pini e foreste dell`eta` del rame
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pini e foreste dell`eta` del rame
La prima metà dell’Olocene è caratterizzata da una successione di foreste, di suoli, di sistemi geomorfologici a determinismo quasi solo naturale, di clima temperato e talora più caldo di quello attuale, ancorché non stabile, ma con moderate oscillazioni nei regimi di piovosità. Con la fine del periodo Atlantico e l’inizio del Subboreale (5700 / 5500 anni cal. BP) intervengono disturbi causati da manifestazioni di deterioramento climatico più marcate, proprie della cd. Neoglaciazione (Orombelli e Ravazzi 1996). Tra la fine del Neolitico e l’età del Rame anche l’impatto antropico lascia tracce indelebili nella storia delle foreste e degli ambienti aperti. Il Subboreale termina agli inizi della prima età del Ferro e precisamente nel IX / VIII secolo a.C., con l’avvio di un’importante fase di peggioramento climatico, ben registrato in tutta Europa. Il presente contributo delinea un quadro di alcune caratteristiche naturali del territorio nord-italiano che hanno mutuamente interagito con le prime culture dell’età dei metalli. Il clima e le sue variazioni sono illustrate dalla storia dei ghiacciai, i più sensibili indicatori climatici di cui dispongono le Alpi. Segue una storia sintetica aggiornata delle principali specie forestali; infine, si esaminano le relazioni tra limite della crescita della vegetazione arborea, clima e origine della pastorizia transumante stabile di alta quota. La storia dei ghiacciai alpini. Dall’optimum climatico medio-olocenico alla Neoglaciazione Alcuni millenni dopo la fine dell’ultima glaciazione, tra circa 10 e 5.5 mila anni cal. BP, i ghiacciai alpini segnarono una fase di notevole contrazione - spesso indicata come “optimum climatico olocenico” - tra l’inizio del Boreale e la parte finale dell’Atlantico (fig. 1). Nelle regioni artiche questa fase è evidenziata da massimi isotopici d18O1 e si accompagna a valori relativamente elevati di insolazione estiva, anche alle medie latitudini, ma in declino (fig. 1). Pur tuttavia non si tratta di un intervallo di clima stabile: si registrano alcune avanzate dei ghiacciai alpini (fasce blu in fig. 1); inoltre un brusco evento freddo è registrato nella sequenza isotopica groenlandese 8.2 mila anni fa. Queste fasi fredde furono brevi, perciò i ghiacciai alpini restarono sempre ben all’interno dei limiti che raggiugeranno nella seconda metà dell’Olocene (Ivy-Ochs et Alii 2009). Nelle Alpi italiane la migliore evidenza della fase di optimum sono le torbe sepolte alla fronte del ghiacciaio del Rutor (Valle d’Aosta)2. Lo studio paleobotanico e la datazione di queste torbe indica che al tempo delle culture tardo-mesolitiche e neolitiche il clima fosse generalmente più caldo di quello della fine del XX secolo. Inoltre, legni di pino cembro trovati un po’ dappertutto nelle Alpi stabiliscono che il limite degli alberi si fosse portato a quote elevate, localmente oltre i 2650 m di altitudine3. Il primo segnale di una rinnovata attività glaciale, ovvero il primo impulso delle cosiddette “avanzate neoglaciali” è fornito dalle circostanze di morte e seppellimento di Ötzi, 3.17 ± 0.1 mila anni a.C. (Baroni e Orombelli 1996; Kutschera et Alii 2000), e dalla sua preservazione nel ghiacciaio di Similaun fino alla recente fusione, dovuta al riscaldamento climatico in corso. Altre avanzate glaciali tra 4 e 2 mila anni a.C. sono conosciute nel gruppo del Monte Bianco (Deline e Orombelli 2005), nelle Alpi svizzere e austriache (vedi fig. 1), ma sono datate solo indirettamente (Joerin et Alii, 2006, fig. 1). A partire dalla media età del Bronzo disponiamo di informazioni più precise, grazie alla cronologia dei tronchi fossili sepolti nelle morene dei ghiacciai dell’Aletsch (fig. 1). Dopo una fase di avanzata intorno al XVI-XV secolo a.C. (fase di Löbben, cfr. Renner 1982), si ebbe un forte ritiro tra il 1350 e il 1250 ± 100 a.C., Vedi la curva isotopica ottenuta dalla carota di ghiaccio GRIP in Groenlandia, presentata in fig. 1. Si vedano, per la documentazione stratigrafica: Porter e Orombelli 1985 e Orombelli 1998; per le evidenze paleobotaniche: Burga 1991; Aceti 2005. Gli studi sono tuttora in corso. 3 Aceti 2005; Tinner 2007; Badino, comunicazioni personali. Vedi il capitolo 4 e la fig. 11. 