In Esiodo si compie un decisivo passo avanti rispetto al mito della

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In Esiodo si compie un decisivo passo avanti rispetto al mito della
In Esiodo si compie un decisivo passo avanti rispetto al mito della successione come ci è noto
dal Vicino Oriente. Nella Teogonia ciò che interessa non è soltanto il susseguirsi di diversi signori
celesti, ma uno sviluppo coerentemente orientato verso Zeus. Il dio atmosferico dell'Olimpo non è
un reggente come quelli che lo avevano preceduto: in esso si compie un grande ordinamento, fissato
per tutti i tempi. Il poeta ci dice subito nella prima parte della sua opera (v. 73) che sa di questo
ordinamento, della ripartizione delle sfere di potenza fra gli immortali. La vittoria di Zeus su Crono
e sui Titani assicura questo ordinamento, e così la Titanomachia è anche il punto culminante del
poema. Questa celebrazione della dominazione di Zeus va molto al di là della definizione omerica
del padre degli dèi; Esiodo avrebbe certamente classificato fra i racconti mendaci delle Muse le
risse coniugali dell'Iliade. Ha inizio in lui quella linea che raggiunge il suo culmine nella grandiosa
immagine di Zeus della poesia eschilea. Ma per Esiodo ciò non significa riconoscere questo mondo
come il migliore possibile. Il profondo pessimismo che si esprime con tanta insistenza nelle Opere
si trova anche sullo sfondo della Teogonia. Si riconoscono qui due concezioni in antagonismo, il cui
contrasto dà movimento ai due poemi.
La storia della successione Urano-Crono-Zeus, nell'approfondimento che essa ricevette in
Esiodo, rappresenta un elemento costitutivo della Teogonia. Ma attorno ad esso quanti altri ne
sono disposti ! Dopo il proemio, quando si inizia l'esposizione del poeta, essa è innanzi tutto una
storia del divenire del mondo. Al principio di questa cosmogonia c'è il Caos. Questa parola
acquistò solo più tardi il senso di mescolanza disordinata. Né si devono accettare tutte le
speculazioni che fanno del Caos di Esiodo il risultato di una sorprendente astrazione. Ciò ha inizio
già con Aristotele (Phys. 4, 1. 208 b 28), che concepiva il Caos come lo spazio. Esiodo invece non
intende altro che la profondità spalancata (c£oj; ca…nw) come origine, secondo una concezione
che si ritrova anche in immagini orientali del mondo e che certo non deriva da Esiodo.
Che in questa parte il poeta lavori su elementi tradizionali, appare anche dal carattere spesso
frammentario della sua esposizione. Dapprima fu il Caos: e non dobbiamo chiederci donde
venisse; e quando poi nascono la Terra, teatro dei successivi avvenimenti, ed Eros, e chiaro
soltanto che qui si tratta di un autonomo divenire, non di un atto di generazione. Anche Eros,
come ci mostra il Pothos in Filone, proviene da un'antica riflessione cosmogonica: Esiodo non ha
affatto innalzato al rango di grande divinità cosmica il dio che veniva venerato sotto forma di
feticcio di pietra nella vicina Tespie.
Solo a questo punto comincia la serie delle procreazioni e degli accoppiamenti. Dal Caos
nascono Èrebo (Tenebra) e la Notte. Dall'unione dei due hanno origine i loro contrari: Aither (fine
materia luminosa, aeriforme) e il Giorno. La Terra a sua volta fa nascere il Cielo stellato, i Monti e
il Mare ruggente. Di quest'ultimo e detto esplicitamente che essa lo creò senza unione amorosa,
ma lo stesso vale per il Cielo e i Monti.
Il seguito delle nascite si infittisce sempre più. Possiamo pensare, ma non è detto, che Eros, il
quale non ha una propria discendenza, agisca in tutti gli accoppiamenti. Nella congerie delle
nascite successive si distinguono tre linee discendenti che hanno inizio dalla Notte, dalla coppia
Urano-Gea e dal Mare. La seconda e la terza si intrecciano variamente, la prima ne resta
rigorosamente distinta.
