidamente in fabbrica, dove diventeranno importantissimi. Intanto proseguono le sanatorie. Nel 1997 c’è l’episodio dell’affondamento della Kate i Rades. Il 1997 è l’anno prima che uscisse la Legge 40 del 6 marzo ’98, nota come Legge Turco-Napolitano. C’era il governo Prodi e già si iniziava a dire: “Non possiamo accoglierli tutti, perché sennò vince la destra”. Quell’anno ci sono due episodi terribili, la nave abbattuta e poi l’immigrato bruciato dal padrone vicino a Varese. Intanto continuano ad arrivare i barconi. Quelli celebri di Brindisi e poi di Bari erano avvenuti con la Boniver e Scotti, il quale prima aveva garantito che non avrebbe deportato i disperati dello stadio e invece poi li aveva rispediti a casa (anche se molti se l’erano squagliata). Comunque, qualche anno dopo, a un certo punto, parte questa carretta del mare. Napolitano è all’Interno e Livia Turco alla Solidarietà sociale, quindi sembrano esserci le premesse affinché di immigrati ci si potesse occupare e anche bene. E invece un nave militare sperona la carretta albanese provocando la morte di oltre duecento persone, tra cui donne e bambini. Come non bastasse nessuno del Governo va a Brindisi a rendere omaggio alle vittime. L’unico che ci va è Berlusconi. Nel 1998 viene emanata la legge TurcoNapolitano. È una legge molto avanzata sul piano della teoria, soprattutto riguardo i diritti sociali di welfare. Il problema è che non è mai stata finanziata adeguatamente, dopodiché è caduto il governo e quindi le politiche sociali per gli immigrati non sono mai state fatte. In Italia si sono fatte solo le politiche di respingimento e di frontiera. È il motivo per cui, quando Bossi e Fini hanno presentato quel pacchetto di emendamenti che va sotto il nome appunto di Bossi-Fini, non si sono preoccupati di modificare i titoli relativi alle politiche sociali, perché è bastato non finanziarle. Comunque, la Turco-Napolitano in effetti era un provvedimento per molti aspetti avanzato: prevedeva l’assistenza sanitaria ai non regolari, l’articolo 18 per la lotta alla tratta, c’erano insomma dei punti molto positivi. Poi però istituiscono anche i Cpt, i Centri di permanenza temporanea. Fin dall’apertura del primo, un immigrato muore bruciato e altri due si ammazzano. Era anche una legge molto dura: loro fanno la legge e dichiarano: “Basta sanatorie”. Intanto però ci sono circa tre-quattrocentomila irregolari, tanto è vero che quando cade il governo Prodi e, sempre nella stessa legislatura, subentra il governo D’Alema, Rosetta Iervolino, appena divenuta ministro degli interni, da brava democristiana col cuore di mamma, fa la nuova sanatoria, la più grande mai avvenuta fino a quel momento. Poi, la madre di tutte le sanatorie sarà la BossiFini. La sanatoria è una cosa buona? È una cosa buonissima! Mentre ero negli Stati Uniti, c’era questo collega, che si chiama Aristide Zolberg, ebreo belga arrivato alla New School; ecco lui, a una conferenza divertentissima disse: “For migration, there is not a final solution”. Usando il termine “soluzione finale” proprio per dire che chi pensa che c’è una soluzione per l’emigrazione, che si può mettere ordine prescindendo dal tumulto che la produce, ha una mentalità nazista. Per l’emigrazione, bisogna sempre navigare a vista, cioè andare avanti con cautela e con attenzione alla situazione specifica, pronti ad aggiustare sempre la rotta, se necessario, senza perdere di vista l’obiettivo. Invece, la legge Turco-Napolitano aveva la pretesa di andare sparata come una motovedetta senza pilota. E quindi la prima cosa che fanno è aprire i Cie (centri di identificazione ed espulsione), che però non sanno gestire, anche perché non c’è una normativa giuridica chiara. Ci si mette poco a capire che si tratta di una detenzione amministrativa dove la tua libertà è più limitata che in un carcere. Quello che non si capisce è il perché. Tra l’altro succedeva che, se non ti riuscivano a cacciare dal paese nei primi trenta giorni, al trentunesimo uscivi. Una follia pura. Dopodiché, come ha risolto la cosa la Bossi-Fini? Allungando la permanenza a sei mesi. Ma torniamo alla sanatoria. A noi italiani non piace perché abbiamo la fissazione, tipicamente fascista, che ci sia la soluzione finale. Invece non c’è, quindi la sanatoria prende atto di una situazione localmente insostenibile e ti evita di nasconderti. È un accomodamento a una situazione che tra l’altro abbiamo creato noi. Voglio dire: non si è mai voluto dare il permesso di ingresso per “ricerca di lavoro”. A questo punto, se non fai la sanatoria, come fai con questi che già vivono e lavorano qua? Come la farsa sulle badanti che dovevano fingere di non essere in Italia. Guarda, le finte, i trucchetti, gli escamotage, sono quelli che hanno permesso all’Italia di gestire in maniera semi-civile alcuni aspetti della politica migratoria. Siccome l’intero impianto era macchiettistico, per uscirne in maniera umana e socialmente accettabile bisognava trovare degli escamotage. La sanatoria è stato l’escamotage. Tutto qui. Poi è arrivata la Bossi-Fini. Lì è stato straordinario. Bossi e Fini sono andati al governo dicendo: “Via i clandestini”, intendendo però via gli immigrati, e appena arrivati hanno fatto la più grande sanatoria mai vista! Ma perché non potevano fare diversamente! Sempre con l’idea chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. sono state le mamme dei leghisti le artefici di tutto perché avevano già la badante Certo, non si aspettavano seicentomila e passa migranti. E io dico sempre che sono state le mamme dei leghisti le artefici di tutto, perché avevano bisogno, anzi avevano già la badante. Solo che il leghista se n’è accorto subito, Livia Turco se n’è accorta molti anni dopo -lo scrive, tra l’altro- quando la mamma la sgrida perché la Turco è contraria alla sanatoria, mentre lei vorrebbe sistemare la signora che l’aiuta, capito? La sanatoria era originariamente per le badanti. Tra parentesi: il termine “badanti” viene introdotto dalla Lega nel linguaggio politico e poi è passato al linguaggio comune; nel linguaggio giuridico si chiamano assistenti domiciliari. Il discorso della Lega qual è? Già lo stato fa schifo, lo stato italiano fa schifo due volte, perché è fondato su Roma ladrona; nel Sud i ladri di Roma hanno la cameriera perché sono parassiti; al Nord ci sono i lavoratori, che però invecchiano, e siccome dello stato non ci possiamo fidare (cosa peraltro vera perché per i vecchi nulla è previsto), allora l’onesto lavoratore del Nord ha diritto alla badante. Questo era il discorso fatto da Bossi. È un discorso razzista, che però dice anche delle cose vere, perché in effetti se non c’è il welfare, l’onesto lavoratore il servizio se lo deve pagare. Ed è così che escono questi seicentomila lavoratori. Tra l’altro, la legge nasce originariamente solo per le badanti. Il problema è che non c’è solo la mamma di Livia Turco o la zia di Bossi, c’è anche la signora Brambilla che vuole regolarizzare la sua cameriera e quindi si estende la sanatoria anche alle cameriere. Ma non finisce qui, perché a quel punto, il ragionier Fasolin pensa sarebbe meglio regolarizzare anche i sette immigrati irregolari impiegati nell’azienda vicentina di cui tiene la contabilità, quindi pure lui, che vota Lega, vuole la sanatoria. Arriviamo così al 2000. Al 2000 si sanno le cose, ci sono i numeri. C’è stato questo momento comunque positivo della Turco-Napolitano; il governo Prodi ha aperto nei confronti dell’immigrazione, anche se poi ha istituito i Cpt, che sono una cosa orribile, ma complessivamente c’è un’apertura; un’apertura frenata dal fatto che la sinistra continua a non capire che l’immigrazione è la civiltà d’oggi e che è fissata con l’ordine: “Basta con tutti questi irregolari”. Beh, fammeli venire regolari! Segue il governo Berlusconi e non succede molto. C’è la Legge Bossi-Fini, che è brutta perché rende più difficile l’accesso al permesso di soggiorno e allunga il periodo per avere il rinnovo, è un po’ persecutoria nelle norme amministrative nei confronti degli immigrati, inoltre non finanzia le politiche sociali. Le ultime raffiche di Salò del secondo governo Berlusconi sono le impronte ai bambini rom. Ma in realtà è il terzo governo Berlusconi quello terribile. All’inizio Berlusconi non fa nulla di male agli immigrati e nulla di bene. Si susseguono le finte sanatorie che si chiamano decreto flusso, quindi, in pratica, “business as usual” con un po’ di cattiveria in più. Tra l’altro, a un certo punto Fini comincia a dare i numeri promuovendo la cittadinanza agli immigrati. Non è un brutto momento. Il brutto momento è quando la Lega non si caratterizza più in chiave antimeridionale e anti-fiscale (hanno già cominciato gli intrallazzi con le banche), ma comincia a “democristianizzarsi”, quindi clientela, corruzione, imbrogli, ma anche normalizzazione e fine del secessionismo. Il dato negativo è che accanto a tutto questo c’è una crescente paranoia persecutoria anti-immigrati. Che finisce male. Vi ricordate la storia delle ronde? C’è una legge che le autorizza, ma non le ha fatte nessuno. Perché? Ma perché la ronda è basata sul principio che il monopolio della violenza non è dello stato, ma della società, quindi dell’individuo, dei gruppi, eccetera, per cui questi probi cittadini possono acchiappare il nero e insegnargli la buona educazione, così la smette di pisciarti sotto casa, di spacciare e, soprattutto, di esistere. C’è stato un grande dibattito, è intervenuta anche l’Unione Europea, ma alla fine la legge è stata approvata. Com’è finita? Che se vuoi fare la ronda, la puoi fare: ti porti il fischietto e se vedi che c’è qualcuno che commette atti contrari alla morale, chiami la polizia che interviene. Te lo vedi il leghista che gira col fischietto!?! Poi è stata la volta dei cosiddetti “medici spia” che hanno determinato la rivolta dell’intera categoria. Insomma, la legislazione maroniana, che pure è stata annacquata o frenata dall’Unione Europea, dalla Corte Costituzionale o dalla Magistratura, ha però seminato odio, confusione, insicurezza. E comunque, che in Parlamento si sia potuto discutere della negazione dello stato di diritto, per me è una macchia terribile della nostra storia recente. (a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa) 17 Migranti in transito La rotta africana Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, docente di Diritto di asilo presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Palermo, direttore dell’Associazione L’Altro diritto-Sicilia, opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo con diverse organizzazioni non governative. Fa parte della rete europea di assistenza, ricerca e informazione per i migranti Migreurop. Collabora con i siti Fortress Europe, TerreLibere, Storiemigranti. Ha un blog (http:// dirittiefrontiere.blogspot.it/) e ha pubblicato, tra altri lavori, Diritti sotto sequestro. Dall’emergenza umanitaria allo stato di eccezione, Aracne, 2012. L’intervista è stata rilasciata nel mese di marzo del 2014 e si riporta nella sua versione originale perché rimane attuale in molti aspetti che dimostrano quanto era possibile prevedere già da un anno, ed è stato colpevolmente rimosso dai governi e dalle istituzioni europee (F.V.). Da diverse settimane sono ripresi gli sbarchi e l’estate si preannuncia molto critica. Può spiegarci qual è la situazione? La situazione dei migranti in transito è oggi particolarmente critica, perché se prima potevano contare su una rete strutturata di connivenze, corruzione e agevolazioni per le partenze dalla Libia o per i transiti dai paesi a sud della Libia (Niger, Ciad, Sudan), la dispersione delle milizie e delle armi di Gheddafi, soprattutto al sud, ha destabilizzato tutta un’area, dal Mali sino al Niger, determinando anche il riemergere di tensioni tribali. Il Mali è un caso paradigmatico: oggi gruppi che si riconoscono in Al Qaeda hanno preso possesso del territorio dell’Azawad indipendente, nel nord del Mali, cui vorrebbero federare pezzi dei paesi del centro Africa. pagando il riscatto ai trafficanti, si ha la garanzia di fare 100 chilometri in più, non di arrivare Finora la risposta europea è stata militare, prima con l’intervento francese in Mali e poi con una pressione militare sulla Libia, pressione che continua tuttora. Non si è fatto invece alcuno sforzo politico per comporre determinate questioni, che sono prima di tutto storiche, diplomatiche e di rapporti tra paesi. La presenza delle multinazionali ha inquinato i rapporti tra stati. Non a caso Renzi ha affermato che Finmeccanica in Libia svolge quasi le funzioni di un’ambasciata; una gaffe che gli è stata rimproverata, ma che affermava una verità. D’altra parte, se pensiamo che a Finmeccanica è stato ricon- 18 fermato Gianni De Gennaro si può cogliere la stretta connessione tra politiche economiche e politiche della sicurezza. Insomma, è emblematico che ai vertici delle multinazionali che operano in Africa ci siano persone sicuramente legate ai servizi. Tornando alla domanda, l’Africa sta assistendo al rafforzarsi di bande locali; possono essere le milizie federaliste di Misurata o i tuareg nella zona del Mali, dove la proclamazione dello “Stato indipendente dell’Azawad” sta destabilizzando l’intera area, inclusi il sud dell’Algeria e del Marocco. L’emergere di questi e altri movimenti spiega l’aumento dei migranti in fuga da paesi come Costa d’Avorio, Senegal, Gambia, Nigeria, Ghana, oltre ai flussi più consistenti e noti, costituiti da siriani, eritrei e somali che continuano ad arrivare e che però sono sottoposti a trattamenti più brutali di quanto non avvenisse in passato, perché vengono ceduti da una banda all’altra. La rotta africana oggi è caratterizzata da molti check-point e i migranti in fuga avanzano grazie alle telefonate che riescono a fare ai parenti in Europa per ulteriori pagamenti. Il fatto è che, pagando il riscatto ai trafficanti, si ha la garanzia di fare centoduecento chilometri, non di arrivare, come accadeva prima, sul Mediterraneo e poi imbarcarsi. Questo sta determinando una condizione di estrema sofferenza per i migranti che arrivano in Sicilia, sempre più spesso vittime di torture e di abusi. Lei ha più volte denunciato il trattamento riservato a queste persone quando arrivano nelle nostre coste. Noi alterniamo, anche sullo stesso territorio, momenti di accoglienza-detenzione (quando qualche questore si impunta a trattenere le persone in centri chiusi, sbarrati, con la polizia che impedisce l’uscita, in attesa di raccogliere le loro impronte digitali) ad altri di accoglienza-abbandono, quando il numero delle persone che affluiscono è talmente elevato che non c’è il tempo materiale per contenere e chiudere tutti sotto chiave. Quando arrivano quattromila persone in tre giorni e mezzo, come è successo la settimana scorsa, questa accoglienza-abbandono poi si traduce in fughe ampiamente tollerate. D’altra parte, quando a fuggire sono famiglie coi bambini in braccio diventa difficile arrestare tutti e trasferirli in centri di detenzione, che (per fortuna) non esistono. Né si può pensare a trasformare i centri di primo soccorso e accoglienza, come quelli di Pozzallo e Lampedusa, in centri di trattenimento amministrativo. Devo dire che la Sicilia, dal punto di vista dell’accoglienza, sta rispondendo in un modo che poche altre regioni avrebbero potuto eguagliare. Se pensiamo a quello che ha prodotto in regioni come la Toscana o l’Emilia l’arrivo di ottanta-cento profughi in una singola città... A Pisa sono nati comitati di quartiere che protestavano perché non volevano che tutti e quaranta i rifugiati fossero ospitati dentro la città, ne volevano mandare venti verso Lucca; risposte veramente poco consone rispetto alla tradizione di accoglienza di questi territori. La Sicilia, tutto sommato, sta gestendo anche certi allarmismi in un modo pacato. Si sa che a mettersi in viaggio sono tendenzialmente persone sane, nondimeno il viaggio mette a repentaglio la salute dei migranti. Qual è la situazione? Intanto c’è un problema di promiscuità già prima del viaggio. In Libia, prima di imbarcarsi, i migranti vengono raccolti in centri dove vengono ammassate anche migliaia di persone e possono svilupparsi malattie tipiche, come la Tbc e la scabbia, che poi si diffondono. Per questo è così importante che quando arrivano qui ci sia uno screening sanitario rigoroso, cosa che non sempre viene garantita nelle modalità adeguate. Noi abbiamo avuto immigrati provenienti dal porto di Augusta (Siracusa), trasferiti a Trapani o a Messina in una tendopoli, che hanno dichiarato, dopo sette giorni, di non aver mai visto un medico. Il ragazzo che è morto a Siracusa, nel centro Umberto I, era già stato segnalato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni come un caso da portare all’attenzione delle autorità sanitarie, cosa che non è successa. Parliamo dunque di una persona già sofferente al momento dello sbarco, che nei cinque giorni trascorsi da quando ha toccato terra a Siracusa a quando è deceduto non ha ricevuto alcuna assistenza sanitaria. Manca la cultura di un monitoraggio della salute delle persone. Il triage sulla banchina del porto permette solo di individuare i casi più gravi, ma sfuggono tutte le patologie e le ferite di più difficile accertamento. Questo per quanto riguarda la partenza e l’arrivo, ma poi c’è il viaggio: purtroppo i migranti arrivano in condizioni sempre più terribili. Non parliamo delle donne, vittime ormai sistematicamente di abusi, ma adesso anche molti uomini subiscono torture, quindi c’è una quota crescente di persone con un disagio psichico serio. Ci vorrebbero figure specializzate in grado di identificare questi casi, invece non c’è niente di tutto questo. Peggio, le persone con disagio psichico vengono messe in promiscuità con altre, spesso riproducendo così situazioni per loro traumatiche. Anche tra i minori ci sono problemi. Ancora ieri, a Palermo, c’è stata una rissa in un centro per minori. D’altra parte, se in queste strutture le persone vengono abbandonate senza mediatori, senza interpreti, senza psicologi, con solo qualcuno che si presenta con il cibo mattina, ne vicino per garantirsi una prospettiva di ritorno. Per questo ad arrivare in Europa sono, tutto sommato, numeri molto piccoli, anche rispetto, per esempio, ai richiedenti asilo che ha accolto la Germania con le crisi bosniache. La Germania, nel ’94, ha accolto 380.000 richiedenti asilo dalla ex Jugoslavia. Sembra che ce lo siamo dimenticati, ma dopo la crisi dell’ex Jugoslavia, sono arrivati in Europa due milioni di persone. Questo atteggiamento di chiusura di fronte a poche decine di migliaia di persone è davvero poco comprensibile: non vogliamo cioè risolvere il problema dal punto di vista politico laggiù, né dal punto di vista umani- Sistema Dublino e i “Dublinati” – richiedenti asilo e riammessi in Italia mezzogiorno e sera e poi se ne va, e di notte magari non rimane nessuno, beh, è chiaro che in contesti affollati si stabiliscono delle leggi dove il più forte prevarica il più debole e dove, se uno disturba, viene picchiato così non disturba più. È un po’ la legge della giungla. Quest’anno poi la situazione rischia di essere più drammatica di quella del 2011, quando in Italia arrivarono 67.000 migranti, di cui 63.000 in Sicilia. L’estate non è ancora cominciata e ad oggi (metà aprile) siamo già intorno ai 20.000 arrivi. Molti hanno accusato l’operazione “Mare Nostrum”, voluta per limitare i flussi illegali e per evitare ulteriori tragedie in mare, di aver di fatto incrementato gli arrivi. È l’accusa della Lega. Certamente, oggi chi parte sa che percorrendo un tratto di mare molto ridotto, trova le navi di “Mare Nostrum”. A 30-40 miglia dalla costa libica, intervengono i mezzi della Marina, che da quando sono in attività hanno salvato quasi diciottomila persone. Anche questo mi pare vada detto: da quando è stata avviata questa campagna non ci sono più state stragi in mare. La scorsa estate i mezzi erano molto più a ridosso della Sicilia. Le procure perseguivano soprattutto le “navi madre”, cioè andavano alla caccia dei mezzi che portavano barche più piccole e poi fuggivano, quindi i controlli erano dislocati tra Malta, Siracusa e Catania, dove, tra l’altro, avveniva la maggior parte degli sbarchi. Questo però aveva comportato che, in numerose occasioni, mezzi piccoli fossero sfuggiti ai controlli e ci fossero stati anche naufragi dagli esiti tragici: a fine settembre tredici migranti sono morti nel corso di uno sbarco a Scicli, nel Ragusa- no; già ad agosto 2013, a Catania, alla Playa, sei giovani egiziani erano morti prima di raggiungere la spiaggia. Una bruttissima estate ma nulla di paragonabile con quello che è seguito dopo. “Mare Nostrum” è certamente un’operazione costosa, ma ha salvato vite umane e, probabilmente, non c’era altro mezzo. Nessuno stato europeo ha permesso l’apertura di canali di ingresso umanitari. Con una diversa politica dei visti d’ingresso si sarebbero potuti evitare molti sbarchi e molte partenze. molti uomini subiscono torture, quindi c’è una quota crescente di persone con un disagio psichico serio I siriani (che nei primi mesi del 2014 erano appena 11.000!) potevano benissimo recarsi, non dico a Tripoli, perché tutta la Libia è insicura per loro, però, arrivando in Egitto, potevano andare al Cairo, trovare una delegazione dell’Acnur, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, vedersi riconosciuto uno status provvisorio in quanto siriani e da lì essere distribuiti in tutta Europa. Con l’aereo. I migranti in fuga che arrivano in Europa sono una minima parte di quelli che si rifugiano nei paesi confinanti. Questo va detto e ripetuto. I siriani che arrivano in Europa sono una minima parte rispetto ai 700.000 che ha preso la Turchia, al milione che c’è in Libano. I siriani che arrivano qui sono quelli che hanno maturato la scelta, durissima, di abbandonare la propria terra. I più accettano di vivere in un campo profughi super affollato proprio perché hanno la speranza di tornare. Questo fenomeno caratterizza un po’ tutti i grandi movimenti di profughi: generalmente, chi fugge rima- Il sistema Dublino è formato dal regolamento di Dublino III e dal regolamento Eurodac: il primo stabilisce i criteri per la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale, il secondo ha istituito un database europeo di impronte digitali per l’applicazione della convenzione di Dublino. Da un lato il regolamento Dublino intende impedire che tutti gli Stati si dichiarino incompetenti all’esame della domanda di protezione internazionale, privando così il rifugiato del diritto di accedere alla procedura amministrativa prevista per il riconoscimento dello status. Dall’altro si pone come obiettivo quello di impedire i movimenti interni all’UE dei richiedenti protezione, dando agli Stati e non alle persone la facoltà di decidere in quale Stato la persona debba veder esaminata la domanda. Il regolamento Dublino III prevede una tutela per minori non accompagnati e dell’unità familiare, stabilendo che in caso di legami familiari con persone in un altro stato membro, sia questo a essere competente. In realtà il sistema Dublino, come pilastro del Sistema Europeo Comune di Asilo, è stato fortemente criticato e le tutele previste spesso non vengono attuate. Questi sono i paesi che hanno registrato il maggior numero di “Dublinati” dal 2008 al 2013, cioè persone trasferite per riammissione nel loro primo paese di arrivo: Italia (3.460), Polonia (2.442), Germania (1.702). Questi i paesi invece dai quali sono avvenuti più trasferimenti: Germania (4.316), Svizzera (4.165) e Svezia (2.869). Riferimenti. - Dal 1° gennaio 2014 viene applicato il nuovo Regolamento del Consiglio Europeo nr. 604/2013 (luglio 2013), il ccdd “Dublino - III”, che abroga il precedente regolamento nr. 343/2003 (c.d. “dublino II”). - Regolamento Eurodac (CE) nr. 2725/2000, dell’11 dicembre 2000. 