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I GIOVEDI’ DI SCRITTURA FRESCA Scrittura a soggetto Ia Edizione Da una idea di Dolphy Grafica di Ettore Bilbo 2 I Giovedì di Scrittura Fresca 3 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Zero 04 Febbraio 2005 LOVE DAY Hanno partecipato: Rossana Un blues Nicola Martini What love is Dolphy You don’t know where love is Mare Mosso Se passi da me GruppoMistoAttack Vivere (suicidarsi d’amore) Nick Damone Stupide parole (d’amore) Dario Carta I just wanna feel real love Umberto Bertani Love bites (per Rob Halford) 4 I Giovedì di Scrittura Fresca UN BLUES scritto da: Rossana Timida, in una ubbidienza inusuale lo ascoltavo. Ci sono uomini che nella vita attendono e ci sono quelli attesi. Lui era atteso. L’animo elegante, la seduzione della serenità rapiscono ogni comune mortale. Un orizzonte levigato, linee di confine tracciate su ombre oltre le quali è impossibile accedere, sono il fascino eterno Anche il suo. Invalicabile, solido. Nessuno smarrimento, solo piena consapevolezza di essere LUI e non solo. "Step by step", dicono gli americani. Musicalità di una vita forse poco attraente, ma viva. Nel passodopopasso, nella metodicità, in una quotidianità rassicurante come le mura di una vecchia casa, dove secoli di storia recuperano il tempo e la distanza è una confidenza che non ci appartiene, abbattendosi con un semplice trillo, incontrai Francesco. “Incontrato” è forse eccessivo, ma di sicuro aveva suscitato in me quel melanconico desiderio di familiarità che ognuno, se pur temendolo, ricerca avidamente. Come avvenne poco importa, eravamo lì, con il ricevitore in mano, ed altro non c’era. Se un telefono è da sempre l’esasperazione di una simbiosi bucolica, lui era la semplicità. Il tradimento, svelato da surrogati di nobili sentimenti trova in questo mezzo la sua apoteosi. In Francesco, no. Non mi sottraevo e lo ascoltavo, ancora, mentre Bessie Smith insisteva nella comunione.. . C’è chi nella notte assorbe il colore vedovile dell’oscurità e chi si inebria della grazia trasparente di astri che macchiano il cielo con casualità. Questo era Francesco. Aveva sete , disse. Lo sentii allontanarsi.. Le dita sfioravano il bordo del bicchiere, e in uno strofinio la grappa, fluttuando, rimandava la melodia di quel blues, per compiacerlo. Se anche non fosse stato così, immaginarlo era sublime e gli apparteneva. Pensai alle mani. Movimenti persuasivi, a volte, forse, giudici intransigenti, ma mai sventati. Nessuno avrebbe potuto darmi la certezza di chi fosse veramente quest’uomo all’altro capo del filo, eppure l’inspiegabile a volte è l’unica verità. Si è fedeli a noi, e questo basta per non chiedersi altro. Mentre la conversazione si spostava da un pudico narrare episodi lontani alla celebrazione di due seni visti, o sognati, in un’ironia che era ancor più seducente del fatto stesso, mi resi conto come la fonesi, vera, un po’ sorda, non scadesse mai in 5 I Giovedì di Scrittura Fresca propagande ammaliatrici. Chissà... LeRoy Jones forse, ascoltandolo, avrebbe orchestrato nuovamente il suo Black, difendendone la malizia. Fedele ai confini, alle accurate attenzioni , mi restituiva con i suoi dissensi e approvazioni, una fiducia che è propria del bambino, dove anche il cinismo più abietto, conserva l’odore pulito e neanche illusori prodotti sostitutivi potranno mai, negli anni, risarcirne quella purezza. Sì, puro. Puro come un blues. Questa fu la conclusione. Non volevo esaltare ciò che si anela , solo constatarne la bellezza straziante. Principi intelligibili, che spesso incatenano il passato, slacciano le funi riformando l’armonia. Ed ecco la meraviglia prendere corpo. Lui.. un blues, sì.. Se i buon pensanti ritengono che gli occhi siano lo specchio dell’anima, la voce ne è la divulgatrice. Arrivammo alla “buonanotte” in un saluto tenero. Chiusi gli occhi…… Il corpo aveva intiepidito le lenzuola , abbandonando il gelo. Spensi la luce. "C'erano uomini su di me e molti altri usavano la frusta ... adesso tutti vogliono sapere perché canto il blues ..." B.B .King 6 I Giovedì di Scrittura Fresca WHAT LOVE IS scritto da: Nicola Martini Che cosa è l'amore? farti male col silenzio devastarti con le parole che cosa è l'amore? è lo stomaco che fa il casqué la pelle gelida la testa che frulla il cuore che si inceppa le gambe immobili le mani vuote l'anima che corre il sole a mezzanotte la luna dentro il vento ridere ad uno sconosciuto odiare il proprio amico ballare in ascensore piangere da soli, è quello che ci fotte. 