Per una cultura dell`accoglienza

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Per una cultura dell`accoglienza
Da Lampedusa
al Brennero
Per una cultura dell’accoglienza
Che cosa resterebbe da fare a un tuo emulo oggi, caro San Cristoforo?
Qual è la Grande Causa per la quale impegnare oggi le migliori forze,
anche a costo di perdere gloria e prestigio agli occhi della gente
e di acquattarsi in una capanna alla riva di un fiume?
Qual è il fiume difficile da attraversare,
quale sarà il bambino apparentemente leggero,
ma in realtà pesante e decisivo da traghettare?
(Alexander Langer, 1990)
Quaderno della Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus Nr. 3, maggio 2015
Indice
Editoriale, pag. 2
Apriamo le nostre porte, di Alexander Langer, pag. 2
Premio Langer 2014
a Borderline Sicilia, pag. 3
Monitorare l’indifferenza
intervista a Borderline Sicilia, pag. 4
Africa in movimento
di Anna Maria Gentili, pag. 8
Negare non equivale a impedire
di Gianfranco Schiavone, pag. 12
E i profughi intanto che fine fanno?
di Luigi Manconi, pag. 12
Il permesso di ingresso
per “ricerca di lavoro”,
intervista a Enrico Pugliese, pag. 15
Migranti in transito.
intervista a Fulvio Vassallo, pag. 18
Il patto d’accoglienza,
di Fausto Stocco, pag. 22
Uomini e fantasmi.
di Luigi Monti, pag. 24
La parola “aiutare” e la parola “grazie”,
intervista a “I Girasoli”, pag. 27
200 euro e un biglietto per la Germania,
intervista a Yaya e Samuel, pag. 30
Quel sogno ricorrente
intervista a Carlo Bracci, pag. 34
I Dublinati,
intervista ad “Asinitas”, pag. 36
Da Lampedusa al Brennero.
di Monika Weissensteiner, pag. 38
Fratellanza euromediterranea, pag. 40
Da quando il Comitato scientifico della Fondazione ha deciso di assegnare il Premio
Alexander Langer 2014 all’associazione
Borderline Sicilia ci siamo imbattuti in due
fortunate coincidenze.
Dopo aver consegnato nel 1997 il primo premio Langer alla femminista algerina Khalida
Toumi Messaoudi, siamo venuti a sapere che
l’ultimo discorso di Alex tenuto al Parlamento Europeo il 29 giugno 1995 era stato proprio dedicato alle donne algerine che cercavano rifugio in un’Europa ostile e diffidente.
Seconda coincidenza. Nel film “Alexander
Langer, Uno di noi”, realizzato da Dietmar
Höss nel 2007, si racconta tra l’altro la storia della nave Cap Anamur, messa in mare
dall’omonima associazione tedesca, di cui
l’ex comandante Stefan Schmidt e il responsabile del Comitato umanitario Elias Bierdel erano allora sotto processo ad Agrigento
perché accusati di aver portato clandestinamente a Palermo, nell’estate 2004, 37 profughi del Darfur, salvati da un gommone
in panne nei pressi delle coste libiche. Poi
veniamo a sapere che questo fatto aveva segnato l’inizio dell’impegno di alcuni dei promotori di Borderline Sicilia.
è iniziato così il nostro percorso di esplorazione e apprendimento che ha consentito
di fare di “Euromediterranea 2014”, con la
consegna del Premio Alexander Langer a
Borderline Sicilia, uno spazio di confronto tra diversi volontari e associazioni che
lavorano dal basso e nelle istituzioni per
promuovere una cultura dell’accoglienza e
dell’integrazione di profughi e immigrati.
Questo terzo Quaderno della Fondazione,
realizzato in collaborazione con la rivista
Una Città, vuole rendere conto di questo
lavorio e delle importanti relazioni che ci
ha consentito di intrecciare.
Un’analogo dossier, che consigliamo, è stato realizzato dalla rivista Gli Asini, con
l’inserto “Accogliere o respingere” del numero 25, gennaio/febbraio 2015.
Dopo Lampedusa, è venuto naturale che
il Brennero, nostro prossimo, ci venisse
incontro. Il Brennero è in Sudtirolo uno
dei confini interni dell’Europa, che viene
attraversato da chi intende raggiungere
parenti e conoscenti nei paesi del nord e
mette quindi in risalto alcuni nodi problematici della politica e della pratica d’asilo
e d’accoglienza locale e internazionale.
Migranti per mare
Giulia Fantoni
Hanno bevuto il mare
i nostri fratelli migranti
sorsi piccoli e poi grandi, sempre più grandi più grandi più grandi
ma il mare era troppo grande per poterlo finire a sorsi
e dopo gli spasimi e i tormenti, il respiro si placò
Tra le onde, nel buio
soli nell’immensità
tra speranza e paura,
furono lamenti sussurri preghiere rimpianti bestemmie ricordi grida dolore
e nessuno che viene a salvarti
Infine, quando rimase solo terrore,
fratello mare pietoso se li abbracciò uno a uno
e se li è portati nella pace e nel silenzio
Ora i sacchi neri di morte tengono corpi lividi senza nome
e invano, da dove sono venuti, altri affetti sperano ancora
là dove tormenti guerra fame fanno buchi nella carne e voragini nel cuore
Come ci manchi
sorella Giustizia...
(4 ottobre 2013, dopo la tragedia di Lampedusa)
Dal libro: Sotto il cielo di Lampedusa Annegati da respingimento.
Rayuela Edizioni, gennaio 2014
Apriamo le nostre porte
Delle volte noi guardiamo ai rifugiati, in questo caso per esempio alle donne algerine, come una specie di peso per la nostra società. Invece noi dovremmo guardare con altri occhi. Accogliere persone che oggi nel loro paese non possono esercitare i propri diritti, o che sono
addirittura minacciate spesso nella loro stessa vita. Accoglierle nel nostro paese è anche un investimento, è un investimento democratico
che ci permette per il futuro di costruire i rapporti con coloro che in quel paese possono ricostruire un dialogo civile.
Nel caso dell’Algeria, in particolare, noi tutti sappiamo quanto quella società sia oggi attraversata da contraddizioni profonde, in cui
si mescolano eredità di un vecchio regime, una profonda attitudine antidemocratica e spesso violenta dell’integralismo islamico, in cui
abusi da parte del potere -in particolare del potere militare- fanno perdere fiducia a molte persone. Allora vogliamo o non vogliamo
sostenere coloro che possono in qualche modo essere una terza parte, una sponda diversa per la ricostruzione di un dialogo civile? E in
questo le donne in Algeria, organizzate o no che siano, le donne che oggi rivendicano i loro diritti spesso contro un forte pregiudizio, in
cui l’essere donna diventa motivo di persecuzione, l’essere donna e rivendicare diritti politici diventa oggetto di ulteriori discriminazioni;
aprendo noi le nostre porte a loro, riconoscendole come perseguitate politiche, riconoscendo in loro delle titolari di diritto all’asilo, noi
compiamo appunto un investimento democratico, un investimento di rippacificazione verso la società algerina, perché sappiamo bene
che la società algerina avrà bisogno proprio di queste risorse per potersi evolvere in senso democratico. Quindi apriamo le nostre porte.
Alexander Langer (1995)
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Premio Langer 2014 a Borderline Sicilia
Un ponte fra chi soffre e chi può imparare
a condividere il dolore
Da anni sul Sud Italia, e particolarmente
sulla Sicilia, stanno ricadendo le urgenze
(e le inerzie) di più mondi. I drammi dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia, con i
conseguenti flussi di popolazioni in fuga da
guerre, dittature, terrorismo, carestie, bande locali, in cerca di una nuova vita. Il sistema di accoglienza in Italia, ancora bloccato
nella logica dell’emergenza, non può che essere giudicato fallimentare da un punto di
vista umanitario e gravemente inefficiente
relativamente al rapporto costi-efficacia degli interventi.
Cieca e sorda appare l’ostinazione della Ue, che rifiuta di modificare il
Regolamento di Dublino, secondo cui i profughi sono costretti a chiedere asilo nel paese d’arrivo, e che di fronte a emergenze come
la guerra civile in Siria e il conseguente esodo, esita persino ad attivare procedure per
il riconoscimento di permessi di protezione,
come invece è avvenuto durante le crisi in
Albania, ex Jugoslavia, Kosovo, Libia.
Una delle condizioni indispensabili e preliminari per qualsiasi serio intervento è una
sistematica indagine sul campo volta a portare a conoscenza della opinione pubblica e
dei decisori a tutti i livelli, le reali condizioni
dell’intero processo della accoglienza in tutte le sue ramificazioni. E diventa cruciale
un’analisi sul ruolo che svolgono le istituzioni pubbliche e la miriade di onlus, associazioni, cooperative, che abbracciano realtà
anche molto diverse fra loro. Alcune di loro
si sono trasformate in strutture pletoriche,
verticistiche, burocratizzate, in cui i costi
per mantenere la struttura superano ampiamente quelli destinati all’aiuto, e dove a
volte i lavoratori e gli utenti sono trattati
come oggetti passivi, privi di voce e di capacità di iniziativa.
Questa capacità di monitoraggio, senza la
quale la parola “trasparenza” è una formula vuota e non sono concepibili politiche e
interventi minimamente adeguati, è ciò che
più caratterizza l’attività di Borderline Sicilia e il motivo principale che ci ha indotto a
assegnarle il premio internazionale Alexander Langer 2014.
La capacità di valorizzare e potenziare le
iniziative già presenti sul territorio, consente a BS di promuovere un vasto raggio
di iniziative con una struttura sorprendentemente “leggera”, formata attualmente di
sole tre persone più tre collaboratori, tutti
volontari, dentro una rete di relazioni che
BS ha stretto sia con istituzioni e iniziative
italiane ed europee, sia con realtà locali.
Coadiuvata da centri universitari e da
esperti, BS ha partecipato a una ricerca etnografica transnazionale sul tema dell’europeizzazione del diritto di asilo e di immigrazione in Italia, a Cipro e in Spagna, ricerca
che, accanto ai rapporti sullo stato delle
strutture di accoglienza in Sicilia, offre le
basi per una aperta e seria discussione sul
rapporto controverso fra salvataggio e militarizzazione, tipico delle operazioni Frontex
e Mare Nostrum.
Lo slogan di BS “esserci dove gli altri non
ci sono” non sta solo a indicare la presenza
di operatori sul campo, fonte di rilevazioni
dirette e rigorose, che di per se stesse sono
una critica alle informazioni distorte e superficiali di gran parte dei mass media su
questi temi, ma è anche ricerca di interlocuzione con tutti i livelli istituzionali che contano, senza complessi e senza subalternità,
secondo un principio per cui le regole della
convivenza vanno rispettate, ma i cittadini
hanno il diritto di conoscerle, di discuterle
collettivamente ed eventualmente di partecipare alla loro riscrittura. Facilitare la
partecipazione della società civile italiana
ai processi decisionali delle organizzazioni
e istituzioni nazionali e internazionali, è
accanto al monitoraggio sul campo, il tratto
distintivo del lavoro di BS.
Questo sguardo al di là delle barriere, è forse il tratto che Alex Langer avrebbe amato
di più, lui che si muoveva dal parlamento
europeo e dal dibattito internazionale alla
dimensione locale e di base, senza supponenza verso il primo ambito, senza paternalismi verso il secondo. E che proprio alla
necessità di accogliere le donne algerine in
cerca di rifugio aveva dedicato il suo ultimo
discorso al PE il 28 giugno 1995 nel nome
di una nuova fratellanza euromediterranea.
Come quando BS si è fatta carico di combattere con mezzi legali gli attacchi di alcuni
giovani palermitani a due ragazzi tamil, stimolando la solidarietà del loro quartiere di
residenza. Come quando si è prodigata per
identificare uno per uno i 17 giovani affogati vicino alle coste siracusane, mettendo in
contatto le loro famiglie con la popolazione
della zona. Uno per uno vuol dire riconoscere alle vittime il diritto alla sepoltura materiale e simbolica che connota l’appartenenza
alla comunità degli umani -e dare alle famiglie un luogo per ricordare.
Oggi il richiamo al dovere di memoria è
spesso rituale. Ma la “memoria attiva” di cui
parla BS è altra cosa, punta a promuovere
conoscenza, confronto, cambiamento, estensione di buone pratiche a chi ne è escluso.
Con l’iniziativa di Siracusa, si sono sottratti
quei giovani al destino di “profugo ignoto”
così frequente negli esodi di massa, cercando di oltrepassare il compianto effimero e
impersonale delle celebrazioni ufficiali. Non
ultimo, si è gettato un ponte fra chi soffre e
chi può imparare a condividere il dolore.
(Il premio dotato di 10.000 euro è offerto dalla
Fondazione Cassa di Risparmio-Südtiroler Sparkasse di Bolzano/Bozen).
Le deputate della presidenza della Camera, con Laura Boldrini e Marina Sereni, incontrano il 2 luglio
2014 Giovanna Vaccaro, Paola Ottaviano e Elio Tozzi, di Borderline Sicilia, Marianella Sclavi e Bettina Foa, Fondazione Langer (Foto Presidenza Camera).
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Monitorare
l’indifferenza
Judith Gleitze è stata amministratrice del
Consiglio per i rifugiati di Brandeburgo,
Ong tedesca che si occupa dei diritti di profughi e rifugiati. Ha partecipato alla creazione di Borderline-Europe e nel 2009 è stata
tra le fondatrici di Borderline Sicilia. Giovanna Vaccaro è responsabile per Borderline
Sicilia del monitoraggio nella Sicilia centrale (Caltanissetta, Agrigento, Messina).
Ti occupi di rifugiati da 20 anni.
Judith. È stato intorno alla metà degli anni
Novanta che abbiamo capito che l’arrivo dei
rifugiati in Europa stava diventando un
tema cruciale. All’epoca i rifugiati venivano
prevalentemente dall’Est, c’erano i rifugiati
ceceni che arrivavano dalla Russia, passando per la Polonia e quel confine era sempre
più vicino. Alcuni colleghi infatti si sono
presto spostati a Est, verso la Polonia, l’Ucraina; io invece ho preso la direzione dell’Italia. È stato in quel contesto che abbiamo
creato Borderline-Europe.
All’ultima riunione, la settimana scorsa,
c’erano quindici volontari, in più lavoriamo
in due a tempo pieno ma sempre pagati per
massimo 10 ore la settimana. Oltre a me,
Harald Gloede a Berlino. Come volontari,
che lavorano regolarmente con noi, c’è l’ex
comandante della Cap Anamur, Stefan Schmidt, che sta a Lubecca, ed Elias Bierdel,
responsabile del Comitato umanitario Cap
Anamur.
La Cap Anamur è stato dunque un
evento cruciale nella vostra storia.
Puoi ricordare?
Judith. La Cap Anamur è stata quel che si
dice la goccia che ha fatto traboccare il vaso;
a quel punto non si poteva più rimandare
questa nostra idea di fare un’associazione
che si occupasse dei confini europei, della
Fortezza Europa.
per noi era qualcosa di inaccettabile
che delle persone potessero morire
così, senza nemmeno sapere chi fossero
Ricordo brevemente i fatti: nel 2004, la nave
dell’omonima associazione umanitaria tedesca Cap Anamur era diretta in Iraq per
portare attrezzatura ospedaliera. Era diretta verso il canale di Suez, ma nei pressi di
Malta ci fu un guasto che venne riparato.
Rimessisi in viaggio, durante un giro di prova, la Cap Anamur si imbattè, per caso, in
un gommone alla deriva tra la Libia e Lampedusa con trentasette profughi subsahariani. Li salvarono.
Da quel momento si scatenò un putiferio
incredibile. Nessun porto infatti li voleva
accogliere. L’Italia diceva che erano stati
trovati nelle acque di Malta e quindi toccava a loro... Soltanto 21 giorni dopo, la nave
ottenne il permesso di attraccare a Porto
Empedocle, Agrigento e quei trentasette di-
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sgraziati sbarcarono così in Italia, ma furono quasi tutti espulsi in Nigeria e in Ghana.
Solo uno o due rimasero.
Il presidente dell’associazione umanitaria
Cap Anamur, il comandante e il primo ufficiale della nave vennero arrestati e subirono
un lungo processo. L’accusa era favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: incredibile!
Seguii personalmente l’iter giudiziario, che
fu terribile perché distrusse la vita di queste
persone: non avrebbero più potuto lavorare.
In Germania infatti c’era stata anche una
dura campagna mediatica contro di loro.
A quel punto ci siamo detti: “Dobbiamo creare un’associazione che si occupi di queste
cose”. Avendo nel frattempo conosciuto l’ex
Comandante e il capo del comitato, abbiamo
loro proposto: “Voi siete conosciuti, non vorreste venire a fare un’associazione con noi?”.
Ecco, Borderline-Europe è nata così.
Quando è iniziato invece il vostro impegno in Sicilia?
Judith. Ero già venuta in Italia, sia come
Borderline-Europe, ma ancora prima per il
Consiglio dei rifugiati. Da metà degli anni
Duemila, come dicevo, ho seguito il processo
alla Cap Anamur e così ho intanto conosciuto Germana, che è appunto di Agrigento e fa
l’avvocato. Assieme abbiamo seguito diversi
progetti anche sui minori non accompagnati. Dopo qualche tempo però questo andirivieni non era sostenibile e allora ho deciso di
trasferirmi in Sicilia e mettere su un gruppo, che è diventato poi Borderline Sicilia.
Nel 2007 sulla spiaggia della riserva di Vendicari vennero ritrovati i corpi di diciassette
persone. Erano egiziani e palestinesi, vittime del naufragio di una piccola imbarcazione partita dall’Egitto. Per noi era qualcosa
di inaccettabile che delle persone potessero
morire così senza nemmeno si sapesse chi
fossero. Riuscimmo a recuperare i nomi e,
assieme ai parenti arrivati, organizzammo
una commemorazione che si è poi ripetuta
per diversi anni, sempre a novembre. Da lì è
nata l’associazione vera e propria.
Nel 2011 è arrivata l’emergenza Nordafrica...
Judith. Con l’arrivo dei primi rifugiati,
abbiamo deciso di aprire un blog per documentare quello che succedeva in Sicilia.
All’inizio accettavamo il contributo di tutti
quelli che volevano scrivere. Se un ragazzo
ci diceva: “Vengo in Sicilia a luglio-agosto, a
Lampedusa, avete un lavoro per me?”. “Sì:
monitoraggio”. C’era una sorta di vademecum su come scrivere, però, con tante persone diverse era difficile avere uno stile omogeneo, per cui c’era chi la prendeva larga:
“Abbiamo preso il tè con le immigrate...” e
chi faceva un report fin troppo conciso, testi
molti diversi.
Abbiamo subito creato anche dei blog con
i testi in inglese e tedesco, per una distri-
buzione più ampia. Una fondazione ci ha
sostenuto per un anno per le traduzioni in
inglese. Il blog tedesco, fin dall’inizio, ha
funzionato solo con i volontari coordinati da
una nostra collega.
la nostra informazione è anche
sempre una denuncia:
quello che vediamo lo scriviamo
Nel 2013, abbiamo deciso di cambiare metodo e di cercare delle persone responsabili
per le varie zone, così oggi abbiamo Alberto
per la Sicilia occidentale, Elio per la Sicilia
orientale e poi Giovanna che gira nel mezzo,
Caltanissetta, Agrigento, Messina. Infine ci
siamo noi tre, Germana e Paola come avvocate e io come coordinatrice, che individuiamo i luoghi dove andare a monitorare.
Ma cosa significa concretamente monitorare?
Judith. Il problema è che noi -a parte poche
eccezioni- non abbiamo accesso ai centri.
Solo dopo un lungo iter di autorizzazione
a volte ci viene concesso. Questo evidentemente non aiuta. A dicembre 2013 ho accompagnato una deputata del parlamento tedesco, che voleva entrare a Mineo e
all’Umberto I di Siracusa, così sono potuta
entrata anch’io. Quando è possibile cerchiamo di accompagnare chi ha accesso: giornalisti, politici, ecc. Altrimenti ci rechiamo in
loco e parliamo soprattutto con gli immigrati che escono. Elio, Beatrice (fino a novembre 2014) e Lucia si recano al porto quando
sanno dell’arrivo di una nave ma anche il
monitoraggio in questo senso non è facile.
Per esempio, già ad Augusta non è possibile
entrare nel porto. Per questo, per raccogliere informazioni è molto importante anche
parlare con gli operatori di Praesidium, cioè
Acnur, Oim, Save the children e Croce Rossa. Oppure cerchiamo contatti con persone
in loco. Per noi è sempre importante valorizzare le risorse locali che ci sono nei vari
contesti e fare un lavoro continuo nei territori per creare e rafforzare la rete. In questi
anni sono entrata diverse volte, sia a Salina
Grande che a Trapani, Lampedusa, Mineo.
Il fatto è che devi sempre chiedere. A un
certo punto poi era diventato letteralmente
impossibile, perché era uscita una circolare
in base alla quale nessuno poteva più entrare. La ministra Cancellieri l’ha ritirata, però
l’iter è rimasto sfiancante. Funziona così: tu
chiedi il permesso, la richiesta viene inoltrata alla prefettura competente, Caltanissetta, Mineo, Catania, dipende, dopodiché loro
la mandano a Roma e Roma decide. È un
iter troppo lungo.
Non vi limitate a raccogliere informazioni e inserirle nel blog, cercate anche, laddove possibile, di cambiare le
cose. È un “monitoraggio attivo”.
Judith. La nostra informazione è anche
sempre una denuncia: quello che vediamo,
lo mettiamo. Se poi io vedo che c’è una persona che da una settimana ha il braccio rotto e non viene curato, segnaliamo l’episodio
alla questura, alla prefettura, e poi pubblicamente. Avvisiamo i responsabili: “Se tu
non fai niente, noi lo dobbiamo rendere pubblico, mi dispiace”. Se serve? A noi interessa
che serva all’interessato. Poi è chiaro che
con queste azioni a volte succede che non
vogliono più parlare con noi.
Giovanna. Il monitoraggio a Caltanissetta era stato iniziato da tempo da Alberto,
il quale aveva già notato gli accampamenti attorno al centro governativo la scorsa
estate. Al mio arrivo in ottobre la situazione
era peggiorata: erano ormai quasi duecento i richiedenti asilo costretti a vivere negli
accampamenti attorno al centro governativo in attesa di avere accesso all’istanza di
protezione, ma ora l’inverno era alle porte
e il freddo si faceva già sentire. Poiché, nonostante l’evidenza di questa realtà, istituzioni e cittadinanza rimanevano totalmente
indifferenti, abbiamo deciso di affiancare
all’attività di monitoraggio (che eseguivo
anche rispetto alle condizioni all’interno del
centro governativo) una serie di iniziative
che da una parte potessero coinvolgere gli
autoctoni e attirare l’attenzione sugli accampamenti, dall’altra potessero garantire
un supporto a queste persone abbandonate
a loro stesse… quanto meno dar loro un segno di solidarietà.
Così è iniziata una prima attivazione della
rete attraverso una raccolta e distribuzione di indumenti, seguita dalle lezioni di
italiano negli accampamenti, e, infine, da
momenti di formazione sul tema del diritto d’asilo con altre importanti realtà locali,
come, ad esempio, lo sportello immigrati
(retto da oramai dieci anni da quattro volontari). Nel corso di queste iniziative non
abbiamo comunque mai smesso di denunciare la situazione sul nostro blog e anche
su altri quotidiani.
i viaggi sono tremendi,
possono durare settimane,
ma anche anni
La condivisione di questa esperienza con le
altre realtà e con le persone che vivevano
negli accampamenti è stata molto importante, sia per promuovere una conoscenza
reciproca che per instaurare un rapporto
di fiducia con le persone che vivevano negli
accampamenti, anche dopo che queste sono
entrate nelle diverse strutture di accoglienza distribuite in tutta la provincia (in cui le
abbiamo ritrovate poi durante i monitoraggi
successivi).
Che cosa significa la vostra presenza
sul territorio?
Giovanna. Vogliamo essere un punto di riferimento per coloro che non sanno a chi rivolgersi, dare evidenza a importanti lacune
istituzionali e intervenire concretamente
con azioni dirette o attraverso segnalazione
ad altre organizzazioni umanitarie.
Sono diverse le storie che potrei raccontare,
ma quella di M. è senz’altro quella che ha
segnato particolarmente i miei mesi a Caltanissetta.
Era gennaio e un pomeriggio mi trovavo a
monitorare la situazione negli accampamenti insieme ai referenti dello Sportello
immigrati. Alcuni dei ragazzi che ormai
mi conoscevano hanno attirato la nostra
attenzione su un ragazzo. Era seduto su di
un materasso e un suo amico gli stava allacciando le scarpe, mentre lui era in completo stato catatonico. A raccontarci tutta la
storia sono stati i suoi amici: M. era stato
ospite del Cara fino a qualche ora prima,
dallo scorso agosto. All’entrata al centro
aveva con sé una prescrizione del suo psichiatra pachistano e degli psicofarmaci che
gli servivano per i suoi disturbi. All’entrata
nel Cara, come da prassi, tutti i medicinali
gli sono stati sequestrati dai militari all’ingresso e da quel giorno, in un posto in cui
M. non sarebbe neanche dovuto transitare,
nessuno si è più preso cura della sua vulnerabilità e neanche del malessere che, in
assenza della terapia, ha iniziato a manifestarsi in maniera sempre più evidente, fino
allo stato catatonico in cui l’abbiamo trovato
noi. Gli amici ci hanno raccontato di aver
provato per settimane a segnalare il problema ai medici, ma che questi si limitavano
a dire: “Se non è lui a dirci che cos’ha, non
posso farci niente” e, poiché M. perdeva man
mano tutte le facoltà (gli si doveva dire “vai
in bagno, bevi, mangia”), non sapendo più
cosa fare lo hanno convinto a firmare una
rinuncia all’accoglienza per trovare il modo
di fargli raggiungere lo zio a Roma, per poi
provvedere a rimpatriarlo, perché neanche
lui sapeva cosa fare.
E così è stato dimesso dai responsabili
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dell’ente gestore del centro, nonostante si
trovasse in condizioni tali da non poter neanche affrontare un viaggio da solo. E infatti, quel pomeriggio, l’intenzione dei loro
amici era quella di accompagnarlo in stazione con la speranza di trovare un connazionale a cui poterlo affidare per il viaggio verso Roma. Abbiamo allora proposto ai suoi
amici di darci la possibilità di trovare una
soluzione: in quello stato non poteva partire, ma soprattutto aveva diritto a un altro
tipo di accoglienza. Inizialmente erano restii, del resto l’esperienza con chi nel centro
doveva prendersi cura di lui non era andata
troppo bene, quindi, perché fidarsi. Seppur
diffidenti hanno lasciato che attivassimo la
rete locale per provvedere a un’accoglienza
e all’accesso alle cure. Nel giro di qualche
settimana, piano piano, è riuscito a riprendere le cure. L’ultima volta che l’ho visto mi
ha detto che sta studiando l’italiano. È una
storia che è finita bene. Ma è stato solo un
caso. Non tutte vanno così.
Ma qual è l’iter che aspetta chi sbarca
nel nostro paese?
Giovanna. I viaggi sono tremendi, possono
durare settimane, ma anche anni. Stanno
chiusi per giorni in questi tir, tant’è che ormai hanno imparato e iniziano a non bere
dal giorno prima, perché poi non hai modo
di... così si disidratano però.
Judith. La rotta Libia-Italia è drammatica,
arrivati in Libia sono costretti a lavorare
per mettere assieme i soldi e molti finiscono
in carcere.
in questo periodo di crisi, tanti
operatori degli Sprar confessano agli
stessi immigrati di non poter far nulla
Giovanna. Tanti non arrivano.
Judith. Le donne subiscono pressoché tutte
delle violenze incredibili.
Comunque quando arrivano vengono trasportati spesso su una nave militare ma anche su navi cargo a Porto Empedocle, Pozzallo o Augusta, o in altri porti siciliani o
della terraferma. Da lì vengono smistati, ma
siccome non c’è posto è altamente probabile che dopo quel viaggio terribile, finiscano
in una tenda. Dalla fine del 2013 viviamo
di nuovo in uno stato di emergenza, anche
se non è stato proclamato. In questa fase
dell’accoglienza il problema più grave è che
non ci sono i posti. Il rischio è che qualsiasi
appartamento possa diventare accoglienza:
ci metti dentro un tot di persone e ti guadagni un bel po’ di soldi. Le convenzioni sono
scarnissime, alla fine il messaggio che passa è: cerchiamo posti, chi vuol partecipare?
Certo, sulla convenzione c’è scritto che il Ministero dell’Interno si riserva la possibilità
di monitorare, ma è difficile crederci perché
proprio manca il personale.
Comunque, una volta sbarcati, i rifugiati
vengono smistati in centri più o meno informali, a volte in tendopoli, vecchie scuole,
palestre o altre “strutture ponte”. Da lì dovrebbe seguire il trasferimento in un Cara,
il centro per i richiedenti asilo o in un Centro d’accoglienza (Cda), per quelli che non
vogliono fare la richiesta. Il fatto è che tali
trasferimenti avvengono anche dopo mesi;
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mesi di totale inattività. Nel centro Umberto I di Siracusa, una vecchia scuola, sempre
sovraffollata, ci sono tutti questi uomini che
trascorrono due, tre mesi senza fare nulla,
senza nemmeno poter presentare la richiesta d’asilo perché a rigore lo possono fare
solo in un Cara. Mesi che passano così, per
niente. Quando infine vengono trasferiti
(se non se ne sono andati prima, cosa che
succede spessissimo) vanno in un Cara e,
nel caso, in uno Sprar, centri pensati anche
per i più vulnerabili dove dovrebbe essere
previsto un accompagnamento più forte con
un’integrazione fatta di scuola, formazione,
ricerca di un posto di lavoro. Ovviamente, in
questo periodo di crisi e pesante disoccupazione, tanti operatori degli Sprar confessano
agli stessi immigrati di non poter far nulla
per loro. Ora hanno aperto più di settemila
nuovi posti, però, anche lì, metà delle convenzioni riguardano gestori nuovi, che non
sai chi sono. Di gestori ce ne sono di tutti i
colori, privati, cooperative cosiddette rosse,
di tutto e di più e anche questo rende difficile il monitoraggio.
L’accoglienza è anche un affare per qualcuno. Attualmente la tariffa per ospite (attenzione: riscossa dai gestori, non dai migranti)
nei centri di prima accoglienza per richiedenti asilo è di trenta euro al giorno.
Come trascorrono le giornate in questi
centri?
Judith. Non fanno niente perché non c’è
niente da fare. O meglio, dipende dal centro. Non tutti i centri sono bruttissimi, però
quelli grandi, governativi, sono tutti brutti,
al massimo c’è un corso di italiano, però,
se ogni giorno cambia l’insegnante, tu non
riesci a seguire e allora non ci vai più. Se,
come a Mineo, tieni il corso due o tre volte alla settimana, con duecento persone per
volta, non ci vai più. Certo, possono uscire,
ma dove vanno? Non hanno soldi. Quando
va bene ricevono due euro e mezzo al giorno.
Giovanna. La situazione è anche peggiore
nei centri di primissima accoglienza arrangiati in qualsiasi tipo di struttura (tensostrutture, palestre, scuole) dove il tempo
limite di permanenza dovrebbe essere di 72
ore (ovvero quello strettamente necessario
per l’identificazione e individuazione di centri in cui collocare i richiedenti asilo) ma che
spesso, troppo spesso, diventano i luoghi in
cui i richiedenti asilo rimangano interi mesi,
peraltro nella totale promiscuità: donne,
neonati, uomini, minori. La situazione dei
minori è particolarmente critica. Anche qui
devo dire che la nostra presenza comunque
un ruolo lo svolge perché è un occhio esterno
che vede e che ha i mezzi per denunciare e
segnalare ciò che vede.
Judith. Comunque, per concludere l’iter,
quando accedi a un Cara fai finalmente la
tua richiesta d’asilo. Per il momento abbiamo dieci commissioni territoriali dove
presentare la richiesta. Siccome non bastano, hanno riaperto altre dieci chiamiamole
sub-commissioni, però, per dire, a Trapani,
parliamo di una media di 12-15 mesi per essere sentito dalla commissione. Dovrebbero
aumentare a 20 nel 2015. Ma già nelle commissioni esistenti il personale spesso non
è ben preparato. Chi sceglierà i prossimi
membri? Quali i criteri? Quale la formazione? Il fatto è che non c’è programmazione.
Oggi tutti i media puntano a dire che ne
“arrivano tantissimi”. Non è vero. Certo, se
arrivano quattromila persone in due giorni
la logistica va in tilt, ma sarebbe un problema per qualsiasi stato; su questo non si può
accusare l’Italia. Quello che non si capisce è
com’è possibile che ogni anno sia una grande novità che arrivano delle persone da paesi in guerra o dove non sono tutelati i diritti
minimi.
servirebbero dieci persone
posizionate nei punti caldi,
ma non possiamo permettercelo
La vera colpa dell’Italia è di non aver imparato a gestire questa situazione. Sono dieci
anni che viviamo nell’emergenza e questo è
frutto di una precisa volontà politica. Noi in
questo momento siamo in difficoltà perché
non riusciamo a fare monitoraggio quando
arrivano tutte queste persone in due o tre
giorni. Servirebbero dieci persone posizionate nei punti caldi, ma non possiamo permettercelo. Facciamo quello che possiamo.
Certo, d’inverno sono di meno, ma non mancano gli arrivi, nemmeno col mare grosso
e molto più pericoloso. I flussi sono ovviamente legati a cosa succede dall’altra parte
del Mediterraneo. Per esempio da quando la
Turchia ha chiuso le porte, i siriani hanno
ricominciato ad arrivare via mare in Italia.
Dipende sempre dalla situazione geopolitica. Comunque quando si chiude una rotta,
non tarda ad aprirsene un’altra. I siriani
adesso si imbarcano anche dall’Egitto.
Rimane difficile generalizzare la tipologia di
chi arriva, la situazione è molto variegata.
Quello che possiamo dire è che arrivano veramente i più forti, se non altro perché sono
sopravvissuti a viaggi inimmaginabili, dopodiché sono persone diversissime, si va dal
medico siriano fino al contadino analfabeta.
Quanto costa il viaggio?
Giovanna. Anche quello dipende. Sembra
che dall’inizio di Mare Nostrum, con la presenza delle navi militari nel Canale di Sicilia, la tariffa si sia abbassata e addirittura
dimezzata perché i trafficanti organizzano
viaggi su ogni tipo di mezzo che riesca a malapena a uscire dalle acque libiche.