19 tario qui. Però si diffonde nel senso comune l’espressione “aiutiamoli a casa loro”. Se avessero ancora una casa… Solo Svezia, Norvegia e, in parte, Olanda e Germania hanno attivato procedure d’asilo anche se le persone erano transitate da un altro paese. Come sappiamo, il Regolamento di Dublino costringe a chiedere asilo nel paese d’arrivo e quindi avrebbero potuto ritrasferire i rifugiati in Italia, per esempio. Fortunatamente non l’hanno fatto. Finora, aggiungo. Ci sono state anche un paio di sentenze che hanno stabilito che non si può trasferire in Italia una persona a causa di questa sistematica carenza del sistema di accoglienza che espone il migrante a trattamenti inumani e degradanti. Sulle navi di “Mare Nostrum” il Ministero dell’interno ha ora dislocato una specie di ufficio di polizia, così la nave carica cento, duecento, trecento rifugiati; insomma, fino a che non fa il pieno, non torna ad Augusta. Ci sono persone che sono rimaste anche tre giorni a bordo delle navi e sottoposte a limitazioni indebite delle libertà personali, senza alcuna informazione o assistenza, in un contesto di promiscuità, con delle lenzuola appese a corde per separare donne e uomini. La nave militare ha un hangar, non ha le cabine, all’interno è simile ai traghetti. E così i migranti sono costretti a sistemarsi su questi materassi messi a terra uno accanto all’altro. Ci sono poi un tavolo di plastica, due sedie e i poliziotti che fanno questa cosiddetta pre-identificazione. Una pratica che ha messo fuori gioco anche le organizzazioni in convenzione col Ministero, come l’Oim, l’Acnur, Save the children, ecc., che prima garantivano un monitoraggio allo sbarco. Se li raccogli a mille a mille e poi li scarichi tutti in una volta, è chiaro che queste organizzazioni, che hanno due operatori sulla banchina, non sono in grado di svolgere il loro lavoro. Dopodiché, si parte in autobus e si va a Sira- 20 cusa, a Messina, a Trapani, e tutto passa in mano ai prefetti. Ora, alcuni prefetti stanno organizzando le cose bene. A Trapani, per esempio, mi risulta che la Croce Rossa e varie organizzazioni stiano lavorando bene; in altre province i prefetti si sono rivelati catastrofici. Se i migranti sono ospiti temporanei che “tanto poi fuggono”, perché preoccuparsi se stanno male, tanto se ne vanno... Ecco, se l’ottica è questa, si va al disastro. Cosa si potrebbe fare? Innanzitutto, l’Italia dovrebbe dotarsi di un sistema di prima accoglienza vero, consolidato, non da approntare mese per mese; occorrerebbe anche riequilibrare il rapporto tra prima e seconda accoglienza: oggi spendiamo molto e male per la seconda accoglienza e pochissimo per la prima. Al momento, abbiamo attivi dodicimila posti in seconda accoglienza, ma ne servirebbero almeno il doppio già operanti. Il ministero ha fatto un bando comunicando contestualmente che i soldi non ci sono. Per la prima accoglienza gestita dai prefetti, ha detto: “Fate degli impegni di spesa fino al 30 giugno”. In pratica, nel momento in cui verosimilmente entriamo nella fase più acuta degli arrivi, tutto finisce. Questa è un po’ la situazione. nel momento in cui verosimilmente entriamo nella fase più acuta degli arrivi, tutto finisce Sul piano internazionale, si dovrebbe rivedere Dublino, lo chiede anche l’Acnur, e adottare un piano di distribuzione dei migranti riconosciuti e riconoscibili come rifugiati, distinguendoli anche per nazionalità. Sia l’Unione Europea che l’Italia hanno gli strumenti normativi necessari. È già stato fatto durante la guerra della ex Jugoslavia e in Kosovo, per riconoscere dei permessi per protezione temporanea, salvo poi il diritto di chiedere asilo. Occorre aprire canali umanitari di ingresso legale protetto in Eu- ropa attraverso il rilascio di visti per motivi umanitari o familiari nei paesi di transito. Se ci fosse un maggior impegno per informare chi arriva sui diritti e sui doveri, si potrebbe anche evitare il dilagare dei movimenti secondari verso il Nordeuropa, dovuto principalmente alla paura: la gente si brucia i polpastrelli, si fa picchiare, si fa torturare pur di non dare le impronte digitali. Con una comunicazione diversa e un’apertura su Dublino, sono convinto che le cose cambierebbero. La Sicilia avrebbe ampia possibilità di accoglienza; in totale oggi questa regione conta 180.000 immigrati, di cui 140.000 regolari; la sola provincia di Brescia ne ha 340.000, Milano ne conta 650.000 e la Lombardia oltre un milione. C’è poi la situazione dei minori non accompagnati. Attualmente c’è il problema di una percentuale altissima di minori non accompagnati che, non appena si trovano in una struttura di prima accoglienza, scappano. Il minore non accompagnato ha diritto a fare richiesta d’asilo in qualsiasi paese arrivi, cioè non è soggetto al Regolamento di Dublino. Se quindi un minore scappa dall’Italia e finisce in Germania o in Olanda può chiedere asilo in quei paesi. Ora, mettiamo che il minore abbia attivato la procedura in Olanda e che a un certo punto in Italia compaia il genitore, quest’ultimo avrà il diritto di ricongiungersi con il figlio in Olanda. Questo, in qualche modo, sta producendo un abbassamento dell’età delle persone che arrivano. Talora sono le famiglie che investono sul ragazzino di sedici anni che cerca di raggiungere un paese aprendo la strada agli altri, però non è una prassi molto diffusa. Comunque, il fatto che Dublino non valga per i minori aumenta enormemente il tasso di fuga. D’altra parte, se i minori rimangono anche cinque, sei mesi senza che nemmeno venga comunicata al giudice tutelare la loro presenza nelle varie strutture... Talora la fuga avviene dopo due giorni dall’ingresso nella struttura; in questi casi, non si può imputare nulla a chi la gestisce. Ma se è una struttura puramente dormitorio o refettorio, è chiaro che i ragazzi hanno il telefonino, hanno i loro amici, qualche contatto, così prendono e se ne vanno. Ripeto, se ci fosse un’altra situazione, si potrebbe quantomeno attenuare questa ondata di fuga che, è vero, c’è sempre stata, ma mai come in questo periodo; cioè potevano scapparne il 50%, ma mai si è visto che ne scappava l’80%. Ormai, girando per la Sicilia, si cominciano a vedere questi ragazzi in giro da soli. La popolazione, anche in questo caso, è abbastanza accogliente: se può, li aiuta. Così come nel caso delle famiglie siriane con bambini, quasi sempre la gente si mobilita, raccoglie delle cose, le ospita nelle parrocchie... Tra Unione Europea e Nordafrica è attualmente in corso una partita molto grossa che riguarda gli “accordi di partenariato”. Può spiegare? Tali accordi sono già stati stipulati con il Marocco, la Tunisia e la Turchia, che è un paese del Mediterraneo, anche se non è nel Nordafrica. La Turchia oggi è considerato “paese di transito”, sta infatti diventando strategico per il passaggio in Bulgaria e in Grecia. Gli afghani, gli iracheni, ma anche molti siriani, vista la difficoltà e la rischiosità della rotta dalla Libia, scelgono di andare in Turchia e poi, da lì, seguire la rotta balcanica. Nel contempo, l’Unione Europea ha avvertito l’esigenza di implementare tecniche di controllo di frontiera più evolute, più avanzate, puntando a una maggiore collaborazione da parte dei paesi di transito, coinvolgendoli nella cosiddetta esternalizzazione dei controlli di frontiera. Questi accordi prevedono in cambio la possibilità, per i cittadini di questi paesi, di entrare legalmente con un visto d’ingresso, per ricerca di lavoro, facilitando i ricongiungimenti familiari. La Turchia evidentemente è molto interessata al tema dei ricongiungimenti familiari perché in Germania ci sono circa tre milioni di cittadini turchi: aprire sui ricongiungimenti vuol dire dare mobilità a mezza Turchia. dalla Libia arrivano persone che provengono da altri paesi e questo rende molto difficile la negoziazione Noi siamo preoccupati perché tali accordi, previsti adesso all’interno del cd. Processo di Khartoum, consentono anche il rimpatrio molto rapido di persone che, invece, potrebbero avere diritto a chiedere asilo in Europa. Penso alla Nigeria e al Sudan, all’Egitto e al Libano. Penso ai curdi nel caso della Turchia. È già successo in Grecia, con conseguenze devastanti: molti curdi sono stati riportati indietro in Turchia, dove sono stati internati in carcere, torturati e ammazzati. Questo è un problema che l’Europa si dovrebbe porre, monitorando il livello di rispetto dei diritti umani e le possibilità effettive di accesso alla procedura di asilo in questi paesi. Sappiamo, ad esempio, che molte persone vanno a chiedere asilo in Marocco poi, però, succede che la polizia marocchina fa una retata nella casbah di Rabat, preleva queste persone, gli strappa in faccia i documenti dell’Acnur e le porta alla frontiera con l’Algeria, dove i migranti finiscono preda delle bande di trafficanti che controllano le frontiere tra Algeria e Marocco. C’è poi la situazione terribile di Ceuta e Melilla, dove adesso le autorità marocchine sono state autorizzate a entrare per fare il lavoro sporco che non può fare la polizia spagnola e quindi anche a riprendersi i “suoi” migranti. Ecco, tutto questo è il frutto degli accordi tra Marocco e Spagna, nel quadro degli accordi tra Marocco e Unione Europea. È importante che il rapporto tra diritti umani fondamentali e controlli di frontiera sia al centro della negoziazione con i cosiddetti paesi di transito. C’è poi la questione, ancora più complicata, dei rapporti con la Libia. L’Italia sicuramente non può attivare nessun movimento forzato, di segno opposto, e deve anche stare attenta alla collaborazione con le forze libiche perché non sono facilmente decifrabili. Ai primi di febbraio, a Roma, c’è stata una conferenza internazionale sulla Libia, con la presenza dell’allora capo del governo transitorio Zidan, il quale, dopo due giorni (per un incidente relativo alla vendita di petrolio da parte dei ribelli in un porto controllato dai federalisti di Bengasi), si è dovuto dimettere ed è fuggito prima a Malta e poi in Germania, perché lo avevano minacciato di morte. È lo stesso premier sequestrato per un giorno l’anno scorso al centro di Tripoli. Sono sequestri “pedagogici”; tre giorni fa si è dimesso il suo successore, perché sono entrati a casa sua di notte e hanno minacciato con le armi lui e la sua famiglia. Oggi con la Libia non c’è un’interlocuzione; l’abbiamo già visto: fai una conferenza internazionale, tratti, elabori una linea di intervento e poi cambia tutto! La Libia rischia di diventare la Somalia del Mediterraneo; non ci sono gli Shabab, però ci sono le milizie armate sui pick-up Toyota col mitra sul cassonetto... La situazione si è esacerbata quando il governo ha smesso di pagare il mensile ai miliziani e ne ha chiesto il disarmo per assumerli in un qualcosa che doveva essere la polizia libica. A Bengasi hanno fatto un attentato stile Afghanistan, proprio dove reclutavano poliziotti, per far capire che i gruppi federalisti non avrebbero permesso che si affermasse una forza di polizia centrale con sovranità su Bengasi e sulla Cirenaica in generale. La questione libica è di enorme spessore politico, ma finora nessun paese ha manifestato l’intenzione di affrontarla seriamente. Le missioni fatte sono state tutte fallimentari. Tra l’altro, i militari italiani che vanno in Libia devono muoversi assieme ai contractor francesi e inglesi, gli unici che hanno le armi... Riguardo gli accordi di partenariato ci sono poi due problemi: il primo è che la Libia non aderisce alla convenzione di Ginevra; il secondo è che nessun libico arriva in Italia per chiedere asilo o per qualunque altro motivo. Escluso qualcuno del giro di Gheddafi, arrivato a Lampedusa con lussuosi yacht subito dopo l’inizio della primavera araba, di libici venuti a chiedere asilo in Italia non se ne sono visti. Dalla Libia arrivano tutte persone che provengono da altri paesi e questo rende molto difficile la negoziazione perché non hai niente da offrire. Gli unici argomenti di scambio con la Libia restano gas, petrolio e infrastrutture, che è poi il terreno dell’accordo tra Berlusconi e Gheddafi, in parte ancora operativo. Anche per questo temo ci aspettino altre stagioni di sbarchi e di gravi violazioni dei diritti umani dei migranti e dei loro stessi corpi, da una parte e dall’altra del Mediterraneo. (a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa) Sistema Europeo Comune di Asilo In seguito alla riunione del Consiglio europeo svoltasi a Tampere nell’ottobre 1999 è stato programmato una cosidetta “armonizzazione” delle politiche in materia di asilo attraverso il cosiddetto “Sistema Europeo Comune di Asilo” -parallelamente allo sviluppo di una comune politica in materia d’immigrazione e di contrasto alla criminalità organizzata. Tre principali direttive stabiliscono gli standard minimi comuni: il significato e il contenuto della protezione internazionale -status di rifugiato e protezione sussidiaria- (“decreto qualifiche”); la procedura per la presentazione della domanda di protezione ai fini del riconoscimento di una forma di protezione (“decreto procedure“); le norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri (“decreto accoglienza”). Il cosiddetto regolamento di Dublino (accompagnato dal regolamento Eurodac) stabilisce invece i criteri per la determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale. Nonostante ciò, il sistema attuale non riesce a fornire una protezione equa, efficiente ed efficace e gli Stati membri presentano tuttora realtà molto differenti. Riferimenti “Decreto qualifiche”: Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del 29 aprile 2004, attuata con il decreto Legislativo 19.11.07 n. 251/2007. Rifusa nel 2011 dalla direttiva 2011/95/CE, recepita in Italia con il Decreto Legislativo 21.02.2014 n. 18/2014. “Decreto procedure”: Direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 10 dicembre 2005, recepita in Italia con il D. Lgs. 28.01.2008 n. 25/2008. Rifusa dalla Direttiva 2013/32/CE del 26 giugno 2013, recepita in Italia con il D. Lgs. 21.01.2015 n. 21/2015. “Decreto accoglienza”: direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27 gennaio 2003, attuata Italia con il D. Lgs. 30.5. 2005, n. 140/2005. Rifusa nel 2013 dalla Direttiva 2012/33/CE del 26 giugno 2013, recepita in Italia entro luglio 2015. “Sistema Dublino”: 1) regolamento 604/2013/CE (luglio 2013), il ccdd “Dublino III”, abroga il precedente regolamento nr. 343/2003 (c.d. “dublino II”), sullo stato membro responsabile all’esame di una domanda di asilo; 2) il regolamento Eurodac n. 2725/2000/ EC dell’11 dicembre 2000 per il confronto delle impronte digitali e l’efficace applicazione del regolamento Dublino, e il suo regolamento di attuazione n. 1560/2003. 21 Il patto d’accoglienza L’esperienza del Comune di Modena nel racconto di Fausto Stocco, che dal 2005 è incaricato di curare l'accoglienza di profughi e richiedenti protezione internazionale. Ho lavorato in questi anni con dei funzionari pubblici seri e preparati, ma soprattutto attenti alle questioni e consapevoli del ruolo importante che può assumere, nel concreto, l’istituzione pubblica locale nell’occuparsi di questi temi, per quanto complessi. Mi è stato dimostrato che modalità ed esiti dell’accoglienza, sia rispetto ai singoli migranti che ai luoghi e contesti in cui si inseriscono e a chi già li abita, dipendono certamente dalle norme e dai decreti dettati a livello nazionale (quasi sempre sulla scorta di emergenze o comunque del presupposto della “temporaneità” e quindi “estraneità” della loro presenza) ma anche, e molto, dall’agire pratico degli enti e delle istituzioni locali. Non solo sul piano delle pressioni che possono esercitare nelle sedi deputate, sia sul piano politico che tecnico, a livello nazionale e regionale, ma anche nelle scelte operative e nella definizione molto pratica di procedure, accordi, convenzioni, prassi sul territorio, con i diversi interlocutori rilevanti. Ne ho avuto dimostrazione sia rispetto a quanto avvenuto sul territorio con l’Emergenza Nord Africa (2011-2012), che nella fase iniziale dell’operazione Mare Nostrum. Ancora prima con la gestione di un progetto Sprar nel Comune di Modena. Parto dallo Sprar, un sistema di accoglienza avviato in Italia dal 2001. Alle origini si trattava di un progetto volontario e paritario tra enti locali, Ministero dell’Interno, Unhcr (Alto Commissariato Onu per i rifugiati), basato su un protocollo d’intesa per la realizzazione di un “Programma nazionale di asilo”. è stato il primo sistema pubblico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, diffuso sul territorio italiano, basato sulla condivisione di responsabilità tra Ministero dell’interno ed enti locali. Un sistema nato, è bene precisarlo, su piccoli numeri e in un momento in cui in Italia nessuna norma imponeva ancora allo Stato un obbligo di assistenza ai richiedenti asilo senza mezzi di sussistenza, impossibilitati per legge a lavorare anche per periodi molto lunghi, necessari a completare la procedura burocratica per il riconoscimento dello status di rifugiato. In quel periodo i richiedenti asilo che rimanevano sul territorio nazionale erano pochi. I più si spostavano immediatamente nei paesi del Nord Europa. Non era ancora efficace il sistema di rilevazione delle impronte digitali comune (Eurodac) che permette ai paesi dell’Unione europea di verificare se un richiedente asilo sia già transitato in un altro paese UE e reinviarvelo in base al Regolamento Dublino. Dal 2005, per recepimento di una specifica direttiva europea, anche l’Italia ha l’obbligo di garantire assistenza ai richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza. E dal momento in cui l’accoglienza è diventata un obbligo per lo Stato e la presenza di richiedenti asilo si è fatta maggiormente stabile, sono stati affiancati al modello Sprar sistemi governativi paralleli di accoglienza, a gestione centralizzata. Nascono i Cara, le strutture temporanee, i centri polifunzionali, i programmi emergenziali. Lo Sprar, come modello di accoglienza basato sulla rete degli