N°21 – 1 Novembre - Rivista Rocca

Transcript

N°21 – 1 Novembre - Rivista Rocca
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
Una bomba politico-strategica Le due Afriche
La lettura e l’educazione permanente Il ritorno del Ddt
Etica scienza società: Di chi è la mia vita?
$#
ANNO
NUMERO
21
periodico quindicinale
Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post.
dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1, comma 2, DCB Perugia
1 novembre 2006
A2,00
Partito Democratico: Unire senza appiattire
Un moderno modello di sviluppo: Oltre la Finanziaria
Inserto: Integrismo, la malattia della verità
giocate gente
giocate!
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
Rocca
A te, insegnante ed ai tuoi studenti, Rocca propone:
sommario
STORIA, LETTERATURA, FILOSOFIA, ETICA, RELIGIONE, AMBIENTE,
ECONOMIA, PSICOLOGIA, SCIENZA, DIRITTO, EDUCAZIONE, SVILUPPO, SPIRITUALITÀ, POLITICA, SOCIETÀ, ARTI E CULTURE... quali
campi del sapere ed esperienze di vita in cui per la tua classe puoi
trarre materiali di ricerca per:
4
7
11
13
14
16
18
argomenti da approfondire
temi su cui riflettere
21
spunti per discutere e dibattere anche in vista dell’
esame di stato
mediante la formula ABBONAMENTO CLASSE
22
25
28
29
gennaio-giugno 2007
35
Con una spesa di 10 Euro (proprio solo d i e c i) per ogni studente
12 numeri di Rocca
+ gratis i numeri 2006 che usciranno dal momento in cui ci perverrà l’importo cumulativo
degli abbonamenti
1 novembre
2006
41
Attenzione: l’offerta è valida a partire da almeno 20 abbonamenti
Versare quota cumulativa a Rocca
con ccp 15157068 o bonifico bancario
e inviare elenco indirizzi abbonati a:
Rocca C.P. 94 - 06081 ASSISI
oppure
[email protected]
DISPONIBILI COPIE SAGGIO
PER GLI INSEGNANTI
richiedere a
ROCCA cas.post. 94 - 06081 Assisi
e.mail [email protected]
www.rocca.cittadella.org
37
21
42
44
46
Ci scrivono i lettori
49
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Vignette
Il meglio della quindicina
51
Raniero La Valle
Resistenza e pace
La vittoria di Schumacher
54
Maurizio Salvi
Corea del Nord
Una bomba politico-strategica
56
Filippo Gentiloni
Partito democratico
Unire senza appiattire
57
Paolo Leon
Un diverso modello di sviluppo
Proposte in discussione/2
Oltre la Finanziaria
58
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Due Afriche, due opportunità
58
Pietro Greco
Ambiente
Il ritorno del Ddt
59
Fiorella Farinelli
Rapporto Editoria
La lettura e l’educazione permanente
59
Romolo Menighetti
Parole chiave
Nord
60
Giancarlo Zizola
Cultura e religioni
Integrismo, la malattia della verità
60
Giuliano Della Pergola
Conflitti
La guerra al tempo della guerra infinita
61
62
Giannino Piana
Etica scienza società
Di chi è la mia vita?/2
Luca Rolandi
Torino spiritualità
La rivolta delle periferie
Vito Procaccini
Società
Giocate gente, giocate!
Manuel Tejera de Meer
Io e gli altri
Con una goccia di miele
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Come nasce una donna/2
63
Stefano Cazzato
Maestri del nostro tempo
Thomas Kuhn
Scienza è un modo di stare al mondo
Marco Gallizioli
Culture e religioni raccontate
Palazzo Yacoubian, come si diventa terrorista
Carlo Molari
Teologia
La fede e la sua formulazione razionale
Lidia Maggi
Eva e le sue sorelle
La donna giusta
Giacomo Gambetti
Cinema
Contraddizione
La stella che non c’è
Roberto Carusi
Teatro
Un Mozart teatrale
Renzo Salvi
Rf&Tv
Wild West
Mariano Apa
Arte
Frangi
Alberto Pellegrino
Fotografia
La società in posa
Enrico Romani
Musica
Dylan, il Boss e la Finanziaria
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Beni culturali e musei
Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
Uruguay
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 21 – 1 novembre 2006
$#
ANNO
Gruppo di redazione
GINO BULLA
CLAUDIA MAZZETTI
ANNA PORTOGHESE
il gruppo di redazione è
collegialmente responsabile
della direzione
e gestione della rivista
Progetto grafico
CLAUDIO RONCHETTI
Fotografie
Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone,
Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille
G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici,
Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella,
Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca,
Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo
Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F.
Redazione-Amministrazione
casella postale 94 - 06081 ASSISI
tel. 075.813.641
e-mail redazione: [email protected]
e-mail ufficio abbonamenti: [email protected]
www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org
http://procivitate.assisi.museum
Telefax 075.812.855
conto corrente postale 15157068
Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi
Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270
IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250
BIC: BPSPIT3SXXX
Quote abbonamento
Annuale: Italia A 45,00
Annuale estero A 70,00
Sostenitore: A 100,00
Semestrale: per l’Italia A 26,00
una copia A 2,00 - numeri arretrati A 3,00
spese per spedizione in contrassegno A 5,00
Spedizione in abbonamento postale 50%
Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c.
Selci-Lama Sangiustino (Pg)
Responsabile per la legge: Gesuino Bulla
Registrazione del Tribunale di Spoleto
n. 3 del 3/12/1948
Codice fiscale e P. Iva: 00164990541
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Editore: Pro Civitate Christiana
Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono
riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati
non si restituiscono
Questo numero
è stato chiuso il 17/10/2006 e spedito da
Città di Castello il 20/10/2006
4
Eutanasia e
umana pietà
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Il porre all’ordine del giorno proposte di legge sull’eutanasia nella società di
oggi, mi suscita uno sgomento agghiacciante.
Non siamo maturi per giudicare con credibilità tale
argomento.
Per essere affidabili sulla
sincera intenzione di agire
per salvaguardare la libertà e la dignità dell’uomo
davanti alla morte, bisogna
dar prova di essere capaci
di salvaguardare la dignità
dell’uomo vivente.
A sostegno di questa affermazione, pur essendo una
persona senza particolari
qualifiche, constato le molte, troppe contraddizioni
fra i principi di civiltà che
si proclamano e il nostro
comportamento. Per rilevarne alcune, si accetta la
morte di innocenti se ostacola i fini da raggiungere,
liquidandola come danno
collaterale. D’altro canto, si
usa un uomo come semplice arma di offesa, strumento di morte più efficace ed
economico di una bomba.
Non ci si turba e non ci si
indigna che altri uomini
vicini o lontani da noi, siano privi del diritto di sussistenza, della libertà di vivere «una vita dignitosa».
Come posso essere in grado di legiferare su «la libera volontà di morte?»
Riconosciamo onestamente che avendo raggiunto la
possibilità di allungare la
vita, non sappiamo più
come governarla.
Per venire incontro alla disperata volontà dei pochi
che chiedono di porre fine
a sofferenze insostenibili, si
rischia di instaurare una
sorta di mobbing verso
quelle persone che si ostinino a continuare a vivere
una «vita non dignitosa».
L’umana pietà si manifesti
se sincera, nell’astenersi
dall’accanimento terapeutico quando porti solo a inutili sofferenze o sperimentazioni. Si faccia diventare
la terapia del dolore un diritto, terapia che potrà cer-
tamente svilupparsi in maniera selettiva.
Si sottopongano i casi eccezionali a una sorta di tribunale del malato con tutte le salvaguardie possibili.
C’è ancora una strada da
percorrere: far conoscere
obiettivamente specialmente alle persone sole o
svantaggiate il significato
delle alternative proposte e
tutelare la loro volontà con
una dichirazione personale.
Ricordiamo comunque che
anche il più equo provvedimento si vanifica se non
viene recepito da una società solidale.
Maria Rosa Ciampi
Schaffner
Firenze
Perché
il Movimento
non assume come
importante
la campagna per
Corpi Civili
di Pace?
L’attuazione della risoluzione dell’Onu, che, seppur in
ritardo, ha comportato la
fine dell’uccisione di civili
libanesi (in massima parte)
e israeliani ha rilanciato la
necessità della riflessione
sulle alternative possibili
alla struttura politica militare.
Non possiamo però nasconderci gravi interrogativi che emergono dall’analisi della situazione, pur condividendo gli obiettivi, perseguiti in ritardo, del cessate il fuoco e della protezione dei civili che caratterizzano l’intervento dei caschi blu e che, per questo,
differenziano in modo evidente l’intervento in Libano da quello in Afghanistan
e Iraq.
Quali sono le strategie possibili per evitare di essere
assorbiti e travolti dalla
strategia della guerra permanente e di scivolare in
appoggio alla politica di
dominio israeliano (visto il
posizionamento esclusivo
in territorio libanese e l’accordo di cooperazione militare Italia-Israele)?
È affidabile l’interposizione
effettuata da reparti militari che, in passato, si sono
resi protagonisti di crimini
nei confronti delle popolazioni civili in Somalia?
Per questi motivi è necessario ragionare sulle possibili
alternative. Ma esistono?
Forse dimentichiamo che
in questi anni centinaia di
italiani hanno partecipato
ad interventi nei Balcani, in
Cile, in Bolivia, in Ecuador,
in Guatemala, Honduras,
in Chiapas, in Kenya, in
Turchia, in Palestina, in
Congo e Ruanda. E abbiamo rimosso i 1500 di «Time
for Peace» (1989) e i 500 di
Saraievo (1992).
Inoltre, l’opinione pubblica
(compresa quella pacifista)
non sa che da anni ci sono
corsi formativi ad alto livello per la formazione di corpi civili di pace: il corso di
monitoraggio del Centro
studi per i diritti umani e dei
popoli del professor Papisca, che in collaborazione
con una decina di università europee ha formato un
centinaio di persone; il corso di laurea in Scienze per
la pace dell’Università di
Pisa e in Operazioni di pace
che ormai hanno laureato
molte decine di persone; i
corsi professionali per mediatori di pace della Provincia di Bolzano e delle Regioni Piemonte, Toscana, Marche e Campania, il Comune
di Bertinoro, che hanno formato almeno un 150 persone.
Tra l’altro, lo Stato italiano,
unico al mondo, ha assegnato un milione di euro all’Ufficio nazionale per il
Servizio Civile (Unsc) con
un Comitato per la difesa
civile Non Armata e Nonviolenta (Dcnanv), (decreto
18 febbraio 2004) per interventi di pace chiamati «Difesa popolare nonviolenta»,
cioè per la strategia di intervento contro la guerra e
per la pace che obiettori e
associazioni nonviolente
hanno promosso da alcuni
decenni in Italia.
Questi corpi civili devono
avere l’obiettivo della non
partigianeria, cioè di porsi
dalla parte del più debole,
affinché rinascano le condizioni per il dialogo e la
trattativa; devono essere
presenza di monitoraggio,
tutela, promozione dei diritti umani; devono facilitare la riconciliazione che
si concretizza trasversalmente attraverso tutti gli
interventi di assistenza
umanitaria, ricostruzione,
riabilitazione e sviluppo,
valorizzando le componenti della società civile locale
impegnate nella promozione dei diritti umani e del
dialogo.
Certamente tutto questo
può sperare di essere efficace se i corpi civili di pace
sono distinti e autonomi
dalle forze armate locali e
internazionali. Per alcuni,
l’area nonviolenta che ha
organizzato un convegno a
100 anni dal discorso con
cui Gandhi ha promosso il
Satyagraha, è utile intervenire in Israele e a Gaza e
nei territori occupati dallo
Stato di Israele. Altri, la
Rete Caschi Bianchi (coordinamento degli enti: Associazione Comunità Papa
Giovanni XXIII, Caritas
Italiana, Volontari nel
Mondo Focsiv e Gavci)
hanno dato la disponibilità a lavorare in Libano. Il
Movimento per la Pace
deve fare propria la Campagna per un Diverso Modello di Difesa e di Intervento nelle aree di conflitto, se non si vuole appiattire tra il sostegno (molto
spesso solo a parole) alla
resistenza armata islamica
e l’appoggio al «governo
amico».
È quindi possibile costruire un contesto politico favorevole che permetta di
gradualmente sostituire la
presenza militare con quella non armata. Perché non
riprendere l’elaborazione e
le proposte dell’assemblea
di Genova «Ripartire da
Genova (22 luglio 2006) e
lanciare una campagna per
il ritiro del contingente italiano dall’Afghanistan e per
INVITO
AI LETTORI
lunedì 30 ottobre
ore 18,15
ROCCA
a
ROMA
promosso dal
Polo DidatticoProgetto Humanitas
sul tema
LA RELIGIONE
FAI DA TE
incontro
con l’Autore
MARCO
GALLIZIOLI
e con
ROCCALIBRI
Sede
Polo DidatticoProgetto Humanitas
Piazza Oderico
da Pordenone 3
00145 ROMA
tel. 06/5134825
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
5
ATTUALITÀ
Riguardo l’articolo di Lilia
Sebastiani (Rocca 16/17)
bellissimo come di consueto, ne riconosco la caratteristica delle interpretazioni dei dotti: cercare di capire l’oscuro anche quando esistano interpretazioni semplici. Vi propongo di
leggere la mia.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Per poter capire il senso ed
il significato della parabola dei talenti (Matteo 25,
1.4-10) è necessaria una
breve premessa ed una sorta di microscopico vocabolarietto.
Premessa è che bisogna
considerare l’evoluzione
dei tempi, delle sensibilità,
della lingua; non possiamo
raccontare una vicenda
d’altri tempi con i termini
di oggi, ma possiamo capirla se ne traduciamo la terminologia.
Vocabolarietto. Un uomo
che dispone di servi e capitale ed ottimo reddito veniva detto signore. Si traduce: ricco imprenditore.
Servo, oggi, è espressione
non corretta, si dice colf,
garzone. Si traduce: dipendente. I dipendenti a cui si
affida gestione di danaro
sono dipendenti in posizione direttiva, abitualmente
apicale.
A ciascuno degli alti dirigenti venne affidata la piena
responsabilità dei loro reparti e finanziamento adeguato. Si traduce: budget.
Dopo un viaggio durato
molto tempo, si traduce: finito l’anno sabbatico.
Regolare i conti si traduce:
6
poco non riuscirà a godere
neppure di quello che ha.
Sandro Piscaglia
[email protected]
Pensieri e parole
Desidererei esprimere dei
pensieri suscitati da ciò
che sento e leggo su «Rocca» e altre riviste, riguardo Dio, fede, ragione, bene,
male, ecc. ecc.
Chi ha creato tutte queste
parole? L’uomo. Ogni parola che l’uomo pronuncia è
stata creata da lui.
Dio è stato creato dall’uomo. Da chi se no? Chi mi sa
rispondere?
La vita è immensa e noi conosciamo così poco di essa!
Anche se tante cose ci sono
state svelate dalla scienza,
ancora tante ci sono oscure,
e queste, noi, le chiamiamo
mistero. L’uomo è limitato e
la scienza sta nelle mani limitate dell’uomo. Inutile
però mettere un Dio nel mistero per trovare le risposte
che vogliamo. Non vi pare?
Tanto poi questo Dio, lo faremo sempre ragionare a
modo nostro. Ognuno lo fa
ragionare a modo suo. Se la
persona è buona, onesta, lo
fa ragionare in un certo
modo, se la persona è disonesta lo fa ragionare in
modo disonesto. Le guerre
di religione, e non solo quelle, lo dimostrano perfettamente. Inoltre, può essere
comandato l’amore?
Oltretutto, non è un pochino ipocrita fare il bene per
andare in Paradiso? Il bene
io lo faccio perché è bene, il
male io lo faccio perché è
male, punto.
La vita, certo, non è solo bella, talvolta è anche dura e
difficile, ma, a me pare che
la fede e le religioni l’hanno
di parecchio complicata.
Secondo me, che ci portano fuori strada, ci porta nell’illusione, nella superstizione, nel fondamentalismo, è
la paura e l’ignoranza. Mi
sbaglio?
Antonietta Bonfanti
Carate Brianza (Mi)
Bose
spiritualità
ortodossa
in dialogo
La parola può far morire e può
far rinascere. Per questo i dialoghi del monastero di Bose
(Bi), proseguiti con intelligente costanza nei convegni ecumenici con l’Ortodossia vengono guardati con speranza nel
complesso lavoro dialogale di
riconoscimento tra cristiani
d’Oriente e d’Occidente.
Quest’anno gli incontri settembrini hanno avuto come oggetto la «Divina liturgia» ortodossa e le «Missioni». Dal cuore
della vita cristiana qual è l’eucaristia, si è passati alla riflessione sull’annuncio del Vangelo negli immensi spazi della
Russia del Nord, dalla Siberia
fino al Giappone e all’Alaska, in
un racconto storico-geografico
che è anche esperienza attualissima di ascolto della ricerca
di Dio che continua ad abitare
ogni uomo e ogni cultura.
Alle due sessioni, bizantina
(Nicola Cabasilas e la Divina
liturgia) e russa (Le missioni
della Chiesa ortodossa russa)
hanno preso parte, accanto ai
maggiori specialisti a livello
internazionale, metropoliti,
vescovi e monaci della Chiesa
ortodossa, della Chiesa cattolica e delle Chiese della Riforma. Particolarmente nuova
per i non addetti ai lavori la
riflessione sulle missioni della
Chiesa russa nella società contemporanea, in quel processo
di rinascita spirituale che essa
conosce dagli anni ’90 del secolo scorso. Tra le tante, intense riflessioni, il priore Enzo
Bianchi traccia, come conseguenza di entrambe le tematiche quella traiettoria che dalla comunione eucaristica porta alla missione: «solo se i cristiani sapranno essere veramente uomini e donne eucaristici, capaci di trovare autentiche vie di comunione tra
loro, potranno essere credibili
anche nell’incontrare quanti
vivono nell’indifferenza religiosa, o appartengono a tradizioni religiose diverse».
Oslo
Nobel
al banchiere
dei poveri
Il 13 ottobre è stato dato l’annuncio dell’assegnazione del
Nobel per la pace e l’economia
a Muhammad Yunus (nella
foto, meglio conosciuto come
«il banchiere dei poveri». Un
premio all’intuizione creatrice
di un banchiere sui generis,
che, attraverso il «microcredito» ha liberato tantissima gente dalle angustie della miseria,
facendo dei poveri, in particolare delle donne, soggetti della
loro piena realizzazione.
Originario di Chittagong, principale porto mercantile del
Bengala, laureatosi in economia negli Stati Uniti, Yunus ritorna in patria per dirigere il
Dipartimento di economia del
Bangladesh. Il dramma della
povertà e delle annesse turbolenze, del ricorso agli strozzini
da parte dei contadini del suo
paese anche per comprare le
sementi lo inquieta. Nel 1977
fonda la «Grameen Bank»
(Banca rurale), un istituto di
credito indipendente che pratica il microcredito. A differenza degli istituti di credito di tutto il mondo, presta soldi ai poveri, in particolare alle donne
senza alcuna garanzia: «Le
donne sono più affidabili. Pensano al bene della famiglia, ai
figli, a risparmiare» spiega il
vice amministratore della Gra-
meen Bank che a tutt’oggi ha
concesso prestiti per cinque
miliardi e mezzo di dollari; ha
14 uffici zonali e 11mila filiali
locali con un giro di clienti di
oltre due milioni di persone.
Queste prendono all’inizio a
prestito 200 dollari, restituiti i
quali possono chiedere altri
più ampi prestiti. La restituzione attuale è del 97%.
Interrogato sui principi economici ai quali la sua azione
si è ispirata, Yunus ricorda il
noto principio, insegnato dall’inizio dei suoi anni universitari: «per creare ricchezza, bisogna dare l’accesso al capitale». Malgrado gli scetticismi,
le critiche, le messe in guardia, malgrado le minacce alle
donne da parte dei conservatori islamici che non le avrebbero volute impegnate nel prestito nemmeno per comprare
una mucca, Yunus ha continuato a prestare, aggiungendo: «I poveri non sono responsabili della loro povertà. Non
sono degli incapaci ma delle
vittime. È la società che il fa
poveri. Bisogna dare a ciascuno la possibilità di essere un
imprenditore». Crede nell’economia, fa prestito di speranza ai poveri e rimprovera i
banchieri che invece li tengono a distanza: «Un sistema che
esclude i due terzi della popolazione mondiale – sostiene –
non può essere giusto».
In altre zone del mondo il microcredito è stato esportato,
riscuotendo successo specie
quando è stato accompagnato da altri programmi sociali.
Difatti, se da tutti è ormai acquisito che il microcredito è
utilissimo strumento per la
riduzione della povertà com’è
accaduto in Bangladesh con la
ridistribuzione della ricchezza in un contesto di attività
tradizionali e rurali, in altri
contesti più complessi potrebbe generare reddito permanente se tale ridistribuzione
fosse sostenuta da altre iniziative emancipative, a cominciare da quelle verso le donne.
Oggi Yunus è attivamente
coinvolto nello sforzo di portare le nuove tecnologie informatiche e i sistemi di comunicazione telefonici nelle comunità rurali e nei villaggi.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
La parabola
dei talenti
se subito in cassaforte e si
rimise, placido, seduto alla
scrivania.
Quando il proprietario dell’azienda rientrò dalla lunga assenza chiese relazioni
e rendiconto ai tre dirigenti. Il primo mostrò un grafico in ascesa ed un rendiconto altamente positivo; il secondo fece vedere i miglioramenti adottati ed il rendiconto con un vistoso plus.
Ad entrambi il Presidente
fece un caldo e vivo elogio
e li promosse ed entrambi
li portò a condividere gli
utili dell’azienda.
Quando si presentò quello
del budget più modesto, gli
riferì sull’andamento quieto
del reparto e dimostrò che il
budget era stato rispettato e
che la liquidità era nella cassa. Non si sa se quel dirigente avesse facilità di comunicazione perché oltre al riconoscimento che il padrone
era un uomo ben quadrato,
usò una espressione che aveva sentito in reparto: «mieti
dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso»
senza rendersi conto della
ambiguità di tale giudizio.
Il Presidente, di fronte a
tale sciatteria, usò il modo
duro e schietto che gli era
abituale «lei non sente affatto lo spirito d’azienda e
non ha alcuno spirito d’iniziativa. La conclusione, la
può tirar da solo, è il licenziamento in tronco, esecutivo da questo momento.
Vada per altre strade a cercarsi un lavoro».
L’insegnamento è che bisogna amare il Padrone e la
nostra azienda, il buon Dio
e la Santa Chiesa.
Bisogna amarli con slancio
e con zelo, con ogni capacità emotiva ed intellettiva,
con la mente e con tutto il
cuore e in questo amore bisogna saper correre anche
dei rischi.
Chi opererà così avrà una
vita luminosa e bella in futuro; chi, invece, opererà
nel quieto vivere e nella
routine quotidiana avrà la
poca luce ed il pane insicuro e inquieto degli ignavi.
Chi ama tanto godrà ancora di più, forse il tutto, certo il massimo. Chi ama
Anna Portoghese
Antonio Bruno
Forum verso la Sinistra
Europea
Firenze
presentare relazione e rendiconto.
Ti darò autorità su molto,
si traduce: complimenti per
la promozione.
Prendi parte alla gioia del
tuo padrone, si traduce:
avrai una compartecipazione sugli utili dell’azienda.
Un uomo duro si traduce:
un tipo quadrato.
Nascondere il talento sotto
terra, si traduce: tenere la
liquidità in cassaforte. (Se
in privato: tenere i soldi
sotto il mattone).
Servo malvagio e infingardo, si traduce: dipendente
senza spirito aziendale e
senza iniziativa.
Avresti dovuto affidare il
mio danaro ai banchieri, è
espressione di scherno per
umiliare e mortificare un
dipendente scadente.
Toglietegli il talento e datelo a chi ne ha dieci, si traduce: sopprimete la sua divisione ed accorpatela
quella più efficiente.
Servo fannullone: dipendente che lavora solo negli
orari di contratto usando i
permessi e le facilitazioni
sindacali. Tutte.
Gettar nelle tenebre si traduce: licenziamento in tronco.
Pianto e stridor di denti:
vada a cercarsi un altro impiego in mezzo al traffico.
In quel tempo disse Gesù ai
suoi discepoli questa parabola: «un ricco imprenditore, partendo per una vacanza, chiamò i dirigenti della
propria azienda ed affidò
loro la conduzione dell’impresa. A ciascuno assegnò
mansioni e budget consoni ai compiti dei dipartimenti loro affidati in relazione, anche, al giudizio
che si era formato su di loro
conoscendoli.
Al primo assegnò tre milioni di euro e quegli iniziò
subito un progetto di
espansione che ebbe un insperabile successo.
Al secondo diede duecentomila euro che vennero impiegati tosto nel miglioramento della funzionalità
dell’azienda con un vistoso
risparmio a vantaggio del
bilancio.
Il terzo, a cui erano stati
dati centomila euro, li chiu-
a cura di
la riduzione delle spese militari e il conseguente finanziamento di corpi di intervento nonviolento in aree di
conflitto e l’organizzazione
di una Difesa Popolare
Nonviolenta?
primipiani
CI SCRIVONO I LETTORI
7
ATTUALITÀ
India
interrogativi
sulla legge del
lavoro minorile
Kenya
i mau mau
chiedono
risarcimenti
Palestina
a Gaza
punizione
collettiva
È entrata in vigore da qualche
settimana in India la legge che
proibisce il lavoro dei minori
di 14 anni, passo importante
per una grande nazione che
finora ha tenuto il primato nel
mondo del lavoro minorile: finalmente una norma che
proibisce l’impiego dei minori come lavapiatti, camerieri,
domestici nella case private,
nelle trattorie e negli alberghi
o come venditori negozi e nei
banchetti. E ciò, per l’ analfabetismo nel quale restano i
ragazzi, la compromissione
del loro equilibrio psichico e
della salute, il rischio, di diventare vittime di prostituzione, pedofilia, schiavismo.
Come le norme verranno applicate? E i controlli? Scettico il
quotidiano nazionale «The
Indu» che scrive: «I grandi progetti del governo per sradicare
il lavoro minorile sono rimasti
progetti e basta: oggi lo sfruttamento dei ragazzi impera
perfino nelle miniere e nell’edilizia, settori già dichiarati pericolosi». Anche molte associazioni di volontariato temono
che i piccoli, liberati dai lavori,
siano abbandonati a se stessi,
cioè alla strada, alla fame e alla
droga.
L’11 ottobre un gruppo di veterani mau mau, i ribelli sopravvissuti all’insurrezione
armata di 50 anni fa contro i
colonizzatori britannici,
hanno chiesto al governo
della Gran Bretagna il risarcimento per le violazioni dei
diritti umani compiute durante quel conflitto. Se
l’istanza non sarà accolta,
essi si rivolgeranno alla Corte di Londra. Le chiese (metodista e presbiteriana) del
Kenya sono state coinvolte
nella richiesta affinché la sostengano e si sono dichiarate disponibili.
Si ricorderà come il rapporto ufficiale di quel conflitto
coloniale (1961) registrasse la
morte di oltre 11.000 Africani per la maggioranza civili e
di 32 Bianchi. Recentemente, Caroline Elkins. Professore di storia all’Università di
Harvard e studiosa di questioni africane, ha accertato
che circa 100.000 keniani morirono a causa di torture,
abusi e negligenza delle autorità coloniali nei campi installati durante l’insurrezione.
«Gaza è una prigione e Israele sembra aver gettato via le
chiavi». Così John Dougard
relatore speciale Onu dal 2001
ha commentato il suo rapporto alle Nazioni Unite sulla situazione di vita dei palestinesi, che lo stesso Dougard ha
definito «intollerabile, spaventosa, tragica». A Gaza è in
corso una «punizione collettiva», vietata dal diritto internazionale, connessa al fatto
che i palestinesi hanno scelto
con elezioni regolari un tipo
di governo sgradito ad Usa,
Unione Europea e ad Israele.
A seguito della vittoria di Hamas sono stati bloccati i fondi internazionali , così
400.000 dipendenti statali palestinesi si sono trovati senza
stipendio. «In altri paesi – ha
commentato Dougard – questo processo sarebbe descritto come pulizia etnica, ma la
correttezza politica impedisce di adoperare questo linguaggio quando c’è di mezzo
Israele». L’Italia, che in Libano ha assunto un importante
ruolo perché non si attiva per
eliminare tale blocco?
Luciano Bertozzi
Mosca
uccisa la reporter dei diritti umani
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
È stata uccisa a Mosca il 7 ottobre, nell’ ascensore di casa,
Anna Politkovskaja, reporter della «Novaia Gazeta» il quotidiano indipendente della capitale. Dopo aver attaccato la guerra in Cecenia, aver raccontato le violenze dei soldati russi sui
ceceni, più volte era stata minacciata di morte, due volte era
stata arrestata per le sue parole controcorrente, impietose contro le violazioni dei diritti umani. Non aveva potuto raccontare la strage dei bambini di Beslan, perché fermata da un tè
avvelenato bevuto in aereo; ora la morte le ha impedito di
pubblicare il reportage sulla tortura e le sparizioni sempre in
Cecenia. Con acutezza conduceva il lettore a vedere dentro,
oltre i fatti; per questo i suoi articoli coraggiosi le erano valsi
molti riconoscimenti. Dopo Beslan aveva pubblicato all’estero «La Russia di Putin», libro in cui raccontava di un potere
sempre più invadente e verticistico del Cremlino. La comunità internazionale chiede indagini serie sul delitto.
8
notizie
seminari
&
convegni
Alba (Cn). A monsignor Gianfranco Ravasi, insigne biblista
e Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca ambrosiana, è stato
consegnato il 14 ottobre il Premio Grinzane Cavour. Autore
di oltre cinquanta pubblicazioni, Ravasi ha ricevuto la prestigiosa onorificenza anche
per la sua valorizzazione del
territorio come luogo dello
spirito.
Castelgandolfo (Roma). Si è
concluso il 27 settembre il convegno ecumenico di vescovi
amici del Movimento dei Focolari sul tema «Gesù Crocifis-
so e abbandonato: via alla piena comunione e alla fratellanza universale». Vi hanno partecipato 45 vescovi provenienti da 20 Paesi, cattolici ma anche protestanti e ortodossi, per
esprimere che «la comunione,
nel rispetto della diversità delle varie tradizioni, è possibile».
Sassone (Roma). Si apre il 1°
novembre la XIV Assemblea
della Federazione delle Chiese evangeliche d’Italia. L’incontro, che si svolge ogni tre anni
e che avrà come tema conduttore una citazione dell’Apocalisse «Ecco, io faccio nuove
tute le cose», si propone come
una vera e propria assise del
protestantesimo italiano. I delegati sono circa 180 tra battisti, valdesi, metodisti, luterani, chiese libere, pentecostali,
Esercito della Salvezza.
Milano. Migliaia di detenuti,
i più poveri, gli extracomunitari, non potendo permettersi un legale, spesso non godono dei benefici cui hanno diritto. Parte per loro dal capoluogo lombardo un servizio
legale gratuito, garantito a
turno da 350 avvocati a San
Vittore, Opera e Bollate.
22 ottobre e 3 dicembre. Camposampiero (Pd). Itinerario di
spiritualità coniugale e familiare, su «Sposi cristiani in una società complessa» e «Specchio di
Dio e del suo amore» con gli
animatori p. Giulio Cattozzo, sr.
Francapia Ceccotto e alcune
coppie di sposi. Informazioni:
Casa spiritualità santuari antoniani – 35012 Camposampiero,
tel.049 930 3003, fax 049 931
663, e-mail: [email protected].
5 novembre. Busto Arsizio
(Va). «Parole e silenzi. La comunicazione nella coppia» è
il tema del seminario organizzato dalla Parrocchia S. Michele Arcangelo e dal locale
Consultorio. Relatori: don G.
Corti, mons. C. Livetti, prof.a
N. Borri-Alimenti, p. G. Bruni, don S. Guarinelli, don F.
Molteni, don Sansi. Sedi: teatro Manzoni (via Calatafimi,
5) e Centro Parrocchiale (via
Giotto, 8). Il Seminario è preceduto il 3 novembre dalla
presentazione nella libreria
Boragno (via Milano 4) del volume di p.G.Bruni «A cena
con il Signore». Il 4 novembre preghiera-concerto per le
famiglie nella Chiesa di san
Carlo (via G.Bruno). Informazioni: Danila e Giovanni
Grampa, via della Pergola, 6
21052 Busto Arsizio (Va),
www.abbandoneraiaderirai.it.
8 novembre. Genova. Per il ciclo «Identità e alterità nel pluralismo culturale e religioso attuale: L’Oriente e noi» incontro
con Paolo Magnone sul tema:
«Doni e messaggi al nostro
mondo dall’India antica e contemporanea». Ore 18 presso la
sede del «Gruppo Piccapietra»,
piazza santa Marta 2. Informazioni: 010 2180 74/010 21 61 49.