Ad ogni modo una famiglia di profughi per
sfuggire a guerre, carestie e dittature è costretta a pagare migliaia di euro per assicurarsi un viaggio rischiosissimo nella speranza di salvarsi. Ora, senza Mare Nostrum, il
pericolo e i prezzi aumentano di nuovo.
Borderline Sicilia, in qualche modo,
sta anche facendo giurisprudenza.
Judith. Il lavoro di advocacy è molto importante per noi. Germana e Paola, assieme alla rete di organizzazioni e ai giuristi
con cui lavoriamo, operano affinché questo
lavoro di monitoraggio porti ad affrontare
casi e cause pilota che possono creare una
giurisprudenza. Io non sono un’esperta, ma,
ad esempio, alcuni immigrati siriani senza
permesso di soggiorno con problemi di salute arrivati in Italia, ma poi rifugiatisi in
Germania, avevano fatto ricorso a un Tar
tedesco per non essere rimandati in Italia.
Ebbene, un Tar tedesco ha chiesto una perizia a Borderline-Europe sulla condizione
di vita, accesso al servizio sanitario, ecc. è
stata fatta una perizia di settanta pagine,
grazie alla quale alcuni Tar hanno deciso di
bloccare il trasferimento in Italia. Borderline Sicilia collabora inoltre con Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione)
per aiutare le persone vittime dell’incidente
del 3 ottobre rimaste bloccate a Lampedusa, perché chiamate a testimoniare contro
gli scafisti, insieme al ragazzo siriano che
ha fatto il video. Siamo infine intervenuti
per il ricongiungimento famigliare tra due
persone finite una a Malta e una a Lampedusa. Ma sarebbero molti i casi da raccontare. Abbiamo seguito un caso pilota anche
rispetto ai “respingimenti differiti”, riguardante nello specifico la competenza giurisdizionale dei ricorsi contro i respingimenti
differiti emessi dalla Questura di Agrigento.
Al momento di fare ricorso contro il decreto
di espulsione, a causa di una lacuna legislativa, succedeva che il giudice ordinario, in
questo caso il Giudice di Pace, si dichiarava
incompetente passando l’incombenza al giudice amministrativo, al Tar, che a sua volta si dichiarava non competente. Insomma
nessuno era competente. Nell’impossibilità
di stabilire se spettasse al giudice amministrativo o a quello ordinario decidere nel
merito, con un avvocato di Torino, Barbara
Cattelan, abbiamo fatto ricorso alla Cassazione che ha infine indicato nel giudice ordinario il giudice competente.
È diventato un precedente importante. Per
noi è stata una grande soddisfazione.
Sull’operazione Mare Nostrum le opinioni sono discordanti. Voi cosa pensate?
Judith. Secondo me, semplicemente non
puoi contrastare l’immigrazione con la militarizzazione. Non puoi dire, come ho sentito
fare da un ammiraglio, che è una “operazione umanitaria contro i trafficanti”. È umanitaria o contro i trafficanti? Qui il problema è
che si dà così un’immagine per cui i migranti sono qualcosa da contrastare, peraltro con
una macchina da guerra. Allora, riguardo a
Mare Nostrum, la cosa buona è che vengono
salvate delle vite, però davvero l’immaginario è quello di una “Fortezza Europa” ancora
più chiusa; già il verbo “contrastare” dice
proprio che non li vogliamo, che li prendiamo giusto perché non possiamo farli morire
lì. Oltretutto è un’operazione estremamente
costosa: la sola Marina militare, da ottobre fino a marzo 2014, ha speso, secondo le
nostre informazioni, circa quarantacinque
milioni. Tra l’altro la Guardia costiera era
molto amareggiata per questa decisione.
Per lungo tempo sono stati loro a uscire in
mare a tutte le ore, anche se sapevano che
non venivano loro pagati gli straordinari.
Questa operazione ci mette in difficoltà
anche per un altro motivo. È in corso una
discussione riguardo la presenza di organizzazioni non militari su queste navi. Io non
sono d’accordo perché si avvallerebbe questa militarizzazione. Abbiamo la stessa discussione con Frontex, che è un organismo
europeo. Nello specifico si sta discutendo
della possibilità che Frontex possa fermare
le barche, chiedere di identificarsi ed eventualmente riaccompagnarle nel paese da cui
sono partite. Per fare questo è necessario
che ci sia a bordo qualcuno che garantisca
la tutela dei diritti umani e quindi cosa facciamo? Ci mettiamo uno dell’Alto Commissariato per i rifugiati? Ma sarebbe terribile!
Andremmo a legittimare qualcosa di veramente brutto.
Giovanna. In questo processo di delocalizzazione delle frontiere, noi non sappiamo
quello che succede su quelle navi. Quando
arrivano in porto sono cariche perché se il
primo giorno ne soccorrono trecento, quei
trecento poi devono aspettare fino a che il
mezzo non si riempie e così intanto passano
anche due, tre giorni buttati sul ponte. Per
non parlare della pratica dell’identificazio-
Domanda di protezione internazionale
Una domanda di protezione internazionale può essere presentata nel momento d’ingresso nel territorio nazionale presso la Polizia di Frontiera o successivamente nell’Ufficio
Immigrazione presso una Questura italiana. Si struttura in 4 momenti:
1) “fotosegnalamento”;
2) la compilazione del modello C3 -“Modello per il riconoscimento dello status di rifugiato
ai sensi della Convenzione di Ginevra”;
3) l’audizione presso la Commissione Territoriale di competenza, organo preposto al riconoscimento o diniego della domanda d’asilo;
4) l’acquisizione della decisione della Commissione Territoriale. La legge italiana stabilisce che l’audizione si svolga entro 30 giorni dalla presentazione della domanda e che
la Commissione Territoriale decida nei tre giorni successivi. In realtà le persone spesso
aspettano oltre un anno per l’appuntamento in commissione.
ne a bordo. Addirittura c’è chi scende già col
decreto di espulsione.
Judith. Per noi ora è molto importante far
capire cosa sta succedendo, informare. Ho
ricevuto tantissime chiamate di giornalisti
che esordivano: “Mare Nostrum è una bella
cosa, vengono salvate le persone...” e io subito a dire: “Attenzione...”. È molto difficile
spiegare questa contraddizione interna del
connubio salvataggio-militarizzazione. Che
altro dire? Noi ci proviamo.
“Triton” non è stato creato
per salvare, bensì per “contrastare
l’immigrazione”
Dare ora un giudizio sulla mission di Frontex, Triton, è molto più facile: l’agenzia
Frontex opera per il controllo delle frontiere.
Triton non ha lo stesso incarico di Mare Nostrum, non è stato creato per salvare, bensì
per “contrastare l’immigrazione”. Però gli
arrivi continuano e anche le navi che operano per Frontex vengono chiamate per il
salvataggio, e per le convenzioni internazionali non possono dire di no perché sarebbe
omissione di soccorso. Così il direttore operativo di Frontex, Klaus Roesler, ha chiesto
allla Capitaneria del Centro di soccorso in
mare a Roma di non chiamare più le navi di
Frontex per il salvataggio -una mostruosità
incredibile.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa).
Blog:
www.siciliamigranti.blogspot.com
(versione italiana);
www.migrantsicily.blogspot.com
(versione inglese);
www.siciliamigrants.blogspot.com
(versione tedesca);
borderline-europe:
http://www.borderline-europe.de/
Merica Merica
Trenta giorni di macchina a vapore
Nella Merica che semo arrivati/
Non abbiamo trovato né paglia né fien.
Merica, Merica,
Merica, Merica, Merica,
in Merica voglio andar.
Abbiamo dormito sul nudo terreno
come le bestie che van riposar
E la Merica l’è lunga l’è larga
circondata da fiumi e montagne
e con l’aiuto degli altri italiani
abbiano formato paesi e città.
(Canzone popolare)
7
Africa in movimento
Nostalgia di frontiere
impermeabili
Anna Maria Gentili ha insegnato Storia e
istituzioni dell’Africa all’Università di Bologna. Tra i suoi scritti: Il leone e il cacciatore, storia dell’Africa sub-sahariana (Carocci
editore, 1995).
Quello che segue è il suo intervento alla conferenza “Ruanda 20 anni dopo il genocidio”
(Bolzano, 4 luglio 2014) con la presenza di
Yolande Mukagasana, premio Alexander
Langer 1998.
Vorrei partire da una parola che Yolande
Mukagasana cita spesso, la parola dignità.
Il discorso sui rifugiati e sui migranti deve
partire dal diritto alla dignità, dal riconoscere che è nostro dovere appoggiarli nel difficile percorso per sottrarli alla ghettizzazione
in campi di vero e proprio concentramento,
in cui si vedono negato il diritto a ritornare
al più presto a una vita umana e civile.
In Africa il più grande numero di rifugiati
Il continente africano dagli anni Cinquanta e Sessanta sopporta il più alto numero di
sfollati interni e rifugiati, prodotti da conflitti, ma anche da calamità naturali. Tutti in condizioni precarie privi di diritti e di
prospettive. Un rifugiato interno mozambicano mi diceva anni fa che la sua vita, da
anni oggetto di carità internazionale, non
era vita, perché vivere da uomini e donne
significa vedersi riconosciuta la dignità appunto di esseri umani con pieni diritti civili.
In Kenya esiste il più grande e il più terribile
campo di rifugiati, eredità dell’incorporazione, nel 1964, della North Eastern Province,
parte dello Jubaland, regione etnicamente a
maggioranza somala. A quell’accorpamento,
avvenuto malgrado le proteste veementi del
governo somalo, seguì una guerra in realtà
mai conclusa e, con la dissoluzione della Somalia, l’arrivo di altre massicce ondate di
disperati in fuga. Essendo considerata ad
alto rischio, questa regione è sempre stata
governata dal Kenya col massimo della durezza: non si contano i massacri, gli abusi
perpetrati da un regime di polizia che in
nome della sicurezza colpisce in primis i più
deboli, i rifugiati appunto. Le organizzazioni internazionali presenti nei campi non
hanno né i mezzi, né il mandato per controllare la situazione.
D’altra parte non è mai stata adeguatamente valutata nemmeno la bomba rappresentata dai conflitti in Congo, e nell’intera regione, che dagli anni Sessanta ha provocato
un costante flusso di rifugiati deflagrato
all’indomani del genocidio in Rwanda del
1994. Per decenni si è lasciata incancrenire una situazione di continua instabilità, in
cui i rifugiati sono stati usati come arma di
ricatto, di destabilizzazione, ma anche come
amorfo ammasso di popolazione diseredata
da cui reclutare braccia per perpetuare conflitti e criminalità.
Tutto questo è accaduto e accade perché internazionalmente la questione dei rifugiati
viene trattata solo sotto il profilo umanitario, mentre i conflitti che li hanno prodotti sono inscritti nella dinamica di interessi
politici che si posizionano e interagiscono a
ogni livello, globale, regionale, nazionale e
locale. Sicché i campi di rifugiati, che sempre si presentano come provvisori, diventano permanenti perché flebili sono gli sforzi
e gli impegni per negoziare soluzioni condivise. Abbiamo rifugiati antichissimi, che
risalgono al tempo delle lotte per l’indipendenza, e rifugiati di tutti i conflitti successivi. I rifugiati ruandesi, così come i rifugiati
congolesi in altre aree, sono stratificazioni
che risalgono ai vari conflitti degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta.
Ai tempi del genocidio ruandese si sono
scritti volumi in cui si giurava e prometteva
che mai più si sarebbe tollerato un altro genocidio. I potenti della terra, fra cui l’allora
Presidente Usa Clinton, si battevano il petto: “Abbiamo capito, abbiamo imparato”. Da
allora e sotto i nostri occhi, nella Repubblica Centrafricana, e ancora nel Sud-Sudan,
sono avvenuti pogrom a cui sono seguiti altri massacri e masse in fuga oltre ogni confine. Questo in presenza di una comunità
internazionale sempre più impotente.
Si tratta di conflitti “dimenticati”, forse perché considerati marginali, ma che in realtà
producono il maggior numero di rifugiati, e
anche il massiccio aumento di giovani migranti che premono alle porte dell’Europa
e non solo. Perlopiù sono giovani uomini,
ma aumentano le donne e i minori. Certo,
partono per trovare lavoro, per studiare, ma
anche per fuggire da abusi terrificanti. Pochi, travalicando una frontiera, trovano accoglienza, quale ci si aspetterebbe da paesi
fratelli.
Fuggendo dalla guerra in Liberia, 3800 rifugiati hanno ottenuto il permesso di residenza in Ghana. È un caso eccezionale. La
verità è che, benché si continui a parlare
di panafricanismo, di solidarietà africana,
ed esista un organismo regionale -l’Unione
Africana- che rappresenta tutti gli stati africani, pochissimi sono i paesi che hanno concesso uno status dignitoso ai rifugiati. Solo
la Tanzania, ai tempi del Presidente Nyerere, ha concesso la cittadinanza ai rifugiati
ruandesi e burundesi dei genocidi precedenti a quello del 1994. L’attuale governo della
Tanzania sta invece cacciando rifugiati e
migranti, spingendoli a ritornare in paesi
poverissimi e sovraffollati, come sono appunto il Rwanda e il Burundi, paesi piccoli
e con la più alta densità di popolazione per
chilometro-quadrato in Africa: più di 300 e
passa abitanti.
In Sudafrica non si contano i campi di rifu-
Glossario migrazione forzata
(uno sguardo sul contesto globale)
Paesi di origine
Afghanistan
2.556.600
51.2 milioni di persone
Siria
2.468.400
Somalia
1.121.700
16.7 milioni di rifugiati
Sudan
649.300
Rep. Dem. del Congo
499.500
33.3 milioni di sfollati interni
Birmania
479.600
Iraq
401.400
1.2 milioni richiedenti asilo
Colombia
396.600
Viet-Nam
314.100
Eritrea
308.000
Oltre l’80% di tutti i migranti forzati e gli sfollati restano nella loro regione d’origine.
Persone in fuga
Paesi ospitanti
Pakistan
Rep. Islam. dell’Iran
Libano
Giordania
Turchia
Kenya
Ciad
Etiopia
Cina
Stati Uniti
1.616.500
857.400
856.500
641.900
609.900
534.900
434.500
433.900
301.000
263.600
Resource: UNHCR Global Trends (2013, published in 2014)
8
Kalida Messaoudi Toumi, Yolande Mukagasana, Jacqueline Mukansonera, Premi Alexander Langer 1997 e 1998, Città di Castello
giati e i migranti si affollano alle frontiere.
Per fermarne il flusso, il governo post-apartheid ha adottato leggi draconiane contro
l’immigrazione e dal 2008 si sono moltiplicati episodi di grave xenofobia che hanno
colpito immigrati mozambicani, congolesi,
somali. In Nigeria stanno aumentando i
rifugiati interni, e non solo a causa delle
azioni terroristiche di Boko Haram, ma anche per via dei conflitti negli stati del Delta,
cassaforte del petrolio e quindi del potere.
Nel Camerun, ci sono rifugiati interni e altri provenienti da Nigeria, Niger, Ciad. Nel
Niger, ci sono rifugiati antichi provenienti
dalle guerre del Ciad, che a sua volta ha rifugiati delle guerre che hanno scosso il Darfur e la Repubblica Centrafricana. E così
via in una catena che sembra infinita. Nel
Sudan ci sono i rifugiati del Sud Sudan, che
si aggiungono alle migliaia di rifugiati del
Darfur, che peraltro si trovano in tutti i paesi della regione. La Namibia, nel tempo, ha
concesso permessi di soggiorno ai rifugiati
angolani, prodotti dalla lunga guerra civile.
Frontiere che dividono culture comuni
Le frontiere che travalicano i rifugiati spesso dividono popolazioni che hanno la stessa
lingua, gli stessi interessi, che hanno continuato ad avere relazioni matrimoniali, di
scambio commerciale. Sono frontiere, fra
l’altro, che nessuno stato africano è mai riuscito a controllare. Del resto nemmeno gli
Stati Uniti, dotati di ben altri mezzi e tecnologie, riescono a controllare la frontiera
con il Messico e questo anche dopo la costru-
zione di una barriera elettrificata. Tutte le
frontiere sono permeabili, e in Africa sono
più che altrove delle finzioni. Quindi quando ragioniamo su questi contesti, dovremmo
pensare in termini regionali e individuare
gli elementi che uniscono le popolazioni, invece di quelli che le dividono.
In cinquant’anni di ricerca e insegnamento in vari paesi africani, ma soprattutto di
rapporti con il mondo intellettuale africano,
come pure con il mondo contadino, ho visto
grandi progressi e grandi tragedie e ho capito una serie di cose.
Facendo ricerca sul terreno, ho capito, ad
esempio, che bisogna lasciare che l’altro
parli, non imporgli la parola, non interrogarlo, non sovrapporre le nostre problematiche al suo modi di percepire la situazione che vive. A una signora bianca anziana
con occhiali e un libro di appunti in mano,
in mezzo a contadini africani che ne sanno
più di lei sui loro problemi, può capitare di
essere trattata con soggezione, come un essere diverso, perlomeno superiore. Bisogna
saperlo e fare ogni sforzo per trattare gli
interlocutori come persone di cui si rispetta
la dignità, il che significa ascoltarli con discrezione e empatia. Il lavoro di ricerca deve
essere una condivisione in cui si rispetta la
reciproca dignità di essere umano. Maschio
femmina, bianco nero, di diversa etnia, lingua o religione.
Non ho capito invece perché quando si ragiona di Africa, soprattutto qui nella diaspo-
ra, prevalgano ricostruzioni complottistiche
sui vari conflitti. Penso che sia assolutorio
e troppo semplificatorio affermare che sia
tutto e sempre colpa in primis dell’Imperialismo. È sicuramente giusto e necessario
ammettere e analizzare le nostre responsabilità, come cittadini di un determinato
stato, come membri di un gruppo economico, culturale e/o religioso, di una famiglia,
comunità locale, nazionale, regionale e internazionale. Sicuramente la questione dei
rifugiati è sempre stata affrontata con pochi
mezzi e, ancora peggio, pochissime competenze. Ma sta soprattutto ai governi e alla
società politica e civile africana collaborare
per trovare le strade di negoziazione tese
alla conciliazione e a una soluzione duratura dei conflitti. Altrettanto importante è
trovare mezzi e appoggi interni -e non solo
dipendenti dall’azione internazionale- in
grado di restituire ai rifugiati una vita più
umana e civile.
Il caso dei rifugiati del Rwanda in Kivu è
clamoroso, ma non un’eccezione. Vari antropologi, a partire da Johan Pottier, hanno osservato come all’interno dei campi si
fossero ricostruite delle strutture di potere
e di autorità, che commettevano abusi su
altri rifugiati non solo sulla base della diversa origine etnica, Hutu o Tutsi, bensì per
i diversi interessi che circolavano nel sistema di gestione degli aiuti. Le associazioni
delegate dall’Onu a gestire i campi preferivano spesso chiudere gli occhi, piuttosto che
affrontare queste situazioni. Riconoscere la
dignità dei rifugiati ruandesi, capire le ra-
9
gioni profonde di una divisione che in Rwanda è stata politica prima che etnica significa
non disconoscerne la complessità storica che
è strettamente intrecciata con la storia della
decolonizzazione del Congo e della sua regione orientale, il Kivu.
Se andiamo a vedere altri campi di rifugiati presenti nelle zone sensibili, nel Sud
Sudan, nella Repubblica Centrafricana e in
Africa Occidentale, in Costa d’Avorio, Liberia, Sierra Leone, Guinea Conacry, ecc.,
riscontriamo le stesse dinamiche. Il problema non è tanto o solo la scarsezza di mezzi
materiali, ma la mancanza di sensibilità,
nei governi locali e negli organismi internazionali. Per questo ripeto che è imperativo
trattare i rifugiati come soggetti portatori di
diritti universali, soprattutto qui nella ricca
e sviluppata Europa dove la presunta mancanza di mezzi spinge a ghettizzare rifugiati
e migranti e a trattarli come “altri” diversi,
privati anche del diritto di essere ascoltati.
Scontri etnici e interessi di potere
I conflitti in Africa vengono invariabilmente
fatti risalire ad animosità di carattere etni-
Dadaab, campo profughi del Kenya
10
co, senza considerare che alla radice degli
scontri etnici c’è la gestione del potere, le
eredità delle divisioni, gerarchie e memorie
storiche, l’affermarsi di interessi egemonici
della decolonizzazione e dall’indipendenza
in poi, in cui s’intrecciano interessi, internazionali e interni a ciascun contesto.
La testimonianza di Yolande Mukagasana
ci svela che l’identità etnica esiste come
portato di storie familiari, sociali, politiche,
ma nello stesso tempo è qualcosa che si costruisce a seconda delle congiunture sociali
e politiche. Dietro questa costruzione c’è la
competizione per il potere, e contestualmente c’è la negazione dell’altro come persona.
Questo discorso riguarda anche, e direi soprattutto, il migrante. Noi italiani, proprio
per la nostra storia, dovremmo capirlo più
di ogni altra nazione-etnia. La gestione dei
campi rifugiati, così come la gestione dell’accoglienza, dovrebbe ripartire da questa consapevolezza. Come stiamo facendo in questi
giorni qui a Bolzano nel contesto del premio
della Fondazione Alexander Langer dovremmo mettere le persone insieme a raccontare,
a discutere, confrontandoci criticamente con
la riproduzione di reciproci stereotipi, pregiudizi, preconcetti; con franchezza, quindi
smontando le teorie complottiste, escludenti, perché quello è il discorso del potere. Parlare, parlarci per capire e capirci, pone dei
problemi ovunque e tanto più in Italia dove
generalmente c’è una scarsissima conoscenza dell’Africa e le sue problematiche.
L’Africa è un continente di circa un miliardo di abitanti, perlopiù giovani, che probabilmente saranno due miliardi nel 2050, e
rappresenta il 60% delle terre ancora non
coltivate e oltre un terzo delle ricchezze minerarie mondiali.
L’Africa non è, come troppo spesso si rappresenta, un antiquato museo di tribù e
etnie, di tradizioni obsolete, ma un mondo
in ebollizione che sta assistendo a rapide e
traumatiche trasformazioni, un mondo ricco
di talento culturale, dall’enorme e diversificata vivacità, musicale, artistica. L’Africa è
anche la diaspora sparsa in tutto il mondo.
Rifugiati ambientali
Un altro elemento importantissimo e spesso
dimenticato è che molti dei rifugiati dell’Africa sono rifugiati ambientali, scampati
e sopravvissuti a grandissimi disastri ambientali, perché l’ Africa, fra l’equatore e i
due tropici, ha una natura estrema, molto
difficile e crudele. Anche la rinnovata corsa ad appropriarsi e sfruttare le ricchezze
naturali di questo continente (foreste, terre,
miniere, acqua) sta mettendo in pericolo la
stabilità ambientale. Il cambiamento climatico a sua volta ha creato disastri, alluvioni
alternate a devastanti siccità che si ripetono
in cicli sempre più riavvicinati. Da ultimo
si dibatte su un fenomeno qui poco valutato ovvero l’acqua. I paesi arabi desertici,
casseforti di petrodollari, nella Rift Valley,
stanno comprando territori che sono veri e
propri serbatoi di acqua.
Yolande ha parlato del fatto che in Rwanda
è stata introdotta la proprietà privata della
terra. Il Rwanda è un paese povero, non ha
grande risorse, produce caffè, tè, pochissimo altro. Anche altri paesi hanno adottato
nuove leggi di riforma della terra, e ovunque
si tenta di equilibrare il discorso della proprietà privata con il mantenimento di proprietà di tipo comunitario, con risultati controversi. Di fatto chi ha il potere riesce ad
appropriarsi di aree o di territori che hanno
un forte valore, non solo agricolo. Continue
sono le denunce di abusi e numerose le proteste e i conflitti sulla gestione delle riforme
dello statuto della terra. Popolazioni senza
altra risorsa che la terra, nel contesto delle politiche di liberalizzazione in auge dagli
anni Ottanta-Novanta, sono messe di fronte
a un’accelerazione della commercializzazione delle risorse naturali. Dal 2000 il tasso
e i ritmi dei trasferimenti del possesso o
proprietà della terra hanno visto un’accelerazione: si tratta di trasferimenti non
sempre volontari, non sempre trasparenti.
Nelle comunità contadine la perdita della terra implica la perdita dei fondamenti
della sopravvivenza anche perché sono poche le alternative sul mercato del lavoro.
La privazione è ancora più significativa se
si pensa che la terra non è solo una risorsa
economica, ma è uno spazio sociale, culturale, politico.
Oggi si parla molto di Land grabbing, fenomeno peraltro non nuovo, molto complesso
e diversificato. In epoca coloniale vennero
create piantagioni e i grandi parchi per la
“protezione” (e la caccia) dei grandi animali,
trasferendo con la forza le popolazioni che
in quei territori vivevano coltivando o pascolando i propri armenti. Nairobi sorge in una
zona di pastorizia dei Masai. Nel 2004 venne dato un Premio Nobel a una formidabile
attivista ecologista kenyana, Wangari Maathai, impegnata nella lotta contro la deportazione della popolazione dalle terre fatte
proprie da potenti élite politiche, alleate a
imprenditori europei e asiatici.
Molti dei conflitti in paesi africani sono
conseguenze di rapporti di potere molto diseguali, in cui élite politiche e economiche
espropriano coltivatori e pastori sfruttando
la complessità e la sovrapposizione di diritti
spesso informali e per questo non difendibili
legalmente. Le norme che finiscono per prevalere in questi conflitti sono il risultato di
dinamiche di potere legate alle diverse fasi
politiche: colonizzazione, decolonizzazione,
indipendenze, crisi degli anni Settanta, aggiustamento strutturale degli anni Ottanta,
processi di democratizzazione formale, ecc.
La costa del Kenya, dove i turisti vanno a
fare i bagni in alberghi bellissimi, è stata
espropriata alla popolazione locale, prevalentemente musulmana, da joint ventures
tra potenti del governo e aziende e imprese europee, per costruirvi lussuosi alberghi.
Naturalmente questo ha creato frustrazione
e sovversione, e da tempo questa dissidenza,
non a caso, è diventata anche terreno di coltura di movimenti terroristici locali e internazionali. L’11 settembre negli Stati Uniti è
stato annunciato dal bombardamento di due
ambasciate americane, una a Nairobi e una
a Dar-es-Salaam. I terroristi non avrebbero
potuto agire senza appoggi interni
Da sudditi a cittadini
Per concludere. L’Africa è stato il continente
martire della nostra storia recente. È stato
l’ultimo a essere colonizzato e con metodi
abusivi e brutali. L’Africa indipendente è
stata poi la prima vittima, la più importante (insieme all’America Latina), della Guerra Fredda che ha frenato o reso impossibile
processi di possibile democratizzazione condonando e rafforzando ovunque regimi autoritari. Dagli anni Ottanta in poi, in un’Africa prostrata dalla crisi mondiale, sono
state negoziate e messe in atto politiche di
“aggiustamento strutturale, ovvero di risanamento e di austerità, sul modello liberista
del “meno stato più mercato”. Eravamo agli
inizi degli anni Ottanta, quando il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan ammonì
tutti gli stati che vivevano “al di sopra dei
loro mezzi”. Il messaggio era rivolto anche
a noi europei, soprattutto noi pieni di debiti,
ma allora ritenemmo che non ci riguardasse. Pensavamo si riferisse ai paesi poveri
di recente indipendenza accusati di essere
poco virtuosi ed eccessivamente statalisti.
Ad ogni modo, per l’Africa, l’aggiustamento
strutturale ha significato il crollo di quell’inizio di costruzione e integrazione statuale,
che si fondava sulla promessa di libertà;
una trasformazione da sudditi a cittadini
che prometteva scuole e salute accessibile
a tutti, fine della povertà e opportunità di
lavoro attraverso il controllo e la gestione
delle risorse economiche. In quegli anni i
nuovi “cittadini” dei paesi africani sono stati
trasformati in “poveri”, masse oggetto delle
preoccupazioni di una miriade di organizzazioni internazionali, governative e non governative.
Ha ragione Yolande, qualsiasi critica si faccia al governo ruandese, questo è uno dei
pochi governi che sta tentando di fare delle riforme gestibili e credibili dall’interno e
non solo dipendendo dall’aiuto internazionale. Negli anni Novanta si è aperta l’era
dei processi di democratizzazione, spesso
più definiti nella forma che nella sostanza.
Dopo l’11 settembre tuttavia la priorità internazionale è diventata la sicurezza, il che
ha frenato ovunque processi di tipo democratico. La rinnovata corsa alle risorse di cui
l’Africa abbonda, l’aggressiva politica di penetrazione economica della Cina, hanno poi
inaugurato incisive e inaspettate trasformazioni economico-sociali causate da alti tassi
di crescita, in tutti i paesi africani, anche
i più poveri. Un processo caratterizzato da
una crescente disuguaglianza fra quelli che
hanno accesso e si sono molto arricchiti, la
massa che continua a sopravvivere precariamente e quelli che non hanno nulla, i più
vulnerabili, i contadini senza terra, i giovani senza lavoro, gli anziani senza protezione, le masse di orfani delle guerre e delle
malattie, in primis l’Aids.
i conflitti in atto e impedire che altri ne sorgano.
Il grande esodo
Yolande, scrivendo, è riuscita a parlare di
una parte dei suoi traumi profondi, a intrecciare un rapporto sia con il suo paese, sia
con il Belgio, sia infine con amici di tutto il
mondo e i parenti sopravvissuti. Noi oggi
non permettiamo ai rifugiati che arrivano
qui di poter elaborare il proprio trauma.
Questo è il grande problema. Ecco, penso
che usare la testimonianza in tutta la sua
purezza e verità possa aiutare a iniziare un
dialogo fra noi e loro.
I giovani che migrano, fuggono per le più
svariate ragioni: perché si sentono minacciati, perché cercano migliori condizioni di
vita, perché vogliono avere il diritto di circolare come tutti.
Uomini e sempre più donne trovano qui
delle barriere che non sono solo quelle legislative e fisiche, ma sono barriere radicate
in pregiudizi discriminatori che sottendono
un razzismo mai risolto e che vanno contro
il diritto di essere considerati essere umani
con una propria dignità, individuale e collettiva.
L’unità, l’integrazione nazionale, la solidarietà, così forti al momento delle indipendenze, valori fondanti l’identità africana
(la dignità di essere cittadini e non più solo
sudditi coloniali o sudditi degli interessi
internazionali o degli interessi dei politici
e dei potenti nazionali o locali) è ora in discussione e in pericolo, se non si troveranno
in Africa volontà e forza etica per risolvere
È questo il grande problema e su questo
dovremo lavorare. Cosa chiediamo alle istituzioni, di fronte al grande esodo, che si è
moltiplicato proprio a causa delle politiche
economico-sociali locali appoggiate da quelle internazionali? Chiediamo la consapevolezza che si tratta di problemi non solo loro,
ma sempre più nostri. Una consapevolezza
che smantelli la continua saga di legislazioni che vorrebbero contenere e respingere,
che non hanno mai funzionato nella storia.
Queste forme di contenimento servono solo
o soprattutto a radicare il pregiudizio che
coloro che fuggono, i rifugiati, i migranti
sono irrimediabilmente “diversi” e cioè inferiori, e dunque possono essere trattati come
nuovi schiavi. L’espressione “nuovi schiavi”
è tornata di moda, la troviamo sulla stampa ogni giorno; contro tutto questo bisogna
combattere e lavorare.
Paura
Nina Sadeghi
Profughi
Mohamed Malih
Qui,
una nuvola
grande quanto il mio cuore
sta piangendo.
Qui,
in questa spiaggia solitaria,
compagna degli eterni tramonti,
una nuvola
bagna il sentimento.
Sì, oggi
con questi occhi
posso piangere,
con questi occhi, lo sapete?
Io ho paura.
In sella ai nostri anni migliori
sfidiamo il mare
scrutando rotte
di mille altri destini alla deriva
l’approdo è un azzardo
alle porte di Lampedusa
altre storie verranno a galla
impigliate nelle reti dei pescatori
l’enfasi lasciamola ad altri esodi
noi siamo solo profughi
protagonisti della cronaca
e clandestini alla storia
Dal libro: Sotto il cielo di Lampedusa. Annegati da respingimento.
Rayuela Edizioni, gennaio 2014
11
Negare non equivale a impedire
Schematici appunti
Gianfranco Schiavone è componente del direttivo dell’Asgi (Associazione per gli Studi
giuridici sull’immigrazione) di Trieste.
Il sistema di asilo in Europa oscilla costantemente tra due opposti: da un lato l’affermazione, contenuta nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione (art. 18) e in altri
strumenti di diritto dell’Unione, dell’asilo
come di un diritto fondamentale della persona; dall’altro la pulsione costante, specie
in momenti di acute crisi, ad attuare, anche
se in modo dissimulato e indiretto, delle politiche volte a ridurre il numero dei rifugiati
nella UE attraverso misure di contrasto al
loro arrivo nel territorio dell’Unione.
Dal 1951, anno di adozione della Convenzione di Ginevra, ad oggi si possono identificare, in modo molto schematico, tre fasi
nell’evoluzione del diritto d’asilo in Europa.
1. Una fase, temporalmente molto lunga, che
va appunto dal 1951 al 1990 caratterizzata
sul piano politico dall’assenza di una politica comune in materia di asilo e sul piano
giuridico dal riferimento alla sola nozione di
rifugiato contenuta nell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, non idonea a rispondere
alle migrazioni forzate dovute a violenze indiscriminate in situazioni di conflitto;
2. una seconda fase caratterizzata dal lento
avvio di una armonizzazione delle normative sul diritto d’asilo nella UE, con l’adozione di standard comuni (all’inizio minimi) su
“qualifiche”, procedure d’accoglienza e con
l’introduzione della assai discussa norma
(prima sotto forma di Convenzione, poi di
Regolamento) volta a definire i criteri per
individuare lo stato competente a esaminare la domanda di asilo in Europa (oggi cd.
Regolamento Dublino III);
3. la fase attuale, che proprio mentre dichiara di volere giungere a un effettivo sistema
unico di asilo in Europa mostra tutti i limiti, gravissimi, di una mancata integrazione
tra i sistemi di protezione dei rifugiati nei
diversi stati dell’Unione e soprattutto la radicale mancanza di una politica europea di
più lungo respiro che fornisca risposte ai bisogni di un numero di rifugiati in forte crescita che fuggono da conflitti devastanti che
si svolgono in aree geografiche assai vicine
all’Europa, sia verso sud (Africa) che a est
(Medio Oriente).