Enti Locali, nel frattempo è stato sì istituzionalizzato e stabilizzato, ma è rimasto a lungo uno strumento minoritario in termini di numeri, almeno fino allo scorso anno (3000 posti di accoglienza complessivi ripartiti tra circa 150 enti locali su tutto il territorio nazionale fino al 2013, finalmente aumentati nel 2014 a oltre 20.000 ripartiti tra 382 enti locali). Lo Sprar non è certo la panacea di tutti i problemi, e va detto con chiarezza che, da sempre, ma soprattutto dopo l’ultima estensione da 3.000 a 20.000 posti, coesistono al suo interno progetti e modalità di accoglienza molto diversi tra loro, pur in presenza di linee guida sugli standard dei servizi uguali per tutti e di regole di accoglienza chiare sin dall’inizio per le persone accolte. Quel che mi preme qui indicare sono le caratteristiche che, a mio parere, rendono interessante il progetto Sprar del Comune di Modena. Il progetto è inserito e integrato all’interno delle più articolate attività del Centro Stranieri, struttura pubblica - unità operativa specialistica del Comune, cui è attualmente attribuito il ruolo di facilitatore e di promotore di azioni orientate: alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, a favore di cittadini stranieri presenti sul territorio anche se non residenti, regolari e irregolari, caratterizzati da situazioni di forte disagio sociale e sanitario e a forte rischio di esclusione e marginalità sociale; all’informazione, all’orientamento e alla semplificazione delle procedure connesse all’accesso ai servizi e alla richiesta o al rilascio dei documenti di soggiorno, promuovendo reti territoriali e protocolli d’intesa con gli enti e le istituzioni (Questura, Prefettura) coinvolti; alla promozione dell’integrazione e della convivenza sociale nella città. La gestione del progetto è svolta in modo integrato con tutte le altre funzioni del Centro stranieri ed è diretta in capo al Comune. Questo significa che, pur avvalendosi dello strumento dell’appalto e non potendo chiaramente svolgere direttamente ogni attività operativa, il Comune mantiene la piena titolarità e responsabilità del progetto e dell’accoglienza nei confronti di ogni singola persona inserita. Ciascuna persona accolta firma così il contratto di accoglienza direttamente con il Comune, che ne è referente. Nel contratto sono esplicitati con chiarezza e in modo formale i reciproci impegni, le condizioni e i termini del progetto, modificabili e personalizzabili al bisogno sulla base di parametri e procedure trasparenti. Per garantire alle persone accolte, fin dall’ingresso, la massima autonomia possibile e la possibilità di entrare in un contesto di ordinaria quotidianità nel tessuto cittadino, l’accoglienza viene realizzata attraverso l’inserimento, in regime di concessione amministrativa, in appartamenti autonomi, di proprietà o assunti in locazione dal Comune, diffusi sul territorio. Allo stesso modo vitto, vestiario, beni di prima necessità vengono garantiti non attraverso forniture o servizi di terzi, ma attraverso l’erogazione di un contributo economico alla persona su base mensile, in modo da incentivare al massimo l’autonomizzazione e la ricostruzione di una normale quotidianità e di legami con il territorio, garantendo parallelamente il rispetto Domande di protezione internazionale nell’UE Nel 2014: 626.000 Germania 202.700 (32% del totale) Svezia 81.200 (13%) Italia 64.600 (10%) Francia 62.800 (10%) Ungheria 42.800 (7%) Questi cinque paesi hanno registrato insieme più del 70% di tutte le domande di asilo effettuate nei 28 paesi UE. In confronto con la popolazione del paese membro, il più alto numero di richieste sono state registrate in Svezia (8.4 richiedenti asilo per 1.000 abitanti), Ungheria (4.3), Austria (3.3), Malta (3.2), Danimarca (2.6) e Germania (2.5). Delle 626.000 domande di protezione internazionale, la Siria (20%) e l’Afghanistan (7%) sono i paesi di provenienza più rappresentati. (Fonte: EUROSTAT – newsrelease 53/2015 – 20 March 2015 – “Asylum in the EU”). 22 per le singole abitudini culturali e le scelte personali di consumo. Viene garantito l’accesso e l’abbonamento al trasporto urbano e la copertura delle spese per farmaci e prestazioni non coperte dal Servizio sanitario nazionale. Nel corso dell’accoglienza, un’équipe di operatori affianca e orienta i beneficiari, con l’intervento del mediatore linguistico culturale, quando necessario o richiesto dalla persona, predisponendo forme di sostegno condivise che includono: l’orientamento e l’accompagnamento ai servizi e alle opportunità del territorio; l’orientamento e sostegno in ogni fase della procedura connessa alla domanda di protezione internazionale; il sostengo per le pratiche connesse al rilascio/rinnovo dei titoli di soggiorno; l’apprendimento della lingua italiana, il costante monitoraggio, l’orientamento e la facilitazione all’accesso a corsi di formazione e riqualificazione professionale; l’attivazione di tirocini formativi in collaborazione con il Centro per l’Impiego e il Servizio di Inserimento Lavorativo del Comune, l’accesso ad attività sportive o ricreative. Viene curata, attraverso la collaborazione con il Centro Servizi Volontariato, la possibilità per le persone che lo desiderano di attivare percorsi di volontariato o partecipazione ad associazioni del territorio. L’accesso ai servizi sanitari rientra a pieno titolo negli accordi di programma che il Comune di Modena stipula con l’azienda Ausl-Distretto 3 di Modena, nell’ambito del piano per la salute e il benessere sociale e dei relativi programmi attuativi annuali, in cui rientrano esplicitamente anche i richiedenti e titolari di protezione internazionale presenti sul territorio. è stato curato negli anni, anche organizzando incontri informativi, il rapporto con i medici di medicina generale, che hanno maturato in alcuni casi esperienza e capacità di riconoscere segni e sintomi di traumi derivanti da violenza e percorsi migratori difficili. è stata costruita una solida collaborazione con l’Ausl di Modena, Dipartimento di Salute Mentale e Servizio di Psicologia Clinica, iniziata dal 2009 tramite un progetto di formazione specifico in materia di tutela delle vittime di violenza e tortura. Da allora un gruppo di psichiatri e psicologi del servizio pubblico, che si allarga nel tempo, ha acquisito competenze specifiche sul tema del sostegno alle vittime di tortura e si incontra con cadenza regolare con l’équipe e il supervisore per confrontarsi sulle persone accolte che presentano queste fragilità. Il progetto ha attivato uno sportello di orientamento e informazione aperto al pubblico un giorno a settimana, rivolto alla cittadinanza, ai richiedenti e titolari di protezione internazionale o umanitaria presenti sul territorio o a coloro che volessero presentare domanda di protezione, tramite cui si fornisce ogni informazione utile in merito alla protezione internazionale, orientamento ai servizi del territorio, supporto per il disbrigo delle pratiche burocratiche, ascolto, informazioni e orientamento alle persone che arrivano e chiedono l’accesso all’accoglienza Sprar. Nella gestione di queste attività, il progetto mantiene uno stretto rapporto con i referen- ti della Questura-Ufficio Immigrazione e della Prefettura. Queste istituzioni, in base alla normativa vigente, svolgono localmente un ruolo primario rispetto alle procedure che interessano queste persone, sia rispetto alla domanda di protezione internazionale, sia rispetto alle misure di accoglienza. Per questo si è lavorato per strutturare in modo formale questo rapporto, giungendo alla firma del “Protocollo d’intesa sulle procedure di accesso alle misure di accoglienza per richiedenti protezione internazionale previste dal D. Lgs. 140 del 30 maggio 2005”, siglato dalla Prefettura, dalla Questura e dal Comune attraverso cui viene fornito supporto a chi, presente sul territorio, intenda presentare domanda di protezione internazionale e chiedere accesso alle misure di accoglienza. Credo importante sottolineare ancora l’importanza del ruolo che un ente locale può giocare nel promuovere questi protocolli e accordi operativi. è un dato di fatto la profonda difformità con cui, su questi temi, le norme e le procedure vengono applicate nelle prassi locali di queste istituzioni e come molto spesso il funzionamento delle cose finisca col dipendere dalla buona volontà di singoli funzionari. Il protocollo operativo che ho richiamato non stabilisce nulla di nuovo, ma esplicita, con reciproco riconoscimento, i ruoli e le responsabilità che spettano a ciascuna istituzione in base alle norme esistenti, e individua delle procedure operative condivise e chiare per metterle in atto, nell’auspicio che possano funzionare a prescindere dalla buona volontà dei singoli. Secondo i medesimi principi sperimentati nella gestione del progetto Sprar, e più in generale nella gestione del Centro Stranieri, il Comune di Modena ha cercato di gestire anche l’accoglienza delle persone nell’ambito dell’Emergenza Nord Africa, con alcune specificità rispetto ad altre esperienze, che penso abbiano dato esiti positivi. Anche nel caso dell’Emergenza Nord Africa, il Comune ha assunto un ruolo di diretta responsabilità nella gestione dell’accoglienza delle persone arrivate in città. Ha quindi stipulato direttamente la convenzione con la Protezione Civile. Dato l’elevato numero di persone da accogliere, il Comune ha in seguito attivato, oltre a un’accoglienza diretta attraverso il Centro Stranieri, anche delle convenzioni tra il Comune stesso con più enti gestori sul territorio (associazioni e cooperative sociali), stabilendo standard comuni simili allo Sprar. In ogni caso, il contratto di accoglienza individuale era sempre stipulato tra il Comune e la persona accolta, a prescindere dal fatto che alloggiasse presso un ente gestore. Come detto, si è fatto uso fin da subito di un contratto/patto di accoglienza siglato tra Comune e singola persona, dove venivano esplicitati impegni reciproci e termini dell’accoglienza, nella convinzione che pur nella totale incertezza delle regole in quella fase, esplicitare un accordo con tempi e impegni sarebbe stato fondamentale alla relazione e alla responsabilizzazione di tutti. In mancanza di date di scadenza definite dalle norme, all’inizio il contratto veniva impostato con scadenza trimestrale, chiara- mente rinnovabili, scadenza che comportava comunque il dover risedersi davanti a un tavolo periodicamente per fare il punto sul percorso individuale e condividere i passi successivi. In questo modo molte persone, francamente molto stanche dopo due anni di attesa, al termine dell’iter della domanda d’asilo e del ricevimento del permesso, sono uscite volontariamente dall’accoglienza senza attendere la chiusura nazionale del programma. Al momento dell’ordinanza di chiusura dell’Emergenza Nord Africa, a dicembre 2013, delle 113 persone accolte ne erano rimaste in accoglienza circa quaranta, uscite poi con tranquillità nei successivi tre mesi. Come nel caso dello Sprar, anche nella gestione dell’Emergenza Nord Africa si sono evitati centri collettivi di accoglienza ma si è fatto ricorso, anche con fatica dato l’elevato numero di accolti, a sistemazione in appartamenti a gestione autonoma da parte degli ospiti. Il medesimo modello è stato replicato su scala provinciale, attraverso la creazione di un tavolo, sia politico che tecnico, cui hanno attivamente partecipato per tutta la durata dell’emergenza i comuni capodistretto, la provincia, la questura. Anche nel caso dell’attuale operazione Mare Nostrum, che introduce nuovamente una forma di accoglienza parallela e di emergenza, vorrei sottolineare come la circolare del Ministero dell’Interno 2204 del 19/03/2014, con cui si chiede alle Prefetture di individuare i posti di accoglienza e stipulare le convenzioni a livello locale, pur prevedendo uno schema di massima della convenzione medesima basato sul modello del centro collettivo, ammette esplicitamente la possibilità che lo stesso possa essere “modificato sulla base delle specifiche esigenze territoriali”. Pure in questo caso ravviso un margine per l’intervento locale che orienti e regoli con buonsenso le modalità di accoglienza. E certamente l’ente locale può essere per questo interlocutore fondamentale. (intervento a Euromediterranea 2014 “Borderlands”). Sentenza Tarakhel contro Svizzera La Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene l’Italia uno Stato non completamente sicuro per i richiedenti asilo più vulnerabili, anche se non individua problemi “sistematici” come per la Grecia. Con la sentenza, pronunciata il 4 novembre 2014, nel caso Tarakhel c. Svizzera, la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che, allo stato attuale, il rinvio verso l’Italia di richiedenti asilo (“Dublinati”) particolarmente vulnerabili, quali un nucleo familiare con minori, è suscettibile, in mancanza di adeguate garanzie, di violare il divieto di trattamenti inumani o degradanti, sancito dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). 23 Uomini e fantasmi L’accoglienza dalla prospettiva degli operatori Luigi Monti è direttore della rivista Gli Asini, che nel 2012 ha dedicato un dossier speciale dal titolo “L’Africa in casa”, ripreso ora nel numero 25, di gennaio-febbraio 2015, con una seconda raccolta “Accogliere o respingere”. Un paio di premesse Due premesse necessarie a inquadrare le considerazioni che sto per fare. La prima. Non sono un esperto di politiche migratorie né un sociologo dell’immigrazione. Tramite un’associazione di promozione sociale insegno italiano ad adulti stranieri e faccio attività di animazione territoriale in un piccolo comune del modenese. L’unica esperienza di lavoro diretto con richiedenti asilo è circoscritta a un anno di sostegno al percorso di accoglienza e integrazione messo in piedi, ai tempi della cosiddetta “Emergenza Nord Africa” (Ena), dai servizi sociali del comune in cui insegno italiano, per 11 uomini e donne nigeriani provenienti dalla Libia e sbarcati sulle coste italiane ai tempi delle cosiddette “primavere arabe”. Non sono nemmeno uno storico dei paesi africani (il continente da cui provengono la maggior parte dei miei studenti) anche se sarebbe doveroso raccogliere qualche informazione in più sulla storia, la letteratura, la politica dei paesi d’origine di chi frequenta la scuola. Non so se l’intervento, circoscritto, a cui mi è capitato di partecipare in quei mesi mi ha portato a conoscere meglio loro -la loro cultura di appartenenza- ma indubbiamente mi ha permesso di comprendere meglio noi: i nostri sistemi di accoglienza, cura e educazione insieme alla cultura e all’organizzazione di chi oggi in Italia opera nel sociale. La seconda. Suggerisco di fare la tara a quanto sto per scrivere; di inserire il mio ragionamento in una cornice maniaco-depressiva. Da una parte tutto quanto fa (o comunica) chi lavora, da qualunque posizione e con qualsiasi ruolo, nell’ambito delle migrazioni forzate va considerato una “questione di vita e di morte”: la possibilità per chi fugge dal proprio paese di rifarsi una vita dignitosa “al di qua del mare” dipende molto dal tipo di accoglienza che incontrerà e dalle scelte, quotidiane, compiute da chi accompagna e sostiene nei primi mesi la sua permanenza nel nostro paese. gli atteggiamenti che tenevano a scuola erano troppo omogenei, troppo simili per essere attribuiti al carattere Ogni attore di questo processo, operatore pubblico o del privato sociale, ha responsabilità delicatissime e per questo deve cercare di compiere al meglio il proprio lavoro. Dall’altra non bisogna mai dimenticare che al fondo, con le dovute evidenti differenze, siamo tutti dei poveracci, loro che partono e noi che li accogliamo, e quanto di buono noi operatori facciamo dipende minimamente da noi, dalla nostra organizzazione, dalle nostre procedure e massimamente dal caso e dalla sorte. Dalle circostanze della vita. La lingua dell’esilio Prima della primavera del 2012, a parte quello che raccontavano male e confusamente i media, solo in concomitanza di qualche emergenza politica o di qualche tragedia umanitaria, non sapevo praticamente nulla né della condizione giuridica e di vita dei richiedenti asilo, né delle politiche e delle pratiche attraverso cui essi entrano e permangono in Europa. In che modo sono arrivato a mettere a fuoco quel poco che ho poi capito dello stato dell’arte delle politiche e delle pratiche dell’asilo in Italia e il “quid” di quella pagina confusa della storia dell’accoglienza conosciuta col nome di Emergenza Nord Africa? Attraverso la frustrante constatazione che i miei studenti nigeriani non imparavano l’italiano. Giovani, brillanti, con un livello di scolarizzazione tutt’altro che disastroso, progredivano nell’apprendimento della lingua molto più lentamente delle anziane studentesse analfabete a cui pure in quel periodo facevo lezione. La postura e l’atteggiamento che tenevano a scuola erano troppo omogenei, troppo simili per essere attribuibili solo al carattere di ognuno di loro. Quella lentezza nell’apprendimento, quella stanchezza costante, quella rassegnazione, quella tendenza al lamento e alla recriminazione venivano solo dalle disastrose condizioni sociali e politiche da cui fuggivano, dalla ferita dell’esilio e dello sradicamento, che tutti, più o meno violentemente, avevano subito? O ferite, sradicamento e esilio si impastavano a questioni di altra natura? Quaderno nr. 3 della Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus maggio 2015 Editor: Monika Weissensteiner, Edi Rabini Hanno collaborato: Bettina Foa, Barbara Bertoncin, Maria Bacchi, Salvatore Saltarelli, Marianella Sclavi, Anna Maria Gentili, Mohsen Farsad, Rosanna Sestito, Giulia Levi, Andrea Rizza, Sarah Baldiserra Foto: di Andrea Rizza e Fausto Fabbri, se non altrimenti indicato. A pag. 10 Department for International Development, UK. Di Borderline Sicilia alle pagg. 16, 19, 20, 35; dei Girasoli alle pagg. 27-28; di Mantova solidale alle pagg. 31-32. Il disegno a pag. 7 è di Monika Weissensteiner. Il San Cristoforo di copertina è di Konrad Witz, Museo di Basilea Grazie a Una città per la collaborazione e l’accesso al suo Archivio delle interviste Grafica, impaginazione e realizzazione: Società cooperativa Una Città, Forlì (www.unacitta.it) Stampa: Galeati Imola (BO) Quaderno 1, ottobre 2012 Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus Via Bottai/Bindergasse 5 I-39100 Bolzano/Bozen Tel. + Fax 39 0471 977691 [email protected] www.alexanderlanger.org Cassa di Risparmio/Südtiroler Sparkasse IBAN: IT91S0604511613000000555000; BIC: CRBZIT2B059 Realizzato con il contributo di: Provincia Autonoma di Bolzano, Regione Trentino Alto adige-Südtirol, Città di Bolzano 24 Quaderno 2, dicembre 2013 Il diritto e la politica Per capirci qualcosa di più, per farmi un quadro più preciso, ho iniziato a studiare il lavoro e le analisi dei gruppi e degli osservatori più attenti e attivi che in quegli anni, come oggi, portavano avanti “progetti antagonisti” nell’ambito delle politiche migratorie: penso soprattutto agli avvocati dell’Asgi, agli analisti di Sbilanciamoci! ai collettivi che ruotano intorno a Melting Pot, A buon diritto, ecc. E il quadro giuridico e amministrativo mi è risultato presto molto chiaro: assenza di una legge organica sull’asilo; una gestione diffusa sul territorio (uno dei pochi aspetti positivi inaugurati dall’Ena) ma senza che i territori avessero preparazione né strumenti operativi adeguati; convenzioni stipulate dalla Protezione civile prima e dalle Prefetture poi con cani e porci (alberghi, agriturismi, centri di accoglienza palesemente corrotti o che sono stati educati alla corruzione durante la gestione emergenziale); il folle inserimento di tutti i profughi nel percorso della procedura d’asilo, che ha generato tempi d’attesa lunghissimi e domande di protezione per paesi (quelli da cui provenivano, non dalla Libia, dalla Tunisia o dall’Egitto, da cui scappavano) in cui magari in quel periodo nemmeno c’erano condizioni politiche e sociali che giustificassero qualche forma di protezione internazionale; l’imprevedibile discrezionalità sommata all’incapacità gestionale di molte questure italiane, “stati nello stato”, che al di là dei frequenti episodi di razzismo, avevano tempi di convocazione e rilascio dei permessi lunghissimi se non palesemente “fuorilegge”. Insomma, un enorme e complicatissimo groviglio di nodi di ordine giuridico e politico. Per questo, sul fronte delle rivendicazioni, le poche voci che in quei mesi si levavano più insistentemente a difesa dei profughi reclamavano un’accoglienza più lunga, più soldi, più servizi. La pedagogia Ma lentamente i conti hanno iniziato a non tornarmi. Inutile girarci attorno: raramente la matrice dei problemi che i miei studenti portavano a scuola era di ordine giuridico e direttamente collegabile al razzismo burocratico su cui da allora si è detto e scritto tantissimo. Certo si potrebbe ammettere che la bolla di inedia e di attesa