6-10 dicembre. Camaldoli
(Ar). XXVII Colloquio ebraico-cristiano sul tema: «Librogiornali-Parola», introdotto
dal rabbino Alfonso Arbib. Altri relatori: Roberto Colombo,
Giulio Ponticelli, Osama Al Saghir, Gian Enrico Rusconi,
Franco Segre, Luigi Nason, Paolo Ricca, Adnane Mokrani,
Aldo Zargani, Maria Bonafede,
Fouad Allam, Lorenzo Porta,
Giacometta Limentani, Ottavio di Grazia, Innocenzo Gargano. Gruppi di studio, serate
d’arte. Informazioni: Foresteria del Monastero di Camaldoli, tel. 0575 556013.
7 dicembre. Trento. Convegno
«Città che sanno fare un pezzo
di strada con i giovani», promosso dal Comune di Trento, dalla
Cooperativa Arianna, e da «Animazione sociale». Si interroga
su quali percorsi si vada incamminando l’educativa di strada e
quale politica civica promuovere con gli adolescenti in contesti
informali. Sarà discusso un documento sul tema, elaborato da
studiosi dell’adolescenza, operatori di strada, responsabili di politiche giovanili, amministratori.
Informazioni: Francesca Pontara: cell. 335 5733089, e-mail:
[email protected].
7-10 dicembre. Montale R.
(Mo). Giornate di sensibilizzazione al Volontariato Internazionale per un eventuale servizio in Africa, organizzato dal
gruppo laico «Seguimi» con
l’adesione di molte associazioni di volontariato. Si prefiggono di orientare l’impegno verso i Paesi del Sud del mondo;
di fornire strumenti per affrontare esperienze di incontro con
culture diverse; di rendere
consapevoli della personale re-
sponsabilità. Iscrizioni (entro il
30 ottobre) tel. 059 530 358, referente Carla Bazzani. E-mail:
[email protected].
7-10 dicembre. Assisi. Due seminari di formazione permanente: Il primo «Essere nel corpo per affrontare ansia e paura»: work shop di danza/movimento/terapia guidato dalla
prof. Maria Elena Garcia. Esplorare con l’aiuto della musica,
della danza e della parola poetica le energie vitali del corpo perché divengano polo positivo rispetto alla paura. Il secondo è
un seminario di improvvisazione e musicoterapia, guidato dal
prof. Leonello Conficoni, finalizzato al saper conoscere il
rapporto con il «suono» che ci
circonda, con la «voce» che ci
relaziona con gli altri e con
l’ambiente nel quale in rapporto s’instaura. Informazioni: Sezione Musica Pro Civitate
Christiana - 06081 Assisi, tel e
fax 075 812288, e-mail:
[email protected].. Prenotazione camere tel. 075813231
fax 075812445, e-mail ospitalita @cittadella.org.
8-10 dicembre. Assisi. Alla Cittadella cristiana il Gruppo Missioni della Pro civitate Christiana e il Sermig di Torino promuovono il convegno: «La strada dell’odio non porta al domani: percorsi di pace dall’integralismo al dialogo», sul grave conflitto con l’Islam. Relatori: Samir Khalil dell’Istituto Orientale, Ernesto Oliviero del Sermig,
Vittorio Viola o.f.m., Riccardo
Bonacina giornalista. Informazioni: Cittadella cristiana, 06081
Assisi, tel. 075 813231, fax 075
812445, e-mail: ospitalita
@cittadella.org; www:cittadella.org.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
9
10
Grande, meritato successo
degli «Special Olimpics Europa Youth Games», i giochi
dedicati a persone con disabilità intellettiva, conclusisi a
Roma il 5 ottobre.
La manifestazione solidale è
stata organizzata con il preciso obiettivo del superamento
dei pregiudizi, di promozione
di amicizia, in particolare di
miglioramento delle condizioni dei partecipanti perché si è
sperimentato che lo sport, il
rapporto con gli altri atleti con
le medesime problematiche
portano effettivi benefici sulle varie patologie.
Dai 12 ai 21 anni, 1400 atleti
sono convenuti da 57 Paesi
d’Europa e dall’Asia; e complessivamente sono stati più
di 20.000 i protagonisti, tra
partecipanti alle gare, accompagnatori, medici, volontari,
oltre alle migliaia di spettatori sugli spalti.
«È stato un evento incredibile, probabilmente l’esperienza
più bella ed emozionante del-
dei laboratori che costituiscono il percorso di attività
pratiche per ragazzi ed adulti
affetti da autismo, predisposto dalla Fondazione Bambini e Autismo di Pordenone
per l'integrazione di persone
alle quali fino a poco tempo
fa pareva precluso qualsiasi
inserimento lavorativo. Il
supporto tecnico è stato fornito da due maestri della
Scuola Mosaicisti di Spilimbergo, preparati anche per
gestire questa particolare
sindrome, caratterizzata da
deficit comunicativo grave,
spesso associata a iperattivi-
Sport
i goal
degli
Special Olimpics
tà ed autolesionismo. Accanto agli 8 ragazzi autistici
hanno lavorato per mesi più
di 160 bambini di scuola
elementare e media della città friulana. È significativo
come questa iniziativa artistica e formativa, aperta al
territorio, si inserisca positivamente nel percorso riabilitativo di autonomia e di
socializzazione in contesti
quotidiani, finalizzato al recupero di una disabilità tanto complessa e dolorosa, per
la quale l’approccio terapeutico sta cercando nuove strade. (Luigina Morsolin)
la mia vita», ha commentato
Raimondo Astarita presidente del Comitato organizzatore.
Alla sua commozione si è aggiunta la soddisfazione gioiosa degli adolescenti, circa
2000, delle scuole medie superiori impegnati nell’ausilio
all’organizzazione delle sette discipline di gara: basket,
pallavolo, atletica, bocce,
bowling, nuoto e calcio a sette.
Questo particolare movimento sportivo è stato fondato da
Eunice Kennedy, sorella del
presidente americano, che nel
1968 diede il via a Chicago ai
primi giochi internazionali.
Da allora i programmi di Special Olimpics sono stati adottati in 167 Paesi, coinvolgendo nel progetto quasi tre milioni di giovani.
Un grande impegno sotto il
giuramento: «Che io possa
vincere, ma se non riuscissi,
che io possa tentare con tutte
le mie forze».
il meglio
A fine settembre nel Parco
San Valentino di Pordenone è
stato scoperto il «Mosaico della pace», un pannello multicolore di quindici metri quadri applicato ad un muro rivestito in legno, per adattarlo
alla struttura dell’area verde
dotata di spazi – gioco attrezzati.
Il progetto, il cui disegno assembla i «classici» animali –
nati dalla matita fantasiosa
di Francesco Tullio Altan –
mentre rincorrono una farfalla, è stato realizzato con
tantissime tessere di vetro
colorato su uno sfondo che
riprende i colori dell'arcobaleno. Adulti (insegnanti, educatori, psicologi ), bambini
e ragazzi vi hanno collaborato lavorando fianco a fianco nell’Officina dell’Arte, uno
della quindicina
La Pimpa
aiuta
i bambini
autistici
vignette
ATTUALITÀ
da GIORNALISTI, ottobre
da IL MANIFESTO, 6 ottobre
da L’UNITÀ, 12 ottobre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 4 ottobre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 9 ottobre
da IL CORRIERE DELLA SERA, 13 ottobre
da LA REPUBBLICA, 10 ottobre
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
da IL CORRIERE DELLA SERA, 16 ottobre
11
61° convegno giovani
27-31 dicembre
la vittoria di Schumacher
in collaborazione con Agesci, Centro Sportivo Italiano, Exodus, Pax Christi
E:AGERO
Raniero
La Valle
la lanterna magica dei sensi e del tempo
Il desiderio di uscire dagli schemi formali, ingessati e spesso in affanno di ossigeno, nonché il bisogno di
esplorare modalità altre di rapporto con la realtà, stanno alla base della scelta del tema del 61° Convegno
Giovani che intende intercettare la sete di esperienze autentiche e di assoluto in nuovi compagni di viaggio.
Exagero: specie di logo intuitivo, quasi pregiudiziale provocatoria per affrontare tematiche non disinvolte: il
sentire la realtà corporea e interpretare il tempo a partire da contesti diversi e simbolici. La metafora della
lanterna magica indica come sentinella il sogno e il fascino dell’utopia che è di ogni giovane, nessuno escluso.
alcune tematiche: i differenti colori del tempo; il cantiere dei sensi; qui, ora, altrove… in che senso, scusi?;
hai un momento, Dio?; il coraggio del futuro; condividere la speranza, celebrare la festa.
hanno assicurato la loro collaborazione: Roberto BATTISTON, fisico sperimentale; Gino CESARIA, attore
teatrale; Francesco COMINA, editorialista de “L’Adige”; Leonello CONFICONI, docente di musicoterapia;
Fabio CORAZZINA, coordinatore nazionale di Pax Christi; Rosella DE LEONIBUS, psicoterapeuta; Tonio
DELL’OLIO, di Libera International, consigliere nazionale di Pax Christi; Franco FILOGRANA, artista; Elisabetta FORGHIERI, docente di danza e movimento creativo; Lidia MAGGI, pastora battista; Antonio MAZZI,
fondatore di “Exodus”; Silvio SALUSSOLIA, educatore di pace; Roberto SEGATORI, sociologo; Alex
ZANOTELLI, missionario comboniano
Il convegno inizia mercoledì 27 alle ore 21 e termina il mattino di domenica 31 dicembre.
esercizi spirituali
6-10 novembre
per presbiteri, diaconi, laici, suore
la Lettera di san Paolo ai Romani
con don Oscar BATTAGLIA, biblista dell’Istituto Teologico di Assisi
È la più lunga, la più ricca di teologia, la più difficile delle tredici lettere di San Paolo: una specie di sintesi della
teologia cristiana delle origini…per nutrire la nostra fede alle sue sorgenti e per entrare in profondità nella
spiritualità più genuina e impegnativa che la chiesa delle origini ci ha trasmesso. Ancora oggi è la lettera di
Paolo più studiata e commentata.
gli esercizi iniziano lunedì 6 alle ore 18; terminano venerdì 10 nel primo pomeriggio
a Cefalù
16-19 novembre
quale Dio, quale uomo oggi?
convegno promosso dalle Comunità Missionarie del Vangelo, con la collaborazione della Pro Civitate Christiana
richiedere informazioni a: Giangiacomo Pampalone – tel. 091/6682989 [email protected];
Nino Trentacoste – tel. 091/427309 [email protected]
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Cristiana – sezione Convegni – via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG –
internet: ospitassisi.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]
essuno vince da solo. Anche i ricchi più famosi celebrati come
quelli che «si sono fatti da soli»,
in realtà sono stati fatti ricchi dagli altri; qualcuno, come è accaduto da noi, dal potere politico
che gli ha messo in mano le risorse, i beni
collettivi e i privilegi per vincere. Neanche
nello sport si vince da soli. Persino il solitario campione di ciclismo ha bisogno dei gregari; e il primatista dei cento metri se non
avesse una squadra di allenatori, di dietisti,
di tecnici, non ce la farebbe. Nell’automobilismo poi ci vuole una grande industria, e
una vettura perfetta in ogni ingranaggio, e
pneumatici adatti alla corsa, e meccanici
lesti al pit stop e tutto il resto per vincere
una gara e il campionato del mondo; anche
se poi il circo mediatico esalta il trionfatore che sale sul podio come l’unico.
Ma c’è una vittoria che Michael Schumacher ha conquistato da solo. E proprio
quando ha perso, quando in Giappone la
macchina l’ha piantato, e il sogno di concludere una straordinaria carriera con un
inseguimento leggendario e ancora come
campione del mondo si è infranto. In quel
momento il pilota tedesco, fino ad allora
più ammirato che amato, è stato veramente grande. Sulla carta non tutte le possibilità erano svanite: c’era ancora l’ultimo
Gran Premio da correre in Brasile, ma per
conquistare il titolo occorrevano due condizioni: non bastava che Schumacher vincesse, occorreva anche che Alonso, il rivale, non arrivasse nemmeno al traguardo tra
i primi, gli si rompesse la monoposto,
uscisse di pista, insomma che avesse una
disgrazia. E Schumacher ha detto semplicemente, tranquillamente, che non se lo
augurava neppure, che non avrebbe voluto vincere a questo prezzo, che non aveva
mai iniziato una gara sperando che a un
avversario andasse male, e non voleva cominciare proprio ora. Semmai avrebbe gareggiato ancora per il titolo costruttori,
perché quella vittoria non aveva bisogno
della disgrazia di nessuno.
È un messaggio forte, in controtendenza,
contro la cultura dominante e contro la
regola del «Vangelo della competitività»
(come l’ha chiamato Riccardo Petrella) e
del capitalismo selvaggio. La concorrenza
non punta solo sulla fortuna propria, ma
N
sulla disgrazia degli altri: che gli altri non
ce la facciano, che vadano fuori mercato,
che siano abbandonati dai clienti, che siano battuti da una pubblicità che li travolga.
E nel mercato politico succede anche di
peggio: l’unico scopo è di distruggere l’avversario, di infirmarne la credibilità, di impedirne i successi anche utili per tutti, e non
c’è altra attesa e altra speranza che cada «al
più presto possibile», meglio oggi che domani, per poterne prendere il posto.
Il corridore tedesco che parla finalmente
italiano, capitalizzando nel momento della sfortuna l’esperienza di una vita, ha dettato un’altra regola, che va perfino oltre la
«regola aurea» che si trova all’inizio della
Didaché e che dice: «tutto ciò che non vorresti che fosse fatto a te, non farlo nemmeno tu ad un altro»; nella versione di
Schumacher essa suona: «tutto ciò che non
vorresti capitasse a te, non desiderare nemmeno che accada ad un altro, anche se
dovesse venirne un vantaggio per te».
Ciò che viene a dirci questo messaggio, è
che la vita etica e perciò il rapporto col prossimo, non sta solo nel fare o non fare, ma
anche nel desiderare. Del resto anche i comandamenti ci dicono che cosa non dobbiamo desiderare, e forse esagerano un po’,
perché non solo ci ordinano di non desiderare la donna di un altro, ma nemmeno il
suo bue, il suo asino e qualunque altra sua
cosa. René Girard sostiene che il Decalogo
è così severo col desiderio, perché il desiderio è «mimetico», cioè contagioso, e quando tutti si mettono a desiderare la stessa
cosa si scatena la violenza. Tuttavia non si
può non desiderare, sarebbe troppo repressivo e un po’ troppo buddista. Il vero precetto è che il desiderio non sia diretto a soddisfarsi col possesso, non solo per evitare
la rissa, ma perché questo modo di realizzarsi del desiderio vorrebbe dire il passaggio del bene desiderato dall’uno all’altro, e
dunque vorrebbe dire infliggere un male ad
un altro; ed è questo che è contrario all’amore, che è la regola delle regole.
Per la stessa ragione non bisogna desiderare la sfortuna dell’altro, unicamente perché sarebbe un male per lui; e non c’è bene
per sé che si possa fondare sul male dell’altro. Se se lo ricordassero i capi delle
nazioni che le governano da padroni!
❑
13
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
cittadella convegni
RESISTENZA E PACE
COREA DEL NORD
una bomba pol itico-strategica
14
T
mondo contemporaneo, e per di più alla
frontiera con il disastrato Iraq.
proliferazione di armi nucleari
Comunque, i problemi che ha sollevato il
test atomico nordcoreano sono, a livello
internazionale, di due tipi: il primo riguarda i timori di una ripresa su vasta scala della corsa al nucleare con una morte di fatto
del Trattato di non proliferazione (Tnp) ed
una estensione del dominio di questa tecnologia a decine di paesi; il secondo la possibile ripresa di conflittualità in una regione, come quella dell’Asia nord-orientale,
dove da qualche tempo il clima si era rasserenato, e dove Washington conta su due
alleati certi come Giappone e Corea del Sud.
«Ci saranno inevitabilmente delle ripercussioni, con uno scenario di proliferazione
di altre armi nucleari nel mondo», ha sostenuto Mark Fitzpatrick, direttore del programma di non proliferazione nell’Istituto internazionale di studi strategici (Iiss).
Per lui «questo potrebbe avvenire in paesi
mai presi in considerazione in questo ambito, come la Birmania». In passato, inoltre, la Corea del Nord e l’Iran hanno mantenuto relazioni diplomatiche strette, e non
vi è dubbio che Teheran sarà stata la capitale più interessata a seguire le conseguenze politiche e anche tecniche del test atomico nordcoreano.
Comunque, proprio Fitzpatrick ha attirato l’attenzione sul fatto che questo esperimento è avvenuto nel momento in cui Il
Cairo ed Ankara hanno annunciato la loro
intenzione di sviluppare un’industria nucleare civile. «Egitto e Turchia hanno messo a punto dei progetti su questa delicata
materia, per ragioni legittime di approvvigionamento energetico, ed anche per ragioni strategiche». In Medioriente, di fronte ai progetti iraniani, non è escluso che il
caso nordcoreano darà altri argomenti a
quanti pensano nel mondo arabo di sviluppare la tecnologia nucleare per non lasciarne il monopolio all’Iran. E ovviamen-
te anche ad Israele, che non ha mai ammesso ufficialmente di avere armi atomiche ma che, anche secondo fonti statunitensi, dovrebbe avere fra 100 e 200 testate
nucleari. Il governo egiziano, fra l’altro, pur
avendo firmato accordi regionali non ha
perso occasione per denunciare nelle sedi
internazionali il «doppio standard» di cui
si beneficia Israele in campo nucleare.
Se ci si riferisce al Trattato di non proliferazione del 1968, soltanto cinque potenze –
Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna e Cina
– hanno l’autorizzazione ufficiale di detenere armi nucleari. A queste però si devono
aggiungere India e Pakistan (che non hanno aderito al Tnp ma che hanno dimostrato
di avere armi nucleari), Israele, l’Iran (che
ha affermato di avere la capacità tecnologica di arricchire l’uranio), e forse Siria, Egitto, Nigeria e Taiwan, paesi fortemente sospettati di avere realizzato attività militari
clandestine. L’unico paese al mondo che, pur
avendo un programma avanzato, lo ha
smantellato nel 1993, è stato il Sudafrica. A
beneficio delle statistiche, poi, segnaleremo
che prima del test nordcoreano ne erano già
stati portati a termine dal 1945 almeno
2.000. Gli Usa, unico paese che ha utilizzato
una bomba atomica a fini distruttivi (in
Giappone), ne ha eseguiti 1.032, la Russia
715, la Francia 210, la Cina e la Gran Bretagna 45, l’India ed il Pakistan sei ciascuno.
Giappone e Corea del Sud in allarme
Ma dove la situazione, se non controllata
potrebbe diventare difficilissima è proprio
in Asia nord-orientale. Qui per anni ha funzionato «l’ombrello nucleare» organizzato
da Washington per paesi come il Giappone, la Corea del Sud e Taiwan. «Finora – ha
sottolineato Fitzpatrick – questo meccanismo ha soddisfatto i governi interessati. Ma
cosa succederà con il passo avanti della
Corea del Nord»?
Gli analisti sono concordi nel ritenere che
la questione si pone particolarmente a Tokyo – e contro il Giappone fra l’altro che sono
puntati i missili nordcoreani – dove da poco
è stato formato dal premier Shinzo Abe un
governo con un forte carattere nazionalista
che è deciso a rafforzare il proprio apparato
bellico. In un paese pacifista per costituzione, e duramente colpito oltre 50 anni fa dalla follia atomica, il direttore dell’Istituto di
ricerche politiche del Partito liberaldemocratico, Shoichi Nagakawa, ha dichiarato che
occorre discutere su scala nazionale se non
sia giunto il momento di entrare nell’era
nucleare. Nagakawa è stato ufficialmente
smentito, ma il fatto stesso del grande clamore suscitato da questa riflessione, rende
l’idea di quale sia l’importanza di una modifica degli equilibri nella regione.
Diversa infine la situazione in Corea del
Sud, dove le offensive diplomatiche disposte dalla Casa Bianca, attraverso anche il
Segretario di Stato Condoleezza Rice, non
hanno la stessa benevola accoglienza che
ricevono a Tokyo. Il governo e l’opinione
pubblica sudcoreana non ritengono che le
relazioni con i fratelli separati nordcoreani
debbano essere imposte dall’esterno. C’è a
Seoul una certa preoccupazione per il fatto
che l’insistente demonizzazione della Corea
del Nord non significhi altro per Washington
che la volontà di rovesciare un regime che il
presidente George W. Bush ha inserito nell’ormai famoso Asse del Male, insieme a Iraq
e Iran. I sudcoreani hanno timore infatti che
un’eventuale rapida caduta del regime nel
paese vicino avrebbe per loro effetti catastrofici. Al riguardo il Ministro sudcoreano per
l’Unificazione, Chung Dong-young, non poteva essere più esplicito lo scorso anno quando ha dichiarato: «Le autorità nordcoreane
chiedono a Washington garanzie. Esse pensano che gli Stati Uniti vogliono rovesciare
il regime: è quindi per loro una questione di
sopravvivenza. Noi diciamo all’Amministrazione americana che deve concentrarsi sul
problema della denuclearizzazione della
Corea del Nord, ed abbandonare l’intenzione di rovesciarne il regime. Poiché la miscela dei due obiettivi è esplosiva».
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Maurizio
Salvi
anto per fissare le dimensioni del
problema, converrà sottolineare
che il test nucleare realizzato dalla Corea del Nord domenica 8 ottobre in un tunnel nel nord-est
montagnoso del paese aveva una
potenza di mezzo chilotone, e forse anche
meno. Il problema suscitato dall’esperimento nordcoreano, quindi, non è tanto di ordine bellico, quanto strategico, per il significato che esso ha nei delicati equilibri asiatici, e per le interferenze che può avere nelle
ambizioni degli Stati Uniti di amministrare
un severo catalogo fra nazioni «buone» e
«cattive». E non vi è dubbio che per gli Usa
Pyongyang faccia parte delle seconde.
Tornando un momento su quello che la Corea del Nord ha testato, sarà utile raffrontarlo con gli esperimenti nucleari realizzati da
India e Pakistan nel 1996 che furono, secondo fonti scientifiche statunitensi, 24 e 50 volte
maggiori. E forse vale la pena ricordare anche che le atomiche lanciate su Hiroshima e
Nagasaki erano dell’ordine dei 15 chilotoni.
La vera bomba nordcoreana, quindi, è stata
tutta politica e strategica. Se la misura di essa
fosse data dalle reazioni internazionali suscitate, allora dovremmo parlare di evento
in effetti straordinario.
Chiarendo che qui non si tratta tanto di
giudicare il regime comunista di Kim Jong
II, i cui limiti emergono da un esame superficiale, è certo che la politica di questo
paese crea problemi ai suoi vicini, e perfino alla Cina, che è praticamente l’unica
nazione con cui i nordcoreani hanno relazioni caratterizzate da una certa fluidità.
Non è sfuggito agli osservatori che la comunità internazionale è riuscita ad ottenere in poco tempo molto di più – riunioni del Consiglio di sicurezza, sanzioni, intensa e concreta attività diplomatica – di
quanto sia stato possibile realizzare nei
mesi scorsi nei confronti dell’Iran, che pure
è ben lungi dall’aver sviluppato una tecnologia nucleare applicabile al settore militare, ma che è situato in una regione crocevia di tutte le aspirazioni energetiche del
Maurizio Salvi
15
PARTITO DEMOCRATICO
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Filippo
Gentiloni
l governo Prodi sta vivendo un presente certamente non facile: maggioranza limitatissima, problemi ereditati di
estrema gravità, compagine governativa spesso rissosa. Se questo è il presente, è logico guardare al futuro, con
la speranza di una maggiore tranquillità.
Il futuro presenta qualche importante
schiarita, ma senza grandi sicurezze. Per
lo meno a tutt’oggi.
Un nome alimenta le speranze nel variegato e composito mondo del centrosinistra, quello del partito «democratico»: un
nome fatidico, una sorta di toccasana.
Dovrebbe riuscire ad unificare più o meno
tutte le componenti e quindi a dare slancio e sicurezza ad una azione politica oggi
troppo incerta se non addirittura contraddittoria. Modello americano e non solo. Ma
il percorso appare ancora lungo e pieno di
difficoltà. La maggioranza, d’altronde, è
talmente ridotta da non alimentare facili
speranze.
crazia cristiana, socialismo, comunismo.
Tre grandi filoni, non sempre omogenei
neppure al loro interno, raramente in accordo, spesso in conflitto. Conflitto non
soltanto fra laici e cattolici, ma anche sul
lavoro, sul sindacato, sulla politica estera.
Sulla integrazione degli immigrati: si può
dire su tutto. Una storia molto ricca, anche se spesso conflittuale. Come dimenticarla oggi? Come portare a confluire tendenze ben diverse se non addirittura contraddittorie?
A questo punto è logico invocare il nome
del grande oppositore, Berlusconi. Ma sarà
in grado questo nome a giustificare l’unione di posizioni politiche così lontane le une
dalle altre? Basterà il collante anti Berlusconi a giustificare la nascita del partito
democratico? Sarà sufficiente un collante «negativo»? E ci si può anche chiedere
se l’ex premier meriti questo «onore».
storie conflittuali
Fra le differenze che rendono più che mai
difficile e lontana l’operazione del partito
democratico spiccano quelle fra laici e cattolici, anche perché non pochi, da una parte e dall’altra, cercano di evidenziarle. Le
identità, d’altronde, sono forti e non devono essere né cancellate né dimenticate.
L’unione delle forze non richiede né esige
I
Nel partito democratico dovrebbero confluire parecchie storie, cariche di identità
forti e spesso conflittuali. Basti ricordare
quei grandi filoni che per decenni hanno
caratterizzato la vita politica italiana, praticamente dal dopo guerra ad oggi. Demo16
identità laica e identità cattolica
Rutelli e Fassino,
a fianco;
Binetti, sotto
una piatta «marmellata» di posizioni senza storia. Si aggiunga che il contenzioso
fra cattolici e laici è oggi notevolmente ricco ed acuto: basti pensare alle questioni
su famiglia e matrimonio, sulla pillola
antiabortiva, sulla eutanasia e la scuola.
Su queste ed altre questioni le mediazioni
non saranno facili, anche perché il versante cattolico è sostenuto da una gerarchia
che non ha alcuna intenzione di rinunciare al suo peso nella società italiana.
Unire, dunque, senza appiattire. Sarà possibile? Lo si ripete continuamente, in tutti
i convegni e in tutte le assemblee. Con
maggiore o minore probabilità. Sarà forse determinante il successo di questi primi mesi di governo Prodi, decisivi non soltanto per l’oggi ma anche per il domani.
A favore del progetto – non bisogna dimenticarlo – gioca indirettamente anche la crisi
del centrodestra che fino ad oggi si era retto più sulla figura di Berlusconi che su un
logico progetto politico: oggi il ruolo dell’ex premier sembra in declino. Non è improbabile che una dissoluzione dell’unità
del centrodestra giovi all’unità del centrosinistra e faccia spuntare l’alba del partito
democratico salvatore della nostra travagliata democrazia.
Filippo Gentiloni
17
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
unire
senza
appiattire
UNDIVERSOMODELLODISVILUPPO:PROPOSTEINDISCUSSIONE/2
oltre la Fina nziaria
Ordinario
di
Economia
Pubblica
Università
Roma 3
L
previdenza integrativa
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Sulla destinazione dei fondi della previdenza integrativa, prima di giungere ad un loro
impiego per il finanziamento di investimenti rivolti al «futuro», è necessario ricordare che occorre assicurare ai futuri
pensionati la necessaria certezza sul capitale accumulato. Se i fondi integrativi dovessero investire in fondi speculativi o in
società ad alto rischio – com’è il caso del
venture capital impegnato nelle nuove tecnologie – la sicurezza del capitale non sarebbe certa, anche se il rendimento potreb18
be essere molto elevato. Tuttavia, un compromesso può essere immaginato, se il Tfr
invece che in fondi speculativi fosse accumulato in fondi Inps – o comunque a garanzia pubblica – con l’espresso obiettivo
di coniugare il finanziamento di nuove tecnologie con quello di settori a rendimento
sicuro (elettricità, petrolio, banche, comunicazioni – tutti settori privatizzati e produttori di rendite). La Legge Finanziaria
fa un passo in questa direzione, ma sembra più interessata ad accumulare fondi
per coprire il deficit, che effettivamente
contribuire alla crescita della competitività dell’economia. Qui, sarebbe però necessario che il sindacato e l’imprenditoria non
si opponessero, visto che i fondi chiusi da
loro organizzati non hanno questa missione; oppure che si disponessero ad assumerla come propria.
chi e come
Mi sembra, invece, meno realistico proporsi che le banche investano in specifiche
tecnologie del futuro. Le istituzioni finanziarie non hanno nel proprio Dna alcuna
propensione settoriale o macroeconomica, operando di regola per massimizzare
il proprio utile: sarebbe desiderabile che
non fossero così determinate, ma il cammino sarebbe molto lungo e difficile, in
epoca di globalizzazione; la ben nota obiezione, in questo caso, è che le nostre banche non possono sottostare a vincoli diversi e più onerosi delle banche nel resto
del mondo.
Le cooperative potrebbero, invece, dar luogo ad imprese di ricerca nei campi indicati da Carra, se la legislazione cooperativa
tornasse al periodo precedente il governo
Berlusconi, che ha imposto alle coop, come
condizione per i benefici fiscali di cui godono, il criterio della mutualità – e nel settore dello sviluppo tecnologico, la mutualità non ha significato. Questo compito non
sembra impossibile, anche se occorre precedere l’Unione Europea per evitare che
anche le coop siano lasciate al mare procelloso della globalizzazione.
cultura dominante
Come si vede, se le proposte di Carra sono
buone, molte sono le difficoltà da superare per realizzarle. Temo che le difficoltà
non siano semplicemente ostacoli da rimuovere, ma derivino da un’avversa cultura dominante.
Per cominciare, ogni intervento pubblico
destinato a migliorare la competitività in
un paese come l’Italia, è contrastato dalla
teoria corrente e molto diffusa, per la quale non esiste disoccupazione involontaria,
e il lavoro è sempre disponibile per chi lo
cerca effettivamente. In primo luogo, se la
disoccupazione involontaria non esiste,
non esiste nemmeno un problema di competitività: saremmo sempre in piena occupazione e lasciar fare il mercato risolverebbe anche il problema industriale. In
secondo luogo, se il termine disoccupazione è esteso ai contenuti di uno stato di disoccupazione, possiamo ampliarlo e raffigurarlo come povertà, ingiustizia, infelicità, esclusione, ma allora possiamo derivare dalle teorie dominanti la ricetta di Pangloss – viviamo nel migliore dei mondi
possibili, dove non esiste né ingiustizia, né
infelicità, né esclusione. Ora, queste teorie nascono tutte come reazione alla presenza dello Stato – sia nella vita economica sia nella vita sociale. Originariamente
(Von Mises, Von Hayek, più tardi Milton
Friedman), la motivazione delle teorie
«egoistiche» e individualistiche, derivava
dal rifiuto dell’economia nazista, ma soprattutto dal rifiuto dell’economia pianificata sovietica e di quella che si riteneva
fosse una sua pallida imitazione occidentale (la socialdemocrazia). Di qui il dominio, oggi poco contrastato, del pensiero liberista e la sua traduzione nelle politiche
delle istituzioni internazionali: il sistema
monetario internazionale, il sistema del
commercio mondiale, le unioni moneta-
rie o le aree monetarie regionali.
Che l’egoismo di massa sia una cura è altamente discutibile, ma che la liberalizzazione dei mercati abbia avuto effetti reali
non c’è dubbio. I fatti, dunque, procedono
dalle politiche, che procedono dalle teorie:
una successione di cui non sono affatto
sicuro, perché probabilmente le cause sottostanti sono complesse, ma che come fenomeno vale la pena osservare, soprattutto per evitare che si assolutizzi la storia
nel suo presente.
egoismo di massa e democrazia
Lo sviluppo della Cina (quello dell’India va
valutato separatamente) è interessante per
diverse ragioni: cresce il reddito di popolazioni miserabili, si aggiusta la distribuzione mondiale del reddito, il differenziale di crescita tra paesi ricchi e paesi poveri
si riduce drasticamente, gli effetti negativi
sul prezzo del petrolio sono parzialmente
compensati dall’aumento della produzione industriale a basso costo nei paesi emergenti, con la conseguente minore inflazione mondiale. Sappiamo, però, che ciò avviene con una minor crescita dei paesi ricchi, la riduzione del potere contrattuale dei
lavoratori in questi paesi, la concorrenza
tra lavoratori nel mondo globalizzato. Così,
la distribuzione del reddito nei grandi paesi sviluppati si volge contro i salari e stipendi a favore dei profitti, e contro i profitti a favore delle rendite finanziarie.