Tra i molti limiti della politica europea (e
dei singoli paesi dell’Unione) in materia di
asilo, colpiscono in particolare i seguenti
aspetti:
- L’utilizzo distorto della nozione di protezione sussidiaria (nozione giuridica in sé del
tutto positiva, introdotta per la prima volta
nel diritto UE dalla Direttiva 2004/83/CE e
oggi dalla Direttiva 2011/95/UE) al fine di
indebolire di fatto la portata applicativa della nozione di rifugiato prevista dalla Convenzione di Ginevra.
- L’adozione di misure drastiche di controllo
delle frontiere, contrasto all’immigrazione
irregolare con esternalizzazione dei controlli stessi, attraverso accordi con i paesi “di
transito”, anche laddove ci si trovi di fronte
a regimi autoritari. Si tratta di accordi politici intergovernativi spesso sottratti a ogni
controllo democratico e di misure di polizia
dai confini e dal mandato indefinito, sottratte a un vero controllo giurisdizionale.
- L’accanimento nel voler ancora utilizzare
una norma palesemente iniqua e inefficace
adottata sulla base di un approccio squisitamente ideologico quale fu la Convenzione
di Dublino da cui si sviluppò il successivo
Regolamento Dublino II (Reg. 343/2003) e
l’attuale Regolamento Dublino III. La Convenzione di Dublino nacque con l’obiettivo
formalmente dichiarato di “evitare situazioni che lascino troppo a lungo un richiedente l’asilo nell’incertezza quanto all’esito
della sua domanda e desiderosi di dare a
ogni richiedente l’asilo la garanzia che la
sua domanda sarà esaminata da uno Stato
membro e di evitare che i richiedenti l’asilo siano successivamente rinviati da uno
Stato membro a un altro senza che nessuno
di questi Stati si riconosca competente per
l’esame della domanda di asilo”. Ben al di
là degli obiettivi dichiarati, l’obiettivo reale
della convenzione fu quello di intervenire,
con una norma draconiana che eliminava
del tutto la libertà del richiedente di scegliere il paese europeo in cui chiedere asilo, per
riequilibrare il carico dell’accoglienza dei
richiedenti asilo all’interno dei paesi della
(allora) Comunità Europea; uno squilibrio
lampante posto che all’inizio degli anni Novanta dell’altro secolo i paesi della comunità
(e specie i paesi del sud Europa) che avevano confini esterni, ricevevano e trattavano
un numero medio anno di domande di asilo
assolutamente irrilevante rispetto ai paesi
del nord e del centro Europa. La risposta al
problema reale dato da questo squilibrio nel
carico delle domande di asilo nei diversi paesi UE non venne però trovata, come dovrebbe essere di regola nel Diritto, attraverso un
bilanciamento tra i diritti di libertà del richiedente asilo e l’applicazione del principio
di solidarietà interna all’Unione in relazione alla ripartizione del carico delle domande
di asilo, quindi elaborando norme che da un
lato limitassero (non eliminandola quindi
alla radice) la libertà del richiedente nello
scegliere il paese di asilo e dall’altra imprimessero una accelerazione al processo di ar-
E i profughi intanto che fine fanno?
Reprimere il traffico di esseri umani è un’azione necessaria e indifferibile, da attuare
con la massima severità, ma che rischia
di rivelarsi clamorosamente insufficiente.
Che ne sarebbe, infatti, di quelle centinaia di migliaia di persone che si rivolgono
ai trafficanti per trovare una via di fuga e
un’opportunità di vita, se non adottassimo
strategie legali e sicure per garantire loro
una via di salvezza? Quelle strategie legali
e sicure sono alla nostra portata. Difficili,
difficilissime, ostacolate da massicce resistenze politiche, e tuttavia le uniche ragionevoli, concrete e praticabili.
Innanzitutto va ripristinata, e nel più breve tempo possibile, la missione Mare Nostrum, con quelle stesse responsabilità e con
quelle stesse competenze, come iniziativa di
dimensione europea; e, dunque, con il coinvolgimento -in risorse economiche, uomini
e mezzi- di tutti i paesi membri. Un’opera-
12
zione che, come quella svolta in precedenza
dalla Marina italiana, dovrebbe perseguire
tre compiti essenziali: interventi di soccorso
e salvataggio; azioni di filtro sanitario e di
sicurezza, realizzate già a bordo; misure di
contrasto del traffico di esseri umani, a partire dal sequestro delle navi madre, dalla
distruzione dei barconi intercettati. è necessario, inoltre, rimuovere tutti gli ostacoli di
natura esclusivamente politica che impediscono all’Europa di garantire protezione ai
profughi, senza che questi siano costretti a
rischiare la vita nel Mediterraneo e a ricorrere ai trafficanti di morte. In altre parole
si deve realizzare, in tempi rapidi, un piano
di «ammissione umanitaria», che preveda
l’anticipazione della richiesta di asilo già
nei paesi in cui si addensano e transitano
i flussi migratori. Si tratta di istituire in
quei paesi -laddove è possibile e dove già
qualcosa in questo senso è in atto come in
Giordania, Libano, Egitto e nel Maghrebun sistema di presidi realizzato dalla rete
diplomatico consolare dei paesi dell’Unione
e del Servizio europeo per l’azione estrema,
insieme a Unhcr e alle altre organizzazioni
umanitarie internazionali. Qui i profughi
potrebbero essere accolti temporaneamente
per poi essere trasferiti con mezzi legali e
sicuri nel paese europeo in cui chiedono asilo, secondo quote di accoglienza concordate
tra gli stati membri. Un piano da affiancare e combinare ad altre proposte allo stesso
modo concrete e praticabili, quali il reinsediamento, l’ingresso protetto e i corridoi
umanitari. Tutto ciò è terribilmente arduo
e richiede una vera e propria lotta politica
a livello europeo. Ma è la sola alternativa a
un’ecatombe senza fine.
Luigi Manconi
(tratto da “Il manifesto”, 23 aprile 2015)
monizzazione degli standard procedurali e
di accoglienza nei diverso paesi europei. Si
scelse invece una risposta insieme semplice
ed estrema, lontanissima dal principio del
bilanciamento degli interessi, ovvero quella
di annullare ogni possibilità per il richiedente di scegliere in parte il proprio progetto
migratorio. Tale profonda compressione dei
diritti della persona non ha neppure prodotto i risultati tanti attesi giacché numerosi
e autorevoli sono gli studi che evidenziano
l’inefficienza del meccanismo regolatore voluto dal Regolamento Dublino.
- L’impedimento ai rifugiati riconosciuti in
uno dei Paesi dell’Unione a potersi stabilire in un altro Stato dell’Unione. Il rifugiato
viene infatti legato, per ciò che riguarda il
suo diritto di soggiorno (non di circolazione) al paese in cui gli è stata riconosciuta la
protezione creando in tal modo delle “gabbie
geografiche” all’interno dello stesso spazio
comune europeo nella UE. Si tratta di un
approccio totalmente irragionevole, appena
mitigato in minima parte dall’adozione della Direttiva 2011/51/UE relativa al rilascio
del permesso di soggiorno lungo anche ai beneficiari di protezione internazionale.
In sintesi possiamo dire che buona parte
della politica europea sull’asilo ha inseguito l’idea di limitare o impedire l’esercizio di
alcuni diritti della persona ritenendo così di
controllare meglio alcuni fenomeni sociali.
Ma l’idea che “negare equivalga a impedire” si è rilevata ancora una volta sbagliata;
negare l’esercizio di ciò che i destinatari
del provvedimento percepiscono acutamente come un loro diritto non equivale affatto a impedirne l’esercizio ma, in assenza
di alternative legali, genera solo disagio,
sofferenza, marginalità sociale e in ultima
analisi illegalità. Governare i processi sociali significa indirizzarli senza negarli. Limitazioni e impedimenti, pur necessari, per
essere efficaci debbono essere ragionevoli,
ovvero non devono porsi in contrasto radicale con il fenomeno che si stanno appunto
tentando di regolamentare, non di impedire.
Le attuali politiche UE in materia di asilo
non sembrano in grado di gestire la complessità dei nuovi scenari internazionali e
alcune riforme appaiono quanto mai urgenti
e necessarie. Anche sulla base delle riflessioni che Asgi sta conducendo, propongo
delle riflessioni attorno ai seguenti due assi.
UE pur nella consapevolezza che si tratta
di cambiamenti che vanno gestiti con tappe
progressive.
Come avvicinare la protezione
Rimane ancora denso di incognite, anche sul
piano giuridico, il tema dell’esternalizzazione al di fuori della UE delle procedure per la
presentazione e l’esame delle domande d’asilo. Non intendo in questa sede affrontare
questo tema che oggi viene trattato talvolta
con eccessiva disinvoltura senza avvedersi
dei rischi in esso insiti. Ciò su cui invece
intendo richiamare l’attenzione sono le seguenti tre misure tutte realizzabili a legislazione vigente.
1. L’Europa ancora non ha (e deve dotarsene al più presto) un programma comune di
reinsediamento di rifugiati da paesi terzi di
transito, focalizzato a intervenire sulle più
acute crisi umanitarie del momento. Affinchè il programma comune sia efficace e venga attuato nel modo più adeguato possibile
è necessario:
- definire i parametri sulla cui base i singoli
paesi partecipano al programma (es: popolazione, superficie, numero di rifugiati per
abitante, domande di asilo avute nell’ultimo
biennio, ecc);
- definire, di concerto con l’Unhcr, le aree
sulle quali intervenire e il numero annuo di
rifugiati da reinsediare, facendo la massima attenzione nell’evitare di concentrare i
programmi di reinsediamento solo in alcuni
Stati (ciò produrrebbe un effetto attrazione
verso di essi);
- definire tempi uniformi (almeno sui tempi
minimi) di accoglienza e avvicinare maggiormente gli standard di protezione e l’accesso
ai diritti sociali e civili, prevedendo eventuali programmi europei di rinforzo verso i
paesi con una minore tradizione di asilo e
una situazione socio-economica difficile allo
scopo di evitare il fallimento dei programmi
di accoglienza e integrazione in alcuni paesi
con conseguente fuga dei rifugiati da detti
paesi verso altri stati dell’Unione.
1. La protezione non può iniziare solo quando il rifugiato arriva alle frontiere della UE
ma va “avvicinata” ai rifugiati in fuga. La
cd. “dimensione esterna dell’asilo” deve diventare qualcosa di concreto che vada oltre
fumose dichiarazioni di principio e non va
confusa con il contrasto all’immigrazione irregolare.
2. Va concordata una comune modalità di
applicazione di quanto previsto dall’art. 5
del Regolamento Schengen sulle frontiere
esterne che, come è noto, dà a ogni Stato
la facoltà di consentire che cittadini di paesi terzi, che non soddisfano una o più delle condizioni per l’ingresso e il soggiorno,
essere autorizzati a entrare nel territorio
dell’Unione. La finalità principale di detta
misura è consentire a stranieri che hanno
legami familiari (anche in senso esteso) con
rifugiati che vivono nell’Unione di poterli
raggiungere in modo regolare senza cadere
nelle mani delle organizzazioni che gestiscono il traffico internazionale di esseri umani.
2. L’approccio secondo il quale, nello spazio
comune europeo, i richiedenti asilo e persino i titolari di protezione debbano rimanere “bloccati” dentro i confini del paese di
arrivo, è anacronistico. Va quindi iniziato
il superamento del Regolamento Dublino e
vanno introdotte delle nuove norme comuni
che favoriscano la libertà di soggiorno nella
3. Con l’operazione Mare Nostrum, operando anche in acque Sar non di propria competenza, l’Italia ha dato piena applicazione
agli obblighi previsti dal diritto internazionale marittimo in materia di operazioni di
ricerca e soccorso; gli interventi di mare Nostrum trovano legittimazione dalla oggettiva constatazione che i paesi formalmente
Da Zebra, 5-6 2014
13
competenti per le operazioni Sar (search
and rescue) quali la Libia, non sono in grado di potervi adempiere. L’operazione mare
Nostrum attuata dall’Italia deve divenire
un’operazione condivisa a livello europeo
I cambiamenti all’interno della UE
1. L’Unione Europea deve prendere atto che
il Regolamento Dublino non è più uno strumento idoneo di regolazione del sistema di
asilo nella UE e deve dichiarare l’obiettivo
di superare detto regolamento e non, come
avviene finora, di ribadirne continuamente
la sua presunta validità. Nelle more di detto non facile processo va concordata tra gli
stati dell’Unione una comune applicazione
flessibile ed estensiva di quelle disposizioni
del Regolamento Dublino III (di fatto inapplicate) che permettono già ora di procedere
“al ricongiungimento di persone legate da
qualsiasi vincolo di parentela, per ragioni
umanitarie fondate in particolare su motivi
familiari o culturali” (art. 17 co. 2).
2. Vanno assunte misure per allargare le
condizioni che legittimano il soggiorno dei
titolari di protezione in altro paese rispetto a quello che ha operato il riconoscimento
giuridico; è il tema del cd “mutuo riconosci-
mento delle decisioni di asilo”. La direttiva
2011/51/UE, che ha esteso il permesso UE
lungo soggiornanti anche ai beneficiari di
protezione internazionale, è stato un primo passo ma del tutto insufficiente perché
riguarda solo coloro che hanno già trovato
una nuova integrazione nel paese nel quale hanno ottenuto il riconoscimento della
protezione. D’altra parte il vecchissimo “accordo sul trasferimento di responsabilità”
della protezione è uno strumento giuridico
desueto. Nella consapevolezza che non è opportuna l’adozione di una norma europea
che porti a un immediato e incondizionato
diritto di trasferimento e insediamento dei
beneficiari di protezione internazionale dal
paese nel quale hanno ricevuto la protezione verso qualsiasi altro paese UE, vanno
tuttavia sperimentate quanto prima misure
quali:
- autorizzare la possibilità per i rifugiati di
sottoscrivere un contratto di lavoro in un
paese UE diverso da quello in cui hanno la
protezione, prevedendo che, qualora ricorrano determinati parametri di reddito e di
durata del rapporto di lavoro, lo status di
protezione può essere trasferito nel nuovo
paese;
Protezione internazionale e permesso di soggiorno
per motivi umanitari
Attualmente la direttiva europea vigente (decreto qualifiche) prevede due figure
di status per richiedenti di protezione internazionale -lo status di rifugiato e
la protezione sussidiaria. In Italia esiste inoltre la protezione umanitaria, riconosciuta non come vero e proprio status ma come permesso di rimanere sul
territorio italiano per motivi di carattere umanitario.
Status di rifugiato
Lo status di rifugiato viene riconosciuto dalla Commissione territoriale competente in seguito alla presentazione di domanda di protezione internazionale. Lo
straniero, che dimostri un fondato timore di subire nel proprio paese una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra, può ottenere questo
tipo di protezione. Il permesso per status di rifugiato ha una durata di 5 anni,
prevede la possibilità di chiedere un ricongiungimento famigliare e può essere
rinnovato. Inoltre il titolare può presentare richiesta del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, oppure chiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni.
Protezione sussidiaria
La protezione sussidiaria è uno status che viene riconosciuto dalla Commissione
territoriale competente in seguito alla presentazione di domanda di protezione
internazionale. Qualora il richiedente non possa dimostrare una persecuzione
personale ai sensi della Convenzione di Ginevra, che definisce chi è rifugiato,
ma si ritiene che rischi di subire un danno grave (condanna a morte, tortura, minaccia alla vita in caso di guerra interna o internazionale) nel caso di rientro nel
proprio paese, può ottenere la protezione sussidiaria. Il permesso ha una durata
di 5 anni, è rinnovabile e i titolari possono presentare richiesta del permesso di
soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Questo permesso di soggiorno
consente anche il ricongiungimento familiare.
Permesso di soggiorno per motivi umanitari
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari può essere rilasciato quando ricorrono “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi
costituzionali o internazionali dello Stato italiano”, per esempio in caso di diniego dello status di protezione internazionale o di revoca o cessazione dello stesso
o in caso di riconoscimento della protezione temporanea per rilevanti esigenze
umanitarie in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare
gravità in Paesi non appartenenti all’Unione europea. Il permesso di soggiorno
per motivi umanitari viene concesso dal Questore a seguito di raccomandazione
della Commissione territoriale, può avere una durata dai 6 mesi ai 2 anni ed è
rinnovabile in questura finché dura la situazione che ne ha motivato il rilascio.
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- autorizzare il soggiorno dei rifugiati per un
periodo superiore a tre mesi, con possibilità di ricerca lavoro, in presenza, da parte di
terzi, di una sponsorizzazione;
3. Un autentico “buco nero” delle politiche
UE sull’asilo è l’assenza di un piano europeo
finalizzato agli standard per l’integrazione
sociale dei titolari di protezione. Infatti, se
al di là delle forti differenze socio-economiche tra i paesi dell’Unione, in un determinato Paese UE non si applicano misure
di integrazione effettive per i beneficiari di
protezione è evidente che ciò che avviene
sono forti e incontrollati spostamenti dei
rifugiati all’interno dell’Unione. L’Italia è
uno dei paesi più carenti sotto questo profilo poiché la maggior parte dei rifugiati non
ha accesso, dopo il riconoscimento giuridico
di protezione, ad alcun effettivo programma
di accoglienza e supporto all’integrazione. è
ampiamente noto (ma non si intravede finora da parte del Governo italiano alcun serio
intervento finalizzato a trovare una soluzione) il dramma dei rifugiati “senza fissa dimora” che vivono nella marginalità sociale
nelle grandi aree urbane o sono oggetto di
grave sfruttamento in agricoltura e in altri
settori economici.
Guardando le colonne di profughi da casa mia
Valerio Magrelli
Che poi è uno schifo, a osservarlo da vicino,
un calcestruzzo di polvere, di paglia, di saliva,
povero intreccio nato da secrezioni e steli
con una vaga idea compositiva.
Un filo oggi, un filo domani,
e viene fuori un cestino in fibra vegetale,
bolo raffermo, pasta
che l'abitante, insieme, abita e mastica.
Questa casa di bava è fatta
come i figli che accoglie,
materia generata, materiale
genetico, tuorlo di trasmissione.
Per questo, senza Nido,
ora avanzano ciechi,
perduti nella notte
della loro identità.
Da: Disturbi del sistema binario, Einaudi, 2006
Su un’aria del Turco in Italia
Cara Italia, alfin ti miro.
Vi saluto, amiche sponde
G. Rossini
Riposa tutta quanta la Penisola
avvolta da una trepida collana
di affogati. Ognuno di loro è una briciola
fatta cadere per ritrovar la strada.
Ma i pesci le hanno mangiate e i clandestini,
persi nel mare senza più ritorno,
vagano come tanti Pollicini
seminati nell’acqua torno torno.
Il permesso di ingresso
per “ricerca di lavoro”
Enrico Pugliese è professore emerito di Sociologia del lavoro presso la Facoltà di Sociologia della Sapienza-Università di Roma.
Dal 2002 al 2008 è stato direttore dell’Istituto di ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Consiglio Nazionale delle
Ricerche (Irpps-Cnr). Ha pubblicato, tra l’altro, Immigrazione e diritti violati (Ediesse,
2013); L’Italia tra migrazioni internazionali
e migrazioni interne (Il Mulino, 2006) e L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati
in Italia (con M. Immacolata Maciotti, Laterza, 2010).
Hai studiato per tanti anni l’immigrazione. Possiamo ripercorrere le principali tappe dei flussi migratori in Italia?
Io sono arrivato all’immigrazione dall’agricoltura e dalla emigrazione. Alla fine degli
anni Sessanta mi ero trasferito negli Stati
Uniti, come ricercatore, e avevo cominciato
a studiare i braccianti agricoli in California,
dove era in corso un grande sforzo organizzativo. Ai braccianti agricoli tra l’altro ero
arrivato attraverso lo studio della povertà; era l’epoca della “Great Society” e delle
politiche per l’eliminazione della povertà e
dell’ingiustizia razziale. Ma poi i braccianti agricoli erano migranti e lavoravano in
condizioni che le nostre mondine non hanno
conosciuto. Le loro condizioni erano affini a
quelle dei nostri braccianti immigrati, cioè
violazione dei diritti sociali e non raramente
anche dei diritti umani.
Quindi dagli studi sull’agricoltura e l’emigrazione sei passato all’interesse per
l’immigrazione.
In quegli anni un amico e collega, Franco
Calvanese, che aveva studiato l’emigrazione, comincia a drizzare le antenne su questo fenomeno nuovo della immigrazione. La
prima immigrazione è in parte agricola o
prettamente femminile nell’ambito dei lavori domestici (non c’erano ancora le badanti
che arrivano nel corso degli anni Novanta).
Le lavoratrici domestiche vanno nelle famiglie borghesi o anche piccolo borghesi dove
le donne sono occupate; il loro ruolo è per
così dire,di “sostituzione”, nel senso che sopperivano alle carenze del welfare, anche se
poi c’era pure lo status symbol di avere la
cameriera -come si diceva all’epoca- “di colore”.
Emblematicamente se ne trovavano soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, cioè molto di
più a Caserta che a Mantova. A Caserta per
motivi di arretratezza socio-culturale, ma
pure per carenze di welfare. Questo era un
ambito. Poi c’era qualche venditore ambulante, la pesca in Sicilia e ovviamente l’agricoltura che, nel corso degli anni Ottanta,
esplode in tutto il Mezzogiorno.
Si può dire che la prima immigrazione agricola è immigrazione nel Mezzogiorno. È an-
che la prima immigrazione maschile (con
l’eccezione del Friuli e gli jugoslavi arrivati
per la ricostruzione e della Sicilia per la pesca). Va da sé che parliamo di lavoro nero.
Era lavoro nero e lavoro nero è rimasto.
La mia tesi è che dall’agricoltura si va via.
Cioè in agricoltura si arriva, perché tu arrivavi in qualche modo e quello trovavi, ma
poi si va via.
A pensarci oggi, sembra impossibile
che prima del ’90 non ci volesse il visto
per entrare in Italia.
La prima legge in materia, la 943 dell’86,
che comprende una sanatoria, è una legge
molto progressista; la legge Martelli, che
verrà dopo, nel 1990, non è così male, però
è una legge ingenua e pertanto cattiva. Il
principio è sempre: “Chi è dentro è dentro,
chi è fuori è fuori” e quindi viene istituito
il sistema dei visti che, di fatto, determina
un’ulteriore spinta alla irregolarità. Potrei
dilungarmi sull’uso del termine regolare,
irregolare, clandestino, ma andiamo avanti.
Alla vigilia della legge Martelli, nel 1989,
c’è l’episodio di Villa Literno, l’assassinio
di Jerry Masslo, un sudafricano impegnato
nella raccolta dei pomodori.
i tunisini all’epoca
con ventimila lire si compravano
un posto in piedi in traghetto
Martelli è ministro di giustizia e ha una linea molto avanzata, pur con tutte le ingenuità dell’epoca. Ad esempio si diceva che “gli
immigrati prendono i posti che gli italiani
lasciano”; una fesseria che non teneva conto
della radicale trasformazione dell’economia.
Ricompare in quegli anni il mercato delle
braccia: venuto meno negli anni Settanta,
torna negli anni Ottanta. È in quegli anni
che comincio ad approfondire. Ci colleghiamo tra demografi. E poi dopo, all’università,
comincio a dare le prime tesine di laurea,
sempre a partire innanzitutto dalla mia
competenza, che è il mercato del lavoro.
Chi arriva in Italia in quegli anni?
Arrivano i tunisini, che con ventimila lire si
comprano un biglietto per un posto in piedi
in traghetto, sbarcano a Trapani o a Marsala, e trovano lavoro. Considera che alcuni
erano già impiegati nella pesca, dove ci sono
ciurme internazionali. Se vuoi, la cosa divertente è che a Mazara del Vallo, città araba,
dove la casbah è rimasta sempre identica,
dopo mille anni sono tornati gli arabi!
Comunque possiamo dire che prima dell’89,
tu arrivi perché arrivi. Se sei polacca, dici
che vieni a fare il pellegrinaggio e trovi lavoro come cameriera. Se sei jugoslavo, entri
in qualche modo e lavori nella ricostruzione
per il terremoto del Friuli. Poi cominciano
ad arrivare i primi senegalesi, in genere wolof, quindi con solide tradizioni commerciali
e di grande mobilità territoriale. Per la precisione arrivano in Italia perché qui possono
entrare -i più sarebbero andati volentieri
in Francia; e poi qui fanno il loro mestiere,
quello di ambulanti.
La prima immigrazione massiccia è senegalese; è una migrazione gruppocentrica, in
cui i primi arrivati divengono poi i principali
portavoce. Le comunità più outspoken sono i
senegalesi e le filippine. Agli inizi degli anni
Novanta, se una signora voleva una cameriera senza troppe pretese, prediligeva una
capoverdiana, perché le filippine già cominciavano a mettere dei paletti sui loro diritti,
forti del fatto che facevano parte di una comunità organizzata.
L’altra nota curiosa è che in Sicilia, tutti i
maghrebini vengono chiamati tunisini; nel
continente, tutti i maghrebini vengono chiamati marocchini.
Ci sono anche tanti stereotipi.
Comincia subito la storia della prostituzione, che davvero grida vendetta. All’inizio
di un seminario sull’immigrazione interno
al corso di Sociologia del lavoro a Napoli,
chiedevo sempre: “Quali sono le professioni
che fanno gli immigrati? Cominciamo dalle
donne”. E la prima risposta qual era? “Prostitute!”. In realtà per ogni prostituta che
c’era sulle strade della Campania, c’erano
almeno quattro, cinque, dieci cameriere.
Le cameriere venivano dal Corno d’Africa,
con gli italiani che tornavano dalla Somalia,
dall’Eritrea, dall’Etiopia. Poi c’erano le filippine e le capoverdiane indirizzate qui grazie
a reti cattolico-ecclesiali.
I marocchini e i tunisini invece sono arrivati
perlopiù per fatti loro, imprenditivamente;
così i pachistani e i senegalesi che, girando
girando, sono arrivati qui e hanno fatto i vu’
cumprà.
Riguardo gli stereotipi, ricordo un film di
Michele Placido, un film molto buonista,
che per me non è una brutta parola (anche
se in questo caso ci voleva un po’ di sale in
zucca); comunque questo film, intitolato
“Pummarò”, voleva raccontare una storia
paradigmatica, edificante. Così abbiamo il
bellissimo giovane nero, il caporale cattivo
e la camorra. Lui poi si innamora di una
fanciulla, nera pure lei, che ovviamente che
mestiere fa? La prostituta!
Se vuoi, veniva anche da sorridere, perché
queste ragazze ghanesi spesso ricordavano
un po’ le ragazze di Harlem come costituzione, basse, tracagnotte, col sedere grosso,
con la gonna corta e quindi tutti a pensare
che facessero le prostitute. In realtà erano
semplicemente ragazze nere che si vestivano procacemente e che di lavoro facevano la
serva, oppure erano impegnate in qualche
stabilimento o, ancora, facevano le braccianti come il marito e il fratello. I ghanesi erano
anche l’unico gruppo misto. Fino all’arrivo
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degli albanesi. I ghanesi, anglofoni, non erano sotto il controllo della gestione pretesca,
perché erano tendenzialmente o protestanti
o animisti, quindi di fatto erano un gruppo
più laico e, conseguentemente, non erano
neanche sotto il controllo islamico. Il controllo dei Murid sui senegalesi comincia più
tardi. Quelli che arrivavano all’inizio erano
ragazzi scolarizzati; io li ho visti passare da
una vita laica a pratiche religiose, ma quindici anni dopo, magari semplicemente per
mantenere il potere di leadership; sono miserie che troviamo in tutto il mondo.
In questi anni si iniziano a fare le prime stime del fenomeno, totalmente fantasiose.
Già nel censimento dell’81 si era fatto un
tentativo, per quanto folle, perché venivano censite le nazionalità, dimenticando che
nel Mezzogiorno c’erano ancora un mucchio
di nazionalità straniere legate all’emigrazione. Negli Stati Uniti vige lo ius soli, ma
siccome la cittadinanza italiana ti spettava
comunque, per ius sanguinis, te la tenevi.
Così al censimento dell’81 si trovavano, nel
Mezzogiorno, Di Gianna Pasquale, di professione coltivatore diretto, nazionalità Stati Uniti. Erano le famiglie tornate nel ’39,
con le ultime navi. In campagna, una nostra
vicina, una contadina, si chiamava Fanny...
Questo era il Mezzogiorno. Quindi c’era questo equivoco dovuto al fatto che molti erano
emigrati o nati fuori.
L’altro dato interessante è che, nelle nuove nazionalità di immigrazione, c’era una
perfetta distribuzione per genere: 50% femmine, 50% maschi. Con il piccolo particolare che le femmine erano tutte di certe nazionalità e i maschi tutti di altre! Pure nel
rilevare questa sorta di parità emergeva la
grande ingenuità.
Ad ogni modo, nell’immaginario, negli anni
Ottanta gli immigrati arrivano “alla grande”. In realtà sono poche centinaia di migliaia, ma i dati che vengono comunicati
sono spaventosi, si parla di milioni.
Alla conferenza nazionale sull’immigrazione, organizzata da Martelli, si fa una stima
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alla buona e si parla di 730.000 persone. Un
numero difficilmente difendibile dal punto
di vista tecnico, ma che dal punto di vista
della nasometria, andava benissimo, cioè se
tu chiedevi a un prete che ne sapeva e ne capiva o a qualche demografo che studiava la
sua regione, quello ti sapeva dire che in Toscana erano 50.000 e allora, se erano 50.000
in Toscana, potevi realisticamente supporre
che la cifra reale fosse vicina a quei settecentomila.
gli escamotage hanno permesso all’Italia
di gestire in maniera semi-civile alcuni
aspetti della politica migratoria
Segue una grande ricerca del Cisp (Comitato italiano per lo studio dei problemi della
popolazione), diretto da una bravissima demografa, Nora Federici. Intorno a lei si consorziarono credo quattordici o quindici università, tutte impegnate in questa ricerca
che dà una prima lettura, soprattutto demografica. Intanto si delineano meglio le aree
di impiego: agricoltura ed edilizia, lavoro di
commercio ambulante e, per le donne, lavoro servile, come domestiche, con tutte le
tragedie... All’epoca c’era un problema grave
che ora non c’è più. Il cosiddetto “sexual harassment”, cioè le molestie da parte dei datori di lavoro, che era diffuso. Nei centri di
ascolto si parlava molto di queste cose, ora,
con la maturazione dell’immigrazione e, soprattutto, con l’arrivo delle donne dall’Est,
questo fenomeno è venuto meno.
Nell’89 crolla il Muro.
I processi sociali sono vischiosi, lenti, però
gli albanesi sono partiti subito e il loro arrivo ha modificato il quadro, nel senso che gli
albanesi entrano in tutti i mestieri e arrivano con le famiglie.
Negli anni Novanta, si cominciano a contare gli immigrati un po’ meno fantasiosamente. La fonte è soprattutto quella della
polizia, perché le anagrafi ancora non sono
adeguate. Allora, studiando i permessi di
soggiorno, anche se erano esclusi i minori,
si comincia ad avere un’idea del fenomeno,
che però man mano che lo conosci cambia,
perché arrivano altre nazionalità. I marocchini, che sono stati la principale comunità
fino a metà degli anni Novanta, verso la fine
di quegli anni vengono superati dai rumeni.
Quella dei rumeni è una sorta di esplosione
che era stata preceduta da un’altra, quella
appunto degli albanesi.
Quindi l’asse si sposta verso est, anche se
continuano a venire un po’ tutti: aumentano
i tunisini, aumentano i filippini, si sposta il
peso delle varie comunità. Cominciano i primi tentativi di delineare le caratteristiche
associate alle varie componenti dell’emigrazione. Per esempio, all’epoca, se tu eri cattolico, automaticamente facevi la cameriera
ed eri donna. Se eri islamico, in Campania
facevi il venditore ambulante o il lavoratore
autonomo. Piano piano, al Nord, gli immigrati cominciano a entrare nei servizi e timidamente in fabbrica, dove diventeranno
importantissimi.
Intanto proseguono le sanatorie.
Nel 1997 c’è l’episodio dell’affondamento della Kate i Rades.
Il 1997 è l’anno prima che uscisse la Legge 40 del 6 marzo ’98, nota come Legge
Turco-Napolitano. C’era il governo Prodi e
già si iniziava a dire: “Non possiamo accoglierli tutti, perché sennò vince la destra”.
Quell’anno ci sono due episodi terribili, la
nave abbattuta e poi l’immigrato bruciato
dal padrone vicino a Varese.
Intanto continuano ad arrivare i barconi.
Quelli celebri di Brindisi e poi di Bari erano avvenuti con la Boniver e Scotti, il quale prima aveva garantito che non avrebbe
deportato i disperati dello stadio e invece
poi li aveva rispediti a casa (anche se molti
se l’erano squagliata). Comunque, qualche
anno dopo, a un certo punto, parte questa
carretta del mare. Napolitano è all’Interno
e Livia Turco alla Solidarietà sociale, quindi
sembrano esserci le premesse affinché di immigrati ci si potesse occupare e anche bene.
E invece un nave militare sperona la carretta albanese provocando la morte di oltre
duecento persone, tra cui donne e bambini.
Come non bastasse nessuno del Governo va
a Brindisi a rendere omaggio alle vittime.
L’unico che ci va è Berlusconi.
Nel 1998 viene emanata la legge TurcoNapolitano.
È una legge molto avanzata sul piano della
teoria, soprattutto riguardo i diritti sociali
di welfare. Il problema è che non è mai stata
finanziata adeguatamente, dopodiché è caduto il governo e quindi le politiche sociali
per gli immigrati non sono mai state fatte.
In Italia si sono fatte solo le politiche di respingimento e di frontiera. È il motivo per
cui, quando Bossi e Fini hanno presentato
quel pacchetto di emendamenti che va sotto
il nome appunto di Bossi-Fini, non si sono
preoccupati di modificare i titoli relativi alle
politiche sociali, perché è bastato non finanziarle.
Comunque, la Turco-Napolitano in effetti era un provvedimento per molti aspetti
avanzato: prevedeva l’assistenza sanitaria
ai non regolari, l’articolo 18 per la lotta alla
tratta, c’erano insomma dei punti molto
positivi. Poi però istituiscono anche i Cpt,
i Centri di permanenza temporanea. Fin
dall’apertura del primo, un immigrato muore bruciato e altri due si ammazzano.