usurante in cui erano avvolte le loro giornate e che impediva loro di apprendere la lingua italiana dipendesse principalmente dai tempi imposti dalla legge italiana sull’asilo e dagli accordi europei di Dublino, accentuati dall’estemporaneità del giro di valzer di decreti e ordinanze emergenziali. Nonché dall’impossibilità di lavorare e vivere imposta dalla procedura per la richiesta d’asilo: come altro si impara la lingua, se non vivendo e lavorando? Detto questo però i conflitti, quando non l’aggressività vera e propria, e soprattutto l’anestesia delle spinte vitali dei miei studenti nigeriani, del loro istinto di sopravvivenza, l’annebbiamento della loro capacità di reagire e di “far da sé” che mi sembrano gli effetti peggiori che una relazione educativa possa produrre, mi sono apparsi spesso inevitabili e messi a sistema dalle relazioni d’aiuto di cui in quel momento erano oggetto. Non dipendenti principalmente dalla normativa vigente, né dalla mancanza di fondi negli interventi programmati, quanto dagli strumenti e dalla cultura professionale dei loro “assistenti”. Sarebbe a dire di noi educatori e operatori sociali. se non ci fosse stata tutta l’impalcatura assistenziale del programma di aiuto avrebbero avuto molte più chance Estremizzo, è evidente, ma molto spesso, di fronte alla confusione dei miei alunni, alla loro rassegnazione, alla loro inedia, alle loro recriminazioni, giustificate o meschine che fossero, mi ha sfiorato, e con una certa presa, un pensiero “cattivo”: che se non ci fosse stata tutta l’impalcatura assistenziale del programma di aiuto e degli attori che lo stavano attuando avrebbero avuto molte più chance di mettere radici, che è quello che loro avrebbero voluto e che la legge italiana imponeva loro di fare. I problemi che i miei studenti nigeriani portavano a scuola erano più prosaicamente di quest’ordine: la collocazione in territori molto isolati; la convivenza forzata; una gestione irrazionale, infantilizzante e assistenzialistica della gamma molto ristretta di strumenti con cui operatori ed educatori gestivano la loro quotidianità (il sistema dei pocket money, ad esempio, o il trasporto, quasi a uso taxi, con mezzi delle “misericordie” e delle “croci verdi”); una confusione primordiale, loro e dei loro “assistenti”, sui confini precisi del programma di protezione; l’altrettanto confusa sovrapposizione degli attori e delle istituzioni in ballo (per i miei studenti la commissione territoriale, i servizi sociali, la questura, la prefettura, il comune, la scuola facevano parte di un’unica confusa nebulosa); la socializzazione al lavoro che aveva più del riempitivo quando non dello sfruttamento di manodopera gratuita; infine quel misto di paternalismo, moralismo, controllo poliziesco, sistema di premi e punizioni, insieme seduttivi e autoritari, che mettevamo in piedi, spesso inconsapevolmente, noi operatori. Ecco se dovessi dire quello che di più inguaiava i miei studenti -anche in vista del momento in cui, finito il programma di accoglienza, se la sarebbero dovuta cavare da soli- può essere attinto da quest’ordine di problemi più che dalla mancanza di fondi o dalla legge, seppur assurda, che regolava e regola il diritto d’asilo in Italia. Spreco d’umanità Chi ha conosciuto e trascorso un po’ di tempo, oggi come allora, con profughi e richiedenti asilo sa che in molti casi la dipendenza assistenzialistica e lo spreco d’umanità in cui sono immersi non sono originati solo dall’assurdità della legge, italiana ed europea. La “galera” che quotidianamente costruiamo intorno a loro è frutto in buona misura dei servizi e degli assistenti sociali che li hanno in carico, degli educatori, delle cooperative per cui gli educatori lavorano, del meccanismo con cui gli enti pubblici appaltano alle cooperative la gestione dei profughi, degli operatori della prefettura, degli assessori, dei dirigenti… Un esercito di “brave persone” che continuano a servire principi astratti e burocrazie amministrative ormai completamente scollate dalla realtà. Accettando in questo modo -ed è questa a mio avviso l’elemento più gravido di conseguenze- la profonda irrazionalità e irrealtà del loro lavoro. Dico che è uno degli aspetti più gravidi di conseguenze perché è a partire dal momento in cui metto a tacere il mio buon senso e accetto che il mio lavoro sia in regola solo perché risponde a procedure formali; è a partire da quel momento che lentamente la mia intelligenza, il mio senso pratico, le mie capacità educative cominciano a consumarsi. E a quel punto anche una buona legge sull’asilo o trasferimenti finanziari per fare tante buone cose non serviranno poi a molto. Morti e zombie Può suonare molto stonato, a pochi giorni dal naufragio del peschereccio che, nella notte tra il 18 e il 19 aprile 2015, ha causato la morte di oltre 800 persone (i cui cadaveri, nel momento in cui scrivo, non sono ancora stati recuperati né contati) spostare l’attenzione dalle istanze giuridiche e politiche che sole potrebbero garantire un ingresso dignitoso ai migranti cosiddetti economici e un reale diritto all’asilo a chi fugge dalla guerra. Ma se di riforme politiche si vuole parlare, che siano reali, efficaci, radicali: una gestione degli ingressi improntata a forme di liberalizzazione (poter entrare con il solo Il profugo sta diventando l’icona del “sociale” di questi anni come il matto lo è stato negli anni Settanta, il tossicodipendente negli anni Ottanta o l’immigrato a cavallo del millennio. In quanto “icona” la categoria del profugo è una rappresentazione speciale della realtà: da una parte ne restituisce un’immagine verosimile, ma dall’altra l’opacità della rappresentazione che ne dà è tale da giustificare e sorreggere un’impalcatura assistenziale -trasferimenti finanziari, impianti giuridici, dialettica politica, cultura e pratiche pedagogiche- che con il reale ha ben pochi punti di contatto (dall’editoriale del dossier “Accogliere o respingere”). 25 passaporto? poter stipulare un contratto di lavoro anche senza permesso di soggiorno?); canali umanitari che garantiscano navigazioni sicure in quella pozzanghera che è il Mediterraneo; una riforma radicale della legge sull’immigrazione e l’introduzione di una normativa organica sul diritto d’asilo, nonché uno stanziamento di risorse sufficiente a rendere reale ed esigibile tale diritto; la sperimentazione di forme di accoglienza improntate all’autorganizzazione dei territori, magari attraverso reti in grado di accogliere in famiglia uomini e donne in fuga da condizioni politiche, economiche e sociali disastrose. Detto questo, non provoca in me minor scandalo dello stillicidio di morti nel Mediterraneo l’aiuto peloso o corrotto messo in piedi dai nostri sfibrati sistemi di assistenza, cura e educazione, che invece di aiutare i profughi a ricucire gli strappi dell’esilio, produce un esercito di fantasmi destinato a vagare per mezza Europa, incapace di ricostruirsi una vita al di fuori dei grovigli delle nostre burocrazie assistenziali. Che fare? Ai miei studenti, in quei mesi di Emergenza Nord Africa, non ho saputo dire niente di più rivoluzionario che di iniziare a sopravvivere in autonomia “come se” gli aiuti non ci fossero stati. Come farlo non ne avevo e non ne ho la più pallida idea, dato che non sono mai stato profugo in un paese straniero. Se non qualche indicazione spicciola: comprendere i tratti generali della loro condizione giuridica e del programma di aiuto in cui erano inseriti, imparare la lingua, guardarsi intorno e stringere qualche amicizia funzionale allo spirito e alla sopravvivenza. E soprattutto iniziare a pensare come campare dopo che avessero ottenuto il tanto agognato permesso di soggiorno: quel pezzo di plastica avrebbe garantito loro “solo” la possibilità di rimanere regolarmente in Italia, non certo forme di sostegno al reddito, né tantomeno una casa o un lavoro. A me stesso e agli “assistenti” che in quei mesi ruotavano intorno a loro o a coloro che oggi proseguono il lavoro in una cornice che sta purtroppo mettendo a sistema la disastrosa gestione emergenziale dell’Ena non so dire niente di più rivoluzionario del piccolo prontuario che misi a punto in quei giorni, per la sopravvivenza mia e dei miei assistiti. Primo: rompere le scatole verso l’alto. Verso l’alto significa pretendere da chi sta immediatamente o molto sopra di noi -coordinatori, dirigenti comunali, assessori, responsabili della questura, ministri…- quelle condizioni che rendono praticabile il nostro lavoro e dignitosa la loro sopravvivenza. Distribuire con lucidità e fermezza, responsabilità e compiti in proporzione al ruolo di potere che si occupa. Secondo: praticare l’obiettivo. Secondo una bellissima definizione del sindacalismo mutualistico delle origini, nel mentre che si rompono le scatole verso l’alto è fondamentale praticare dal basso. Sforzarsi di realizzare su piccola scala, “qui e ora”, ciò che si pretende, per legge, dall’alto. 26 Yang è nato a Jinan, nel Nord della Cina, nel 1979. A 11 anni è arrivato in Italia insieme alla madre: è stato lavapiatti, venditore ambulante sulle spiagge, studente bocconiano, traduttore simultaneo per ministri, imprenditori e registi internazionali, attore di teatro, tv e cinema e recentemente inviato speciale de “Le Iene”. Yang è un cinese alto: 189 cm. Yang è un cinese bello. Yang non sa chi è. Attraverso la storia di Tong Men-g -primo spettacolo prodotto in Italia con protagonista un attore di origine cinese- Yang ha fatto un viaggio alla ricerca delle sue origini, del rapporto con la sua madrepatria, delle storie e delle vite dei suoi antenati; della “riprogrammazione culturale” avvenuta in Italia, delle contraddizioni e possibilità della condizione di uomo orientale/occidentale. (foto di Ilaria Costanzo) Terzo: non perdere occasioni per mostrare l’evidente trasversalità dei problemi e quindi svincolarsi da ogni approccio specialistico. Disoccupazione, precarietà, degradazione dei contratti di lavoro, difficoltà di accesso ai servizi per la prima infanzia, affanno della scuola, per citare solo alcuni dei problemi del territorio in cui lavoro, valgono per gli stranieri come per gli italiani. La precarietà della loro condizione giuridica espone i primi a una ricattabilità che consente di vedere meglio problemi che in realtà riguardano tutti. E da tutti e per tutti vanno affrontati. vittimizzare i profughi significava alimentare la loro tendenza a consumare tutte le spinte vitali Quarto: operare per una liberazione reale, non solo giuridica, delle persone con cui lavoriamo. Operare “come se” dovessimo rispondere solo a noi stessi: insegnare italiano “come se” ciò significasse aumentare le capacità dei nostri studenti di scrivere, parlare e comprendere la nostra lingua; strutturare accompagnamenti sociali “come se” ciò significasse metterli il prima possibile nelle condizioni di camminare sulle proprie gambe; progettare forme di socializzazione al lavoro “come se” questo significasse creare le condizioni per trovare un’occupazione (e un contratto) reale. Insomma “come se” il lavoro educativo e assistenziale fosse un lavoro vero (e capace di rendere pienamente soddisfatto chi lo fa). Quinto: cercare alleanze con “i saltatori di muri” non con “le vittime”. “Vittima” (di mafia, di tortura, di persecuzione politica o razziale…) è diventata fra le minoranze attive la parola a tutto tondo che sembra spiegare ogni cosa e che in realtà, scansando ogni complessità, non spiega proprio un bel niente, elimina ogni progettualità, etichetta e passivizza, offrendo al massimo un alone di salvatore a chi con “la vittima” lavora. Nei mesi di Emergenza Nord Africa è risultato molto evidente: vittimizzare i profughi significava alimentare la loro tendenza a consumare tutte le spinte vitali e le energie psichiche intorno al miraggio del permesso di soggiorno o peggio all’elemosina dei pocket money, rendendoli completamente dipendenti da chi poteva elargire loro quel permesso o quell’elemosina. È facile in questa sede contrapporre alla categoria di “vittima” quella langeriana di “saltatori di muro”. Quando Langer parlava di “saltatori di muro” aveva in mente una postura e una gamma di tecniche molto concrete. Non si trattava per lui di un concetto romantico, una categoria dello spirito. Saltatori di muro -coloro che riescono a distanziarsi dalla propria condizione originaria senza con ciò tradirla- erano per Langer tutti coloro che, partendo da una determinata posizione, magari di oppressione, sanno e vogliono andare oltre, lavorare per il cambiamento. È con costoro, assistenti o assistiti che siano, che vale la pena progettare, rimanere in movimento, condividere inquietudini e aspirazioni di liberazione. La parola “aiutare” e la parola “grazie” Un racconto a più voci, tra cui quelle di Michele Liuzzo, Santina Lombardo, Cettina Nicosiano, Calogero Santoro, raccolto da Bettina Foa con alcuni animatori de “I Girasoli”, un’associazione sorta nel 2006 a Mazzarino che ha curato l’accoglienza di oltre 500 minori non accompagnati richiedenti asilo. Il progetto di accoglienza di minori non accompagnati di Mazzarino è considerata una buona pratica sia in Italia che all’estero. Il nostro progetto si chiama “Mazzarino, città d’accoglienza”. Mazzarino, situato in un ambiente collinare particolarmente bello, pieno di oliveti e di alberi da frutta, è una città accogliente. Ha anche una tradizione di lotte contadine e alcuni dei nostri nonni erano a Portella della ginestra il 1° maggio del 1947. Questo ambiente favorevole è importante e significativo, ma qui in Sicilia ci sono anche situazioni difficili e contraddittorie. Il progetto di Mazzarino ha sviluppato un approccio che si articola sui tre assi principali dell’assistenza di base (vitto e alloggio), dell’integrazione lavorativa e nel tessuto sociale (studio dell’italiano e formazione) e della tutela (psicologica, legale e sanitaria). Vari interlocutori hanno considerato originale il nostro modello di accoglienza/integrazione/tutela, che non è puramente assistenziale, ma basato sulla promozione della centralità della persona e della sua storia. E in effetti questo modello è oggetto di studio sia a livello nazionale che internazionale. Nel 2012 siamo stati invitati a partecipare al Festival internazionale di terapia familiare, dove la psicologa del progetto ha presentato una relazione su questa esperienza. Sempre nel 2012, nell’ambito dell’European Network of Asylum Reception Organisations (Enaro), che comprende una ventina di organizzazioni europee impegnate nell’accoglienza dei richiedenti asilo, il progetto è stato indicato dal servizio centrale dello Sprar come idoneo per uno scambio di esperienze. Kari Madssen, responsabile del sistema di accoglienza norvegese, è venuta a Mazzarino e si è fermata qui per un po’ di tempo per capire le prassi adottate nel nostro progetto elaborando poi un rapporto molto positivo. Per noi questo scambio di esperienza è stato un momento di confronto arricchente. Il valore aggiunto importante del nostro progetto è il modo in cui si lavora quotidianamente e l’interazione con il contesto sociale, che ci permettono inoltre di approfondire i rapporti di collaborazione con le istituzioni. Noi siamo convinti del fatto che sia molto importante, per tutti, capire che il servizio di accoglienza non è, e non può essere, il tramite di una mera prestazione, ma il flusso di relazioni e di interazioni tra tut- ti gli attori coinvolti nel servizio, interni ed esterni alle strutture, che sollecita inevitabilmente un’evoluzione culturale. L’aspetto relazionale presente nel confronto con gli individui, e quindi con i processi comunicativi e intersoggettivi, induce a non ridurre il servizio di accoglienza a una semplice relazione dove il ragazzo beneficiario sollecita l’operatore. Vi sono due modelli diversi di riferimento per quanto riguarda, più in generale, i servizi rivolti alla cura delle persone: un modello tradizionale in cui la persona beneficiaria dipende dal servizio e gli operatori hanno un ruolo centrale rispetto all’utenza che è passiva; e un modello legato all’organizzazione comunitaria in cui il potere degli operatori viene meno. In quest’ultimo modello le informazioni sono condivise, e sono valorizzate le competenze e le potenzialità dei beneficiari dei servizi che assumono un ruolo più autonomo e attivo in quanto membri consapevoli della comunità. Ed è questo tipo di servizio di accoglienza che può essere un’esperienza creativa di senso e di significati culturali, un luogo che arricchisce insieme i ragazzi beneficiari, gli operatori e tutto il territorio. Un luogo in cui si manifestano flussi di relazioni, in cui il dialogo è significativo e importante a condizione che i dialoganti, però, siano disposti a farsi trasforma- re da questa esperienza. Stiamo cercando di eliminare dal nostro linguaggio le parole “aiutare” (da parte degli italiani) e “grazie” (da parte dei migranti). la politica dell’accoglienza ha sottovalutato per troppo tempo i bisogni formativi e culturali è bene sempre privilegiare un’accoglienza consapevole e condivisa dall’intero territorio. Interazione, integrazione, inserimento lavorativo e sociale, non solo dal punto di vista degli stranieri. La scelta dei luoghi di accoglienza non è stato casuale e tiene conto di questa necessità. In passato si è sempre lavorato come in una fase perenne di emergenza in cui prevaleva l’assistenzialismo (forse per compiacere i nostri orientamenti valoriali) senza stimolare forme di autonomia dei beneficiari. La stessa politica dell’accoglienza ha sottovalutato per troppo tempo i bisogni formativi e culturali facendo prevalere l’importanza delle necessità primarie (salute, alloggio), dimenticando che i bisogni formativo-culturali non sono un “di più”, un lusso da riservare agli immigrati di cui si siano soddisfatti i bisogni essenziali. Chi sono gli ospiti dello Sprar di Mazzarino? Com’è organizzata la vita di 27 ogni giorno, e come affrontate le problematiche della loro integrazione? I ragazzi sono tutti minori non accompagnati richiedenti asilo di origine asiatica e africana. Ognuno di loro con una storia di migrazione diversa, diversa provenienza geografica, un diverso vissuto, un modo diverso di interagire, ma accomunati dal fatto di essere “identità di transizione”. Nel senso che l’esperienza di migrazione comporta in loro un continuo riassestamento interiore: perennemente impegnati e coinvolti a mediare e a gestire mutamenti ambientali che influiscono in modo rilevante sulla costruzione della propria identità soggettiva e della organizzazione della propria personalità. Avvengono cambiamenti nella dimensione temporale, in cui passato, presente e futuro rimangono momentaneamente sospesi lasciandoli in bilico tra un passato da rielaborare e un presente privo di certezze; cambiamenti nella dimensione spaziale, cioè lo spazio ambientale e geografico, lo spazio linguistico-comunicativo e lo spazio corporeo. Tutto ciò comporta una revisione dei modi di pensare, di immaginarsi nelle situazioni future, di costruire il proprio percorso di crescita, di interpretare il mondo circostante in relazione al nuovo ambiente. Una reinvenzione della propria identità. I ragazzi si trovano in una condizione di stress emotivo continuo che necessita un impegno psicofisico costante nel tentativo di autogestire e superare nuovi compiti e sfide. Sfide in cui la ricerca di risorse non avviene solo internamente ai ragazzi, ma anche nell’ambiente stesso, che assume un ruolo decisivo nel contrastare o promuovere la costruzione di un sé competente. La vita quotidiana nel Centro deve essere ben organizzata. Per esempio, al mattino c’è il corso di italiano organizzato dai Girasoli e il pomeriggio la frequenza alle lezioni per ottenere la licenza di terza media. I ragazzi 28 sono inseriti in due classi con altri ragazzi di Mazzarino, in genere in ritardo con gli studi. Ci sono un po’ di problemi perché il metodo di insegnamento adottato, che è quello per le scuole serali rivolto a italiani, non è del tutto adeguato. L’organizzazione delle case, situate tutte nel centro di Mazzarino e vicine tra di loro, funziona in genere bene, con una responsabilizzazione e partecipazione dei ragazzi nella gestione e organizzazione degli spazi. per inserirsi e fare delle amicizie ci vuole tempo, e il tempo disponibile è davvero poco L’interazione e integrazione dei nostri ospiti con i mazzarinesi non è facile. L’appartenenza a un progetto, a una struttura di accoglienza, pone i ragazzi dei Girasoli in una situazione di disparità rispetto ai ragazzi autoctoni. Le possibilità di integrazione e interazione sono inoltre legate allo spazio temporale, perché per inserirsi e fare delle amicizie ci vuole tempo, e il tempo disponibile in accoglienza varia a seconda dell’età di arrivo dei ragazzi, età che quasi sempre è quella dei 17 anni, ed è davvero poco un anno e sei mesi per studiare, formarsi e intrecciare rapporti amicali. Ma ci proviamo. Per esempio, il calcio, le palestre sono