Col grande allargarsi della progenie l'idea cosmogonica è fortemente respinta in secondo piano.
Non interessa più propriamente il divenire, ma la spiegazione di ciò che è, la descrizione delle cose
e delle forze di questo mondo, per le quali, tuttavia, lo schema genealogico resta ancora il principio
or dinatore. Il suo impiego può essere del tutto esteriore, oppure pieno di significato, come nel caso
di Eris (la Contesa), che è madre del Tormento, della Dimenticanza, della Fame e dei Dolori.
Al centro resta la serie derivante da Urano e Gea, che attraverso Crono e i Titani porta a Zeus,
ma per il resto abbiamo una costruzione intricata, fitta di pilastri, travi trasversali e oblique, che
vuole essere un'immagine del mondo. Realtà e mito si compenetrano intimamente, o per meglio
dire: quest'epoca afferra la realtà del mondo soltanto sotto forma di mito. Si dovrà accettare con
riserve l'affermazione, così frequente, che Esiodo rappresenterebbe l'inizio della filosofia greca.
Ponendo questo limite non si vuol dire naturalmente che in questo quadro non fosse pensabile
un'interpretazione del mondo. Basta la discendenza della Notte per dimostrare il contrario. Qui (v.
211) Esiodo ha riunito tutte quelle potenze informi, ma così dolorosamente attive nella vita umana,
che la opprimono e la minacciano: i poteri della Morte, il Biasimo distruttivo, la Miseria,
l'Indignazione, l'Inganno, la Vecchiaia ed Eris, che continua a generare spaventosamente. Spunti di
questa concezione contengono nell'Iliade (XIX, 91) le parole di Agamennone sull'Ate (accecamento
fatale) e il racconto di Fenice (IX, 502) sulle Preghiere (Litai), ma i versi della Teogonia vanno
molto oltre e ci permettono di osservare uno strato sociale in cui i lati oscuri della vita erano sentiti
più direttamente e duramente che nelle sfere dell'aristocrazia.
Non si capisce il senso di questa poesia arcaica se qui, e in casi simili, si parla di
personificazioni. Il Greco di quest'epoca sente direttamente nelle cose del mondo, nelle forze che le
muovono, e nelle relazioni che le governano, la potenza divina.
È facilmente comprensibile che subito dopo l'Inganno compaia l'Amore (Philotes). Esiodo
guardava le donne con occhio critico; quando, nelle Opere (v. 375), dice che chi ha fiducia nelle
donne ha fiducia negli ingannatori, egli precorre la polemica misogina di Semonide. Questa
polemica dà anche il senso alla storia del figlio del Titano Giapeto, l'astuto Prometeo (v. 521). Nella
divisione dei sacrifici egli aveva ingannato Zeus, facendogli scegliere le ossa nascoste nel grasso.
Ossia - così raccontava un'antica leggenda (ma le Muse possono anche mentire) - in verità Zeus si
era accorto dell'inganno e si vendicò sugli uomini privandoli del fuoco. Quando Prometeo lo rubò e
lo portò sulla terra, Zeus lo fece incatenare e impalare e torturare da un'aquila che gli rodeva il
fegato. Poi Eracle uccise l'aquila e liberò Prometeo, non contro la volontà di Zeus, come assicura il
pio poeta. Ma agli uomini egli mandò la Donna, che era stata plasmata dagli dèi: un male bello,
progenitrice di una stirpe oziosa di donne, disgrazia degli uomini.
Nella discendenza della Terra e del Mare si trovano divinità personali come i Titani o il
Vecchio del mare, Nereo con le sue belle figlie, si trovano figure favolose come i Ciclopi e i
Centomani, e ancora fenomeni naturali come il Sole, la Luna, l'Aurora e i Venti. E la dinastia dei
Fiumi, citati con i loro nomi (v. 337) ci ricorda ancora una volta come qui molti esseri stiano fra il
fenomeno concreto e la divinità antropomorfica.
Senza dubbio questa sistemazione genealogica appartiene in gran parte al poeta. Ma ciò appare
soprattutto chiaro quando egli rappresenta antiche concezioni in modo che il mondo diventa teatro
di forze spirituali. Fraintenderebbe Esiodo chi volesse attribuirgli un pessimismo incondizionato.