Era anche una legge molto dura: loro fanno
la legge e dichiarano: “Basta sanatorie”. Intanto però ci sono circa tre-quattrocentomila irregolari, tanto è vero che quando cade il
governo Prodi e, sempre nella stessa legislatura, subentra il governo D’Alema, Rosetta
Iervolino, appena divenuta ministro degli
interni, da brava democristiana col cuore di
mamma, fa la nuova sanatoria, la più grande mai avvenuta fino a quel momento. Poi,
la madre di tutte le sanatorie sarà la BossiFini.
La sanatoria è una cosa buona?
È una cosa buonissima! Mentre ero negli
Stati Uniti, c’era questo collega, che si chiama Aristide Zolberg, ebreo belga arrivato
alla New School; ecco lui, a una conferenza
divertentissima disse: “For migration, there
is not a final solution”. Usando il termine
“soluzione finale” proprio per dire che chi
pensa che c’è una soluzione per l’emigrazione, che si può mettere ordine prescindendo
dal tumulto che la produce, ha una mentalità nazista.
Per l’emigrazione, bisogna sempre navigare
a vista, cioè andare avanti con cautela e con
attenzione alla situazione specifica, pronti
ad aggiustare sempre la rotta, se necessario,
senza perdere di vista l’obiettivo. Invece, la
legge Turco-Napolitano aveva la pretesa di
andare sparata come una motovedetta senza pilota. E quindi la prima cosa che fanno
è aprire i Cie (centri di identificazione ed
espulsione), che però non sanno gestire, anche perché non c’è una normativa giuridica
chiara. Ci si mette poco a capire che si tratta di una detenzione amministrativa dove la
tua libertà è più limitata che in un carcere.
Quello che non si capisce è il perché. Tra
l’altro succedeva che, se non ti riuscivano a
cacciare dal paese nei primi trenta giorni, al
trentunesimo uscivi. Una follia pura. Dopodiché, come ha risolto la cosa la Bossi-Fini?
Allungando la permanenza a sei mesi.
Ma torniamo alla sanatoria. A noi italiani
non piace perché abbiamo la fissazione, tipicamente fascista, che ci sia la soluzione
finale. Invece non c’è, quindi la sanatoria
prende atto di una situazione localmente
insostenibile e ti evita di nasconderti. È un
accomodamento a una situazione che tra
l’altro abbiamo creato noi. Voglio dire: non
si è mai voluto dare il permesso di ingresso
per “ricerca di lavoro”. A questo punto, se
non fai la sanatoria, come fai con questi che
già vivono e lavorano qua?
Come la farsa sulle badanti che dovevano fingere di non essere in Italia.
Guarda, le finte, i trucchetti, gli escamotage,
sono quelli che hanno permesso all’Italia di
gestire in maniera semi-civile alcuni aspetti della politica migratoria. Siccome l’intero
impianto era macchiettistico, per uscirne in
maniera umana e socialmente accettabile
bisognava trovare degli escamotage. La sanatoria è stato l’escamotage. Tutto qui.
Poi è arrivata la Bossi-Fini.
Lì è stato straordinario. Bossi e Fini sono
andati al governo dicendo: “Via i clandestini”, intendendo però via gli immigrati, e
appena arrivati hanno fatto la più grande
sanatoria mai vista! Ma perché non potevano fare diversamente! Sempre con l’idea chi
è dentro è dentro, chi è fuori è fuori.
sono state le mamme dei leghisti
le artefici di tutto
perché avevano già la badante
Certo, non si aspettavano seicentomila e
passa migranti. E io dico sempre che sono
state le mamme dei leghisti le artefici di
tutto, perché avevano bisogno, anzi avevano
già la badante. Solo che il leghista se n’è accorto subito, Livia Turco se n’è accorta molti
anni dopo -lo scrive, tra l’altro- quando la
mamma la sgrida perché la Turco è contraria alla sanatoria, mentre lei vorrebbe sistemare la signora che l’aiuta, capito?
La sanatoria era originariamente per le badanti. Tra parentesi: il termine “badanti”
viene introdotto dalla Lega nel linguaggio
politico e poi è passato al linguaggio comune; nel linguaggio giuridico si chiamano assistenti domiciliari. Il discorso della Lega
qual è? Già lo stato fa schifo, lo stato italiano fa schifo due volte, perché è fondato
su Roma ladrona; nel Sud i ladri di Roma
hanno la cameriera perché sono parassiti;
al Nord ci sono i lavoratori, che però invecchiano, e siccome dello stato non ci possiamo
fidare (cosa peraltro vera perché per i vecchi
nulla è previsto), allora l’onesto lavoratore
del Nord ha diritto alla badante. Questo era
il discorso fatto da Bossi. È un discorso razzista, che però dice anche delle cose vere,
perché in effetti se non c’è il welfare, l’onesto lavoratore il servizio se lo deve pagare.
Ed è così che escono questi seicentomila lavoratori. Tra l’altro, la legge nasce originariamente solo per le badanti. Il problema è
che non c’è solo la mamma di Livia Turco o
la zia di Bossi, c’è anche la signora Brambilla che vuole regolarizzare la sua cameriera
e quindi si estende la sanatoria anche alle
cameriere. Ma non finisce qui, perché a quel
punto, il ragionier Fasolin pensa sarebbe
meglio regolarizzare anche i sette immigrati irregolari impiegati nell’azienda vicentina
di cui tiene la contabilità, quindi pure lui,
che vota Lega, vuole la sanatoria.
Arriviamo così al 2000.
Al 2000 si sanno le cose, ci sono i numeri.
C’è stato questo momento comunque positivo della Turco-Napolitano; il governo Prodi
ha aperto nei confronti dell’immigrazione,
anche se poi ha istituito i Cpt, che sono una
cosa orribile, ma complessivamente c’è un’apertura; un’apertura frenata dal fatto che la
sinistra continua a non capire che l’immigrazione è la civiltà d’oggi e che è fissata con
l’ordine: “Basta con tutti questi irregolari”.
Beh, fammeli venire regolari!
Segue il governo Berlusconi e non succede
molto. C’è la Legge Bossi-Fini, che è brutta
perché rende più difficile l’accesso al permesso di soggiorno e allunga il periodo per
avere il rinnovo, è un po’ persecutoria nelle
norme amministrative nei confronti degli
immigrati, inoltre non finanzia le politiche
sociali. Le ultime raffiche di Salò del secondo governo Berlusconi sono le impronte ai
bambini rom. Ma in realtà è il terzo governo
Berlusconi quello terribile. All’inizio Berlusconi non fa nulla di male agli immigrati e
nulla di bene. Si susseguono le finte sanatorie che si chiamano decreto flusso, quindi,
in pratica, “business as usual” con un po’ di
cattiveria in più. Tra l’altro, a un certo punto Fini comincia a dare i numeri promuovendo la cittadinanza agli immigrati. Non è
un brutto momento.
Il brutto momento è quando la Lega non si
caratterizza più in chiave antimeridionale
e anti-fiscale (hanno già cominciato gli intrallazzi con le banche), ma comincia a “democristianizzarsi”, quindi clientela, corruzione, imbrogli, ma anche normalizzazione
e fine del secessionismo. Il dato negativo è
che accanto a tutto questo c’è una crescente
paranoia persecutoria anti-immigrati. Che
finisce male.
Vi ricordate la storia delle ronde? C’è una
legge che le autorizza, ma non le ha fatte nessuno. Perché? Ma perché la ronda è
basata sul principio che il monopolio della
violenza non è dello stato, ma della società, quindi dell’individuo, dei gruppi, eccetera, per cui questi probi cittadini possono
acchiappare il nero e insegnargli la buona
educazione, così la smette di pisciarti sotto
casa, di spacciare e, soprattutto, di esistere.
C’è stato un grande dibattito, è intervenuta anche l’Unione Europea, ma alla fine la
legge è stata approvata. Com’è finita? Che
se vuoi fare la ronda, la puoi fare: ti porti
il fischietto e se vedi che c’è qualcuno che
commette atti contrari alla morale, chiami
la polizia che interviene. Te lo vedi il leghista che gira col fischietto!?! Poi è stata la
volta dei cosiddetti “medici spia” che hanno
determinato la rivolta dell’intera categoria.
Insomma, la legislazione maroniana, che
pure è stata annacquata o frenata dall’Unione Europea, dalla Corte Costituzionale o
dalla Magistratura, ha però seminato odio,
confusione, insicurezza. E comunque, che
in Parlamento si sia potuto discutere della negazione dello stato di diritto, per me
è una macchia terribile della nostra storia
recente.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
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Migranti in transito
La rotta africana
Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, docente di Diritto di asilo presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di
Palermo, direttore dell’Associazione L’Altro
diritto-Sicilia, opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo con
diverse organizzazioni non governative. Fa
parte della rete europea di assistenza, ricerca e informazione per i migranti Migreurop.
Collabora con i siti Fortress Europe, TerreLibere, Storiemigranti. Ha un blog (http://
dirittiefrontiere.blogspot.it/) e ha pubblicato, tra altri lavori, Diritti sotto sequestro.
Dall’emergenza umanitaria allo stato di eccezione, Aracne, 2012.
L’intervista è stata rilasciata nel mese di
marzo del 2014 e si riporta nella sua versione originale perché rimane attuale in molti
aspetti che dimostrano quanto era possibile
prevedere già da un anno, ed è stato colpevolmente rimosso dai governi e dalle istituzioni europee (F.V.).
Da diverse settimane sono ripresi gli
sbarchi e l’estate si preannuncia molto
critica. Può spiegarci qual è la situazione?
La situazione dei migranti in transito è oggi
particolarmente critica, perché se prima potevano contare su una rete strutturata di
connivenze, corruzione e agevolazioni per le
partenze dalla Libia o per i transiti dai paesi a sud della Libia (Niger, Ciad, Sudan),
la dispersione delle milizie e delle armi di
Gheddafi, soprattutto al sud, ha destabilizzato tutta un’area, dal Mali sino al Niger,
determinando anche il riemergere di tensioni tribali. Il Mali è un caso paradigmatico:
oggi gruppi che si riconoscono in Al Qaeda
hanno preso possesso del territorio dell’Azawad indipendente, nel nord del Mali, cui
vorrebbero federare pezzi dei paesi del centro Africa.
pagando il riscatto ai trafficanti,
si ha la garanzia di fare
100 chilometri in più, non di arrivare
Finora la risposta europea è stata militare,
prima con l’intervento francese in Mali e
poi con una pressione militare sulla Libia,
pressione che continua tuttora. Non si è
fatto invece alcuno sforzo politico per comporre determinate questioni, che sono prima
di tutto storiche, diplomatiche e di rapporti
tra paesi.
La presenza delle multinazionali ha inquinato i rapporti tra stati. Non a caso Renzi
ha affermato che Finmeccanica in Libia
svolge quasi le funzioni di un’ambasciata;
una gaffe che gli è stata rimproverata, ma
che affermava una verità. D’altra parte, se
pensiamo che a Finmeccanica è stato ricon-
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fermato Gianni De Gennaro si può cogliere
la stretta connessione tra politiche economiche e politiche della sicurezza. Insomma, è
emblematico che ai vertici delle multinazionali che operano in Africa ci siano persone
sicuramente legate ai servizi.
Tornando alla domanda, l’Africa sta assistendo al rafforzarsi di bande locali; possono
essere le milizie federaliste di Misurata o i
tuareg nella zona del Mali, dove la proclamazione dello “Stato indipendente dell’Azawad” sta destabilizzando l’intera area,
inclusi il sud dell’Algeria e del Marocco.
L’emergere di questi e altri movimenti spiega l’aumento dei migranti in fuga da paesi
come Costa d’Avorio, Senegal, Gambia, Nigeria, Ghana, oltre ai flussi più consistenti
e noti, costituiti da siriani, eritrei e somali
che continuano ad arrivare e che però sono
sottoposti a trattamenti più brutali di quanto non avvenisse in passato, perché vengono
ceduti da una banda all’altra.
La rotta africana oggi è caratterizzata da
molti check-point e i migranti in fuga avanzano grazie alle telefonate che riescono a
fare ai parenti in Europa per ulteriori pagamenti. Il fatto è che, pagando il riscatto
ai trafficanti, si ha la garanzia di fare centoduecento chilometri, non di arrivare, come
accadeva prima, sul Mediterraneo e poi imbarcarsi. Questo sta determinando una condizione di estrema sofferenza per i migranti
che arrivano in Sicilia, sempre più spesso
vittime di torture e di abusi.
Lei ha più volte denunciato il trattamento riservato a queste persone
quando arrivano nelle nostre coste.
Noi alterniamo, anche sullo stesso territorio, momenti di accoglienza-detenzione
(quando qualche questore si impunta a trattenere le persone in centri chiusi, sbarrati,
con la polizia che impedisce l’uscita, in attesa di raccogliere le loro impronte digitali)
ad altri di accoglienza-abbandono, quando il
numero delle persone che affluiscono è talmente elevato che non c’è il tempo materiale
per contenere e chiudere tutti sotto chiave.
Quando arrivano quattromila persone in tre
giorni e mezzo, come è successo la settimana scorsa, questa accoglienza-abbandono
poi si traduce in fughe ampiamente tollerate. D’altra parte, quando a fuggire sono
famiglie coi bambini in braccio diventa difficile arrestare tutti e trasferirli in centri di
detenzione, che (per fortuna) non esistono.
Né si può pensare a trasformare i centri di
primo soccorso e accoglienza, come quelli di
Pozzallo e Lampedusa, in centri di trattenimento amministrativo.
Devo dire che la Sicilia, dal punto di vista dell’accoglienza, sta rispondendo in un
modo che poche altre regioni avrebbero potuto eguagliare. Se pensiamo a quello che
ha prodotto in regioni come la Toscana o
l’Emilia l’arrivo di ottanta-cento profughi
in una singola città... A Pisa sono nati comitati di quartiere che protestavano perché
non volevano che tutti e quaranta i rifugiati
fossero ospitati dentro la città, ne volevano
mandare venti verso Lucca; risposte veramente poco consone rispetto alla tradizione
di accoglienza di questi territori. La Sicilia,
tutto sommato, sta gestendo anche certi allarmismi in un modo pacato.
Si sa che a mettersi in viaggio sono tendenzialmente persone sane, nondimeno il viaggio mette a repentaglio la salute dei migranti. Qual è la situazione?
Intanto c’è un problema di promiscuità già
prima del viaggio. In Libia, prima di imbarcarsi, i migranti vengono raccolti in centri
dove vengono ammassate anche migliaia di
persone e possono svilupparsi malattie tipiche, come la Tbc e la scabbia, che poi si
diffondono.
Per questo è così importante che quando arrivano qui ci sia uno screening sanitario rigoroso, cosa che non sempre viene garantita
nelle modalità adeguate. Noi abbiamo avuto
immigrati provenienti dal porto di Augusta
(Siracusa), trasferiti a Trapani o a Messina
in una tendopoli, che hanno dichiarato, dopo
sette giorni, di non aver mai visto un medico.
Il ragazzo che è morto a Siracusa, nel centro
Umberto I, era già stato segnalato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni come un caso da portare all’attenzione
delle autorità sanitarie, cosa che non è successa. Parliamo dunque di una persona già
sofferente al momento dello sbarco, che nei
cinque giorni trascorsi da quando ha toccato
terra a Siracusa a quando è deceduto non ha
ricevuto alcuna assistenza sanitaria. Manca
la cultura di un monitoraggio della salute
delle persone. Il triage sulla banchina del
porto permette solo di individuare i casi più
gravi, ma sfuggono tutte le patologie e le ferite di più difficile accertamento.
Questo per quanto riguarda la partenza e
l’arrivo, ma poi c’è il viaggio: purtroppo i
migranti arrivano in condizioni sempre più
terribili. Non parliamo delle donne, vittime
ormai sistematicamente di abusi, ma adesso
anche molti uomini subiscono torture, quindi c’è una quota crescente di persone con un
disagio psichico serio. Ci vorrebbero figure
specializzate in grado di identificare questi
casi, invece non c’è niente di tutto questo.
Peggio, le persone con disagio psichico vengono messe in promiscuità con altre, spesso
riproducendo così situazioni per loro traumatiche. Anche tra i minori ci sono problemi. Ancora ieri, a Palermo, c’è stata una rissa in un centro per minori.
D’altra parte, se in queste strutture le persone vengono abbandonate senza mediatori,
senza interpreti, senza psicologi, con solo
qualcuno che si presenta con il cibo mattina,
ne vicino per garantirsi una prospettiva di
ritorno.
Per questo ad arrivare in Europa sono, tutto sommato, numeri molto piccoli, anche
rispetto, per esempio, ai richiedenti asilo
che ha accolto la Germania con le crisi bosniache. La Germania, nel ’94, ha accolto
380.000 richiedenti asilo dalla ex Jugoslavia.
Sembra che ce lo siamo dimenticati, ma
dopo la crisi dell’ex Jugoslavia, sono arrivati
in Europa due milioni di persone.
Questo atteggiamento di chiusura di fronte a poche decine di migliaia di persone è
davvero poco comprensibile: non vogliamo
cioè risolvere il problema dal punto di vista
politico laggiù, né dal punto di vista umani-
Sistema Dublino e i “Dublinati”
– richiedenti asilo e riammessi
in Italia
mezzogiorno e sera e poi se ne va, e di notte
magari non rimane nessuno, beh, è chiaro
che in contesti affollati si stabiliscono delle
leggi dove il più forte prevarica il più debole e dove, se uno disturba, viene picchiato
così non disturba più. È un po’ la legge della
giungla.
Quest’anno poi la situazione rischia di essere più drammatica di quella del 2011, quando in Italia arrivarono 67.000 migranti, di
cui 63.000 in Sicilia. L’estate non è ancora
cominciata e ad oggi (metà aprile) siamo già
intorno ai 20.000 arrivi.
Molti hanno accusato l’operazione
“Mare Nostrum”, voluta per limitare
i flussi illegali e per evitare ulteriori
tragedie in mare, di aver di fatto incrementato gli arrivi.
È l’accusa della Lega. Certamente, oggi chi
parte sa che percorrendo un tratto di mare
molto ridotto, trova le navi di “Mare Nostrum”. A 30-40 miglia dalla costa libica,
intervengono i mezzi della Marina, che da
quando sono in attività hanno salvato quasi
diciottomila persone. Anche questo mi pare
vada detto: da quando è stata avviata questa campagna non ci sono più state stragi
in mare.
La scorsa estate i mezzi erano molto più a ridosso della Sicilia. Le procure perseguivano
soprattutto le “navi madre”, cioè andavano
alla caccia dei mezzi che portavano barche
più piccole e poi fuggivano, quindi i controlli
erano dislocati tra Malta, Siracusa e Catania, dove, tra l’altro, avveniva la maggior
parte degli sbarchi. Questo però aveva comportato che, in numerose occasioni, mezzi
piccoli fossero sfuggiti ai controlli e ci fossero stati anche naufragi dagli esiti tragici:
a fine settembre tredici migranti sono morti
nel corso di uno sbarco a Scicli, nel Ragusa-
no; già ad agosto 2013, a Catania, alla Playa, sei giovani egiziani erano morti prima
di raggiungere la spiaggia. Una bruttissima
estate ma nulla di paragonabile con quello
che è seguito dopo.
“Mare Nostrum” è certamente un’operazione costosa, ma ha salvato vite umane e, probabilmente, non c’era altro mezzo. Nessuno
stato europeo ha permesso l’apertura di canali di ingresso umanitari. Con una diversa
politica dei visti d’ingresso si sarebbero potuti evitare molti sbarchi e molte partenze.
molti uomini subiscono torture, quindi
c’è una quota crescente di persone con
un disagio psichico serio
I siriani (che nei primi mesi del 2014 erano
appena 11.000!) potevano benissimo recarsi,
non dico a Tripoli, perché tutta la Libia è
insicura per loro, però, arrivando in Egitto,
potevano andare al Cairo, trovare una delegazione dell’Acnur, l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i Rifugiati, vedersi
riconosciuto uno status provvisorio in quanto siriani e da lì essere distribuiti in tutta
Europa. Con l’aereo.
I migranti in fuga che arrivano in Europa sono una minima parte di quelli
che si rifugiano nei paesi confinanti.
Questo va detto e ripetuto. I siriani che arrivano in Europa sono una minima parte rispetto ai 700.000 che ha preso la Turchia, al
milione che c’è in Libano. I siriani che arrivano qui sono quelli che hanno maturato la
scelta, durissima, di abbandonare la propria
terra. I più accettano di vivere in un campo
profughi super affollato proprio perché hanno la speranza di tornare. Questo fenomeno
caratterizza un po’ tutti i grandi movimenti
di profughi: generalmente, chi fugge rima-
Il sistema Dublino è formato dal regolamento di Dublino III e dal regolamento
Eurodac: il primo stabilisce i criteri per la
determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di
protezione internazionale, il secondo ha
istituito un database europeo di impronte digitali per l’applicazione della convenzione di Dublino. Da un lato il regolamento Dublino intende impedire che tutti gli
Stati si dichiarino incompetenti all’esame
della domanda di protezione internazionale, privando così il rifugiato del diritto
di accedere alla procedura amministrativa prevista per il riconoscimento dello
status. Dall’altro si pone come obiettivo
quello di impedire i movimenti interni
all’UE dei richiedenti protezione, dando
agli Stati e non alle persone la facoltà di
decidere in quale Stato la persona debba
veder esaminata la domanda. Il regolamento Dublino III prevede una tutela
per minori non accompagnati e dell’unità
familiare, stabilendo che in caso di legami familiari con persone in un altro stato
membro, sia questo a essere competente.
In realtà il sistema Dublino, come pilastro del Sistema Europeo Comune di Asilo, è stato fortemente criticato e le tutele
previste spesso non vengono attuate.
Questi sono i paesi che hanno registrato il maggior numero di “Dublinati” dal
2008 al 2013, cioè persone trasferite per
riammissione nel loro primo paese di arrivo: Italia (3.460), Polonia (2.442), Germania (1.702).
Questi i paesi invece dai quali sono avvenuti più trasferimenti: Germania (4.316),
Svizzera (4.165) e Svezia (2.869).
Riferimenti.
- Dal 1° gennaio 2014 viene applicato il
nuovo Regolamento del Consiglio Europeo
nr. 604/2013 (luglio 2013), il ccdd “Dublino - III”, che abroga il precedente regolamento nr. 343/2003 (c.d. “dublino II”).
- Regolamento Eurodac (CE) nr. 2725/2000,
dell’11 dicembre 2000.
19
tario qui. Però si diffonde nel senso comune l’espressione “aiutiamoli a casa loro”. Se
avessero ancora una casa…
Solo Svezia, Norvegia e, in parte, Olanda e
Germania hanno attivato procedure d’asilo
anche se le persone erano transitate da un
altro paese. Come sappiamo, il Regolamento di Dublino costringe a chiedere asilo nel
paese d’arrivo e quindi avrebbero potuto ritrasferire i rifugiati in Italia, per esempio.
Fortunatamente non l’hanno fatto. Finora,
aggiungo.
Ci sono state anche un paio di sentenze che
hanno stabilito che non si può trasferire in
Italia una persona a causa di questa sistematica carenza del sistema di accoglienza
che espone il migrante a trattamenti inumani e degradanti. Sulle navi di “Mare
Nostrum” il Ministero dell’interno ha ora
dislocato una specie di ufficio di polizia, così
la nave carica cento, duecento, trecento rifugiati; insomma, fino a che non fa il pieno,
non torna ad Augusta. Ci sono persone che
sono rimaste anche tre giorni a bordo delle
navi e sottoposte a limitazioni indebite delle
libertà personali, senza alcuna informazione
o assistenza, in un contesto di promiscuità,
con delle lenzuola appese a corde per separare donne e uomini. La nave militare ha un
hangar, non ha le cabine, all’interno è simile
ai traghetti. E così i migranti sono costretti a
sistemarsi su questi materassi messi a terra
uno accanto all’altro. Ci sono poi un tavolo
di plastica, due sedie e i poliziotti che fanno
questa cosiddetta pre-identificazione. Una
pratica che ha messo fuori gioco anche le organizzazioni in convenzione col Ministero,
come l’Oim, l’Acnur, Save the children, ecc.,
che prima garantivano un monitoraggio allo
sbarco. Se li raccogli a mille a mille e poi li
scarichi tutti in una volta, è chiaro che queste organizzazioni, che hanno due operatori
sulla banchina, non sono in grado di svolgere il loro lavoro.
Dopodiché, si parte in autobus e si va a Sira-
20
cusa, a Messina, a Trapani, e tutto passa in
mano ai prefetti. Ora, alcuni prefetti stanno
organizzando le cose bene. A Trapani, per
esempio, mi risulta che la Croce Rossa e varie organizzazioni stiano lavorando bene; in
altre province i prefetti si sono rivelati catastrofici. Se i migranti sono ospiti temporanei
che “tanto poi fuggono”, perché preoccuparsi
se stanno male, tanto se ne vanno... Ecco, se
l’ottica è questa, si va al disastro.
Cosa si potrebbe fare?
Innanzitutto, l’Italia dovrebbe dotarsi di
un sistema di prima accoglienza vero, consolidato, non da approntare mese per mese;
occorrerebbe anche riequilibrare il rapporto
tra prima e seconda accoglienza: oggi spendiamo molto e male per la seconda accoglienza e pochissimo per la prima. Al momento,
abbiamo attivi dodicimila posti in seconda
accoglienza, ma ne servirebbero almeno il
doppio già operanti. Il ministero ha fatto un
bando comunicando contestualmente che i
soldi non ci sono. Per la prima accoglienza
gestita dai prefetti, ha detto: “Fate degli impegni di spesa fino al 30 giugno”. In pratica,
nel momento in cui verosimilmente entriamo nella fase più acuta degli arrivi, tutto
finisce. Questa è un po’ la situazione.
nel momento in cui verosimilmente
entriamo nella fase più acuta
degli arrivi, tutto finisce
Sul piano internazionale, si dovrebbe rivedere Dublino, lo chiede anche l’Acnur, e
adottare un piano di distribuzione dei migranti riconosciuti e riconoscibili come rifugiati, distinguendoli anche per nazionalità.
Sia l’Unione Europea che l’Italia hanno gli
strumenti normativi necessari. È già stato
fatto durante la guerra della ex Jugoslavia
e in Kosovo, per riconoscere dei permessi
per protezione temporanea, salvo poi il diritto di chiedere asilo. Occorre aprire canali
umanitari di ingresso legale protetto in Eu-
ropa attraverso il rilascio di visti per motivi
umanitari o familiari nei paesi di transito.
Se ci fosse un maggior impegno per informare chi arriva sui diritti e sui doveri, si
potrebbe anche evitare il dilagare dei movimenti secondari verso il Nordeuropa, dovuto principalmente alla paura: la gente si
brucia i polpastrelli, si fa picchiare, si fa torturare pur di non dare le impronte digitali.
Con una comunicazione diversa e un’apertura su Dublino, sono convinto che le cose
cambierebbero. La Sicilia avrebbe ampia
possibilità di accoglienza; in totale oggi questa regione conta 180.000 immigrati, di cui
140.000 regolari; la sola provincia di Brescia
ne ha 340.000, Milano ne conta 650.000 e la
Lombardia oltre un milione.
C’è poi la situazione dei minori non accompagnati.
Attualmente c’è il problema di una percentuale altissima di minori non accompagnati
che, non appena si trovano in una struttura
di prima accoglienza, scappano. Il minore
non accompagnato ha diritto a fare richiesta d’asilo in qualsiasi paese arrivi, cioè non
è soggetto al Regolamento di Dublino. Se
quindi un minore scappa dall’Italia e finisce
in Germania o in Olanda può chiedere asilo
in quei paesi. Ora, mettiamo che il minore
abbia attivato la procedura in Olanda e che
a un certo punto in Italia compaia il genitore, quest’ultimo avrà il diritto di ricongiungersi con il figlio in Olanda. Questo, in qualche modo, sta producendo un abbassamento
dell’età delle persone che arrivano. Talora
sono le famiglie che investono sul ragazzino
di sedici anni che cerca di raggiungere un
paese aprendo la strada agli altri, però non
è una prassi molto diffusa. Comunque, il
fatto che Dublino non valga per i minori aumenta enormemente il tasso di fuga. D’altra
parte, se i minori rimangono anche cinque,
sei mesi senza che nemmeno venga comunicata al giudice tutelare la loro presenza
nelle varie strutture...
Talora la fuga avviene
dopo due giorni dall’ingresso nella struttura;
in questi casi, non si
può imputare nulla a
chi la gestisce. Ma se
è una struttura puramente dormitorio o
refettorio, è chiaro che
i ragazzi hanno il telefonino, hanno i loro
amici, qualche contatto, così prendono e se
ne vanno. Ripeto, se ci
fosse un’altra situazione, si potrebbe quantomeno
attenuare
questa ondata di fuga
che, è vero, c’è sempre
stata, ma mai come in
questo periodo; cioè
potevano scapparne il
50%, ma mai si è visto
che ne scappava l’80%.
Ormai, girando per la
Sicilia, si cominciano
a vedere questi ragazzi in giro da soli. La
popolazione, anche in
questo caso, è abbastanza accogliente: se
può, li aiuta. Così come nel caso delle famiglie siriane con bambini, quasi sempre
la gente si mobilita, raccoglie delle cose, le
ospita nelle parrocchie...
Tra Unione Europea e Nordafrica è attualmente in corso una partita molto
grossa che riguarda gli “accordi di partenariato”. Può spiegare?
Tali accordi sono già stati stipulati con il
Marocco, la Tunisia e la Turchia, che è un
paese del Mediterraneo, anche se non è nel
Nordafrica. La Turchia oggi è considerato
“paese di transito”, sta infatti diventando
strategico per il passaggio in Bulgaria e in
Grecia. Gli afghani, gli iracheni, ma anche
molti siriani, vista la difficoltà e la rischiosità della rotta dalla Libia, scelgono di andare
in Turchia e poi, da lì, seguire la rotta balcanica. Nel contempo, l’Unione Europea ha
avvertito l’esigenza di implementare tecniche di controllo di frontiera più evolute, più
avanzate, puntando a una maggiore collaborazione da parte dei paesi di transito, coinvolgendoli nella cosiddetta esternalizzazione dei controlli di frontiera. Questi accordi
prevedono in cambio la possibilità, per i cittadini di questi paesi, di entrare legalmente
con un visto d’ingresso, per ricerca di lavoro,
facilitando i ricongiungimenti familiari. La
Turchia evidentemente è molto interessata
al tema dei ricongiungimenti familiari perché in Germania ci sono circa tre milioni di
cittadini turchi: aprire sui ricongiungimenti
vuol dire dare mobilità a mezza Turchia.
dalla Libia arrivano persone che
provengono da altri paesi e questo
rende molto difficile la negoziazione
Noi siamo preoccupati perché tali accordi,
previsti adesso all’interno del cd. Processo
di Khartoum, consentono anche il rimpatrio
molto rapido di persone che, invece, potrebbero avere diritto a chiedere asilo in Europa. Penso alla Nigeria e al Sudan, all’Egitto
e al Libano. Penso ai curdi nel caso della
Turchia. È già successo in Grecia, con conseguenze devastanti: molti curdi sono stati
riportati indietro in Turchia, dove sono stati
internati in carcere, torturati e ammazzati.
Questo è un problema che l’Europa si dovrebbe porre, monitorando il livello di rispetto dei diritti umani e le possibilità effettive di accesso alla procedura di asilo in
questi paesi. Sappiamo, ad esempio, che
molte persone vanno a chiedere asilo in Marocco poi, però, succede che la polizia marocchina fa una retata nella casbah di Rabat,
preleva queste persone, gli strappa in faccia
i documenti dell’Acnur e le porta alla frontiera con l’Algeria, dove i migranti finiscono
preda delle bande di trafficanti che controllano le frontiere tra Algeria e Marocco. C’è
poi la situazione terribile di Ceuta e Melilla, dove adesso le autorità marocchine sono
state autorizzate a entrare per fare il lavoro
sporco che non può fare la polizia spagnola e
quindi anche a riprendersi i “suoi” migranti.
Ecco, tutto questo è il frutto degli accordi tra
Marocco e Spagna, nel quadro degli accordi
tra Marocco e Unione Europea.
È importante che il rapporto tra diritti umani fondamentali e controlli di frontiera sia
al centro della negoziazione con i cosiddetti
paesi di transito.
C’è poi la questione, ancora più complicata, dei rapporti con la Libia.
L’Italia sicuramente non può attivare nessun movimento forzato, di segno opposto, e
deve anche stare attenta alla collaborazione con le forze libiche perché non sono facilmente decifrabili. Ai primi di febbraio, a
Roma, c’è stata una conferenza internazionale sulla Libia, con la presenza dell’allora
capo del governo transitorio Zidan, il quale,
dopo due giorni (per un incidente relativo
alla vendita di petrolio da parte dei ribelli in un porto controllato dai federalisti di
Bengasi), si è dovuto dimettere ed è fuggito prima a Malta e poi in Germania, perché
lo avevano minacciato di morte. È lo stesso
premier sequestrato per un giorno l’anno
scorso al centro di Tripoli. Sono sequestri
“pedagogici”; tre giorni fa si è dimesso il suo
successore, perché sono entrati a casa sua di
notte e hanno minacciato con le armi lui e la
sua famiglia.
Oggi con la Libia non c’è un’interlocuzione;
l’abbiamo già visto: fai una conferenza internazionale, tratti, elabori una linea di intervento e poi cambia tutto!
La Libia rischia di diventare la Somalia del
Mediterraneo; non ci sono gli Shabab, però
ci sono le milizie armate sui pick-up Toyota
col mitra sul cassonetto... La situazione si è
esacerbata quando il governo ha smesso di
pagare il mensile ai miliziani e ne ha chiesto
il disarmo per assumerli in un qualcosa che
doveva essere la polizia libica. A Bengasi
hanno fatto un attentato stile Afghanistan,
proprio dove reclutavano poliziotti, per far
capire che i gruppi federalisti non avrebbero permesso che si affermasse una forza di
polizia centrale con sovranità su Bengasi e
sulla Cirenaica in generale.
La questione libica è di enorme spessore politico, ma finora nessun paese ha manifestato l’intenzione di affrontarla seriamente. Le
missioni fatte sono state tutte fallimentari.