Questo stesso cambiamento, rispetto ai
decenni precedenti gli anni ’80, riduce la
domanda effettiva nei paesi sviluppati, fa
crescere il numero degli esclusi, e – soprattutto – genera una corsa alla ricerca di protezione. Così, crescono i profitti dei settori protetti (i servizi, detto in modo generico), ma soprattutto cresce la reazione contro il mercato, si rafforza la ricerca dell’identità comunitaria, cresce l’identificazione tra popolo (razza, storia, comunità)
e religione. Paradossalmente, l’egoismo di
massa si trasforma in forme più o meno
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Paolo
Leon
e tre indicazioni di Carra (Rocca
n. 20) sono largamente condivisibili. Sull’ambiente, che l’inquinatore debba pagare è principio ammesso sia dalla legislazione italiana sia da quella europea. Il problema è che l’amministrazione pubblica
non sembra capace (interessata?) di rilevare l’inquinamento o, quando ne è capace, ha scarsi mezzi (giuridici, finanziari,
tecnici) per costringere l’inquinatore a ripristinare l’ambiente nello statu quo ante.
Anche l’amministrazione della giustizia
ha difficoltà, perché non possiede tutti i
mezzi per rilevare l’inquinamento; e quando lo fa, deve sempre superare scogli di
natura giuridica nell’individuare le responsabilità. Non si creda che sia così
semplice rilevare le cause di tutti gli inquinamenti – i casi recenti di Bhopal e di
Porto Marghera sono lì ad ammonirci
sull’attuale debolezza del processo sanzionatorio. Tra l’altro, le difficoltà sono anche tecniche, soprattutto per gli ambienti-flusso. I danni all’atmosfera, ad esempio, non sono nemmeno considerati nella recente direttiva sul danno ambientale
dell’Ue. Qui, tuttavia, è solo questione di
volontà e di mezzi – oltre che della necessaria concertazione con le imprese per far
comprendere quanto il danno provocato
alla collettività finisca per ricadere anche
sugli inquinatori.
19
20
contraddizioni della Finanziaria
Queste considerazioni non sono ancora
così estremizzate in Italia, ma tutte sono
presenti. I governi di destra non sono liberali, com’è noto, e la risultante è che il centro sinistra è spesso più liberale della destra – una contraddizione distruttiva per
la società italiana.
Se si guarda alla motivazione profonda
delle politiche economiche e sociali, ne
abbiamo una conferma. Alla sua origine,
la Legge Finanziaria per il 2007 risponde
in primo luogo alle raccomandazioni (non
sono obblighi) del Patto di Stabilità e Crescita dell’Ue, e per farlo deve inevitabilmente sacrificare pezzi di Stato Sociale universale, dalla sanità, alla scuola, alla previdenza, all’assistenza; contemporaneamente,
mentre afferma la necessità di elevare la
competitività, non finanzia seriamente né
la ricerca né l’innovazione e le proposte di
Carra sembrano lontanissime dai propositi del legislatore attuale.
L’idea della Legge Finanziaria, infatti, è che
un migliore equilibrio di bilancio porta con
sé crescita e piena occupazione (quest’ultima, peraltro, sempre ottenibile, dato che
parte importante del governo ritiene non
esista la disoccupazione involontaria, che
è la premessa della Legge Biagi) e ambedue queste condizioni possono sostituire
lo Stato Sociale universale da un lato, e le
politiche industriali dall’altro. È vero che
si parla, nella Legge Finanziaria, di politiche industriali. Ma è perfettamente in linea con il pensiero ora descritto che queste politiche favoriscano i margini di profitto delle imprese – perché si sostiene che
se i margini crescono cresceranno anche
gli investimenti. Invece, è evidente che se
la domanda dei beni e dei servizi prodotti
dalle imprese non cresce, l’aumento dei
margini non si traduce in aumenti della
capacità produttiva, ma in finanza, investita per lo più sui grandi mercati dei capitali internazionali. Questa finanza, a sua
volta, sceglie investimenti con rendite e
profitti più elevati, e si rivolge a localizzazioni a più basso costo del lavoro e di stabilimento – comprese le peggiori condizioni sociali, ambientali, politiche – e ad investimenti a rendimento rapido. Quanto
più s’incentivano le imprese attraverso riduzione di costi, di imposte, o con sussidi,
tanto più si fa crescere la lotta tra lavoratori.
OLTRE LA CRONACA
ricerca e innovazione
Non voglio dire che una politica dell’offerta sia dannosa o inutile – se riesce a innovare i prodotti, un mercato si trova per le
produzioni nazionali. Ma se non c’è una
politica della domanda almeno altrettanto forte, il risultato è crescita bassa, e democrazia più debole. Del resto, le politiche dell’offerta non sono inutili, ma hanno bisogno di due ingredienti fondamentali. Il primo è il tempo, perché la traduzione in innovazione della ricerca, anche
di quella applicata, richiede tempo, soprattutto dopo un così lungo periodo di vacche magre (essenzialmente dal 1992).
Il secondo è la presenza di organismi che
intermedino, traducendola in tecnologie,
la ricerca – e questi sono organismi pubblici e privati, ambedue da finanziare con
il ricorso al bilancio pubblico. L’adattamento di enti pubblici e imprese private ai nuovi compiti dell’innovazione, a sua volta,
richiede tempo.
Ne deriverei una conclusione: ricerca e
innovazione, sempre necessarie, non sono
sufficienti a garantire la crescita dell’economia, tanto meno la sostenibilità ambientale di quella crescita. Perché aumentino
la loro efficacia, non sono oggetti da trattare in Legge Finanziaria. Lo strumento,
infatti, è buono solo per rammendare congiunture e difficoltà finanziarie, non per
ricostruire una struttura produttiva, qual’è
la ricerca.
responsabilità europea
Poiché senza un aumento di domanda effettiva, anche la ricerca può rivelarsi inefficace, emerge il punto centrale del problema italiano: il peso del debito e del deficit del settore pubblico, e la regola di
Maastricht, impediscono che si possa uscire dal declino, anche se si opera sull’offerta. Dunque, il pallino è anche a Bruxelles
– e i nostri governi sembrano deboli, di
fronte ad una Commissione Europea tutta schierata sul pensiero unico dell’«egoismo di massa». Può darsi che, riconquistata la credibilità nei confronti della
Commissione, si possa tornare a parlare
di politica, ma è imprudente lasciare il
punto nelle mani della Commissione, perché tutto l’onere della prova ricadrebbe sul
nostro governo.
Paolo Leon
due Afriche
due opportunità
Romolo
Menighetti
A
fronte della corsa verso la Cina di politici ed imprenditori italiani, attratti dai buoni affari che quel mercato
(un miliardo e duecento milioni di
persone) promette, affiora la domanda: e con l’Africa cosa facciamo?
Essendo superficiale parlare di una sola Africa
(sono almeno tre: quella bianca del litorale
mediterraneo, quella nera subsahariana, e il
Sudafrica, dove bianchi e neri convivono), è
necessario articolare il discorso.
Circa l’Africa subsahariana, con un reddito medio per abitante di 470 dollari l’anno, annoverando una quindicina di conflitti in corso, con
trenta milioni di persone infettate dall’Hiv, avendo 322 milioni di poveri che vivono con un dollaro al giorno, non è proprio il caso di parlare di
possibili buoni affari per gli Occidentali.
Ma è soprattutto la mancanza di mercato che
rende non appetibile l’Africa ai nostri cercatori di profitto. Tale mancanza è la conseguenza
di millenni di economia agricola di sussistenza, di secoli vissuti da quelle popolazioni lontano dalla costa, isolate entro le foreste, perché era dal mare che arrivavano i negrieri. Per
mezzo millennio l’unico rapporto che il continente nero ha avuto con il mondo esterno è
stato di tipo predatorio. Oggi, infine, l’eccessiva frammentazione degli Stati, e le guerre che
endemicamentre si incrociano, rendono quasi
impossibile complementare la produzione tra
paesi vicini. Perciò è ancora difficile avviare un
abbozzo di mercato.
Sempre a danno dell’Africa, però, un certo rapporto con l’Occidente continua.
È, infatti, deleteria per le fragili economie locali la politica del Fondo Monetario Internazionale, che per concedere prestiti agli Stati
impone l’abbattimento delle barriere doganali
e la liberalizzazione incondizionata. In tal
modo, la valanga di beni a basso costo che dall’Occidente li invadono, distrugge le produzioni del posto, provocando disoccupazione e miseria.
Porta poi verso il disastro ecologico il sempre
più frequente uso del territorio africano come
discarica di rifiuti pericolosi e radioattivi da
parte dei paesi ricchi. Somalia e Mozambico
sono destinazioni privilegiate per i trafficanti
di veleni. La Direzione Antimafia di Milano ha
recentemente individuato un’area per lo smaltimento illecito di rifiuti tossici di 150 ettari in
località Boane, in Mozambico.
Ancora, è di tipo predatorio l’interesse che Europa e Stati Uniti mostrano nei confronti delle
risorse naturali africane (petrolio in Nigeria;
diamanti in Angola, Sierra Leone e Liberia; legname pregiato in Liberia e Congo; coltan in
Congo), per il controllo delle quali non si fanno scrupolo a fomentare guerre tra fazioni locali, le quali, tra l’altro, fruttano il profitto aggiuntivo derivante dalla vendita di armi.
Nei confronti dell’Africa nera affiora dunque
ancora l’impronta della rapina e dello sfruttamento piuttosto che la collaborazione alla pari.
È perciò preliminare cambiare radicalmente il
segno di tale rapporto.
Altro discorso può farsi per l’Africa bianca.
Il Nordafrica, e in particolare Marocco e Tunisia, appaiono sempre più integrati nei processi
di globalizzazione e libertà economica (Rapporto 2007 sulla libertà imprenditoriale nel
mondo, pubblicato dall’International Finance
Corporation e dalla Banca Mondiale). In generale, la maggiore stabilità raggiunta dai regimi
politici nordafricani, e la loro lontananza dagli epicentri delle crisi mediorientali, rendono
quell’area appetibile per gli investitori stranieri. Ciò è favorito anche dal ritorno entro la comunità internazionale della Libia, la qual cosa
ha disinnescato il principale fattore di incertezza dell’area. Perciò il rischio politico ed economico dovrebbe continuare a diminuire, mentre pare si allarghino i margini di libertà imprenditoriale.
Sempre dal citato Rapporto emerge anche la
funzione trainante dell’economia sudafricana.
Quella nazione, grazie soprattutto alla sorprendente opera di riconciliazione tra neri e bianchi attuata dai governi insediatisi con la fine
della segregazione razziale, è anch’essa ora in
grado di attrarre ingenti capitali esteri.
Dunque, due opportunità si offrono agli Occidentali nei loro rapporti con l’Africa. L’opportunità, verso quella nera, di riparare alle passate rapine, e l’occasione, verso quella bianca,
di inserirsi in aree in crescita, con reciproci
vantaggi.
❑
21
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
UN DIVERSO
MODELLO DI
SVILUPPO:
PROPOSTE IN
DISCUSSIONE/2
evidenti di cesaro-papismo, fascismo, nazionalismo. Si indebolisce il potere delle
istituzioni che ostacolano questa involuzione: lo Stato, il sindacato, la politica, le
assemblee.
AMBIENTE
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Pietro
Greco
22
ra stato inserito d’ufficio nella
«sporca dozzina», l’elenco dei 12
composti chimici (compresi le
diossine e più in generale i policlorobifenili) sospettati di provocare il cancro e capaci di albergare a lungo nell’organismo umano, e messo
al bando. Ma ora il Ddt non è più un (il) nemico. Anzi, se usato in maniera appropriata
può diventare uno dei principali alleati della lotta alla malaria, la malattia infettiva che
colpisce 500 milioni di persone ogni anno
(l’86% nell’Africa sub-sahariana), uccidendone oltre un milione: quasi tutti bambini e
quasi tutti abitanti del continente nero.
La riabilitazione del Ddt, nel gergo dei chimici diclorodifeniltricloroetano, è avvenuta a metà settembre a opera dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Ed è
per certi versi clamorosa. Non tanto perché
giunge inattesa ai medici, che sanno come
il primo pesticida moderno, prodotto a partire dal 1939, ha aiutato a debellare la malaria e a salvare migliaia di vite umane non
E
solo nell’immediato dopoguerra (anche in
Italia) ma ancora in tempi recenti (per
esempio in India). Ma perché giunge inattesa al grande pubblico che da quarant’anni associa alla sigla del composto aromatico il volto subdolo della chimica.
da salvatore ad aggressore
Un po’ di storia, dunque. Il Ddt nasce nell’epoca d’oro della sintesi chimica organica,
messo a punto dal tedesco Othmar Zeidler
nel 1874. Ma è solo negli anni ’30 del secolo
successivo che lo svizzero Paul Hermann
Müller scopre che è un potente insetticida:
il più efficace nella lotta alle zanzare. Comprese le zanzare anofele, gli insetti che diffondono il Plasmodium falciparum, l’agente
causale della malaria. Durante la Seconda
guerra mondiale gli eserciti alleati lo usano
per proteggere i loro soldati, per esempio nelle paludi dell’Indocina. Ma con l’esercito
anglo-americano nel 1943 il Ddt sbarca anche in Italia e contribuisce a debellare la
malaria dal nostro paese. I successi sono tali
che nel 1948 Paul Hermann Müller viene insignito del premio Nobel per la scoperta dell’efficacia insetticida di quella molecola assurta a emblema del successo della medicina moderna contro le malattie infettive: un
successo che sembra inarrestabile e che induce moltissimi a sostenere che l’uomo ha
ormai vinto la sua battaglia contro il Quarto cavaliere dell’Apocalisse.
Ma passano appena due anni e già si insinuano i primi dubbi. Nel 1950 la Food and
Drug Administration, l’agenzia responsabile della protezione sanitaria dei cittadini americani, sostiene che se è giustamente riconosciuta l’aggressività del Ddt contro gli insetti forse è stata sottovalutata
quella contro l’uomo.
È l’inizio della fine per l’immagine della
molecola. Le istituzioni sanitarie di tutto
il mondo cominciano a studiarne gli effetti nel lungo periodo. C’è il sospetto che sia
cancerogeno. Nel 1962, poi, Rachel Carson pubblica la Primavera Silenziosa, in cui
accusa in maniera specifica il Ddt, perché
aggredisce le uova degli uccelli e, di conseguenza, rende silenziosi i campi. Il libro
è un impietoso atto di accusa non solo contro il diclorodifeniltricloroetano, ma contro l’uso smodato dei pesticidi e, in definitiva, contro l’industria chimica. Molti sostengono, addirittura, che sia stato il grido di Rachel Carson a tenere a battesimo
il movimento ambientalista.
Il Ddt non sopravvive molto a quell’accusa. Anche perché continuano gli studi che
dimostrano l’attività cancerogena non solo
del diclorodifeniltricloroetano, ma in pratica di tutti gli aromatici clorurati. Fatto è
che nel 1972 il Ddt viene messo al bando
negli Stati Uniti. E nel 1978 anche in Italia. In meno di tre lustri, da salvatore dell’umanità è assurto a simbolo dell’aggressione antropica all’ambiente.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
il ritorno
del Ddt
tossico e inquinante organico persistente
La molecola non solo fa male, ma persiste
23
i rischi e di benefici
Che il Ddt sia un inquinante ambientale,
non c’è dubbio alcuno. Meno evidente è
quanto la sostanza sia da considerarsi tossica per l’uomo. Non è un «tossico acuto»,
nel senso che non fa male immediatamente. Tuttavia si è trovata una certa correla24
zione tra l’esposizione al Ddt e due tipi di
cancro (al fegato e al seno). Inoltre il Ddt
può alterare il sistema endocrino. E un feto
esposto alla sostanza può avere uno sviluppo alterato. Insomma non è una sostanza innocua. Si tratta di pesare i rischi e i
benefici.
Lo ha fatto, di recente, il British Medical
Journal, che in un editoriale pubblicato nel
2004, sostenendo che, poiché la malaria
uccide centinaia di migliaia se non milioni di persone ogni anno e poiché la lotta
contro la malaria, soprattutto in Africa, sta
fallendo, allora bisogna considerare il Ddt
come uno strumento utile e sicuro, soprattutto se spruzzato a piccole dosi, contro la
malattia.
L’editoriale era l’espressione di un convincimento sempre più forte della comunità
medica internazionale. Eccoci, dunque,
all’annuncio dell’Organizzazione Mondiale di Sanità. Il Ddt resta una sostanza pericolosa, con deboli ma reali effetti cancerogeni. Tuttavia, se l’insetticida è ben utilizzato, i rischi per l’uomo possono essere
resi minimi e persino annullati. Mentre
resta intatta (o quasi) la sua potenza contro le zanzare e, di conseguenza, contro la
malaria.
RAPPORTO EDITORIA
importanza del fattore ambientale
In realtà bisogna tener conto di almeno
altri due fattori di complicazione.
Primo: nel tempo le zanzare «imparano»
a resistere al Ddt. O, detto in maniera più
corretta, la selezione naturale fa emergere
i ceppi di zanzare più resistenti alla molecola.
Secondo: i fattori ambientali e gli stili di
vita delle persone che lo usano, possono
ridurre l’efficacia insetticida del Ddt. Se,
per esempio, uno vive in capanna, con porte e finestre perennemente aperte, deve trovare altri sistemi per combattere le zanzare. E finché miliardi di persone non avranno accesso ad acqua pulita e a servizi igienici primari, finché vivranno vicini a fogne a cielo aperto, allora la battaglia contro le zanzare portatrici dell’agente infettivo della malaria difficilmente potrà essere vinta.
Tutto questo dovrebbe insegnarci, ancora
una volta, una banale verità: che non esiste in natura e neppure nei laboratori umani il bene assoluto o il male assoluto. Tutte
le sostanze possono essere farmaci o veleni. Molto – quasi tutto – dipende dall’uomo. Da come le usa e in quale contesto.
Pietro Greco
la lettura
e l’educazione permanente
Fiorella
Farinelli
on una biblioteca in casa di almeno 100 titoli, i risultati scolastici
sono parecchio migliori (+17%)
che con una casa senza biblioteche. E questo non stupisce, perché i libri – leggerli, acquistarli,
raccoglierli – vanno di solito insieme a diplomi e lauree, e il livello culturale dei genitori, la madre soprattutto, ha fin troppa
influenza sul successo scolastico dei figli.
Più difficile da capire è perché, con una
sola televisione in casa, a scuola si riesca
meglio che quando ce ne sono di più; e
perché succeda all’incirca lo stesso con il
numero dei telefoni cellulari utilizzati in
famiglia. Forse tutto ciò significa che l’ap-
C
prendimento, o addirittura la cultura, vanno più volentieri a braccetto con la sobrietà, la concentrazione mentale, la parola
distesa? E che, viceversa, l’eccessiva frequenza della comunicazione facile, colorata, spezzettata, banalizzata di cellulari e
Tv disturba, a lungo andare, la conoscenza? La ricerca sul ruolo della lettura nello
sviluppo culturale ed economico del paese, svolta per conto dell’Associazione Italiana Editori (1), purtroppo si limita a segnalare le correlazioni tra i fenomeni, senza troppo approfondire temi che, del resto, sono al centro della riflessione pedagogica.
Ma le curiosità offerte dall’incrocio dei dati
25
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
AMBIENTE
a lungo negli organismi ed è capace di risalire la catena alimentare. Nel corso degli anni si scopre, infatti, che il composto
è un «inquinante organico persistente»,
che si accumula negli organismi dove ha
un tempo di dimezzamento (il tempo necessario a diminuire della metà la quantità di sostanza iniziale) compreso tra 2 e
15 anni. E, infatti, tracce del contaminante sono state trovate nelle mammelle e, più
in generale, nei tessuti adiposi di molte
donne in occidente e persino di foche e orsi
nelle gelide e lontane acque dell’Artico.
In acqua dura molto di meno: il tempo di
dimezzamento nell’acqua di un lago è di
56 giorni, di 28 giorni nelle acque di un
fiume.
È anche per questo che, non più di cinque anni fa, il Ddt è stato incluso dalle
Nazioni Unite nel pacchetto delle 12 molecole, la «sporca dozzina» appunto, di
cui decretare il «bando totale». Dopo
un’accanita resistenza, anche i paesi del
Terzo Mondo, che continuano a usare
l’insetticida contro le zanzare, acconsentono.
Il guaio è che, intanto, anche il successo
dell’uomo nella lotta alle malattie infettive, che sembrava inarrestabile, perde colpi. Nei paesi in via di sviluppo, in particolare, persistono molte delle malattie debellate in Occidente. Prima fra tutte, la malaria.
I motivi sono molti. Non è questa la sede
per richiamarli. Tuttavia è un fatto che
le zanzare continuano a diffondere il Plasmodium falciparum. E che in alcuni paesi, come l’India, medici e cittadini preferiscono il rischio cancro – debole e di
lungo periodo – al rischio malaria, più
immediato e visibile. Con un uso, peraltro sempre più accorto, del Ddt, gli indiani riescono ad abbattere del 90% la
trasmissione della malaria. Il successo,
ancora una volta, è tale da indurre alcuni paesi – come il Sud Africa – a soprassedere sul bando e a reintrodurre il Ddt.
Ormai sono almeno 10 i paesi dell’Africa
sub-sahariana che usano la molecola –
nebulizzata con il classico spray negli
interni – per contrastare le zanzare anofele.
RAPPORTO EDITORIA
26
Non è vero, inoltre, che la lettura è patrimonio solo delle famiglie e delle persone
con i redditi migliori e con le collocazioni
professionali più alte: rapportando la spesa delle famiglie per l’acquisto di libri (non
scolastici ed universitari) alla spesa complessiva di prodotti non alimentari, si scopre un’altra interessante curiosità: con il
loro 0,67% destinato all’acquisto di libri, le
famiglie operaie sono allineate a quanto
spendono le famiglie di dirigenti e di professionisti, e spendono comunque di più di
quanto facciano i lavoratori in proprio
(0,59%). Un dato che, in presenza di redditi certamente molto diversi, sembrerebbe
suggerire una diversificazione di atteggiamenti tra i gruppi sociali nei confronti della necessità di mantenersi aggiornati, incrementare le proprie conoscenze professionali, informarsi sulle cose del mondo, accrescere la propria cultura. Gli operai sono
dunque ancora, nonostante le batoste degli
ultimi anni, un ceto che spera, attraverso
l’investimento in conoscenza, di migliorare la condizione propria e dei propri figli?
i risvolti economici
L’Associazione Italiana degli Editori, ovviamente, deduce da questi e da altri dati la
necessità di «politiche istituzionali coerenti e continuative nel tempo», capaci di sostenere la produzione, la commercializzazione, la vendita di libri; e di promuovere,
insieme con lo sviluppo culturale del paese, lo sviluppo dell’editoria. C’è un interesse «di parte», dunque, e un’attenzione a
cose concretissime, come la tutela del diritto d’autore, gli investimenti pubblici
nelle biblioteche, le politiche dello Stato e
degli Enti Locali di supporto alle librerie,
le imposizioni fiscali sul settore.
Ma c’è, con tutta evidenza, anche una questione di interesse generale. Se è vero, infatti, che esistono rapporti stretti non solo
tra lettura e sviluppo civile ma anche tra
lettura e sviluppo economico, i dati offerti
dall’indagine Aie delineano, per il nostro
paese, una situazione di autentica emergenza. Perché da noi si legge poco, e comunque molto meno che in altri paesi europei. Anche se la situazione è cambiata
in positivo negli ultimi cinque anni, con
un’area della «non-lettura» che si è ridotta
dal 61,4% del 2000 al 57,7% odierno, siamo ancora una ventina di punti percen-
tuali sotto le performances di altri paesi
europei: in Italia dichiara di avere letto almeno un libro nell’ultimo anno il 42,3%
della popolazione contro il 61% della Francia, il 66% della Germania, il 73,5% del
Regno Unito; siamo tra gli ultimi posti
nell’Europa dei 15 anche per la spesa procapite nell’acquisto di libri; e perfino nelle
categorie dei professionisti e dei dirigenti
il tasso di lettura non supera il 46%. I lettori «forti», cioè quelli che leggono almeno un libro al mese, sono solo il 5,7%,
mentre sono il 16,5% quelli che ne hanno
letti da 4 a 11, e il 20,1% quelli che sono
arrivati a 3.
Sembra inoltre diffondersi, più che in altri
paesi, l’idea che per aggiornarsi professionalmente o per essere all’altezza delle complessità della modernità, basti ed avanzi la
consultazione di Internet, la partecipazione a convegni, la piatta sinteticità delle diapositive in power point. E che bastino ad
informarsi le fonti televisive, con tutto il
settore della carta stampata anch’essa in
crisi di finanziamenti, di lettori (e quindi
anche delle risorse della pubblicità).
cause e responsabilità
Quali sono le cause? E dove si annidano le
responsabilità? C’è, è vero, il fattore pesante dato da livelli di istruzione media della
popolazione ancora molto modesti, ma c’è
anche dell’altro. Gli editori segnalano le
gravi disparità territoriali nella diffusione
delle librerie (il 50,9% è nel Nord, il 21,5%
nel Sud) e la scarsità di biblioteche di pubblica lettura, anch’esse più presenti nel
Nord che nelle altre aree territoriali, spesso con dotazioni librarie poverissime (il
50% non ha più di 5.000 volumi, un numero da biblioteca domestica di famiglia
mediamente colta), frequentemente con
risorse economiche ridotte all’osso.
Ma problemi serissimi ci sono anche nelle
strutture formative: nella scuola italiana
ci sono pochissime biblioteche scolastiche,
il loro orario medio di apertura è di 2 ore
giornaliere, il loro funzionamento si basa
su personale scarso e non professionalizzato continuando a mancare negli organici del sistema scolastico la figura del bibliotecario specializzato, gli studenti che
frequentano le biblioteche sono solo il
13,6%, gli insegnanti il 2%. E anche nelle
università le cose non vanno meglio: non
solo dal punto di vista della disponibilità
di biblioteche e di spazi per la lettura, ma
anche perché la frantumazione degli insegnamenti in corsi di poche decine di ore
favorisce il ricorso a materiali di studio
più leggeri e diversi dal libro e una crescente disabitudine all’uso di testi complessi.
Sembrano i tratti di una crisi irrimediabile del libro e della lettura, travolti da
stili di vita, comportamenti, sistemi di
valore, tecnologie comunicative lontane
ed estranee da quelli richiesti per un rapporto vivo e quotidiano con la parola scritta. Ma le cose stanno, in verità, assai diversamente. Perché quando l’adozione
scolastica dei libri di testo non è la cultura didattica prevalente, quando le politiche locali promuovono le strutture, i contesti, le sollecitazioni giuste, quando le
famiglie sanno sottrarsi al monopolio di
mezzi di comunicazione culturalmente
mortificanti, il panorama cambia. Il festival della letteratura di Mantova attrae
ogni anno decine di migliaia di appassionati del libro e degli incontri con gli autori. La rete delle biblioteche civiche di
Roma, ricche di strumenti multimediali
e di continue attività di promozione della
lettura vede ogni anno crescere il numero dei frequentatori e dei prestiti. Le biblioteche scolastiche che restano aperte
anche di pomeriggio e permettono l’accesso anche ai non studenti diventano centri
importanti di lettura e di scambi culturali. Le librerie che sanno offrire servizi di
accoglienza e di consultazione hanno successo. E chi ha livelli di istruzione buoni,
percorsi formativi di qualità, condizioni
di lavoro stimolanti, combina insieme libri e internet, giornali e televisione, aggiornamento professionale e università
popolari. Non c’è, dunque, una sola soluzione e una sola politica, per promuovere
la lettura. Occorrerebbe svilupparne tante, e in diversi campi, per raggiungere
l’obiettivo. Ma c’è un paese consapevole
della sua importanza? E determinato a realizzarlo?
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
– numerosissime e relative a diversi campi
di analisi – non lasciano indifferenti. Colpiscono e fanno riflettere, per esempio, i
risultati che emergono mettendo in relazione l’andamento della produttività nelle
venti regioni italiane nel periodo 1980-2003
con i tassi medi di lettura delle stesse aree
territoriali. Si scopre infatti non solo che
la lettura incide di più e più positivamente
dei livelli medi di istruzione formale, cioè
dei titoli di studio, ma anche che c’è una
quasi perfetta correlazione tra le due serie
di dati: le regioni del Nord, che contribuiscono per il 54,02% al Pil nazionale, raccolgono il 53,4% del totale nazionale dei
lettori; quelle del Centro, che contribuiscono al Pil per il 21,03%, hanno il 20,24%
dei lettori; quelle del Sud, che contribuiscono al Pil per il 24,9%, hanno il 26,2%
dei lettori.
E un allineamento ancora più fedele viene
rilevato prendendo in esame i dati regione
per regione, e incrociandoli con quelli dei
libri acquistati in libreria: il Piemonte contribuisce all’8,3% del Pil, ha l’8,7% di lettori, concentra l’8,8% delle vendite in libreria; la Puglia contribuisce al 4,7% del
Pil, ha il 4,6% di lettori, concentra il 4,8%
delle vendite in libreria, e così via.
I titoli di studio sono importanti nello sviluppo economico del paese, ma lo è ancora di più che durante tutta la vita gli adulti
acquistino e leggano libri: di aggiornamento professionale, di saggistica, di letteratura, di informazione. Anche per questa
via, dunque, viene a galla il valore anche
economico non solo della prima istruzione ma anche dell’educazione permanente,
non solo dei percorsi e dei diplomi formali (che non sempre determinano automaticamente una disponibilità positiva all’«apprendere sempre») ma anche della
responsabilità individuale nella propria
crescita culturale e delle politiche istituzionali nella promozione e nel sostegno
dell’apprendimento e dell’autoapprendimento in età adulta. Perché, come è noto,
«non è mai troppo tardi» e, anche se avere
avuto poca o cattiva scuola influisce sul
rapporto con la cultura che si avrà nel corso della vita, è importantissimo poter accedere sempre alle opportunità formative,
vivere in realtà lavorative, sociali e territoriali che stimolano, disporre sotto casa di
librerie, biblioteche, musei e gallerie, cinema, teatri.
Fiorella Farinelli
(1) La ricerca, condotta da Antonello Sorcu professore di politica economica a Bologna e da
Edoardo Gaffeo professore di economia politica a Trento, è stata presentata agli Stati Generali dell’Editoria (Roma, 21 settembre).
27
CULTURA E RELIGIONI
nord
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Romolo
Menighetti
28
l Nord Italia, inteso come «questione
settentrionale», incomincia ad imporsi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, in forza della maggiore
crescita, e del conseguente più diffuso
benessere, che si sviluppano in quelle
regioni rispetto al resto del Paese. Tale crescita rende più sensibile il Settentrione alla
forza di attrazione del modello di sviluppo europeo, con il quale si sente ormai in
maggiore sintonia rispetto alle altre regioni italiane.
Questa situazione determina un fatto nuovo: la divergenza tra i modelli di sviluppo
economico e sociale tra Nord e Sud. Fino a
venti anni prima i due modelli tendevano a
convergere, e il divario era percepito come
una distanza da colmare.
Ora però è la convergenza sullo stesso modello di sviluppo delle due Italie ad essere
messa in discussione. Ciò anche a causa del
fallimento delle politiche di intervento pubblico per ridurre la forbice. Questa, nonostante i soldi impegnati, si è maggiormente
allargata.
Tale fallimento, unito al fatto che l’Europa
si è imposta come prospettiva unificante
della Nazione, configura ora il Sud come
una palla al piede per il Nord. Da qui il porsi del Settentrione come «questione» nel
contesto nazionale.
Ma c’è un motivo più contingente, che aggrava la «questione».
Si tratta del fatto che gran parte del Nord, il
cuore imprenditoriale del Paese, nelle ultime elezioni politiche (aprile 2006) ha votato
in maggioranza per i partiti di opposizione.
Ciò significa che la parte trainante dell’intera Italia non si fida della Sinistra governante, e non solo per motivi ideologici. A diffidare infatti non sono solo i ricchi e i padroni, ma anche gli artigiani e gli operai, che
spesso si sentono solidali con gli imprenditori e le imprese. Insomma, gli abitanti del
Nord hanno la sensazione che i valori che
li caratterizzano – capacità imprenditoriale, etica del lavoro di tipo protestante, insofferenza per le lungaggini burocratiche –
siano poco apprezzati dalla Sinistra.
Che fare? O meglio, prima di tutto, cosa non
fare?