Egli vede il mondo affollato dai figli della Notte, che tormentano l'uomo, ma anche qui, come nelle
Opere, egli mette in luce coraggiosamente i lati buoni. Nel mondo vigilano la Menzogna e
l'Inganno, la Malattia e la Fame, ma vi sono anche forze buone, conservatrici e benefiche. Esse si
raccolgono attorno a Zeus.
Le Ore sono antiche forze naturali che con le loro cure fanno maturare e diventar belle le cose.
I nomi di Thallo, Auxo e Karpo le collegavano alla fioritura, alla crescita e al frutto. Ma in Esiodo
esse sono completamente passate nella sfera etica. Zeus le ha generate con Themis, l'istituzione del
diritto, ed esse si chiamano Eunomie, Dike e Eirene: giustizia, diritto e pace. Anche le Cariti Aglaie,
Euphrosyne e Thalia sono figlie di Zeus, che con esse ha attorno a sé lo splendore, la letizia e la
gioia fiorente. Mnemosyne, la memoria, gli dà a sua volta le nove Muse, portatrici di larga sapienza,
come esse si proclamano all'inizio della Teogonia. Il pensiero di Esiodo si approfondisce ancora nel
seguito: prima della lotta decisiva egli ha promesso onore illimitato agli dei che vorranno
combattere al suo fianco. Dopo la vittoria Stige gli dà per compagnia inseparabile i suoi figli: Zelo e
Vittoria, Forza e Violenza. Potenze in sé indifferenti, esse ora sono passate nella sfera di Zeus, sono
legate al suo stabile regime. Prima della grande lotta egli ha anche liberato tre Ciclopi dai ceppi in
cui Urano li aveva incatenati. I loro nomi sono Tuono, Lampo e chiaro Splendore. Essi gli danno le
armi con cui egli signoreggia potentemente il mondo. Zeus ha legato per sempre a sé tutto ciò che e
bello e splendente, ma anche minaccioso e terribile.
Anche nelle Opere abbiamo una composizione quanto mai originale. Spesso il poema è
indicato col titolo Le opere e i giorni, benché non si possa attribuire a Esiodo l'aggiunta sul
calendario. La parte autentica può essere definita un poema didascalico soltanto se in questo
termine si comprende il colorito e ricco carattere arcaico. Anche più che nella Teogonia, qui un
brano è unito all'altro per mezzo di nessi ideali che lasciano ben comprendere la ragione del
passaggio, ma non sono membri di un insieme solidamente costruito e chiaramente perspicuo.
Tuttavia nella mossa articolazione dell'opera alcune idee spiccano con particolare rilievo.
La prima parte delle Opere è determinata, nella sua struttura interna, da due antitesi. Lo spunto
iniziale è dato da un caso concreto, dalla contesa di Esiodo col fratello Perse per la divisione
dell'eredità paterna. Il poeta ha fatto brutte esperienze col senso di giustizia dei signori aristocratici.
Ma qui il caso particolare e soltanto lo spunto per estendersi nel generale e per indagare sulle forze
che sostengono l'esistenza umana. La seconda coppia di concetti ci conduce al centro del pensiero
esiodeo, ed era già apparsa nella Teogonia: si tratta della lotta in cui, nello spirito del poeta, un
giudizio pessimistico su questo mondo contrasta con la pia fede in valori di validità assoluta.
Come la Teogonia, nella sua parte essenziale, era una aristia di Zeus, così le Opere si aprono
con un piccolo inno al dio supremo. Il potere di abbattere e di innalzare, che gli è attribuito, non è
un tratto nuovo nella sua figura; ma quando è detto che egli senza fatica «raddrizza ciò che è
storto», sono enunciati qui due concetti fondamentali del linguaggio giuridico arcaico. Uno dei
motivi centrali è impostato quando il poeta prega Zeus di far trionfare l'ordinamento della giustizia.