7 I Giovedì di Scrittura Fresca YOU DON'T KNOW WHERE LOVE IS* *con la complicità di Billie Holiday scritto da: Dolphy Vagano nel silenzio pensieri mixati annullati ridotti a grigia poltiglia senza tempo Night and day Notti solitarie giorni caotici un telefono muto E lei canta Voce suadente che avvolge l’anima My Man Un sax fraseggia accompagna la sua voce i miei pensieri He ‘ll look at me and smile Canta Chiunque tu sia in qualsiasi parte della terra mi manchi da morire Sussurro 8 I Giovedì di Scrittura Fresca SE PASSI DA ME scritto da: MareMosso Se passi da me, stasera vieni pure a mani vuote non sei un ospite non c’è bisogno di fiori o cioccolatini Se passi da me, stasera troverai un abbraccio caldo e un sorriso sincero niente trucco sul viso né abito da sera capelli al vento e scalza a piede libero a casa mia Se passi da me, stasera non sarà una visita di cortesia né una tappa intermedia tra me e il letto Se passi da me, stasera mi troverai così come sono così come mi vuoi Ceneremo a lume di noi mangiandoci con gli occhi senza fretta menù curato nei minimi dettagli E domattina a colazione respirerò il tuo sorriso annegato nel tuo profumo 9 I Giovedì di Scrittura Fresca VIVERE (SUICIDARSI D'AMORE) scritto da: GruppoMistoAttak Donna onesta e madre esemplare (all’apparenza) Sicuramente figlia (prediletta) T’innamorasti senza una ragione scegliendo di sfidare il mondo E niente rimpiangesti Volendo vivere suicidandoti d'amore 10 I Giovedì di Scrittura Fresca STUPIDE PAROLE (D'AMORE) scritto da: Nick Damone Tu hai una casa al mare io non ti conosco - che significato ha poi questo verbo – ma sarebbe bello, insieme a te sedersi sulla sabbia, fuori stagione E allora eccoci qui il mare grigio più che blu, a pochi metri il sale, l’umidità mentre ti parlo io gioco con la sabbia come al solito, sembro distratto invece non lo sono affatto, ma mi imbarazza reggere troppo il tuo sguardo, sono come un attore di teatro che ha bisogno della controscena le mani nella sabbia a cercare sicurezza a cercare parole come perle nascoste Sarebbe bello accendere un fuoco - io sono bravo ad accendere fuochi – e allora raccattiamo un paio di ceppi sperando non siano troppo umidi così il tepore smorza l’umidità sui nostri maglioni e nelle nostre ossa ed io così ho un’altra via di fuga per lo sguardo - un seduttore vile, si è mai visto? oltre alla sabbia e al mare che gorgoglia e a qualche albero, dietro la spiaggia Sarebbe bello, insieme a te sedersi sulla sabbia, fuori stagione e anche fuori tempo massimo, in un certo modo che non abbiamo più vent’anni E può sembrare un po’ diverso allora, si raccontava quel poco di vita alle spalle e poi si parlava dei sogni delle speranze, dei desideri 11 I Giovedì di Scrittura Fresca Ora si parla della vita lasciata alle spalle dei desideri che il tempo ha frustrato e di come ci sentiamo migliori di quanto la nostra vita non dica di noi Alla fine, però il fuoco che crepita il mare che brontola la sabbia che ovatta Alla fine noi due siamo un uomo e una donna Alla fine le parole i brividi e i gesti, non sono poi così diversi dalle volte in cui si aveva vent’anni Alla fine risuonano promesse già sentite e baci e sussurri Il mare, a pochi metri, ripete come noi stupide parole, sempre uguali 12 I Giovedì di Scrittura Fresca I JUST WANNA FEEL REAL LOVE* * “Feel” – Robbie Williams scritto da: Dario Carta Ho letto vene scorrendo il segno del dito premuto scavato a impregnarsi Ho scritto il verdeblu rigonfio e pulsante a radicare sottopelle Ho imparato a percorrermi stanze in cui vivere in cui morirmi dolce di terra bruna dal respiro d'acqua Secolare morte disegnata su ogni cerchio mascherando il tempo predica preghiere di sughero a tapparmi aroma ombroso e fresco di-vino I just wanna feel real love Voglio solo sentire amore puro gemere gemme fuori 13 I Giovedì di Scrittura Fresca LOVE BITES - (PER ROB HALFORD) scritto da: Umberto Bertani La musica martella l’insieme decisamente virato al nero lucido. I materiali assumono un ruolo basilare, decisivo. Hai provato a colpirmi a mano aperta ho percepito lo spostamento e il tuo sorriso viola afferrando a mezz’aria gli artigli laccati. Assapora la parola gutturale è un respiro lento, strascicato dalla trachea infiammata di fumo attraverso il locale tempestato di suoni e carne i tacchi a percuotere varia umanità dimenticata. La musica martella frammenti acuti di decibel scagliati a forza. Mattonelle avariate solfato d’argento macchiato da scritte, nessun riflesso di noi ti sono alle spalle mi regali un sorriso slabbrato cauterizzato dal trucco. Lento inesorabile scricchiolare di costole. Ansimi. Non qui. Nessuna resa mai. Troppo tardi. Sento il tuo cuore, lo sento vibrare, scalciare impazzito ti appoggi al muro, mi basta una lama sottile e il latex cede di schianto. Rovesci la testa