1 2 70 Fig. 2 - Le variazioni nell’abbondanza delle principali specie forestali durante quattro finestre temporali tra la fine del Neolitico e l’antica età del Bronzo in 14 siti selezionati nell’Italia alpina e padana. Elaborazione G. Furlanetto, C. Ravazzi, R. Pini. 71 con il ghiacciaio dell’Aletsch più corto di 1 km rispetto alla posizione dell’anno 2000 AD (“optimum del Bronzo Recente”, Holzhauser et Alii 2005). Tra il XII e il X secolo a.C. moderate oscillazioni preludono ad una delle più pronunciate culminazioni neoglaciali dell’Olocene tra il IX e il VII secolo a.C., la cosiddetta avanzata della prima età del Ferro, ampiamente documentata nelle Alpi4. La storia e gli impieghi delle principali specie forestali Allo scopo di illustrare la storia delle principali specie forestali alla metà dell’Olocene, abbiamo scelto 14 siti che forniscono registrazioni polliniche di riferimento, più altri siti provvisti di analisi pollinica e/o di studi sui macroresti vegetali, legni, carboni, semi e frutti. I siti di riferimento (tab. 1) dispongono di analisi pollinica stratigrafica ad alta risoluzione e di datazioni radiocarboniche AMS5. Le datazioni consentono di scandire le quattro finestre temporali selezionate6: -- Neolitico Recente e Finale, NR (ca. 4000 - 3400 anni a.C.). -- età del Rame - Remedello I, RemI (ca. 3400 - 2800 anni a.C.). -- età del Rame - Remedello II e cultura del Vaso Campaniforme, RemII-C (ca. 2800 - 2200 anni a.C.). -- Bronzo Antico, BA (ca. 2200 - 1600 anni a.C.). In fig. 2 è presentata l’abbondanza delle principali specie forestali per ciascuno dei 14 siti di riferimento. L’abbondanza è rappresentata dal valore medio delle percentuali polliniche, calcolato per ciascuna finestra temporale, e presentato in sei classi di abbondanza (assenza / 0-1% / 1-5% / 5-20% / 20-50% / 50-100%). Va ricordato che ciascuna specie è caratterizzata da una diversa produzione di polline e da un’altrettanto ampia variabilità nella capacità di dispersione, di cui occorre tenere conto nell’interpretazione di questo tipo di dati. Ne verrà dato conto nella trattazione delle singole specie7. A. Abete bianco (fig. 2 Abies a-d) L’abete bianco (Abies alba L.) produce grossi granuli di polline bisaccati (fig. 3) che cadono in gran parte vicino alle piante madri, pertanto i valori elevati di abbondanza che si riscontrano nelle Alpi centro-occidentali durante il Neolitico Recente (fig. 2, Abies-a) testimoniano che le abetine occupavano ampi territori, dai fondovalle fino a oltre 2000 m di altitudine. Al margine pedemontano veneto e in Pianura Padana la sua presenza era invece sporadica. Durante l’età del Rame, l’abete bianco declinò in modo vistoso al margine delle Alpi, mentre non subì importanti variazioni nelle zone interne delle Prealpi e nelle valli alpine. Nella fase Remedello II / cultura del Vaso Fig. 3 - Rametto con aghi a doppio pettine di abete bianco (Abies alba Miller) e polline (nel riquadro). Foto Lab. Palinologia CNR-IDPA. Alcuni dati paleoglaciologici sulla fase fredda della prima età del Ferro: il ghiacciaio dell’Aletsch culminò tra l’813 e il 602/600 a.C., 1.5 km a valle della posizione dell’AD 2000, ma non raggiunse il limite della Piccola Età Glaciale (Holzhauser 1984, vedi fig. 1); tra il IX e l’VIII secolo a.C anche i ghiacciai del Lys in Valle d’Aosta (Ravazzi 2011), quello dei Forni (Orombelli e Pelfini 1985) e del Pisgana (Baroni & Carton, 1988) in Lombardia registrarono una culminazione molto vicina al loro massimo limite olocenico, raggiunto nella Piccola Età Glaciale. 5 Purtroppo, nonostante il progresso delle ricerche palinologiche nell’ultimo trentennio, mancano tuttora siti di riferimento per il settore centrale e più basso della Pianura Padana nell’intervallo tra 6000 e 3500 anni a.C. 6 Suddivisioni culturali in base a de Marinis e Pedrotti (1997) e de Marinis (1999). 7 In particolare sono specie “sottorappresentate” quelle che presentano percentuali polliniche inferiori alla loro copertura forestale in un dato intorno del punto di prelievo del campione per l’analisi pollinica, e viceversa. Si veda Davis (1963) e Janssen (1966). 