Tra l’altro, i militari italiani che vanno in
Libia devono muoversi assieme ai contractor francesi e inglesi, gli unici che hanno le
armi... Riguardo gli accordi di partenariato
ci sono poi due problemi: il primo è che la
Libia non aderisce alla convenzione di Ginevra; il secondo è che nessun libico arriva
in Italia per chiedere asilo o per qualunque
altro motivo. Escluso qualcuno del giro di
Gheddafi, arrivato a Lampedusa con lussuosi yacht subito dopo l’inizio della primavera
araba, di libici venuti a chiedere asilo in Italia non se ne sono visti. Dalla Libia arrivano
tutte persone che provengono da altri paesi
e questo rende molto difficile la negoziazione perché non hai niente da offrire. Gli unici
argomenti di scambio con la Libia restano
gas, petrolio e infrastrutture, che è poi il terreno dell’accordo tra Berlusconi e Gheddafi,
in parte ancora operativo. Anche per questo
temo ci aspettino altre stagioni di sbarchi e
di gravi violazioni dei diritti umani dei migranti e dei loro stessi corpi, da una parte e
dall’altra del Mediterraneo.
(a cura di Barbara Bertoncin e Bettina Foa)
Sistema Europeo Comune di Asilo
In seguito alla riunione del Consiglio
europeo svoltasi a Tampere nell’ottobre
1999 è stato programmato una cosidetta “armonizzazione” delle politiche in
materia di asilo attraverso il cosiddetto
“Sistema Europeo Comune di Asilo” -parallelamente allo sviluppo di una comune
politica in materia d’immigrazione e di
contrasto alla criminalità organizzata.
Tre principali direttive stabiliscono gli
standard minimi comuni: il significato e
il contenuto della protezione internazionale -status di rifugiato e protezione sussidiaria- (“decreto qualifiche”); la procedura per la presentazione della domanda
di protezione ai fini del riconoscimento di
una forma di protezione (“decreto procedure“); le norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati
membri (“decreto accoglienza”).
Il cosiddetto regolamento di Dublino (accompagnato dal regolamento Eurodac)
stabilisce invece i criteri per la determinazione dello Stato membro competente
per l’esame di una domanda di protezione
internazionale. Nonostante ciò, il sistema
attuale non riesce a fornire una protezione equa, efficiente ed efficace e gli Stati
membri presentano tuttora realtà molto
differenti.
Riferimenti
“Decreto qualifiche”:
Direttiva 2004/83/CE del Consiglio del
29 aprile 2004, attuata con il decreto
Legislativo 19.11.07 n. 251/2007. Rifusa
nel 2011 dalla direttiva 2011/95/CE, recepita in Italia con il Decreto Legislativo
21.02.2014 n. 18/2014.
“Decreto procedure”:
Direttiva 2005/85/CE del Consiglio del 10
dicembre 2005, recepita in Italia con il D.
Lgs. 28.01.2008 n. 25/2008. Rifusa dalla
Direttiva 2013/32/CE del 26 giugno 2013,
recepita in Italia con il D. Lgs. 21.01.2015
n. 21/2015.
“Decreto accoglienza”:
direttiva 2003/9/CE del Consiglio del 27
gennaio 2003, attuata Italia con il D. Lgs.
30.5. 2005, n. 140/2005. Rifusa nel 2013
dalla Direttiva 2012/33/CE del 26 giugno
2013, recepita in Italia entro luglio 2015.
“Sistema Dublino”:
1) regolamento 604/2013/CE (luglio
2013), il ccdd “Dublino III”, abroga il precedente regolamento nr. 343/2003 (c.d.
“dublino II”), sullo stato membro responsabile all’esame di una domanda di asilo;
2) il regolamento Eurodac n. 2725/2000/
EC dell’11 dicembre 2000 per il confronto
delle impronte digitali e l’efficace applicazione del regolamento Dublino, e il suo
regolamento di attuazione n. 1560/2003.
21
Il patto d’accoglienza
L’esperienza del Comune di Modena nel racconto di Fausto Stocco, che dal 2005 è incaricato di curare l'accoglienza di profughi e
richiedenti protezione internazionale.
Ho lavorato in questi anni con dei funzionari pubblici seri e preparati, ma soprattutto
attenti alle questioni e consapevoli del ruolo
importante che può assumere, nel concreto,
l’istituzione pubblica locale nell’occuparsi di
questi temi, per quanto complessi. Mi è stato dimostrato che modalità ed esiti dell’accoglienza, sia rispetto ai singoli migranti che
ai luoghi e contesti in cui si inseriscono e a
chi già li abita, dipendono certamente dalle
norme e dai decreti dettati a livello nazionale (quasi sempre sulla scorta di emergenze
o comunque del presupposto della “temporaneità” e quindi “estraneità” della loro presenza) ma anche, e molto, dall’agire pratico
degli enti e delle istituzioni locali. Non solo
sul piano delle pressioni che possono esercitare nelle sedi deputate, sia sul piano politico che tecnico, a livello nazionale e regionale, ma anche nelle scelte operative e nella
definizione molto pratica di procedure, accordi, convenzioni, prassi sul territorio, con
i diversi interlocutori rilevanti.
Ne ho avuto dimostrazione sia rispetto a
quanto avvenuto sul territorio con l’Emergenza Nord Africa (2011-2012), che nella
fase iniziale dell’operazione Mare Nostrum.
Ancora prima con la gestione di un progetto
Sprar nel Comune di Modena.
Parto dallo Sprar, un sistema di accoglienza avviato in Italia dal 2001. Alle origini
si trattava di un progetto volontario e paritario tra enti locali, Ministero dell’Interno, Unhcr (Alto Commissariato Onu per i
rifugiati), basato su un protocollo d’intesa
per la realizzazione di un “Programma nazionale di asilo”. è stato il primo sistema
pubblico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, diffuso sul territorio italiano,
basato sulla condivisione di responsabilità
tra Ministero dell’interno ed enti locali. Un
sistema nato, è bene precisarlo, su piccoli numeri e in un momento in cui in Italia
nessuna norma imponeva ancora allo Stato
un obbligo di assistenza ai richiedenti asilo
senza mezzi di sussistenza, impossibilitati
per legge a lavorare anche per periodi molto
lunghi, necessari a completare la procedura
burocratica per il riconoscimento dello status di rifugiato. In quel periodo i richiedenti
asilo che rimanevano sul territorio nazionale erano pochi. I più si spostavano immediatamente nei paesi del Nord Europa. Non
era ancora efficace il sistema di rilevazione
delle impronte digitali comune (Eurodac)
che permette ai paesi dell’Unione europea
di verificare se un richiedente asilo sia già
transitato in un altro paese UE e reinviarvelo in base al Regolamento Dublino.
Dal 2005, per recepimento di una specifica
direttiva europea, anche l’Italia ha l’obbligo
di garantire assistenza ai richiedenti asilo
privi di mezzi di sussistenza. E dal momento in cui l’accoglienza è diventata un obbligo
per lo Stato e la presenza di richiedenti asilo
si è fatta maggiormente stabile, sono stati
affiancati al modello Sprar sistemi governativi paralleli di accoglienza, a gestione centralizzata. Nascono i Cara, le strutture temporanee, i centri polifunzionali, i programmi
emergenziali.
Lo Sprar, come modello di accoglienza basato sulla rete degli Enti Locali, nel frattempo
è stato sì istituzionalizzato e stabilizzato,
ma è rimasto a lungo uno strumento minoritario in termini di numeri, almeno fino allo
scorso anno (3000 posti di accoglienza complessivi ripartiti tra circa 150 enti locali su
tutto il territorio nazionale fino al 2013, finalmente aumentati nel 2014 a oltre 20.000
ripartiti tra 382 enti locali).
Lo Sprar non è certo la panacea di tutti i
problemi, e va detto con chiarezza che, da
sempre, ma soprattutto dopo l’ultima estensione da 3.000 a 20.000 posti, coesistono al
suo interno progetti e modalità di accoglienza molto diversi tra loro, pur in presenza di
linee guida sugli standard dei servizi uguali
per tutti e di regole di accoglienza chiare sin
dall’inizio per le persone accolte.
Quel che mi preme qui indicare sono le caratteristiche che, a mio parere, rendono interessante il progetto Sprar del Comune di
Modena.
Il progetto è inserito e integrato all’interno
delle più articolate attività del Centro Stranieri, struttura pubblica - unità operativa
specialistica del Comune, cui è attualmente
attribuito il ruolo di facilitatore e di promotore di azioni orientate: alla tutela dei diritti
fondamentali dell’uomo, a favore di cittadini stranieri presenti sul territorio anche se
non residenti, regolari e irregolari, caratterizzati da situazioni di forte disagio sociale
e sanitario e a forte rischio di esclusione e
marginalità sociale; all’informazione, all’orientamento e alla semplificazione delle
procedure connesse all’accesso ai servizi e
alla richiesta o al rilascio dei documenti di
soggiorno, promuovendo reti territoriali e
protocolli d’intesa con gli enti e le istituzioni
(Questura, Prefettura) coinvolti; alla promozione dell’integrazione e della convivenza sociale nella città.
La gestione del progetto è svolta in modo
integrato con tutte le altre funzioni del Centro stranieri ed è diretta in capo al Comune.
Questo significa che, pur avvalendosi dello
strumento dell’appalto e non potendo chiaramente svolgere direttamente ogni attività operativa, il Comune mantiene la piena
titolarità e responsabilità del progetto e
dell’accoglienza nei confronti di ogni singola
persona inserita. Ciascuna persona accolta
firma così il contratto di accoglienza direttamente con il Comune, che ne è referente.
Nel contratto sono esplicitati con chiarezza
e in modo formale i reciproci impegni, le
condizioni e i termini del progetto, modificabili e personalizzabili al bisogno sulla base
di parametri e procedure trasparenti. Per
garantire alle persone accolte, fin dall’ingresso, la massima autonomia possibile e
la possibilità di entrare in un contesto di
ordinaria quotidianità nel tessuto cittadino, l’accoglienza viene realizzata attraverso
l’inserimento, in regime di concessione amministrativa, in appartamenti autonomi, di
proprietà o assunti in locazione dal Comune,
diffusi sul territorio. Allo stesso modo vitto,
vestiario, beni di prima necessità vengono
garantiti non attraverso forniture o servizi
di terzi, ma attraverso l’erogazione di un
contributo economico alla persona su base
mensile, in modo da incentivare al massimo
l’autonomizzazione e la ricostruzione di una
normale quotidianità e di legami con il territorio, garantendo parallelamente il rispetto
Domande di protezione internazionale nell’UE
Nel 2014: 626.000
Germania 202.700 (32% del totale)
Svezia 81.200 (13%)
Italia 64.600 (10%)
Francia 62.800 (10%)
Ungheria 42.800 (7%)
Questi cinque paesi hanno registrato insieme più del 70% di tutte le domande di asilo effettuate nei 28 paesi UE.
In confronto con la popolazione del paese membro, il più alto numero di richieste sono state registrate in Svezia (8.4 richiedenti asilo
per 1.000 abitanti), Ungheria (4.3), Austria (3.3), Malta (3.2), Danimarca (2.6) e Germania (2.5).
Delle 626.000 domande di protezione internazionale, la Siria (20%) e l’Afghanistan (7%) sono i paesi di provenienza più rappresentati.
(Fonte: EUROSTAT – newsrelease 53/2015 – 20 March 2015 – “Asylum in the EU”).
22
per le singole abitudini culturali e le scelte
personali di consumo. Viene garantito l’accesso e l’abbonamento al trasporto urbano
e la copertura delle spese per farmaci e prestazioni non coperte dal Servizio sanitario
nazionale.
Nel corso dell’accoglienza, un’équipe di operatori affianca e orienta i beneficiari, con l’intervento del mediatore linguistico culturale,
quando necessario o richiesto dalla persona,
predisponendo forme di sostegno condivise
che includono: l’orientamento e l’accompagnamento ai servizi e alle opportunità del
territorio; l’orientamento e sostegno in ogni
fase della procedura connessa alla domanda di protezione internazionale; il sostengo
per le pratiche connesse al rilascio/rinnovo
dei titoli di soggiorno; l’apprendimento della lingua italiana, il costante monitoraggio,
l’orientamento e la facilitazione all’accesso a
corsi di formazione e riqualificazione professionale; l’attivazione di tirocini formativi in
collaborazione con il Centro per l’Impiego e
il Servizio di Inserimento Lavorativo del Comune, l’accesso ad attività sportive o ricreative. Viene curata, attraverso la collaborazione con il Centro Servizi Volontariato, la
possibilità per le persone che lo desiderano
di attivare percorsi di volontariato o partecipazione ad associazioni del territorio.
L’accesso ai servizi sanitari rientra a pieno titolo negli accordi di programma che il
Comune di Modena stipula con l’azienda
Ausl-Distretto 3 di Modena, nell’ambito del
piano per la salute e il benessere sociale e
dei relativi programmi attuativi annuali, in
cui rientrano esplicitamente anche i richiedenti e titolari di protezione internazionale
presenti sul territorio.
è stato curato negli anni, anche organizzando incontri informativi, il rapporto con
i medici di medicina generale, che hanno
maturato in alcuni casi esperienza e capacità di riconoscere segni e sintomi di traumi
derivanti da violenza e percorsi migratori
difficili. è stata costruita una solida collaborazione con l’Ausl di Modena, Dipartimento
di Salute Mentale e Servizio di Psicologia
Clinica, iniziata dal 2009 tramite un progetto di formazione specifico in materia di
tutela delle vittime di violenza e tortura. Da
allora un gruppo di psichiatri e psicologi del
servizio pubblico, che si allarga nel tempo,
ha acquisito competenze specifiche sul tema
del sostegno alle vittime di tortura e si incontra con cadenza regolare con l’équipe e
il supervisore per confrontarsi sulle persone
accolte che presentano queste fragilità.
Il progetto ha attivato uno sportello di orientamento e informazione aperto al pubblico
un giorno a settimana, rivolto alla cittadinanza, ai richiedenti e titolari di protezione internazionale o umanitaria presenti sul
territorio o a coloro che volessero presentare
domanda di protezione, tramite cui si fornisce ogni informazione utile in merito alla
protezione internazionale, orientamento ai
servizi del territorio, supporto per il disbrigo delle pratiche burocratiche, ascolto, informazioni e orientamento alle persone che
arrivano e chiedono l’accesso all’accoglienza
Sprar.
Nella gestione di queste attività, il progetto
mantiene uno stretto rapporto con i referen-
ti della Questura-Ufficio Immigrazione e
della Prefettura. Queste istituzioni, in base
alla normativa vigente, svolgono localmente un ruolo primario rispetto alle procedure
che interessano queste persone, sia rispetto
alla domanda di protezione internazionale,
sia rispetto alle misure di accoglienza. Per
questo si è lavorato per strutturare in modo
formale questo rapporto, giungendo alla firma del “Protocollo d’intesa sulle procedure
di accesso alle misure di accoglienza per richiedenti protezione internazionale previste
dal D. Lgs. 140 del 30 maggio 2005”, siglato
dalla Prefettura, dalla Questura e dal Comune attraverso cui viene fornito supporto a
chi, presente sul territorio, intenda presentare domanda di protezione internazionale e
chiedere accesso alle misure di accoglienza.
Credo importante sottolineare ancora l’importanza del ruolo che un ente locale può
giocare nel promuovere questi protocolli e
accordi operativi.
è un dato di fatto la profonda difformità con
cui, su questi temi, le norme e le procedure
vengono applicate nelle prassi locali di queste istituzioni e come molto spesso il funzionamento delle cose finisca col dipendere
dalla buona volontà di singoli funzionari. Il
protocollo operativo che ho richiamato non
stabilisce nulla di nuovo, ma esplicita, con
reciproco riconoscimento, i ruoli e le responsabilità che spettano a ciascuna istituzione
in base alle norme esistenti, e individua
delle procedure operative condivise e chiare
per metterle in atto, nell’auspicio che possano funzionare a prescindere dalla buona
volontà dei singoli.
Secondo i medesimi principi sperimentati
nella gestione del progetto Sprar, e più in
generale nella gestione del Centro Stranieri, il Comune di Modena ha cercato di gestire anche l’accoglienza delle persone nell’ambito dell’Emergenza Nord Africa, con alcune
specificità rispetto ad altre esperienze, che
penso abbiano dato esiti positivi.
Anche nel caso dell’Emergenza Nord Africa,
il Comune ha assunto un ruolo di diretta responsabilità nella gestione dell’accoglienza
delle persone arrivate in città. Ha quindi
stipulato direttamente la convenzione con
la Protezione Civile. Dato l’elevato numero
di persone da accogliere, il Comune ha in
seguito attivato, oltre a un’accoglienza diretta attraverso il Centro Stranieri, anche
delle convenzioni tra il Comune stesso con
più enti gestori sul territorio (associazioni e
cooperative sociali), stabilendo standard comuni simili allo Sprar. In ogni caso, il contratto di accoglienza individuale era sempre
stipulato tra il Comune e la persona accolta,
a prescindere dal fatto che alloggiasse presso un ente gestore.
Come detto, si è fatto uso fin da subito di
un contratto/patto di accoglienza siglato
tra Comune e singola persona, dove venivano esplicitati impegni reciproci e termini
dell’accoglienza, nella convinzione che pur
nella totale incertezza delle regole in quella fase, esplicitare un accordo con tempi e
impegni sarebbe stato fondamentale alla
relazione e alla responsabilizzazione di tutti. In mancanza di date di scadenza definite dalle norme, all’inizio il contratto veniva
impostato con scadenza trimestrale, chiara-
mente rinnovabili, scadenza che comportava comunque il dover risedersi davanti a un
tavolo periodicamente per fare il punto sul
percorso individuale e condividere i passi
successivi. In questo modo molte persone,
francamente molto stanche dopo due anni
di attesa, al termine dell’iter della domanda d’asilo e del ricevimento del permesso,
sono uscite volontariamente dall’accoglienza senza attendere la chiusura nazionale
del programma. Al momento dell’ordinanza
di chiusura dell’Emergenza Nord Africa, a
dicembre 2013, delle 113 persone accolte ne
erano rimaste in accoglienza circa quaranta, uscite poi con tranquillità nei successivi
tre mesi.
Come nel caso dello Sprar, anche nella gestione dell’Emergenza Nord Africa si sono
evitati centri collettivi di accoglienza ma si è
fatto ricorso, anche con fatica dato l’elevato
numero di accolti, a sistemazione in appartamenti a gestione autonoma da parte degli
ospiti.
Il medesimo modello è stato replicato su
scala provinciale, attraverso la creazione di
un tavolo, sia politico che tecnico, cui hanno
attivamente partecipato per tutta la durata dell’emergenza i comuni capodistretto, la
provincia, la questura.
Anche nel caso dell’attuale operazione Mare
Nostrum, che introduce nuovamente una
forma di accoglienza parallela e di emergenza, vorrei sottolineare come la circolare del
Ministero dell’Interno 2204 del 19/03/2014,
con cui si chiede alle Prefetture di individuare i posti di accoglienza e stipulare le
convenzioni a livello locale, pur prevedendo
uno schema di massima della convenzione
medesima basato sul modello del centro
collettivo, ammette esplicitamente la possibilità che lo stesso possa essere “modificato
sulla base delle specifiche esigenze territoriali”. Pure in questo caso ravviso un margine per l’intervento locale che orienti e regoli
con buonsenso le modalità di accoglienza. E
certamente l’ente locale può essere per questo interlocutore fondamentale.
(intervento a Euromediterranea 2014
“Borderlands”).
Sentenza Tarakhel contro Svizzera
La Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene l’Italia uno Stato non completamente sicuro per i richiedenti asilo più vulnerabili, anche se non individua problemi
“sistematici” come per la Grecia.
Con la sentenza, pronunciata il 4 novembre 2014, nel caso Tarakhel c. Svizzera,
la Grande Chambre della Corte europea
dei diritti dell’uomo ha dichiarato che,
allo stato attuale, il rinvio verso l’Italia
di richiedenti asilo (“Dublinati”) particolarmente vulnerabili, quali un nucleo familiare con minori, è suscettibile, in mancanza di adeguate garanzie, di violare il
divieto di trattamenti inumani o degradanti, sancito dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu).
23
Uomini e fantasmi
L’accoglienza dalla prospettiva degli operatori
Luigi Monti è direttore della rivista Gli Asini,
che nel 2012 ha dedicato un dossier speciale
dal titolo “L’Africa in casa”, ripreso ora nel
numero 25, di gennaio-febbraio 2015, con una
seconda raccolta “Accogliere o respingere”.
Un paio di premesse
Due premesse necessarie a inquadrare le
considerazioni che sto per fare. La prima.
Non sono un esperto di politiche migratorie
né un sociologo dell’immigrazione. Tramite
un’associazione di promozione sociale insegno italiano ad adulti stranieri e faccio attività di animazione territoriale in un piccolo
comune del modenese. L’unica esperienza di
lavoro diretto con richiedenti asilo è circoscritta a un anno di sostegno al percorso di
accoglienza e integrazione messo in piedi,
ai tempi della cosiddetta “Emergenza Nord
Africa” (Ena), dai servizi sociali del comune in cui insegno italiano, per 11 uomini e
donne nigeriani provenienti dalla Libia e
sbarcati sulle coste italiane ai tempi delle
cosiddette “primavere arabe”.
Non sono nemmeno uno storico dei paesi
africani (il continente da cui provengono la
maggior parte dei miei studenti) anche se
sarebbe doveroso raccogliere qualche informazione in più sulla storia, la letteratura, la
politica dei paesi d’origine di chi frequenta
la scuola.
Non so se l’intervento, circoscritto, a cui mi
è capitato di partecipare in quei mesi mi ha
portato a conoscere meglio loro -la loro cultura di appartenenza- ma indubbiamente
mi ha permesso di comprendere meglio noi:
i nostri sistemi di accoglienza, cura e educazione insieme alla cultura e all’organizzazione di chi oggi in Italia opera nel sociale.
La seconda. Suggerisco di fare la tara a
quanto sto per scrivere; di inserire il mio
ragionamento in una cornice maniaco-depressiva.
Da una parte tutto quanto fa (o comunica)
chi lavora, da qualunque posizione e con
qualsiasi ruolo, nell’ambito delle migrazioni
forzate va considerato una “questione di vita
e di morte”: la possibilità per chi fugge dal
proprio paese di rifarsi una vita dignitosa
“al di qua del mare” dipende molto dal tipo
di accoglienza che incontrerà e dalle scelte,
quotidiane, compiute da chi accompagna e
sostiene nei primi mesi la sua permanenza
nel nostro paese.
gli atteggiamenti che tenevano a
scuola erano troppo omogenei, troppo
simili per essere attribuiti al carattere
Ogni attore di questo processo, operatore
pubblico o del privato sociale, ha responsabilità delicatissime e per questo deve cercare di compiere al meglio il proprio lavoro.
Dall’altra non bisogna mai dimenticare che
al fondo, con le dovute evidenti differenze,
siamo tutti dei poveracci, loro che partono
e noi che li accogliamo, e quanto di buono
noi operatori facciamo dipende minimamente da noi, dalla nostra organizzazione, dalle
nostre procedure e massimamente dal caso
e dalla sorte. Dalle circostanze della vita.
La lingua dell’esilio
Prima della primavera del 2012, a parte
quello che raccontavano male e confusamente i media, solo in concomitanza di qualche emergenza politica o di qualche tragedia
umanitaria, non sapevo praticamente nulla
né della condizione giuridica e di vita dei
richiedenti asilo, né delle politiche e delle
pratiche attraverso cui essi entrano e permangono in Europa.
In che modo sono arrivato a mettere a fuoco quel poco che ho poi capito dello stato
dell’arte delle politiche e delle pratiche
dell’asilo in Italia e il “quid” di quella pagina
confusa della storia dell’accoglienza conosciuta col nome di Emergenza Nord Africa?
Attraverso la frustrante constatazione che
i miei studenti nigeriani non imparavano
l’italiano. Giovani, brillanti, con un livello
di scolarizzazione tutt’altro che disastroso, progredivano nell’apprendimento della
lingua molto più lentamente delle anziane
studentesse analfabete a cui pure in quel
periodo facevo lezione. La postura e l’atteggiamento che tenevano a scuola erano troppo omogenei, troppo simili per essere attribuibili solo al carattere di ognuno di loro.
Quella lentezza nell’apprendimento, quella
stanchezza costante, quella rassegnazione,
quella tendenza al lamento e alla recriminazione venivano solo dalle disastrose condizioni sociali e politiche da cui fuggivano,
dalla ferita dell’esilio e dello sradicamento,
che tutti, più o meno violentemente, avevano subito? O ferite, sradicamento e esilio si
impastavano a questioni di altra natura?
Quaderno nr. 3 della Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus
maggio 2015
Editor: Monika Weissensteiner, Edi Rabini
Hanno collaborato: Bettina Foa, Barbara Bertoncin, Maria Bacchi, Salvatore Saltarelli, Marianella Sclavi,
Anna Maria Gentili, Mohsen Farsad, Rosanna Sestito, Giulia Levi, Andrea Rizza, Sarah Baldiserra
Foto: di Andrea Rizza e Fausto Fabbri, se non altrimenti indicato.
A pag. 10 Department for International Development, UK. Di Borderline Sicilia alle pagg. 16, 19, 20, 35;
dei Girasoli alle pagg. 27-28; di Mantova solidale alle pagg. 31-32. Il disegno a pag. 7 è di Monika Weissensteiner.
Il San Cristoforo di copertina è di Konrad Witz, Museo di Basilea
Grazie a Una città per la collaborazione e l’accesso al suo Archivio delle interviste
Grafica, impaginazione e realizzazione: Società cooperativa Una Città, Forlì (www.unacitta.it)
Stampa: Galeati Imola (BO)
Quaderno 1,
ottobre 2012
Fondazione Alexander Langer Stiftung, Onlus
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I-39100 Bolzano/Bozen
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Realizzato con il contributo di: Provincia Autonoma
di Bolzano, Regione Trentino Alto adige-Südtirol,
Città di Bolzano
24
Quaderno 2,
dicembre 2013
Il diritto e la politica
Per capirci qualcosa di più, per farmi un
quadro più preciso, ho iniziato a studiare
il lavoro e le analisi dei gruppi e degli osservatori più attenti e attivi che in quegli
anni, come oggi, portavano avanti “progetti antagonisti” nell’ambito delle politiche
migratorie: penso soprattutto agli avvocati dell’Asgi, agli analisti di Sbilanciamoci!
ai collettivi che ruotano intorno a Melting
Pot, A buon diritto, ecc. E il quadro giuridico e amministrativo mi è risultato presto
molto chiaro: assenza di una legge organica
sull’asilo; una gestione diffusa sul territorio
(uno dei pochi aspetti positivi inaugurati
dall’Ena) ma senza che i territori avessero
preparazione né strumenti operativi adeguati; convenzioni stipulate dalla Protezione civile prima e dalle Prefetture poi con
cani e porci (alberghi, agriturismi, centri di
accoglienza palesemente corrotti o che sono
stati educati alla corruzione durante la gestione emergenziale); il folle inserimento di
tutti i profughi nel percorso della procedura
d’asilo, che ha generato tempi d’attesa lunghissimi e domande di protezione per paesi
(quelli da cui provenivano, non dalla Libia,
dalla Tunisia o dall’Egitto, da cui scappavano) in cui magari in quel periodo nemmeno c’erano condizioni politiche e sociali che
giustificassero qualche forma di protezione
internazionale; l’imprevedibile discrezionalità sommata all’incapacità gestionale di
molte questure italiane, “stati nello stato”,
che al di là dei frequenti episodi di razzismo,
avevano tempi di convocazione e rilascio dei
permessi lunghissimi se non palesemente
“fuorilegge”.
Insomma, un enorme e complicatissimo groviglio di nodi di ordine giuridico e politico.
Per questo, sul fronte delle rivendicazioni,
le poche voci che in quei mesi si levavano
più insistentemente a difesa dei profughi
reclamavano un’accoglienza più lunga, più
soldi, più servizi.
La pedagogia
Ma lentamente i conti hanno iniziato a non
tornarmi. Inutile girarci attorno: raramente
la matrice dei problemi che i miei studenti
portavano a scuola era di ordine giuridico e
direttamente collegabile al razzismo burocratico su cui da allora si è detto e scritto
tantissimo. Certo si potrebbe ammettere
che la bolla di inedia e di attesa usurante
in cui erano avvolte le loro giornate e che
impediva loro di apprendere la lingua italiana dipendesse principalmente dai tempi
imposti dalla legge italiana sull’asilo e dagli accordi europei di Dublino, accentuati
dall’estemporaneità del giro di valzer di
decreti e ordinanze emergenziali. Nonché
dall’impossibilità di lavorare e vivere imposta dalla procedura per la richiesta d’asilo:
come altro si impara la lingua, se non vivendo e lavorando?
Detto questo però i conflitti, quando non
l’aggressività vera e propria, e soprattutto
l’anestesia delle spinte vitali dei miei studenti nigeriani, del loro istinto di sopravvivenza, l’annebbiamento della loro capacità
di reagire e di “far da sé” che mi sembrano
gli effetti peggiori che una relazione educativa possa produrre, mi sono apparsi spesso
inevitabili e messi a sistema dalle relazioni d’aiuto di cui in quel momento erano oggetto. Non dipendenti principalmente dalla
normativa vigente, né dalla mancanza di
fondi negli interventi programmati, quanto
dagli strumenti e dalla cultura professionale dei loro “assistenti”. Sarebbe a dire di noi
educatori e operatori sociali.
se non ci fosse stata tutta l’impalcatura
assistenziale del programma di aiuto
avrebbero avuto molte più chance
Estremizzo, è evidente, ma molto spesso, di
fronte alla confusione dei miei alunni, alla
loro rassegnazione, alla loro inedia, alle
loro recriminazioni, giustificate o meschine
che fossero, mi ha sfiorato, e con una certa
presa, un pensiero “cattivo”: che se non ci
fosse stata tutta l’impalcatura assistenziale
del programma di aiuto e degli attori che lo
stavano attuando avrebbero avuto molte più
chance di mettere radici, che è quello che
loro avrebbero voluto e che la legge italiana
imponeva loro di fare.
I problemi che i miei studenti nigeriani portavano a scuola erano più prosaicamente
di quest’ordine: la collocazione in territori molto isolati; la convivenza forzata; una
gestione irrazionale, infantilizzante e assistenzialistica della gamma molto ristretta
di strumenti con cui operatori ed educatori
gestivano la loro quotidianità (il sistema dei
pocket money, ad esempio, o il trasporto,
quasi a uso taxi, con mezzi delle “misericordie” e delle “croci verdi”); una confusione
primordiale, loro e dei loro “assistenti”, sui
confini precisi del programma di protezione;
l’altrettanto confusa sovrapposizione degli
attori e delle istituzioni in ballo (per i miei
studenti la commissione territoriale, i servizi sociali, la questura, la prefettura, il comune, la scuola facevano parte di un’unica
confusa nebulosa); la socializzazione al lavoro che aveva più del riempitivo quando non
dello sfruttamento di manodopera gratuita;
infine quel misto di paternalismo, moralismo, controllo poliziesco, sistema di premi
e punizioni, insieme seduttivi e autoritari,
che mettevamo in piedi, spesso inconsapevolmente, noi operatori. Ecco se dovessi dire
quello che di più inguaiava i miei studenti
-anche in vista del momento in cui, finito il
programma di accoglienza, se la sarebbero
dovuta cavare da soli- può essere attinto da
quest’ordine di problemi più che dalla mancanza di fondi o dalla legge, seppur assurda, che regolava e regola il diritto d’asilo in
Italia.
Spreco d’umanità
Chi ha conosciuto e trascorso un po’ di tempo, oggi come allora, con profughi e richiedenti asilo sa che in molti casi la dipendenza assistenzialistica e lo spreco d’umanità
in cui sono immersi non sono originati solo
dall’assurdità della legge, italiana ed europea. La “galera” che quotidianamente costruiamo intorno a loro è frutto in buona
misura dei servizi e degli assistenti sociali
che li hanno in carico, degli educatori, delle cooperative per cui gli educatori lavorano, del meccanismo con cui gli enti pubblici
appaltano alle cooperative la gestione dei
profughi, degli operatori della prefettura,
degli assessori, dei dirigenti… Un esercito
di “brave persone” che continuano a servire
principi astratti e burocrazie amministrative ormai completamente scollate dalla realtà. Accettando in questo modo -ed è questa a
mio avviso l’elemento più gravido di conseguenze- la profonda irrazionalità e irrealtà
del loro lavoro.
Dico che è uno degli aspetti più gravidi di
conseguenze perché è a partire dal momento in cui metto a tacere il mio buon senso e
accetto che il mio lavoro sia in regola solo
perché risponde a procedure formali; è a
partire da quel momento che lentamente la
mia intelligenza, il mio senso pratico, le mie
capacità educative cominciano a consumarsi. E a quel punto anche una buona legge
sull’asilo o trasferimenti finanziari per fare
tante buone cose non serviranno poi a molto.
Morti e zombie
Può suonare molto stonato, a pochi giorni
dal naufragio del peschereccio che, nella
notte tra il 18 e il 19 aprile 2015, ha causato
la morte di oltre 800 persone (i cui cadaveri,
nel momento in cui scrivo, non sono ancora
stati recuperati né contati) spostare l’attenzione dalle istanze giuridiche e politiche che
sole potrebbero garantire un ingresso dignitoso ai migranti cosiddetti economici e un
reale diritto all’asilo a chi fugge dalla guerra. Ma se di riforme politiche si vuole parlare, che siano reali, efficaci, radicali: una
gestione degli ingressi improntata a forme
di liberalizzazione (poter entrare con il solo
Il profugo sta diventando l’icona del “sociale” di
questi anni come il matto lo è stato negli anni
Settanta, il tossicodipendente negli anni Ottanta
o l’immigrato a cavallo del millennio. In quanto “icona” la categoria del profugo è una rappresentazione speciale della realtà: da una parte ne
restituisce un’immagine verosimile, ma dall’altra l’opacità della rappresentazione che ne dà è
tale da giustificare e sorreggere un’impalcatura
assistenziale -trasferimenti finanziari, impianti
giuridici, dialettica politica, cultura e pratiche
pedagogiche- che con il reale ha ben pochi punti
di contatto (dall’editoriale del dossier “Accogliere
o respingere”).
25
passaporto? poter stipulare un contratto di
lavoro anche senza permesso di soggiorno?);
canali umanitari che garantiscano navigazioni sicure in quella pozzanghera che è il
Mediterraneo; una riforma radicale della
legge sull’immigrazione e l’introduzione
di una normativa organica sul diritto d’asilo, nonché uno stanziamento di risorse
sufficiente a rendere reale ed esigibile tale
diritto; la sperimentazione di forme di accoglienza improntate all’autorganizzazione
dei territori, magari attraverso reti in grado
di accogliere in famiglia uomini e donne in
fuga da condizioni politiche, economiche e
sociali disastrose.