Il verso finale del proemio esprime l'intenzione di Esiodo, di proclamare la verità al fratello, e così
anche in seguito egli passa dalle considerazioni di portata generale alle apostrofi dirette a Perse.
Nella Teogonia (225), fra i figli della Notte, Esiodo aveva nominato anche Eris, la dea della
lotta. Ora egli si corregge e offre nelle forme del mito una bella testimonianza del suo assiduo
lavoro intellettuale: era sbagliato parlare di una Eris, in verità ce ne sono due, di natura molto
diversa. L'una, quella cattiva, è mandata dagli dèi come un flagello, suscita la guerra e la brutta contesa. Ma la buona Eris è stata profondamente affondata da Zeus nella terra, e così - vuol dire il
poeta - essa è diventata una potenza vitale attiva fra gli uomini. Questa è l'onesta competizione, che
dell'opera di uno fa uno stimolo per l'altro, che vorrà uguagliarlo o (ciò che è più greco) superarlo.
Di qui prendono le mosse le due argomentazioni principali. Perse deve abbandonare la cattiva
lotta tra fratelli. Ciò conduce a quel che il poeta ha da dire sulla potenza e la dignità della giustizia.
Perse deve procurarsi da sé, guidato dalle forze della Eris buona, il proprio sostentamento con
l'onesto lavoro. Ciò porta alle considerazioni sul modo giusto di vivere e di lavorare dei contadini.
La fatica e i tormenti sono imposti come forma di esistenza per l'uomo perché gli dèi gli hanno
negato il facile guadagno. Questo stato di cose è spiegato con due miti che in parte si completano a
vicenda. Anche qui, come nel caso delle due Erides, si ha la testimonianza di un travaglio
intellettuale intorno ai problemi della vita: queste storie non pretendono di trovare una fede incondizionata nei loro tratti esterni.
Il poeta riprende la storia, già narrata nella Teogonia, di Zeus che punisce il furto del fuoco,
commesso da Prometeo, inviando agli uomini la donna. Tutti gli dèi provvedono la donna, che è
stata creata da Efesto con terra inumidita, di doni affascinanti e pericolosi. Per questo essa riceve il
nome di Pandora, che in verità appartiene a un'antica dea della terra. Epimeteo accoglie la
seducente Pandora, nonostante gli ammonimenti di Prometeo, e appena ella solleva il coperchio del
vaso delle provviste (pithos) che ha portato con sé, tutti i mali e le calamità si diffondono per il
mondo. Soltanto la Speranza resta nel pithos, quando Pandora lo richiude. Qui si sono volute
scoprire riflessioni troppo sottili, ma la soluzione è molto semplice. La speranza è naturalmente un
bene per gli uomini tormentati, e fa parte di una storia che racconta, come Achille nell'Iliade
(XXIV, 527), di due vasi che si trovano nella casa di Zeus: essi contengono il bene e il male
separati. Poi i due miti, quello del vaso dei beni chiuso che ne assicura la conservazione, e quello
del vaso dei mali scoperchiato che provoca la loro diffusione, si sono sovrapposti nella storia
esiodea di Pandora e ne è nata confusione.
Dei dolori del mondo Esiodo parla subito in un secondo mito. Nella successione delle cinque
età egli espone la costante decadenza del genere umano. Questa concezione della storia umana è in
assoluto contrasto con l'ottimismo evoluzionistico che incontreremo nel periodo dell'illuminismo
greco. Quattro delle età sono legate a metalli. La prima, l'età dell'oro, è quella di Crono, poi,
attraverso quelle dell'argento e del bronzo, si arriva a quella del ferro, nella quale noi siamo
condannati a vivere. Il mito sta a sé, perché questo Crono, punto di partenza di un'evoluzione che da
uno stato paradisiaco porta sempre più in basso, non è conciliabile con l'ascesa del regime di Zeus
rappresentata nella Teogonia. Che il mito non sia opera di Esiodo, appare chiaro anche dalle
difficoltà che esso gli crea. L'epoca di Esiodo era ampiamente influenzata dall'epos e dalle sue
descrizioni delle figure eroiche del periodo precedente. Dappertutto si indicavano le loro tombe e si
celebrava il loro culto. Questi uomini antichi non potevano essere quelli dell'età del bronzo, che
avevano distrutto se stessi con le loro violenze. Così Esiodo intercala fra la generazione del bronzo
e quella del ferro la generazione degli eroi che avevano combattuto a Troia e parecchi dei quali
avevano ottenuto, dopo la morte, un'esistenza beata ai margini del mondo. In tal modo la linea della
decadenza è interrotta in un punto, al pari della serie dei metalli. Se si osserva anche che il
collegamento con le singole età del mondo è molto esteriore, a maggior ragione si dovrà supporre
che il mito abbia un'origine estranea. Anche qui si dovrà pensare all'influenza di concezioni del
Vicino Oriente.