I
Resistere alla tentazione di liquidare senza
appello la questione settentrionale come rivendicazione di un autonomismo egoistico
e corporativo, evasore fiscale e protezionista per vocazione. In misura diversa, le
istanze del Nord che fanno «questione» –
infrastrutture, liberalizzazioni, riduzione
dei costi della politica, recupero dell’evasione fiscale finalizzata al taglio delle tasse,
abbassamento del costo del lavoro, maggiore sensibilità ai valori espressi dal territorio – sono istanze dell’intera nazione.
Propositivamente, si tratta di impostare una
politica più attenta e vicina al territorio,
onde intercettare gli interessi del Nord e
dell’Italia tutta.
In particolare, la Sinistra governante, per
aderire maggiormente ai vissuti e ai valori
del Nord, deve superare le posizioni e le affermazioni eccessivamente ideologizzate. Si
tratta insomma di articolare politiche più
pragmatiche e meno legate a geometrie ideologiche. Promuovendo una maggiore vicinanza dei vertici partitici e politici con la
gente, dovrà anche superare l’ostacolo frapposto dall’attuale legge elettorale, che ha scippato ai cittadini il potere di indicare i propri
rappresentanti in Parlamento. I grandi orientamenti e le strategie di fondo devono essere
comuni per tutto il Paese, ma dovranno essere declinate con più aderenza ai particolari bisogni locali. Ad esempio, la necessaria
lotta contro la precarietà del lavoro, non può
trascurare il fatto che questa colpisce anche
gli imprenditori, specie i piccoli e i piccolissimi, e che perciò anche per essi devono studiarsi adeguate misure di protezione contro
la concorrenza sleale, ammortizzatori sociali
appropriati, e una diversa politica del credito. Tutti questi provvedimenti sono al di là
di un’etichettatura di destra o di sinistra.
Sotto questa problematica c’è però – inquietante – una dimensione della questione settentrionale che attiene alla politica e alla
cultura. C’è la cultura della Lega Nord, in
gran parte reinterpretata da Forza Italia.
Dietro gli slogans di «Roma ladrona» e «no
allo statalismo» serpeggia in realtà il rifiuto del riconoscimento dell’autorità istituzionale e delle leggi non collimanti con i particolari interessi che da essa promanano.
integrismo
la malattia
della verità
Giancarlo Zizola
isogna che non ci vergogniamo di riconoscere
la verità e di farla nostra, da qualsiasi parte
venga. Perché, per colui che cerca la verità,
nulla è più prezioso della verità stessa. Ed essa
non svilisce mai, non abbassa mai colui che la
cerca» al-Kindi, Preface to Methaphisics, metà del IX secolo.
Questa raccomandazione ci viene da molto lontano, eppure sembra così pertinente alla nostra situazione postmoderna. Mai nella storia si è data una base tecnologica così
avanzata per la verità comunicativa, su scala globale, eppure molta parte del mondo è inabissata nell’invisibilità
organizzata, tutto sembra già visto, tutto accessibile, niente e nessuno esiste se non passa alla televisione, ma sempre più cose non si vedono e una gran parte del mondo,
delle sue guerre, dei suoi orrori e delle sue mafie rimane
nell’ombra, faccia nascosta e inesistente della Terra globale. Poi dilaga l’impostura politica programmata e scontri di civiltà fanno correre sangue e fanatismo sguainando la verità come una spada.
L’invito ci viene recapitato da un grande maestro alle origini del pensiero islamico, al-Kindi, morto nell’anno 873,
circa due secoli e mezzo dopo Maometto. Possiamo dire
che al-Kindi sta all’islam come San Tommaso d’Aquino,
B
CULTURA E RELIGIONI
30
centramento: un vero fallimento dell’anima.
il mercato nero delle anime
Non saprei se questa lezione sia stata ancora pienamente imparata, diffido di quegli intellettuali antimodernisti che hanno
bisogno di esercitarsi nell’arte pigra della
maledizione contro «questo dannato mondo». Vedo che se la menzogna è uno spaccio corrente nelle società democratiche, se
si tenta perfino di manipolare l’informazione dei grandi media americani, anche
la verità ha i suoi anticorpi, e mai come ai
nostri tempi il naso di Pinocchio ha la vita
così breve: si comincia a capire che senza
verità orientativa nessuna comunicazione
sarebbe realmente, anche se ognuno dei
sette miliardi di abitanti della Terra, inclusi
i neonati, fosse munito di un videotelefonino digitale.
Forse, è arrivata l’ora della parola profetica, dell’invettiva cruda e del silenzio meditativo, ma la voce dei visionari, dei predicatori dell’impossibile o è dispersa o viene sommersa dal frastuono dei reality
show, viene tolta la parola proprio a coloro che potrebbero farne buon uso per aiutare tutti a trovare l’orientamento smarrito. Diventa per questo più difficile bandire la menzogna non solo dalle sedi politiche e finanziarie ma anche dalle nostre
anime. C’è un mercato nero delle anime, e
questo è il mercato più terribile che esista
al mondo.
il messaggio di al-Kindi
Mi limiterei dunque a mettere in luce tre
aspetti che mi sembrano attuali del messaggio di al-Kindi e che possono aiutarci a quel mutamento di forma mentale
di cui abbiamo disperatamente bisogno,
quasi per una nuova iniziazione che ci
faccia attingere alle risorse dei valori fondamentali e resistere alla menzogna che
ci assedia da ogni parte e ci toglie il respiro:
1. la verità è un bene alla portata di tutti,
che non si possiede in toto ma si cerca per
frammenti. Ha bisogno di una tensione,
del dubbio approfondito, del dubbio su-
perato, del forse. È un processo di scarto.
Mantiene un suo grado di enigmaticità e
di sofferenza, è un simbolo molto più che
un dato certificato, è una metafora che rinvia a qualcosa di inedito e di incompiuto
sempre, imprevedibile, insaziabile e complesso.
Come diceva Sant’Agostino: «Cercare per
trovare, e dopo aver trovato, cercare ancora» (De Trinitate): la verità è mescolata e perplessa, permixta et perplexa. Più
una penombra che una luce abbagliante.
2. la verità ha bisogno di essere cercata nella storia e chi la cerca è importante, anzi
insostituibile per la verità stessa. Senza i
suoi cercatori, la verità astratta, sola con
se stessa, diventa facilmente muffa, irrisione, mistificazione, propaganda e maschera, lupo vestito da agnello che devasta l’ovile. Solo sciogliendosi nella pasta
la verità raggiunge il suo fine, che è quello
di essere fermento positivo della storia.
Una verità pensata e praticata come acciaio diventa facilmente guerriera, assassina e fanatica. Ogni parola deve servire la
vita, ogni dottrina la sapienza del cuore.
La proprietà della verità è di essere solubile: solo se è solubile diventa efficace.
3. qualunque cercatore della verità ha una
propria dignità, in quanto cercatore sinceramente impegnato nel percorso del
bene, indipendentemente se la ha raggiunta o meno.
Mi sembra interessante ricordare come alKindi arriva a questa idea complessa e dinamica della verità, che è il vaccino per
combattere la febbre virale dell’integralismo e del fondamentalismo (ricordiamo
per inciso che la rapida diffusione dell’islam è molto più debitrice della sua capacità di adattamento che alla sua forza
espansiva delle sue conquiste militari: non
ha dogmi, non ha clero, né chiesa, i popoli
assoggettati potevano continuare a praticare la propria religione, la sua tolleranza
era molto maggiore di quella esercitata
allora dai regni cristiani verso i pagani e
gli eretici, tanto che l’islam divenne ben
presto una civiltà di altissimo livello, al cui
confronto l’impero carolingio era una congerie di paesi barbari. Nessuna città medievale pareggiava in splendore di opere e
intensità di produzioni culturali le città
islamiche come Damasco, Baghdad, Cordova. Si può dire che il fondamentalismo
islamico non esiste nella storia islamica, è
un fenomeno del tutto recente).
intrecci articolati tra culture, religioni,
ricerche
Al-Kindi ci arriva attraverso la riflessione
sull’ottica. E attraverso la teoria musicale
sulla divisione delle scale e dei toni. È lui
l’autore di uno dei testi fondatori dell’ottica araba, dal titolo Sulla diversità delle perspettive. L’originale di questo libro (uno dei
241 libri scritti da al-Kindi) è andato perduto, a noi è pervenuta una traduzione di
Gerardo da Cremona dal titolo De aspectibus (letteralmente, Sulle cause delle diversità degli aspetti). Sappiamo anche che questa traduzione fu una guida fondamentale
per Ruggero Bacone, John Peechman e
Roberto Grossatesta, cioè per i principali
fondatori medievali della scienza e dell’astronomia nel mondo latino.
Ciò che collega tra loro questi pensieri fondatori è l’idea che lo scienziato, come il filosofo e ogni cercatore deve percorrere
senza tregua tutti i luoghi, giammai si può
appoggiare ad un punto fisso, deve rifiutare, anche rischiando di mancare totalmente il suo obiettivo, qualsiasi tentazione di
centralismo culturale e di storia lineare.
Ogni punto di vista è la vista da un punto.
Per cui il rispetto della diversità del punto
di vista altrui è la garanzia del mio stesso
cammino verso la verità: questo principio
è costitutivo del sistema democratico, per
questo ogni volta che emergono fenomeni
di disprezzo o di emarginazione verso le
viste da altri punti, in una società politica
o anche in una Chiesa, a causa della pretesa di un pensiero ufficiale dominante, arredato dall’adulazione dei cortigiani e dalle «servitù volontarie» (la genuflessione ai
poteri fittizi di cui parlava Etienne de la
Boétie) non solo la democrazia corre serio
pericolo di totalitarismo e di conformismo,
ma è la verità stessa a essere in pericolo.
Ricordo un discorso di Vaclav Havel, un
altro intellettuale perseguitato: «Penso che
l’intellettuale debba mettere in allarme,
provocare con la sua indipendenza, ribel-
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
quattro secoli dopo, sta al cristianesimo.
Anche al-Kindi è influenzato dalla filosofia greca, e in particolare da Aristotele e
dai neoplatonici. Anche lui tenta di conciliare la fede con la ragione ed è il primo
a farlo nella storia dottrinale dell’islam.
Un’intelligenza universale, per questo
aperta alla complessità: un cercatore della verità in ogni campo, nello studio delle
scienze fisiche, delle matematiche, della
musica. La sua biblioteca a Baghdad era
piena di opere da lui stesso tradotte dal
greco.
Troppo lungo sarebbe soffermarsi sui contenuti della sua dottrina, direi solo che
aveva operato la distinzione tra i due campi, quello della scienza umana e quello
della scienza divina, riconoscendo a ciascuno la propria autonomia, e assegnando alla filosofia, come farà San Tommaso, il ruolo di ancella della teologia. Proprio per questa sua posizione laica, antiintegralistica, a lui toccò la sorte di ogni
intellettuale onesto, che non può rinunciare alla propria funzione critica, e mai
dogmatica e apologetica: fu accusato di
eresia, gli venne confiscata la biblioteca e
subì varie persecuzioni.
Del resto sappiamo che anche a San Tommaso d’Aquino toccò in sorte l’emarginazione dai custodi dell’ortodossia ufficiale
del suo tempo, fino al rogo della Summa
Teologica acceso sul sagrato di Notre
Dame.
Ci sono sempre delle spade che si snudano per la difesa della verità con la V maiuscola, in nome dei sommi princìpi, in
nome delle identità da preservare, e si tende a dimenticare che anche Robespierre
(che alcuni stanno riabilitando) era indiscutibilmente un uomo di principi, ma
purtroppo aveva un debole per la ghigliottina.
La verità ha mietuto in ogni tempo delle
vittime. E questa scia di sangue non sembra fermarsi. Direi anzi che la violenza più
cruenta della storia è quella che si appella alla verità religiosa, che usa il cielo
come arrotino per affilare la spada e spalma Dio come vernice celestiale sui campi
di battaglia. È una sacra truffa che ha
riempito lungo il Novecento le fosse comuni, le camere di tortura, i campi di con-
31
CULTURA E RELIGIONI
32
damentalista dell’Occidente come Oriana
Fallaci. Il suo concittadino di Firenze, certo Dante Alighieri, prende lo schema della
sua Divina Commedia da un testo islamico (il Libro della Scala, un classico arabospagnolo, letto da Dante nella biblioteca
di Brunetto Latini).
Né si comprenderebbero le scienze arabe
senza la religione. C’è questa fondazione
religiosa della scienza nel mondo islamico, che è ancora un problema irrisolto per
il modello laico della scienza in Occidente, che si vuole programmaticamente veicolo della secolarizzazione. Non sarebbe
possibile capire la novità di Cartesio senza conoscere l’algebra araba che Leonardo Pisano, agli inizi del XIII secolo, importò in Europa.
Questo sguardo alla complessità, agli intrecci infinitamente articolati lungo i secoli tra le culture, le religioni, le ricerche,
è una grande lezione per noi che abbiamo
la responsabilità di partecipare al processo di globalizzazione del mondo.
Abbiamo a che fare con una coabitazione
di segni, simboli, linguaggi, religioni. E
dopo il crollo delle ideologie dell’Oggetto,
vediamo il nuovo rinascimento del Soggetto, che cerca di affermare le prerogative
della propria diversità, della propria coscienza, del proprio diritto di esistere in
dignità eguale. Un Soggetto che però non si
pensa solo, ma in rete.
un artiglio rapace e potente
Allo stesso tempo vediamo irrompere su
questo immenso e poliforme brulicare
umano un artiglio rapace e potente di individualismo, di conformismo, omologazione, un pensiero-scimmia prodotto dai
mass media per ogni dove, una spinta a
alzare i ponti levatoi, a rifiutare l’Altro, a
barricarci in difesa contro le diversità, viste a priori come attentati alla propria
identità prima che alla propria incolumità. Si fanno leggi per autorizzare a sparare a vista, ma prima ancora si inocula ogni
giorno la cultura del nemico, l’ideologia
della paura che è sempre stata organizzata e perfino sacralizzata ogni volta che
nella storia l’Occidente ha avuto a che fare
con lo Straniero, in funzione della conser-
vazione dell’ordine costituito.
Ma è ben noto che le identità veramente forti non hanno bisogno di erigere mura. Al contrario, sono le identità deboli che hanno bisogno di barricate e di propagande fasulle.
la politica degli innesti
È interessante ricordare l’esperienza dei
miei contadini veneti. Nessuno ha una premura più gelosa per la salvezza delle loro
vigne. Il loro prosecco, e il Cartizze specialmente, è una specie molto mitica di
pratica religiosa, ma allo stesso tempo è
un prodigio della scienza. Quale il nemico
più insidioso per questo loro dio?
Non è un’ideologia, non è neanche il terrorismo. È molto più del fondamentalismo
islamico. È la filossera. Ora per sconfiggere questo Bin Laden delle vigne i miei contadini non fanno ricorso al fosforo democratico usato dagli americani a Falluja,
non alle torture naturalmente democratiche, non al colpo in canna già pronto a
uccidere ogni ladro di polli. La loro arma
letale è una sola: la politica degli innesti.
È solo grazie agli innesti da altre viti che il
pericolo terrorista viene sconfitto, dunque
è moltiplicando le amicizie, le relazioni, i
confronti, gli scambi con altri modi di vita
che si preserva la vita e si sconfigge la catastrofe.
la scuola della montagna
La montagna è una scuola molto adatta
per confondere i furori degli integralisti.
Non si sale in vetta se non passo dopo passo, faticando e cercando il sentiero più
adatto. Ci si saluta tutti, in tutte le lingue,
ci si ospita a vicenda, perché ogni essere
umano quando va in montagna si riconosce prossimo all’altro nel saliscendi della
vita ed è pronto a dargli una mano, se si
trova in difficoltà, e a condividere acqua,
corda e cibo.
Dove passano i confini, su quale pascolo
finisce una nazione, o una proprietà privata, su quale picco ne comincia un’altra?
Queste ascensioni imprimono una lezione di umiltà, di ospitalità, di senso dei beni
della creazione creati per tutti, e non solo
per alcuni privilegiati, una lezione di soli-
darietà e di tolleranza.
È mettendo un piede dopo l’altro sui tratturi che si riesce a vedere più chiaramente
una verità a riguardo della verità: che la
verità non vale niente se non è comunicativa. Se non è una verità di relazione, ma solo
astratta, categorica, strategica, militante,
frettolosa e intransigente.
la malattia della verità
Vorrei invitare a riflettere su un paradosso, che forse sfugge a coloro che hanno il
chiodo fisso del pericolo del relativismo:
non vorrei essere troppo antropomorfico
e presuntuoso, ma oso pensare che se Dio
Padre avesse ceduto ad una minima traccia di ossessione per il relativismo penso
che avrebbe trovato qualche difficoltà a decidere di entrare in relazione con l’umanità. Penso che il relativismo sia la malattia
della verità quando funziona a circuito
chiuso, senza entrare in relazione, senza
farsi veicolo per trasportare l’amore.
In montagna si impara a rispettare la legge della gradualità e ad aspettarsi a vicenda: la verità consiste nell’aspettare la verità,
non nel possederla.
È un percorso molto più che una cima da
raggiungere. È la verità dei gabbiani che
aspettano la luce che sorge e la luce che
tramonta sulla spiaggia della vita.
La verità è lenta. Si fa assimilare dolcemente, per tragitti non predefiniti in nessuna
mappa dogmatica. La lentezza è la condizione che assegna più spazio all’azione dello Spirito e rifiuta la pretesa di prevaricare
con l’efficienza diplomatica e politica.
Una verità cercata con concupiscenza rende ciechi. Allo stesso modo anche la lentezza del cammino comunica un segreto sulla
verità: si sale lentamente, chi si inerpica
correndo o a scatti in montagna non conosce l’alfabeto della montagna. E finisce il
più delle volte con i crampi alle gambe.
La verità è diversa. Voglio che ci rilassiamo
con una storiella circolata in Vaticano, che
ha strappato una risata perfino al severissimo Papa Ratzinger quando era cardinale: «La verità gli spagnoli la difendono alla
Don Chisciotte, gli italiani la possiedono, i
francesi la cercano, i tedeschi la complicano, gli inglesi la vendono. E quanto agli
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
larsi a tutte le manipolazioni e a tutte le
pressioni, essere colui che principalmente
mette in dubbio i poteri e le loro formule
magiche, essere il testimone delle loro
menzogne. Non può rientrare nella storia
dei vincitori. Non si adagia in nessun posto. È sempre ai ferri corti con le categorie
del potere. In un intellettuale che vince c’è
qualcosa di sospetto».
Torna opportuna la lettura di un brano
delle Vespe di Aristofane (un altro commediografo, un intellettuale pacifista perseguitato a causa della sua libertà critica
nelle commedie, vissuto tra il 445 e il 385
avanti Cristo. Voleva che gli Ateniesi facessero la pace con l’odiata Sparta, e veramente la sua commedia La Pace concorse alla
Pace di Nicea. Ma poi fallì nell’ipotesi di
fondo del suo capolavoro Gli Uccelli, dove
sosteneva che solo laicizzando i conflitti,
sostituendo gli uomini al governo degli dèi
sul mondo si riesce a chiudere l’epoca degli scontri di civiltà, della lotta all’ultimo
sangue tra Bene e Male, l’età del Cielo usato in terra come arrotino delle spade e vernice pseudoreligiosa sui campi di battaglia.
Questa era una canzone troppo dura per i
suoi concittadini e sembra che su questa
terra non sia cambiato molto da allora, se
non la ferocia dell’Oro…): «Sostenete quelli che cercano di farvi sentire qualcosa di
diverso e conservate i loro pensieri. Riponeteli in cassapanca come le mele cotogne,
così i vostri panni odoreranno intelligenza tutto l’anno».
Siamo ancora all’apologia dei pensieri difformi. Anzi, alla necessità delle differenze, delle verità parziali. Solo uno sguardo
capace di spiazzamento può percepire il
valore delle risorse culturali, provenienti
da tutte le rive del Mediterraneo, ma anche dalla Cina, la dialettica incessante delle permanenze e delle rotture, che ci proibisce ogni presunzione etnologica anche
nel campo scientifico a esclusivo brevetto
dell’Occidente.
La scienza è piena di parentele. Ogni rivendicazione nazionalistica è antistorica:
non si comprende Avicenna senza Aristotele e nulla di San Tommaso senza Avicenna. Ancora più radicalmente, non ci sarebbe pellegrinaggio alla Mecca senza Abramo, cosa che forse è sfuggita ad una fon-
33
CULTURA E RELIGIONI
34
possibile.
Vorrei concludere con il racconto di una
leggenda ebraica.
«Il creatore stava per fare l’uomo e gli angeli di servizio non erano d’accordo sull’idea. Alcuni erano favorevoli alla creazione, altri contrari.
Come recita il Salmo 85: «La Bontà e la
Verità si sono incontrate, la Giustizia e la
Pace si sono baciate».
Il che fa supporre che, prima di questo
embrassons-nous, non fosse precisamente l’armonia che regnava tra loro.
Infatti la Bontà diceva: «Dio crei pure l’uomo perché sia pieno di capacità di comprensione».
Ma la Verità era risolutamente contraria:
«Dio non lo crei, perché sarà pieno di menzogna».
Quanto alla Giustizia, il suo parere era
presto detto: «Voto a favore perché possa
raddrizzare dei torti».
Contraria la Pace: «Non lo crei, perché non
sarà che violenza».
Che fece allora il Creatore?
Egli prese la Verità, che era il leader dell’opposizione, e la scagliò a terra, come sta
scritto nel libro del Profeta Daniele: «Egli
gettò la verità a terra».
Gli Angeli di servizio gli dissero allora:
«Maestro dei Mondi, come puoi tu disprezzare i tuoi stessi Saggi?».
E il Maestro dei Mondi ordinò: «Che la
verità salga da terra».
Sta scritto infatti: «La verità si solleverà
da terra».
Questa verità dalla Terra, forgiata nel tessuto delle relazioni, delle passioni, delle
lacrime e delle gioie, dei silenzi e delle parole, delle solitudini disperate e delle ricerche mai stanche dell’Infinito, è una costruzione pudica, umile, approssimativa,
che non ha bisogno di spade, ma solo di
mitezza per rivelarsi. È un processo sempre ripreso e sempre da riprendere. Fa fatica a farsi vedere, ma quando si mostra ti
colma di gioia.
Ed è forse di questo senso complesso e
comunicativo della verità che si solleva da
terra che la Terra ha bisogno per governare la pace dei mondi futuri.
Giancarlo Zizola
la guerra al tempo della guerra infinita
Giuliano
Della Pergola
iflettere sulla guerra e sulle modificazioni della natura della guerra è diventato un esercizio mentale necessario per cercare di capire qualcosa di quel che avviene
nel mondo. M’immagino che esistano dei teorici della guerra, e io non sono
uno di loro. Sono solo un lettore di giornali, un appassionato di politica e di scenari
bellici, non un conoscitore d’interpretazioni della guerra, e poi non sono capace di
compiere su questo tema comparazioni tra
un autore e l’altro. Non per questo, tuttavia, voglio sottrarmi a darmi delle spiegazioni, incalzato come sono dalla mia inquieta coscienza che non capisce pur senza arrendersi, che non sa pur senza voler smettere d’interrogare, che rimane stupefatta,
stupita dalle continue anse della storia, ma
che continua a domandare. Non conosco
altro metodo per approfondire il tema della guerra. Non è vero che viviamo in pace: a
lato della nostra esperienza empirica, le
guerre continuano.
R
potenza e impotenza degli arsenali
Non so più chi disse che se un paese possiede una grande forza navale, o un esercito
numeroso e ben preparato, o la bomba atomica, è immaginato come un paese forte,
ma il giorno in cui questo stesso paese sgancia la bomba atomica, improvvisamente
perde l’immagine di essere un paese forte
per trasformarsi agli occhi dell’opinione
pubblica in un paese aggressivo. Come se,
dunque, la forza stesse solamente nella potenza, solo nella possibilità di esercitare
un’aggressione, ma non nell’aggredire.
Infatti, il più forte che aggredisce il più debole è solamente un vigliacco. Invece, il più
forte che fa intravedere di poter mettere
mano ai propri immani arsenali, incute
paura, chiede soggezione ed il timore che
esercita sugli altri si colora in costoro di
fantasie d’invincibilità.
Per essere ritenuti invincibili bisogna avere
gli arsenali pieni, ma non aggredire nessuno. Questo paradosso, bizzarro eppure credibile, s’è visto il giorno dopo che gli Stati
Uniti lanciarono la bomba atomica su Hiroshima. Ma s’è ripetuto, in piccolo, anche
il 30 luglio 2006, quando gli israeliani alla
ricerca di Hezbollah frammisti alla popolazione civile libanese, hanno colpito senza
volerlo a Cana una casa, uccidendo bambini e vecchie. L’immagine di quei corpi martoriati e già cadaveri, estratti dalle rovine
dell’edificio, ha fatto il giro del mondo. Con
una violenza inaudita ha trasformato la forza bellica israeliana in un’aggressione violenta, con l’esito di avvicinare il governo libanese di Siniora alle milizie Hezbollah,
ottenendo dunque l’effetto di unire tra loro
due soggetti che diventavano un unico nemico. Bene l’ha messo in evidenza Zeev Sternhell, il grande studioso israeliano autore
del libro Nascita di Israele (vedi il Corriere
della sera del 31 luglio 2006, pag. 9). Le eventuali ragioni politiche che Israele fin lì poteva accampare, cioè le aggressioni continue in Alta Galilea da parte degli hezbollah
con razzi a media gittata, scomparivano nei
confronti della violenza subita dalla popolazione libanese. Una volta di più abbiamo
assistito al fatto che il deterrente bellico, se
messo in azione, aggredisce il nemico ma
culturalmente induce effetti diversi circa
l’interpretazione dell’operazione. Non entra
in discussione la capacità degli armamenti, ma la dignità di chi li possiede e di chi li
usa. Fino al tempo di Hitler e di Stalin non
era così: chi aveva armi più sofisticate di
altri le usava e allora si guardava ai progressi delle tecnologie belliche con ammirazione (ad esempio, il ricorso ai sonar e ai
radar nelle battaglie navali tra tedeschi e
inglesi nel Baltico), oppure al ricorso alla
mitica arma segreta V2, creduta fino ad allora in possesso di Hitler.
Invece, oggi non è più così. Possedere un’arma intelligente, capace d’incunearsi nei meandri dei cunicoli sotterranei, e tale da indurre i guerriglieri ad uscire dai loro nascondigli, se spedita per drammatico errore in una casa di Cana, più che altro mette
in evidenza l’efferatezza dell’inventore, la
sua diabolica capacità di uccidere degli inermi tra le braccia delle loro madri, mentre il
progresso tecnologico applicato alla sofisticazione di armi micidiali, ci appare nel suo
profilo ignobile, vergognoso, degradato di
qualsiasi inventiva, degna di questo nome,
senza alcuna originalità, o fantasia creativa.
35
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
americani, la comperano!».
Per dire come variano i modi di relazione
che poi forgiano i riflessi reali della verità
nelle multiformi storie della vita.
Ma una cosa è stata raggiunta, dopo le tragedie delle Verità astratte e delle Verità
Uniche nel secolo più assassino della storia, il Novecento che ci siamo lasciati alle
spalle:
L’errore di ogni intolleranza è di vedere nella
verità una realtà metafisica. C’è una forma
di verità assoluta che uccide sempre e richiede di essere uccisa: è la verità totalmente nuda, svelata certo in nome del Bene
e in odio alla menzogna, vista come una
statua greca alla luce del giorno, fissata,
strappata dal suo contesto spaziale (il luogo umano dove è stata forgiata) e dal suo
tempo, dal processo evolutivo che l’ha portata alla luce. Mi pare difficile non condividere la conclusione di Friedrich Nietzsche nell’ Anticristo: «Bisogna considerare
se le convinzioni non siano, per la verità,
dei nemici più pericolosi delle menzogne».
In nome della verità sono stati riempiti i
lager e accesi i roghi degli eretici.
Oggi comprendiamo meglio che non c’è
verità se non si ama e che nello stesso
amore si accende la luce del vero, è l’amore che fa conoscere realmente se stessi attraverso la conoscenza dell’altro.
Una seconda lettura la colgo dal Mahtma
Gandhi con la sua metafora dell’albero. Ora
le metafore sono il tipico linguaggio dell’anima, sono la madrelingua della verità, lo si
vede bene nelle parabole dei Vangeli.
«Se vi è una aspirazione sincera, si comprenderà che quelle che sembrano differenti verità, in realtà sono come innumerevoli e apparentemente diverse foglie di
uno stesso albero. Lo stesso Dio non viene
forse concepito dai diversi individui sotto
forme diverse? Eppure noi sappiamo che
egli è Uno. E verità è il giusto appellativo
di Dio».
A distanza di quasi mille anni la invenzione culturale di al-Kindi è stata una spora
che il vento imprendibile dello Spirito ha
deposto e impollinato nel teorico della nonviolenza. Perché soltanto in questa visione complessa, umile, non violenta della
verità «da qualsiasi parte» si vede bene che
sta la fondazione della pace universale
CONFLITTI
l’infinito nascosto nella guerra
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
La guerra in Libano non nasce dal rapimento di tre soldati, e se fosse questa la causa
della guerra, allora i lai sulla sproporzionalità tra causa e conseguenze apparirebbe
monumentale. Invece, la questione va posta in altri termini: esistevano le condizioni
perché Israele attaccasse gli hezbollah in
quanto con l’assassinio del presidente Hakiri, il suo successore, Siniora, era antisiriano. Gli hezbollah erano dunque presi tra
due fuochi: quello israeliano a sud e quello
governativo a nord. I guerriglieri s’erano
trovati intrappolati, e Olmert ne approfittò. Doveva cercare un pretesto, e questo
pretesto gli fu offerto dai tre soldati scomparsi (effettivamente presi prigionieri, o fatti
sparire momentaneamente per offrire un
pretesto all’esercito israeliano di scatenare
la guerra. Noi sappiamo solo quel che scrivono i giornali, ma non abbiamo per davvero notizie attendibili).
Quando un soggetto scatena la guerra, accampando o no una scusa, sottolineando il
casus belli, inizia una pagina della storia che
non si sa dove porterà. Si conosce l’inizio, e
presumibilmente si può immaginare la sola
pagina successiva, quella dei bombardamenti a tappeto, la guerra dall’alto, dove
l’aviazione detiene la parte del leone. Quel
che invece non si sa, quel che resta imprevedibile e ignoto, è lo svolgimento successivo fino alla vittoria di una delle due parti.
Un tempo, era più facile prevedere che il
più forte sarebbe stato anche il vincitore,
ma dopo la guerra in Vietnam noi non possiamo più dirci altrettanto sicuri. Il più forte è il più forte, e questo conta moltissimo
nell’infliggere all’avversario perdite dolorose
e ingenti, ma la vittoria finale oggi si gioca
su molti fronti, di cui quello strettamene
bellico è solamente uno. I vietnamiti, tanto
più militarmente deboli dell’esercito americano, riuscirono a fare desistere Nixon a
continuare l’aggressione. Perché se s’incontrano una guerra contro una guerriglia, la
guerriglia ha, dalla sua, armi che l’esercito
36
non possiede: la conoscenza del territorio,
la solidarietà della popolazione civile, l’effetto sorpresa, l’imboscata, l’informale azione di disturbo. Nel caso libanese, tra hezbollah e popolazione civile, dapprima (quando
Olmert iniziò l’offensiva aerea), c’era inimicizia, ma poi, dopo la strage di Cana, un sentimento anti israeliano così forte si dovette
diffondere nel sud del Libano, che quell’errore costò a Israele, oltre che l’ostracismo
morale di tutto il mondo nelle parole del segretario dell’Onu Annan, anche il ricompattamento tra guerriglia e società civile.
Lo scenario generale cambiò: proprio quando militarmente Israele stava vincendo, le
sorti del conflitto iniziarono a prendere
un’altra, imprevista, piega.
Perché? Per l’incapacità dei generali israeliani di imprimere all’avversario una pressione decisiva? Non lo so. Ma quel che so è
che chi oggi apre una guerra spalanca una
porta che dà sul vuoto: un precipizio dai
contorni imprevedibili gli si para dinnanzi,
e i suoi piani militari, preparati con accuratezza prima, si dimostrano fatui. La guerra contiene un infinito, un qualcosa che è
senza limiti ed è inutile credere di potere
seguire un piano come fosse un giro turistico tutto compreso.
Olmert scatenò l’esercito contro gli isolati
hezbollah e si trovò a sua volta isolato: tra i
guerriglieri sciiti, la popolazione libanese, i
siriani e gli iraniani, venne a crearsi un fronte che avrebbe reso il conflitto internazionale e a rischio nucleare. Così Israele pensò di dichiararsi vincitore e tornò all’interno dei suoi (illegali) confini. Il Libano distrutto chiederà un risarcimento morale e
materiale pari a molti anni di lavoro degli
israeliani, e tutto il mondo sarà contro l’aggressione israeliana. Aggredito dai razzi
katiusha nei suoi kibbutzim della Galilea,
fino a Haifa, Israele ha mutato a proprio
sfavore l’opinione pubblica internazionale.