all’indietro mentre esigo il tuo sesso nutro la mia sete millenaria. Zanne affilate vaghi ricordi di foreste lontane, carne violata. Noi siamo leggenda. Bevo. 14 I Giovedì di Scrittura Fresca 15 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Uno 10 Febbraio 2005 O D I O Hanno partecipato: Dario Carta Non si tratta di te Leone Girovagando Sally O-D–I-O Uomo Pallido Odio chi ti ha lasciata sola Rossana Io Rorschach Nicola Martini Un pezzo d’odio Edonista Noi, Due in uno Stefano Dal Pra oDio Ettore Bilbo Vestito Carmen M.R.Di Lorenzo La vendetta per giornata dell’odio Doremi L’odio Quella L’ultima notte Angelo Scotto La trilogia dell’odio Un piano perfetto 16 I Giovedì di Scrittura Fresca NON SI TRATTA DI TE scritto da: Dario Carta Quando stavo E solo quando immobile stanavo ogni puntoluce per opprimerlo Allora il sapore basico del palato spendeva tristi prologhi alle lacrime Non era vuoto l’odore sintetico strofinato sul cotone e riempiva le mani del sangue sottopelle a frangere Da non poterle avvicinare - vetro - agli occhi E in quel taglio sottile d’angolo incavo liquido compresso dal sopracciglio carico Mi morivo 17 I Giovedì di Scrittura Fresca GIROVAGANDO scritto da: Leone Odiavo tanto le scadenze che mi sono persino inventata un sodalizio con l'eternità sperdendo intorno tutto ciò che l'effimero richiamava. Amavo odori, soffio di aria diversa colta in passeggio tra prode in campagna, o anche di scalogno in sofferenza dentro pentole di cucine a piano terra. Odiavo profumi, i persistenti bastardi, che si celavano in orli di gonne corte o in incavi smerigliati di belle ragazze, nascosti in vaste trappole di reggiseni, di pizzo e neri, per signore in climaterio precoce. Perversi, i profumi sottili, dissolti da altra essenza in doccia che cancella aromi di pelle purificata che il sudore non vuol conoscere. Poi, insieme con, ho odiato la grazia che mi era stata data ad odiare scadenze e patti d'eternità senza poter recuperare fenomeni. Ora, di spalla, qualcuno corregge Anna, lei, che quando l'ho conosciuta, sedeva su tre gradini di spalle ad una casa, guardando querce là su una ripa grigia, tormentando una gonna lasciata sciolta in mille pieghe. Finalmente!, pareva dire lei, stretta in tessuti di diversa struttura e spessore per una vita. E piegava spiegando, parlando di cose ch'io non capivo, diceva persone vive mentre le seppelliva in piega sfogliata, due orli a combaciare. Tutto tenuto in un grembo inventato da due ginocchia in divarico, un incavo le cosce d'origine, due piedi, che neppure l'età o salite o discese erano riusciti ad appiattire, la fine. Ti odio, Anna. 18 I Giovedì di Scrittura Fresca O-D-I-O scritto da: Sally Ascolta il mio sussurro, o-dio od-io potrei urlare tutta la rabbia che ribolle sorniona. Lo odi-o devo sputare il disgusto profondo per questa razza immonda? Implacabile l'odio rimane Sulle rovine di ciò che fu Terra. ODIO CHI TI HA LASCIATA SOLA scritto da: Uomo Pallido Io odio chi ti ha lasciata sola, particella di sodio spersa in acqua minerale. Sei così bella. Ti regaleremo qualcuno che ti sappia consolare, un'altra particella da sposare: un bello ione Cl meno - così la vita avrà un po' più di sale. 19 I Giovedì di Scrittura Fresca IO, RORSCHACH scritto da: Rossana Volevo un resign. Troppo tardi. Scostai le tende della finestra così che la luce filtrasse dal vetro smerigliato, rendendo ancor più poetica la visione. Un sospiro e la sensazione, il ricordo, la percezione di una macchia La maggioranza avrebbe provato disgusto all’odore aspro e sempre mal tollerato del sangue. Io, assaporandolo, avvertivo invece la pastosità di uva passa che punzecchia la lingua , lasciandoti una secchezza fastidiosa ma desiderabile. Guardai lei e la sua macchia, immagini che si fondevano nel tentativo di riproporre ricordi. Perdendo la definizione , si annullavano i lati oscuri del nostro vivere insieme. Avrei voluto ripiegarla in due, in modo che il rispecchiarsi simmetrico del corpo potesse restituirmi la memoria. Mi inquietava il non riuscire a tracciare una strada cognitiva e legare l'immagine alla psiche. Avevamo vissuto venti anni di convivenza e avevo dato per scontata una conoscenza assoluta. Non era così. Un proiettile apre un’immagine diversa da un coltello ed un suolo marmoreo non assorbe il rosso generato da un corpo esile. Tentai di ricomporre la figura, e ripiegandola evitavo le ombre che distoglievano dall’armoniosità, quasi perfetta, della sua grazia. Nessuno avrebbe potuto smontare la proiezione . Solo io ero l’arbitro insindacabile . Presi la lama, artefice di quell’opera d’arte, e nell’impronta, sbavata sulla carta assorbente, riconsegnavo esattamente la Signora