4 72 Campaniforme l’abete bianco era pressoché scomparso in Brianza. Questo declino medio-olocenico dell’abete bianco avvenne in concomitanza con fasi secolari di maggiore frequenza di incendio, che comportarono l’apertura di radure nelle ombrose abetine, favorendo il nocciolo e la felce aquilina. È noto che queste ultime sono specie favorite dagli incendi, ai quali l’abete bianco è viceversa molto sensibile (Wick 1996; Tinner et Alii 2005; Wick e Mohl 2006). Almeno in Lombardia occidentale, gli incendi furono un mezzo di disboscamento impiegato dalle popolazioni preistoriche delle culture del gruppo dell’Isolino, di Lagozza-Chassey e di Remedello (Drescher-Schneider 1990; Wick 1996). Le relazioni cronologiche tra incendi e oscillazioni dei livelli lacustri in Brianza (Wick 1996) suggeriscono inoltre che la frequenza del fuoco si intensificò durante fasi secolari di clima asciutto, che contraddistinsero sia il Neolitico che parte dell’età del Rame (Magny 2004). Per completezza, ricordiamo che una seconda, drammatica fase di declino e di estinzione dell’abete bianco nelle Prealpi e Alpi interne, avvenne in età medievale e rinascimentale. B. Faggio (fig. 2, Fagus a-d) Il faggio (Fagus sylvatica L., Fig. 4) era presente in diversi settori delle Alpi già all’inizio dell’Olocene (TriatLaval 1978; Magri et Alii 2006), ma a partire dal Neolitico divenne protagonista di importanti trasformazioni del paesaggio alpino e padano. Durante il Neolitico Recente, il faggio dominava già una fascia forestale collinare-montana nelle Prealpi Italiane, molto spesso in consociazione con abete bianco (abeti-faggeti). Negli anfiteatri glaciali di Ivrea, del Varesotto e di Como, come nel settore alto della pianura, oltre all’abete bianco, erano abbondanti querce e altre latifoglie. Tra l’età del Rame e l’antica età del Bronzo il faggio si espanse in tutto l’arco alpino, dall’area delle palafitte alle valli continentali interne (Val Venosta, Valtellina, Valle d’Aosta, Valle del Rodano), spesso in risposta al declino dell’abete bianco (vedi sopra). Si ritiene che questo fenomeno sia stato promosso sia da cause climatiche – cioè dal susseguirsi di fasi secolari fresche e piovose (Valsecchi et Alii 2008) – sia dall’impatto umano. La vigorosa risposta alla potatura del faggio e la sua fogliazione precoce ne fanno una specie utilizzabile per ottenere foraggio per il bestiame all’inizio della primavera, come documentato nella palafitta di Fiavè in Trentino (Karg 1998). Va inoltre ricordato l’impiego del legno per lavori di carpenteria e nelle strutture per la caccia (fig. 5), nonché la sua maggiore velocità di accrescimento in condizioni di persistente disturbo (Küster 1997) e la sua resistenza all’incendio. Queste proprietà favoriscono il faggio nella competizione forestale, in concomitanza Fig. 4 - Fronda di faggio (Fagus sylvatica L.) con faggiola e galla su foglia. Foto C. Ravazzi. Fig. 5 - La vigorosa risposta alla potatura del faggio giustifica il suo impiego nelle strutture di caccia (qui, esemplari di faggio modellati per supportare richiami presso un capanno nelle Prealpi Lombarde). Foto C. Ravazzi. 73 con incendi ripetuti e tagli. Infatti, le fasi di espansione del faggio tra il Neolitico e l’età del Rame risultano correlate con un aumento di microcarbone e la comparsa di specie antropogeniche (cereali e specie di pascolo), sia pure in quantità limitate, anche nelle aree in cui gli abeti erano quasi assenti (settore basso gardesano, Fimon, anfiteatro di Avigliana)8. C. Carpino bianco (fig. 2 Carpinus a-d) Il carpino bianco (Carpinus betulus L., fig. 6) non prese parte alle prime foreste postglaciali di latifoglie della Pianura Padana (Huntley e Birks 1983). Allo Fig. 6 - Frutti di carpino bianco (Carpinus betulus L.) attuali e granulo di polline fossile proveniente dai livelli del Bronzo Antico dalla palafitta del Lavagnone. Foto Lab. Palinologia CNR-IDPA. Fig. 7 - Curve polliniche % che illustrano le variazioni di abbondanza di alcune specie forestali, nella registrazione stratigrafica dei depositi lacustri-palustri del Lavagnone. Sulla destra è disegnato il diagramma cumulativo alberi/arbusti/erbacee. Si noti il brusco crollo degli alberi c. 2.05 mila anni a.C. connesso con l’impianto della palafitta del Bronzo Antico. L’espansione dei carpini e del faggio, in corso durante l’età del Rame, fu interrotta. Analisi E. Arpenti, R. Banino, M. Deaddis, M. Zanon. Elaborazione R. Pini. 8 74 Sulla storia forestale del Basso Gardesano, si veda il capitolo 4.2.1 Fig. 9a - Un ceduo di carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.). Foto C. Ravazzi. 