Un colossale fiasco. Derivato dal fatto che
per il patriottismo israeliano il conflitto con
la guerriglia hezbollah è solo questione locale, legata alla sicurezza e alla sopravvivenza di Israele; per l’opinione pubblica
internazionale che con il fiato sospeso seguiva lo sviluppo degli eventi bellici era invece uno scenario che scavalcava il dato
etnico locale, per diventare una volta di più
il palcoscenico ove un potente, quando scatena la propria forza militare, dichiara l’impotenza della ragione e della politica; mentre all’opposto quando la guerriglia gioca
con un esercito formale – anche se non lo è
– appare Davide contro Golia.
Giuliano Della Pergola
ETICA SCIENZA SOCIETÀ
di chi è la mia vita?/2
Giannino
Piana
a riapertura in Parlamento e nel
Paese di un acceso e ampio dibattito sul tema della «eutanasia», a
seguito soprattutto dell’autorevole sollecitazione del Presidente Napolitano, evidenzia la grande attualità assunta anche in Italia da problemi che toccano profondamente la coscienza perché coinvolgono il senso della vita e
della morte. Al di là delle complesse e delicate questioni di ordine politico e giuridico, che vanno affrontate con grande prudenza in una prospettiva non puramente
individualista ma attenta ai risvolti sociali
e culturali delle decisioni, il nodo fondamentale che occorre sciogliere riguarda
l’esistenza o meno del diritto di autodeterminazione nei confronti della morte.
La risposta a tale importante quesito non
è facile: esistono anche in ambito di etica
laica posizioni diverse; mentre all’interno
dell’etica di ispirazione cristiana, dove la
dottrina ufficiale è caratterizzata dal radicale rifiuto di tale diritto, non mancano
ipotesi alternative (sia pure minoritarie)
che partono dalla critica alle argomentazioni addotte per rifiutarlo. È utile perciò
fare il punto sulle diverse posizioni in campo (con particolare attenzione a quelle del
L
mondo cattolico), nell’intento di chiarire i
presupposti di ordine etico, che sono alla
base dell’attuale discussione.
una questione antica
Anche nel pensiero morale laico al problema dell’autodeterminazione di fronte alla
morte non si danno – come si è ricordato –
soluzioni univoche. È innegabile la presenza di un giudizio negativo nei confronti del
suicidio in quanto atto che comporta la rinuncia ad assumersi la propria responsabilità sociale; ma è altrettanto innegabile
l’esistenza del riconoscimento della sua
plausibilità quando risulti motivato – si pensi al caso di Socrate – dalla volontà di rendere fino in fondo testimonianza (martyria,
da cui «martirio») ai valori in cui si crede.
L’eutanasia come espressione dell’autodeterminazione soggettiva in contesti situazionali di particolare gravità non è pertanto, in termini assoluti, respinta; è considerata moralmente lecita o illecita a seconda delle ragioni che vengono invocate nel
caso concreto. Sollecitata anche dall’emergere di una casistica nuova dovuta agli sviluppi della tecnologia, la bioetica laica contemporanea, che ha posto al centro della
37
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
CONFLITTI
Una volta, un casus belli era un evento cui
imputare la causa dello scoppio della guerra.
Oggi, chi artatamente cerca di fare apparire casus belli un qualsiasi pretesto da cui
rincominciare ad interpretare una nuova
fase della guerra (come nella recente guerra in Libano il rapimento prima di uno solo
e poi di due altri soldati israeliani), corre il
rischio del grottesco che nasce dal ridicolo
all’interno di un grande dramma storico, e
così anche d’apparire screditato.
ETICA SCIENZA SOCIETÀ
la dottrina della chiesa cattolica
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Diversa è senza dubbio la posizione ufficiale della chiesa cattolica. È inutile cercare nella rivelazione biblica riferimenti
specifici a questioni morali come quelle qui
affrontate: altro è infatti il contesto odierno rispetto a quello in cui sono nati gli
scritti sia vetero che neotestamentari. Ciò
non toglie che si trovino nella bibbia preziose indicazioni circa gli orizzonti valoriali ai quali riferirsi per conferire alle nor38
mative di carattere etico, che è urgente elaborare su temi tanto importanti, un carattere umanizzante.
Una presentazione organica della dottrina tradizionale cristiana sulla «vita», a
partire dal messaggio biblico, è presente
nell’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II (1995), che costituisce (anche
in ragione della sua vicinanza nel tempo)
un utile riferimento per l’illustrazione della
posizione oggi prevalente all’interno del
mondo cattolico.
Il presupposto da cui prende avvio la riflessione del Papa è la concezione della vita
come «dono» di Dio, dunque come realtà che
l’uomo non possiede ma da cui è posseduto
in maniera sempre parziale, essendo la sua
vita partecipazione a quella del Vivente. «La
vita dell’uomo – scrive Giovanni Paolo II –
proviene da Dio, è suo dono, sua immagine
e impronta, partecipazione del suo soffio
vitale. Di questa vita, pertanto, Dio è l’unico
signore; l’uomo non può disporne. [...] La vita
e la morte dell’uomo sono, dunque, nelle
mani di Dio, in suo potere: ‘Egli ha in mano
l’anima di ogni vivente e il soffio di ogni carne umana’ esclama Giobbe (12,10). ‘Il Signore fa morire e fa vivere, fa scendere agli inferi e risalire’ (1Sam 2,6). Egli solo può dire:
‘Sono io che do la morte e faccio vivere’ (Dt
32, 39)» (n. 39).
Da queste considerazioni, che conferiscono alla vita umana un carattere radicalmente «sacrale», discende la sua inviolabilità, il fatto che ad essa sia dovuto un
rispetto incondizionato. Il diritto ad esistere assume perciò i connotati di un diritto fondante, che sta cioè a fondamento
di ogni altro diritto, e che deve essere tutelato senza alcuna eccezione (n. 40). La consapevolezza che tanto della vita quanto
della morte non si è padroni sollecita, da
un lato, la coltivazione di un atteggiamento di affidamento alla volontà divina (n.
46) e implica, dall’altro, la formulazione
di una severa condanna morale di ogni
forma di attentato alla vita e alla sua integrità, incluso il suicidio e l’eutanasia, la cui
inaccettabilità etica, al di là delle ragioni
personali e sociali, va soprattutto ricercata – è questa la tesi di Agostino ripresa successivamente da Tommaso d’Aquino – nel
rifiuto della sovranità di Dio sulla vita e
sulla morte (n. 60).
Non mancano nel documento papale due
importanti annotazioni che sembrano at-
tenuare la rigidità con cui i principi sono
enunciati o, quanto meno, suggerire una
certa flessibilità nella loro applicazione. Si
vuole alludere, per un verso, al riconoscimento della relatività della vita terrena, all’ammissione che essa non è realtà «ultima»
ma soltanto «penultima», e che di conseguenza si può (talora si deve) rinunciare ad
essa per un bene superiore (nn. 2 e 47); e,
per altro verso, all’ammissione della presenza di situazioni complesse e conflittuali
nelle quali «i valori proposti dalla Legge di
Dio appaiono sotto forma di un vero paradosso»; situazioni che esigono pertanto il
ricorso a forme di compromesso o di mediazione (n. 55). A queste importanti affermazioni di principio non fa, tuttavia, seguito alcuna loro traduzione nell’ambito dei
vissuti, tale da lasciare trasparire la possibilità di un giudizio meno severo nei confronti del tema che qui ci interessa.
una posizione alternativa
La riflessione teologica (quella più impegnata nella ricerca) si è sforzata, in questi
ultimi decenni, di aprire piste diverse, sollecitata dalla complessità delle situazioni
esistenziali cui allude lo stesso Pontefice.
Ad essere sottoposta, in primo luogo, a
vaglio critico è la dottrina tradizionale sul
suicidio; rilevando come si dia nella tradizione cristiana la giustificazione della legittimità di mettere a repentaglio o di sacrificare la vita per un altro valore – ad
esempio la castità, la libertà, la giustizia –
alcuni teologi sono giunti alla conclusione
che il suicidio non debba essere considerato a priori come un’azione in sé cattiva, ma
possa essere espressione di esercizio di vera
responsabilità morale, quando è risposta a
una situazione umanamente destituita di
senso, che risulti oggettivamente tale da un
corretto confronto di beni e di valori.
Altri – e in particolare Hans Küng (cfr. H.
Küng-W. Jens, Della dignità del morire. Una
difesa della libera scelta, Milano 1966, soprattutto alle pp. 60-90) – si sono spinti
più avanti, affermando l’esistenza di un
diritto cristianamente responsabile all’autodeterminazione nel morire. Nel diritto
a una vita degna non può, secondo il teologo svizzero, non rientrare anche la possibilità per l’uomo di decidere quando e
come morire. Tale diritto, che va esercitato nel contesto di una libertà consapevole
da non confondere con l’arbitrio o con il
capriccio, è da Küng giustificato mediante il ricorso ad argomentazioni etiche e
teologiche che meritano seria considerazione: dalla rilevazione che il diritto a continuare a vivere non può diventare un dovere assoluto – il diritto alla vita non può
essere scambiato per una coercizione a vivere – alla tesi che, essendo l’inizio della
vita umana posto da Dio nelle mani della
responsabilità dell’uomo, si può analogamente pensare che anche la fine della vita
venga da Dio posta sotto tale responsabilità. In questo contesto l’eutanasia acquisirebbe legittimità come espressione di
un’etica della responsabilità che ricupera
l’autonomia dell’uomo in quanto fondata
sulla stessa volontà divina: il contesto di
alleanza in cui il «dono» della vita si inscrive implica infatti la libera risposta dell’uomo. La libertà di decidere in coscienza
il modo e il tempo della morte sarebbe
dunque, secondo Küng, una prerogativa
dell’uomo. La certezza di fede che la morte non è l’ultimo traguardo, ma che la vita
mortale si apre verso la vita eterna, renderebbe, d’altra parte, poco importante il
prolungamento indefinito della vita biologica in condizioni umanamente non dignitose; mentre, a sua volta, il fatto che le
scienze biomediche favoriscano la possibilità di tale prolungamento non farebbe
che accentuare – è ancora Küng a rilevarlo – la necessità di un supplemento di consapevolezza soggettiva, dando un più solido impulso al diritto all’autodeterminazione e al suo esercizio.
La provocazione di Küng, le cui argomentazioni vanno criticamente discusse, ci fa
comunque intuire che la questione dell’autodeterminazione di fronte alla morte è
una questione complessa, che va come tale
fatta oggetto di attenta considerazione. Il
che non implica necessariamente – è bene
sottolinearlo – il passaggio immediato al
suo riconoscimento in campo legislativo,
dove – come si è ricordato fin dall’inizio –
entrano in gioco nel giudizio altri importanti fattori di ordine sociale e culturale.
Implica, tuttavia, che ci si accosti ad essa
liberi da pregiudizi e da dogmatismi, così
da poter esprimere una valutazione spassionata, guidata unicamente dalla ricerca
del bene della persona umana.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
propria riflessione il principio di autonomia (o di autodeterminazione), sostiene
in generale la possibilità, di fronte a situazioni estreme, di porre fine alla propria vita e di essere aiutati a farlo. Questa
posizione viene motivata in base alla considerazione che non si dà, sul piano puramente razionale, un dovere incondizionato di continuare a vivere e che non si può
invocare il concetto di «interesse della
vita», laddove esiste uno stato di grave
sofferenza e la vita non può più essere vissuta in condizioni umanamente accettabili. In questo caso il diritto a determinare la propria morte altro non sarebbe che
una forma di tutela della dignità umana,
che potrebbe rendere persino doveroso
l’intervento di terzi per consentirne la realizzazione.
Vanno senz’altro sottoposte a serio discernimento posizioni che possono, se radicalizzate, dare luogo ad atteggiamenti di facile indulgenza verso il fenomeno dell’eutanasia. Ma si deve riconoscere che non
esistono, sul piano meramente filosofico,
ragioni tanto apodittiche da escludere radicalmente ogni possibilità di autodeterminazione rispetto alla morte. È come dire
che il suicidio – non quello dovuto a stati
patologici che allentano o tolgono la responsabilità soggettiva, ma quello cui si va
incontro lucidamente quando si è giunti
alla convinzione che la vita ha ormai perso il suo senso – pur non potendo costituire secondo l’opinione più diffusa un diritto, non può essere moralmente riprovato,
non esistendo di per sé un diritto alla vita
a ogni costo, ma solo un diritto a vivere
dignitosamente, e dovendo di conseguenza riconoscere che, quando ciò non può
più verificarsi, è lecito darsi la morte, anche rivolgendo ad altri la richiesta di collaborazione.
Giannino Piana
39
la rivolta delle periferie
Luca
Rolandi
O
biettivo dichiarato è da cinque
edizioni affrontare le grandi domande che nel resto dell’anno inquietano l’anima. Ma anche riscoprire il silenzio, categoria mentale prima ancora che condizione acustica, che sta diventando sconosciuta ai più. Ritrovare la capacità di rivolgersi al divino, o quella di ascoltare chi lo
fa, cantando, pregando, meditando. E scoprire l’altro, vicino o lontano che sia,
dall’Islam alle altre forme di spiritualità è
l’obiettivo di «Torino spiritualità. Domande a Dio», rassegna multidisciplinare in
costante ascesa. Vi sono state analisi, ricerche e riflessioni di un fenomeno in crescita
e di non facile interpretazione: il bisogno
di spiritualità.
La città si è confrontata con Dio, l’eterno
problema del male e con il difficile e sofferto rapporto tra oriente e occidente. Torino
Spiritualità ha messo in relazione il pubblico con filosofi, teologi, storici delle religioni, scrittori, giornalisti, scienziati e personalità della politica e dell’economia provenienti da tutto il mondo, per far sì che la
conoscenza potesse scaturire dal dialogo e
dal confronto con un maestro. In quest’ottica, hanno assunto un valore particolare
le lezioni partecipate, che hanno stimolano
l’auditorio a un atteggiamento attivo. Il programma della rassegna verteva su tre temi
guida: «L’Oriente al di là dell’Occidente».
«Conflitti, convivenze e riconciliazioni», «Le
nuove moralità: il valore del silenzio». Tra
le novità, il campus Giovani leader per la
pace, incontri tra israeliani e palestinesi
sulla «tolleranza che conviene»; la sezione
Domande al male, curata da Ernesto
Ferrero; e Food for peace, menu a tema che,
nei ristoranti torinesi, mostrano in collaborazione con Slow food come popoli in conflitto tra loro siano vicinissimi dal punto di
vista della cultura alimentare.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Parigi e le altre periferie
Uno dei temi più dibattuti e analizzati è stato quello relativo al fenomeno della rivolta
delle periferie francesi. Del problema delle
periferie francesi ne hanno parlato a Torino
Sergio Cofferati, sindaco di Bologna e l’antropologo Marc Augè, mentre in un secondo dibattito alta e significativa la testimonianza di don Luigi Ciotti del gruppo Abele.
40
Mediante una dettagliata analisi sociale
degli eventi attraverso temi come il multiculturalismo, la segregazione, la precarietà
e le diseguaglianze intergenerazionali, La
rivolta delle periferie affronta questioni scottanti, confrontando il caso francese con la
situazione italiana e tracciando possibili vie
d’uscita atte a pensare nuove forme di solidarietà trasversali e a difendere la città come
spazio di integrazione e di mixité sociale.
Dagli anni Novanta il problema in Francia
non è più o solo religioso. L’islam non c’entra e non è nemmeno un problema culturale. Milioni di cittadini francesi musulmani
dimostrano ogni giorno di essere perfettamente integrati. I problemi che hanno, e che
chiedono vengano affrontati, sono soprattutto di ordine sociale. La realtà delle
banlieues è quella di migliaia di persone
ammassate nei ghetti. I francesi sono molto critici nei confronti del modello anglosassone, dicono che il multiculturalismo ha
creato ghetti etnici. Se gli inglesi hanno creato ghetti etnici, i francesi hanno creato
degli alienanti ghetti economici. In Francia, ci sono persone che vivono ai margini
della società. A loro vengono propinate solo
grandi discussioni sull’integrazione, la laicité, il secolarismo. Gli si spiega che devono essere parte della società ma senza ascoltarli. L’altra costante presenza nei ghetti è
la polizia. Si adottano politiche molto repressive. Ma hanno bisogno, prima di tutto, di essere considerati cittadini francesi a
tutti gli effetti. Il punto è che i giovani non
dovrebbero sentirsi immigrati ma cittadini. Dopo 4-5 generazioni, ancora non vengono considerati francesi. E questo è razzismo.
Non è un caso che in Francia il 78% percepisca l’islam come un pericolo. Se questo è
il quadro generale, bisogna cominciare a
parlare di soluzioni. A partire da serie politiche sociali. Dobbiamo riconoscere che il
sistema scolastico mainstream non funziona nelle banlieues. Ci sono doppi standard:
c’è una scuola per i giovani francesi dei sobborghi e un’altra scuola per chi vive nelle
zone residenziali. In altre parole, il sistema
scolastico che dovrebbe essere strumento
di uguaglianza, in realtà non fa che moltiplicare diseguaglianze. Ma nei sobborghi
non ci sono servizi sociali. Perché questi
sono percepiti come luoghi senza diritti.
Con le conseguenze che vediamo in termi-
le domande sbagliate
Questo scollamento ci pone di fronte ad un
serio pericolo: una frattura con una parte
di società. Questi giovani chiedono una sorta di rappresentanza. Ma a monte di tutto,
c’è il fatto che non sappiamo come affrontare la questione dell’Islam. Non sappiamo
come porci di fronte a musulmani che sono
europei. Non vogliamo accettare il fatto che
l’islam è una religione europea. E poiché
non abbiamo un discorso chiaro su questo,
quando ci troviamo di fronte ai problemi
sociali, non sappiamo che fare e non c’è alcun partito oggi, in Gran Bretagna o in
Francia, in grado di ascoltare queste rivendicazioni e questo nuovo modo di definire
se stesso come cittadino europeo. Il problema allora è non sapere ascoltare questi nuovi cittadini europei. Di fronte a questa nostra incapacità, continuiamo a parlare di
integrazione culturale e religiosa. Diciamo
quello che si deve essere e fare per essere
davvero europeo. Senza vedere che per la
maggior parte di questi cittadini è già un
problema risolto. Finché a prevalere sarà
questo discorso di britishness, identità, francesità, si continueranno a porre le domande sbagliate. C’è un’ossessione: definisci te
stesso, chiediti chi sei veramente, francese
o inglese. Tutte domande che ci allontanano dalle questioni reali e cioè le politiche
sociali, la giustizia, agire contro le discriminazioni. Il risultato è il bisogno di sicurezza. Sviluppare una politica sociale forte
in tre campi: scuola, politiche sociali e partnership sul territorio. Per cercare di fare
emergere ed emancipare e realizzare le nuove generazioni è necessario costruire quello che è un movimento nazionale di iniziative locali, dove costruire spazi di fiducia
reciproca.
Lucida e di grande spessore e lungimiranza la riflessione di Luigi Ciotti, che parlando delle periferie italiane ha trovato analogie con quelle francesi, ma proposto anche
ricette per affrontare il problema. Spesso
sono proprio le situazioni difficili, quelle in
cui ci sentiamo soli, smarriti, segnati dalla
fatica, ad aprirci gli occhi, renderci più attenti e umani. Ritroviamo il centro di noi
stessi solo trovando il coraggio di abitare la
nostra periferia, accettandola come parte
di noi.
La periferia non è solo un luogo geografico. C’è «periferia» ogni volta che viene meno
l’attenzione, l’accoglienza, la possibilità d’incontro. Ogni volta che non viene riconosciuta la centralità della persona. Le grandi
migrazioni hanno ridisegnato la composizione e il paesaggio delle nostre città, colorandole di volti e di storie che vengono da
lontano, portate dalla povertà, dalle guerre, da un modello economico che ha reso
intollerabile la distanza tra i pochi che hanno troppo e i tantissimi che non hanno nulla. Eppure la città è spesso soltanto un contenitore, uno spazio di coabitazione ma non
d’incontro, dove i centri urbani sono deserti affettivi non meno delle periferie, specchi di una «periferia dell’anima» dove regna la freddezza e l’indifferenza. E dove
anche le forme di accoglienza e di attenzione non riescono a trasformare la solidarietà in quella corresponsabilità che sta alla
base di una vera convivenza.
Le recenti vicende delle periferie francesi
sono state un campanello d’allarme: se
manca il riconoscimento sociale, se l’integrazione è solo superficiale, se il modello
sociale e economico provoca frustrazione,
disoccupazione, precarietà, anche le periferie più attrezzate finiscono per esplodere. Sono necessarie politiche che rimettano al centro la dignità della persona, i suoi
diritti e bisogni fondamentali, e che agiscano sulle cause strutturali di un’urbanizzazione sempre più frenetica e disperata.
Un recente rapporto dell’Onu lancia a riguardo dati inquietanti. Ogni giorno 180
mila persone emigrano nelle città in cerca
di una «casa», tanto che nel 2007, per la
prima volta, la popolazione dei centri urbani supererà quella rurale. Cinquant’anni
fa erano solo due le città con più di 10 milioni di abitanti: ora sono quaranta. Lo scenario è angosciante, perché chi emigra nelle città è mosso dalla speranza di un futuro
migliore, mentre ad aspettarlo sono quasi
sempre gli inferni delle baraccopoli e delle
bidonville, nelle quali sono costrette a vivere già più di un miliardo di persone.
È per questo che una politica che abbia a
cuore i destini dell’umanità non può prescindere dal problema delle periferie. Ma
per farlo deve sapere trasformare ancora
una volta quei non-luoghi di condanna in
luoghi di salvezza, architravi di una convivenza fondata sul rispetto dei diritti e della
dignità di ciascuno. Abbandonando l’indifferenza di Pilato, uomo di Centro e di Palazzo, e facendo proprio lo sguardo profetico di Gesù di Nazareth, ribelle non-violento e uomo delle periferie.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
TORINO SPIRITUALITÀ
ni di disoccupazione, disagio. Siamo dunque di fronte, non ad un problema con
l’islam, ma ad una discriminazione sociale,
istituzionalizzata. Purtroppo, la sinistra è
totalmente scollegata da questa realtà. A
tratti riesce ad aggregare chi vive nei ghetti, nei sobborghi, ma solo quando si tratta
di reazioni emotive. Non riesce però a promuovere una consapevolezza, un movimento politico reale in grado di affrontare i problemi.
Luca Rolandi
41
SOCIETÀ
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Vito
Procaccini
42
on Ferdinando Quagliuolo, protagonista di «Non ti pago» vive
piuttosto agiatamente e gioca al
lotto quasi per divertimento, per
il gusto di farlo, anche perché
quale gestore di un banco sarebbe ben strano che non fosse il primo a giocare.
Ma sono tanti quelli che giocano per bisogno, affidando alla sorte il desiderio disperato di migliorare le proprie condizioni.
Nella Napoli profonda c’è stato anche chi
per giocare ha impegnato i pochi oggetti di
valore o addirittura le pannine, la biancheria di casa.
Ma non si creda che il fenomeno sia circoscritto territorialmente. Il giro d’affari di
Gorizia la colloca al terzo posto in Italia, in
rapporto alla sua popolazione di 40.000
abitanti circa. Altra sorpresa è la Milano,
tecnologica e avanzata; è la città dove si gioca di più, prevalentemente con sistemi
orientati sui numeri ritardatari.
Il grande Pascal studiò il calcolo delle probabilità proprio su sollecitazione di un accanito giocatore che gli pose un quesito sul
lancio dei dadi.
Sappiamo bene che l’inseguimento dei numeri in ritardo è quasi una moda, ma è chiaro che si tratta di una forzatura alimentata
non da elementi oggettivi, ma assolutamente soggettivi. Come si fa ad attribuire la
memoria al caso che, com’è noto, è assolutamente smemorato?
A Napoli compete invece il primato per il
numero delle giocate, che sono mediamente di modesto importo. L’assiduità a volte
viene premiata, anche se con piccole vincite, mentre quelle clamorose hanno un effetto di trascinamento. In ogni caso, fa certamente più rumore la modesta vincita di
un conoscente che non la massa silenziosa
di quanti perdono una quantità enorme di
danaro, sia pure frazionata in tante microgiocate.
D
giocate!
I «premi» distribuiti sono fortemente squilibrati rispetto agli incassi e di questo non
poteva non accorgersi la delinquenza che
col totonero prospera all’ombra delle lotterie di Stato assicurando ai fortunati vincite
più sostanziose.
Si affannano gli psicologi per tentare di dare
una risposta a questi comportamenti sociali
che sono evidentemente irrazionali, visto
che il gioco non è mai equo.
C’è l’ansia di riscatto, il rancore sordo degli
emarginati; giudicarli significherebbe negare loro il diritto di sperare, di sognare. Per
quanti si sentono ininfluenti rispetto ai processi decisionali, c’è anche il desiderio di
decidere in autonomia del proprio destino;
è una forma di individualismo esasperato.
C’è chi ama l’emozione tout court e si sente
vivere solo se lo scuote il rischio; c’è il piccolo borghese per il quale la puntata al casinò è prevista nel pacchetto dell’agenzia
turistica. Per Gorizia è stata scomodata la
nevrosi delle città di confine. Non manca
neppure chi collega l’incremento delle giocate e il ricorso alla cartomanzia al senso
di insicurezza scaturito dall’attentato alle
Torri gemelle. La paura indurrebbe molti a
rifugiarsi nei sogni.
Quanti guai da quell’11 settembre!
lo Stato biscazziere
Su tutte queste esigenze e motivazioni veglia sovrano e indulgente lo Stato biscazziere. Le vecchie ricevitorie, sparute e polverose, dove gli operatori si affannavano a
tradurre in numeri i sogni consultando le
smorfie (ampia la letteratura in proposito),
sono state premurosamente aumentate e
sostituite da quelle moderne, con tanto di
apparecchiature elettroniche. Nell’interesse del giocatore, inoltre, quasi tutti i tabaccai oggi ne sono provvisti, senza contare poi
le sale per scommesse che proliferano e prosperano. In questi piccoli paradisi del gio-
co è possibile tirare la coda alla fortuna, per
dirla alla Dostojevski (Il giocatore).
Che dire poi dei giochi televisivi, in cui l’entità della vincita è direttamente proporzionale all’idiozia della formula? A nessuno
degli allocchi caduti nella rete di Vanna
Marchi è venuto mai il sospetto che la «negatività» che veniva loro diagnosticata fosse soltanto un altro nome della dabbenaggine o della disperazione? E perché poi, se
i numeri erano «sicuri», non se li giocava
lei, l’imbonitrice che per tanti anni ha impunemente imperversato in Tv?
Secondo alcuni moralisti barbosi la televisione non dovrebbe patrocinare questi giochi, perché diffondono ansietà e fiducia incondizionata nel colpo di fortuna risolutore, invece che nella metodicità del proprio
impegno quotidiano. Volendo dare una lettura «religiosa» al fenomeno, si potrebbe
anche dire che in quell’impegno si ravvisa
una visione protestante della vita, con la
ricchezza come segno non della semplice
fortuna, ma della benevolenza divina verso
il lavoro svolto. Ma codesti signori non sono
che gufi che portano jella e non si comprende, poi, perché certi compiti «educativi» per
i quali lo Stato si autoesonera, dovrebbero
essere assolti dalla Tv.
La Repubblica è dunque fondata sul lavoro
e/o sulla speranza.
Ed è per incentivare la speranza che nella
primavera del 1997 venne istituita la nuova
estrazione del lotto del mercoledì, con l’impegno però di destinare i proventi al restauro di opere d’arte. L’Italia è lo scrigno d’arte
più grande e prezioso del mondo ed ingenti
sono le spese di manutenzione e restauro.
L’ottima idea ha avuto successo, perché i
giocatori incalliti non si sono lasciati sfuggire l’occasione di un ulteriore tentativo,
altri hanno subito aggiornato la smorfia e i
numeri a seconda dei restauri, altri ancora
si sono cimentati... nel superiore interesse
dell’arte. Si ha tuttavia l’impressione che lo
Stato biscazziere in questo caso si sia procurato un alibi, un po’ come quel ragazzino
che, colto con le mani nella credenza, confessa di rubare la marmellata perché piace
tanto al suo fratellino.
Sull’onda di cotanto successo era stato anche proposto di inserire nel carrozzone
omnibus della finanziaria qualche altra
estrazione. L’idea è per ora rientrata, ma non
si sa mai... Si tratta, in fondo, di un’autotassazione volontaria. Perché non approfittarne per fare cassa? Qualcuno dubita che
invece di essere cittadini da amministrare
ed educare, siamo dei sudditi o consumatori da «utilizzare». Ma queste sono quisquilie, come diceva Totò.
Questo comportamento dello Stato ricorda un po’ una favola riportata dal prof.
Macry, docente di Storia contemporanea
all’Università di Napoli: un contadino, per
vincere la riluttanza dei figli al lavoro dei
campi, fa balenare il miraggio di un tesoro
nascosto sottoterra.
E allora, che il gioco sia!
Può anche accadere che la passione degeneri in vizio, con conseguenze anche drammatiche, come il suicidio di una signora
proprio a causa del lotto. Il meccanismo del
gioco è infernale, perché ti costringe ad
aumentare ogni volta la posta e quando le
cifre diventano insostenibili... Ecco allora
la proposta formulata da un sottosegretario: destinare una quota delle vincite non
riscosse delle lotterie nazionali a progetti
di recupero di coloro che sono affetti dalle
patologie del gioco.
È la semplificazione della schizofrenia. Per
un verso lo Stato incentiva le giocate, per
altro verso cura chi diventa succube del gioco.
Giocate, dunque, giocate gente, ma con misura, senza esagerare.
Est modus in rebus. Che diamine!
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
giocate
gente
Vito Procaccini
43
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
N
44
IO E GLI ALTRI
con una
goccia
di miele
Manuel Tejera de Meer
altri. Un volto cupo ed oscuro invia, invece,
informazioni di rifiuto sociale.
l’individuo disgregante
Diciamo, perciò, che la tendenza alla disgregazione si può percepire anche attraverso
il linguaggio del volto.
In un modo più eclatante, l’individuo disgregante, oltre agli atteggiamenti ed ai comportamenti appena accennati, si esprime
verbalmente di solito in modo critico o aggressivo. Nelle sue manifestazioni vocali usa
toni autoritari, difende con una certa violenza il suo diritto alla parola, lascia poco
spazio agli altri.
L’uso indiscriminato dell’urlo, che crea,
come si sa, reazioni simili (in una strana
competizione per vedere chi urla più forte) è un elemento abitualmente presente.
È frequente, pure, la tendenza a «togliere
la parola», a scavalcare l’altro, a non lasciarlo parlare. Le interruzioni provocate
e gli «accavallamenti» negli interventi verbali, allo scopo di tentare un dominio assoluto o prevalente sugli altri, dimostrano sicuramente una certa struttura mentale di tipo autoritario e violento, fondato, come accennavo pocanzi, sul senso di
superiorità, su quel segreto «razzismo»
che in alcune persone è rilevante. L’atteggiamento razzista è radicato proprio nelle zone più profonde della personalità ed
appare attraverso l’occulta sensazione di
inferiorità dell’altro. Si basa sulla credenza pregiudiziale della maggiore competenza che si ha, rispetto agli altri, per i titoli
di studio, per l’esperienza, per l’età o semplicemente per la gerarchia formale che
possa essersi costituita, nell’ambito professionale o in qualsiasi altra situazione
in cui si stabilisca un’artificiale divisione
gerarchica, con l’attribuzione di poteri superiori e poteri subordinati.
Questa specie di «razzismo inferiorizzante» che alcuni preferiscono chiamare con
l’eufemismo di «razzismo differenziante»
per togliere la negatività che è inclusa nella
parola «inferiore» (tutti siamo diversi, nessuno è inferiore) esiste ancora in tante relazioni umane. Quando, in una situazione
di gruppo, qualcuno pensa d’aver scoperto
dentro di sé alcuni di questi pregiudizi, è
facile che rifiuti questa presa di coscienza.
Ma, in una ricerca più profonda delle più
intime sensazioni, appariranno sempre residui e rigurgiti di questi vecchi e dilaganti
pregiudizi.
Secondo ricerche di tipo psicosociale, la
grande diffusione di principi egualitari e la
consapevolezza di dover evitare ogni forma
di «superiorità» sugli altri (per la risonanza sociale negativa che queste idee possono suscitare) non sono sufficienti per supe-
rare del tutto quell’idea sulla connotazione
negativa dell’altro, e la susseguente diffidenza che abitualmente si ha.