Rorschach del pavimento. Sì, mia moglie. La sindone….Come potevano le antiche culture considerare impuri gli oggetti che erano stati a contatto con i cadaveri? Non me ne capacitai.. L’avevo davanti : l’ulteriore richiamo, la tensione dinamica, assolutamente bilanciata: Specchi di specchi in una simbiotica comunione, ma non completa. Dovevo raggiungere la perfezione. Capii la mancanza. Pulii il coltello, e ricamai una stella nell’avambraccio. La mia uva passa colò, mescolandosi in quel tripudio di vendemmia, mutando l’incompiuta Rorschach La gioia di aver dato soluzione all’enigma di un affetto pregno di dubbi, giustificò la morte. Nessuno mai avrebbe compreso che in una realtà tanto contraddittoria e imprevedibile l’innesto di due macchie ridanno la forma elementare dell’amore. Io, Rorschach, la trovai 20 I Giovedì di Scrittura Fresca UN PEZZO D'ODIO scritto da: Nicola Martini L'idea mi girava in testa da un po', volevo rifarmi ad una scena del film Closer. Rimaneggiarla e tirarne fuori un pezzo erotico. I due protagonisti che si fronteggiano dopo la confessione di lei: ho un altro. Intendevo stringere l'attenzione sulla gelosia, rendere l'idea di come, in quel momento preciso, scatti il pugno nello stomaco, la botta forte. Quella della propria donna fra le braccia di un estraneo. Domande, per farsi male. Farne a se stessi in una ricerca spasmodica e veloce del sapere ad ogni costo. Costringendola a rispondere. Ci hai scopato? E' più bravo di me? Ti ha fatta godere? Che gli hai fatto? Le stesse cose che fai a me? E la raffica di risposte. L'odio che monta dal cazzo al cervello, dal cervello al cuore. Schizza come un disperato, e ne vedi le macchie sull'anima. Fratello, ti stanno massacrando, dice una voce che non conosci. E poi non si pretendono più repliche. Mi avvicino. Non sono carezze, è afferrarla e buttarla sul letto. E' baciarla come se la lingua fosse spada, come se la saliva fosse sangue a macchiarle le labbra. Cominciare a fotterla e proseguire a fotterla. Distesa, a braccia aperte. Colpi, solo colpi, colpi dentro. Fino a che le sue braccia si chiudono su di me. Fino a sentirla sussurrare: ti amo. Vedere i suoi occhi di un altro colore, anche se il colore non lo hanno cambiato mai. E la sua voce: non è vero. Non è vero, cosa? Non è vero che ho fatto l'amore con un altro. Il concetto di base era questo, adeguatamente sviluppato a tema odierno, mi pareva potesse funzionare. L'elaborazione della gelosia in momentaneo livore. Al ché ho cominciato a pensarci, col foglio bianco davanti. Ché prima butto giù su carta e poi trasferisco al PC, la primissima stesura è sempre su foglio. Ma il pensiero mi è piombato addosso, mentre vedevo la situazione nella mia testa. L'avevo davanti agli occhi, come se la stessi guardando su un monitor. Il desiderio mi ha preso e non sono riuscito a scriverlo, il pezzo sull'odio. 21 I Giovedì di Scrittura Fresca NOI, DUE DI UNO scritto da: Edonista - Ti hanno mai scoperto, amico? O dovrei dire amica?- Fai tu, per me è lo stesso - Ok, allora scelgo amico - Non ho mai fatto nulla per nascondere chi fossi. Qualcuno sapeva. Per altri ho solo utilizzato la tecnica dell’omissione. - E poi? - Poi non ho più omesso - E cosa è successo? - Che sono morto. Ogni tanto ci torno dentro. Un gesto velocissimo rovescia il guanto giallo di gomma e la mia anima cambia sesso. Divento l’uomo sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente, l’amico di un tizio che saluta i treni con la coda di cavallo. Io sono un canto senza padrone. L’ho detto tanto tempo fa e lo confermo. Nel dritto e nel rovescio del guanto. Nella mia anima femmina e maschio. Nell’alternanza dei giochi di ruolo. Io parlo a testa in giù. Sempre. Quando le parole vengono direttamente dalla pancia tanto vale agevolarle. Io sono la risposta sbagliata. A tutte le domande. Probabilmente perché sono l’affermazione. Della negazione. Io sono la mezzanotte del fiume. Aspetto tutte le sere l’uomo in frak. Poi, quando la gardenia si tuffa, andiamo insieme verso il mare. E oltre. Io non ho più fiato per ascoltarmi. Io sono un’intercapedine di parole. Parlo con gli occhi e non mi vedo. Io sono un vespro clandestino. In cerca di una chiesa che obliteri il mio permesso di soggiorno. Io ho infiniti punti dispersi tra le ascisse e le ordinate. Miliardi di ritagli di guanti gialli. Dita vuote nel dritto e nel rovescio di una vita di gomma. Io sono il non vento di un mulino a vento. Io sono la sbarra del passaggio a livello di un binario morto. Osservo immobile. E inalo luoghi dove andare a male. Io ho pensieri di carta pesta che vivono di colori spenti. E muoiono di luce riflessa. Io ho un albero in giardino e un bastoncino di legno alla gola. Il primo mi serve per pensare. Il secondo mi serve per scrivere. Inchiostro finto su pezza. Io sono attento alla cosmetica del nemico. Studio e aggredisco da dentro. Come un 22 I Giovedì di Scrittura Fresca virus. Io vivo nel posto del buio e mi nutro di similitudini avverse. Correnti e tentacoli. Io sono l’ago impazzito dentro una bussola di pelle bagnata. Io sono l’acqua del mare. Poi che la bevvi. 