strumenti e luoghi di interazione, anche se superficiali. In questi giorni i ragazzi dei Girasoli sono stati invitati in una delle scuole di Mazzarino per delle conversazioni in lingua inglese durante le ore di lezione con i ragazzi delle classi e per narrare della loro particolare condizione ed esperienza. E questa è stata una buona iniziativa di dialogo e conoscenza. Alcuni dei ragazzi hanno partecipato a un corso di formazione per pizzaioli, molto utile, e molti di loro vorrebbero intraprendere questa professione. I tirocini formativi non sono obbligatori nel sistema Sprar, ma chiaramente sono sempre auspicati dal servizio centrale con una attenta indicazione dei fondi europei da cui attingere per la loro realizzazione. Ultimamente siamo riusciti far finanziare un progetto con il Ministero del lavoro per l’organizzazione di 50 tirocini. Anche in questo caso i contatti con il settore pubblico e privato è molto importante. Le indennità dei tirocini per i ragazzi variano secondo la durata e la tipologia e sono comunque molto utili, soprattutto per coloro che vogliono e devono “continuare il viaggio” una volta usciti dal centro. Dopo il tirocinio, pochi ragazzi hanno avuto l’opportunità di un contratto di lavoro nella stessa azienda. Pochi ragazzi da noi accolti in questi anni ancora vivono e lavorano in Sicilia e a Mazzarino. Molti tornano però qui in vacanza, e considerano Mazzarino ancora come la propria “casa”. Una delle principali conclusioni del rapporto di Kari Madssen ha constatato ed evidenziato l’esistenza ai Girasoli di una grande fiducia dei nostri giovani ospiti nei confronti degli operatori del progetto. Intanto stiamo riflettendo su altre forme di accoglienza e integrazione, come l’affidamento o su una campagna “adotta un rifugiato”. Ma bisogna ancora lavorarci. Com’è il processo per l’ottenimento del permesso di soggiorno - diritto d’asilo? La fantasia del legislatore si è sbizzarrita nel proporre le tipologie di permesso di soggiorno. Ne esiste una quantità notevole e tra i richiedenti asilo ce ne sono ben tre, con differenti validità temporali e con possibilità o meno di attività lavorativa. Il più complesso è il permesso di soggiorno per “Dublino” (regolamento dell’Unione Europea) per stranieri la cui presenza è stata segnalata in più di un paese dell’UE e che serve a determinare lo Stato membro competente per la domanda di asilo. Tutto ciò si traduce in tempi lunghissimi di attesa. Per i richiedenti asilo dalla data della loro richiesta all’audizione con la commissione territoriale possono trascorrere anche 10, 12, 18 mesi. In tutto questo tempo i rifugiati e i migranti, oltre ad avere problemi di sussistenza se non ci sono posti disponibili in un centro d’accoglienza, restano sospesi in attesa di sapere cosa potranno e non potranno fare della propria vita. Ma anche per coloro che stanno nel Cara di Pian del Lago la situazione è difficile, perché l’ente gestore non si è impegnato come avrebbe dovuto a organizzare in modo adeguato lo studio dell’italiano e le attività formative. i confini territoriali non fermano le persone in fuga da guerre, persecuzioni e fame Il caso di molti richiedenti asilo accolti negli Sprar gestiti dai Girasoli è significativo: arrivati nell’ottobre 2013, alcuni saranno sentititi dalla commissione di Trapani nell’ottobre 2014 e altri a gennaio del 2015. E anche dopo l’audizione i tempi per conoscere la decisione della Commissione sono generalmente lunghi e imprecisi. A Caltanissetta ci sono molti stranieri e diverse iniziative. Qual è il ruolo dello Sportello migranti di Caltanissetta? Come lavorate in rete con altre organizzazioni attive nell’accoglienza ai migranti? A Caltanissetta c’è un centro polifunzionale (il Centro di Pian del Lago) che riunisce in uno stesso perimetro le tre tipologie di centri per immigrati irregolari, come definiti dal Ministero degli Interni (Centro di accoglienza -Cda; Centro di accoglienza per richiedenti asilo -Cara e il Centro d’identificazione ed espulsione -Cie). Il centro è stato istituito nel 1998 dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano. La maggioranza dei richiedenti asilo presenti a Caltanissetta è arrivata attraverso il Mediterraneo; alla richiesta di asilo segue un permesso di soggiorno (trimestrale o semestrale) in attesa della definizione della pratica. Ma c’è anche un grandissimo numero di persone che arriva attraversando Iran, Turchia e Grecia sui mezzi più disparati, si tratta perlopiù di giovani afghani o pakistani anch’essi richiedenti asilo. Lo sportello migranti di Caltanissetta non è nato con i Girasoli, è stato creato nel 2005 in modo volontario da un piccolo gruppo di persone, qualcuno già componente dei Girasoli, e da un avvocato da sempre impegnato in questo ambito, nel tentativo di alleviare i disagi connessi alla condizione di straniero, contrastare i fenomeni di razzismo, fornire un’informazione corretta e dare una lettura diversa e non allarmistica sulla realtà degli stranieri presenti a Caltanissetta. A tale scopo abbiamo elaborato un “piccolo libro bianco”, Polvere sotto il tappeto. Adesso collaborano allo sportello anche alcune delle persone che precedentemente sono state accolte nello Sprar, come mediatori linguistici e culturali. Lo sportello è aperto il venerdì pomeriggio dalle 16.00 alle 18.00 in via Re d’Italia 14 e funziona sulla base di un accordo informale con il Comune. Le persone vengono allo sportello per chiedere informazioni e farsi aiutare a espletare delle pratiche burocratiche. L’attività principale è l’attribuzione di un indirizzo di domicilio ai richiedenti asilo senza dimora fissa che devono rinnovare il permesso di soggiorno e che, altrimenti, senza un domicilio, non potrebbero rinnovarlo. Tra l’altro, questo ha anche permesso di combattere un vero e proprio mercato nero delle “dichiarazioni d’ospitalità”, il cui prezzo oscillava tra i 300 e i 900 euro. Lo sportello è diventato un punto di riferimento importante per i richiedenti asilo e i rifugiati e meta di giornalisti e universitari per visionarne il funzionamento. La collaborazione con le altre organizzazioni presenti nell’area di Caltanissetta è importante e necessario. Ad esempio qualche mese fa è stato fondamentale l’impegno comune con Borderline Sicilia nel monitoraggio degli accampamenti spontanei al di fuori del Centro di Pian del Lago. Grazie alla mobilitazione di varie organizzazioni, e soprattutto alla collaborazione con le istituzioni, si sono potute trovare delle soluzioni e adesso, dalle 250 persone presenti a ottobre nell’accampamento spontaneo, si è passati a una media di 35. Insieme abbiamo fatto pressione sulle istituzioni perché si assumessero le responsabilità di loro competenza. Cosa pensate della situazione attuale e dell’aumento degli arrivi via Mediterraneo? I confini territoriali non fermano le persone in fuga da guerre, persecuzioni e fame. I confini e le politiche di confine servono unicamente a incrementare il traffico di esseri umani e ad arricchire una oramai vasta organizzazione criminale di trafficanti. L’attuale situazione catastrofica in molti paesi africani e asiatici spinge e spingerà inevitabilmente molti a raggiungere l’Europa, la fortezza Europa. E nonostante ciò sia chiaro ed evidente a tutti da tempo, in Italia si continua a lavorare su una base emergenziale. In quest’ultimo periodo è stato creato un sistema di accoglienza parallelo sempre allo Sprar gestito dalle prefetture. E allo stesso tempo i fondi per l’allargamento dello Sprar sono erogati a rilento, nonostante tutto il lavoro realizzato da comuni e enti gestori per preparare i nuovi progetti Sprar, valutarli e rendere disponibile il cofinanziamento. è stata privilegiata ancora una volta la mobilitazione di hotel e di organismi insufficientemente preparati per l’accoglienza. Principio di non-refoulement Nessun stato può espellere o respingere una persona, chiunque sia, in un altro stato qualora vi siano possibilità che in tale stato la persona rischi di essere sottoposta a tortura, maltrattamento o punizioni disumane. Riferimenti: Convenzione di Ginevra sullo Statuto dei Rifugiati (1951, art. 33), il relativo Protocollo (1976) e il principio di non-refoulement; Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (UNCAT 1984, art. 3.1); Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR, 1966, art. 7); Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR, 1950, art. 3) come interpretata dalla Corte Europea del Diritti Umani (ECtHR) nel caso Soering v. United Kingdom (Judgment of 7 July 1989, Series A no. 161). Certo, lo Sprar è stato fino ad ora un gioiellino, con 30-40 progetti e il suo allargamento non sarà necessariamente facile. In effetti, molti degli enti gestori che sono entrati adesso nel sistema hanno negli anni passati gestito dei Cara, applicando quindi dei criteri di qualità molto più bassi di quelli dello Sprar e con un approccio spesso clientelare. Anche il monitoraggio a livello nazionale non sarà così facile da realizzare, visto che fino ad ora l’organico del servizio centrale sembra essere rimasto com’era. l’accoglienza non è un problema di risorse, ma di buona gestione delle risorse Per far fronte a breve termine a questi nuovi arrivi bisogna trovare delle soluzioni intermedie, con i Cara che dovrebbero svolgere un ruolo di prima accoglienza. In un secondo tempo è importante favorire l’accoglienza diffusa come quella dello Sprar, perché se c’è troppa centralizzazione (come succede adesso nei Cara) le persone si perdono e non riescono ad avanzare. Secondo la nostra esperienza, l’accoglienza non è un problema di risorse, ma di buona gestione delle risorse. Si può fare molta più accoglienza e di migliore qualità a un costo inferiore di quello attuale dei Cara e del sistema gestito dalle prefetture, in cui si è creato un vero e proprio business dell’accoglienza. E questo è particolarmente evidente in Sicilia. Sono 25.000 i minori registrati dall’inizio del 2014 sulle coste italiane. Circa il 65% sono minori stranieri non accompagnati. L’incremento delle presenze nei centri nel 2014 rispetto al 31/12/2013 è stato del 42,44%. I minori non accompagnati che sbarcano sulle coste italiane hanno avuto in passato generalmente un’età compresa tra i 15 e i 17 anni. Nel 2014 si è assistito ad un incremento della presenza di minori stranieri non accompagnati di età inferiore. Oltre 3.700 sono stati i Minori Stranieri non Accompagnati scomparsi nel 2014 dai Centri di Accoglienza. Su 14.243 scompare il 26%; 1 su 4, una volta arrivato in Italia, fa perdere le proprie tracce. Solo in Sicilia i minori stranieri non accompagnati scomparsi dai centri sono 1.882 su 4.628 registrati. 29 200 euro e un biglietto per la Germania Maria Bacchi dialoga con Yaya Mane e Samuel Gandabie, arrivati a Mantova nel 2011 durante la cosiddetta Emergenza Nord Africa. Le loro vite si sono incrociate nella rete di rifugiati di cui si occupa Mantova Solidale, una piccola Onlus nata all’inizio del 2013. Cosa è importante dire, secondo voi? Cosa vi sentite di raccontare? Yaya e Samuel (insieme, ridendo): Mamma mia! Maria: Perché dite così? Yaya: Perché è una storia dolorosa. E’ per questo motivo che non mi piace raccontare la mia storia. Mi chiamo Mane Yaya, sono nato il primo gennaio 1991 in Costa D’ Avorio, ma i miei genitori sono senegalesi. Durante la guerra in Costa d’Avorio mio padre è morto; io con mia mamma, mia sorella e mio fratello ci eravamo nascosti; dopo due giorni siamo tornati a casa e abbiamo trovato mio padre già morto. Dopo abbiamo organizzato il viaggio per andare in Senegal, a casa di mio nonno. Ho iniziato a studiare ma non potevo continuare, non avevamo soldi, così ho comprato il biglietto per andare in Mali. Arrivato in Mali ho cercato lavoro come muratore e ho guadagnato abbastanza per comprare il biglietto per andare Algeria; lì ho guadagnato un po’ di soldi per andare in Libia con alcune altre persone. abbiamo iniziato a camminare alle otto di sera e siamo arrivati in Libia alle sette di mattina Abbiamo pagato un arabo che ci ha portato in un paese sulla strada per la Libia, ma non c’erano più soldi per andare avanti; allora abbiamo deciso di camminare. Abbiamo iniziato a camminare alle otto di sera e siamo arrivati in Libia alle sette di mattina, in un una città che si chiama Ghat. Eravamo tre gambiani e tre senegalesi. La mia testa girava, non c’era acqua, non c’era niente da mangiare, non avevo più forza. Poi un libico ci ha visto. Ti hanno lasciato passare alla frontiera? Yaya: Lì ci sono i militari e noi siamo entrati per una stradina nascosta. Abbiamo chiesto a quell’arabo dov’era la casa dei senegalesi e lui ci ha portato in macchina, gli abbiamo dato un dinaro, pochi soldi. La casa dei senegalesi prendeva tutti quelli che arrivavano. Quando arrivi dai a loro tutti i soldi. Una volta, dopo, quando ho trovato da lavorare e ero libero, abbiamo fatto una riunione per dare dei soldi per quelli che erano dentro. Abbiamo formato una associazione per aiutare gli altri che arrivavano e non avevano persone che potevano aiutarli per pagare. Quella casa era una prigione. Quanto tu arrivavi là non avevi più niente, allora 30 chiamavi la tua famiglia e quando i tuoi ti mandavano i soldi loro ti facevano uscire. Io sono rimasto in questa casa solo una settimana perché c’era un mio amico lì in Libia; l’ho chiamato lui e mi ha mandato i soldi. Per il resto, loro ti portano da mangiare ma, fino a quando tu non trovi i soldi, non puoi uscire da questa casa: ti fanno rimanere lì tanto tempo, certi ci sono rimasti due anni. Io ho trovato lavoro nell’edilizia, mettevo i ferri per le costruzioni; il proprietario era un libico. Samuel: Guarda il camion che mi ha portato fino in Libia (mi mostra, dopo averla cercata su Internet, la foto di un camion stracarico di persone e bagagli). Io ci ho impiegato due mesi per arrivare dal Ghana alla Libia. Yaya: Io ci ho impiegato un anno dal Senegal, perché non avevo soldi e dove arrivavo mi dovevo fermare per lavorare e guadagnare qualcosa. Samuel: Quando nel 2011 c’è stata la guerra non c’era più una strada per tornare in Ghana o in Senegal o in Nigeria, non potevi più tornare indietro, non c’erano neanche più aerei. Una notte ero a casa, sono venuti, mi hanno detto di venire fuori e mi hanno portato nel posto dove ci mettevano sulle barche. Tu, Yaya, hai detto che avresti voluto tornare in Senegal… Yaya: Anche dove abitavamo noi, i soldati sono venuti di notte, ci hanno preso tutto, ci hanno caricato su un furgone e ci hanno portato al porto per venire qui. C’era della gente che scappava perché non voleva imbarcarsi; li hanno presi per i piedi, li hanno caricati sulle barche per farli partire. Dovevi andare per forza. Samuel: Anche a me è successo. Ma perché hanno fatto così? Prima, quando parlavamo, Yaya ha detto che Gheddafi aveva fatto un contratto con l’Europa, ma poi ci sono stati problemi e i libici hanno detto a tutti di andare in Europa. Prima non si poteva partire, poi con la guerra invece ci hanno costretti, dicevano: “A noi libici non servite qua!”. Yaya: Siamo partiti venerdì 3 maggio, abbiamo fatto venerdì, sabato e domenica in mare; domenica siamo arrivati a Lampedusa. Samuel: Eravamo sulla stessa barca, probabilmente. A un certo punto si è rotta, saremo stati in 950, forse di più. C’era troppo caldo, era finita l’acqua. Yaya: C’era una ragazza nigeriana vicino a me, era incinta e lei è morta lì. Samuel: Anche altre, e tu vedevi, ma non potevi fare niente. Vi hanno chiesto soldi per questo viaggio? Yaya: No, quando sono venuti a prenderci hanno messo le mani nelle tasche e quello che trovavano lo prendevano. Nelle mie tasche hanno trovato 600 dinari. Prima della guerra avevo mandato i soldi che avevo a mia mamma; mi erano rimasti quei soldi e se li sono tenuti. Samuel: Anche a me si sono presi dei soldi. Ma ne avevo pochi: quando è cominciata la guerra non c’erano più soldi. Il padrone ci ha detto che la banca era chiusa e non aveva niente per pagarci. Come volete continuare questa conversazione? Yaya: Io voglio parlare dell’accoglienza, dobbiamo parlare dell’accoglienza. Prima eravamo in albergo a Mantova, poi a Quistello e poi a San Biagio, dove è finita la nostra accoglienza: è lì che abbiamo visto tutto. Lì non è andata bene. Lì avrebbero avuto la possibilità di aiutarci a lavorare. Il capo del macello è venuto a cercare persone per lavorare ma quelli della cooperativa che ci accoglieva non hanno voluto mandarci. Chi gestiva l’accoglienza lì? Yaya: Era un’associazione, una cooperativa e capo era una donna che abita a Milano, veniva a controllare ogni tanto. Un ristorante ci portava da mangiare e, se non mangiavamo tutto, ti davano gli avanzi, ma non i tuoi, mettevano insieme quelli di tutti e te li davano a cena e, se ne restavano nei piatti, te li davano a pranzo il giorno dopo. Abbiamo detto che non siamo animali, io non mangio quello che è rimasto nel piatto degli altri. non volevo dire bugie, inventarmi la guerra, ho detto la verità: sono andato in Libia per cercare lavoro Quando ero a Quistello sono andato a Milano per la Commissione e mi hanno dato parere negativo, così sono tornato e c’è stata un’avvocata, che mi ha aiutato a fare il ricorso. Vi aveva preparato qualcuno per la commissione? Yaya: Lì nessuno, ma abbiamo avuto un incontro al Centro interculturale della Provincia e ci hanno spiegato cosa dovevamo dire, c’era anche la mediatrice, che ci ha aiutato. E poi com’è andata? Samuel: è andata male. Erano tre persone e il presidente chiedeva: “Perché hai lasciato il tuo paese e sei andato in Libia?”. Loro non volevano sapere della Libia, volevano sapere del tuo paese, perché sei andato in Libia, per la guerra o per altri problemi. Ma il mio problema in Ghana non era la guerra o la polizia che voleva arrestarmi, il mio problema era economico e non volevo dire bugie, inventarmi della guerra, ho detto la verità: sono andato in Libia per cercare lavoro. Così hanno respinto tutto, hanno dato parere negativo. Allora il capo del Centro interculturale ci ha fatto fare ricorso. La mia avvocata mi ha insegnato cosa dovevo dire in tribunale, sono andato con lei, ma ci han- no fatto aspettare ancora; poi hanno dato il permesso umanitario a tutti quelli che avevano avuto un parere negativo. Ma prima era andata male. Stavamo male, tutti noi che avevamo avuto un parere negativo non pensavamo ad altro: essere qui senza documenti è un grande problema. Yaya: Io sono andato là e ho trovato una donna che faceva da interprete. Io non parlavo italiano neanche un po’, ma quando parlavano gli altri capivo e quello che io dicevo a lei, lei non lo diceva alla commissione, non traduceva giusto, forse non capiva bene; allora io le rispondevo in dialetto: “No, tu non hai capito”. Quella signora mi ha detto: “Ma tu capisci l’italiano, allora!”. Poi mi hanno chiesto perché mio padre non ha mandato a scuola i miei i fratelli. Non capiscono che da noi, se un genitore decide una cosa, tu non puoi dire no, mancheresti di rispetto. Se tuo padre dice una parola a tua madre, tu non puoi intervenire e dirgli: “Perché fai così!”