In una personalità sufficientemente matura, la consapevolezza di questi residui arcaici pregiudizi, viene superata con un controllo liberante che porta a tentare abitualmente di sentire e di vivere lo spirito di
uguaglianza, il desiderio di contatto e la
disponibilità verso gli altri in una crescita
continua del proprio capitale sociale.
Tuttavia, quando le pulsioni narcisiste e
l’iperbolico senso della propria «superiorità» prevalgono sulla necessaria ed utile autocritica circa l’esistenza e la forza di questi
meccanismi interiorizzanti, riappaiono le
tendenze disgreganti che portano alla separazione, a creare fazioni opposte, con un
facile scatto di meccanismi di razionalizzazione per «giustificare» questi comportamenti: «nessuno mi capisce», «è difficile che
gli altri riconoscano la loro ignoranza»,
«non si vuole accettare la mia esperienza
ed il mio sapere»…
spirito d’unione
Molte altre persone dimostrano abitualmente una disponibilità interna a stare con
gli altri, a creare legami ed a difenderli dai
rischi di disgregazione. Sono soggetti che
sanno ascoltare, che lasciano spazio agli
altri, che sanno pure mediare quando si
creano situazioni di tensione che potrebbero condurre a discussioni violente, ad arrabbiature ed a contrasti che possono portare al distacco ed alla rottura.
Hanno una grande forza aggregante, una
specie di «cemento» che mantiene tutti uniti. Sono persone che amano gli incontri, la
comunicazione, il piacere della conversazione (un piacere che, secondo i sociologi, si
sta oggi perdendo). Persone che sanno godere della soddisfazione di stare semplicemente insieme. Persone che amano la compagnia, le grandi tavolate, durante le quali,
al piacere del mangiare e bere insieme, si
unisce la spontanea espressione di sé in
spontanee comunicazioni gratificanti.
Star bene con gli altri, con spirito di solidarietà, con la costante disponibilità a fare un
piacere, ad offrire un aiuto, a dare una
mano. Persone che non sanno usare, nelle
conversazioni, né il sarcasmo né l’insulto.
Persone che sanno anche «mostrare l’altra
guancia», quando si sentono oggetto d’aggressione, che sanno pure aspettare e cercare la pace in mezzo alla tempesta.
Persone miti, profondamente convinte che,
come diceva S. Francesco di Sales, «si prendono più mosche con una goccia di miele
che con un barile d’aceto».
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ei nostri incontri con gli altri ci
troviamo con varie tipologie di
persone. Voglio riferirmi oggi a
quegli individui che dimostrano naturalmente (come se fosse una nota del loro carattere) una tendenza a fare gruppo, a stare con gli altri, un
impulso all’aggregazione. Vi sono altri, invece, la cui tendenza «naturale» sembrerebbe che sia, all’opposto, la disgregazione.
Questa dicotomia non è così radicale, come
succede in tutte le divisioni bipolari.
Infatti, la gamma di condizioni personali
tra l’aggregazione e la disgregazione è assai ampia, così come tra il nero e il bianco
vi sono tante tonalità di grigio.
La personalità «disgregante» dimostra una
tendenza a creare distanze tra gli individui
quando si trovino in gruppo. Con il suo
comportamento ed i suoi discorsi crea o
contribuisce a creare ostilità. Abitualmente non è un atteggiamento intenzionale.
Perciò abbiamo detto che è come se fosse
una nota del proprio carattere. La tendenza a creare od a favorire l’ostilità ed a separare le persone, a provocare emarginazioni, cioè la tendenza disgregante, può essere
riconosciuta praticamente in situazioni
concrete, attraverso atteggiamenti ben definiti, come, ad esempio, con una forma larvata di razzismo che si manifesta in un senso interno di «superiorità» nei confronti
degli altri. Questa sensazione si esprime
esternamente in tanti modi: con lo spirito
di contraddizione e di polemica nei confronti di quanto gli altri dicono, con la perenne
posizione mentale del rifiuto del dialogo e
dell’ascolto, con un atteggiamento dispregiativo, più o meno esplicito, espresso, se
non con le parole, con il linguaggio del corpo e del viso.
Si sa – diciamo tra parentesi – che il volto
umano, pur non volendo, esprime tanti stati
d’animo e trasmette vari messaggi.
L’espressione del viso è, sicuramente, uno
strumento importantissimo di comunicazione. Anche quando esista nell’individuo
lo sforzo per presentare all’esterno un volto che non esprima i veri sentimenti, e, cioè,
anche quando si tenti di recitare una parte,
la persona con cui si sta (che assiste, perciò, allo «spettacolo») può percepire l’imbarazzo della contraddizione tra il mondo
interno e l’esterno, soprattutto se si è un
cattivo attore.
Nel caso di un’ottima recitazione, si trasmettono in qualche modo (dicono gli autori – in
forma misteriosa –) le condizioni personali
più profonde di disponibilità all’incontro ed
alla socievolezza, o l’impulso al rifiuto dell’altro, il desiderio di esserci o la voglia di
rimanere in quel gruppo di persone.
Un volto solare ed aperto trasmette accoglienza e disponibilità nei confronti degli
Manuel Tejera de Meer
45
come nasce una donna/2
Rosella
De Leonibus
asciarsi alle spalle l’incosciente
fanciullezza, la sottomissione inconsapevole e magari anche beata, e aprire gli occhi, fare contatto con la realtà delle situazioni, cercare e rischiare in prima
persona, invece che abbandonarsi passivamente al corso delle cose. Sviluppare una
evoluzione personale al femminile. È Erich
Neumann, nel suo lucidissimo testo Amore e Psiche (Astrolabio, 1989) che ci guida
in questa lettura. Abbiamo lasciato la fanciulla Psiche della fiaba di Apuleio con la
lampada in mano, al culmine del suo primo atto di coraggio, trepidante e decisa allo
stesso tempo davanti al marito dormiente.
Ha acceso la luce la ragazza, ora niente
sarà mai più come prima. Né col suo uomo
né, più che mai, con se stessa, né con se
stessa nel mondo.
L
fine dell’illusione
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Le lampade, si sa, quando finalmente fanno luce, possono rivelare di tutto. La mano
pronta a colpire il mostro si blocca, l’uomo beatamente addormentato era bellissimo, dolcissimo, incantatore anche nel
sonno. Ecco allora che Psiche rimane come
fulminata, e riconosce nel marito Eros in
persona. «E vide la belva più dolce di tutte
le belve», scrive magicamente Apuleio. La
parte animalesca e la parte divina del maschile sono finalmente riunite in un unico
soggetto, e nel cuore della ragazza esplode
l’amore. Non l’amore che viene da fuori,
dal fatto di sentirsi «rapita» da un uomo,
ma l’amore che nasce da dentro, dal mettersi in gioco attivamente, lucidamente, dal
voler uscire dal sogno e vedere le cose come
stanno. Basta questo trasalimento dell’anima a farle tremare la mano, e una goccia
dell’olio bollente della lampada cade sulla
spalla dell’uomo. Si sveglia, lui, è furente.
– Come hai osato?, le grida in faccia, dopo
tutte le promesse che avevi fatto? Traditrice, non mi avrai mai più, tutto è perduto –.
Queste le terribili parole dello sposo. C’è
un costo da pagare, ora. L’idillio che viveva nel buio è rotto per sempre, a questo
livello di evoluzione la figura maschile fug46
ge dal confronto con un femminile più attivo e consapevole. Psiche deve permettersi di perderlo, non è più questo il modo di
amare ed essere amata che per lei è accettabile. Ormai lei può amare solo nella luce,
solo nella scelta attiva. Eros vola via. L’illusione si invola, e per un’ultima volta questa umanissima Psiche, straziata, si aggrappa – letteralmente, nella fiaba lei si appende ai piedi di Eros che vola via – a quella
vecchia idea, a quell’immagine di sé ignara e (quasi) felice. Dipendere vuol dire proprio letteralmente pendere da, stare appesi
a qualcosa o a qualcuno. Fino a che Psiche non ce la fa più e cade a terra. Eros
qui tuttavia si comporta un po’ meglio di
molti maschi contemporanei: le dà una
ragione, le spiega come stanno le cose davvero, e le confessa di aver disubbidito alla
madre Venere, che lo voleva complice per
liberarsi di quella ragazza troppo bella.
Subito dopo Eros torna dalla madre, a farsi curare la bruciatura che l’amore di Psiche gli aveva inferto. Per la fanciulla invece comincia un lungo viaggio, quello che
in ogni fiaba porta alla maturità attraverso prove e pericoli.
inizio del cammino
Mentre lei cercava in lungo e in largo il
marito fuggito, Venere viene a sapere da
un pettegolissimo gabbiano di essere finita sulla bocca di tutti a causa del suo stesso figlio e della ragazzetta qualunque di
cui si era invaghito. E che la fanciulla era
proprio Psiche. Come la regina di Biancaneve, subito emana un bando per catturare Psiche e intanto, perché non combini
altri guai, imprigiona il figlio Eros in una
gabbia dorata. Attenzione, è la seconda
gabbia dorata della fiaba, anche da questa
bisognerà uscire.
Una sua ancella – di nome Consuetudine,
è tutto un programma – trova finalmente
Psiche e altre due ancelle – Inquietudine e
Tormento – frustano a sangue la fanciulla.
Voleva ucciderla, Venere, ma prima perché
non torturarla un po’, tanto per mostrarle
il suo potere? Ecco l’archetipo della madre cattiva, la matrigna, la strega, la suo-
cera gelosa dell’unico suo figlio maschio
che avrebbe voluto per sempre con sé. La
parte terribile e distruttiva del femminile,
crudele e tagliente, ma anche, proprio per
questo, capace di svegliare le fanciulle,
molto più efficacemente del semplice bacio del principe. Nel tentativo di distruggere Psiche, Venere le impone quattro prove. Di solito gli eroi maschili ne superano
tre, nelle fiabe, e già su questo c’è una riflessione da fare. Sulla quarta prova si gioca infatti la carta della differenza di genere.
La prima prova è un lavoro di riordino e
classificazione dei soliti semi diversi mescolati che incontriamo nelle fiabe con
protagoniste femminili di ogni parte del
mondo. Il compito naturalmente è impossibile, e per di più Venere umilia Psiche e
cerca di minarne l’autostima… Se i semi
mischiati sono le idee confuse, ecco che
tutto è chiaro. Il primo compito evolutivo
femminile è proprio quello di imparare a
pensare ordinatamente, in modo chiaro e
distinto, di non lasciarsi confondere dalla
47
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
COSE DA GRANDI
promiscuità col maschile, nel buio della
notte dove tutte le vacche sono nere. Pazienza e tenacia, e un principio ordinatore
umile è rappresentato dalle formiche che
corrono in suo aiuto proprio quando lei,
disperata, schiacciata dal disprezzo di Venere, stava rinunciando. Primo, non rinunciare, non arrendersi, secondo: l’attitudine selettiva. Serve tantissimo a noi donne,
è la via per sviluppare il proprio talento,
per dare forma ordinata e riconoscibile alle
proprie potenzialità. La seconda prova è
recuperare un fiocco di lana di certe pecore. Sembrerebbe roba da nulla, invece qui
è una canna di palude che aiuta Psiche, la
mette in guardia sulla ferocia di questi
montoni, sarebbe pericolosissimo affrontarli direttamente! Sono un simbolo della
forza distruttiva maschile, della aggressività che a volte il maschile esprime, della
quale bisogna appropriarsi almeno un pochino – il fiocco di lana – ma non con inutili e masochistici scontri diretti. Basta
aspettare che i montoni si impiglino sulla
siepe, sono così irruenti che finiscono per
strapparsi la lana da soli, e sarà facile allora prelevarla. La canna le insegna a valutare il pericolo, a proteggersi dall’esposizione diretta alla violenza, a tutelarsi.
Aspetta il momento giusto, agisci in modo
preordinato, non casuale, non lottare frontalmente col maschile, strappandogli la
pelle, contendendogli il primato dell’aggressività distruttiva e cieca. Piuttosto che
sviluppare come donna una aggressività e
una competitività copiata dai modelli culturali maschili, cerca una forma diversa
per il potere che ti appartiene, una forma
che rispetti il genere, che onori l’originaria matrice generativa della tua potenza
femminile. Non si tratta di affermarsi lottando contro l’aggressività maschile, questo insegna la canna di palude. Impara a
non farti del male inutilmente, non c’è solo
la guerra come mezzo di soluzione del conflitto. Prendi il potere che ti serve, usalo in
pieno, ma nel tuo modo. Una forma diversa di coraggio, non mortifera, un coraggio
che non uccide e non ferisce, e non si ferisce inutilmente. Apuleio non ne sapeva
ancora niente di filosofia della differenza
di genere, ma il mito sì.
Terza prova: prendere l’acqua di una speciale fonte in cima ad un monte altissimo
ed aspro. Imbrigliare la potenza massima
della forza generatrice – l’acqua sorgiva –
senza distruggersi.
Stavolta Psiche non se ne sta a piangere disperata per l’impossibilità del compito: oggi
diremmo che era già migliorato il suo sentimento di autoefficacia percepita: risolve-
ritorno al sé profondo
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
L’ultima prova, la quarta, il sovrapprezzo
rispetto a qualunque eroe maschile – è vero
oggi anche in molti altri campi, a cominciare dal lavoro, dalla politica... – è addirittura la discesa agli inferi. Per prendere
una potentissima crema di bellezza per Venere, che avrebbe reso la dea di nuovo giovane e adorabile. Stupendo, qui la fiaba è
più che contemporanea. Mentre per le prime tre prove c’erano i soccorritori, qui Psiche deve ballare da sola. C’è una torre che
le dà dettagliate istruzioni: è una «torre che
guarda lontano», simbolo di fortezza, maschile e femminile insieme, cittadella fortificata che protegge ed emblema di potere. E poi la torre non è creatura della natura, come le formiche, la canna, l’aquila,
è creatura della cultura, dell’ingegno e dello
sforzo coordinato di molti. C’è un sapere
stratificato e storico e collettivo nella torre, quella solida appartenenza a radici e
fondamenti culturali che rende una donna capace di andare e tornare dagli inferi.
Dio solo sa quante volte una donna nella
sua vita simbolicamente si inoltra in vari
inferni, il più delle volte ne esce ancora
viva. Ecco, la torre le impartisce istruzioni minuziose, le insegna ad essere strategica, a non lasciare al caso, e nemmeno
alla sola forza dell’intuizione, l’incontro
con situazioni al limite del sopportabile.
Va, Psiche, attraversa gli inferi, lucida e determinata, precisa, non dimentica neppure
i dettagli, come le monetine da conservare
per il barcaiolo nel viaggio di ritorno dagli
48
inferi. E porta con sé il famoso vasetto con
il balsamo della giovinezza. L’ultimo straordinario inganno di Venere sta tutto qui,
nella tentazione a cui Psiche non si sottrarrà. Lo apre, la fanciulla, il vasetto, pensa di
farsi bella dopo tanti patimenti, e come in
tante fiabe più moderne, cade in un sonno
simile alla morte. Attenzione però: non è
solo vanità, la sua, non è solo il richiamo di
bisogni narcisistici. È l’inizio di un rapporto molto diverso con il maschile, è una morte che contiene una rinascita.
Eros dalla sua gabbia dorata vede tutto ciò,
finalmente rompe le sbarre, si libera dal
vincolo della madre, corre in soccorso a
Psiche, e da fanciullo selvaggio, solo inutilmente ed occasionalmente ribelle, si trasforma con questo gesto in un uomo che
si assume il peso delle sue scelte. Anche in
lui può nascere un amore consapevole,
pronto a fare quel che va fatto, pronto a
compiere passi da cui non si può tornare
semplicemente indietro. Da qui nasce un
legame fortissimo, che ogni autorità celeste e terrena dovrà riconoscere, e da quel
legame nasce una bellissima figlia, il cui
nome suonerà come Gioia, Beatitudine.
Non un bambino, come nelle fiabe più
moderne, ma un nuovo sé femminile.
La via femminile alla realizzazione del proprio percorso di crescita non prevede di uccidere il mostro, ma di allargare la coscienza fino a farlo evolvere, fino a poterlo accettare. Col vasetto in mano, quantunque
avvertita dalla sapienza della torre, Psiche
sceglie di onorare il proprio essere donna,
decide di rischiare in proprio, di non pagare questo ultimo tributo alla dea. Non le è
bastato acquisire discernimento, forza
d’animo, intelligenza delle cose, queste sono
virtù che anche un eroe maschile può raggiungere. Lei vuole anche conservare la sua
essenza di donna, la magìa del suo nucleo
profondo di femminilità. Non è vano narcisismo il suo, è rapporto profondo con la totalità del suo sé, che comprende anche il
corpo, mai disgiunto dalle qualità spirituali. Un femminile che ha raggiunto questo
livello di integrazione, questa totalità dell’essere, muore simbolicamente alla stagione di vita precedente, e rinasce nell’incontro con un maschile che per lei e con lei si è
evoluto e trasformato. Il buio dell’incoscienza iniziale è riproposto in una edizione completamente nuova e rovesciata: stavolta è
Eros che si sveglia, e la risveglia, non per
caso ma per scelta, decide e agisce con la
propria volontà, finalmente è pronto ad incontrare questa donna, una donna vera.
Rosella De Leonibus
MAESTRI DEL NOSTRO TEMPO
Thomas
Kuhn
scienza è un modo
di stare al mondo
Stefano
Cazzato
econdo positivismo e neopositivismo, la scienza non dovrebbe avere
alcun rapporto con altri saperi, a
meno di non voler compromettere
le sue certezze inoppugnabili con le
opinioni e tradire così la sua
missione che, almeno da Galileo in poi,
sarebbe stata quella di osservare e registrare i fatti per trarne leggi generali.
Questo dogma scientista è stato ridimensionato dall’opera di Thomas Kuhn, professore di storia della scienza all’Università di Princeton e autore di alcuni importanti lavori che, insieme a quelli di Lakatos e Feyerabend, hanno ripensato l’epistemologia contemporanea su basi non fattualistiche.
Se oggi molti filosofi della scienza hanno
accettato l’idea che le dottrine scientifiche
siano il prodotto della cultura più che della natura, e siano perciò soggette a un processo di revisione e di superamento, ciò è
dovuto in particolare al concetto di para-
S
digma che Kuhn ha introdotto nella cultura scientifica già sul finire degli anni sessanta.
Paradigma è un quadro concettuale di riferimento, una visione del mondo condivisa, radicata ma non eterna. Più precisamente un orientamento del pensiero dentro cui nascono e si sviluppano, accettate
dalla comunità scientifica, una serie di
spiegazioni che, mutato paradigma, vengono via via sconfessate e rifiutate. Questo orizzonte non è influenzato solo dalla
scienza ma anche dalla tradizione, dalla
filosofia, dalla religione, dalla politica, dalle credenze, fattori che gli studiosi di scienza normalmente ignorano ma che, secondo Kuhn, sono alla base di molte spiegazioni: essi agirebbero come dei potenti
meccanismi di selezione delle idee scientifiche consentendo l’alternanza tra immobilismo e novità, tra periodi di sistemazione teorica e periodi di incertezza, tra situazioni di normalità e situazioni di anomalia e di rottura rivoluzionaria.
«La scienza va avanti sostituendo vecchie
teorie con nuove teorie». Le teorie mutano quando entra in crisi il paradigma di
riferimento ma un paradigma entra in crisi se avviene una trasformazione radicale
di diversi campi del sapere intrecciati, se
cambiano non solo i metodi e le categorie
delle singole scienze ma la mentalità collettiva e l’immagine complessiva che l’uomo ha di sé e del mondo.
la rivoluzione copernicana
Una conversione di paradigma a fondo indagata da Kuhn è stato quello dal geocentrismo all’eliocentrismo. «Quello che l’universo aristotelico aveva fatto per l’astronomia a terra centrale, l’universo newtoniano doveva farlo per l’astronomia coperni49
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
COSE
DA
GRANDI
re un problema, svolgere fino in fondo un
impegno aiuta a percepirsi – a diventare –
più forti. Allora si mette a scalare la montagna, ma stavolta l’animale soccorrevole,
un’aquila reale, la ferma. Dove vai a farti
male, non tutte le imprese si compiono con
i piedi sanguinanti sulle pietre aguzze. Serve la testa, a volte, la mente, la forza dello
spirito che vola al di sopra del problema. È
ancora una volta la luce della coscienza, con
la sua acutezza visiva, che può aiutarti, fanciulla, a dominare e far tua la straordinaria
potenza generativa della vita. Non tutto si
fa col cuore, con le lacrime e il sangue. Ci
vuole mente lucida, e saper volare alto. Sopra i picchi taglienti. Venere, il principio
femminile non evoluto, mosso dalla vendetta e dalla gelosia, non riteneva certo possibile che la forza d’animo, la prudenza e l’audacia potessero nascere in un animo di fanciulla, e che tutto questo non finisse per renderla una più o meno riuscita imitazione
del maschio.
50
chi in un paradigma credeva che fosse un
pianeta, spostandosi nel paradigma opposto deve ammettere che si sbagliava.
CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE
le teorie come sistemi di azione
Al di là delle polemiche spesso accademiche, il merito del filosofo di Princeton, a
quarant’anni dalla pubblicazione dei suoi
lavori maggiori, è stato quello di aver sottolineato l’aspetto pragmatico della ricerca
scientifica mostrando che le teorie, in quanto rispondono a esigenze storiche delle società umane, non sono solo teorie, cioè strumenti di conoscenza della realtà, di crescita e di classificazione del sapere, ma sistemi ben strutturati e coesi di orientamento
e di azione nel mondo, sistemi spesso ideati dai gruppi religiosi, politici, tecnico-scientifici che sono al potere e rifiutati da quelli
che vi si oppongono. I quali, naturalmente,
ne propongono di alternativi.
Ad esempio, quella copernicana, come molte altre rivoluzioni scientifiche, non ha riguardato solo una disciplina (l’astronomia)
o un settore del sapere ma è stata una rivoluzione antropologica, esistenziale, etica. Ha
intaccato la struttura della società, i suoi rapporti di forza, l’equilibrio tra potere e ricerca e ha segnato il passaggio dal destino alla
libertà, dall’ordine alla scelta, dall’età dell’innocenza e della protezione a quella dell’insicurezza e della responsabilità.
Nel cosmo aristotelico gli uomini, abitanti di una terra eletta, pensata e creata per
loro, consideravano se stessi in relazione
al divino da cui traevano i segni certi della
condotta morale. Nel cosmo copernicano,
orfani della centralità della terra e dell’elezione divina, gli uomini si rappresentano
in un mondo separato e autonomo dove,
ancorché smarriti, cominciano a essere i
protagonisti.
Con il progredire della scienza, ci ha insegnato Kuhn, cambiano non solo i modi della
conoscenza ma anche i modi (i simboli, i
valori, le credenze) di stare al mondo.
Stefano Cazzato
Bibliografia essenziale
T. Kuhn, La rivoluzione copernicana, Einaudi,
1981
R. Boyd/T. Kuhn, La metafora nella scienza, Feltrinelli, 1983
T. Kuhn/J.D. Sneed/W. Stegmuller, Paradigmi e
rivoluzioni nella scienza, Armando, 1983
T. Kuhn, La tensione essenziale, Einaudi, 1985
T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 1995
palazzo Yacoubian
come si diventa terrorista
Marco
Gallizioli
apparso di recente in traduzione
italiana il romanzo-scandalo dello
scrittore egiziano Asa al-Aswani
Palazzo Yacoubian (1), in cui si
compone un ritratto al vetriolo della complessa società egiziana contemporanea. Si tratta di un’opera corale,
di un grande affresco della «commedia
umana», per usare la celebre espressione
balzachiana, che cerca di rendere ragione
dell’intricata natura sociale di un paese ricco di storia e di tradizioni differenti quale
l’Egitto, descrivendo un microcosmo estremamente rappresentativo: la variegata comunità che popola palazzo Yacoubian, situato nella centralissima arteria commerciale Suleyman pasha. L’edificio è allegoria dell’eterogeneità sociale dell’Egitto, ma,
più in generale, di tutte le realtà umane
che caratterizzano i paesi in via di sviluppo, sospesi tra passato e modernità, tra
spinte conservatrici e forti scossoni inferti
dal dinamismo dei modelli globali, tra visioni mitiche e prosaiche. Nei dieci piani
nobili del palazzo, infatti, abitano i nuovi
borghesi, quelli arricchitisi attraverso le
speculazioni e grazie alla corruzione politica, quelli che emergono sempre perché
capaci di cavalcare l’onda lunga di ogni
cambiamento, di essere modernisti e filooccidentali negli anni Settanta e neo-conservatori negli anni Ottanta e Novanta.
Nelle decine di microstanzini situati nell’ampio lastrico solare dell’edificio, invece, vive una fauna umana sommersa, povera, costretta ad arrabattarsi per sopravvivere e abituata a pagare il conto dei soprusi che hanno consentito al mondo borghese di creare la propria fortuna economica. Ma la penna abile e accorta di AlAswani rifugge da ogni schematismo grazie ad una prosa che è capace di tratteggiare elementi di sconfitta e di riscossa in
ciascuno di questi due polmoni sociali. In
più, lo scrittore è in grado di analizzare,
attraverso la forza della sua prosa, i motivi che determinano le evoluzioni dei per-
È
sonaggi, dedicando a ciascuno poche pagine alla volta e annodando le vicende degli uni a quelle degli altri, in un continuo
abbandonare e riprendere, che rappresenta in modo sublime l’ondivago cammino
dell’umanità.
Così, il lettore naviga nelle prodezze erotiche e sentimentali dell’anziano ingegnere
Zaki bey, nel cui sostrato sembra riecheggiare tutta la tradizione novellistica della
letteratura araba a cominciare da Le mille
e una notte, cui si contrappone l’ipocrisia
religiosa dell’affarista Hagg ’Azzam, espressione di quel mondo ormai anni luce lontano dalle seduzioni mitiche e tutto proteso verso la logica di un interesse, fintamente mascherato da scrupoli religiosi irritanti
quanto fatui. O ancora, si incaglia nella vicenda umana di Taha, figlio del portiere
del palazzo – forse il personaggio meglio
riuscito del romanzo – attraverso il quale
si può comprendere come un giovane si
possa ritrovare a percorrere quel tremendo sentiero in discesa che conduce ad abbandonare gli ideali e la ragione per abbracciare la logica elementare e povera del
fondamentalismo. Oppure, si commuove
con Hatim Rashid, giornalista omosessuale, proveniente da una famiglia aristocratica di cultura europea, testimone di un
mondo in cui gli ideali illuministici ai quali
la sua cultura francese lo aveva iniziato
sembrano frantumarsi progressivamente
in un Egitto sempre più sordo all’Occidente
e ai suoi valori. E ci si scontra con la vita
dura e votata al sacrificio delle protagoniste femminili: Buthayna, prima fidanzata
senza volerlo a Taha, e poi, dopo un lungo
processo di formazione, capace di riscattarsi attraverso l’amore salvifico del vecchio Zaki bey; Su’ad, giovane e avvenente
vedova, costretta dalle circostanze a diventare la seconda moglie di Hagg ’Azzam e a
subire da quest’ultimo profonde e laceranti
umiliazioni; Radwa, vedova di un terrorista kamikaze e sposa, in seconde nozze,
del giovane Taha, divisa tra il dovere di
51
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
MAESTRI
DEL
NOSTRO
TEMPO
cana. Ciascuno rappresentò una visione del
mondo che legò l’astronomia alle altre
scienze e la mise in rapporto anche con il
pensiero non scientifico. Ciascuno fu uno
strumento ideale, un modo di organizzare
la conoscenza, di valutarla e di incrementarla; e ciascuno dominò la filosofia e la
scienza di un’intera epoca».
Quella di Kuhn è una lettura insieme teorica e sociologica della rivoluzione copernicana, una riflessione sulla struttura stessa della scienza di cui fanno parte non solo
le osservazioni empiriche, i calcoli, le tecniche, gli strumenti di indagine quantitativa, le scoperte ma anche le rappresentazioni sociali, culturali, simboliche che ispirano e condizionano il lavoro scientifico.
Ripensando la scienza come un fatto culturale e sociale e collegandola con la storia delle idee, Kuhn l’ha sottratta al dominio esclusivo degli specialisti e l’ha integrata nella cultura del nostro tempo come
un bene pubblico da valorizzare e difendere almeno quanto, sino agli anni settanta, si era valorizzata e difesa la tradizione
letteraria. Nello stesso tempo però ha relativizzato la scienza intendendola non più
come un serbatoio di verità statiche ma
come un processo incompiuto e aperto
regolato da valori e istanze storiche.
Scrive infatti che «solo l’elenco dei fenomeni spiegabili si allunga; mentre per le
spiegazioni stesse non esiste alcun processo cumulativo del genere. Come la scienza
progredisce, i suoi concetti vengono ripetutamente invalidati e sostituiti e oggi i
concetti newtoniani non sembra facciano
eccezione».
Dalla relativizzazione al relativismo il passo, si sa, è breve, e Kuhn si è dovuto difendere dall’accusa di aver ridotto la scienza
a un sapere retorico privo di validità sovrastorica e universale e basato solo sul
consenso comunitario. In particolare lo si
è accusato di non aver provveduto, se non
tardivamente, a trovare dei criteri oggettivi di commensurabilità dei paradigmi in
modo da poter comparare e valutare teorie concorrenziali per decidere se una teoria è migliore di altre. Kuhn ha risposto a
queste accuse ma senza modificare l’impianto sostanzialmente storico della sua
proposta epistemologica il cui nocciolo sta
nella convinzione che «sostenitori di paradigmi opposti vedono cose differenti
quando guardano dallo stesso punto nella
stessa direzione. Ciò però – vale la pena di
ripeterlo – non significa che essi possono
vedere qualunque cosa piaccia a loro. Entrambi guardano il mondo. E ciò che guardano non cambia». La luna è la luna ma
CULTURE E RELIGIONI RACCONTATE
dentro il cuore della società egiziana
Nel romanzo si analizza una selva umana
intricatissima e avvincente, quindi, che ci
porta continuamente vicino e lontano da
palazzo Yacoubian e che insieme lascia affiorare in superficie ragioni, sensibilità e
linguaggi di una cultura che, pur con le sue
contraddizioni, si rischia sempre di analizzare dall’esterno e di giudicare dalla comodità irreale dei nostri salotti. Al-Aswani ci
conduce per mano dentro il cuore pulsante
della società egiziana, che riesce a tradurre
in storie, vissuti ed emozioni, e di cui è capace di lasciar emergere, impietosamente,
le contraddizioni, e, insieme, i forti valori.
Per le ragioni che ho esposto, è di fatto impossibile soffermarsi su tutti gli aspetti interessanti che il libro offre al lettore occidentale. Conviene, quindi, concentrarsi sopra un problema che si staglia in modo netto e che merita di essere dibattuto in modo
più dettagliato, per la sua unicità e per il
valore disvelante che possiede, ossia quello rilanciato dalle vicende del giovane Taha.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
le cause dello spaesamento
52
Al-Aswani, infatti, ci permette di comprendere le motivazioni socio-culturali interne
all’Egitto, che contribuiscono a determinare le cocenti delusioni esistenziali da cui,
a volte, si sviluppano le scelte più estremistiche di alcuni giovani.
All’inizio della narrazione, infatti, Taha è un
ragazzo animato da buoni sentimenti, studioso, serio, pervaso da un autentico e semplice sentimento religioso. Pur essendo mira
degli sfottò e dei risentimenti dei ricchi inquilini del palazzo, la sua visione del mondo è salda e ancorata a schemi implicitamente desunti dalla religione musulmana.
Taha compie il suo dovere religioso, adempie agli obblighi della preghiera e del digiuno secondo il calendario liturgico e ritiene
che occorra affidarsi al volere di Allah, nel
quale riversa una fede solida per quanto
elementare. Secondo lui, Dio è il grande ricompensatore, è Colui che vede i soprusi e
protegge il giusto, anche se con tempi e
modalità che non è dato all’uomo conoscere. Per questo, dopo aver terminato il liceo,
confida che con l’aiuto del Signore riuscirà a
passare la selezione per entrare all’Accademia della Polizia, pur sapendo che generalmente ciò non è usuale per un ragazzo del
suo livello sociale. Il sistema quadrato di Taha
comincia ad entrare in crisi proprio in seguito alla grande delusione provocata dalla bocciatura all’esame, imputabile solo ai natali
poveri del ragazzo. Tuttavia, animato ancora
da una profonda fiducia nella giustizia e nella forza propulsiva del bene, Taha firma una
lettera di protesta indirizzata al Presidente
della Repubblica, ricevendo una risposta formale e sintetica dal Direttore dell’ufficio reclami dei cittadini che sostanzialmente ricusa ogni addebito e protesta, senza circostanziare nulla, la regolarità dell’esame.