23 I Giovedì di Scrittura Fresca oDio! scritto da: Stefano Dal Pra Spesso è così: quanto più è scomoda da udire, tanto più una verità è utile da dire André Gide Sono condannata. Sarò eliminata fra poco, e nessuno saprà più di me, e del mio messaggio. Non ho avuto vita facile, mai; ma prima di trovarmi qui, da libera, si poteva dire quel che si voleva, e non si faceva male a nessuno, almeno questo è quel che credo oggi. Sì perché ce n'erano davvero un sacco come noi, e ognuna diceva la sua, con l'effetto buffo d'annullarsi a vicenda, col risultato d'essere, per così dire, quasi mute, come una folla d'oratori al mercato, dove nessuno badi per davvero a quel che si dice o si fa. Poi venne quest'idea dell'ordine. Gran cosa l'ordine. Uno sa com'è fatto il Mondo e così fa ordine. Sa cosa esiste davvero, e sa in quale posto deve stare qualsiasi cosa esista. Così può fare ordine. Che gran comodità, l'ordine! Basta intralci, sgradevoli sorprese, scomodità. Quando c'è ordine si sta tranquilli, e la coscienza può riposare beata, senza darsi pensieri imprevisti. È così che sono finita qui: il Mondo non ammette la mia esistenza. Intendiamoci, non sto mica dicendo che sono un fantasma, o un borborigma di fantasia malata... No, io parlo del Mondo di chi mette ordine: l'ordinatore (permettetemi: permettetemi, solo per questa volta d'abusare un francesismo, cosí per vezzo, e di chiamarlo ordinateur) prende quel che trova, lo riconosce e individua la sua collocazione nel Mondo che sa Lui, e lo mette al suo posto. Poi, una volta, sono capitata io tra i suoi piedi e... Voilà, salta fuori che l'ordinateur non trova un posto per me, per mettermi in ordine. Pensavo che si sarebbe creata una nuova casella, pensavo che una categoria nuova avrebbe figurato nel cristallino Mondo dell'ordinateur, creata per posizionarmici mettendo, anche me, finalmente, in ordine. E invece no. L'ordinateur, non trovando una collocazione comoda, ha concluso che non esisto, che sono fuori dal Mondo, e ha deciso di eliminarmi. Sí perché l'ordinateur ha questo potere, che per fare ordine colloca le cose, e allora sono cose di Mondo, belle in ordine, oppure le elimina perché non esistono, non hanno possibilità d'essere nel Mondo che Lui sa. Ammettermi sarebbe un pericolo per il Mondo (il Mondo con la M maiuscola, è quello dell'ordinateur, il mondo è quello fuori, con tutto quel caos, quel disordine...). Insomma, quando trova qualcosa che non sa dove mettere, l´ordinateur lo elimina, per la salvezza del Mondo. Questa è la legge dell'ordinateur. Eccomi qua, adesso; sono in lista di proscrizione, sto per essere eliminata. Sono un fallimento per il Mondo, sono un'idea fuori dal Mondo e non c'è posto per me, in questo sistema. Sono l'idea che si possa mettere ordine, a questo Mondo 24 I Giovedì di Scrittura Fresca VESTITO scritto da: Ettore Bilbo Lei mi odia da quando sono nato, sì più o meno direi da allora. Mi guarda con quegli occhi accesi, la testa reclinata a tre quarti mentre fa tutt'altro. Fa sempre altro mentre mi guarda, deve farmi sapere che io non sono il centro del suo universo ed anche se mai ho voluto esserlo, che c'entra, l'importante è il principio. Sentire addosso questo vestito diventa elettrizzante col tempo, diventa un buon motivo per svegliarsi al mattino e sperare di arrivare a sera. Sentire riprodotti nella mia mente tutti quei bisbigli ed invettive, che mi rivolge nella propria mente, è come potersi raccontare attraverso la voce di qualcun altro. Lei è il mio più grande sostegno e non lo sa. O forse sì... Lei mi odia. Lei, mia madre. LA VENDETTA scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo La vendetta è l’infausto rigurgito dell’offesa che genera odio. 25 I Giovedì di Scrittura Fresca L'ODIO scritto da: Doremì L'odio: quer sentimento che te corazza er core che te fa duro er mento (contrario dell' amore che l'anima te sforma er mento te lo stonda che soridi de norma) ma l'odio è come n'onda de iodio e sale vivo te dà quer gusto strano de sentitte cattivo, feroce, subumano. E sogni la tua festa: incontri er tuo nemico je dai un mozzico in testa j'enfirzi l'ombellico poi legato alla sedia lo lasci, da cojone morire per inedia alla televisione. 