. Il rapporto con i genitori non è come qui da voi, in Italia. Io avrei voluto fare l’artista, ballare, fare musica; ho anche qui una foto che mi ha mandato un mio amico, poi te la faccio vedere: io facevo rap con dei miei amici. E rompevo sempre a mia mamma con questa cosa del rap, e lei mi ha detto: “No, no, no, a me non piace”. E allora ho smesso, non puoi disobbedire ai genitori da noi. Ecco, in commissione volevano sapere perché i miei non hanno mandato a scuola i miei fratelli, io ho detto che non lo sapevo. E loro insistevano per sapere il motivo e io ripetevo che non lo sapevo. Anch’io non volevo mentire. Mi hanno detto: “Allora da voi non c’è libertà, non c’è democrazia.” Ho risposto che semplicemente non si passa davanti ai genitori. Dopo un mese mi è arrivata la risposta negativa. Io ci sono rimasto male, sono andato in questura e una signora mi ha detto di non preoccuparmi che mi avrebbero dato comunque un documento. Studiavate italiano mentre eravate in accoglienza? Yaya: Io prima non volevo studiare italiano, quando ero a Quistello. Non c’era niente nella mia testa. Samuel: La testa quando sei così gira, gira: pensi ai documenti, pensi a tante cose… Yaya: La signora che ci voleva insegnare italiano veniva nella casa dove stavamo. Quando lei veniva con i libri io prendevo le mie scarpe e andavo ad allenarmi per giocare a calcio. Allora questa signora si è arrabbiata con me e non mi salutava più. Capivo che aveva ragione lei: se uno ti dice studia è perché ti vuole bene, vuole il tuo futuro. Allora ho cominciato ad andare a scuola e lei era contenta, mi diceva che ero bravo. Tutti i giorni cercavo di trovare la forza per andare a studiare. Dopo, quando ero a San Biagio, prendevo tutti i giorni l’autobus per venire a scuola in città. non è che noi non vogliamo rimanere in Italia, non è questo, ma non abbiamo un posto dove andare Quello che mi ha fatto male di questa accoglienza è che loro hanno fatto del bene per noi, tutti a Mantova, ma quando questa accoglienza è finita a febbraio… ecco, come fai a mandar via così delle persone che non sanno dove andare? Anche oggi c’è un sacco di gente con questo problema che sta soffrendo. Non è che noi non volevamo rimane- re in Italia, ma non avevamo un posto dove andare: non puoi restare in stazione con la tua roba. è per questo che abbiamo deciso di andare via: io sono andato in Germania. Finita l’accoglienza in febbraio, tu cos’hai fatto? Yaya: Abbiamo fatto una manifestazione. Ci hanno detto che tutti avrebbero avuto cinquecento euro. Noi a San Biagio no; io ho avuto duecento euro e il biglietto per la Germania, ma un biglietto non costa trecento euro. Io non voglio litigare con le persone e anche gli altri, così ho preso la mia strada per andare. Sono andato in Germania e ho fatto qualche giorno con un mio amico, sono andato a Colonia, sono arrivato alle otto di sera e ho visto una signora congolese. Le ho parlato in inglese, non sapevo che era congolese perché parlava tedesco, ma lei non capiva, allora le ho parlato in francese e ci siamo capiti. Mi ha chiesto se avevo il documento di viaggio, gliel’ho dato e ci ha portati a casa sua con il mio amico, ma a casa aveva una figlia che non ci voleva lì; hanno litigato e sua mamma l’ha mandata a dormire a casa di un’amica. La mattina dopo lei doveva andare in chiesa e non poteva lasciarci a casa da soli, aveva ragione, non ci conosceva. Così siamo andati in chiesa con lei: era la prima volta che andavo in una chiesa, sono musulmano. Siamo rimasti lì fino a sera e li ho guardati pregare. Poi la figlia ha cambiato idea e voleva che restassi con lei, io le ho detto che non potevo. Il pastore ha detto che ci avrebbe aiutato se ci fossimo fatti cristiani e io ho detto no, sono musulmano, anche se non c’è una grande differenza: voi credete in Gesù e noi in Maometto, i miei amici 31 sono tutti cristiani, non è un problema. La signora congolese ci ha riaccompagnato in stazione e ho preso un biglietto per il Belgio. In un bar di senegalesi ho chiesto un po’ di informazioni in dialetto, il mio amico era maliano e mi parlava in maliano. Intanto che parlavamo si è fermato un senegalese e mi ha chiesto da dove venivo, gli ho risposto che ero del Senegal, del Casamance: “Anche se uno non ti conosce, capisce che sei senegalese” mi ha detto. Mi ha dato l’ indirizzo di un locale senegalese dove potevo dormire. Io ci sono andato col mio amico. Ci hanno detto che non potevamo restare se non chiedevamo asilo, ma non potevamo, naturalmente, e allora ci hanno mandati via. In Belgio non ho potuto fare niente e con i soldi che avevamo non si mangiava, andavamo a una specie di Caritas e c’era un dormitorio. Si pagava un euro per mangiare. Dopo abbiamo deciso di andare in Francia, dove c’era un parente con la sua famiglia. Perché non ci sei andato subito? Yaya: Perché se un africano viene in Europa a lavorare non ha molti soldi e io non vole- 32 vo andare a chiedere aiuto da lui e dargli problemi. Ma un mio amico mi ha detto di andare a vivere da lui. Non potevo lavorare, ma ho trovato un congolese che faceva l’imbianchino e mi ha dato da lavorare in nero per un po’. Quando guadagnavo qualcosa pagavo l’affitto al mio amico, un fratello per me. Ma non funzionava niente, perché la polizia è venuta sul posto di lavoro a controllare i documenti e mi hanno detto che non avevo diritto di lavorare in Francia e che dovevo tornare in Italia. Così sono tornato qui. Nel 2014 c’è la storia della tenda dormitorio della Croce Rossa dove potevano dormire quelli che tornavano per il rinnovo dei documenti. Yaya: Prima della tenda sono andato a Mamré (una struttura della Caritas), sono stato là quattro mesi, dopo sono andato nella tenda che ha fatto la Croce Rossa per l’inverno; ho trovato delle persone che erano a San Biagio e che avevano tentato di trovare lavoro in Europa come me e poi sono dovuti tornare. Poi per fortuna ho lavorato un po’ in campagna con i meloni. Intanto c’è sta- to un problema: mia madre mi ha telefonato per dirmi che doveva fare un’operazione grave. Una dottoressa di Mantova Solidale mi ha detto che mi avrebbe dato cento euro. Poi sono andato a casa di un mio amico maliano che mi ha prestato seicento euro, più gli altri cento ne ho potuti mandare a mia madre settecento per fare l’operazione e avere le medicine. In campagna non è andata benissimo, il padrone ci pagava poco, faceva tante storie e il tempo è stato brutto. Tutti i soldi che ho preso ho dovuto restituirli al mio amico, mi sono rimasti trentacinque euro. Così non avevo più niente per mangiare quando in settembre sono venuto nella casa di Mantova Solidale. noi non vogliamo andare a chiedere l’elemosina, questo no, piuttosto moriamo di fame Qualcuno mi ha detto che alla Caritas ci avrebbero dato delle cose, ci sono andato. In realtà ti danno solo pasta e pomodoro, mai riso, ma era già qualcosa. Il problema è che la gente che è arrivata come me sta soffrendo, non c’è lavoro, non sappiamo come fare a trovare i soldi per contribuire all’affitto e, se paghi l’affitto, non ti restano i soldi per mangiare. Certe volte alle due di notte io non riesco a dormire e neanche Samuel, allora dico a Samuel che dobbiamo risolvere il problema in qualche modo, ma noi non vogliamo andare a chiedere l’elemosina, questo no, piuttosto moriamo di fame. Forse può farlo uno ammalato che non può camminare, ma io no. E non posso neanche andare a rubare i soldi di qualcuno. Tutte le mattine mi sveglio per andare a cercare lavoro con il mio curriculum, ma non si trova. Comunque vada, Mantova Solidale ha fatto più di quello che avrebbe fatto la mia famiglia. Le vostre comunità religiose vi hanno aiutato in qualche modo? Samuel: Io sono cristiano pentecostale, siamo in pochi e nessuno lavora, neanche il pastore. Non dico solo per i soldi, intendo anche per un aiuto psicologico, trovarvi insieme, avere amici lì… Samuel: Sì, li ho conosciuti quando eravamo in albergo. Prima andavo in una chiesa nigeriana, poi ho trovato un amico ghanese e mi ha dato il suo numero di cellulare, così ho incominciato a frequentare la chiesa pentecostale. Anche lui non ha il lavoro. Ma sto bene quando vado in chiesa Yaya: Io vado in moschea tutti i venerdì a pregare e a salutare gli altri. Anche lì tanti non hanno lavoro, ma hanno una famiglia. Dopo la preghiera torno a casa. Tu, Yaya, sei crititco rispetto a quello che stanno facendo in alcune parti del mondo certi che si dicono musulmani. Yaya: Mi ricordo la sera che tu sei venuta a prendermi a Suzzara dopo una partita e abbiamo parlato di questo. Quando è successa quella cosa, l’attentato a Charlie Hebdo, il 7 gennaio, a Parigi mi sono venuti in mente i discorsi che avevamo fatto quella sera. Quelli rubano il nome dei musulmani, io sono un musulmano e so che un buon mu- sulmano non fa del male agli altri; io nella mia vita non voglio far soffrire nessuno, non potrei mai fare del male a qualcuno, se fai del male devi chiedere scusa. Ma se qualcuno offende la tua religione? Yaya: Se sei un musulmano non reagisci con la violenza, non rubi, non fai del male a nessuno. Qualche volta ho litigato con dei miei amici su questo. Il rispetto è una cosa fondamentale, verso le donne soprattutto, per tutti. La mia famiglia mi ha insegnato così. Nel mio paese, ad esempio, mi hanno insegnato che non devi guardare in faccia le persone, mio papà mi ha insegnato così; lui era una brava persona, non mi picchiava mai. Mia mamma sì, perché la facevo arrabbiare, ma io facevo casino lo stesso con i miei amici in giro. Poi mio papà mi ha insegnato a pregare e sono cambiato, non sono più andato a fare casino. La mia religione mi ha aiutato a cambiare tante cose della mia vita, io ringrazio Dio che mi ha fatto musulmano. Ma quando in Francia ho sentito che succedevano quelle cose mi sono buttato sul divano a piangere: perché qualcuno deve far del male a degli innocenti? Quando ero in Francia c’è stata una partita difficile che ha fatto arrabbiare tutti, poi degli arabi sono andati a far casino ai mercati: non è così che si fa, io non sono d’accordo con loro. Ieri un ragazzo musulmano mi ha detto che forse è sbagliato quello che hanno fatto a Parigi, ma che quelli di Charlie Hebdo bestemmiavano il profeta e que- sta è una cosa che non si può accettare. Yaya: Sì, è una cosa sbagliata prendere in giro. Ma se tu non vuoi che qualcuno offenda tuo padre, tu per primo devi rispettare lui. Se, ad esempio, non voglio che Samuel dica parolacce contro mia madre o mio padre, io per primo devo rispettare Samuel. Se io lo rispetto, lui rispetta me. Grazie a Dio io e lui, anche se prima non ci conoscevamo, non abbiamo mai litigato, ridiamo insieme e andiamo d’accordo. Se io sono musulmano rispetto lui che è cristiano. Se fossi stato a Parigi sarei andato alla manifestazione e mi sono chiesto perché a Mantova non ne abbiamo fatta una anche noi. Un mio amico, che è un po’ matto e forse scherzava, ha detto che quelli dell’attentato hanno fatto bene. Ho deciso che non gli parlo più. Non c’entra la religione, questo è un business: qualcuno li ha pagati quelli dell’attentato. Anche Boko Haram trova gente perché la paga. Se uno trova gente povera come noi e gli dice che se fanno un attentato gli danno un sacco di soldi, una casa, ecco allora può darsi che uno ci stia. Ma non c’è un motivo religioso. Nessuno ha diritto di sabotare la religione di un altro: “Laissez vivre”, come dicono in Francia. Io sono un musulmano e non posso fare del male agli altri, quando arriverai da Dio dovrai dimostrare che persona sei. Forse nei paesi arabi ci sarà qualcuno che finanzia queste cose terribili, ma un buon musulmano sa che non si deve fare violenza a nessuno. Mantova solidale Mantova solidale nasce nel 2013 in previsione della fine dell’accoglienza governativa, quando un gruppo di profughi ha autonomamente chiesto, con una lettera alla Prefettura e alla Provincia di Mantova, di autogestire i fondi residui messi a disposizione dal Governo: volevano vivere in case private, farsi la spesa e cucinare per se stessi, smettendo di continuare a vivere passivamente nell’albergo nel quale si trovavano dal momento del loro arrivo. Così, un gruppo di persone -insegnanti, medici, cittadini sensibili al problema delle migrazioni e del diritto d’asilo- che aveva a vario titolo collaborato con il Centro di educazione interculturale della Provincia nella fase di accoglienza dei rifugiati costretti a partire dalla Libia, nel momento del loro ‘congedo’ ha deciso di continuare ad avere con loro un rapporto di sostegno e di reciproca conoscenza, aiutandoli a inserirsi nel territorio mantovano, quando non volevano cercare fortuna altrove. Con l’aiuto dell’assessorato alle politiche sociali della Provincia - che con i rifugiati aveva avuto e continua ad avere un rapporto stretto e molto propositivo -, della Curia, della Caritas, della Croce Rossa, di varie associazioni e di singoli cittadini, molti dei rifugiati arrivati nel 2011 si sono inseriti nel tessuto sociale e culturale della città, dando vita, tra le altre cose, a un gruppo musicale, I Tamburi di Mantova, che sta facendo conoscere la musica e la cultura africana negli ambienti più diversi. L’esperienza della gestione condivisa della case dura ancora per coloro che hanno deciso di restare a Mantova e per quelli che, obbligati da procedure burocratiche spesso kafkiane e sempre mutevoli, devono trascorrervi alcuni mesi all’anno per il rinnovo dei permessi di soggiorno. Dall’intervista emerge chiaro il turbamento di Yaya e Samuel per il sistema di accoglienza italiano ed europeo: l’incontro con le commissioni che devono riconoscere il loro status, il rifiuto di rappresentare le proprie vicende secondo canoni che sarebbero convenienti, ma che non corrispondono al vero, la gestione di alcuni luoghi di accoglienza, la mistificazione di una fine dell’emergenza che ha decretato troppo spesso l’abbandono a un destino di saltuari lavori in nero e di attesa, spesso passiva e depressa, che qualcosa accada. Si prospetta adesso per Yaya la possibilità d un lavoro temporaneo nell’accoglienza dei rifugiati in transito per il rinnovo dei permessi di soggiorno. Mentre riguardiamo insieme l’intervista, in una sera di metà febbraio, Samuel è tormentato dal pensiero che suo fratello stia lavorando a Tripoli mentre l’Isis pare avanzare ed espandersi in Libia; gli telefona, nella capitale le cose sembrano essere ancora abbastanza tranquille. Samuel è sollevato ma, mi dice: “La testa di un profugo gira, gira sempre, di notte e di giorno. Tra luoghi lontani e problemi diversi”. (M. B.) Antigone in Puglia Brenda Porster Scagliate eravamo nel buio navigare senza meta, ma insieme, lei riempiva esattamente l’avida culla del mio braccio vuoto un umido peso caldo il suo bisogno che io solo potevo saziare, le vaghe profondità scure degli occhi, il disperato cercare manine strette curve a conchiglia, rosee dita-gamberetti che afferrano il mio seno, titubanti labbra e poi il tiro come tenaglia di vita da me a lei a soddisfare il nostro mutuo bisogno l’una all’altra legate, in perfezione, il cerchio chiuso. Quando ho visto che lei non c’era più, il suo piccolo peso fiaccato, sospeso, il calore, tutto, esaurito, il suo cercare finito? Non aveva più bisogno di me, mentre io ero rimasta anelante, il mio braccio un cerchio vuoto. Un terrore di ghiaccio mi ha afferrato il petto, e all’improvviso ho saputo: sarebbero arrivati loro, e l’avrebbero gettata negli infiniti abissi, sarebbe caduta giù per non essere trovata più il suo piccolo corpo a spiegare braccia fluttuanti di anemone per sempre cercando per sempre esposta. No! Così non sarà! Io, sua madre, le avrei reso una calda copertura, sabbia decorosa e luogo, una collocazione della mente, per entrambi i nostri bisogni un’ultima volta, poi le ho detto finalmente - buona notte cuore mio, buona notte, e l’ho lasciata là Nota: Per aver seppellito la figlia neonata sulla spiaggia della Puglia, dove era approdata dopo essere fuggita dal Kossovo, questa madre Rom fu arrestata dalla polizia italiana e denunciata per occultamento illecito di cadavere. (traduzione di Andrea Sirotti) Commissione La Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale è l’autorità competente alla decisione in merito alla domanda di protezione internazionale. Fino al 2008 in Italia cera solo un unica Commissione centrale. Successivamente furono create dieci Commissioni territoriali, portate a venti con il Decreto Legge n. 119 del 22 agosto 2014. 33 Quel sogno ricorrente di Primo Levi Carlo Bracci, medico legale, membro dell’Associazione Medici contro la tortura, da anni collabora con il Centro Astalli di Roma per la certificazione delle torture subite dai richiedenti asilo. Di che cosa parliamo quando parliamo di tortura? C’è una definizione giuridica che però non serve nel rapporto con la persona. Possiamo dire che lo scopo di ogni pratica di tortura, qualunque sia il metodo, è distruggere l’identità e la dignità della persona e della comunità da cui proviene. Questo può essere raggiunto con una violenza fisica, psicologica o sessuale. All’inizio le persone mettono in atto dei meccanismi di difesa di cui uno è il disturbo della memoria. Non si tratta di cancellare tutto, ma di sprazzi di ricordi. In termini psicologici questo meccanismo viene definito “impossibilità di mentalizzare”, cioè non solo di parlare, ma anche proprio di rappresentarsi mentalmente quello che è successo. Quattro, cinque anni fa un’amica di Amnesty ci telefonò da Firenze dicendo che una signora voleva venire a parlarmi. Si presentò questa donna sui sessant’anni che negli anni Settanta, quando era studentessa universitaria in Uruguay, era stata arrestata. Lei non ricordava quello che le era successo, solo di essere stata ricoverata in una clinica e poi di aver avuto il permesso di venire in Italia come figlia di emigrati. In Italia ha studiato storia dell’arte, ha vinto un concorso in un piccolo comune vicino a Firenze come responsabile delle politiche culturali, si è sposata e ha avuto un figlio. lui suona il campanello, la sorella apre la porta, la richiude e se ne va: è un sogno ricorrente Un giorno suo figlio le ha detto: “Su internet ho ricostruito tutta la storia dell’Uruguay. Che è successo a te?”. Lei ha tagliato corto: “Quello che è successo a tutti”. Poco dopo al Comune dove lavorava è arrivata la Guardia di finanza, ha sequestrato dei faldoni e si è portata via un assessore. Questa per noi è una scena abituale, a lei è scoppiato qualcosa dentro. Mi ha detto: “Io ho delle schegge di ricordi terribili e voglio capire se sto diventando matta”. Le abbiamo spiegato che purtroppo sono cose che vediamo spesso. Tornata a casa ha iniziato a mandarmi delle e-mail con dei pezzi di ricordi. Un po’ alla volta le cose sono tornate fuori. Qualche anno dopo ha scritto un libro ed è diventata una testimone nel processo contro i militari in Uruguay. Ti occupi delle certificazioni di tortura per i richiedenti asilo. La richiesta d’asilo si distingue da tutte le altre condizioni perché il richiedente spesso 34 non ha documentazioni oltre alla sua parola. Infatti, in questo caso, è compito della commissione e del giudice acquisire delle prove, a differenza del processo civile dove sono le parti che portano le prove. In questa fase c’è tutto il problema, grave, della vergogna, e della paura di non essere creduti. Conosci il sogno ricorrente di Primo Levi? Lui torna a casa, suona il campanello, la sorella apre la porta, la richiude e se ne va. Primo Levi dice che è il sogno ricorrente di tutti gli “ospiti”: non essere più riaccettati e creduti. Il torturato che non parla somatizza. Spesso le vittime di tortura vanno dal medico perché hanno dolori da tutte le parti, e ci sono delle belle storie in cui i dolori passano o diminuiscono dopo l’ascolto. Si chiamano “disturbi psicosomatici” e sono particolarmente frequenti in chi ha subìto violenze di questo tipo. Quello che a me sembra interessante è che questi sintomi colpiscono strutture psicologiche così profonde che prescindono dal paese di provenienza. Il modo di esprimere il dolore è determinato culturalmente, il dolore no. Come la reazione d’allarme: se ti scoppia una bomba vicino, la tua reazione, quella di cercare di proteggerti, non è culturale. Comunque il nodo fondamentale della tortura sta nell’intenzionalità di chi fa del male, che la distingue dallo stress di vittime di disastri aerei o terremoti. Il fatto che un essere umano abbia fatto quelle cose per farti del male è distruttivo. C’è una psicanalista molto brava, Françoise Sironi, che ha scritto un libro per Feltrinelli, Persecutori e Vittime. Il suo intervento consiste in incontri settimanali ripetuti per quattro, cinque mesi, in cui la persona capisce che sta male perché un altro essere umano le ha fatto tutte quelle cose. Questo passaggio di consapevolezza permette di ricominciare a vivere. Come riuscite a individuare le vittime di tortura? A volte passano anni prima che la persona parli. La signora dell’Uruguay di cui ti parlavo ci ha messo trent’anni prima di iniziare a parlare. Anche Gina Gatti, vittima della tortura cilena, ci ha messo degli anni. Come succede che una persona inizia a parlare? Questa è una domanda a cui mi piacerebbe avere una risposta perché vorrebbe dire che è possibile ricreare la situazione. Un africano subsahariano seguito dal Centro Astalli, che era stato otto mesi in uno dei peggiori carceri in Africa, negava di aver subito qualunque tipo di violenza. Cosa dovevo fare? Come si fa a visitare una persona così e dire “Non c’è niente da certificare”? Tanto più che il certificato serve per avere il riconoscimento. Allora ci sediamo, mi presento e gli dico quello che dico in genere alle donne quando sono costretto a vederle io: “Se non capisce il mio francese mi fermi e me lo dica perché, sa, l’ho studiato a scuola 60 anni fa”. Questo dà alla persona la consapevolezza che tu sei anziano, e quindi sei meno pericoloso. Tra l’altro, quando gli africani vedono un anziano sono convinti che sia arrivato a quell’età perché l’ha benedetto Dio. Comunque, lui rimane chinato e dopo tre minuti d’orologio si alza e mi dice: “Io parlo con lei perché ha l’età che avrebbe mio padre se non l’avessero ucciso davanti ai miei occhi”. Dopodiché mi racconta una storia di violenze sessuali di quelle brutte, di quelle che lasciano il segno. Che cos’era successo? Non lo so. Ci sono delle situazioni in cui succede qualche cosa e la persona improvvisamente parla. Altre volte non succede niente. Infatti stiamo cercando di capire quali sono gli elementi che aiutano. Il fatto è che questa certificazione perlopiù avviene in momenti non opportuni, cioè troppo presto. Anche se la persona accetta, si tratta di violenza, è come togliere un dente senza anestesia: la persona se lo fa levare però le fai male. proprio per la difficoltà di parlare di certe cose, il certificato arriva dopo un lungo percorso Per me è più facile lavorare con i francofoni perché ci vediamo in due, senza mediatore. Questo probabilmente è uno dei motivi per cui con senegalesi, mauritani e congolesi si stabilisce più facilmente un rapporto. C’è anche da dire che ormai si fidano della struttura. Sia quello di Medici contro la tortura sia quello del Centro Astalli è un percorso, non una visita: c’è un’accoglienza, un accompagnamento fatto di tanti incontri, un aiuto sociale e a un certo punto per un qualche motivo si aprono. Ma non tutti. C’è qualcuno che non si fida e non dice di essere stato torturato. Spesso quelli che stanno peggio stanno più zitti degli altri. Come si fa? Eh, non si può fare tutto. Qualche volta invece capita all’improvviso. Ecco, mi piacerebbe capire cosa scatta, per poterlo riprodurre. Probabilmente ci sono delle condizioni che lo favoriscono, una certa alchimia. Dicevi che c’è un aiuto a tutto tondo. Puoi spiegare? Per prima cosa li si aiuta a capire le procedure amministrative. Li si accompagna a iscriversi al servizio sanitario nazionale a cui hanno diritto e si mette a loro disposizione un mediatore-interprete per gli uffici e per l’ospedale. Poi li si aiuta ad andare alla commissione, li si sostiene con un ascolto partecipato più che con una terapia. Li si indirizza verso l’ufficio per il lavoro (quando non c’era la crisi era più facile, trovavano lavoro, adesso è una disperazione). Accadono anche incontri strani. Ho chiesto a un ragazzo africano: “Che lavoro facevi?”, “L’educatore di elefanti”. Ho chiesto a un amico che ha una cooperativa sociale nelle Marche: “Lo prederesti?”, e lui mi dice: “Mah, sapesse guidare un trattore...”