Detto questo, non provoca in me minor scandalo dello stillicidio di morti nel Mediterraneo l’aiuto peloso o corrotto messo in piedi
dai nostri sfibrati sistemi di assistenza, cura
e educazione, che invece di aiutare i profughi a ricucire gli strappi dell’esilio, produce
un esercito di fantasmi destinato a vagare
per mezza Europa, incapace di ricostruirsi
una vita al di fuori dei grovigli delle nostre
burocrazie assistenziali.
Che fare?
Ai miei studenti, in quei mesi di Emergenza Nord Africa, non ho saputo dire niente di
più rivoluzionario che di iniziare a sopravvivere in autonomia “come se” gli aiuti non ci
fossero stati. Come farlo non ne avevo e non
ne ho la più pallida idea, dato che non sono
mai stato profugo in un paese straniero. Se
non qualche indicazione spicciola: comprendere i tratti generali della loro condizione
giuridica e del programma di aiuto in cui
erano inseriti, imparare la lingua, guardarsi intorno e stringere qualche amicizia
funzionale allo spirito e alla sopravvivenza. E soprattutto iniziare a pensare come
campare dopo che avessero ottenuto il tanto
agognato permesso di soggiorno: quel pezzo
di plastica avrebbe garantito loro “solo” la
possibilità di rimanere regolarmente in Italia, non certo forme di sostegno al reddito,
né tantomeno una casa o un lavoro.
A me stesso e agli “assistenti” che in quei
mesi ruotavano intorno a loro o a coloro
che oggi proseguono il lavoro in una cornice che sta purtroppo mettendo a sistema la
disastrosa gestione emergenziale dell’Ena
non so dire niente di più rivoluzionario del
piccolo prontuario che misi a punto in quei
giorni, per la sopravvivenza mia e dei miei
assistiti.
Primo: rompere le scatole verso l’alto. Verso
l’alto significa pretendere da chi sta immediatamente o molto sopra di noi -coordinatori, dirigenti comunali, assessori, responsabili della questura, ministri…- quelle
condizioni che rendono praticabile il nostro
lavoro e dignitosa la loro sopravvivenza.
Distribuire con lucidità e fermezza, responsabilità e compiti in proporzione al ruolo di
potere che si occupa.
Secondo: praticare l’obiettivo. Secondo una
bellissima definizione del sindacalismo mutualistico delle origini, nel mentre che si
rompono le scatole verso l’alto è fondamentale praticare dal basso. Sforzarsi di realizzare su piccola scala, “qui e ora”, ciò che si
pretende, per legge, dall’alto.
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Yang è nato a Jinan, nel Nord della Cina, nel 1979. A 11 anni è arrivato in Italia insieme alla madre:
è stato lavapiatti, venditore ambulante sulle spiagge, studente bocconiano, traduttore simultaneo per
ministri, imprenditori e registi internazionali, attore di teatro, tv e cinema e recentemente inviato
speciale de “Le Iene”. Yang è un cinese alto: 189 cm. Yang è un cinese bello. Yang non sa chi è. Attraverso la storia di Tong Men-g -primo spettacolo prodotto in Italia con protagonista un attore di origine
cinese- Yang ha fatto un viaggio alla ricerca delle sue origini, del rapporto con la sua madrepatria,
delle storie e delle vite dei suoi antenati; della “riprogrammazione culturale” avvenuta in Italia, delle
contraddizioni e possibilità della condizione di uomo orientale/occidentale.
(foto di Ilaria Costanzo)
Terzo: non perdere occasioni per mostrare
l’evidente trasversalità dei problemi e quindi svincolarsi da ogni approccio specialistico.
Disoccupazione, precarietà, degradazione
dei contratti di lavoro, difficoltà di accesso
ai servizi per la prima infanzia, affanno della scuola, per citare solo alcuni dei problemi
del territorio in cui lavoro, valgono per gli
stranieri come per gli italiani. La precarietà
della loro condizione giuridica espone i primi a una ricattabilità che consente di vedere meglio problemi che in realtà riguardano
tutti. E da tutti e per tutti vanno affrontati.
vittimizzare i profughi significava
alimentare la loro tendenza
a consumare tutte le spinte vitali
Quarto: operare per una liberazione reale,
non solo giuridica, delle persone con cui
lavoriamo. Operare “come se” dovessimo
rispondere solo a noi stessi: insegnare italiano “come se” ciò significasse aumentare le
capacità dei nostri studenti di scrivere, parlare e comprendere la nostra lingua; strutturare accompagnamenti sociali “come se”
ciò significasse metterli il prima possibile
nelle condizioni di camminare sulle proprie
gambe; progettare forme di socializzazione
al lavoro “come se” questo significasse creare le condizioni per trovare un’occupazione
(e un contratto) reale. Insomma “come se”
il lavoro educativo e assistenziale fosse un
lavoro vero (e capace di rendere pienamente
soddisfatto chi lo fa).
Quinto: cercare alleanze con “i saltatori di
muri” non con “le vittime”. “Vittima” (di
mafia, di tortura, di persecuzione politica
o razziale…) è diventata fra le minoranze
attive la parola a tutto tondo che sembra
spiegare ogni cosa e che in realtà, scansando
ogni complessità, non spiega proprio un bel
niente, elimina ogni progettualità, etichetta
e passivizza, offrendo al massimo un alone
di salvatore a chi con “la vittima” lavora.
Nei mesi di Emergenza Nord Africa è risultato molto evidente: vittimizzare i profughi
significava alimentare la loro tendenza a
consumare tutte le spinte vitali e le energie
psichiche intorno al miraggio del permesso di soggiorno o peggio all’elemosina dei
pocket money, rendendoli completamente
dipendenti da chi poteva elargire loro quel
permesso o quell’elemosina.
È facile in questa sede contrapporre alla
categoria di “vittima” quella langeriana di
“saltatori di muro”. Quando Langer parlava
di “saltatori di muro” aveva in mente una
postura e una gamma di tecniche molto concrete. Non si trattava per lui di un concetto
romantico, una categoria dello spirito. Saltatori di muro -coloro che riescono a distanziarsi dalla propria condizione originaria
senza con ciò tradirla- erano per Langer tutti coloro che, partendo da una determinata
posizione, magari di oppressione, sanno e
vogliono andare oltre, lavorare per il cambiamento. È con costoro, assistenti o assistiti che siano, che vale la pena progettare,
rimanere in movimento, condividere inquietudini e aspirazioni di liberazione.
La parola “aiutare”
e la parola “grazie”
Un racconto a più voci, tra cui quelle di
Michele Liuzzo, Santina Lombardo, Cettina Nicosiano, Calogero Santoro, raccolto
da Bettina Foa con alcuni animatori de “I
Girasoli”, un’associazione sorta nel 2006 a
Mazzarino che ha curato l’accoglienza di oltre 500 minori non accompagnati richiedenti asilo.
Il progetto di accoglienza di minori
non accompagnati di Mazzarino è considerata una buona pratica sia in Italia
che all’estero.
Il nostro progetto si chiama “Mazzarino,
città d’accoglienza”. Mazzarino, situato in
un ambiente collinare particolarmente bello, pieno di oliveti e di alberi da frutta, è
una città accogliente. Ha anche una tradizione di lotte contadine e alcuni dei nostri
nonni erano a Portella della ginestra il 1°
maggio del 1947. Questo ambiente favorevole è importante e significativo, ma qui
in Sicilia ci sono anche situazioni difficili e
contraddittorie. Il progetto di Mazzarino ha
sviluppato un approccio che si articola sui
tre assi principali dell’assistenza di base
(vitto e alloggio), dell’integrazione lavorativa e nel tessuto sociale (studio dell’italiano
e formazione) e della tutela (psicologica, legale e sanitaria). Vari interlocutori hanno
considerato originale il nostro modello di
accoglienza/integrazione/tutela, che non è
puramente assistenziale, ma basato sulla
promozione della centralità della persona e
della sua storia. E in effetti questo modello
è oggetto di studio sia a livello nazionale che
internazionale. Nel 2012 siamo stati invitati a partecipare al Festival internazionale di
terapia familiare, dove la psicologa del progetto ha presentato una relazione su questa
esperienza. Sempre nel 2012, nell’ambito
dell’European Network of Asylum Reception
Organisations (Enaro), che comprende una
ventina di organizzazioni europee impegnate nell’accoglienza dei richiedenti asilo, il
progetto è stato indicato dal servizio centrale dello Sprar come idoneo per uno scambio
di esperienze. Kari Madssen, responsabile
del sistema di accoglienza norvegese, è venuta a Mazzarino e si è fermata qui per un
po’ di tempo per capire le prassi adottate nel
nostro progetto elaborando poi un rapporto
molto positivo. Per noi questo scambio di
esperienza è stato un momento di confronto
arricchente. Il valore aggiunto importante
del nostro progetto è il modo in cui si lavora
quotidianamente e l’interazione con il contesto sociale, che ci permettono inoltre di approfondire i rapporti di collaborazione con le
istituzioni. Noi siamo convinti del fatto che
sia molto importante, per tutti, capire che il
servizio di accoglienza non è, e non può essere, il tramite di una mera prestazione, ma
il flusso di relazioni e di interazioni tra tut-
ti gli attori coinvolti nel servizio, interni ed
esterni alle strutture, che sollecita inevitabilmente un’evoluzione culturale. L’aspetto
relazionale presente nel confronto con gli individui, e quindi con i processi comunicativi
e intersoggettivi, induce a non ridurre il servizio di accoglienza a una semplice relazione
dove il ragazzo beneficiario sollecita l’operatore. Vi sono due modelli diversi di riferimento per quanto riguarda, più in generale,
i servizi rivolti alla cura delle persone: un
modello tradizionale in cui la persona beneficiaria dipende dal servizio e gli operatori
hanno un ruolo centrale rispetto all’utenza
che è passiva; e un modello legato all’organizzazione comunitaria in cui il potere degli
operatori viene meno. In quest’ultimo modello le informazioni sono condivise, e sono
valorizzate le competenze e le potenzialità
dei beneficiari dei servizi che assumono un
ruolo più autonomo e attivo in quanto membri consapevoli della comunità. Ed è questo
tipo di servizio di accoglienza che può essere
un’esperienza creativa di senso e di significati culturali, un luogo che arricchisce insieme i ragazzi beneficiari, gli operatori e tutto
il territorio. Un luogo in cui si manifestano
flussi di relazioni, in cui il dialogo è significativo e importante a condizione che i dialoganti, però, siano disposti a farsi trasforma-
re da questa esperienza. Stiamo cercando
di eliminare dal nostro linguaggio le parole
“aiutare” (da parte degli italiani) e “grazie”
(da parte dei migranti).
la politica dell’accoglienza
ha sottovalutato per troppo tempo
i bisogni formativi e culturali
è bene sempre privilegiare un’accoglienza
consapevole e condivisa dall’intero territorio. Interazione, integrazione, inserimento
lavorativo e sociale, non solo dal punto di
vista degli stranieri. La scelta dei luoghi
di accoglienza non è stato casuale e tiene
conto di questa necessità. In passato si è
sempre lavorato come in una fase perenne
di emergenza in cui prevaleva l’assistenzialismo (forse per compiacere i nostri orientamenti valoriali) senza stimolare forme di
autonomia dei beneficiari. La stessa politica
dell’accoglienza ha sottovalutato per troppo
tempo i bisogni formativi e culturali facendo
prevalere l’importanza delle necessità primarie (salute, alloggio), dimenticando che i
bisogni formativo-culturali non sono un “di
più”, un lusso da riservare agli immigrati di
cui si siano soddisfatti i bisogni essenziali.
Chi sono gli ospiti dello Sprar di Mazzarino? Com’è organizzata la vita di
27
ogni giorno, e come affrontate le problematiche della loro integrazione?
I ragazzi sono tutti minori non accompagnati richiedenti asilo di origine asiatica e
africana. Ognuno di loro con una storia di
migrazione diversa, diversa provenienza
geografica, un diverso vissuto, un modo diverso di interagire, ma accomunati dal fatto
di essere “identità di transizione”. Nel senso
che l’esperienza di migrazione comporta in
loro un continuo riassestamento interiore:
perennemente impegnati e coinvolti a mediare e a gestire mutamenti ambientali che
influiscono in modo rilevante sulla costruzione della propria identità soggettiva e della organizzazione della propria personalità.
Avvengono cambiamenti nella dimensione
temporale, in cui passato, presente e futuro rimangono momentaneamente sospesi
lasciandoli in bilico tra un passato da rielaborare e un presente privo di certezze; cambiamenti nella dimensione spaziale, cioè lo
spazio ambientale e geografico, lo spazio linguistico-comunicativo e lo spazio corporeo.
Tutto ciò comporta una revisione dei modi
di pensare, di immaginarsi nelle situazioni
future, di costruire il proprio percorso di crescita, di interpretare il mondo circostante
in relazione al nuovo ambiente. Una reinvenzione della propria identità. I ragazzi si
trovano in una condizione di stress emotivo
continuo che necessita un impegno psicofisico costante nel tentativo di autogestire e
superare nuovi compiti e sfide. Sfide in cui
la ricerca di risorse non avviene solo internamente ai ragazzi, ma anche nell’ambiente stesso, che assume un ruolo decisivo nel
contrastare o promuovere la costruzione di
un sé competente.
La vita quotidiana nel Centro deve essere
ben organizzata. Per esempio, al mattino c’è
il corso di italiano organizzato dai Girasoli
e il pomeriggio la frequenza alle lezioni per
ottenere la licenza di terza media. I ragazzi
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sono inseriti in due classi con altri ragazzi
di Mazzarino, in genere in ritardo con gli
studi. Ci sono un po’ di problemi perché il
metodo di insegnamento adottato, che è
quello per le scuole serali rivolto a italiani,
non è del tutto adeguato. L’organizzazione
delle case, situate tutte nel centro di Mazzarino e vicine tra di loro, funziona in genere
bene, con una responsabilizzazione e partecipazione dei ragazzi nella gestione e organizzazione degli spazi.
per inserirsi e fare delle amicizie
ci vuole tempo, e il tempo disponibile
è davvero poco
L’interazione e integrazione dei nostri ospiti con i mazzarinesi non è facile. L’appartenenza a un progetto, a una struttura di accoglienza, pone i ragazzi dei Girasoli in una
situazione di disparità rispetto ai ragazzi
autoctoni. Le possibilità di integrazione e
interazione sono inoltre legate allo spazio
temporale, perché per inserirsi e fare delle
amicizie ci vuole tempo, e il tempo disponibile in accoglienza varia a seconda dell’età
di arrivo dei ragazzi, età che quasi sempre
è quella dei 17 anni, ed è davvero poco un
anno e sei mesi per studiare, formarsi e
intrecciare rapporti amicali. Ma ci proviamo. Per esempio, il calcio, le palestre sono
strumenti e luoghi di interazione, anche se
superficiali. In questi giorni i ragazzi dei Girasoli sono stati invitati in una delle scuole
di Mazzarino per delle conversazioni in lingua inglese durante le ore di lezione con i
ragazzi delle classi e per narrare della loro
particolare condizione ed esperienza. E questa è stata una buona iniziativa di dialogo e
conoscenza. Alcuni dei ragazzi hanno partecipato a un corso di formazione per pizzaioli,
molto utile, e molti di loro vorrebbero intraprendere questa professione.
I tirocini formativi non sono obbligatori nel
sistema Sprar, ma chiaramente sono sempre auspicati dal servizio centrale con una
attenta indicazione dei fondi europei da
cui attingere per la loro realizzazione. Ultimamente siamo riusciti far finanziare un
progetto con il Ministero del lavoro per l’organizzazione di 50 tirocini. Anche in questo
caso i contatti con il settore pubblico e privato è molto importante. Le indennità dei tirocini per i ragazzi variano secondo la durata
e la tipologia e sono comunque molto utili,
soprattutto per coloro che vogliono e devono “continuare il viaggio” una volta usciti
dal centro. Dopo il tirocinio, pochi ragazzi
hanno avuto l’opportunità di un contratto
di lavoro nella stessa azienda. Pochi ragazzi
da noi accolti in questi anni ancora vivono
e lavorano in Sicilia e a Mazzarino. Molti
tornano però qui in vacanza, e considerano
Mazzarino ancora come la propria “casa”.
Una delle principali conclusioni del rapporto di Kari Madssen ha constatato ed evidenziato l’esistenza ai Girasoli di una grande
fiducia dei nostri giovani ospiti nei confronti
degli operatori del progetto. Intanto stiamo
riflettendo su altre forme di accoglienza e
integrazione, come l’affidamento o su una
campagna “adotta un rifugiato”. Ma bisogna
ancora lavorarci.
Com’è il processo per l’ottenimento del
permesso di soggiorno - diritto d’asilo?
La fantasia del legislatore si è sbizzarrita nel proporre le tipologie di permesso di
soggiorno. Ne esiste una quantità notevole
e tra i richiedenti asilo ce ne sono ben tre,
con differenti validità temporali e con possibilità o meno di attività lavorativa. Il più
complesso è il permesso di soggiorno per
“Dublino” (regolamento dell’Unione Europea) per stranieri la cui presenza è stata
segnalata in più di un paese dell’UE e che
serve a determinare lo Stato membro competente per la domanda di asilo. Tutto ciò
si traduce in tempi lunghissimi di attesa.
Per i richiedenti asilo dalla data della loro
richiesta all’audizione con la commissione
territoriale possono trascorrere anche 10,
12, 18 mesi. In tutto questo tempo i rifugiati e i migranti, oltre ad avere problemi di
sussistenza se non ci sono posti disponibili
in un centro d’accoglienza, restano sospesi
in attesa di sapere cosa potranno e non potranno fare della propria vita. Ma anche per
coloro che stanno nel Cara di Pian del Lago
la situazione è difficile, perché l’ente gestore non si è impegnato come avrebbe dovuto
a organizzare in modo adeguato lo studio
dell’italiano e le attività formative.
i confini territoriali
non fermano le persone in fuga
da guerre, persecuzioni e fame
Il caso di molti richiedenti asilo accolti negli
Sprar gestiti dai Girasoli è significativo: arrivati nell’ottobre 2013, alcuni saranno sentititi dalla commissione di Trapani nell’ottobre 2014 e altri a gennaio del 2015. E anche
dopo l’audizione i tempi per conoscere la
decisione della Commissione sono generalmente lunghi e imprecisi.
A Caltanissetta ci sono molti stranieri e diverse iniziative. Qual è il ruolo
dello Sportello migranti di Caltanissetta? Come lavorate in rete con altre
organizzazioni attive nell’accoglienza
ai migranti?
A Caltanissetta c’è un centro polifunzionale (il Centro di Pian del Lago) che riunisce
in uno stesso perimetro le tre tipologie di
centri per immigrati irregolari, come definiti dal Ministero degli Interni (Centro di
accoglienza -Cda; Centro di accoglienza per
richiedenti asilo -Cara e il Centro d’identificazione ed espulsione -Cie). Il centro è stato
istituito nel 1998 dopo l’approvazione della
legge Turco-Napolitano.
La maggioranza dei richiedenti asilo presenti a Caltanissetta è arrivata attraverso
il Mediterraneo; alla richiesta di asilo segue
un permesso di soggiorno (trimestrale o semestrale) in attesa della definizione della
pratica. Ma c’è anche un grandissimo numero di persone che arriva attraversando Iran,
Turchia e Grecia sui mezzi più disparati, si
tratta perlopiù di giovani afghani o pakistani anch’essi richiedenti asilo.
Lo sportello migranti di Caltanissetta non
è nato con i Girasoli, è stato creato nel 2005
in modo volontario da un piccolo gruppo di
persone, qualcuno già componente dei Girasoli, e da un avvocato da sempre impegnato
in questo ambito, nel tentativo di alleviare i
disagi connessi alla condizione di straniero,
contrastare i fenomeni di razzismo, fornire
un’informazione corretta e dare una lettura
diversa e non allarmistica sulla realtà degli stranieri presenti a Caltanissetta. A tale
scopo abbiamo elaborato un “piccolo libro
bianco”, Polvere sotto il tappeto.
Adesso collaborano allo sportello anche alcune delle persone che precedentemente
sono state accolte nello Sprar, come mediatori linguistici e culturali. Lo sportello è
aperto il venerdì pomeriggio dalle 16.00 alle
18.00 in via Re d’Italia 14 e funziona sulla
base di un accordo informale con il Comune.
Le persone vengono allo sportello per chiedere informazioni e farsi aiutare a espletare delle pratiche burocratiche. L’attività
principale è l’attribuzione di un indirizzo di
domicilio ai richiedenti asilo senza dimora
fissa che devono rinnovare il permesso di
soggiorno e che, altrimenti, senza un domicilio, non potrebbero rinnovarlo. Tra l’altro,
questo ha anche permesso di combattere un
vero e proprio mercato nero delle “dichiarazioni d’ospitalità”, il cui prezzo oscillava
tra i 300 e i 900 euro. Lo sportello è diventato un punto di riferimento importante
per i richiedenti asilo e i rifugiati e meta di
giornalisti e universitari per visionarne il
funzionamento.
La collaborazione con le altre organizzazioni presenti nell’area di Caltanissetta è importante e necessario. Ad esempio qualche
mese fa è stato fondamentale l’impegno comune con Borderline Sicilia nel monitoraggio degli accampamenti spontanei al di fuori
del Centro di Pian del Lago. Grazie alla mobilitazione di varie organizzazioni, e soprattutto alla collaborazione con le istituzioni, si
sono potute trovare delle soluzioni e adesso,
dalle 250 persone presenti a ottobre nell’accampamento spontaneo, si è passati a una
media di 35. Insieme abbiamo fatto pressione sulle istituzioni perché si assumessero le
responsabilità di loro competenza.
Cosa pensate della situazione attuale e
dell’aumento degli arrivi via Mediterraneo?
I confini territoriali non fermano le persone in fuga da guerre, persecuzioni e fame. I
confini e le politiche di confine servono unicamente a incrementare il traffico di esseri
umani e ad arricchire una oramai vasta organizzazione criminale di trafficanti. L’attuale situazione catastrofica in molti paesi
africani e asiatici spinge e spingerà inevitabilmente molti a raggiungere l’Europa, la
fortezza Europa. E nonostante ciò sia chiaro
ed evidente a tutti da tempo, in Italia si continua a lavorare su una base emergenziale.
In quest’ultimo periodo è stato creato un sistema di accoglienza parallelo sempre allo
Sprar gestito dalle prefetture. E allo stesso
tempo i fondi per l’allargamento dello Sprar
sono erogati a rilento, nonostante tutto il lavoro realizzato da comuni e enti gestori per
preparare i nuovi progetti Sprar, valutarli
e rendere disponibile il cofinanziamento. è
stata privilegiata ancora una volta la mobilitazione di hotel e di organismi insufficientemente preparati per l’accoglienza.
Principio di non-refoulement
Nessun stato può espellere o respingere
una persona, chiunque sia, in un altro
stato qualora vi siano possibilità che
in tale stato la persona rischi di essere
sottoposta a tortura, maltrattamento o
punizioni disumane.
Riferimenti: Convenzione di Ginevra sullo Statuto dei Rifugiati (1951, art. 33), il
relativo Protocollo (1976) e il principio di
non-refoulement; Convenzione contro la
tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (UNCAT 1984,
art. 3.1); Convenzione internazionale
sui diritti civili e politici (ICCPR, 1966,
art. 7); Convenzione Europea dei Diritti
dell’Uomo (ECHR, 1950, art. 3) come interpretata dalla Corte Europea del Diritti
Umani (ECtHR) nel caso Soering v. United Kingdom (Judgment of 7 July 1989,
Series A no. 161).
Certo, lo Sprar è stato fino ad ora un gioiellino, con 30-40 progetti e il suo allargamento
non sarà necessariamente facile. In effetti, molti degli enti gestori che sono entrati
adesso nel sistema hanno negli anni passati
gestito dei Cara, applicando quindi dei criteri di qualità molto più bassi di quelli dello
Sprar e con un approccio spesso clientelare.
Anche il monitoraggio a livello nazionale
non sarà così facile da realizzare, visto che
fino ad ora l’organico del servizio centrale
sembra essere rimasto com’era.
l’accoglienza non è un problema
di risorse, ma di buona gestione
delle risorse
Per far fronte a breve termine a questi nuovi
arrivi bisogna trovare delle soluzioni intermedie, con i Cara che dovrebbero svolgere
un ruolo di prima accoglienza. In un secondo tempo è importante favorire l’accoglienza
diffusa come quella dello Sprar, perché se
c’è troppa centralizzazione (come succede
adesso nei Cara) le persone si perdono e
non riescono ad avanzare. Secondo la nostra
esperienza, l’accoglienza non è un problema di risorse, ma di buona gestione delle
risorse. Si può fare molta più accoglienza
e di migliore qualità a un costo inferiore di
quello attuale dei Cara e del sistema gestito
dalle prefetture, in cui si è creato un vero e
proprio business dell’accoglienza. E questo è
particolarmente evidente in Sicilia.
Sono 25.000 i minori registrati dall’inizio del 2014 sulle coste italiane. Circa il 65% sono minori stranieri non accompagnati. L’incremento delle presenze nei centri nel 2014 rispetto al 31/12/2013 è stato del 42,44%.
I minori non accompagnati che sbarcano sulle coste italiane hanno avuto in passato generalmente un’età compresa tra i 15 e i 17 anni.
Nel 2014 si è assistito ad un incremento della presenza di minori stranieri non accompagnati di età inferiore.
Oltre 3.700 sono stati i Minori Stranieri non Accompagnati scomparsi nel 2014 dai Centri di Accoglienza. Su 14.243 scompare il 26%;
1 su 4, una volta arrivato in Italia, fa perdere le proprie tracce. Solo in Sicilia i minori stranieri non accompagnati scomparsi dai centri
sono 1.882 su 4.628 registrati.
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200 euro e un biglietto
per la Germania
Maria Bacchi dialoga con Yaya Mane e Samuel Gandabie, arrivati a Mantova nel 2011
durante la cosiddetta Emergenza Nord Africa. Le loro vite si sono incrociate nella rete di
rifugiati di cui si occupa Mantova Solidale,
una piccola Onlus nata all’inizio del 2013.
Cosa è importante dire, secondo voi?
Cosa vi sentite di raccontare?
Yaya e Samuel (insieme, ridendo): Mamma
mia!
Maria: Perché dite così?
Yaya: Perché è una storia dolorosa. E’ per
questo motivo che non mi piace raccontare
la mia storia.
Mi chiamo Mane Yaya, sono nato il primo
gennaio 1991 in Costa D’ Avorio, ma i miei
genitori sono senegalesi. Durante la guerra in Costa d’Avorio mio padre è morto; io
con mia mamma, mia sorella e mio fratello
ci eravamo nascosti; dopo due giorni siamo
tornati a casa e abbiamo trovato mio padre già morto. Dopo abbiamo organizzato il
viaggio per andare in Senegal, a casa di mio
nonno. Ho iniziato a studiare ma non potevo
continuare, non avevamo soldi, così ho comprato il biglietto per andare in Mali. Arrivato in Mali ho cercato lavoro come muratore
e ho guadagnato abbastanza per comprare
il biglietto per andare Algeria; lì ho guadagnato un po’ di soldi per andare in Libia con
alcune altre persone.
abbiamo iniziato a camminare
alle otto di sera e siamo arrivati in Libia
alle sette di mattina
Abbiamo pagato un arabo che ci ha portato in un paese sulla strada per la Libia, ma
non c’erano più soldi per andare avanti; allora abbiamo deciso di camminare. Abbiamo
iniziato a camminare alle otto di sera e siamo arrivati in Libia alle sette di mattina, in
un una città che si chiama Ghat. Eravamo
tre gambiani e tre senegalesi. La mia testa
girava, non c’era acqua, non c’era niente da
mangiare, non avevo più forza. Poi un libico
ci ha visto.
Ti hanno lasciato passare alla frontiera?
Yaya: Lì ci sono i militari e noi siamo entrati
per una stradina nascosta. Abbiamo chiesto
a quell’arabo dov’era la casa dei senegalesi
e lui ci ha portato in macchina, gli abbiamo dato un dinaro, pochi soldi. La casa dei
senegalesi prendeva tutti quelli che arrivavano. Quando arrivi dai a loro tutti i soldi.
Una volta, dopo, quando ho trovato da lavorare e ero libero, abbiamo fatto una riunione per dare dei soldi per quelli che erano
dentro. Abbiamo formato una associazione
per aiutare gli altri che arrivavano e non
avevano persone che potevano aiutarli per
pagare. Quella casa era una prigione. Quanto tu arrivavi là non avevi più niente, allora
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chiamavi la tua famiglia e quando i tuoi ti
mandavano i soldi loro ti facevano uscire. Io
sono rimasto in questa casa solo una settimana perché c’era un mio amico lì in Libia;
l’ho chiamato lui e mi ha mandato i soldi.
Per il resto, loro ti portano da mangiare ma,
fino a quando tu non trovi i soldi, non puoi
uscire da questa casa: ti fanno rimanere lì
tanto tempo, certi ci sono rimasti due anni.
Io ho trovato lavoro nell’edilizia, mettevo i
ferri per le costruzioni; il proprietario era un
libico.
Samuel: Guarda il camion che mi ha portato
fino in Libia (mi mostra, dopo averla cercata
su Internet, la foto di un camion stracarico
di persone e bagagli). Io ci ho impiegato due
mesi per arrivare dal Ghana alla Libia.
Yaya: Io ci ho impiegato un anno dal Senegal, perché non avevo soldi e dove arrivavo
mi dovevo fermare per lavorare e guadagnare qualcosa.
Samuel: Quando nel 2011 c’è stata la guerra non c’era più una strada per tornare in
Ghana o in Senegal o in Nigeria, non potevi
più tornare indietro, non c’erano neanche
più aerei. Una notte ero a casa, sono venuti,
mi hanno detto di venire fuori e mi hanno
portato nel posto dove ci mettevano sulle
barche.
Tu, Yaya, hai detto che avresti voluto
tornare in Senegal…
Yaya: Anche dove abitavamo noi, i soldati
sono venuti di notte, ci hanno preso tutto,
ci hanno caricato su un furgone e ci hanno
portato al porto per venire qui. C’era della
gente che scappava perché non voleva imbarcarsi; li hanno presi per i piedi, li hanno
caricati sulle barche per farli partire. Dovevi andare per forza.
Samuel: Anche a me è successo. Ma perché
hanno fatto così? Prima, quando parlavamo,
Yaya ha detto che Gheddafi aveva fatto un
contratto con l’Europa, ma poi ci sono stati
problemi e i libici hanno detto a tutti di andare in Europa. Prima non si poteva partire,
poi con la guerra invece ci hanno costretti,
dicevano: “A noi libici non servite qua!”.
Yaya: Siamo partiti venerdì 3 maggio, abbiamo fatto venerdì, sabato e domenica in mare;
domenica siamo arrivati a Lampedusa.
Samuel: Eravamo sulla stessa barca, probabilmente. A un certo punto si è rotta, saremo stati in 950, forse di più. C’era troppo
caldo, era finita l’acqua.
Yaya: C’era una ragazza nigeriana vicino a
me, era incinta e lei è morta lì.
Samuel: Anche altre, e tu vedevi, ma non
potevi fare niente.
Vi hanno chiesto soldi per questo viaggio?
Yaya: No, quando sono venuti a prenderci
hanno messo le mani nelle tasche e quello
che trovavano lo prendevano. Nelle mie tasche hanno trovato 600 dinari. Prima della
guerra avevo mandato i soldi che avevo a
mia mamma; mi erano rimasti quei soldi e
se li sono tenuti.
Samuel: Anche a me si sono presi dei soldi.
Ma ne avevo pochi: quando è cominciata la
guerra non c’erano più soldi. Il padrone ci
ha detto che la banca era chiusa e non aveva
niente per pagarci.
Come volete continuare questa conversazione?
Yaya: Io voglio parlare dell’accoglienza, dobbiamo parlare dell’accoglienza. Prima eravamo in albergo a Mantova, poi a Quistello
e poi a San Biagio, dove è finita la nostra
accoglienza: è lì che abbiamo visto tutto.
Lì non è andata bene. Lì avrebbero avuto
la possibilità di aiutarci a lavorare. Il capo
del macello è venuto a cercare persone per
lavorare ma quelli della cooperativa che ci
accoglieva non hanno voluto mandarci.
Chi gestiva l’accoglienza lì?
Yaya: Era un’associazione, una cooperativa
e capo era una donna che abita a Milano, veniva a controllare ogni tanto. Un ristorante
ci portava da mangiare e, se non mangiavamo tutto, ti davano gli avanzi, ma non i tuoi,
mettevano insieme quelli di tutti e te li davano a cena e, se ne restavano nei piatti, te
li davano a pranzo il giorno dopo. Abbiamo
detto che non siamo animali, io non mangio
quello che è rimasto nel piatto degli altri.
non volevo dire bugie, inventarmi la
guerra, ho detto la verità: sono andato
in Libia per cercare lavoro
Quando ero a Quistello sono andato a Milano per la Commissione e mi hanno dato
parere negativo, così sono tornato e c’è stata
un’avvocata, che mi ha aiutato a fare il ricorso.
Vi aveva preparato qualcuno per la
commissione?
Yaya: Lì nessuno, ma abbiamo avuto un incontro al Centro interculturale della Provincia e ci hanno spiegato cosa dovevamo dire,
c’era anche la mediatrice, che ci ha aiutato.
E poi com’è andata?
Samuel: è andata male. Erano tre persone
e il presidente chiedeva: “Perché hai lasciato il tuo paese e sei andato in Libia?”. Loro
non volevano sapere della Libia, volevano
sapere del tuo paese, perché sei andato in
Libia, per la guerra o per altri problemi. Ma
il mio problema in Ghana non era la guerra o la polizia che voleva arrestarmi, il mio
problema era economico e non volevo dire
bugie, inventarmi della guerra, ho detto la
verità: sono andato in Libia per cercare lavoro. Così hanno respinto tutto, hanno dato
parere negativo. Allora il capo del Centro interculturale ci ha fatto fare ricorso. La mia
avvocata mi ha insegnato cosa dovevo dire
in tribunale, sono andato con lei, ma ci han-
no fatto aspettare ancora; poi hanno dato il
permesso umanitario a tutti quelli che avevano avuto un parere negativo. Ma prima
era andata male. Stavamo male, tutti noi
che avevamo avuto un parere negativo non
pensavamo ad altro: essere qui senza documenti è un grande problema.