26 I Giovedì di Scrittura Fresca L’ULTIMA NOTTE Scritto da: Quella Morte per coma etilico. C'era solo una cosa che non quadrava. Una sola. Si sarebbe potuta rivelare una balla, ma quella cosa ancora suonava stonata nella semplicità del caso, un'overdose etilica. Era quasi certo che fosse una balla, l'ispettore Blowing, quasi. Però la madre insisteva: la figlia era astemia, l'avrebbe gridato fino alla morte. L'aveva dichiarato sin dal giorno del referto dell'autopsia, sconvolta dalle cause che avevano determinato la morte. L'aveva ripetuto con determinazione ancora quella mattina quando, in centrale, era ritornata alla carica. Tossica sì, fino al midollo, dieci anni di calvario, lo sapeva bene la madre. Una vita dentro e fuori dalle comunità, fuori e dentro casa. Furtarelli, prostituzione. Il solito curriculum. Come odiare se stessi e rendersi infelici. Le prime testimonianze confermavano. La Tonelee tossica lo era senza ombra di dubbio. E confermavano anche che l'alcol la disgustava addirittura, mai nemmeno un bicchierino. Era possibile? L'ispettore Blowing ne aveva conosciuti pochi di tossici astemi. Magari non erano tutti accaniti bevitori, no, non era affatto detto che fossero alcolisti, ma non era necessario esserlo per farsi come spugne ogni tanto, magari per accompagnare l'ultimo viaggetto. Tutto sommato, lui non ci credeva. Vanessa Tonelee era un'indiana nativa americana, un'emarginata, una tossica, una prostituta, una sbandata, e l'alcolismo era una delle piaghe della comunità. E una madre è sempre una madre. L'ultima persona ad averla vista, proprio in quella stanza dove avevano rinvenuto il cadavere, era stato l'uomo con cui aveva passato la notte. L'avevano già interrogato. Uno sfigato, una nullità. Barbiere, cinquantasette anni, l'aria dimessa e grigia dello scapolo abitudinario, viveva del suo lavoro. Nessun precedente penale. Non avevano fatto troppa fatica a rintracciarlo. Andava abitualmente con le prostitute della zona, non aveva avuto problemi ad ammetterlo. Il nome della Tonelee non gli diceva niente, o almeno così affermava. Ma dalle foto l'aveva riconosciuta. L'aveva lasciata all'albergo, una topaia, verso la una di notte. Il decesso risaliva a qualche ora dopo. Le dichiarazioni degli altri clienti dell'albergo a ore facevano riferimento a un tramestio, non proprio delle urla, anzi, qualcosa che era sembrato più che altro un festino, insomma rumori. Normale amministrazione in un posto come quello. Quel casino proveniente dalla stanza della coppia occasionale, sempre secondo le testimonianze, era cessato più o meno intorno all'ora in cui Virgil Wolf aveva dichiarato di essersene andato dopo aver pagato la ragazza. Erano arrivati alle undici, aveva detto. Per scaldare la serata, avevano iniziato a bere. No, non avevano fatto sesso. Avevano bevuto troppo. La ragazza, poi, continuava a buttar giù pasticche. Lui aveva cercato di dissuaderla, minacciando di piantarla lì senza un soldo, ma lei aveva continuato a bere. Lui aveva alzato la voce e aveva fatto per togliere di mezzo le bottiglie, ma a quel punto lei aveva preso a insultarlo. Spaventato per la perdita di 27 I Giovedì di Scrittura Fresca controllo della ragazza, se n'era andato, lasciandola completamente sbronza e fatta nella camera, che lui aveva pagato in anticipo. Non ricordava di aver notato qualcuno. Il bambino se ne stava in braccio alla nonna. La signora Tonelee parlava con la lentezza di chi ne aveva viste troppe per perdere il controllo davanti allo sfacelo, e ritornava a battere sullo stesso chiodo: è stata uccisa. Il bambino se ne stava quieto sul suo petto. Blowing si chiese se, anche senza capire, fosse in grado di assorbire le vibrazioni sentimentali del suo colloquio con la donna, negative a dispetto della pacatezza dei toni. In quei quattro giorni, abbarbicato al collo della nonna, quel bebé doveva aver sentito più cose sulla morte violenta della madre, forse assassinata, di quante ne aveva sentite lui nel primo mese alla scuola di polizia. Dalla scientifica, il quinto giorno, l'esame del tasso alcolemico aveva spezzato ogni residuo dubbio sulla stranezza del caso. La concentrazione di alcol nel sangue della vittima aveva dell'incredibile e sorpassava di gran lunga le dosi consigliate a chi volesse spararsi nel mondo eterno dei sogni con un'overdose. L'alcolemia era del 14%, quando bastava meno della metà di alcol nel sangue per provocare un arresto cardiocircolatorio. Come aveva fatto la Tonelee a spararsi la restante percentuale, posto che doveva essere fuori combattimento da un pezzo mentre il whisky ancora scorreva? Mai sentito niente del genere, Blowing. Il caso non era chiuso. Qualcuno aveva fatto fuori con una botte di superalcolici Vanessa