. Allora io lo chiamo e gli dico: “Ma tu solo gli elefanti?”, e lui: “No no, ho fatto anche un corso per le giraffe!”. Oltre a certificare la loro condizione, mettiamo a disposizione due psichiatri e due medici. Abbiamo anche uno psicologo, che però cura soprattutto gli operatori. Avere a che fare con questo tipo di storie fa male. Ad ogni modo, proprio per la difficoltà di parlare di certe cose, il certificato arriva alla fine di un lungo percorso. Durante questo percorso il medico prende in carico i problemi legati anche soltanto al fatto che la persona dorme per strada, oppure ha il diabete e non sa come mangiare regolarmente. L’operatore sociale aiuta la persona a orientarsi nella giungla della burocrazia; lo psicologo o lo psichiatra fanno dei colloqui. In tutta questa rete di sostegno, a un certo punto può essere che la persona parli. Durante una riunione con un gruppo di psicologi e psichiatri transculturali a Firenze mi fu chiesto, l’ultimo quarto d’ora, di certificare un ragazzo congolese che avrebbe avuto la Commissione dopo tre giorni. Aveva alle spalle storie di violenza. Io, fermo, ho spiegato ai colleghi che il certificato è un iter lungo. Però siccome ogni regola ha le sue eccezioni, sono andato a visitarlo. In quel caso il rapporto fra noi si è stabilito per una sciocchezza. Quando sul permesso di soggiorno ho letto “Congo”, ho chiesto: “Quale Congo?” e lui è rimasto stupito: “Lei sa che ci sono due Congo?”. Lui era della Repubblica Democratica del Congo. è bastato questo per entrare in confidenza. Ma, di nuovo, sono cose che non si possono codificare. Le differenze culturali ci sono e si cerca di studiarle il più possibile, ma il miglior modo per metterle a fuoco è farsi raccontare da loro gli elementi fondamentali, come il senso della famiglia o il rapporto tra le religioni animiste. Un giorno un uomo congolese, dopo aver ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, si è presentato con un vestito tradizionale. Salutandolo, gli ho dato una pacca sulla spalla, ormai eravamo in confidenza; lui si è subito irrigidito. Quando gli ho chiesto perché, mi ha detto: “Sai, da noi questo significa: stai al posto tuo”. Che torture subiscono le persone che incontrate? Dipende dai paesi. Noi vediamo molti curdi che sono costretti a fare il servizio militare, non possono parlare in curdo e sono sottoposti a sedute di vera tortura. Tra le varie torture “scientifiche” c’è la falaka. Si tratta di percosse sulla pianta dei piedi. È una modalità che fa capire molto bene il meccanismo della tortura: lascia pochi segni fisici e un grande dolore ai piedi per anni, così quando la persona cammina si ricorda della tortura. La Somalia fa delle carcerazioni spaventose con isolamento completo per mesi, anni, peggio delle botte. In Mauritania c’è la schiavitù dei neri, schiavizzati dai bianchi con percosse, ustioni, violenze di tutti i generi, non solo in prigione ma anche in casa. In Eritrea avvengono carcerazioni e botte. L’ultimo caso che ho visto era quello di un uomo che aveva subito percosse sulla pianta dei piedi in sospensione inversa, ossia appeso per una caviglia. guarigione non è la parola adeguata: non è una malattia. Chiamiamola rinascita Dietro questo tipo di tortura c’è una precisa intenzione, come nella sospensione per le braccia, che spesso avviene per un braccio solo: si compie questa scelta perché è più invalidante. Tutto il peso è su una sola spalla e la persona non si può nemmeno muovere un po’. Le conseguenze sono pesanti: lussazioni croniche e rotture dei legamenti. Ovviamente è sempre un fatto di potere. Alla base di tutto c’è il considerare l’altro privo di diritti. È come un ragazzino che strappa le zampe a una lucertola. Ci sono anche casi di torturati che sono stati torturatori. In molte situazioni è qualcosa che sospettiamo, non è che te lo dicono. Hannah Arendt ha spiegato molto bene questi meccanismi: i tedeschi sapevano organizzare il lavoro, per cui ad esempio a uno capitava di raccogliere i denti senza sapere da dove venissero, di chi fossero. C’è tutta la storia delle scuole di tortura che è interessante. Ci sono delle tecniche che vengono apprese, non vengono naturali. Si tratta di professionisti. Gli americani hanno una bella cosa: dopo un certo numero di anni desecretano tutti i documenti, di qualunque cosa si tratti. Così ora è reperibile il manuale di addestramento della Cia, dove viene fuori il ruolo degli psicologi. A parte le cose banali che si vedono anche nei film, il gioco di ruolo del carnefice che fa il buono, ci sono vere e proprie analisi della personalità della vittima e dei meccanismi che fanno cedere più facilmente. I medici, invece, hanno il compito di fermare la tortura quando c’è il rischio di morte perché la vittima non deve morire, deve testimoniare. Dietro alle torture c’è tutto un corpo di conoscenze. Che cosa succede dopo, con la “guarigione”? Guarigione non è la parola adeguata: non è una malattia. Chiamiamola rinascita. Gina Gatti è una donna che è rinata, anche se quando l’ho incontrata mentre in Cile era in discussione una legge sull’amnistia era come se avesse fatto un passo indietro di dieci anni, era ritraumatizzata. Da noi passano tra le centocinquanta e le duecento persone nuove l’anno. Su 180 persone ci sono 30-40 casi nuovi di tortura. Ora, con la crisi, ritornano le persone che erano andate a lavorare al nord. Questo è un dramma perché non sai che cosa dirgli. Noi proprio non sappiamo cosa fare perché non hanno lavoro e non hanno una casa. I più strutturati riescono ad andare a raccogliere le mele in Trentino e i pomodori al Sud, si muovono in base alle stagioni e si guadagnano da vivere. Il problema più grosso è forse il vuoto che queste persone patiscono dopo il riconoscimento: un’assoluta pienezza dei diritti e un’assoluta mancanza di qualsiasi sostegno. (a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin). 35 I Dublinati Cecilia Bartoli, psicoterapeuta, ed Elena Canestrari, insegnante d’italiano, fanno parte dell’associazione Asinitas. L’associazione “Asinitas onlus centri di educazione e cura con i migranti” è nata a Roma nel 2005. I soci fondatori provengono da diversi percorsi di ricerca e azione con adulti e bambini migranti. Le finalità dell’associazione sono quelle di creare e mantenere contesti educanti di accoglienza e cura. Come vedete la situazione attuale dall’osservatorio di Asinitas e della scuola d’italiano? Elena. Il numero di studenti che accogliamo a scuola è sempre molto alto, indipendentemente dagli ultimi sbarchi, ed è legato al fatto che Roma accoglie la maggior parte di richiedenti asilo e rifugiati: la città è il primo punto d’arrivo dopo la Sicilia. Abbiamo un’ottantina di rifugiati che studiano qui. Dall’inizio alla fine dell’anno, da settembre fino a giugno, circolano dalle 150 alle 200 persone. Una parte del gruppo rimane fissa, ma c’è chi arriva e chi parte. La porta è sempre aperta, anche per le iscrizioni. Abbiamo un progetto per donne a Torpignattara con una cinquantina di immigrate arrivate qui con il ricongiungimento familiare. Con loro facciamo percorsi di sostegno alla maternità, insegniamo la lingua speciale per le donne incinte e per i primi mesi di vita del bambino. Mi sento di dire che non agiamo nell’emergenza dei nuovi sbarchi perché non siamo sul campo. La nostra azione è più sull’accoglienza e sul lavoro di rimessa in sesto della persona che arriva, perché i centri di accoglienza sono sempre qualcosa di molto precario. Ci sono adesso dei centri d’accoglienza per i “dublinati”. Quest’anno ci sono arrivati questi ragazzi da questo centro che si chiama “Centro amici”, che ora è chiuso, un luogo per persone vulnerabili, tra cui appunto i dublinati, cioè quelli che vengono rispediti in Italia dalla Svezia, dalla Francia, dal Belgio, ecc., perché avendo fatto la prima richiesta di asilo qua non possono lasciare il paese. Le persone considerate vulnerabili hanno diritto a un anno di accoglienza, ma il fatto è che sempre più spesso questi centri, finito il periodo, chiudono e queste persone non sanno nemmeno dove andare. Noi quest’anno ci siamo trovati con un peggioramento del Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di Porto, a un’ora da Roma. Molti degli studenti vengono da lì e la situazione è sempre stata molto precaria, con pochissimi servizi e una grande difficoltà a raggiungere i servizi basilari come la scuola, l’ospedale, l’avvocato. Parliamo di settecento persone dentro un grande container; le varie cooperative che l’hanno gestito si sono rivelate inefficienti nel garantire i servizi. In particolare, l’ultima cooperativa che è subentrata ha vinto un appalto a ribasso e quindi ha tagliato perfi- 36 no la navetta che portava da Castelnuovo di Porto alla prima fermata dell’autobus. Senza navetta si devono fare 40 minuti di cammino solo per arrivare alla fermata. Inoltre non danno più soldi direttamente, ma una scheda con cui possono comprarsi delle cose solo alla dispensa all’interno del Cara. E dire che vengono elargiti anche dei soldi per i richiedenti asilo: circa 70 euro al giorno per i minori e 40 per gli adulti. L’emergenza Nordafrica del 2011 è stata un’esperienza eclatante: in quel periodo sappiamo come a fronte di 40 euro al giorno che dovevano servire per vitto, alloggio, ma anche assistenza sanitaria, legale, ecc., poi alle persone veniva dato del riso in bianco a pranzo. Abbiamo visto cooperative che non avevano mai avuto esperienza con gli stranieri buttarsi in questo mercato nella più assoluta improvvisazione: gente che magari un anno ha a che fare con i portatori di handicap, un anno con i malati mentali, un anno con gli ex carcerati e un anno pure con i richiedenti asilo! Un Cara, tra l’altro, dovrebbe accogliere una persona per un tempo limitato, invece ci sono degli studenti che vivono al Cara da due anni. Questa per noi è anche una sconfitta perché significa che non hanno trovato altro. Qui cosa fate? Cecilia. Noi non lavoriamo tanto sulle problematiche di tipo pratico, nel senso che abbiamo una rete con dei legali, poi ci sono gli sportelli e uno semplicemente li informa… In alcuni casi molto fragili e disorientati ci mettiamo di persona ad accompagnarli, ma sono solo alcuni. Qua si fa soprattutto un lavoro di gruppo sulla persona e sulla lingua. un pakistano che si è visto ammazzare la moglie si ritrova a fare danzaterapia Questa è una scuola di lingua italiana con un’attenzione speciale all’acquisizione della lingua come veicolo di un senso di identità e di sicurezza nuovi. Si cerca di tessere dei fili tra quello che hanno lasciato a quello che oggi hanno trovato; di aumentare la resilienza anche in situazioni di forte stress all’interno dei centri. Utilizziamo diversi linguaggi, tenendo al centro la relazione: considera che questa è la prima porta aperta che trovano. Oggi per esempio abbiamo lavorato proprio sulla porta. La consegna era di disegnare una porta chiusa, socchiusa o aperta incontrata durante il viaggio. Erano una sessantina e almeno venti hanno individuato la scuola come porta: per molti è il primo luogo dove tornano a essere persone. Quello trascorso qui è un tempo molto fecondo in cui c’è una rimessa in gioco di tutta la personalità che si ristruttura e allo stesso tempo è sottoposta a grandi stress. Un ragazzo ha disegnato la porta di un carcere libico con dentro un ragazzo impiccato e un poliziotto con un bastone, e da lì ha raccontato i mesi di carcere durissimo e di questo ragazzo impiccato che ha visto con i suoi occhi e di cui non era mai riuscito a parlare. Noi non lavoriamo mai in maniera diretta sui traumi. È importante offrire opzioni espressive diverse capaci di tirar fuori le parole. L’Italia è molto indietro nell’approccio a queste problematiche. Noi riteniamo che ci debbano essere uno spazio e un tempo in cui le persone tirano fuori quello che hanno dentro. Non siamo noi a chiedere, a decidere, sono loro che eventualmente chiedono un aiuto. In giro ci sono categorie e metodi inadatti di diagnosi e cura; si somministrano molti psicofarmaci e mancano le risorse per fare il vero lavoro di accompagnamento, che è il lavoro dell’educatore, dell’assistente sociale, di qualcuno che si mette lì e risolve anche i problemi di natura pratica se ci sono. Rispetto all’aiuto psicologico bisognerebbe capire che i nostri setting di cura non sono adatti da un punto di vista psicoterapeutico. Il rapporto duale in molte culture è perfino proibito, un furto d’anima, e comunque non si cura in due, è il gruppo che cura, la comunità. In Italia l’approccio della terapia di gruppo con i rifugiati è molto debole. Si fanno laboratori centrati sul trauma, ma con scarsa preparazione, per cui un pakistano che si è visto ammazzare la moglie si ritrova a fare danzaterapia. C’è molta confusione di metodi, di approcci e chiunque ha un po’ di soldi imbastisce qualcosa. Non c’è un programma nazionale di formazione degli operatori per le strutture, per cui negli ospedali non trovi mediatori formati. Il sistema è molto alienante. Quello che noi proponiamo lo facciamo soprattutto durante la scuola, in un contesto che già di per sé offre molte possibilità di cura, di elaborazione dei vissuti, di radicamento. Chiaramente avendo i soldi sarebbe bello mettere su un’équipe multidisciplinare. Lo pensiamo da anni. Alcune persone si “rompono” proprio sotto i nostri occhi. Purtroppo riusciamo a intervenire solo nei casi estremi, con chi veramente, a un certo punto, in mezzo alla stanza, comincia a parlare con Allah. Assistiamo a dei casi di vero crollo psicologico. Che percorsi fanno queste persone? Cecilia. I più disparati. Alcuni rimangono intrappolati nei centri d’accoglienza per anni e anni, altri riescono a intraprendere un percorso di formazione oppure trovano un lavoro. I lavori sono quello che sono, molti sono in nero. Quanto pesa la crisi? Cecilia. Tantissimo. Pesa anche la loro ansia di andare via e di non poterlo fare. Magari hanno pezzi di famiglia in Europa, amici che dicono: “Vieni!”, ma loro non possono muoversi. Questa legge di Dublino è terribile. Elena. Possono viaggiare all’estero ma non lavorare. Sono imprigionati in un paese in crisi. Cecilia. Non sono cittadini europei. Sono dei rifugiati politici, quindi hanno un titolo di viaggio per circolare come turisti. Possono andare a trovare i parenti, possono viaggiare, però poi devono tornare qui. In questi anni cos’avete capito, cos’avete imparato? Elena. Che si lavora bene in un numero mo- derato di persone -cosa che non riusciamo mai a fare. Dell’anno dell’Emergenza Nordafrica ricordo che non riuscivamo mai a chiudere la porta. E poi che non bisogna mai dar le cose per scontate. Al nostro ritorno da Lampedusa, dopo aver firmato la Carta di Lampedusa, abbiamo parlato coi ragazzi dei loro diritti e soprattutto dei confini, di Dublino, ecc. Ebbene, la maggior parte sosteneva che i confini e le frontiere assolutamente servono! Puoi immaginare il nostro spaesamento, la sorpresa al pensiero che un ragazzo afghano potesse essere favorevole ai confini. D’altra parte, lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan passa di tutto: armi, droga, eccetera. Se tu parli di confini partendo dai diritti non vai da nessuna parte, tanto più che loro non sono esperti di politica internazionale. Molti non si rendono neanche conto di come sono arrivati e di che tipo di diritti possano chiedere. Spesso poi i nostri immaginari sono rivendicativi: loro sono i poveri della terra che hanno il diritto di essere accolti, perché tutti ci vogliamo riconoscere nei valori universali di solidarietà, di accoglienza e di condivisione dei popoli, mentre magari molti di loro aspirano al più bieco liberismo e non farebbero entrare nessun altro! Cecilia. Discutono anche tra loro. Oggi c’era un ragazzo afghano che ha disegnato l’Afghanistan bellissimo, con la campagna e gli animali, chiuso dentro una grata e accanto una porta aperta con un signore ricchissimo, con molti soldi, tutto illuminato. Il ragazzo accanto a lui gli diceva: “Ma che è? Hai sbagliato! Devi fare la porta chiusa di qua e aperta di là, no?”. Era interessantissimo il discorso tra loro due. Per uno l’uomo ricco è la porta aperta e l’Afghanistan è la porta chiusa. E l’altro a insistere: “Tu non hai capito niente. Il magnate con i soldi è un uomo cattivo!”. le reti di accoglienza soffocano tutta una serie di risorse che invece ci sarebbero Elena. Un signore senegalese ha disegnato il mare tutto chiuso con una grata perché non vuole che suo figlio compia lo stesso viaggio. “Basta -ha detto- dobbiamo lavorare in Africa”. E a fianco hai quello che disegna la macchina e i soldi: per lui l’Europa è quello. Cecilia. La cosa bella è quando si abbandonano questi immaginari e rimaniamo tu e io qui, dove tu hai dei problemi e io ne ho degli altri. Questo è quello che proviamo a fare a scuola. Ma perché c’è questo contesto specifico che uno crea e cura. Un contesto che difficilmente ci sarebbe fuori. Il fatto è che migranti e non migranti non si incontrano mai in contesti “naturali” e questo fa sì che le dinamiche e le relazioni siano sempre un po’ falsate e condizionate dagli immaginari reciproci e dai pregiudizi, buoni o cattivi che siano. La scuola è ancora un contesto abbastanza naturale. Nelle associazioni, nei centri d’accoglienza è tutto appiattito su un noi-voi, e lì non c’è tanto margine di negoziazione di contenuti. Al contrario c’è molto paternalismo. È una relazione faticosa quella con gli immigrati; il paternalismo viene bene, è più facile: “Poverini, hanno fatto questo viaggio...”