1998). La successiva finestra temporale (RemI) mostra una sostanziale diffusione del carpino bianco al margine delle Alpi e nelle Prealpi, escluse le valli alpine continentali interne. Al margine delle Alpi Italiane, una zona di acme di abbondanza viene raggiunta nella tarda età del Rame, spesso nella fase della cultura del Vaso Campaniforme; in Pianura Padana appare abbondante nel Bronzo Medio-Recente (Ravazzi e Valsecchi 2001). Il carpino bianco e la betulla sono le specie che meglio sopportano il taglio e l’incendio (Küster 1997; Tinner et Alii 1999). La sua diffusione nell’età del Rame è connessa con il disturbo del bosco (Küster 1997), in particolare l’introduzione delle asce metalliche, la diffusione della pratica della potatura e la formazione dei cedui9. Nei siti del Bronzo Antico che ospitano insediamenti permanenti (palafitte) (soprattutto nel Gardesano - Lavagnone e Lucone; nei Berici: Fimon) si osserva una contrazione delle popolazioni di carpino bianco (fig. 2 Carpinus d, fig. 7). Infatti, nei dintorni degli abitati palafitticoli, il disboscamento per dare spazio a insediamenti, pascoli e colture a cereali avvenne a scapito di tutti gli alberi10 (fig. 8). D. Abete rosso (fig. 2 Picea a/d) Nel corso degli ultimi 13 mila anni l’abete rosso (o peccio, Picea abies Karst.) è progressivamente migrato da est a ovest attraverso la catena alpina, da una stirpe insediata nel pedemonte veneto-friulano durante il tardoglaciale (Ravazzi 2002). Alla metà del Neolitico il peccio era ben insediato nella fascia montana e subalpina delle Alpi centro-orientali, Fig. 11 - Esemplare femminile di tasso (Taxus baccata L.) con ma non aveva ancora raggiunto il circondario semi immaturi e un seme maturo circondato dall’arillo rosso dei laghi insubrici e le Alpi Occidentali italiane. carnoso, appetito dagli uccelli. Foto C. Ravazzi. Una fascia subalpina a pino cembro, larice e con abete rosso in Valle d’Aosta si costituì intorno al 2500 a.C. per migrazione dalle peccete vallesane (Brugiapaglia 1997; Ravazzi 2002). Ciò avvenne in concomitanza con i primi momenti di abbassamento del limite della foresta, in fase con l’inizio della Neoglaciazione e con la formazione dei primi pascoli alpini nell’alta Valle d’Aosta (Pini et Alii 2011; Di Maio et Alii 2012)11. Il ceduo è una pratica di taglio ripetuto a distanza di pochi anni, che si basa sulla capacità di alcune specie, come i faggi, i carpini e i noccioli, di rigettare dal ceppo (fig. 9a). Si diffonde come pratica di governo di vaste superfici forestali a partire dall’età del Ferro, ma poteva essere praticato già nell’età del Rame per ottenere legna. La scalvatura invece consiste nella sramatura frequente di germogli giovani, allo scopo di accumulare fogliame da foraggio (fig. 9b). 10 Arpenti et Alii, 2004; Valsecchi et Alii, 2008; Badino et Alii, 2011. 11 Si veda il capitolo 4. 9 76 E. Carpino nero (fig. 2 Ostrya a/d) Oggigiorno il carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.) è presente nei boschi cedui (fig. 9a) asciutti delle Prealpi Centro-Orientali, da cui penetra anche nelle valli interne (ad es. in Valtellina e Val Venosta - alta Val d’Adige), nonché nell’alta Pianura Padana, ma manca Fig. 10 - L’ascia di Ötzi in Val d’Aosta e sul versante nord delle Alpi. Questa singolare distribuzione trova una conveniente spiegazione nella storia degli ultimi 6000 anni. Circa 4000 anni a.C. il carpino nero era presente con certezza solo nelle Alpi Sud-Orientali (fig. 2 Ostrya a); nell’età del Rame si espanse nell’area del basso Garda, ma si diffuse in Lombardia soltanto successivamente, nel corso dell’età del Ferro. Come già evidenziato per il carpino bianco, queste vicende sono strettamente connesse con la trasformazione delle forme di governo del bosco. Inizialmente l’estendersi della pratica della potatura / scalvatura tra l’età del Rame e l’età del Bronzo intorno agli abitati. Successivamente, nella sua avanzata verso ovest durante l’età del Ferro, il carpino nero trasse vantaggio dalla sua resistenza all’incendio e dalla sua capacità di colonizzare versanti denudati a seguito di interventi di deforestazione. Ciò avvenne in relazione alla crescente richiesta di legna da ardere e di pascolo magro, anche in concomitanza con l’introduzione di utensili e tecniche più efficaci nello sfruttamento delle risorse forestali. Il contesto di queste trasformazioni, tipiche dell’età del Ferro, è lo sviluppo di centri rurali e protourbani al margine delle Alpi, nonché di nuclei ad attività agro-pastorale e mineraria nelle valli prealpine. F. Tasso Il successo del tasso (Taxus baccata L.) nelle foreste delle Alpi Italiane tra il Neolitico e l’età del Rame è emblematica di questo periodo, come lo sono l’arco e l’immanicatura in legno di tasso dell’ascia di Ötzi (fig. 10)12. Il tasso è una conifera