Tonelee, una tossica astemia. Le indagini erano ritornate a orientarsi sulle frequentazioni occasionali dalla vittima. Blowing aveva ordinato a Berg di fare una ricerca su eventuali casi simili, ragazze morte per overdose alcolica negli ultimi quindici anni. Era stato rintracciato un altro saltuario cliente dei periodi bui della ragazza, Arty Capace, un quarantenne borderline con precedenti davvero poco raccomandabili. La perquisizione dell'abitazione di quest'ultimo aveva rivelato interessanti reperti pornografici. Wolf, il prezioso ultimo testimone, era stato nuovamente sentito, ma non c'erano indizi concreti a suo carico. La stranezza dell'uomo, controllato e disponibile, quasi untuoso, di un ordine maniacale nella sua bottega, era per l'ispettore Blowing qualcosa di indefinibile. Ne aveva ordinato l'immediata sorveglianza. Berg era un agente eccezionale, nonostante dicesse di odiare quel lavoro. Il ruvido Blowing gli voleva bene, ma sperava che ottenesse il più tardi possibile il trasferimento dalla sezione, anche se conosceva i seri motivi familiari e personali per i quali ne aveva fatto richiesta. Del resto, lui stesso non ce la faceva più. Allo squallore e alla violenza non ci si abitua mai veramente, non se li vuoi combattere davvero; c'erano colleghi a cui piaceva, ma quelli erano entrati in polizia, sospettava, perché in fondo erano loro stessi violenti, ma non gli piaceva avere noie. Gli veniva in mente il bambino piccolo, il figlio della Tonelee che assorbiva impotente dal petto della nonna tutto quel dolore, quella rabbia. Ma lui non l'aveva 28 I Giovedì di Scrittura Fresca mai pensato davvero di andarsene. Si sentiva troppo bravo per farlo. C'erano le sconfitte, le fregature, ma erano più frequenti le vittorie, i casi risolti, i criminali inchiodati. Anche se poi… anche se poi troppe volte, nella fase processuale, riuscivano a cavarsela. Non per colpa sua, però. Non per la sua inadempienza. Era un tipo ostinato, che non mollava l'osso. Troppo ostinato per lasciarsi sfuggire un'intuizione, troppo ostinato per mollare quella sezione tetra. Questa volta, però, c'era mancato poco. Se non fosse stato per l'ostinazione, nongià sua, ma della signora Tonelee, l'assassino ora avrebbe dormito più tranquillo. Wolf era apparentemente tranquillissimo, almeno di giorno, ma chissà se le sue notti lo erano altrettanto. Capace era un tipetto molto diverso, invece. Spaventato, quasi paranoico, aggressivo. Anche lui era stato messo sotto sorveglianza. Dall'indagine d'archivio dell'agente Berg, erano emersi altri quattro casi di ragazze decedute per coma etilico. I loro profili erano molto simili a quello di Vanessa Tonelee. Solo una delle quattro ragazze, Janine Parker, era un'americana bianca e non aveva precedenti di sorta. Le altre tre erano ragazze sbandate di origine indiana, alcoliste, dedite alla prostituzione; due di esse, come la Tonelee, erano anche tossicodipendenti. Berg aveva già passato al vaglio i dossier delle inchieste, le trascrizioni degli interrogatori dei testimoni. Nessuno dei quattro casi, per quanto sospette fossero le dosi di etanolo rinvenute nel sangue delle donne morte, si era trasformato in un'indagine per omicidio, a parte quello della trentottenne Hanna Momaday, che era stato archiviato come sospetto omicidio, a causa dell'elevata alcolemia rilevata dall'autopsia e, soprattutto, delle ecchimosi su tutto il corpo della donna, che probabilmente si era difesa da un'aggressione. L'ultimo a vedere Hanna Momaday, trovata morta in un motel alle porte di Salem tre anni prima, era stato il barbiere Virgil Wolf, cinquantaquattrenne di razza bianca, incensurato. Bingo. A quel punto Blowing non gli aveva tolto gli occhi di dosso, senza fare alcun rumore. L'uomo pareva sicuro di sé. Il telefono era stato messo sotto controllo, ma nessuno gli telefonava mai, ed evidentemente nemmeno lui aveva qualcuno da chiamare. Un uomo solo, il nostro Virgil, aveva pensato. Lui non avrebbe mai telefonato a un tipo come Virgil. I pedinamenti notturni avevano invece confermato una predisposizione ben precisa per certi luoghi e per un certo tipo di compagnia. Poi Blowing era scattato. Gli erano piombati addosso sul luogo di lavoro, con un mandato di perquisizione e un avviso di garanzia. Erano stati molto meno gentili, con il gentile Virgil, questa volta. Gli avevano sbattuto davanti Hanna Momaday a colori. L'avevano incalzato. Il vecchio aveva vacillato, si era agitato, si era persino adirato. E aveva iniziato a contraddirsi, ma mai abbastanza palesemente. Non ricordava. Poteva essere. No, non l'aveva mai vista. E la sera della Tonelee? Era sicuro di essersene andato all'una? Un cliente l'aveva visto sgattaiolare dall'albergo molto più tardi, diciamo verso le due, forse anche più tardi, aveva bluffato Blowing. Il bastardo c'era rimasto parecchio male, era in preda all'agitazione, però non aveva mollato. Su quel punto non si era rimangiato niente. 