Esiodo dà il massimo rilievo alla descrizione degli orrori dell'età del ferro, dell'epoca in cui
viviamo. I mali usciti dal vaso di Pandora, le malattie e le altre disgrazie, sono completati qui dalla
decadenza morale di questa generazione. Essa tende a rompere tutti i freni e tutte le leggi. Il suo
destino sarà suggellato quando Aidos (il rispetto morale) e Nemesis (la giusta indignazione)
abbandoneranno la terra.
Il pessimismo greco non è mai, né in Esiodo né in altri, disperazione rassegnata. Il poeta
conosce una luce che brilla al di sopra di ogni oscurità, e nei passi che seguono la fa risplendere con
una chiarezza che illuminò per lungo tempo la storia dello spirito greco. Egli esprime la sua grande
fiducia nei versi 276 ss. Zeus ha determinato la forma di esistenza dei pesci, delle bestie e degli
uccelli in modo che essi devono divorarsi a vicenda. Ma all'uomo ha dato un mezzo per sfuggire a
questa lotta distruttiva di tutti contro tutti: il diritto. Emerge qui, col vigore di un'idea religiosa, la
convinzione della santità, dell’indistruttibilità e della forza salvatrice della Dike, che da questo
momento sarà un oggetto fondamentale della poesia e della filosofia greca. Anche qui occorre
guardarsi dal considerare questa figura una personificazione: Dike è piuttosto l'espressione
antropomorfica di quella potenza divina che e sentita operante in ogni sentenza giusta e nel diritto
come valore assoluto.
Esiodo connette significativamente agli orrori dell'età del ferro la prima favola della letteratura
occidentale, la storia dell'usignolo che inutilmente geme tra gli artigli dello sparviero (v. 202). Qui
è fatta visibile la nemica del diritto, contro la quale egli mette in guardia Perse: la violenza
sconsiderata (Ûbrij). Ma all’uomo giova onorare Dike, perché la sua potenza è grande. Il poeta ne
parla, in maniera arcaica e suggestiva, mediante immagini concatenate. Essa geme forte quando
uomini divoratori di doni, i re corrotti, vogliono trascinarla fuori dalla via diritta. Avvolta nella
nebbia, essa porta disgrazia agli uomini che l’hanno cacciata, poi lamenta l'offesa ricevuta davanti
al trono di Zeus. Nel dio supremo culmina anche qui il pensiero di Esiodo. Zeus vede tutto (v. 267),
ma ha disposto anche 30.000 custodi che vigilano sugli uomini: sono coloro che appartennero
all'età dell'oro. Anche qui, nell'accostamento di più concezioni vediamo come sia libero il
linguaggio del mito. Anche la contrapposizione della città giusta, nella quale tutto riesce
felicemente, e di quella ingiusta, devastata dalla fame, dalla pestilenza e dalla guerra, fa parte
dell'ampio contesto che ha il suo centro nella figura di Dike.
È sbagliato vedere in Esiodo un rivoluzionario sociale. Certamente la miseria dei piccoli
contadini gli ha suggerito parole che erano nuove e inaudite, e alla superbia di casta della nobiltà di
nascita egli contrappone i valori del diritto e del lavoro onesto, ma fa tutto ciò non per dare una
forma diversa alla società del suo tempo, bensì per ottenere che essa si emendi e si purifichi mediante le norme assolutamente valide della giustizia.