sempreverde (fig. 11) che si accompagna alla vegetazione sempreverde delle foreste di laurifoglie temperate fresche e ombrose, ricche di piante legnose sempreverdi, come l’agrifoglio (Ilex aquifolium), l’edera (Hedera helix), il vischio (Viscum album) e la laureola (Daphne laureola). Il tasso era presente nelle Alpi nel Mesolitico, allorché il suo legno veniva già utilizzato per archi e frecce (Thiebault 1994), ma il suo successo, nelle Alpi italiane, inizia con il declino dell’abete bianco ed appare correlato con la diffusione del faggio, di cui si è trattato sopra13. Infatti, spesso il polline di tasso appare circa alla metà del Neolitico14, insieme alla diffusione del faggio in loco, dando luogo a una foresta molto ombrosa e fresca. Si pensa che il tasso e l’agrifoglio occupassero lo strato dominato dalla chioma del faggio e dell’abete bianco. Nella vegetazione moderna si ritrova questa consociazione, ma impoverita per la mancanza dell’abete bianco15. Peraltro, nei focolari neolitici, insieme ai reperti fossili di tasso e di agrifoglio si rinviene anche l’abete bianco e il suo emiparassita, il vischio (Thiebault 1994; Ravazzi 2000; Pini et Alii 2010). Questo fenomeno ha una spiegazione in parte ecologica (a) e Nelle Alpi Bernesi è stato trovato un altro arco da un corredo neolitico preservato nel ghiaccio (Grosjean et Alii, 2007). Si noti che, nelle Prealpi e nel Giura francesi, una fase di espansione del tasso inizia già con il primo Neolitico e prosegue nell’età del Rame, quindi spesso precede l’espansione del faggio (Thiébault 1999; Martin and Thiébault 2010). Diversamente, in molti settori delle Alpi Italiane, l’espansione dell’abete bianco anticipa quella del faggio. 14 Bisogna ricordare che il tasso è sottorappresentato nella pioggia pollinica, pertanto l’assenza di polline non è da considerare significativa di una sua assenza nella foresta, mentre la presenza nelle registrazioni stratigrafiche con curva continua nel tardo Neolitico e nell’età del Rame (Origlio, Ganna, Annone, Ledro, Fimon) indica la presenza dell’albero nell’area circostante al sito di sedimentazione. 15 Si tratta delle faggete ad agrifoglio e tasso, che gravitano attorno all’associazione Aquifolio-Fagetum. Si veda Pignatti 1998. 12 13 77 te, travi, opere di supporto. All’inizio dell’età del Bronzo, nei dintorni degli abitati palafitticoli, il prelievo di legna aumentò sensibilmente, ma la pioggia pollinica delle querce decrebbe meno del faggio e dell’olmo. Si può presumere, in virtù della loro capacità di rigettare dal ceppo, del vantaggio fornito da un aumento della luminosità nelle foreste aperte, e di altre importanti funzioni di particolare interesse economico. Infatti, nelle palafitte gardesane dell’età del Bronzo è documentato l’impiego del fogliame e di amenti di querce e nocciolo come foraggio (Perego, in preparazione). Peraltro, l’impiego delle foglie degli alberi come foraggio e strame era già importante nelle culture neolitiche, quando lo sfalcio delle specie erbacee e graminoidi nei prati/ pascoli non era praticato estesamente (Rasmussen 1990; Maggi e Nisbet 2000)19. In secondo luogo, l’abbondanza delle ghiande nei depositi degli abitati palafitticoli indica un impiego nell’alimentazione dei suini e talora anche umano (Karg e Haas 1996). Contestualmente, l’importanza dell’allevamento di suini nelle comunità agricole nomadi o semi-nomadi nord-italiane del Neolitico e dell’età del Rame (Barker 1979), aumenta negli insediamenti stabili dell’età del Bronzo in Pianura Padana (De Grossi Mazzorin e Riedel 1997). Tutto ciò suggerisce che nei dintorni degli insediamenti fossero mantenuti boschi radi, destinati al pascolo brado di suini, in cui parte degli esemplari di quercia venivano rispettati, a scapito di altri alberi. Fig. 13 - La piantaggine dei pascoli, Plantago lanceolata L. Scapo fiorifero e polline. Foto Lab. Palinologia CNR-IDPA. Le variazioni del limite degli alberi, l’espansione dei pascoli e l’alpeggio Il tema dello sfruttamento dei pascoli e più in generale, degli ambienti oltre il limite della foresta nelle Alpi ha particolare rilievo nella storia ambientale ed economica tra la fine del Neolitico e l’età del Bronzo. Gli studi paleobotanici e le prospezioni archeologiche in quota evidenziano, per questo intervallo, importanti fasi di abbassamento del limite degli alberi (fig. 12; Aceti 2005; Nicolussi et Alii 2005; Tinner 2007), cui si accompagna l’espansione di Fig. 14 - Il rabarbaro alpino, Rumex alpinus L. Foto C. Ravazzi. L’impiego di erbe graminoidi nell’età del Rame per usi specifici è magistralmente esemplificato dall’equipaggiamento di Ötzi (Acs et Alii 2005; Oeggl 2009). 