Yaya: Io sono andato là e ho trovato una donna che faceva da interprete. Io non parlavo
italiano neanche un po’, ma quando parlavano gli altri capivo e quello che io dicevo a
lei, lei non lo diceva alla commissione, non
traduceva giusto, forse non capiva bene; allora io le rispondevo in dialetto: “No, tu non
hai capito”. Quella signora mi ha detto: “Ma
tu capisci l’italiano, allora!”. Poi mi hanno
chiesto perché mio padre non ha mandato
a scuola i miei i fratelli. Non capiscono che
da noi, se un genitore decide una cosa, tu
non puoi dire no, mancheresti di rispetto.
Se tuo padre dice una parola a tua madre,
tu non puoi intervenire e dirgli: “Perché fai
così!”. Il rapporto con i genitori non è come
qui da voi, in Italia. Io avrei voluto fare l’artista, ballare, fare musica; ho anche qui una
foto che mi ha mandato un mio amico, poi te
la faccio vedere: io facevo rap con dei miei
amici. E rompevo sempre a mia mamma con
questa cosa del rap, e lei mi ha detto: “No,
no, no, a me non piace”. E allora ho smesso,
non puoi disobbedire ai genitori da noi.
Ecco, in commissione volevano sapere perché i miei non hanno mandato a scuola i
miei fratelli, io ho detto che non lo sapevo. E
loro insistevano per sapere il motivo e io ripetevo che non lo sapevo. Anch’io non volevo
mentire. Mi hanno detto: “Allora da voi non
c’è libertà, non c’è democrazia.” Ho risposto
che semplicemente non si passa davanti
ai genitori. Dopo un mese mi è arrivata la
risposta negativa. Io ci sono rimasto male,
sono andato in questura e una signora mi ha
detto di non preoccuparmi che mi avrebbero
dato comunque un documento.
Studiavate italiano mentre eravate in
accoglienza?
Yaya: Io prima non volevo studiare italiano,
quando ero a Quistello. Non c’era niente nella mia testa.
Samuel: La testa quando sei così gira, gira:
pensi ai documenti, pensi a tante cose…
Yaya: La signora che ci voleva insegnare
italiano veniva nella casa dove stavamo.
Quando lei veniva con i libri io prendevo le
mie scarpe e andavo ad allenarmi per giocare a calcio. Allora questa signora si è arrabbiata con me e non mi salutava più. Capivo
che aveva ragione lei: se uno ti dice studia
è perché ti vuole bene, vuole il tuo futuro.
Allora ho cominciato ad andare a scuola e
lei era contenta, mi diceva che ero bravo.
Tutti i giorni cercavo di trovare la forza per
andare a studiare. Dopo, quando ero a San
Biagio, prendevo tutti i giorni l’autobus per
venire a scuola in città.
non è che noi non vogliamo rimanere
in Italia, non è questo, ma non
abbiamo un posto dove andare
Quello che mi ha fatto male di questa accoglienza è che loro hanno fatto del bene
per noi, tutti a Mantova, ma quando questa
accoglienza è finita a febbraio… ecco, come
fai a mandar via così delle persone che non
sanno dove andare? Anche oggi c’è un sacco
di gente con questo problema che sta soffrendo. Non è che noi non volevamo rimane-
re in Italia, ma non avevamo un posto dove
andare: non puoi restare in stazione con la
tua roba. è per questo che abbiamo deciso
di andare via: io sono andato in Germania.
Finita l’accoglienza in febbraio, tu cos’hai fatto?
Yaya: Abbiamo fatto una manifestazione. Ci
hanno detto che tutti avrebbero avuto cinquecento euro. Noi a San Biagio no; io ho
avuto duecento euro e il biglietto per la Germania, ma un biglietto non costa trecento
euro. Io non voglio litigare con le persone e
anche gli altri, così ho preso la mia strada
per andare.
Sono andato in Germania e ho fatto qualche giorno con un mio amico, sono andato
a Colonia, sono arrivato alle otto di sera e
ho visto una signora congolese. Le ho parlato in inglese, non sapevo che era congolese
perché parlava tedesco, ma lei non capiva,
allora le ho parlato in francese e ci siamo
capiti. Mi ha chiesto se avevo il documento
di viaggio, gliel’ho dato e ci ha portati a casa
sua con il mio amico, ma a casa aveva una figlia che non ci voleva lì; hanno litigato e sua
mamma l’ha mandata a dormire a casa di
un’amica. La mattina dopo lei doveva andare in chiesa e non poteva lasciarci a casa da
soli, aveva ragione, non ci conosceva. Così
siamo andati in chiesa con lei: era la prima
volta che andavo in una chiesa, sono musulmano. Siamo rimasti lì fino a sera e li ho
guardati pregare. Poi la figlia ha cambiato
idea e voleva che restassi con lei, io le ho
detto che non potevo. Il pastore ha detto che
ci avrebbe aiutato se ci fossimo fatti cristiani e io ho detto no, sono musulmano, anche
se non c’è una grande differenza: voi credete in Gesù e noi in Maometto, i miei amici
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sono tutti cristiani, non è un problema. La
signora congolese ci ha riaccompagnato in
stazione e ho preso un biglietto per il Belgio. In un bar di senegalesi ho chiesto un po’
di informazioni in dialetto, il mio amico era
maliano e mi parlava in maliano. Intanto
che parlavamo si è fermato un senegalese e
mi ha chiesto da dove venivo, gli ho risposto
che ero del Senegal, del Casamance: “Anche
se uno non ti conosce, capisce che sei senegalese” mi ha detto. Mi ha dato l’ indirizzo di
un locale senegalese dove potevo dormire. Io
ci sono andato col mio amico. Ci hanno detto
che non potevamo restare se non chiedevamo asilo, ma non potevamo, naturalmente,
e allora ci hanno mandati via. In Belgio non
ho potuto fare niente e con i soldi che avevamo non si mangiava, andavamo a una specie
di Caritas e c’era un dormitorio. Si pagava
un euro per mangiare. Dopo abbiamo deciso
di andare in Francia, dove c’era un parente
con la sua famiglia.
Perché non ci sei andato subito?
Yaya: Perché se un africano viene in Europa
a lavorare non ha molti soldi e io non vole-
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vo andare a chiedere aiuto da lui e dargli
problemi. Ma un mio amico mi ha detto di
andare a vivere da lui. Non potevo lavorare,
ma ho trovato un congolese che faceva l’imbianchino e mi ha dato da lavorare in nero
per un po’. Quando guadagnavo qualcosa
pagavo l’affitto al mio amico, un fratello per
me. Ma non funzionava niente, perché la polizia è venuta sul posto di lavoro a controllare i documenti e mi hanno detto che non
avevo diritto di lavorare in Francia e che dovevo tornare in Italia. Così sono tornato qui.
Nel 2014 c’è la storia della tenda dormitorio della Croce Rossa dove potevano
dormire quelli che tornavano per il rinnovo dei documenti.
Yaya: Prima della tenda sono andato a
Mamré (una struttura della Caritas), sono
stato là quattro mesi, dopo sono andato nella tenda che ha fatto la Croce Rossa per l’inverno; ho trovato delle persone che erano a
San Biagio e che avevano tentato di trovare
lavoro in Europa come me e poi sono dovuti
tornare. Poi per fortuna ho lavorato un po’
in campagna con i meloni. Intanto c’è sta-
to un problema: mia madre mi ha telefonato per dirmi che doveva fare un’operazione
grave. Una dottoressa di Mantova Solidale
mi ha detto che mi avrebbe dato cento euro.
Poi sono andato a casa di un mio amico maliano che mi ha prestato seicento euro, più
gli altri cento ne ho potuti mandare a mia
madre settecento per fare l’operazione e
avere le medicine.
In campagna non è andata benissimo, il padrone ci pagava poco, faceva tante storie e
il tempo è stato brutto. Tutti i soldi che ho
preso ho dovuto restituirli al mio amico, mi
sono rimasti trentacinque euro. Così non
avevo più niente per mangiare quando in
settembre sono venuto nella casa di Mantova Solidale.
noi non vogliamo andare a chiedere
l’elemosina, questo no,
piuttosto moriamo di fame
Qualcuno mi ha detto che alla Caritas ci
avrebbero dato delle cose, ci sono andato.
In realtà ti danno solo pasta e pomodoro,
mai riso, ma era già qualcosa. Il problema
è che la gente che è arrivata come me sta
soffrendo, non c’è lavoro, non sappiamo
come fare a trovare i soldi per contribuire
all’affitto e, se paghi l’affitto, non ti restano i soldi per mangiare. Certe volte alle due
di notte io non riesco a dormire e neanche
Samuel, allora dico a Samuel che dobbiamo
risolvere il problema in qualche modo, ma
noi non vogliamo andare a chiedere l’elemosina, questo no, piuttosto moriamo di fame.
Forse può farlo uno ammalato che non può
camminare, ma io no. E non posso neanche
andare a rubare i soldi di qualcuno. Tutte
le mattine mi sveglio per andare a cercare
lavoro con il mio curriculum, ma non si trova. Comunque vada, Mantova Solidale ha
fatto più di quello che avrebbe fatto la mia
famiglia.
Le vostre comunità religiose vi hanno
aiutato in qualche modo?
Samuel: Io sono cristiano pentecostale, siamo in pochi e nessuno lavora, neanche il pastore.
Non dico solo per i soldi, intendo anche
per un aiuto psicologico, trovarvi insieme, avere amici lì…
Samuel: Sì, li ho conosciuti quando eravamo in albergo. Prima andavo in una chiesa
nigeriana, poi ho trovato un amico ghanese
e mi ha dato il suo numero di cellulare, così
ho incominciato a frequentare la chiesa pentecostale. Anche lui non ha il lavoro. Ma sto
bene quando vado in chiesa
Yaya: Io vado in moschea tutti i venerdì a
pregare e a salutare gli altri. Anche lì tanti
non hanno lavoro, ma hanno una famiglia.
Dopo la preghiera torno a casa.
Tu, Yaya, sei crititco rispetto a quello
che stanno facendo in alcune parti del
mondo certi che si dicono musulmani.
Yaya: Mi ricordo la sera che tu sei venuta a
prendermi a Suzzara dopo una partita e abbiamo parlato di questo. Quando è successa
quella cosa, l’attentato a Charlie Hebdo, il
7 gennaio, a Parigi mi sono venuti in mente i discorsi che avevamo fatto quella sera.
Quelli rubano il nome dei musulmani, io
sono un musulmano e so che un buon mu-
sulmano non fa del male agli altri; io nella
mia vita non voglio far soffrire nessuno, non
potrei mai fare del male a qualcuno, se fai
del male devi chiedere scusa.
Ma se qualcuno offende la tua religione?
Yaya: Se sei un musulmano non reagisci con
la violenza, non rubi, non fai del male a nessuno. Qualche volta ho litigato con dei miei
amici su questo. Il rispetto è una cosa fondamentale, verso le donne soprattutto, per tutti. La mia famiglia mi ha insegnato così. Nel
mio paese, ad esempio, mi hanno insegnato
che non devi guardare in faccia le persone,
mio papà mi ha insegnato così; lui era una
brava persona, non mi picchiava mai. Mia
mamma sì, perché la facevo arrabbiare, ma
io facevo casino lo stesso con i miei amici in
giro. Poi mio papà mi ha insegnato a pregare e sono cambiato, non sono più andato a
fare casino. La mia religione mi ha aiutato
a cambiare tante cose della mia vita, io ringrazio Dio che mi ha fatto musulmano. Ma
quando in Francia ho sentito che succedevano quelle cose mi sono buttato sul divano a
piangere: perché qualcuno deve far del male
a degli innocenti? Quando ero in Francia c’è
stata una partita difficile che ha fatto arrabbiare tutti, poi degli arabi sono andati a far
casino ai mercati: non è così che si fa, io non
sono d’accordo con loro.
Ieri un ragazzo musulmano mi ha detto
che forse è sbagliato quello che hanno
fatto a Parigi, ma che quelli di Charlie
Hebdo bestemmiavano il profeta e que-
sta è una cosa che non si può accettare.
Yaya: Sì, è una cosa sbagliata prendere in
giro. Ma se tu non vuoi che qualcuno offenda tuo padre, tu per primo devi rispettare
lui. Se, ad esempio, non voglio che Samuel
dica parolacce contro mia madre o mio padre, io per primo devo rispettare Samuel. Se
io lo rispetto, lui rispetta me. Grazie a Dio
io e lui, anche se prima non ci conoscevamo,
non abbiamo mai litigato, ridiamo insieme
e andiamo d’accordo. Se io sono musulmano
rispetto lui che è cristiano. Se fossi stato a
Parigi sarei andato alla manifestazione e mi
sono chiesto perché a Mantova non ne abbiamo fatta una anche noi. Un mio amico,
che è un po’ matto e forse scherzava, ha detto che quelli dell’attentato hanno fatto bene.
Ho deciso che non gli parlo più. Non c’entra
la religione, questo è un business: qualcuno
li ha pagati quelli dell’attentato.
Anche Boko Haram trova gente perché la
paga. Se uno trova gente povera come noi e
gli dice che se fanno un attentato gli danno
un sacco di soldi, una casa, ecco allora può
darsi che uno ci stia. Ma non c’è un motivo
religioso. Nessuno ha diritto di sabotare la
religione di un altro: “Laissez vivre”, come
dicono in Francia.
Io sono un musulmano e non posso fare del
male agli altri, quando arriverai da Dio dovrai dimostrare che persona sei. Forse nei
paesi arabi ci sarà qualcuno che finanzia
queste cose terribili, ma un buon musulmano sa che non si deve fare violenza a nessuno.
Mantova solidale
Mantova solidale nasce nel 2013 in previsione della fine dell’accoglienza governativa,
quando un gruppo di profughi ha autonomamente chiesto, con una lettera alla Prefettura e alla Provincia di Mantova, di autogestire i fondi residui messi a disposizione dal
Governo: volevano vivere in case private, farsi la spesa e cucinare per se stessi, smettendo di continuare a vivere passivamente nell’albergo nel quale si trovavano dal momento del loro arrivo. Così, un gruppo di persone -insegnanti, medici, cittadini sensibili al
problema delle migrazioni e del diritto d’asilo- che aveva a vario titolo collaborato con il
Centro di educazione interculturale della Provincia nella fase di accoglienza dei rifugiati
costretti a partire dalla Libia, nel momento del loro ‘congedo’ ha deciso di continuare ad
avere con loro un rapporto di sostegno e di reciproca conoscenza, aiutandoli a inserirsi nel territorio mantovano, quando non volevano cercare fortuna altrove. Con l’aiuto
dell’assessorato alle politiche sociali della Provincia - che con i rifugiati aveva avuto e
continua ad avere un rapporto stretto e molto propositivo -, della Curia, della Caritas,
della Croce Rossa, di varie associazioni e di singoli cittadini, molti dei rifugiati arrivati
nel 2011 si sono inseriti nel tessuto sociale e culturale della città, dando vita, tra le altre
cose, a un gruppo musicale, I Tamburi di Mantova, che sta facendo conoscere la musica
e la cultura africana negli ambienti più diversi.
L’esperienza della gestione condivisa della case dura ancora per coloro che hanno deciso di restare a Mantova e per quelli che, obbligati da procedure burocratiche spesso
kafkiane e sempre mutevoli, devono trascorrervi alcuni mesi all’anno per il rinnovo dei
permessi di soggiorno. Dall’intervista emerge chiaro il turbamento di Yaya e Samuel per
il sistema di accoglienza italiano ed europeo: l’incontro con le commissioni che devono riconoscere il loro status, il rifiuto di rappresentare le proprie vicende secondo canoni che
sarebbero convenienti, ma che non corrispondono al vero, la gestione di alcuni luoghi di
accoglienza, la mistificazione di una fine dell’emergenza che ha decretato troppo spesso
l’abbandono a un destino di saltuari lavori in nero e di attesa, spesso passiva e depressa,
che qualcosa accada. Si prospetta adesso per Yaya la possibilità d un lavoro temporaneo
nell’accoglienza dei rifugiati in transito per il rinnovo dei permessi di soggiorno.
Mentre riguardiamo insieme l’intervista, in una sera di metà febbraio, Samuel è tormentato dal pensiero che suo fratello stia lavorando a Tripoli mentre l’Isis pare avanzare ed
espandersi in Libia; gli telefona, nella capitale le cose sembrano essere ancora abbastanza tranquille. Samuel è sollevato ma, mi dice: “La testa di un profugo gira, gira sempre,
di notte e di giorno. Tra luoghi lontani e problemi diversi”. (M. B.)
Antigone in Puglia
Brenda Porster
Scagliate eravamo
nel buio navigare
senza meta, ma insieme,
lei riempiva esattamente
l’avida culla del mio braccio vuoto
un umido peso caldo il suo bisogno che io
solo
potevo saziare, le vaghe profondità scure
degli occhi, il disperato cercare
manine strette curve a conchiglia, rosee
dita-gamberetti che afferrano
il mio seno, titubanti
labbra e poi il tiro come tenaglia
di vita da me a lei a soddisfare
il nostro mutuo bisogno
l’una all’altra legate, in perfezione,
il cerchio chiuso.
Quando ho visto che lei non c’era
più, il suo piccolo peso
fiaccato, sospeso,
il calore, tutto, esaurito,
il suo cercare finito?
Non aveva più bisogno di me,
mentre io ero rimasta
anelante, il mio braccio un cerchio
vuoto. Un terrore di ghiaccio mi ha afferrato
il petto, e all’improvviso ho saputo:
sarebbero arrivati loro,
e l’avrebbero gettata negli infiniti
abissi, sarebbe caduta
giù per non essere trovata più
il suo piccolo corpo a spiegare
braccia fluttuanti di anemone
per sempre cercando per sempre
esposta.
No! Così non sarà! Io,
sua madre, le avrei reso
una calda copertura, sabbia decorosa
e luogo, una collocazione
della mente, per entrambi i nostri bisogni
un’ultima volta, poi le ho detto
finalmente - buona notte
cuore mio, buona notte,
e l’ho lasciata là
Nota: Per aver seppellito la figlia neonata sulla
spiaggia della Puglia, dove era approdata dopo
essere fuggita dal Kossovo, questa madre Rom fu
arrestata dalla polizia italiana e denunciata per
occultamento illecito di cadavere.
(traduzione di Andrea Sirotti)
Commissione
La Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale
è l’autorità competente alla decisione in
merito alla domanda di protezione internazionale. Fino al 2008 in Italia cera solo
un unica Commissione centrale. Successivamente furono create dieci Commissioni territoriali, portate a venti con il
Decreto Legge n. 119 del 22 agosto 2014.
33
Quel sogno ricorrente
di Primo Levi
Carlo Bracci, medico legale, membro dell’Associazione Medici contro la tortura, da anni
collabora con il Centro Astalli di Roma per
la certificazione delle torture subite dai richiedenti asilo.
Di che cosa parliamo quando parliamo
di tortura?
C’è una definizione giuridica che però non
serve nel rapporto con la persona. Possiamo
dire che lo scopo di ogni pratica di tortura,
qualunque sia il metodo, è distruggere l’identità e la dignità della persona e della comunità da cui proviene. Questo può essere
raggiunto con una violenza fisica, psicologica o sessuale. All’inizio le persone mettono
in atto dei meccanismi di difesa di cui uno
è il disturbo della memoria. Non si tratta di
cancellare tutto, ma di sprazzi di ricordi. In
termini psicologici questo meccanismo viene definito “impossibilità di mentalizzare”,
cioè non solo di parlare, ma anche proprio
di rappresentarsi mentalmente quello che è
successo. Quattro, cinque anni fa un’amica
di Amnesty ci telefonò da Firenze dicendo
che una signora voleva venire a parlarmi. Si
presentò questa donna sui sessant’anni che
negli anni Settanta, quando era studentessa universitaria in Uruguay, era stata arrestata. Lei non ricordava quello che le era
successo, solo di essere stata ricoverata in
una clinica e poi di aver avuto il permesso di
venire in Italia come figlia di emigrati.
In Italia ha studiato storia dell’arte, ha vinto un concorso in un piccolo comune vicino
a Firenze come responsabile delle politiche
culturali, si è sposata e ha avuto un figlio.
lui suona il campanello,
la sorella apre la porta, la richiude
e se ne va: è un sogno ricorrente
Un giorno suo figlio le ha detto: “Su internet
ho ricostruito tutta la storia dell’Uruguay.
Che è successo a te?”. Lei ha tagliato corto:
“Quello che è successo a tutti”. Poco dopo al
Comune dove lavorava è arrivata la Guardia di finanza, ha sequestrato dei faldoni
e si è portata via un assessore. Questa per
noi è una scena abituale, a lei è scoppiato
qualcosa dentro. Mi ha detto: “Io ho delle
schegge di ricordi terribili e voglio capire se
sto diventando matta”. Le abbiamo spiegato
che purtroppo sono cose che vediamo spesso. Tornata a casa ha iniziato a mandarmi
delle e-mail con dei pezzi di ricordi. Un po’
alla volta le cose sono tornate fuori. Qualche
anno dopo ha scritto un libro ed è diventata
una testimone nel processo contro i militari
in Uruguay.
Ti occupi delle certificazioni di tortura
per i richiedenti asilo.
La richiesta d’asilo si distingue da tutte le
altre condizioni perché il richiedente spesso
34
non ha documentazioni oltre alla sua parola.
Infatti, in questo caso, è compito della commissione e del giudice acquisire delle prove,
a differenza del processo civile dove sono le
parti che portano le prove. In questa fase c’è
tutto il problema, grave, della vergogna, e
della paura di non essere creduti. Conosci il
sogno ricorrente di Primo Levi? Lui torna a
casa, suona il campanello, la sorella apre la
porta, la richiude e se ne va. Primo Levi dice
che è il sogno ricorrente di tutti gli “ospiti”:
non essere più riaccettati e creduti.
Il torturato che non parla somatizza. Spesso
le vittime di tortura vanno dal medico perché hanno dolori da tutte le parti, e ci sono
delle belle storie in cui i dolori passano o diminuiscono dopo l’ascolto. Si chiamano “disturbi psicosomatici” e sono particolarmente
frequenti in chi ha subìto violenze di questo
tipo. Quello che a me sembra interessante
è che questi sintomi colpiscono strutture
psicologiche così profonde che prescindono
dal paese di provenienza. Il modo di esprimere il dolore è determinato culturalmente,
il dolore no. Come la reazione d’allarme: se
ti scoppia una bomba vicino, la tua reazione,
quella di cercare di proteggerti, non è culturale.
Comunque il nodo fondamentale della tortura sta nell’intenzionalità di chi fa del male,
che la distingue dallo stress di vittime di
disastri aerei o terremoti. Il fatto che un essere umano abbia fatto quelle cose per farti
del male è distruttivo. C’è una psicanalista
molto brava, Françoise Sironi, che ha scritto
un libro per Feltrinelli, Persecutori e Vittime. Il suo intervento consiste in incontri settimanali ripetuti per quattro, cinque mesi,
in cui la persona capisce che sta male perché
un altro essere umano le ha fatto tutte quelle cose. Questo passaggio di consapevolezza
permette di ricominciare a vivere.
Come riuscite a individuare le vittime
di tortura? A volte passano anni prima
che la persona parli.
La signora dell’Uruguay di cui ti parlavo ci
ha messo trent’anni prima di iniziare a parlare. Anche Gina Gatti, vittima della tortura
cilena, ci ha messo degli anni. Come succede
che una persona inizia a parlare? Questa è
una domanda a cui mi piacerebbe avere una
risposta perché vorrebbe dire che è possibile
ricreare la situazione. Un africano subsahariano seguito dal Centro Astalli, che era
stato otto mesi in uno dei peggiori carceri
in Africa, negava di aver subito qualunque
tipo di violenza. Cosa dovevo fare? Come si
fa a visitare una persona così e dire “Non
c’è niente da certificare”? Tanto più che il
certificato serve per avere il riconoscimento. Allora ci sediamo, mi presento e gli dico
quello che dico in genere alle donne quando
sono costretto a vederle io: “Se non capisce
il mio francese mi fermi e me lo dica perché,
sa, l’ho studiato a scuola 60 anni fa”. Questo
dà alla persona la consapevolezza che tu sei
anziano, e quindi sei meno pericoloso. Tra
l’altro, quando gli africani vedono un anziano sono convinti che sia arrivato a quell’età
perché l’ha benedetto Dio. Comunque, lui
rimane chinato e dopo tre minuti d’orologio
si alza e mi dice: “Io parlo con lei perché ha
l’età che avrebbe mio padre se non l’avessero ucciso davanti ai miei occhi”. Dopodiché
mi racconta una storia di violenze sessuali
di quelle brutte, di quelle che lasciano il segno. Che cos’era successo? Non lo so. Ci sono
delle situazioni in cui succede qualche cosa
e la persona improvvisamente parla. Altre
volte non succede niente. Infatti stiamo cercando di capire quali sono gli elementi che
aiutano. Il fatto è che questa certificazione
perlopiù avviene in momenti non opportuni, cioè troppo presto. Anche se la persona
accetta, si tratta di violenza, è come togliere
un dente senza anestesia: la persona se lo fa
levare però le fai male.
proprio per la difficoltà di parlare
di certe cose, il certificato arriva dopo
un lungo percorso
Per me è più facile lavorare con i francofoni
perché ci vediamo in due, senza mediatore.
Questo probabilmente è uno dei motivi per
cui con senegalesi, mauritani e congolesi si
stabilisce più facilmente un rapporto. C’è
anche da dire che ormai si fidano della struttura. Sia quello di Medici contro la tortura
sia quello del Centro Astalli è un percorso,
non una visita: c’è un’accoglienza, un accompagnamento fatto di tanti incontri, un aiuto
sociale e a un certo punto per un qualche
motivo si aprono. Ma non tutti. C’è qualcuno che non si fida e non dice di essere stato
torturato. Spesso quelli che stanno peggio
stanno più zitti degli altri. Come si fa? Eh,
non si può fare tutto. Qualche volta invece
capita all’improvviso. Ecco, mi piacerebbe
capire cosa scatta, per poterlo riprodurre.
Probabilmente ci sono delle condizioni che
lo favoriscono, una certa alchimia.
Dicevi che c’è un aiuto a tutto tondo.
Puoi spiegare?
Per prima cosa li si aiuta a capire le procedure amministrative. Li si accompagna a
iscriversi al servizio sanitario nazionale a
cui hanno diritto e si mette a loro disposizione un mediatore-interprete per gli uffici e
per l’ospedale. Poi li si aiuta ad andare alla
commissione, li si sostiene con un ascolto
partecipato più che con una terapia. Li si
indirizza verso l’ufficio per il lavoro (quando
non c’era la crisi era più facile, trovavano lavoro, adesso è una disperazione). Accadono
anche incontri strani. Ho chiesto a un ragazzo africano: “Che lavoro facevi?”, “L’educatore di elefanti”. Ho chiesto a un amico che ha
una cooperativa sociale nelle Marche: “Lo
prederesti?”, e lui mi dice: “Mah, sapesse
guidare un trattore...”. Allora io lo chiamo e
gli dico: “Ma tu solo gli elefanti?”, e lui: “No
no, ho fatto anche un corso per le giraffe!”.
Oltre a certificare la loro condizione, mettiamo a disposizione due psichiatri e due medici. Abbiamo anche uno psicologo, che però
cura soprattutto gli operatori. Avere a che
fare con questo tipo di storie fa male.
Ad ogni modo, proprio per la difficoltà di
parlare di certe cose, il certificato arriva alla fine di un lungo percorso. Durante
questo percorso il medico prende in carico i
problemi legati anche soltanto al fatto che
la persona dorme per strada, oppure ha il
diabete e non sa come mangiare regolarmente. L’operatore sociale aiuta la persona
a orientarsi nella giungla della burocrazia;
lo psicologo o lo psichiatra fanno dei colloqui. In tutta questa rete di sostegno, a un
certo punto può essere che la persona parli.
Durante una riunione con un gruppo di psicologi e psichiatri transculturali a Firenze
mi fu chiesto, l’ultimo quarto d’ora, di certificare un ragazzo congolese che avrebbe
avuto la Commissione dopo tre giorni. Aveva alle spalle storie di violenza. Io, fermo, ho
spiegato ai colleghi che il certificato è un iter
lungo. Però siccome ogni regola ha le sue eccezioni, sono andato a visitarlo. In quel caso
il rapporto fra noi si è stabilito per una sciocchezza. Quando sul permesso di soggiorno
ho letto “Congo”, ho chiesto: “Quale Congo?”
e lui è rimasto stupito: “Lei sa che ci sono
due Congo?”. Lui era della Repubblica Democratica del Congo. è bastato questo per
entrare in confidenza. Ma, di nuovo, sono
cose che non si possono codificare. Le differenze culturali ci sono e si cerca di studiarle
il più possibile, ma il miglior modo per metterle a fuoco è farsi raccontare da loro gli
elementi fondamentali, come il senso della
famiglia o il rapporto tra le religioni animiste. Un giorno un uomo congolese, dopo aver
ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, si è presentato con un vestito tradizionale. Salutandolo, gli ho dato una pacca
sulla spalla, ormai eravamo in confidenza;
lui si è subito irrigidito. Quando gli ho chiesto perché, mi ha detto: “Sai, da noi questo
significa: stai al posto tuo”.
Che torture subiscono le persone che
incontrate?
Dipende dai paesi. Noi vediamo molti curdi
che sono costretti a fare il servizio militare,
non possono parlare in curdo e sono sottoposti a sedute di vera tortura. Tra le varie torture “scientifiche” c’è la falaka. Si tratta di
percosse sulla pianta dei piedi. È una modalità che fa capire molto bene il meccanismo
della tortura: lascia pochi segni fisici e un
grande dolore ai piedi per anni, così quando
la persona cammina si ricorda della tortura. La Somalia fa delle carcerazioni spaventose con isolamento completo per mesi,
anni, peggio delle botte. In Mauritania c’è la
schiavitù dei neri, schiavizzati dai bianchi
con percosse, ustioni, violenze di tutti i generi, non solo in prigione ma anche in casa.
In Eritrea avvengono carcerazioni e botte.
L’ultimo caso che ho visto era quello di un
uomo che aveva subito percosse sulla pianta
dei piedi in sospensione inversa, ossia appeso per una caviglia.
guarigione non è la parola adeguata:
non è una malattia.
Chiamiamola rinascita
Dietro questo tipo di tortura c’è una precisa intenzione, come nella sospensione per le
braccia, che spesso avviene per un braccio
solo: si compie questa scelta perché è più invalidante. Tutto il peso è su una sola spalla
e la persona non si può nemmeno muovere
un po’. Le conseguenze sono pesanti: lussazioni croniche e rotture dei legamenti. Ovviamente è sempre un fatto di potere. Alla
base di tutto c’è il considerare l’altro privo di
diritti. È come un ragazzino che strappa le
zampe a una lucertola. Ci sono anche casi di
torturati che sono stati torturatori. In molte
situazioni è qualcosa che sospettiamo, non è
che te lo dicono. Hannah Arendt ha spiegato molto bene questi meccanismi: i tedeschi
sapevano organizzare il lavoro, per cui ad
esempio a uno capitava di raccogliere i denti
senza sapere da dove venissero, di chi fossero. C’è tutta la storia delle scuole di tortura
che è interessante. Ci sono delle tecniche che
vengono apprese, non vengono naturali. Si
tratta di professionisti. Gli americani hanno una bella cosa: dopo un certo numero di
anni desecretano tutti i documenti, di qualunque cosa si tratti. Così ora è reperibile il
manuale di addestramento della Cia, dove
viene fuori il ruolo degli psicologi. A parte le
cose banali che si vedono anche nei film, il
gioco di ruolo del carnefice che fa il buono, ci
sono vere e proprie analisi della personalità
della vittima e dei meccanismi che fanno cedere più facilmente. I medici, invece, hanno
il compito di fermare la tortura quando c’è il
rischio di morte perché la vittima non deve
morire, deve testimoniare. Dietro alle torture c’è tutto un corpo di conoscenze.
Che cosa succede dopo, con la “guarigione”?
Guarigione non è la parola adeguata: non
è una malattia. Chiamiamola rinascita.
Gina Gatti è una donna che è rinata, anche
se quando l’ho incontrata mentre in Cile
era in discussione una legge sull’amnistia
era come se avesse fatto un passo indietro
di dieci anni, era ritraumatizzata. Da noi
passano tra le centocinquanta e le duecento persone nuove l’anno. Su 180 persone ci
sono 30-40 casi nuovi di tortura. Ora, con la
crisi, ritornano le persone che erano andate a lavorare al nord. Questo è un dramma
perché non sai che cosa dirgli. Noi proprio
non sappiamo cosa fare perché non hanno
lavoro e non hanno una casa. I più strutturati riescono ad andare a raccogliere le mele
in Trentino e i pomodori al Sud, si muovono
in base alle stagioni e si guadagnano da vivere. Il problema più grosso è forse il vuoto
che queste persone patiscono dopo il riconoscimento: un’assoluta pienezza dei diritti e
un’assoluta mancanza di qualsiasi sostegno.
(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin).
35
I Dublinati
Cecilia Bartoli, psicoterapeuta, ed Elena Canestrari, insegnante d’italiano, fanno parte
dell’associazione Asinitas.
L’associazione “Asinitas onlus centri di educazione e cura con i migranti” è nata a Roma
nel 2005. I soci fondatori provengono da diversi percorsi di ricerca e azione con adulti
e bambini migranti. Le finalità dell’associazione sono quelle di creare e mantenere contesti educanti di accoglienza e cura.
Come vedete la situazione attuale
dall’osservatorio di Asinitas e della
scuola d’italiano?
Elena. Il numero di studenti che accogliamo
a scuola è sempre molto alto, indipendentemente dagli ultimi sbarchi, ed è legato al
fatto che Roma accoglie la maggior parte di
richiedenti asilo e rifugiati: la città è il primo punto d’arrivo dopo la Sicilia. Abbiamo
un’ottantina di rifugiati che studiano qui.
Dall’inizio alla fine dell’anno, da settembre
fino a giugno, circolano dalle 150 alle 200
persone. Una parte del gruppo rimane fissa,
ma c’è chi arriva e chi parte. La porta è sempre aperta, anche per le iscrizioni. Abbiamo un progetto per donne a Torpignattara
con una cinquantina di immigrate arrivate
qui con il ricongiungimento familiare. Con
loro facciamo percorsi di sostegno alla maternità, insegniamo la lingua speciale per
le donne incinte e per i primi mesi di vita
del bambino. Mi sento di dire che non agiamo nell’emergenza dei nuovi sbarchi perché
non siamo sul campo. La nostra azione è
più sull’accoglienza e sul lavoro di rimessa
in sesto della persona che arriva, perché i
centri di accoglienza sono sempre qualcosa
di molto precario.