Anche se il mondo comincia a sembrare
meno ordinato di quanto pensasse, Taha crede ancora che tutte le avversità siano delle
prove da attraversare e con questo spirito
decide di iscriversi alla Facoltà di Scienze
politiche della capitale. L’impatto con gli altri studenti, per la maggior parte provenienti
dalle file della media e alta borghesia della
città, è estremamente difficile. Temendo di
dover fornire quelle informazioni sui suoi
natali che l’avrebbero reso ridicolo davanti
ai compagni, Taha decide di fare vita ritirata e di non rivolgere la parola a nessuno. Le
ferite castali che piagano la società egiziana si sono impresse anche nella sua coscienza, rendendolo paranoico e circospetto, nel
continuo timore di incrociare lo sguardo irrisorio di qualche figlio dei ricchi inquilini
di Palazzo Yacoubian. Preso così dallo sconforto, si reca alla moschea e qui gli si palesa
una realtà del tutto differente: il luogo sacro risulta essere frequentato da persone
che, come lui, sembrano spaesate, timide e
indossano abiti poco costosi. Con un passaggio fugace e molto amaro, Al-Aswani osserva: «Come l’olio che mischiato con l’acqua si separa immediatamente, fin dal primo istante, gli studenti ricchi si separano
da quelli poveri e cominciarono a formare
gruppetti molto chiusi: era tutta gente diplomata nelle scuole straniere, che possedeva automobili e vestiti d’importazione,
fumava sigarette americane e attirava le ragazze più belle ed eleganti. Gli studenti poveri invece si raggruppavano come topi spaventati e parlottavano timidamente» (2).
in moschea
In moschea, Taha fa la conoscenza di uno
studente più grande, Khaled ‘Abd-al-
Rahim, che si distingue dagli altri sia per
l’estrema povertà dell’abbigliamento sia
per la profonda devozione che anima la
sua preghiera. Dopo qualche mese, Khaled introduce Taha in un gruppo ristretto
di ragazzi, tutti poveri e molto devoti, che
si riunisce settimanalmente per riflettere
sulla condizione contemporanea dell’Egitto. Agli studenti, ispirati dalla lettura dei
grandi classici islamici, sembra palese che
il potere politico, corrotto e violento, sia
in realtà ispirato a princìpi pre-islamici,
contrari agli insegnamenti del Profeta e
che occorra tornare alla lettera degli insegnamenti coranici per salvare il paese.
Taha comincia a frequentare Khaled e i
nuovi amici anche fuori dall’Università,
recandosi ogni venerdì alla moschea dello sheikh Mohammed Shaker. Le parole
pronunciate dallo sceicco durante la predica del venerdì scuotono profondamente la coscienza del ragazzo: lo sceicco esalta i valori teocentrici e metafisici, ricordando a tutti i presenti che l’uomo è chiamato da Dio alla vita eterna e che la morte stessa è solo un passaggio verso tale
eternità. Il solo scopo dell’esistenza, sottolinea il predicatore, è combattere per
esaltare la parola di Dio, senza temere la
morte e considerando la vita terrena come
un accidente, effimero e infinitamente
breve. Trascurando il jihad, dice lo sceicco, inteso come lotta contro il potere che
obnubila il messaggio divino e contro il
materialismo che incatena l’individuo a
ciò che non ha significato, l’islam si è trasformato in una religione, in un formalismo rituale senza spessore (3). L’islam,
ricorda lo sheikh, è invece un grande invito a servire l’unico Iddio, combattendo
ciò che rende vuoti i suoi insegnamenti,
ossia il potere politico che, uniformandosi ai valori occidentali della democrazia,
consente, sul piano della morale privata,
il consumo degli alcolici, le relazioni extraconiugali e l’omosessualità, mentre, sul
piano dell’etica pubblica, alimenta i soprusi, la corruzione e la povertà. Per questo, conclude lo sceicco, «Islam e democrazia sono due concetti inconciliabili,
come l’acqua e il fuoco, la luce e le tenebre. L’Islam riconosce solo il governo di
Dio» (4).
Taha è rapito dalle parole del religioso; avverte che la lettura della realtà offerta dallo sheikh è capace di fornire risposte ai
drammi della propria esistenza e finisce
col credere che la corruzione dei costumi
e del potere, quella che lo ha escluso, sia
frutto del «male» democratico.
la morte agognata
Nelle vibranti parole dello sceicco e poi nell’amicizia fraterna dei compagni, Taha ritrova un senso forte che si sostituisce allo
smarrimento provocato dagli insuccessi; gli
sembra di comprendere che solo una riconversione alla lettera dell’Islam possa ricondurre l’Egitto alla salvezza e alla giustizia;
gli pare di riacquisire un linguaggio, delle
categorie e dei valori semplici e immediati
attraverso i quali rileggere tutto il modo e
restituire un senso all’insensatezza. Per questi motivi abbraccerà la causa fondamentalista, seguirà l’apprendistato militare e
parteciperà ad un agguato terroristico dove
troverà la morte agognata.
Ed è nella delineazione di questo personaggio che il romanzo di Al-Aswani si rende indispensabile per comprendere come, davvero, la retorica fondamentalista faccia breccia in coscienze lacerate dalle ingiustizie e
sia frutto indiretto dei sistemi profondamente corrotti che governano molta parte del
Medio Oriente. Se poi a queste ingiustizie
si risponde con nuove oppressioni o con sistemi che, semplificando la realtà, rispolverano vecchie incrostazione teocentriche, è
ovviamente un’altra questione la cui analisi
non rientra nelle intenzioni dell’autore. Al–
Aswani, tuttavia, ci permette qualcosa di veramente importante: di sporgerci nell’abisso di un mondo che non conosciamo per
tentare di capire come avviene che dei giovani colpiti duramente dalle ingiustizie della vita arrivino a credere che solo con la
morte e la violenza si potrà ripristinare un
ordine giusto e sacro. Per queste ragioni, e
per moltissime altre, consiglio vivamente la
lettura di questo capolavoro, che è costato
al suo autore durissime condanne dagli
ambienti più integralisti dell’islam.
note
Marco Gallizioli
1 A. Al-Aswani, Palazzo Yacoubian, Feltrinelli,
Milano 2006.
2 Ib., p. 77.
3 Per chi volesse approfondire le questioni
correlate al jihad si vedano i saggi sintetici, ma
molto illuminanti di: L. Pellicani, Jihad: le radici, Luiss University Press, Roma 2004; L.
Massignon, La suprema guerra santa dell’Islam,
Città aperta, Troina (En) 2003; o il ponderoso
e approfondito studio di G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino, Carocci, Roma 2004.
4 Al-Aswanu, op cit., p. 81.
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
essere al servizio della causa islamica combattente e i sentimenti che faticano ad affiorare perché soffocati dal tampone di
ovatta degli insegnamenti guerrafondai
dello sheikh Shaker.
53
la fede
e la sua formulazione
razionale
Carlo
Molari
a lezione magistrale tenuta da Benedetto XVI nell’Università di Regensburg, ha suscitato molte reazioni. Non intendo esaminarle.
Vorrei solo raccogliere la provocazione del Papa sulla razionalità
della fede e sul legame intrinseco tra cultura greca e dottrina cristiana, per capire
cosa può implicare per la teologia una scelta di questo tipo sia dal punto di vista del
metodo che della dottrina.
L
la ragione e il dialogo
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Credo sia chiaro dal contesto e dalle sue
esplicite parole che Benedetto XVI non ha
inteso tanto compiere un atto di Magistero Pontificio, quanto riprendere momentaneamente la sua funzione di antico docente di teologia, che ricorre ad argomenti razionali per chiarire la fede e per spiegare le sue intrinseche dinamiche. Ha esordito infatti con le parole: «per me è emozionante stare ancora una volta sulla cattedra dell’università e una volta ancora
poter tenere una lezione».
In essa il Professor Ratzinger sembra guidato da una duplice preoccupazione: che
la ragione resti il riferimento assoluto del
dialogo fra le culture o le religioni, e che,
anche per questo, alla teologia venga conservato un posto nelle Università statali.
Le due preoccupazioni si intrecciano fra
di loro e costituiscono come la trama o la
cornice inclusiva di tutte le riflessioni. Ricordando, infatti, gli inizi del suo insegnamento nella Università di Bonn (1959) egli
ha osservato: «L’università, senza dubbio,
era fiera anche delle due facoltà teologiche. Era chiaro che anch’esse, interrogandosi sulla ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa
parte del tutto dell’Universitas scientiarum,
anche se non tutti potevano condividere
54
no. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza, è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla
fede biblica, entra nella disputa del tempo
presente. «Non agire secondo ragione (con
il logos) è contrario alla natura di Dio» ha
detto Manuele II, partendo dalla sua immagine cristiana di Dio, all’interlocutore
persiano. È a questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel
dialogo delle culture i nostri interlocutori.
Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo è il
grande compito dell’università».
ellenizzazione del cristianesimo
Chiarito il principio e richiamatone il senso con la riflessione dell’imperatore bizantino il Papa si chiede: «La convinzione che
agire contro ragione sia in contraddizione
con la natura di Dio, è solo un pensiero
greco o vale sempre e per se stesso?». La
risposta è molto chiara: «Io penso che in
questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia». E conclude: «Dio è
logos, Dio è ragione» per questo agire contro ragione è agire contro Dio. L’argomentazione è sintetica e riassume diversi passaggi. La tesi potrebbe essere espressa in
questo modo: agire secondo ragione corrisponde alla natura di Dio ed è quindi necessario in tutte le circostanze. Ora imporre la fede con la violenza è agire contro la
ragione e quindi contro la volontà divina.
Ciò che i greci hanno intuito corrisponde
alla realtà delle cose e quindi deve essere
osservato da tutti e sempre.
Se «agire contro ragione contraddice la
natura di Dio» è un principio vero, esso
deve essere ritenuto non più esclusivo dei
greci, perché tutti possono pervenirvi e
formularlo in altri contesti partendo da
esperienze storiche diverse. Ratzinger deduce, invece, che il rivestimento greco della
rivelazione biblica non è occasionale, bensì
necessario e assoluto, così da restare per
sempre: «L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice
caso». Per mostrarlo ricorda il sogno di
Paolo che «vide un Macedone e sentì la sua
supplica: ‘passa in Macedonia e aiutaci’ (cfr
At 16, 6-10)» e commenta: «questa visione
può essere interpretata come una ‘condensazione’ della necessità intrinseca di un
avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco». Ci si potrebbe chiedere se
l’incontro tra Vangelo e cultura greca fosse allora necessario perché costituiva l’oriz-
zonte comune del mondo mediterraneo
oppure perché un disegno divino legasse
indissolubilmente grecità e Vangelo. Il
Papa sceglie questa seconda alternativa:
«l’avvicinamento interiore, che si è avuto
tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano
filosofico del pensiero greco, è un dato di
importanza decisiva non solo dal punto di
vista della storia delle religioni, ma anche
da quello della storia universale, un dato
che ci obbliga anche oggi». Da questa conclusione egli deduce che il rivestimento
greco della fede cristiana è vincolante per
tutti e per sempre. Per questo egli considera necessario resistere ad ogni tentativo
di liberare il cristianesimo dalle forme ellenistiche assunte nei primi secoli.
Il Papa elenca tre ondate di questi tentativi: la riforma protestante, l’illuminismo
razionalista e l’attuale criterio della inculturazione quando viene indicato come regola assoluta della missione. Il Papa riassume così questo ultimo tentativo: «Si ama
dire oggi che la sintesi con l’ellenismo,
compiutasi nella chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste
dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella
inculturazione per scoprire il semplice
messaggio del Nuovo Testamento e inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi
ambienti». Egli osserva che c’è verità in
questa posizione perché «non è semplicemente sbagliata», ma aggiunge che questa
affermazione «è grossolana e imprecisa».
Il problema che sorge da tali premesse si
pone in questi termini: se la nostra generazione si trova nella necessità di riformulare la dottrina della fede secondo nuovi
paradigmi, la riformulazione deve partire
dagli stessi contenuti intellettuali espressi
nelle formule antiche bibliche e dogmatiche, che sono state redatte in lingua greca? Oppure è possibile e anzi necessario
seguire un altro metodo?
Chi sostiene la seconda alternativa afferma che la formulazione della fede non deve
essere tratta dalle formule antiche, bensì
dalla attuale esperienza di fede in Dio, vissuta tenendo conto delle formule antiche,
ma espressa secondo le categorie della cultura in cui l’esperienza si compie. Il problema merita di essere esaminato dettagliatamente per individuare in che senso, il
metodo, «non è sbagliato» e in quale senso come dice il Papa, «è grossolano e impreciso».
(continua)
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
TEOLOGIA
la fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi». Riferendosi alla tradizione del dies accademicus, il giorno in cui tutti i professori si
presentano insieme agli studenti ha osservato: «il fatto che noi, nonostante tutte le
specializzazioni, che a volte ci rendono
incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni,
stando così insieme anche nella comune
responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza
viva». Riportando poi il detto di un professore per il quale la teologia era senza
senso perché «il suo oggetto non esiste», il
Papa ha continuato: «Che anche di fronte
ad uno scetticismo così radicale resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio
per mezzo della ragione e che ciò debba
essere fatto nel contesto della tradizione
della fede cristiana: questo nell’insieme
dell’università, era una convinzione indiscussa». Quella che egli chiama: «la coesione interiore nel cosmo della ragione»
rendeva possibile il dialogo non solo nella
scuola ma soprattutto nella vita.
In conclusione il Papa riprende le due preoccupazioni con l’affermazione riassuntiva: «la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come
teologia vera e propria, come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo
posto nell’università e nel vasto dialogo
delle scienze. Solo così diventiamo anche
capaci di un vero dialogo delle culture e delle religioni di cui abbiamo un così urgente
bisogno».
L’urgenza attuale del dialogo tra le culture
e le religioni condotto secondo argomenti
di ragione è stato l’appiglio per ricordare
l’affermazione dell’imperatore bizantino
Manuele II Paleologo sul modo di diffondere la fede. L’imperatore allo scadere del
14° secolo scriveva: «non agire secondo
ragione è contro la natura di Dio... Chi
quindi vuole condurre qualcuno alla fede
ha bisogno della capacità di parlare bene
e di ragionare correttamente, non invece
della violenza e della minaccia. Per convincere un’anima ragionevole non è necessario disporre né del proprio braccio, né
di strumenti per colpire, né di qualunque
altro mezzo con cui si possa minacciare
una persona di morte».
Il Papa cita la sentenza all’inizio e la riprende nel riassunto conclusivo della lezione: «L’occidente da molto tempo è minacciato da questa avversione contro gli
interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può subire solo un grande dan-
Carlo Molari
55
CINEMA
EVA E LE SUE SORELLE
56
l libro dei proverbi nella Bibbia ci offre una raccolta di insegnamenti sapienziali capace di fotografare la società antica di riferimento. Non ha la
pretesa di dire una parola rivelata. La
sapienza è sempre radicata alla
terra: nasce dal tentativo di rispondere con
praticità alla vita. I proverbi vogliono insegnare a vivere, provano a codificare la
realtà per poter camminare nel mondo senza inciampare. Un testo conservatore, dunque, che non mette in discussione le regole sociali ricevute. Non ci aspettiamo di
trovare immagini di donne reattive alla
cultura patriarcale. Stupisce pertanto che
la conclusione dell’intero libro sia affidata
alle donne. Nella prima parte del capitolo
31 sono raccolti gli insegnamenti di una
madre. Segue un testo poetico, un canto
alla donna ideale che vuole offrire dalla a
alla z (la composizione è un acrostico dove
ciascun verso inizia con una lettera progressiva dell’alfabeto) il ritratto della donna «perfetta».
La tesi che fa da sfondo all’inno e che si
pone come epilogo dell’intero insegnamento sapienziale è che il matrimonio è una
cosa importantissima. È necessario scegliere la donna giusta, ma non è semplice:
«Una donna forte e virtuosa chi la troverà?» (31,10). Ecco allora una descrizione,
ideale, e tuttavia non utopica, di come dovrebbe essere la donna giusta. Viene presentata una figura femminile necessariamente inserita nel suo contesto patriarcale. Fin qui tutto normale. Ciò che appare
paradossale oggi è che se questa donna
ideale che non questiona il mondo antico
di riferimento, rischia invece di mettere in
discussione la nostra realtà per almeno due
ragioni. La prima può sembrare effimera,
ma ha conseguenze devastanti sulle giovani generazioni: usciamo ogni anno stremati dal concorso di Miss Italia. Bombardati per giorni da sfilate di carne da macello che chiamano ragazze. Ogni giorno
le nostre figlie, i nostri giovani e noi stessi
siamo assediati da immagini mediatiche
che propongono canoni di bellezza artificiali: modelle anoressiche o veline supermaggiorate. La bellezza fisica, omologata
alle richieste del mercato, diventa la caratteristica necessaria per «stare al mondo».
La donna dei proverbi non è lodata per la
sua bellezza, ma per la sua forza, la sua
autonomia e la sapienza delle sue parole.
Il secondo motivo è più tragico ed è legato
alla precarietà lavorativa.
Mi capita sempre più spesso di ascoltare
vissuti familiari dove la fatica economica
mina le relazioni affettive. Nell’era del precariato, di fronte allo spettro della disoccupazione, si percepisce un diverso sguardo di genere. La donna che lavora si trova
a dover giustificare la scelta, più o meno
forzata, di «lasciare» i figli per la professione; e quando non le è dato di lavorare,
vive certo l’ansia economica, ma raramente
il degrado e la perdita della dignità. La
narrazione maschile è invece più dolorosa. Accanto alla privazione del lavoro convive la vergogna. L’uomo disoccupato, o
precario, sente di non essere in grado di
assolvere al compito sociale a lui destinato: mantenere la famiglia. Le aspettative
sociali lo spingono a sentirsi responsabile
economicamente per l’intero nucleo familiare. L’emancipazione delle donne aveva
arginato questo sentire e sollevato il maschio dal dover farsi carico dell’intero fardello economico. La precarietà lavorativa,
che colpisce in primo luogo le donne, tra i
mille problemi ripropone un simbolico
familiare tutt’altro che superato.
La donna dei proverbi non risponde all’antico detto veneziano: «che piaccia, che taccia, che stia in casa»: ha un carattere forte
ed intraprendente. Provvede ai bisogni familiari non soltanto gestendo la casa, ma
intraprendendo attività commerciali. Si
parla nell’inno di prezzo, guadagno, compravendita, stima della mercanzia, produzione: «Guarda un campo e l’acquista,
pianta una vigna, commercia con il frutto
delle sue mani». Ha contatti con mercanti
che viaggiano lontano e le aprono nuovi
orizzonti. Vende loro la merce da lei prodotta. Una donna così ha necessariamente una forte autonomia, pur inserita nel
contesto patriarcale. Certo, è un’immagine idealizzata, ma c’è da chiederci oggi
quale ideale, quali immagini di donne ci
suggerisce la nostra realtà «emancipata».
La Scrittura ci propone uno sguardo alternativo, per certi versi rivoluzionario, anche in testi che sono conservatori. Proprio
come dice Walter Benjamin, «la rivoluzione è un balzo di tigre nel passato».
a stella che (forse)
manca sulla bandiera
cinese – dice il film –
può essere quella della innocenza. Vincenzo Buonavolontà è un tecnico che ha lavorato negli impianti siderurgici di Bagnoli, impianti
ormai definitivamente chiusi. Una delegazione cinese è
a Bagnoli per l’acquisto di
un altoforno e alcuni dirigenti degli impianti ne sottolineano la grande efficienza, la fabbricazione recente
e i molteplici controlli effettuati. L’accordo è praticamente concluso quando
Vincenzo Buonavolontà –
che si presenta come «manutentore» ormai disoccupato – entra quasi di forza
nella stanza della riunione e,
rivolgendosi al capo della
delegazione cinese lì riunita, dichiara che l’altoforno
ha dei gravi «difetti». Il capo
della delegazione, il signor
Ciong, lo accoglie con simpatia, quando alla fine capisce di che cosa si tratta, poiché la giovane interprete
aveva avuto qualche difficoltà nella traduzione delle frasi concitate dello stesso Vincenzo, poi intervenuto con
alcuni termini tecnici addirittura in cinese, per chiarire il suo pensiero.
Succede che poi Vincenzo
Buonavolontà (un nome –
un programma) decida di
sua iniziativa di partire per
la Cina e di recarsi a Shanghai con una «centralina» di
ricambio, per sottolineare
direttamente là i difetti dell’impianto e per porvi rimedio. Ma a Shanghai, presso
la fabbrica a cui si reca, non
trova il signor Ciong, nel
frattempo «dismesso», bensì un altro dirigente che, con
cortesia e con molta fermezza, gli dice che l’altoforno è
stato inviato a una certa fabbrica di una città lontana,
perché la loro azienda di
Shanghai ha soltanto compiti di distribuzione.
Vincenzo si dedica allora
alla ricerca della giovane interprete: quando la trova, lei
all’inizio sembra non riconoscerlo o, comunque, di non
L
Contraddizione
La stella che non c’è
volergli parlare. Ma poi la
giovane lo reincontra alla
mensa, e Vincenzo insiste
perché lei lo aiuti e vada con
lui in quella città lontana.
Lei sembra rifiutare, ma l’indomani lui la ritrova alla stazione ferroviaria per partire insieme. Comincia così
un lungo viaggio, per Vincenzo e per la sua accompagnatrice-interprete, la quale
chiede di essere profumatamente pagata per il lavoro che si accinge a fare, ma
contemporaneamente non
dice mai quanto vuole.
Fin qui il film suscita alcune perplessità di logica narrativa e cioè di sceneggiatura, anche se qualcuno può
non ritenerle importanti:
dove ha trovato il disoccupato Vincenzo i soldi per il
viaggio?; un viaggio dall’Italia alla Cina viene soddisfatto senza alcuna organizzazione e soltanto con un piccolo bagaglio, «due paia di
calzoni e qualche camicia»?;
può un italiano con nessuna esperienza pensare di cavarsela viaggiando in Cina
da solo?
Detto questo, dobbiamo aggiungere che il film entra in
un itinerario assolutamente
precario. L’interprete porta
Vincenzo perfino nella città
dove è nata, e incontrano
una nonna sorpresa, ma non
troppo: poi c’è un figlio «nascosto». I due seguono le
tracce dell’altoforno che
sembra spostarsi, quasi di
propria volontà (e per fare
andare avanti il racconto),
da una città all’altra, da una
regione all’altra, e arrivano
– in verità un po’ stancamente – fin quasi in Mongolia.
Nel frattempo la ragazza
scioglie la sua scontrosità,
confessa le debolezze della
propria vita, è una ragazzamadre, che ha lasciato il suo
uomo giudicandolo troppo
giovane e debole, ha perduto il lavoro probabilmente in
seguito ai suoi errori e ai
suoi limiti di interprete messi in evidenza proprio da
Vincenzo a Bagnoli. Quasi
con dei flash di passaggio
Vincenzo vede dei bambini
che lavorano semi-emarginati e soli in una fabbrica;
naviga sul Fiume Azzurro su
un’area che grazie ad una
diga enorme fornirà sì energia elettrica a varie città e a
decine di milioni di persone
ma ha ormai sommerso
case, villaggi, depauperato
terreni fertili e popolazioni
già di per sé povere.
Il «pretesto» dell’altoforno è
sempre meno in evidenza,
anche nelle preoccupazioni
di Vincenzo. Questi, da un
lato, ogni tanto, sembra sottolineare che il difetto è grave, ma che si può riparare
con facilità; dall’altro diventa sempre più un osservatore socialmente impegnato
nei confronti delle contraddizioni (che ben conosciamo) della Cina di oggi. Ci
sono squilibri di vita enormi, le Olimpiadi di Pechino
2008 sono alle porte (a Pechino si svolgerà quasi tutto
il programma, qualcosa a
Shanghai, forse le gare di
vela, e poco ancora altrove),
tutto potrebbe addirittura
cominciare fra sei mesi, ma
accanto ai grattacieli la Pechino storica non esiste più,
e al di là dei grattacieli che a
Shanghai si contendono.
primati mondiali, al di là di
insegne luminose enormi,
dei supermagazzini, delle
strade completamente rifatte (come la vecchia e tradizionale via Nanchino dei
mercatini, proprio a Shanghai, trasformata ormai una
sorta di Champs-Elysées), ci
sono situazioni quotidiane
umanamente tremende. I figli dopo il primo vengono
multati (due sono concessi
se entrambi i genitori sono
figli unici), d’altronde un miliardo e mezzo di abitanti
sono tanti e tanti, mentre
ancora oggi – sembra impossibile ma è vero, lo diciamo per testimonianza diretta – il grande film di Antonioni Chung Kuo-Cina, a suo
tempo, inizio anni Settanta,
inviso alla Rivoluzione Culturale, continua a essere giudicato da molti con diffidenza.
Il film di Amelio La stella che
non c’è allude a tutto questo,
ma non cancella l’impressione che proprio il suo filo
conduttore sia poco più che
uno spunto – come usava
una volta – per un progetto
sicuramente valido di coproduzione cinematografica e,
insieme, per organizzare
una bella trasferta. Dove
Amelio ha inventato un’attrice (Tai Ling, nella parte della ragazza Liu Hua), con un
grande direttore della fotografia in Luca Bigazzi, insieme a Sergio Castellitto, quasi sempre stupìto e monocorde Vincenzo Buonavolontà.
Ma di Amelio (1945) preferiamo di gran lunga il primo ormai lontano periodo,
in cui – dopo importanti e
ben riusciti film per la televisione – campeggia il grande Porte aperte (1989), insieme a Il ladro di bambini
(1992) e a Lamerica (1994).
❑
57
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Lidia
Maggi
la donna giusta
I
Giacomo Gambetti
RF&TV
ARTE
Roberto Carusi
Renzo Salvi
Mariano Apa
Un Mozart teatrale
a regìa del Don Giovanni di Mozart (andato in scena al Teatro Comunale di Treviso) è
stata affidata ad Eugenio
Monti Colla, direttore artistico della Compagnia Marionettistica Carlo Colla e
Figli. Il regista, cui si devono anche le scene e i costumi, è stato intelligentemente rispettoso di un siffatto classico. Ma è stato,
al tempo stesso, innovatore nei confronti di tante
messinscene che della
grande opera mozartiana
han fatto spesso chi una
polverosa riesumazione,
chi una immotivata attualizzazione.
Monti Colla ha invece scelto la cifra di un gioioso teatro nel teatro. Compaiono, in un breve prologo e
in altrettanto brevi interludi, le marionette. Egli cita
così Il convitato di pietra,
uno scenario secentesco
della Commedia dell’Arte
da cui traggono origine
tutte le versioni della tragicommedia di Don Giovanni: in prosa, in versi, in
musica, per marionette.
Questa messinscena è
come un ricco telaio in cui
s’intessono la qualità della
compagnia di cantanti, il
vivacissimo coro, la brillante tavolozza di sonorità che
il maestro Zsolt Hamar,
concertatore e direttore,
riesce a cavare dalla partitura. Gli interpreti aggiungono alla indiscutibile bravura canora bella presenza
scenica, gradevole aspetto,
dizione chiara e vibrante.
Emerge così una felice caratterizzazione registica
che li fa giocare dentro e
fuori dal proprio personaggio. Il che è ulteriormente
accentuato dal cambio a
vista di fondali e quinte sospesi a lunghe funi.
La trama è nota: Don Giovanni, impenitente sedut-
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
L
58
tore, passa da una conquista all’altra del gentil sesso. Il gioco da commedia
(ricco di sensualità nella
vocalità e nelle posture sceniche) s’incastona tra un
inizio e una fine che sfioran la tragedia. Il sipario
si apre infatti sull’uccisione del Commendatore da
parte di Don Giovanni sorpreso nottetempo nel tentativo di sedurre la di lui
figlia Donna Anna. E sul
finir dell’opera lo stesso
Don Giovanni è trascinato
nelle fiamme infernali dal
monumento funerario della sua vittima. Conclude il
tutto un lieto fine argutamente moralistico in cui
coloro che han subìto le
prepotenze del seduttore
se ne fanno – ciascuno per
la sua parte – severi giudici. Nell’intera vicenda Leporello – servitore semplicione eppure astuto di Don
Giovanni – fa pensare alla
Commedia dell’Arte e, ancor più, a Gerolamo (la
maschera ricorrente negli
spettacoli dei Colla), pieno
di una saggia bonomìa che
alla fine viene sempre premiata.
Al regista il merito d’aver
saputo – d’intesa col maestro concertatore – creare i
movimenti con cui, senza
soluzione di continuità, i
personaggi si prendono tutto lo spazio scenico. Le tonalità cromatiche della scenografia e dei costumi sono
ora evidenziazione del contrasto drammaturgico tra i
personaggi, ora invece
compatta armonia dei momenti corali. Una regìa così
«teatrale» permette anche
di comprendere l’ossimoro
che sta nelle parole «dramma giocoso» con cui il
grande librettista Lorenzo
Da Ponte volle sottolineare
lo spirito composito di questa sua opera.
❑
Wild West
e carovane che muovevano verso la Frontiera dell’Ovest americano, talvolta, si perdevano:
soccombendo in scontri armati contro popoli indiani
che (giustamente) si opponevano all’avanzata della colonizzazione, annegando nel
guado dei fiumi gonfiati dalle piogge, bruciando per l’arsura nel grande deserto salato... Così, almeno, raccontarono alle nostre infanzie i
film western e i fumetti di
Tex Willer, Bleck Macigno,
Capitan Miki.
Wild West, reality di RaiDue
ambientato in un simil/mondo di cow boy è il primo
caso di una carovana che si
perde, nell’asprezza del palinsesto tv, partendo da un
deserto di idee e approdando a un deserto di pubblico.
«Ovviamente» format, ovviamente (risparmiamo le
virgolette) di importazione,
ovviamente gestito da una
società di produzione esterna all’ente televisivo (la Rai)
che lo propone, Wild West è,
infatti, ovviamente diseducativo e notevolmente cialtrone come tutti i reality
d’invasione recente, ma non
per questo è stato cancellato dalla serata televisiva di
rete (il martedì) che lo ospitava: non per il cianciare
vano di chi – Alba Parietti –
conduceva quelle tre-e-passa ore; non per il nulla di
contenuto trasmesso; non
per la mancanza di piacevolezza nell’intrattenere; non
per il finger sentimenti (dal
cameratismo, all’amicizia,
alle possibili love story su copione) che quel gruppo di
apprendisti cow boy aveva
da metter in scena dall’Arizona in diretta via satellite.
No: il fatto è che al trasferimento della mandria mancava il pubblico del dopo
cena.
La cancellazione della serata è comunque un dato positivo, anche se rimangono
la fascia quotidiana pre/serale e se è stata aggiunta
L
una coda «Selvaggio
West», alla programmazione dei pomeriggi di rete,
come prosecuzione de
L’Italia su Due. In questi
spazi l’irriducibile 7% scarso di pubblico televisivo
che dedicava una sera della sua unica vita ogni settimana a Wild West potrà
continuare a sentire alcune canoniche frasi dell’ideologia (ormai...) del realitysmo: «Hanno imparato in una settimana cose
incredibili!»; «...abbiamo
montato con loro» (e s’intende a cavallo); «da donna vi dico che voi siete più
belle di quando siete partite...».
Negli Stati Uniti Wild West
ha avuto successi di pubblico strepitosi: forse perché
gli ascoltatori sono di gusti
(medi) più facili e certamente perché il mito archetipo della frontiera ancora
fa presa nella sua terra
d’origine. In Italia – qui il
discorso si fa più tecnico e
professionale – non c’è stata nemmeno la capacità di
reinventare l’idea di base
calibrandola sulle immagini di West che stanno nella
nostra memoria nazionale
per il tramite di fumetti e
film. E magari anche ricordando che quando Buffalo
Bill e il suo circo passò in
Italia, agli inizi del secolo
scorso, un rodeo che vide
gareggiare cow boy americani e butteri toscani fu vinto dai «nostri». Ma questo
sarebbe stato un approccio
troppo colto al reality delle
vacche. Valga allora, come
chiusa – pescando sempre
dalla memoria e dalle icone d’una generazione: Carosello – quel che ritmava
una strofetta pubblicitaria
di carni in scatola: «Laggiù
nel Montana / tra mandrie
e cow boy / c’è sempre qualcuno / di troppo tra noi...».
A Wild West, per una volta,
«di troppo» eran tutti. «Griiingo, Gringooo!».