19 79 praterie e brughiere alpine e subalpine. L’ampliarsi delle formazioni prative durante il IV millennio a.C. nella fascia di tensione tra il limite della foresta e il limite degli alberi (2250 - 2600 m s.l.m. nelle Alpi interne), è un fenomeno ben riconosciuto negli anni novanta dalle registrazioni polliniche (Oeggl 1994; Wick 1994). Una prova dello stabilirsi di formazioni erbacee di prati ricchi è la comparsa di alcuni tipi pollinici ben riconoscibili nei depositi torbosi e lacustri di alta quota, come la piantaggine a foglie di lancia (Plantago lanceolata L., fig. 13), il ligustico (Ligusticum mutellina Crantz), la romice (Rumex acetosa L.) e soprattutto erbe nitrofile come l’ortica (Urtica dioica L.), il chenopodio (Chenopodium bonus-henricus L.) e il rabarbaro alpino (Rumex alpinus L., fig. 14), cui si accompagna un ricco corteggio di alte erbe20 indicatrici dell’apporto di sostanze azotate da parte del bestiame, oppure, semplicemente, di suoli ricchi di nutrienti. L’apporto di nutrienti nel suolo causato dalla pratica stabile dell’alpeggio è evidenziato dalle paleoflore di alcuni siti dell’età del Bronzo nelle Prealpi Trentine, nelle montagne dell’Ötztal e in Val Camonica, ove spesso si accompagna a picchi di microcarbone nei sedimenti torbosi e lacustri (Oeggl e Festi 2012; Badino e Ravazzi 2012). In questi siti, alle evidenze paleobotaniche si accompagna l’evidenza archeologica. Infatti, il ritrovamento di strutture di combustione nella fascia prossima al limite della foresta e il quadro insediativo relativo ai versanti soggiacenti agli alti pascoli - con numerosi siti ad attività stagionale - indicano una popolazione umana importante e una frequentazione intensa di tutti i piani altitudinali. Infatti, la monticazione estiva stabile richiede un struttura sociale complessa (Bagolini e Pedrotti 1992; Marzatico 2009). La suggestione suscitata dall’ipotesi che lo stesso Őtzi fosse un pastore alpeggiatore (Spindler 2005) e supportata da dati pollinici preliminari (torbiera di Rofenberg; Bortenschlager 1993) indicherebbe che la monticazione, la transumanza e l’alpeggio fossero già praticate nelle culture di talune valli alpine del Fig. 15 - La torbiera delle Crotte Basse, 2365 m s.l.m. con il rifugio omonimo. Sullo sfondo un settore dei pascoli del Monte Fallère (Aosta). Foto C. Ravazzi. Altri tipi pollinici ben riconoscibili, che indicano alte erbe dei prati e pascoli grassi in ambiente alpino e subalpino: Ranunculus tipo acris, Polygonum viviparum / bistorta. 20 80 Fig. 16 - Curve polliniche % che illustrano le variazioni di abbondanza di alcune specie forestali, nella registrazione stratigrafica dei depositi lacustri-palustri del laghetto-torbiera dele Crotte Basse, Valle d’Aosta (2365 m s.l.m.). Sulla destra è disegnato il diagramma cumulativo alberi/arbusti/erbacee. Sono indicate le due fasi di declino della foresta. Analisi ed elaborazione R. Pini. Fig. 17 - Spore fossili di funghi coprofili al microscopio ottico (x630). a-c) diversi tipi di spore di funghi appartenenti alla famiglia Sordariaceae. a - età del Rame, torbiera delle Crotte Basse; b-c - Bronzo finale, hospitium Pergami, Bergamo; d) spora di Sporormiella (famiglia Sporormiaceae), età del Rame, torbiera delle Crotte Basse. Foto Lab. Palinologia CNR-IDPA. 21 Neolitico Recente, nella prima metà del IV millennio a.C. Ma se, da una parte, la documentazione archeologica e faunistica suggerisce che greggi di ovi-caprini nomadi, impiegati per la carne ma anche per il latte, frequentassero già le basse e medie altitudini durante il Neolitico Recente21, non vi sono chiare indicazioni per la transumanza annuale alle alte quote in questo periodo. Il problema richiede quindi la distinzione tra un pascolo nomade a dominanza di ovi-caprini – tipico dei pascoli secchi delle montagne a clima mediterraneo e degli ambiti di pertinenza degli abitati – dall’alpeggio vero e proprio, stanziale, che comprende un cospicuo numero di bovini, e che sfrutta l’elevata produzione di biomassa e la disponibilità di acqua propria delle montagne a clima continentale-atlantico, quali sono le Alpi oggi. Sono perciò da considerare le concause climatiche e i loro effetti sugli ecosistemi di alta quota. Presentiamo di seguito le ultime considerazioni sul tema (settembre 2012) e un esempio in corso di studio con dati inediti (le Crotte Basse, alta Valle d’Aosta). Nelle Prealpi Gardesane: Barker 1979; nel Vallese: Curdy e Chaix 2009. 