. Purtroppo le reti d’accoglienza soffocano tutta una serie di risorse che invece ci sarebbero. Tutto l’impianto sembra fatto per renderli passivi, dipendenti. È tutto pronto, il cibo stesso è impacchettato. Come funziona la scuola? Elena. Noi facciamo tre giorni di lezione a settimana: lunedì, martedì e mercoledì dalle nove all’una. Abbiamo circa settanta persone divise in tre classi: la classe di prima alfabetizzazione, una classe base e una classe avanzata. La mattina inizia con un’ora di accoglienza, in cui si fa colazione con tè, caffè e biscotti. Sui tavoli ci sono dei giochi di lingua e gli studenti scelgono autonomamente dove sedersi e come utilizzarli. Ci siamo anche noi. È il momento in cui si possono conoscere tra di loro, indipendentemente dal livello di lingua. Poi iniziamo con una specie di rito che ci accompagna da quando siamo nati, un cerchio collettivo in cui ci si risveglia, si riattiva il corpo, la voce, ecc. Poi si parte. La particolarità di questa scuola è che abbiamo una classe dedicata ad analfabeti funzionali e totali. Gli analfabeti funzionali sono persone che riescono a leggere e a scrivere in funzione di qualcosa, che sanno usare la lingua per completare un modulo, ma non per comunicare. Abbiamo persone che magari hanno fatto solo pochi anni di scuola coranica, oppure donne, soprattutto del Maghreb, che non sanno proprio leggere e scrivere e che per seguire i figli con i compiti si ritrovano ad andare a scuola per la prima volta a quarant’anni. Parliamo di adulti, per cui non si possono fare cose troppo infantili, anche se si può comunque giocare con le mani, visto che bisogna apprendere una certa manualità. La Montessori ci ha fornito tantissimi strumenti, come ad esempio le lettere smerigliate. I sensi ci aiutano molto, non solo la vista e l’udito ma anche, appunto, il tatto e il gusto. Noi siamo fortunati perché abbiamo la cucina, quindi impastiamo, lavoriamo con la pasta di sale. Prima di arrivare alla scrittura con la penna, un segno molto definito e sottile, si fa tutto un percorso: si modella la pasta di sale, si disegna nella farina, si dipinge col pennello e piano piano si arriva al riconoscimento vocale, sonoro e visivo. Sono processi molto lunghi, però funzionano. Non si arriva a grandi livelli, però si guadagna un po’ di autonomia. C’è un signore di 48 anni, in Italia da tre, che parla perfettamente italiano però non sa scrivere, non riconosce la “a” in stampato maiuscolo. Adesso come adesso, senza lavoro, lui è fuori. A scuola dobbiamo agire su molti fattori, anche sulla vergogna. Fuori dall’orario scolastico cosa fanno? Cecilia. Girano, girano, girano! “Girare” è la prima parola che imparano. Girano per Roma, cercano un lavoro, qualsiasi cosa. Le persone appena arrivate non hanno altre relazioni a parte il centro di accoglienza, la questura, l’avvocato e le scuole di italiano. I due problemi fondamentali sono la dislocazione dei centri d’accoglienza, che sono molto lontani, e il biglietto dell’autobus: in- corrono tutti i giorni nel rischio di prendere la multa. D’altra parte, se il pocket money è 2,5 euro al giorno e due biglietti costano tre euro... Poi uno può anche aver voglia di comprarsi qualcosa da mangiare che non sia il solito cibo confezionato del centro o magari fuma. E poi c’è l’essere costretti all’inattività, che è terribile. a Garbatella abbiamo un orto urbano e quando lavorano lì mi dicono: “Che bello, stasera posso dormire!” A Garbatella abbiamo un orto urbano, un piccolo appezzamento, e quando lavorano lì dieci minuti mi dicono: “Che bello, stasera posso dormire!”. Pensa a cosa vuol dire, per un uomo o una donna di 20-30 anni stare tutto il giorno fermo, fare tre ore al corso di italiano e poi oziare davanti alla televisione con tutti i pensieri, i problemi, le preoccupazioni per il futuro... Le richieste di asilo vengono accettate? Elena. L’Italia è molto “italiana” in questo, nel senso che persone che hanno ricevuto dei dinieghi in Europa vengono nel nostro paese perché qui è più facile. Dopodiché dipende dove capiti. Ci sono Sprar (il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) che lavorano bene e altri no. Le tempistiche di richiesta per l’alloggio sono di quattro-cinque mesi. Nel frattempo vai a dormire dall’amico, altrimenti dormi a Termini. Questo succede quando, ad esempio, hai ottenuto il documento ma non trovi lavoro a Roma, quindi vai a lavorare nelle campagne; quando torni a Roma non hai più l’alloggio e devi aspettare cinque o sei mesi. Se aspetti, alla fine un posto ce l’hai, ma se provi ad andartene lo perdi. A Roma è veramente molto difficile adesso trovare qualcosa di continuativo. I lavori sono volantinaggio e vendere le bevande allo stadio. Fare le pulizie è diventato uno dei lavori più ambiti. (a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin) . Fortress Europe Dal 1988 almeno 19.781 giovani sono morti tentando di arrivare via mare in Europa, 2.352 dei quali soltanto nel corso del 2011: 150 vittime ogni mese. Nel Mar Mediterraneo e nell’oceano Atlantico verso le Canarie sono annegate 14.852 persone. Metà delle salme (9.119) non sono mai state recuperate. Nel Canale di Sicilia tra la Libia, l’Egitto, la Tunisia, Malta e l’Italia le vittime sono 7.283, di cui 5.360 dispersi. Altre 229 persone sono morte navigando dall’Algeria verso la Sardegna (dati aggiornati al 14 giugno 2014). (Fonte: Fortresseurope.blogspot.com). Nell’anno 2014, nonostante l’operazione Mare Nostrum, sono morte 3.419 persone nel Mar Mediterraneo. (Fonte: 10/12/2014 Unhcr). 37 Da Lampedusa al Brennero Cooperazioni lungo un confine europeo interno e mobile Dopo l’Euromediterranea e la consegna del Premio a Borderline-Sicilia nel luglio 2014, ho avviato con la Fondazione Langer e altre associazioni “euroregionali” un’azione di monitoraggio e informazione lungo l’asse ferroviario Bolzano-Brennero. Si dice comunemente che la costruzione dell’Europa come spazio di “libertà, sicurezza e giustizia” e la creazione della Schengen hanno spostato i controlli dai confini interni ai confini esterni dell’Europa. Uno sguardo sul e dal confine italo-austriaco del Brennero permette di esaminare e contrastare simili affermazioni e, contemporaneamente, di avanzare alcune riflessioni sull’Europa di oggi; permette inoltre di interrogarsi sulle responsabilità -abilità di risposta- di fronte alle persone che fuggono da violenze e cercano libertà, sicurezza e giustizia all’interno dell’Europa. Da settembre 2014 abbiamo iniziato a monitorare la situazione dei profughi respinti al Brennero, spostando poi il monitoraggio anche a Bolzano, e abbiamo cercato di promuovere una più forte collaborazione transfrontaliera dal basso. Sbaglia chi pensa che dal 1998 il Brennero non è più un confine: i controlli non sono stati aboliti, ma con accordi italo-austriaci, che risalgono proprio al 1998, sono stati trasformati in cosiddetti “controlli mobili non aventi carattere continuativo”, con lo scopo di impedire l’ingresso e il soggiorno di persone che non soddisfano i requisiti e di riammetterli nel paese dal quale sono entrati. Inoltre, chi immagina il confine come una linea deve sapere che sempre più spesso il primo confine italo-austriaco per persone in viaggio senza documenti validi è proprio a Bolzano, il capoluogo di provincia, 80 km distante dal confine. Da novembre 2014, infatti, pattuglie di polizia italiana-austriaca-tedesca effettuano insieme controlli di documenti sui treni internazionali. È proprio qui che alcuni dei profughi arrivati via mare in Italia vivono per la prima volta un confine europeo: un confine che per loro -non per i cittadini europei- esiste e incorpora significati diversi. Ma facciamo un passo indietro. Dal Brennero alla “rotta del Brennero” Nel contesto storico-politico di “Mare Nostrum” (con circa 171.000 persone arrivate via mare, che si sono tradotte in circa 65.000 domande di protezione internazionale in Italia nel 2014), il Brennero ha ricevuto visibilità in quanto “frontiera/passaggio” lungo una delle rotte principali (la “rotta del Brennero”) per le persone che volevano lasciare l’Italia per presentare una domanda di protezione internazionale in un paese del Nord-Europa, nonostante l’obbligo del Regolamento Dublino III di presentare la domanda di asilo nel primo paese membro d’arrivo. La maggior parte degli sbarchi in Italia sono di siriani, eritrei, somali, mentre le domande presentate nel nostro paese sono perlopiù di persone scappate da Nigeria, Mali, Gambia. Chi scappa da Siria ed Eritrea ha spesso provato a chiedere protezione internazionale non in Italia, ma in un altro stato membro, varcando anche il Brennero. L’anno 2014 ha segnato non solo un apice delle domande di protezione presentate in tutta l’UE, ma anche delle cosiddette “riammissioni passive”, accolte dal Commissariato di Polizia di Frontiera al Brennero, di persone rintracciate nella fascia o nelle retrovie della frontiera sul territorio tirolese-austriaco e riportate dalla polizia austriaca sul lato italiano del Brennero. Sono state 4.408 persone nel 2014, rispetto a 2.118 nel 2013 e 580 nel 2012, in maggioranza appunto di di Monika Weissensteiner nazionalità siriana ed eritrea. Queste non sono “riammissioni Dublino” e vengono effettuate senza tener conto di alcune clausole di tutela previste invece per richiedenti asilo nel regolamento Dublino o stabilite nella recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo “Tarakhel vs Svizzera”. Assente su ambi i lati del confine attività di consulenza legale. Quale risposta dare alla situazione del Brennero che, per esempio, a ottobre vedeva una cinquantina di profughi respinti ogni giorno al confine, inclusi famiglie, anziani, minori non accompagnati, fermi per ore sotto la prima neve a temperature gelide nella stazione del Brennero? A livello locale, la società civile si è organizzata per fornire aiuti umanitari: tè caldo, vestiti, un minimo di orientamento legale. Dopo alcune iniziative di informazione e denuncia, a fine 2014 è poi stato aperto un servizio di aiuto umanitario diurno, tramite un intervento della Provincia di Bolzano, dei servizi sociali di distretto e di una cooperativa che lavora in ambito accoglienza profughi. Ma la situazione al Brennero si intreccia con dinamiche più ampie, che riguardano le politiche e le pratiche di asilo e di accoglienza in Europa. “Qui ci vuole una risposta da Bruxelles, dall’Europa”. Lo dicono (anche) alcuni poliziotti -italiani, austriaci, tedeschi- che dal novembre 2014 eseguono i controlli trilaterali sui treni EC diretti dall’Italia verso Monaco. La risposta politica c’è stata. Non a livello europeo, ma proprio tramite accordi bilaterali in materia di cooperazione di polizia, firmati da il ministro dell’interno italiano Angelino Alfano, dal suo omologo tedesco, Nel 2014 il Brennero ha ricevuto visibilità a livello europeo in quanto frontiera/passaggio lungo una delle rotte per le persone che vorrebbero lasciare l’Italia principalmente per porre una domanda di protezione internazionale in un paese del Nord-Europa e a volte per ricongiungersi con i propri familiari già presenti in un altro paese membro. Nell’anno 2014 circa 5.000 persone -di nazionalità soprattutto siriana, eritrea, somala- sono state respinte al confine italo-austriaco e consegnate dalla Bundespolizei Tirol austriaca alla Polizia italiana di Frontiera al Brennero. Chi viene respinto sono in maggioranza persone arrivate da poco via mare che non hanno avviato la domanda di asilo in Italia; persone che da settimane o mesi si trovavano dentro il sistema d’accoglienza italiano, ma che cercano di scappare da condizioni poco dignitose e prospettive future difficili in Italia. Una piccola minoranza ha un permesso regolare in Italia, ma non il permesso per l’espatrio e per trovarsi legalmente un lavoro in Nord-Europa. Frequente è anche il respingimento di minori non accompagnati. Queste cosiddette “riammissioni” trovano la loro base in un accordo bilaterale tra l’Italia e l’Austria (1998) che riguarda persone che non soddisfanno le condizioni di ingresso o di soggiorno. Nel 2014 i ministri dell’interno italiano, austriaco e tedesco hanno firmato accordi per rinforzare la cooperazione transfrontaliera di polizia, con effetti tangibili per quanto riguarda le pattuglie trilaterali lungo la “rotta del Brennero”. Da novembre 2014 sono state rinforzate, ma anche “riconcettualizzate”, queste pattuglie sui treni internazionali (esistenti dal 2000) con l’obiettivo di contenere la “migrazione clandestina”. I controlli vengono effettuati esclusivamente in territorio italiano. Da settembre 2014 l’iniziativa “Brenner/o Border Monitoring” realizza una presenza di monitoraggio attivo al Brennero e dal 2015 anche a Bolzano, nell’ottica dei corpi civili di pace e di mediazione, attraverso il dialogo con tutti gli attori coinvolti (presenza, osservazione, orientamento legale, supporto umanitario quando necessario, lavoro di rete). È una forma di impegno civile e volontario, con il sostegno principale della Fondazione Alexander Langer Stiftung e dell’Organizzazione per un Mondo Solidale (Oew). 38 (foto di Georg Hofer) Thomas de Maizière, e dalla ministra austriaca Johanna Mikl-Leitner. L’obiettivo, come risulta da un documento pubblicato dal Bundestag tedesco, è quello di contenere la pressione migratoria intra-europea e di contrastare la migrazione clandestina. Non solo al Brennero, ma anche nelle stazioni ferroviarie a Rosenheim e a Monaco -punto d’arrivo della “rotta del Brennero”- nel 2014 si è fatto sentire l’arrivo dei profughi tramite gli EC partiti dall’Italia. Così, sono state “riconcettualizzate” le pattuglie trilaterali, operanti già dal 2000. Dal novembre 2014 pattuglie trilaterali salgono a Trento sui treni internazionali diretti a Monaco e fanno scendere già nella stazione di Bolzano le persone che, con il biglietto del treno pagato, viaggiano privi di documenti validi in Italia o con permessi non validi per l’espatrio. La prima identificazione avviene, spesso, attraverso il colore della pelle. In pratica, si tratta di controlli sistematici e in un certo senso di controlli di confine. Il confine, appunto, è mobile e si moltiplica. Oltre cento persone al giorno, in queste ultime settimane di maggio 2015, sono state fatte scendere dagli EC e/o è stato loro impedito di partire da Bolzano. Quando si problematizza male un fenomeno, categorizzato come “migrazione clandestina”, e in seguito si individuano dispositivi di controllo e risposte tramite le “forze di polizia” non si arriva certo a soluzioni “programmate”, ma si producono altri effetti. Di fatto, i controlli non riescono a fermare le persone in Italia, semplicemente hanno reso la fuga più lunga, più difficile, più insicura, più costosa; e più illegale, spingendo cioè a volte verso l’opzione di pagare qualcuno che li porta a nord. I sindacati di polizia Siulp e Coisp più volte hanno espresso pubblicamente, con ragiona- menti diversi, sconforto per l’attuale situazione. La loro voce è stata molto più forte di quella delle organizzazioni che a livello locale lavorano nell’ambito dell’accoglienza profughi, a lungo operativamente assente anche da una elementare attività di advocacy per i diritti di queste persone in fuga. Anche qui, attraverso facebook e whats-app, numerosi cittadini si sono organizzati in proprio per rispondere nell’immediato alla situazione che si è creata nella stazione di Bolzano, per dare supporto umanitario ai profughi fermati e per convincere istituzioni e associazioni a prendersi le loro responsabilità. Cooperazione transfrontaliera dal basso Per finire, vorrei raccontare della seconda risposta di cooperazione transfrontaliera, nata proprio a partire dalla situazione mobile del confine del Brennero, un confine che non solo divide, ma anche connette. Il 1° marzo 2015 si sono trovate al Brennero 200 persone provenienti dall’Italia, dall’Austria, dalla Germania e dalla Svizzera. L’incontro è stato frutto -e ulteriore stimolo- di una cooperazione transfrontaliera dal basso, per chiedere una più forte cooperazione europea e transnazionale non tanto nel “contrasto alla migrazione clandestina” ma nella creazione di un sistema d’accoglienza -anche per chi sceglie di far domanda di asilo in un altro paese europeo- basata su solidarietà e integrazione; e nella creazione di percorsi legali e sicuri. Una sera, una persona ferma da ore nella sala d’attesa nella stazione ferroviaria del Brennero mette su della musica che trasforma l’atmosfera nella sala e contagia anche le altre persone. Il passato coloniale -anche italiano- rimbalza tramite le parole in lingua creola della canzone dalle mura della sala d’attesa e prende corpo anche nelle storie delle persone che emergono tra ricordi ed esperienze presenti. La canzone parla delle difficoltà della vita e del bisogno di lottare. Forse una lingua creola, qui e ora, ci aiuterebbe meglio a esprimere le difficoltà e a dar voce a una lotta culturale e politica. Abilità nel rispondere: respons-abilità Qui volevo porre una riflessione che non è giuridica ma che si interroga sull’Europa di oggi, sui diritti, sulla solidarietà e convivenza; sulla libertà, giustizia e sicurezza. Lascio alle persone e organi competenti di valutare se le pattuglie trilaterali siano conformi al Schengen Borders Code. Ciò che vediamo quotidianamente al Brennero riguarda sì gli effetti delle normative europee in materia di asilo, ma viene affrontato nella pratica tramite accordi e interessi intergovernativi e applicato mediante le forze di polizia; mentre le risposte necessarie sono altre. Cosa significa? Vent’anni fa Alexander Langer scriveva che l’Europa muore o rinasce a Sarajevo. Non so come agirebbe se oggi potesse testimoniare questa situazione. Verrebbe da pensare che oggi l’Europa muore o rinasce anche nel Mediterraneo, e anche qui, lungo la rotta del Brennero, che passa anche dalla sua città natale, Vipiteno, a pochi chilometri del confine. Aveva scritto nel maggio 1995: “Ritentiamo che sia tempo di affrontare anche dal basso la costruzione di una nuova fratellanza euromediterranea e di accompagnare criticamente e attivamente il processo che si svolge al livello delle istituzioni e dei governi”. 39 Fratellanza euromediterranea di Alexander Langer Tutti abbiamo passato alcuni anni in cui l’Europa occidentale ha dovuto -non senza fatica- riscoprire la sua “altra faccia della luna”, cioè i propri concittadini europei dell’Est. Caduti i muri e le cortine, una reciproca amputazione durata almeno mezzo secolo si sta lentamente e assai contraddittoriamente rimarginando. Non si sono ammazzati vitelli grassi per il fratello ritrovato, piuttosto si è vista la penosa reazione di chi rifà i conti di un’eredità ritenuta già assegnata in esclusiva e ora, invece, da spartire. bia, Siria, ecc.), in alcune ingiustizie ormai da troppo tempo sopportate (la divisione di Cipro, per esempio), nella ricerca di un nuovo ordine post-guerra-fredda anche nel Mediterraneo. La proposta, avanzata fin dai primi anni Novanta, di organizzare per quest’area una sorta di “Helsinki del Mediterraneo”, cioè un quadro complessivo di accordi per la cooperazione e la sicurezza, è stata lasciata cadere; gli stessi governi che l’avevano caldeggiata (Spagna, Italia, poi anche Francia e Grecia) l’hanno messa nel dimenticatoio. Oggi un’altra fratellanza affievolita o forse dimenticata è da riscoprire: quella euromediterranea. In anni passati in Italia si è assistito a un curioso dibattito geopolitico: chi voleva “entrare in Europa” reclamava spesso la necessità di staccarsi dal Mediterraneo, “dall’Africa”, come talvolta si diceva in senso spregiativo. Anche nel resto d’Europa, l’attenzione al Mediterraneo negli ultimi anni ha subìto alterne vicende e si è ulteriormente resa precaria dalla guerra del Golfo in poi, dove si è invece consolidata una sorta di egemonia dell’asse Usa-Stati petroliferi del Golfo (con l’Arabia Saudita in testa), con una forte influenza nel Mediterraneo che si è manifestata anche nella politica della spesa pubblica. Su ogni Ecu investito dalla Comunità europea, se ne sono investiti dieci da parte degli Usa e altrettanti da parte dei petrolieri arabi. L’assenza di una comune politica mediterranea la si è vista non solo intorno alla guerra del Golfo: ancor più pesante la marginalità dell’Europa nel ritrovare la pace tra israeliani e arabi, nel dialogo con i paesi “difficili” (come Li- Oggi i governi si preoccupano di certi campanelli d’allarme e tendono ad affrontarli, ma troppo spesso in modo solo repressivo: immigrazione incontrollata, tensioni sociali e “rivolte del pane”, la crescita dell’integralismo islamico, i rischi del traffico illegale di droga e di armi... insomma, i pericoli più che le opportunità. La Conferenza inter-governativa euromediterranea, indetta dall’Unione europea per il prossimo novembre 1995 sotto presidenza spagnola, si prefigge -assai positivamente- un nuovo partenariato euromediterraneo, ma rischia di limitarsi a puntare al controllo di alcuni di questi fenomeni ritenuti minacciosi attraverso accordi di cooperazione e di finanziamento, senza osare un disegno più ambizioso: un partenariato che porti a una vera e propria Comunità euromediterranea, a fianco e intrecciata con l’Unione europea. Ecco perché riteniamo che sia tempo di affrontare anche dal basso la costruzione di una nuova fratellanza euromediterranea, e di accompagnare criticamente e attivamente il processo che si svolge al livello delle istituzioni e dei governi. Una parte del volontariato europeo impegnato per la pace, per la cooperazione, per l’ambiente, per la giustizia tra nord e sud, per uno sviluppo umano e sociale sostenibile, già opera in questa dimensione. Ma se vogliamo davvero ravvivare e rinnovare il patrimonio comune che lega comunità, popoli, cittadini, eco-sistemi, economie e società mediterranee, e intrecciarle con quell’altro grande processo di integrazione che oggi faticosamente avviene tra l’Occidente e l’Oriente del continente europeo, bisognerà sviluppare una nuova sensibilità e cogliere le molte occasioni di azione e interazione. D’altra parte forse non si può chiedere ai governi quanto dai cittadini e dalla società civile non è ancora sufficientemente sentito e condiviso. Maggio 1995, editoriale Verdeuropa, Bolzano-Bruxelles è questa oggi una sfida e una possibilità di grande rilievo per i cittadini e i gruppi europei e mediterranei. Non c’è nessun’altra area del mondo in cui in uno spazio così concentrato si trova un’eredità così comune e così diversificata insieme: al crocevia tra i tre continenti (Europa, Asia, Africa) e le tre grandi religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam), in una cornice ambientale e monumentale con caratteristiche fortemente comuni e oggi gravemente minacciata.