❑
FOTOGRAFIA
Alberto Pellegrino
Frangi
vvenimento a Firenze. Una esposizione-istallazione di
Giovanni Frangi alla Galleria Poggiali e Forconi in
via della Scala. Un trittico
in cui due «camere» – «Disgelo» e «Fondo del mare»
– si ripetono nei quadri a
parete. Superficie e volume
per poter nominare una
«unità percettiva» (per dirla con Corradini) che afferma una capace investigazione del vedere in quanto
partecipazione alla sapienza dell’immagine. I testi di
Giovanni Agosti – catalogo
«5 Continents Editions» –
ripropongono la eticità di
una partecipazione, dello
storico al procedere dell’artista, di una antica tradizione oramai «persa». Come
per lo struggente e filologico omaggio all’indimenticata mostra di disegni di
Lorenzo Bonechi al Gabinetto degli Uffizi (cat. Olschki, 1996), Agosti riesce
con Frangi a introdurci
nella dureriana- albertiana
«Camera» con cui, certo,
ricordare il biografico-duchampiano «Etant donnes», ma quando Agosti ricorda che prima di Richter
«ci scappa un vecchio Morlotti, una ‘Sera sull’Adda’
degli anni cinquanta», ci
invita a riflettere sul trascorso testoriano della
manipolazione dei materiali in quanto esistenziale
messa in discussione del
proprio corpo in quanto
corpo del linguaggio.
Le libertà sintattiche della
cultura postconcettuale
possono non stringere nell’ideologia della tautologia.
E Giovanni Frangi proprio
manipolando la sua pluralità dei materiali dimostra
che si può fare pittura
come corpo della emozio-
A
ne, come corpo di un vedere che si fa carico dello
sporco e dello splendore,
della mistica luminosità
della notte e della lancinante alterazione percettiva della verità del morire
nell’esistere. Eliminando
tutte le tautologie e le letterature alchemiche della
Concettualità – là dove lo
scaldarsi erotizzato apre
ed è capace di ascoltare,
l’artista, gli esoterici sciamanesimi del giustamente
ricordato Monte Verità –,
Frangi impone il rigore
(della camera prospettica
albertiana-dureriana) del
guardarsi «dentro». Certo
il «solido» del ghiaccio verte al «liquido» degli abissi,
come dal basso si ri-«sale»
all’alto: e anche la Maria
ascende in virtù degli Scapoli; e gli oggetti trovati
sono l’evidenza di un matericismo usuale che ecco
Frangi raccoglie, davvero
come in un lampo apostrofa Agosti, il lascito del
«‘Mare di ghiaccio’ di Friedrich, ma senza naufragi».
È il trionfo della pittura,
questa istallazione di
Frangi. E davvero si dimostra la triade dettata dal
critico: «il Duchamp estremo, i Sacri Monti, i ViewMaster». Una pittura che
coinvolge il pensiero e il
sentimento come corpo
che si lascia incontrare,
lotta con l’Angiolo, «Sermone» bretone declamato
tra le spezie di una Firenze che vedeva i giovanissimi Papini e Prezzolini intenti al loro sulfureo «Leonardo». Ma il tutto è dall’artista come raccontato
in una passeggiata al dolce estivo imbrunire della
prima sera, tra i viali della Brianza di Testori.
❑
La società in posa
criveva Piovene nel
1941: «La scoperta
della fotografia ha
mutato profondamente il
costume degli uomini, forse più di qualunque altra
invenzione della scienza…
Quanto sia vasta l’influenza sugli uomini della fotografia si misura da un fatto: che tutti gli uomini
sono stati mutati nel loro
modo di vedere e di immaginare». È questo il filo
conduttore del terzo volume di L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia
(Einaudi, Torino, 2006),
intitolato La società in
posa, in cui viene analizzata l’importanza della fotografia nel suo impatto con
la società, del come essa
abbia influenzato i sentimenti, i modelli culturali e
i comportamenti quotidiani degli italiani. Queste trasformazioni emergono
chiaramente dal saggio di
Maurizio Ridolfi Gli spazi
della vita pubblica e da
quello di Silvia Salvatici
Uomini e donne sulla scena pubblica. Vengono
analizzati i passaggi tra
Otto e Novecento per
quanto riguarda modelli
sociali e stili di vita, la modernizzazione autoritaria
imposta dal fascismo tra le
due guerre mondiali, le prime trasformazioni nell’Italia Repubblicana, il cambiamento di costumi e consumi dagli anni del boom
economico fino alla chiusura del secolo: diventa
sempre più sottile il confine tra vita pubblica e privata; si aprono ai cittadini
i luoghi istituzionali (scuole, caserme, tribunali); si
verifica la politicizzazione
delle masse e si diffonde la
cultura di massa attraverso le varie forme di spettacolo, lo sport, il turismo; si
trasforma la religiosità e si
S
diffonde il benessere; si assiste alla spettacolarizzazione di eventi privati, battesimi, matrimoni, funerali; si ha una diversa collocazione della donna nella
società, dalla miss alla valletta, dalla manager al magistrato. Di grande importanza è il saggio di Elio
Grazioni su I generi fotografici tra realtà e finzione
(Il canone, Il potere, La finzione, I ruoli, La realtà, Lo
spettacolo), mentre Uliano Lucas e Tatiana Agliani
hanno analizzato il rapporto tra società e fotogiornalismo in Da Miss Italia a
Padre Pio; a sua volta Stefano Musso ha tracciato la
storia del mondo lavorativo in Sguardi sul lavoro.
Infine Giorgio Olmotti, ne
Il mestiere della fotografia,
ha registrato il passaggio
della fotografia dalla passione dilettantesca alla
professionalità: l’evoluzione dai fotografi ambulanti
agli studi professionali, il
contributo fondamentale
dato dagli «operatori
Luce» e quello determinante dei grandi fotoreporter italiani dal secondo
dopoguerra a oggi con il
parallelo evolversi in senso positivo degli studi sulla storia, il linguaggio e
l’estetica della fotografia.
❑
59
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
TEATRO
SITI INTERNET
MUSICA
Enrico Romani
Giovanni Ruggeri
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
V
60
zie all’avvedutezza, una volta tanto, di Massimo D’Alema. Poi una discesa vorticosa fra ministri che straparlano, un indulto che riesce
lì dove la destra aveva fallito per cinque anni, salvare
Previti (e gli altri settantasei condannati per reati finanziari contro lo Stato, settantasette in tutto, altro che
carceri strapiene!) i tassisti
in rivolta che bloccano le
città, e perfino i professionisti in piazza contro le liberalizzazioni e a difesa dei
propri ingiusti privilegi (fossero stati studenti, operai o
no-global sarebbero stati
massacrati dalla Polizia...).
E questa legge che con una
mano in effetti qualcosa dà
alle famiglie, per poi riprenderselo con l’altra, se è vero
come è vero che la Corte dei
Conti e il Governatore Draghi hanno sentenziato:
«Troppe tasse», un punto
medio percentuale in più. E
per fortuna il governo ha
rimandato a gennaio il discorso pensioni, sul quale
vale la pena far notare che
in un suo articolo su repubblica Luciano Gallino spiegava come la spesa previdenziale dell’Inps sia soltanto un
terzo del totale: il resto sono
spese assistenziali di vario
genere che dovrebbero essere a carico di tutti i contribuenti, e non solo di coloro
che versano all’Inps. Se poi
ci mettiamo che non è stato
creato quel «conflitto di interessi» fra il dentista, per
dire, che ti fa il «favore» di
non farti la fattura perché
altrimenti dovresti pagare
molto di più della già onerosa parcella (cifra con guadagno secco, al netto delle tasse, evase) e tu cliente che non
puoi invece trarne beneficio
fiscale, di cosa stiamo parlando, di bruscolini? Insomma, i conti dello Stato torneranno pure in ordine, ma le
canzoni di Dylan e del Boss
sono tutte ancora valide.
❑
Beni culturali e musei
ostituisce un indiscutibile valore aggiunto per la fruizione e la valorizzazione del patrimonio culturale l’impiego
delle nuove tecnologie, che
rivelano significative potenzialità non solo in ambito
operativo (sia da parte di
quanti lavorano nel settore
– per catalogazione, restauro, promozione ecc. – sia da
parte dei cosiddetti fruitori
– per accesso a distanza, acquisizione di informazioni
ecc.) ma anche in ordine ad
una più facile comunicazione tra quanti si interessano,
a vario titolo, di questi temi.
Accanto infatti alla tradizionale valorizzazione di Internet per accedere a distanza
a collezioni di musei o database di biblioteche, nascono
nuove esperienze, come ad
esempio community (come
si suol dire con sgradevole
ma obbligato gergo inglese)
tra operatori, ricercatori e
professionisti del settore i
quali, grazie ad un sistema
di mailing list e un sito internet riescono, con minima
spesa, a costruire interessanti modelli di interazione
e produzione culturale, ad
esempio allestendo nuovi sistemi per la circolazione delle esperienze.
È il caso dell’ottimo
www.musei-it.net, forse il
sito più originale del settore, nato dalla passione di tre
studiosi e centinaia di utenti della rete. Questa la descrizione che del sito danno gli
autori stessi: «È una mailing
list molto seguita e vivace; è
da anni un sito dedicato all’Information Technology
nei musei italiani; è una serie di eventi, convegni e
workshop su musei e tecnologia; è una community che
unisce operatori culturali,
ricercatori, studenti e professionisti; è un portale verso i migliori siti di musei in
Italia e nel mondo; è un’iniziativa no-profit e senza fini
di lucro». Tra gli aspetti
C
meritevoli di segnalazione,
vi è l’attenzione che il sito
presta alla valorizzazione
anche economica delle risorse culturali, capitolo
sommamente importante
per il nostro Paese, unitamente allo spazio accordato ad aziende specializzate
nelle applicazioni informatiche e multimediali per
musei, gallerie, biblioteche
e istituzioni culturali, cui il
sito consente di segnalare
gratuitamente i propri servizi.
Di impianto classico e imponente nella sua struttura
è www.museionline.it che,
frutto di una partnership
nientemeno che tra Microsoft e Adnkronos Cultura,
raccoglie informazioni costantemente aggiornate su
oltre 3.500 musei. Il sito nasce con l’obiettivo di valorizzare e promuovere nel
mondo il patrimonio culturale italiano. Oltre a dettagliate informazioni di servizio su ogni singolo museo,
fornisce informazioni su
eventi culturali e artistici e
aggiornamenti su novità e
iniziative culturali, mostre
e sulla realtà museale italiana. Buon esemplare di sito
dedicato specificamente ad
un museo di settore è invece www.museoscienza.org,
del Museo nazionale della
Scienza e della Tecnologia
di Milano, mentre un utile
collettore di link a diversi
grandi musei classici di tutto il mondo è dato da
w w w. f r e e u n i v e r s e . i t /
musei.htm.
La versatilità di Internet è
tale da riuscire ad ospitare
tra le sue pagine anche musei che ancora… non esistono! È il caso del futuribile
Museo della Bora di Trieste (www.museobora.org),
dedicato ai mille segreti di
questo freddo vento del
Nord. Difficile, si sa, trovar
casa alla bora. Ma Internet
ci prova!
❑
Piergiorgio Cattani
Dio sulle labbra dell’uomo. Paolo De Benedetti e la domanda
incessante
Il Margine, Trento 2006
pp. 207
Curatore del Dizionario delle opere e dei personaggi, redattore e correttore di bozze, docente di giudaismo a
Milano, Trento e Urbino,
animatore e insegnante di
lingua ebraica nei corsi di
Biblia, la prestigiosa associazione laica di cultura biblica, autore di saggi, libri
e articoli sparsi in riviste
piccole e grandi, semplici e
accademiche, scrittore ironico di letteratura nonsensica (da lui definita «combinazione di totale irrealtà
e totale mediocrità... un’avventurina irrealissima sulla mattonella di realtà, sempre la stessa mattonella»),
voce qualificata del dialogo
ebraico-cristiano, interprete originale dell’ebraismo e
della tradizione ebraica,
amico di Umberto Eco e del
cardinal Martini, Paolo De
Benedetti, definito da Valentino Bompiani «il più
eretico dei cristiani e il più
ortodosso degli ebrei», è
uno di quei rari maestri che,
dal Vaticano II in poi, ha
formato un’intera generazione di allievi e di lettori
che, attraverso i suoi testi,
le sue conferenze e la sua
semplice presenza e amicizia, ha scoperto un modo
diverso e liberante di leggere la bibbia e di parlare di
Dio, come è accaduto all’estensore di queste righe
che, da quando ebbe la fortuna di trovarsi tra le mani
il suo libro La morte di
Mosè e altri esempi (Bompiani, Milano 1971), non ha
più cessato di leggerlo e apprezzarlo.
Piergiorgio Cattani, laureato in lettere moderne e filosofia ed editorialista del
quotidiano «Trentino», che
di Paolo De Benedetti ha seguito un corso all’Istituto di
Scienze Religiose sull’ebraismo, sconvolto da «quel-
l’enigmatico professore che
apriva orizzonti nuovi su di
un mondo – quello ebraico
– perseguitato, dimenticato,
frainteso da troppe generazioni di cristiani» (sono parole sue), fattosi discepolo
e lettore attento delle sue
opere, ha ricostruito, in cinque capitoli, i tratti portanti e originali del suo pensiero: 1. L’ascolto e la scrittura; 2. L’interpretazione infinita; 3. Quale Dio?; 4. La
chiesa e la sinagoga; 5. La
riflessione sugli animali.
Di Paolo De Benedetti il cardinal Martini ha scritto che
«il contatto con lui non finisce» mai «di stupire», perché «egli è come quel padrone di casa che continuamente estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche». Al lettore di queste
pagine, alle quali si deve il
merito di presentare per la
prima volta la mappa orientativa dell’avventura spirituale debenedettiana, la
sorpresa di verificare questo giudizio.
Carmine Di Sante
Brunetto Salvarani
Educare al pluralismo
religioso
Emi, Bologna 2006, pp. 222
Non c’è più la «religione degli italiani»: c’è «l’Italia delle religioni». Questo è il dato
di fatto che Salvarani documenta ampiamente. Ma le
istituzioni hanno colto che
questo è un cambiamento
permanente? Non pare. Gli
antichi rabbini dicevano che
il mondo si regge sul respiro degli studenti. Ma, nonostante tanti anni di insegnamento della religione cattolica (Irc), l’ignoranza religiosa degli italiani è madornale. In particolare, «la nostra
realtà scolastica non è, attualmente, in grado di far
fronte alla nuova situazione» della società plurireligiosa (p. 177).
Salvarani, teologo e scrittore, educatore all’interculturalità, ha promosso in Italia
la giornata di dialogo cristiano-islamico, non ancora
assunta dalla Cei, ma diffusa in centinaia di centri nel
Paese. Egli vi vede un kairos, un’occasione storica di
col-loquio (parlare insieme),
alternativo allo scontro e all’indifferenza.
Il cuore del libro è una proposta per la scuola. Nonostante l’impegno di molti
(non tutti!) gli insegnanti,
l’Irc non è sufficiente per far
prendere coscienza e per
educare al pluralismo religioso. Oltretutto, il regime
concordatario e confessionale, getta i non-avvalentisi
in un monstrum pedagogico, l’«ora del nulla». Sarà
molto difficile superare tale
regime, ma è molto importante parlarne, creare coscienza. La proposta è una
«ora delle religioni». L’esperienza esemplare, ampiamente riferita nel libro, è
quella della città pluriculturale inglese di Bradford, nella quale, dopo un periodo di
scontri interetnici, pedagogisti, istituzioni, leaders religiosi hanno responsabilmente costruito insieme un
programma scolastico articolato per imparare le religioni e imparare dalle religioni. Il fine dello studio fenomenologico delle religioni è
una educazione alla saggezza, alla capacità di convivere imparando reciprocamente, e di scegliere una via
personale che dia senso alla
vita. Il Syllabus di Bradford,
tradotto, si può ricevere gratis scrivendo a [email protected]
La proposta non è solo una
storia delle religioni, perché
ha al centro i testi letterarireligiosi e anche le diverse
espressioni cultuali. Si tratta di affermare nella scuola
la dignità e lo statuto conoscitivo proprio delle «scienze religiose». Finora, invece,
laicismo e clericalismo sono
stati complici nel relegare la
cultura religiosa nel recinto
confessionale. Salvarani
parla di una «laicità per addizione», non per sottrazione: «una laicità, cioè, non di
pura garanzia o di pura distinzione, bensì capace di riconoscere particolari tradizioni, che nel loro impiantarsi non ledano i diritti di
nessuno, ma, semmai, arric-
chiscano la comunità di
nuovi valori e nuovi costumi» (p. 175). In particolare,
l’Autore segnala, come anche grandi intellettuali laici
tra cui Bobbio, l’assurdità di
una scuola in cui si studia
Omero e non la Bibbia, che
è comunque il grande codice della cultura occidentale, incomprensibile senza di
essa. Sarà difficile, in tempi
brevi, superare il regime dell’Irc, ma si potrà immettere
in esso la nuova cultura interreligiosa (senza la quale,
oggi, non si è davvero religiosi). Il problema non sono
tanto gli insegnanti di religione, ma le autorità religiose cattoliche che, in Italia,
non accettano neppure di
discutere.
Enrico Peyretti
Emanuele Severino
Fondamento della
contraddizione
Adelphi, Milano 2005
pp. 483
La scrittura di Severino, si
sa, è assai densa e impegnativa e lo si nota anche in
questo articolato volume
che raccoglie una serie di
testi apparsi a cavallo degli anni cinquanta e sessanta più un inedito da cui
prende il titolo. Il libro è un
altro capitolo della più
ampia riflessione che l’autore, ormai da decenni, va
conducendo ( per dirla col
titolo del suo lavoro forse
più conosciuto) sull’Essenza del nichilismo. In particolare Severino qui analizza e sviluppa il senso e le
conseguenze sulla cultura
occidentale della prima e
più compiuta formulazione del principio di non contraddizione, quella aristotelica della Metafisica, mostrando il turbamento cui
è stata soggetta la filosofia,
almeno da Platone in poi,
quando ha dovuto misurarsi con la possibilità stessa
dell’errore e dell’inganno.
Stefano Cazzato
61
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
Dylan, il Boss e la Finanziaria
i chiederete cosa
diavolo c’entrino
Bob Dylan e Bruce
Springsteen con la nostra
legge di bilancio, argomento principe dibattuto anche
nei bar al posto della nazionale di calcio. Ci azzeccano,
per dirla alla Di Pietro, ci
azzeccano. Il primo pubblica un album intitolato Modern Times, con un omaggio
esplicito a Charlie Chaplin
e al suo celebre film sull’alienazione in fabbrica dovuta
all’implacabile catena di
montaggio. Ma non si limita a questo Dylan, ripesca
anche la musica di quel periodo tra la fine degli anni
’30 e i primi quaranta, con
blues morbidi e ritmati dalle spazzole della batteria, e
ballate da crooner swing da
night club che richiamano
l’atmosfera di quegli anni in
cui l’America si riprese dalla Grande Depressione di
inizio decennio. E Dylan la
evoca proprio, quella piaga,
in «The Leeve’s Gonna Break» là dove afferma: «La
gente per strada trascina
tutto quello che possiede».
L’altro, il Bruce del New Jersey, riprende invece le canzoni folk di lotta contadina
e operaia raccolte o scritte
da Pete Seeger, il padre assieme a Leadbelly e Woody
Guthrie della canzone folk
di protesta, portando anche
in tournée quei suoni di fisarmoniche, banjo, violini,
ottoni che fondendo gospel,
blues, jazz, country e bluegrass sottintendevano
l’America rurale e urbana
dello stesso periodo a cavallo della guerra. Entrambi
dunque schierati dalla parte delle classi lavoratrici,
degli afro-americani, dei più
deboli.
Ecco il nesso: quanto questa Finanziaria dà ai più
deboli, ai lavoratori impoveriti da cinque anni di Berlusconi? Bisogna dire che
il centrosinistra aveva indovinato le prime mosse, gra-
LIBRI
Uruguay
tato dell’America latino con uno sbocco
sull’Oceano Atlantico,
l’Uruguay è delimitato a
nord e a est dal Brasile, a
ovest dall’Argentina e a sudest dal Rio de la Plata.
Esplorata nel 1516 dallo
spagnolo Juan Dìaz de Solìs, la regione si trovò a lungo contesa tra le aspirazioni coloniali della Spagna e
del Portogallo. Il primo insediamento permanente degli spagnoli fu realizzato nel
1624. Sfidando la supremazia spagnola sul territorio, i
portoghesi, intorno al 1680,
fondarono vari insediamenti lungo il Rio de la Plata.
Dopo circa un secolo di rivalità, i due paesi firmarono il trattato di San Ildefonso, che assegnava la regione alla Spagna. I primi anni
del XVIII secolo furono caratterizzati da una serie di
moti indipendentisti, capeggiati dal caudillo José Gervasio Antigas. Dopo aver costituito un governo nazionale, egli avviò un programma
di riforme sociali. Con l’intervento degli spagnoli e dei
portoghesi, Antigas venne
sconfitto, quindi, ripristinato l’ordine, l’Uruguay fu annesso al Brasile con il nome
di Provincia Cisplatina. Nel
1825 i cosiddetti Treinta y
Tres Orientales, sotto il comando di Juan Antonio Lavalleja, dopo aver debellato
i portoghesi, proclamarono
l’indipendenza del Paese, la
cui Costituzione entrò in vigore nel 1830. Agli inizi del
XX secolo, i due movimenti rivali che si scontrarono
in una cruenta guerra civile, in cui intervenne anche
Giuseppe Garibaldi, si trasformarono in due schieramenti politici moderni: i
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
S
62
blancos divennero il partito
conservatore mentre i colorados costituirono il partito riformista. Tra il 1903 e il 1915,
il Presidente José Batlle y Ordóñez, riformò profondamente lo stato sociale, facendo dell’Uruguay il Paese più
avanzato dell’America latina:
fu abolita la pena di morte,
venne garantita l’istruzione
elementare gratuita, fu ammesso il divorzio e venne ridotta la giornata lavorativa.
Indicata come la «Svizzera
dell’America latina» a causa
delle conquiste sociali e la relativa prosperità conseguita,
il Paese vide successivamente deteriorarsi le istituzioni
democratiche e le proprie
strutture economiche. Durante la seconda guerra mondiale l’Uruguay dichiarò
guerra alla Germania e al
Giappone e nel 1945 aderì
alle Nazioni Unite. Nel corso
degli anni Cinquanta, il calo
del prezzo della lana e la diminuzione delle esportazioni di carne, causarono una
grave crisi economica, che
generò un crescente malcontento tra la popolazione. Nel
1958, dopo quasi un secolo
di ininterrotta supremazia
dei colorados, i blancos ottennero una schiacciante maggioranza parlamentare. In
conseguenza dell’avvio di un
severo programma economico, presero corpo forti agitazioni sociali, fomentate anche dalle organizzazioni dell’estrema sinistra e in particolare del gruppo di guerriglieri dei cosiddetti tupamaros. Per far fronte al clima di
profonda tensione che da
tempo attanagliava il Paese,
il Presidente Juan Marìa Bordaberry dichiarò lo stato di
guerra e sospese ogni garanzia costituzionale. Nel 1973
con un colpo di stato, le forze armate assunsero direttamente il potere, venne sciolto il Parlamento e venne instaurata una brutale dittatura. In quegli anni l’Uruguay
attraversò il periodo più buio
della sua storia. Migliaia di
membri del sindacato e delle
forze della sinistra vennero
arbitrariamente arrestati.
Numerose persone furono
torturate e uccise: centinaia
furono i desaparecidos. I militari tentarono di istituzionalizzare il regime dittatoriale
attraverso un referendum,
ma l’esito finale del voto non
permise loro di realizzare
questo obiettivo. Così, nel
1984, si assistette al ritorno
di un civile al potere. Gli anni
Novanta si contraddistinsero
per una forte austerità economica, imposta dalla Banca Mondiale, che prevedeva
il taglio della spesa e dei posti di lavoro pubblici oltre che
la privatizzazione delle imprese statali. Seguirono
un’ondata di proteste e un
forte malcontento sociale.
Nelle elezioni amministrative del 2000 si è registrata l’affermazione della coalizione
della sinistra. Nello stesso
anno, l’Uruguay, investito
dalla crisi economica che ha
colpito Argentina e Brasile,
suoi principali partner commerciali, è entrato in recessione. L’intervento degli Stati Uniti e del Fondo monetario internazionale ha salvato
il Paese dalla bancarotta.
Popolazione: la maggioranza degli uruguayani è di origine europea. Circa il 10%
della popolazione (costituita
da quasi 3,5 milioni di persone) ha una provenienza etnica mista, mentre l’elemento indio è quasi del tutto
estinto. Contrariamente agli
FRATERNITÀ
Nello Giostra
altri paesi dell’America meridionale, l’Uruguay è un
Paese quasi interamente popolato da bianchi. La tradizione culturale autoctona è
stata completamente eliminata dall’occupazione culturale europea.
Religione: fatta eccezione
per la presenza di minoranze di ebrei e protestanti, il
Paese è principalmente cattolico.
Economia: allevamento, la
zootecnica, principale attività del settore, costituisce la
base dell’economia uruguayana, contribuendo per circa il 40% al volume complessivo delle esportazioni, grazie soprattutto alla lana (di
cui il Paese è secondo esportatore mondiale), alla carne
a alle pelli. Anche l’industria
sta conoscendo una fase di
sviluppo: importanti sono la
lavorazione della lana e la
raffinazione del petrolio. La
ripresa economica, iniziata
nel 2004 con una crescita di
circa il 10% del Pil, che si è
ridotto al 6,2% l’anno successivo.
Situazione politica e relazioni internazionali: le elezioni politiche dell’ottobre
2004 hanno consegnato il
potere, per la prima volta
nella storia del Paese, nelle
mani dell’esponente della coalizione della sinistra progressista, il candidato Tabaré
Vazquez Rosas. Una delle
prime misure di politica internazionale assunte dal neoeletto Presidente è stata la
riapertura dei rapporti diplomatici con Cuba, dopo la
brusca rottura durante la
precedente amministrazione. A più di vent’anni dalla
restaurazione della democrazia, ex agenti della dittatura verranno processati in
Argentina per crimini commessi tra il 1973 e il 1985. In
Uruguay una legge del 1986,
e poi approvata tramite referendum, ha introdotto
l’amnistia per i reati compiuti durante la dittatura.
❑
In questo periodo, abbiamo
ricevuto telefonicamente i
ringraziamenti per quanto è
stato dato da Fraternità, ma
ancor più numerose sono
giunte lettere con bollettini
da pagare per arretrati, richieste per acquistare i libri
per frequentare le scuole riaperte, domande di aiuto per
affrontare cure per malattie.
Fraternità si fa interprete e
ringrazia tutti coloro che,
costantemente, consentono
di continuare questo cammino di condivisione con
chi è in difficoltà.
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
che sono giovane ma purtroppo lavoro non ce n’è.
Per giunta sono in depressione e mi servono le medicine per potermi curare. Se
potete non ci dimenticate e
pregate per noi, come io faccio per voi. Vi benedico e
ringrazio con immenso affetto. » D.G.
Due figli con problemi
Grazie
«Cara Fraternità, per prima
cosa spero che stiate tutti
bene e che Dio vi benedica
e protegga. Sono T. voglio
ringraziarvi della vostra disponibilità e buon cuore
che avete tutti. Oggi ho ricevuto la vostra lettera con
la bolletta pagata, vi ringrazio dal profondo del cuore
e che Dio mi possa aiutare
a trovare lavoro». O.T.
***
Senza lavoro
«Vi scrivo dopo un pò per
farvi sapere che purtroppo
le cose non vanno bene:
sono due mesi che sono rimasta senza lavoro perché
la signora dove andavo a
lavorare è partita perché si
è trasferita. Io adesso la
vedo proprio brutta, con
due figli da mantenere, mio
marito che lavora poco perché non trova, non ce la facciamo proprio. Adesso sono
iniziate le scuole e non posso comprare i libri ai ragazzi, abbiamo queste bollette
da pagare di acqua e spazzatura e in più sono in ritardo con l’affitto di casa,
devo pagare due mesi e
sono 300 euro. Prima riuscivo a pagarle le bollette perché andavo pure io a lavorare. Mi rivolgo a Fraternità e chiedo di aiutarmi ancora una volta, mi vergogno
«Carissimi fratelli, sono R.
lavoro saltuariamente per
poter aiutare le mie due figlie che hanno problemi,
una con la giustizia e ha difficoltà a trovare lavoro e l’altra ragazza ha problemi di
salute. Da più di tre anni ha
il diabete e non accetta questa malattia. Fa l’insulina
tre volte al giorno e ha bisogno di mangiare determinate cose, ma io non riesco
a comprarle perché non ho
un lavoro continuo. Spero
mi aiuti il mio Parroco facendomi fare le pulizie in
Chiesa e qualche volta, anche se non ha bisogno, mi
compera lo stesso le medicine. Vi mando la bolletta
della luce che non ho potuto pagare, prima che mi tolgano la luce e rimango al
buio. Ho due mesi di casa
da pagare. Spero tanto che
l’assistente sociale mi mandi a chiamare come fa ogni
anno per lavorare tre mesi
per fare le pulizie a Scuola
o al Cimitero. Vi ringrazio
in anticipo e porgo assieme
alle mie due figlie rispettosi saluti». R.V.
Ashalayam – Casa della
Speranza
«Carissimi Amici e Benefattori, comincio a scrivere questa lettera, dopo esser passato attraverso le
viuzze più contorte e affol-
late di questo lembo della
città di Calcutta, per arrivare alla Casa dei «Ragazzi della Strada». Non è solo
la folla ma sono gli sgangherati bus, i tassì, i tricicli che trasportano ferramenta o verdure ai mercatini... che ingorgano le strade in tal modo che niente
si può muovere, finchè
qualcuno grida: «eh tu,
spostati di dieci centimetri
e tu va indietro un po’... e
tu non aver fretta... mentre tutti i clacson fanno un
rumore assordante.
Sono venuto qui a vedere i
ragazzi della strada e la
loro condizione per parlarvi di questo lavoro faticoso che richiede pazienza,
costanza e molta speranza.
Ashalayam vuol dire Casa
della Speranza, dove sono
accuditi i ragazzi della
strada. Sono ragazzi dai 10
ai 15 anni. Cambiare lo stile di vita di giovani sui 1820 anni necessita tutto un
altro metodo e molto più
tempo.
Cominciata come un semplice posto in cui si distribuivano medicine, poco
alla volta si trasformò in
rifugio per la notte e poi
in un posto dove stare a
cominciare una nuova
vita. Alcuni ragazzi sono
mandati alle scuole governative. Poi si cominciò a
insegnar loro un mestiere,
con la frequenza presso la
nostra scuola di arti e mestieri, poco distanti. Si trovò la necessità di dividerli
in piccoli gruppi a secondo dell’età e a metterli sotto la tutela di un volontario, che si prenda cura di
loro. Alcuni ragazzi si dedicano ai lavori dei campi
e degli orti, dove imparano a coltivare verdure da
vendere poi nei diversi
mercatini. Altri ragazzi
che hanno un pò di pro-
pensione, fanno dei piccoli cartoncini con disegni di
paglia. Le possibilità di
farli industriosi in India
sono molte. Viene dato
l’incentivo a mettere da
parte qualche soldo su un
conto loro, che poi potranno impiegare per fare piccole spese.
A poco a poco, passando attraverso diversi stadi, i giovani si abituano a vivere la
vita in un modo più umano. Non sempre si riesce a
farli preparare al matrimonio, ma una buona percentuale riesce ad arrivare a
metter su famiglia.
Per coinvolgere altri ragazzi di strada, si tengono ogni mese, in posti differenti, delle piccole fiere
organizzate solo per loro.
A poco a poco alcuni di
essi si decidono a stare per
qualche anno alla Casa
della Speranza e cominciare così una nuova fase
della loro vita. I ragazzi
sono educati a dare il proprio valore alle cose, a valutare il beneficio del risparmio. Attorno e nelle
vicinanze ci sono circa 20
centri-famiglie per gruppi
di ragazzi accuditi da una
persona, ma sempre sotto
l’occhio paterno di un sacerdote. Ci sono anche le
sezioni per le ragazze di
strada guidate da Suore e
laici preparati per questo.
Sono organizzati gruppi
di scout e guide che funzionano molto bene. Tutto sommato in questa
Ashalayam (Casa della
Speranza) abbiamo circa
350 giovani che ricevono
un incoraggiamento e forte aiuto a cambiare vita.
Con cuore grato vi ringrazio per l’aiuto generoso
che ci date anche per questo lavoro. Iddio vi benedica. Padre G.V.
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi.
63
ROCCA 1 NOVEMBRE 2006
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
rocca
schede
Vuoi esaminarla?
La trovi alla pagina 2
Una interessante proposta
per te insegnante e per i tuoi studenti
TEMPO di Rocca
TEMPO di scuola
TEMPO di autunno