81 La torbiera di Rofenberg è la più elevata finora nota nelle Alpi (2760 m s.l.m.)22 ed è singolare che le specie di pascolo compaiano prima nel piano alpino superiore. In accordo con Oeggl e Festi (2012), si avanza l’ipotesi che i suoli di alta quota ospitassero le stazioni primarie delle specie alpine oggi diffuse nei pascoli, in virtù della fertilizzazione causata da un ridotto tasso di decomposizione della sostanza organica alle basse temperature su substrati basici (Körner 1999), nonché del contributo delle deiezioni degli ungulati selvatici. Inoltre il peggioramento climatico documentato all’inizio dell’età del Rame (Magny et Alii 2006) e le medesime circostanze climatiche che hanno determinato la preservazione di Ötzi (Baroni e Orombelli 1996), possono avere espanso l’area pedoclimatica dei suoli fertilizzati con vegetazione erbacea, a discapito delle foreste di conifere acidofile 23. Coerentemente, i recenti studi pollinici sull’origine dei pascoli nel massiccio Ortles-Cevedale (Ravazzi e Aceti 2004; Aceti 2005) indicano che, ad un declino delle foreste di pino cembro durante il VI millennio a.C., segue un’intensificazione dei processi periglaciali e l’espansione di prati naturali, privi di indicatori antropogenici certi24. Si accompagna inoltre l’espansione dell’ontano verde (Alnus viridis), un fenomeno noto a scala alpina (Wick e Tinner 1997) che si relaziona con un aumento delle precipitazioni, dell’innevamento e delle valanghe. Secondo questi dati, almeno una parte dei prati alpini avrebbe un’origine naturale per oscillazione climatica, mentre il pascolo intensivo, con frequenza annuale, delle greggi e dei bovini avrebbe avuto inizio più tardi. Nuovi dati, sostenuti dallo studio di parametri paleoecologici in precedenza trascurati25, provengono dal laghetto / torbiera delle Crotte Basse, circondata dai pascoli del Monte Fallère, 2365 m s.l.m., in alta Valle d’Aosta (fig. 15). Il declino delle foreste di pino cembro dai dintorni del laghetto inizia 3250 ± 100 anni a.C. (fig. 16) ed è seguito da una fase (3300 - 3000 a.C.) di fertilizzazione e di maggiore illuminazione del laghetto, con esplosione di alghe verdi (Spirogyra). Compaiono già numerose specie prative e il microcarbone è abbondante. In questa fase sono documentate strutture di combustione ricche di litica su quarzo (Guerreschi et Alii 2010; Di Maio et Alii 2012) nella fascia immediatamente sottostante al laghetto (2200 - 2280 m s.l.m.). In una seconda fase di più rapida deforestazione dell’area (2850 ± 100 a.C.) si espandono i funghi coprofili (Sordariaceae e Sporormiella, fig. 17). La concomitanza e l’abbondanza di questi copromiceti indica un pascolo bovino, perché lo sterco dei capri-ovini presenta un cortice poco adatto allo sviluppo del micelio. Si noti che la torbiera delle Crotte Basse è il principale bacino utilizzabile come pozza di abbeverata permanente in un ampio pascolo asciutto26. Infine si sottolinea la corrispondenza tra la data dell’impianto del pascolo bovino (2850 ± 100 a.C.) e la prima fase di impianto del santuario megalitico di Saint Martin de Corléans di Aosta27, situato al piede del versante del Monte Fallère. Al Monte Fallère dunque l’impianto dell’alpeggio si data a una fase della prima età del Rame, ma già qualche secolo prima veniva sfruttata la fascia più alta della foresta presso il limite degli alberi, il quale era in declino per il peggioramento climatico. Si può speculare che l’aumento delle precipitazioni e dell’innevamento abbia alimentato l’inLe torbiere più alte in quota si trovano nelle Alpi interne, ma oltre i 2600 m s.l.m. sono comunque rarissime. Nel massiccio Ortles Cevedale si segnala la torbiera della Costa a 2670 m s.l.m. (Aceti 2005). Nelle zone a clima oceanico la quota massima delle torbiere si abbassa a 2300 m. Alcune di queste originano solo a seguito del riscaldamento climatico recente (torbiera dell’Armentarga, Alpi Orobie, 2365 m s.l.m.). Per l’importanza delle torbiere per la ricostruzione paleoambientale: Badino et Alii 2012. 