Ci sono adesso dei centri d’accoglienza per i
“dublinati”. Quest’anno ci sono arrivati questi ragazzi da questo centro che si chiama
“Centro amici”, che ora è chiuso, un luogo
per persone vulnerabili, tra cui appunto i
dublinati, cioè quelli che vengono rispediti in Italia dalla Svezia, dalla Francia, dal
Belgio, ecc., perché avendo fatto la prima
richiesta di asilo qua non possono lasciare
il paese. Le persone considerate vulnerabili
hanno diritto a un anno di accoglienza, ma il
fatto è che sempre più spesso questi centri,
finito il periodo, chiudono e queste persone
non sanno nemmeno dove andare.
Noi quest’anno ci siamo trovati con un peggioramento del Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di
Porto, a un’ora da Roma. Molti degli studenti vengono da lì e la situazione è sempre stata molto precaria, con pochissimi servizi e
una grande difficoltà a raggiungere i servizi
basilari come la scuola, l’ospedale, l’avvocato. Parliamo di settecento persone dentro un
grande container; le varie cooperative che
l’hanno gestito si sono rivelate inefficienti
nel garantire i servizi. In particolare, l’ultima cooperativa che è subentrata ha vinto un
appalto a ribasso e quindi ha tagliato perfi-
36
no la navetta che portava da Castelnuovo di
Porto alla prima fermata dell’autobus. Senza navetta si devono fare 40 minuti di cammino solo per arrivare alla fermata. Inoltre
non danno più soldi direttamente, ma una
scheda con cui possono comprarsi delle cose
solo alla dispensa all’interno del Cara.
E dire che vengono elargiti anche dei soldi
per i richiedenti asilo: circa 70 euro al giorno
per i minori e 40 per gli adulti. L’emergenza
Nordafrica del 2011 è stata un’esperienza
eclatante: in quel periodo sappiamo come a
fronte di 40 euro al giorno che dovevano servire per vitto, alloggio, ma anche assistenza
sanitaria, legale, ecc., poi alle persone veniva dato del riso in bianco a pranzo.
Abbiamo visto cooperative che non avevano
mai avuto esperienza con gli stranieri buttarsi in questo mercato nella più assoluta
improvvisazione: gente che magari un anno
ha a che fare con i portatori di handicap, un
anno con i malati mentali, un anno con gli
ex carcerati e un anno pure con i richiedenti
asilo! Un Cara, tra l’altro, dovrebbe accogliere una persona per un tempo limitato,
invece ci sono degli studenti che vivono al
Cara da due anni. Questa per noi è anche
una sconfitta perché significa che non hanno
trovato altro.
Qui cosa fate?
Cecilia. Noi non lavoriamo tanto sulle problematiche di tipo pratico, nel senso che abbiamo una rete con dei legali, poi ci sono gli
sportelli e uno semplicemente li informa…
In alcuni casi molto fragili e disorientati ci
mettiamo di persona ad accompagnarli, ma
sono solo alcuni. Qua si fa soprattutto un lavoro di gruppo sulla persona e sulla lingua.
un pakistano che si è visto
ammazzare la moglie si ritrova
a fare danzaterapia
Questa è una scuola di lingua italiana con
un’attenzione speciale all’acquisizione della
lingua come veicolo di un senso di identità
e di sicurezza nuovi. Si cerca di tessere dei
fili tra quello che hanno lasciato a quello
che oggi hanno trovato; di aumentare la resilienza anche in situazioni di forte stress
all’interno dei centri. Utilizziamo diversi
linguaggi, tenendo al centro la relazione:
considera che questa è la prima porta aperta che trovano. Oggi per esempio abbiamo
lavorato proprio sulla porta. La consegna
era di disegnare una porta chiusa, socchiusa
o aperta incontrata durante il viaggio. Erano una sessantina e almeno venti hanno individuato la scuola come porta: per molti è il
primo luogo dove tornano a essere persone.
Quello trascorso qui è un tempo molto fecondo in cui c’è una rimessa in gioco di tutta la
personalità che si ristruttura e allo stesso
tempo è sottoposta a grandi stress. Un ragazzo ha disegnato la porta di un carcere
libico con dentro un ragazzo impiccato e un
poliziotto con un bastone, e da lì ha raccontato i mesi di carcere durissimo e di questo
ragazzo impiccato che ha visto con i suoi occhi e di cui non era mai riuscito a parlare.
Noi non lavoriamo mai in maniera diretta sui traumi. È importante offrire opzioni
espressive diverse capaci di tirar fuori le parole. L’Italia è molto indietro nell’approccio
a queste problematiche. Noi riteniamo che
ci debbano essere uno spazio e un tempo in
cui le persone tirano fuori quello che hanno
dentro. Non siamo noi a chiedere, a decidere, sono loro che eventualmente chiedono
un aiuto. In giro ci sono categorie e metodi
inadatti di diagnosi e cura; si somministrano molti psicofarmaci e mancano le risorse
per fare il vero lavoro di accompagnamento,
che è il lavoro dell’educatore, dell’assistente
sociale, di qualcuno che si mette lì e risolve
anche i problemi di natura pratica se ci sono.
Rispetto all’aiuto psicologico bisognerebbe
capire che i nostri setting di cura non sono
adatti da un punto di vista psicoterapeutico.
Il rapporto duale in molte culture è perfino
proibito, un furto d’anima, e comunque non
si cura in due, è il gruppo che cura, la comunità. In Italia l’approccio della terapia di
gruppo con i rifugiati è molto debole. Si fanno laboratori centrati sul trauma, ma con
scarsa preparazione, per cui un pakistano
che si è visto ammazzare la moglie si ritrova a fare danzaterapia. C’è molta confusione di metodi, di approcci e chiunque ha un
po’ di soldi imbastisce qualcosa. Non c’è un
programma nazionale di formazione degli
operatori per le strutture, per cui negli ospedali non trovi mediatori formati. Il sistema
è molto alienante.
Quello che noi proponiamo lo facciamo soprattutto durante la scuola, in un contesto
che già di per sé offre molte possibilità di
cura, di elaborazione dei vissuti, di radicamento. Chiaramente avendo i soldi sarebbe
bello mettere su un’équipe multidisciplinare. Lo pensiamo da anni. Alcune persone
si “rompono” proprio sotto i nostri occhi.
Purtroppo riusciamo a intervenire solo nei
casi estremi, con chi veramente, a un certo
punto, in mezzo alla stanza, comincia a parlare con Allah. Assistiamo a dei casi di vero
crollo psicologico.
Che percorsi fanno queste persone?
Cecilia. I più disparati. Alcuni rimangono
intrappolati nei centri d’accoglienza per
anni e anni, altri riescono a intraprendere
un percorso di formazione oppure trovano
un lavoro. I lavori sono quello che sono, molti sono in nero.
Quanto pesa la crisi?
Cecilia. Tantissimo. Pesa anche la loro ansia
di andare via e di non poterlo fare. Magari
hanno pezzi di famiglia in Europa, amici che
dicono: “Vieni!”, ma loro non possono muoversi. Questa legge di Dublino è terribile.
Elena. Possono viaggiare all’estero ma non
lavorare. Sono imprigionati in un paese in
crisi.
Cecilia. Non sono cittadini europei. Sono dei
rifugiati politici, quindi hanno un titolo di
viaggio per circolare come turisti. Possono
andare a trovare i parenti, possono viaggiare, però poi devono tornare qui.
In questi anni cos’avete capito, cos’avete imparato?
Elena. Che si lavora bene in un numero mo-
derato di persone -cosa che non riusciamo
mai a fare. Dell’anno dell’Emergenza Nordafrica ricordo che non riuscivamo mai a
chiudere la porta.
E poi che non bisogna mai dar le cose per
scontate. Al nostro ritorno da Lampedusa,
dopo aver firmato la Carta di Lampedusa,
abbiamo parlato coi ragazzi dei loro diritti e
soprattutto dei confini, di Dublino, ecc. Ebbene, la maggior parte sosteneva che i confini e le frontiere assolutamente servono!
Puoi immaginare il nostro spaesamento, la
sorpresa al pensiero che un ragazzo afghano
potesse essere favorevole ai confini. D’altra
parte, lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan passa di tutto: armi, droga, eccetera.
Se tu parli di confini partendo dai diritti non
vai da nessuna parte, tanto più che loro non
sono esperti di politica internazionale. Molti
non si rendono neanche conto di come sono
arrivati e di che tipo di diritti possano chiedere. Spesso poi i nostri immaginari sono rivendicativi: loro sono i poveri della terra che
hanno il diritto di essere accolti, perché tutti
ci vogliamo riconoscere nei valori universali
di solidarietà, di accoglienza e di condivisione dei popoli, mentre magari molti di loro
aspirano al più bieco liberismo e non farebbero entrare nessun altro!
Cecilia. Discutono anche tra loro. Oggi c’era
un ragazzo afghano che ha disegnato l’Afghanistan bellissimo, con la campagna e gli
animali, chiuso dentro una grata e accanto
una porta aperta con un signore ricchissimo, con molti soldi, tutto illuminato. Il ragazzo accanto a lui gli diceva: “Ma che è?
Hai sbagliato! Devi fare la porta chiusa di
qua e aperta di là, no?”. Era interessantissimo il discorso tra loro due. Per uno l’uomo
ricco è la porta aperta e l’Afghanistan è la
porta chiusa. E l’altro a insistere: “Tu non
hai capito niente. Il magnate con i soldi è un
uomo cattivo!”.
le reti di accoglienza soffocano
tutta una serie di risorse
che invece ci sarebbero
Elena. Un signore senegalese ha disegnato
il mare tutto chiuso con una grata perché
non vuole che suo figlio compia lo stesso
viaggio. “Basta -ha detto- dobbiamo lavorare in Africa”. E a fianco hai quello che disegna la macchina e i soldi: per lui l’Europa è
quello.
Cecilia. La cosa bella è quando si abbandonano questi immaginari e rimaniamo tu e
io qui, dove tu hai dei problemi e io ne ho
degli altri. Questo è quello che proviamo a
fare a scuola. Ma perché c’è questo contesto
specifico che uno crea e cura. Un contesto
che difficilmente ci sarebbe fuori.
Il fatto è che migranti e non migranti non si
incontrano mai in contesti “naturali” e questo fa sì che le dinamiche e le relazioni siano
sempre un po’ falsate e condizionate dagli
immaginari reciproci e dai pregiudizi, buoni
o cattivi che siano. La scuola è ancora un
contesto abbastanza naturale.
Nelle associazioni, nei centri d’accoglienza
è tutto appiattito su un noi-voi, e lì non c’è
tanto margine di negoziazione di contenuti.
Al contrario c’è molto paternalismo. È una
relazione faticosa quella con gli immigrati;
il paternalismo viene bene, è più facile: “Poverini, hanno fatto questo viaggio...”. Purtroppo le reti d’accoglienza soffocano tutta
una serie di risorse che invece ci sarebbero.
Tutto l’impianto sembra fatto per renderli
passivi, dipendenti. È tutto pronto, il cibo
stesso è impacchettato.
Come funziona la scuola?
Elena. Noi facciamo tre giorni di lezione
a settimana: lunedì, martedì e mercoledì
dalle nove all’una. Abbiamo circa settanta persone divise in tre classi: la classe di
prima alfabetizzazione, una classe base e
una classe avanzata. La mattina inizia con
un’ora di accoglienza, in cui si fa colazione
con tè, caffè e biscotti. Sui tavoli ci sono dei
giochi di lingua e gli studenti scelgono autonomamente dove sedersi e come utilizzarli.
Ci siamo anche noi. È il momento in cui si
possono conoscere tra di loro, indipendentemente dal livello di lingua. Poi iniziamo
con una specie di rito che ci accompagna da
quando siamo nati, un cerchio collettivo in
cui ci si risveglia, si riattiva il corpo, la voce,
ecc. Poi si parte.
La particolarità di questa scuola è che abbiamo una classe dedicata ad analfabeti
funzionali e totali. Gli analfabeti funzionali sono persone che riescono a leggere e a
scrivere in funzione di qualcosa, che sanno
usare la lingua per completare un modulo,
ma non per comunicare. Abbiamo persone
che magari hanno fatto solo pochi anni di
scuola coranica, oppure donne, soprattutto
del Maghreb, che non sanno proprio leggere e scrivere e che per seguire i figli con i
compiti si ritrovano ad andare a scuola per
la prima volta a quarant’anni. Parliamo
di adulti, per cui non si possono fare cose
troppo infantili, anche se si può comunque
giocare con le mani, visto che bisogna apprendere una certa manualità. La Montessori ci ha fornito tantissimi strumenti, come
ad esempio le lettere smerigliate. I sensi
ci aiutano molto, non solo la vista e l’udito
ma anche, appunto, il tatto e il gusto. Noi
siamo fortunati perché abbiamo la cucina,
quindi impastiamo, lavoriamo con la pasta
di sale. Prima di arrivare alla scrittura con
la penna, un segno molto definito e sottile,
si fa tutto un percorso: si modella la pasta
di sale, si disegna nella farina, si dipinge col
pennello e piano piano si arriva al riconoscimento vocale, sonoro e visivo. Sono processi
molto lunghi, però funzionano. Non si arriva a grandi livelli, però si guadagna un po’
di autonomia. C’è un signore di 48 anni, in
Italia da tre, che parla perfettamente italiano però non sa scrivere, non riconosce la “a”
in stampato maiuscolo. Adesso come adesso,
senza lavoro, lui è fuori. A scuola dobbiamo
agire su molti fattori, anche sulla vergogna.
Fuori dall’orario scolastico cosa fanno?
Cecilia. Girano, girano, girano! “Girare” è
la prima parola che imparano. Girano per
Roma, cercano un lavoro, qualsiasi cosa. Le
persone appena arrivate non hanno altre
relazioni a parte il centro di accoglienza, la
questura, l’avvocato e le scuole di italiano.
I due problemi fondamentali sono la dislocazione dei centri d’accoglienza, che sono
molto lontani, e il biglietto dell’autobus: in-
corrono tutti i giorni nel rischio di prendere
la multa. D’altra parte, se il pocket money è
2,5 euro al giorno e due biglietti costano tre
euro... Poi uno può anche aver voglia di comprarsi qualcosa da mangiare che non sia il
solito cibo confezionato del centro o magari
fuma. E poi c’è l’essere costretti all’inattività, che è terribile.
a Garbatella abbiamo un orto urbano
e quando lavorano lì mi dicono: “Che
bello, stasera posso dormire!”
A Garbatella abbiamo un orto urbano, un
piccolo appezzamento, e quando lavorano lì
dieci minuti mi dicono: “Che bello, stasera
posso dormire!”. Pensa a cosa vuol dire, per
un uomo o una donna di 20-30 anni stare
tutto il giorno fermo, fare tre ore al corso di
italiano e poi oziare davanti alla televisione
con tutti i pensieri, i problemi, le preoccupazioni per il futuro...
Le richieste di asilo vengono accettate?
Elena. L’Italia è molto “italiana” in questo,
nel senso che persone che hanno ricevuto
dei dinieghi in Europa vengono nel nostro
paese perché qui è più facile. Dopodiché dipende dove capiti. Ci sono Sprar (il sistema
di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) che lavorano bene e altri no.
Le tempistiche di richiesta per l’alloggio
sono di quattro-cinque mesi. Nel frattempo
vai a dormire dall’amico, altrimenti dormi a
Termini. Questo succede quando, ad esempio, hai ottenuto il documento ma non trovi
lavoro a Roma, quindi vai a lavorare nelle
campagne; quando torni a Roma non hai più
l’alloggio e devi aspettare cinque o sei mesi.
Se aspetti, alla fine un posto ce l’hai, ma se
provi ad andartene lo perdi. A Roma è veramente molto difficile adesso trovare qualcosa di continuativo. I lavori sono volantinaggio e vendere le bevande allo stadio. Fare le
pulizie è diventato uno dei lavori più ambiti.
(a cura di Bettina Foa e Barbara Bertoncin) .
Fortress Europe
Dal 1988 almeno 19.781 giovani sono
morti tentando di arrivare via mare in
Europa, 2.352 dei quali soltanto nel corso
del 2011: 150 vittime ogni mese.
Nel Mar Mediterraneo e nell’oceano Atlantico verso le Canarie sono annegate
14.852 persone. Metà delle salme (9.119)
non sono mai state recuperate.
Nel Canale di Sicilia tra la Libia, l’Egitto,
la Tunisia, Malta e l’Italia le vittime sono
7.283, di cui 5.360 dispersi.
Altre 229 persone sono morte navigando
dall’Algeria verso la Sardegna (dati aggiornati al 14 giugno 2014).
(Fonte: Fortresseurope.blogspot.com).
Nell’anno 2014, nonostante l’operazione
Mare Nostrum, sono morte 3.419 persone
nel Mar Mediterraneo.
(Fonte: 10/12/2014 Unhcr).
37
Da Lampedusa al Brennero
Cooperazioni lungo un confine europeo interno e mobile
Dopo l’Euromediterranea e la consegna del
Premio a Borderline-Sicilia nel luglio 2014,
ho avviato con la Fondazione Langer e altre associazioni “euroregionali” un’azione
di monitoraggio e informazione lungo l’asse
ferroviario Bolzano-Brennero.
Si dice comunemente che la costruzione
dell’Europa come spazio di “libertà, sicurezza e giustizia” e la creazione della Schengen
hanno spostato i controlli dai confini interni
ai confini esterni dell’Europa. Uno sguardo
sul e dal confine italo-austriaco del Brennero permette di esaminare e contrastare simili affermazioni e, contemporaneamente,
di avanzare alcune riflessioni sull’Europa di
oggi; permette inoltre di interrogarsi sulle
responsabilità -abilità di risposta- di fronte
alle persone che fuggono da violenze e cercano libertà, sicurezza e giustizia all’interno
dell’Europa.
Da settembre 2014 abbiamo iniziato a monitorare la situazione dei profughi respinti
al Brennero, spostando poi il monitoraggio
anche a Bolzano, e abbiamo cercato di promuovere una più forte collaborazione transfrontaliera dal basso. Sbaglia chi pensa che
dal 1998 il Brennero non è più un confine: i
controlli non sono stati aboliti, ma con accordi italo-austriaci, che risalgono proprio
al 1998, sono stati trasformati in cosiddetti
“controlli mobili non aventi carattere continuativo”, con lo scopo di impedire l’ingresso
e il soggiorno di persone che non soddisfano
i requisiti e di riammetterli nel paese dal
quale sono entrati. Inoltre, chi immagina il
confine come una linea deve sapere che sempre più spesso il primo confine italo-austriaco per persone in viaggio senza documenti
validi è proprio a Bolzano, il capoluogo di
provincia, 80 km distante dal confine. Da
novembre 2014, infatti, pattuglie di polizia
italiana-austriaca-tedesca effettuano insieme controlli di documenti sui treni internazionali. È proprio qui che alcuni dei profughi arrivati via mare in Italia vivono per la
prima volta un confine europeo: un confine
che per loro -non per i cittadini europei- esiste e incorpora significati diversi. Ma facciamo un passo indietro.
Dal Brennero alla “rotta del Brennero”
Nel contesto storico-politico di “Mare Nostrum” (con circa 171.000 persone arrivate via mare, che si sono tradotte in circa
65.000 domande di protezione internazionale in Italia nel 2014), il Brennero ha ricevuto visibilità in quanto “frontiera/passaggio”
lungo una delle rotte principali (la “rotta
del Brennero”) per le persone che volevano
lasciare l’Italia per presentare una domanda di protezione internazionale in un paese
del Nord-Europa, nonostante l’obbligo del
Regolamento Dublino III di presentare la
domanda di asilo nel primo paese membro
d’arrivo.
La maggior parte degli sbarchi in Italia sono
di siriani, eritrei, somali, mentre le domande presentate nel nostro paese sono perlopiù di persone scappate da Nigeria, Mali,
Gambia. Chi scappa da Siria ed Eritrea ha
spesso provato a chiedere protezione internazionale non in Italia, ma in un altro stato
membro, varcando anche il Brennero. L’anno 2014 ha segnato non solo un apice delle
domande di protezione presentate in tutta
l’UE, ma anche delle cosiddette “riammissioni passive”, accolte dal Commissariato di
Polizia di Frontiera al Brennero, di persone
rintracciate nella fascia o nelle retrovie della frontiera sul territorio tirolese-austriaco
e riportate dalla polizia austriaca sul lato
italiano del Brennero. Sono state 4.408 persone nel 2014, rispetto a 2.118 nel 2013 e
580 nel 2012, in maggioranza appunto di
di Monika Weissensteiner
nazionalità siriana ed eritrea. Queste non
sono “riammissioni Dublino” e vengono effettuate senza tener conto di alcune clausole
di tutela previste invece per richiedenti asilo nel regolamento Dublino o stabilite nella
recente sentenza della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo “Tarakhel vs Svizzera”.
Assente su ambi i lati del confine attività di
consulenza legale.
Quale risposta dare alla situazione del
Brennero che, per esempio, a ottobre vedeva
una cinquantina di profughi respinti ogni
giorno al confine, inclusi famiglie, anziani,
minori non accompagnati, fermi per ore sotto la prima neve a temperature gelide nella
stazione del Brennero?
A livello locale, la società civile si è organizzata per fornire aiuti umanitari: tè caldo,
vestiti, un minimo di orientamento legale.
Dopo alcune iniziative di informazione e
denuncia, a fine 2014 è poi stato aperto un
servizio di aiuto umanitario diurno, tramite un intervento della Provincia di Bolzano,
dei servizi sociali di distretto e di una cooperativa che lavora in ambito accoglienza
profughi. Ma la situazione al Brennero si
intreccia con dinamiche più ampie, che riguardano le politiche e le pratiche di asilo e
di accoglienza in Europa.
“Qui ci vuole una risposta da Bruxelles,
dall’Europa”. Lo dicono (anche) alcuni poliziotti -italiani, austriaci, tedeschi- che dal
novembre 2014 eseguono i controlli trilaterali sui treni EC diretti dall’Italia verso Monaco.
La risposta politica c’è stata. Non a livello
europeo, ma proprio tramite accordi bilaterali in materia di cooperazione di polizia,
firmati da il ministro dell’interno italiano
Angelino Alfano, dal suo omologo tedesco,
Nel 2014 il Brennero ha ricevuto visibilità a livello europeo in quanto frontiera/passaggio lungo una delle rotte per le persone che vorrebbero lasciare l’Italia principalmente per porre una domanda di protezione internazionale in un paese del Nord-Europa e a volte per
ricongiungersi con i propri familiari già presenti in un altro paese membro.
Nell’anno 2014 circa 5.000 persone -di nazionalità soprattutto siriana, eritrea, somala- sono state respinte al confine italo-austriaco e
consegnate dalla Bundespolizei Tirol austriaca alla Polizia italiana di Frontiera al Brennero.
Chi viene respinto sono in maggioranza persone arrivate da poco via mare che non hanno avviato la domanda di asilo in Italia; persone
che da settimane o mesi si trovavano dentro il sistema d’accoglienza italiano, ma che cercano di scappare da condizioni poco dignitose
e prospettive future difficili in Italia. Una piccola minoranza ha un permesso regolare in Italia, ma non il permesso per l’espatrio e per
trovarsi legalmente un lavoro in Nord-Europa. Frequente è anche il respingimento di minori non accompagnati.
Queste cosiddette “riammissioni” trovano la loro base in un accordo bilaterale tra l’Italia e l’Austria (1998) che riguarda persone che
non soddisfanno le condizioni di ingresso o di soggiorno.
Nel 2014 i ministri dell’interno italiano, austriaco e tedesco hanno firmato accordi per rinforzare la cooperazione transfrontaliera di
polizia, con effetti tangibili per quanto riguarda le pattuglie trilaterali lungo la “rotta del Brennero”. Da novembre 2014 sono state
rinforzate, ma anche “riconcettualizzate”, queste pattuglie sui treni internazionali (esistenti dal 2000) con l’obiettivo di contenere la
“migrazione clandestina”. I controlli vengono effettuati esclusivamente in territorio italiano.
Da settembre 2014 l’iniziativa “Brenner/o Border Monitoring” realizza una presenza di monitoraggio attivo al Brennero e dal 2015
anche a Bolzano, nell’ottica dei corpi civili di pace e di mediazione, attraverso il dialogo con tutti gli attori coinvolti (presenza, osservazione, orientamento legale, supporto umanitario quando necessario, lavoro di rete). È una forma di impegno civile e volontario, con il
sostegno principale della Fondazione Alexander Langer Stiftung e dell’Organizzazione per un Mondo Solidale (Oew).
38
(foto di Georg Hofer)
Thomas de Maizière, e dalla ministra austriaca Johanna Mikl-Leitner. L’obiettivo,
come risulta da un documento pubblicato
dal Bundestag tedesco, è quello di contenere
la pressione migratoria intra-europea e di
contrastare la migrazione clandestina. Non
solo al Brennero, ma anche nelle stazioni
ferroviarie a Rosenheim e a Monaco -punto
d’arrivo della “rotta del Brennero”- nel 2014
si è fatto sentire l’arrivo dei profughi tramite gli EC partiti dall’Italia. Così, sono state
“riconcettualizzate” le pattuglie trilaterali,
operanti già dal 2000. Dal novembre 2014
pattuglie trilaterali salgono a Trento sui
treni internazionali diretti a Monaco e fanno scendere già nella stazione di Bolzano le
persone che, con il biglietto del treno pagato,
viaggiano privi di documenti validi in Italia
o con permessi non validi per l’espatrio. La
prima identificazione avviene, spesso, attraverso il colore della pelle. In pratica, si
tratta di controlli sistematici e in un certo
senso di controlli di confine. Il confine, appunto, è mobile e si moltiplica. Oltre cento
persone al giorno, in queste ultime settimane di maggio 2015, sono state fatte scendere
dagli EC e/o è stato loro impedito di partire
da Bolzano. Quando si problematizza male
un fenomeno, categorizzato come “migrazione clandestina”, e in seguito si individuano
dispositivi di controllo e risposte tramite le
“forze di polizia” non si arriva certo a soluzioni “programmate”, ma si producono altri
effetti. Di fatto, i controlli non riescono a
fermare le persone in Italia, semplicemente
hanno reso la fuga più lunga, più difficile,
più insicura, più costosa; e più illegale, spingendo cioè a volte verso l’opzione di pagare
qualcuno che li porta a nord.
I sindacati di polizia Siulp e Coisp più volte
hanno espresso pubblicamente, con ragiona-
menti diversi, sconforto per l’attuale situazione. La loro voce è stata molto più forte
di quella delle organizzazioni che a livello
locale lavorano nell’ambito dell’accoglienza
profughi, a lungo operativamente assente
anche da una elementare attività di advocacy per i diritti di queste persone in fuga.
Anche qui, attraverso facebook e whats-app,
numerosi cittadini si sono organizzati in
proprio per rispondere nell’immediato alla
situazione che si è creata nella stazione di
Bolzano, per dare supporto umanitario ai
profughi fermati e per convincere istituzioni
e associazioni a prendersi le loro responsabilità.
Cooperazione transfrontaliera dal basso
Per finire, vorrei raccontare della seconda
risposta di cooperazione transfrontaliera,
nata proprio a partire dalla situazione mobile del confine del Brennero, un confine che
non solo divide, ma anche connette. Il 1°
marzo 2015 si sono trovate al Brennero 200
persone provenienti dall’Italia, dall’Austria,
dalla Germania e dalla Svizzera. L’incontro
è stato frutto -e ulteriore stimolo- di una cooperazione transfrontaliera dal basso, per
chiedere una più forte cooperazione europea
e transnazionale non tanto nel “contrasto
alla migrazione clandestina” ma nella creazione di un sistema d’accoglienza -anche
per chi sceglie di far domanda di asilo in un
altro paese europeo- basata su solidarietà e
integrazione; e nella creazione di percorsi
legali e sicuri.
Una sera, una persona ferma da ore nella
sala d’attesa nella stazione ferroviaria del
Brennero mette su della musica che trasforma l’atmosfera nella sala e contagia anche
le altre persone. Il passato coloniale -anche
italiano- rimbalza tramite le parole in lingua creola della canzone dalle mura della
sala d’attesa e prende corpo anche nelle storie delle persone che emergono tra ricordi ed
esperienze presenti. La canzone parla delle
difficoltà della vita e del bisogno di lottare.
Forse una lingua creola, qui e ora, ci aiuterebbe meglio a esprimere le difficoltà e a dar
voce a una lotta culturale e politica.
Abilità nel rispondere: respons-abilità
Qui volevo porre una riflessione che non è
giuridica ma che si interroga sull’Europa
di oggi, sui diritti, sulla solidarietà e convivenza; sulla libertà, giustizia e sicurezza.
Lascio alle persone e organi competenti di
valutare se le pattuglie trilaterali siano conformi al Schengen Borders Code. Ciò che vediamo quotidianamente al Brennero riguarda sì gli effetti delle normative europee in
materia di asilo, ma viene affrontato nella
pratica tramite accordi e interessi intergovernativi e applicato mediante le forze di
polizia; mentre le risposte necessarie sono
altre. Cosa significa?
Vent’anni fa Alexander Langer scriveva che
l’Europa muore o rinasce a Sarajevo. Non so
come agirebbe se oggi potesse testimoniare
questa situazione. Verrebbe da pensare che
oggi l’Europa muore o rinasce anche nel Mediterraneo, e anche qui, lungo la rotta del
Brennero, che passa anche dalla sua città
natale, Vipiteno, a pochi chilometri del confine.
Aveva scritto nel maggio 1995: “Ritentiamo
che sia tempo di affrontare anche dal basso
la costruzione di una nuova fratellanza euromediterranea e di accompagnare criticamente e attivamente il processo che si svolge al livello delle istituzioni e dei governi”.
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Fratellanza euromediterranea
di Alexander Langer
Tutti abbiamo passato alcuni anni in cui
l’Europa occidentale ha dovuto -non senza
fatica- riscoprire la sua “altra faccia della luna”, cioè i propri concittadini europei
dell’Est. Caduti i muri e le cortine, una reciproca amputazione durata almeno mezzo
secolo si sta lentamente e assai contraddittoriamente rimarginando. Non si sono
ammazzati vitelli grassi per il fratello ritrovato, piuttosto si è vista la penosa reazione di chi rifà i conti di un’eredità ritenuta
già assegnata in esclusiva e ora, invece, da
spartire.
bia, Siria, ecc.), in alcune ingiustizie ormai
da troppo tempo sopportate (la divisione
di Cipro, per esempio), nella ricerca di un
nuovo ordine post-guerra-fredda anche nel
Mediterraneo. La proposta, avanzata fin
dai primi anni Novanta, di organizzare per
quest’area una sorta di “Helsinki del Mediterraneo”, cioè un quadro complessivo di
accordi per la cooperazione e la sicurezza, è
stata lasciata cadere; gli stessi governi che
l’avevano caldeggiata (Spagna, Italia, poi
anche Francia e Grecia) l’hanno messa nel
dimenticatoio.
Oggi un’altra fratellanza affievolita o forse
dimenticata è da riscoprire: quella euromediterranea. In anni passati in Italia si è
assistito a un curioso dibattito geopolitico:
chi voleva “entrare in Europa” reclamava
spesso la necessità di staccarsi dal Mediterraneo, “dall’Africa”, come talvolta si diceva
in senso spregiativo. Anche nel resto d’Europa, l’attenzione al Mediterraneo negli
ultimi anni ha subìto alterne vicende e si è
ulteriormente resa precaria dalla guerra del
Golfo in poi, dove si è invece consolidata una
sorta di egemonia dell’asse Usa-Stati petroliferi del Golfo (con l’Arabia Saudita in testa), con una forte influenza nel Mediterraneo che si è manifestata anche nella politica
della spesa pubblica. Su ogni Ecu investito
dalla Comunità europea, se ne sono investiti dieci da parte degli Usa e altrettanti da
parte dei petrolieri arabi. L’assenza di una
comune politica mediterranea la si è vista
non solo intorno alla guerra del Golfo: ancor più pesante la marginalità dell’Europa
nel ritrovare la pace tra israeliani e arabi,
nel dialogo con i paesi “difficili” (come Li-
Oggi i governi si preoccupano di certi campanelli d’allarme e tendono ad affrontarli,
ma troppo spesso in modo solo repressivo:
immigrazione incontrollata, tensioni sociali
e “rivolte del pane”, la crescita dell’integralismo islamico, i rischi del traffico illegale di
droga e di armi... insomma, i pericoli più che
le opportunità. La Conferenza inter-governativa euromediterranea, indetta dall’Unione europea per il prossimo novembre 1995
sotto presidenza spagnola, si prefigge -assai
positivamente- un nuovo partenariato euromediterraneo, ma rischia di limitarsi a puntare al controllo di alcuni di questi fenomeni
ritenuti minacciosi attraverso accordi di cooperazione e di finanziamento, senza osare
un disegno più ambizioso: un partenariato
che porti a una vera e propria Comunità euromediterranea, a fianco e intrecciata con
l’Unione europea.
Ecco perché riteniamo che sia tempo di affrontare anche dal basso la costruzione di
una nuova fratellanza euromediterranea, e
di accompagnare criticamente e attivamente il processo che si svolge al livello delle
istituzioni e dei governi. Una parte del volontariato europeo impegnato per la pace,
per la cooperazione, per l’ambiente, per la
giustizia tra nord e sud, per uno sviluppo
umano e sociale sostenibile, già opera in
questa dimensione.
Ma se vogliamo davvero ravvivare e rinnovare il patrimonio comune che lega comunità, popoli, cittadini, eco-sistemi, economie
e società mediterranee, e intrecciarle con
quell’altro grande processo di integrazione
che oggi faticosamente avviene tra l’Occidente e l’Oriente del continente europeo, bisognerà sviluppare una nuova sensibilità e
cogliere le molte occasioni di azione e interazione.
D’altra parte forse non si può chiedere ai
governi quanto dai cittadini e dalla società
civile non è ancora sufficientemente sentito
e condiviso.
Maggio 1995, editoriale Verdeuropa,
Bolzano-Bruxelles
è questa oggi una sfida e una possibilità
di grande rilievo per i cittadini e i gruppi
europei e mediterranei. Non c’è nessun’altra area del mondo in cui in uno spazio così
concentrato si trova un’eredità così comune
e così diversificata insieme: al crocevia tra
i tre continenti (Europa, Asia, Africa) e le
tre grandi religioni monoteiste (Ebraismo,
Cristianesimo, Islam), in una cornice ambientale e monumentale con caratteristiche
fortemente comuni e oggi gravemente minacciata.