23 In particolare un aumento dell’innevamento e della circolazione di acque di fusione, dopo la rimozione della foresta, provoca l’erosione delle lettiere acide a mor tipiche dei podzol delle foreste di conifere subalpine, favorendo l’insediamento della vegetazione erbacea. Le acque apportano minerali detritici che fertilizzano i suoli. I pastori possono ottenere questo risultato più rapidamente, rimuovendo la foresta e le brughiere di degradazione tramite incendi ripetuti negli anni. 24 Questi dati provengono dallo studio della torbiera del Lago Nero presso il Passo Gavia. L’area era stata frequentata nel mesolitico (Angelucci et Alii 1994), ma non vi sono poi evidenze di impatto antropico fino all’età del Bronzo. 25 In particolare lo studio di dettaglio dei funghi coprofili (Van Geel et Alii 2003) e la distinzione di tipi pollinici di specie imparentate con quelle indicatrici dei pascoli grassi, ma proprie di suoli magri non fertilizzati. 26 Si sottolinea qui lo scempio delle pozze d’alpeggio nelle Alpi e negli Appennini, devastate da interventi di ripristino dei pascoli, promossi dagli enti locali. Questi bacini - siano essi di origine naturale o artificiale - contengono informazioni uniche sulla storia delle attività e dell’ambiente montano e alpino. 27 In base agli studi e alle datazioni più recenti, il santuario inizia con l’allineamento di pali lignei tra il 2980 e il 2520 a.C., prosegue con la costruzione delle tombe megalitiche, e poi con l’erezione delle stele antropomorfe tra il 2750 e il 2050 a.C. (Mezzena 1997; Pini et Alii 2009; Castellano et Alii 2010). 22 82 teresse delle popolazioni agropastorali per le aree aperte che si andavano estendendo. Un aumento delle precipitazioni sui versanti asciutti e caldi avrebbe accresciuto la disponibilità di acqua per l’abbeverata, il valore pabulare dei prati e la durata del periodo di monticazione. Ringraziamenti - Il presente lavoro è frutto delle ricerche svolte nell’ultimo decennio presso il Laboratorio di Palinologia e Paleoecologia del C.N.R. e dell’Università di Milano Bicocca. Ne hanno preso parte a vario titolo: Amelia Aceti, Enrico Arpenti, Federica Badino, Roberta Banino, Lorenzo Castellano, Giulia Furlanetto, Renata Perego, Francesca Vallé, Marco Zanon. Ringraziamo, inoltre, Luca Raiteri e Gaetano De Gattis (Direzione Restauro e Valorizzazione, Regione Valle d’Aosta) per avere concesso l’utilizzo di studi inediti da Monte Fallère e Saint Martin de Corléans. Ringraziamo i seguenti colleghi per le discussioni e i commenti: Gilberto Artioli (Univ. Padova), Raffaele C. de Marinis (Univ. Milano), Renate Ebersbach (IPNA, Basel), Antonio Guerreschi (Univ. Ferrara), Franco Mezzena (Direzione Restauro e Valorizzazione, Regione Valle d’Aosta) e Umberto Tecchiati (Ufficio Beni Archeologici di Bolzano). Nome del sito Area geografica Quota Numero date 14C Riferimento bibliografico Lac de Fully Vallese 2135 m 4 Finsinger e Tinner, 2007 Lac de Mont d’Orge Vallese 640 m 8 Welten, 1982; Curdy et al., 2009 Torbiera d. Crotte Basse Alpi Pennine 2365 m 5 Pini et al., 2011 e in prep. Lago di Ganna Prealpi Lombarde 452 m 4 Drescher-Schneider, 1985 Lago di Origlio Prealpi Lepontine 416 m 10 Tinner et al., 1999; 2005 Lago del Segrino Prealpi Lombarde 374 m 8 Gobet et al., 2000 Lago di Annone Prealpi Lombarde 226 m 5 Wick, 1996 Lago di Gaiano Prealpi Lombarde 341 m 2 Gehrig, 1997 Pian di Gembro Alpi Retiche 1350 m 4 Pini, 2002 Passo del Tonale Alpi Retiche 1883 m 2 Gehrig, 1997 Torbiera di Totenmoos Alpi 1718 m 4 Heiss et al., 2005 ex Lago Lavagnone Reg. Gardesana 110 m 10 Ravazzi et al (non pubblicato) Lago Lavarone Prealpi Trentine 1115 m 7 Filippi et al., 2005 Lago di Fimon Monti Berici 26 m 4 Valsecchi et al., 2008 Tab. 1 - Le 14 registrazioni polliniche selezionate per illustrare la storia delle principali specie forestali nelle Alpi Italiane e al loro margine. È indicato il numero di datazioni 14C disponibili tra 7 e 2 mila anni cal BP, sulle quali si basa la suddivisione cronologica adottata nella figura 2. 83 Riferimenti Bibliografici Aceti A.A. 2005, La variabilità climatica nell’Olocene: studio di torbiere e di ambienti di alta quota nelle Alpi Italiane, Tesi di Dottorato di Ricerca, Università degli Studi di Milano Bicocca, 150 pp. Acs P., T. Wihalm e K. Oeggl 2005, “The plant remains of the Neolithic Iceman “Ötzi”: the grasses (Poaceae)”, in Vegetation History Archaeobotany, 14, 198-206. Angelucci D., M. Cremaschi, F. Negrino e M. Pelfini 1994, “Il sito mesolitico di Dosso Gavia - Val di Gavia (Sondrio - Italia): evoluzione ambientale e popolamento umano durante l’Olocene antico nelle Alpi Centrali”, in Preistoria Alpina, 28, 19-32. Arpenti E., C. Ravazzi e M. 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