29 I Giovedì di Scrittura Fresca Berg e il tenente Castillo l'avevano pensata sporca. Ma a Blowing piaceva l'azzardo. Iniziava a temere che solo così avrebbero potuto incastrare quel maiale. Cominciava a pensare all'indiziato in questi termini. Non tutti i presunti colpevoli gli stavano sul culo, ma con certi proprio non ci si poteva fare niente. Ti veniva da odiarli. In questo caso era forse la sua natura femminile, vista la tipologia delle vittime e considerato come iniziava a immaginare si svolgessero gli omicidi del serial killer. La Castillo si sarebbe fatta esca. Perché funzionasse, bisognava agire con destrezza. Il rischio a cui esponevano la collega non era uno scherzo. Sarebbero intervenuti cogliendo Wolf sul fatto. Nancy Castillo aveva adescato Wolf all'angolo di Perth Street senza troppa fatica. Vacillando vistosamente, ridendo e stuzzicandolo, l'aveva condotto allo Charme Hotel, non lontano da lì. Per la strada, mentre lo seguiva a breve distanza, nascosto nel buio, l'uomo, nell'abbandono intimo di quel suo momento privato, parve a Blowling un'altra persona. Provò un brivido di piacere. Non avrebbe mai abbandonato quel lavoro di merda. La squadra di pronto intervento li aspettava all'albergo, appostata nelle due stanze accanto. Nella camera di Wolf, la numero 22, le cimici trasmettevano i movimenti, i dialoghi, le risa alterate di Castillo e quelle sibilanti di Wolf. Gli uomini erano tesi. Wolf non rideva veramente. Parlava poco, incitava Nancy a bere. Poi ci furono quei colpi ovattati. Sentirono l'urlo soffocato. No, non ancora. Ma era questione di attimi. Ci fu il secondo urlo. I tre agenti armati della stanza di Blowing erano già in corridoio, pronti a fare irruzione. Berg era nell'altra, la 24, e stava uscendo in quel momento, terreo in volto, seguito da Bentley e Mahoney. La donna stava supina sul letto. Le gambe piegate ad angolo retto sul bordo tentavano di scalciare, bloccate dal peso dell'uomo ritto in piedi, riverso su di lei. Una mano le tratteneva i polsi al di sopra della testa. Con l'altra reggeva una bottiglia verticalmente. Quasi tutto il collo di questa era penetrato nella bocca della donna, costretta a ingerire velocemente il liquido per non soffocare. Ecco com'era finita Vanessa, com'erano finite tutte le altre, con una bottiglia fino in gola, a lottare per tanto, tanto tempo, prima che la nausea le strozzasse e la morte non le prendesse. Sperò che almeno per l'astemia Tonelee quel momento fosse arrivato presto. Per un secondo, Blowing aveva colto l'espressione dell'uomo prima che si rendesse conto dell'intrusione. E si era chiesto con disgusto se anche a lui nell'amplesso venisse fuori quella faccia ebete, animale, di godimento e di odio. Perché era chiaro che quel bastardo del vecchio Virgil stava scopando, nella sua testa. Porca puttana, se non credeva che gli stavano facendo un bel pompino. [Liberamente ispirato a un fatto di cronaca americana realmente avvenuto] 30 I Giovedì di Scrittura Fresca LA TRILOGIA DELL’ODIO scritto da: Angelo Scotto VIZI E VIRTÙ Non ho un eloquio fluente per divertirvi, né quell’istruzione che vi aiuta così tanto quando annaspate. Non ho un bell’aspetto né motivi per apprezzarmi ma ho un oceano di rabbia in cui potreste nuotare, sino ad annegare. L’UOMO CHE ODIA Non mendicate da me parole di conforto quando prostrati dai venti dareste la vita per un pietoso sollievo io sono lo stesso cui negaste aiuto perché ero diverso e unico regalo ebbi odio per me, per voi. Oggi troneggio su di voi ma non mi apro alla pietà non perdono i grandi perdonano ma io sono un piccolo uomo condannato ad odiare le vostre lacrime nutrono il mio sangue. 31 I Giovedì di Scrittura Fresca COSI’ Ogni giorno è un digrignare in più i denti ogni sguardo è un coltello ogni passo è una ferita. Incredibile quanto possa scendere in basso. 32 I Giovedì di Scrittura Fresca UN PIANO PERFETTO scritto da: Angelo Scotto Cara Laura, questo messaggio è per comunicarti che quello che è successo non è altro che la mia vendetta. Vendetta. Forse pensavi di poter comportarti come ti pareva, trastullarti alle mie spalle, prenderti gioco di me sempre e comunque. In effetti se fossi stato al tuo posto lo avrei fatto anch'io: è notorio che a chi ti ama puoi infliggere ogni dolore, e quello non reagirà, non contro di te almeno. Già, è sempre stato così. Quasi sempre. E in quel quasi rientro anche io. Prima no, prima non ero poi tanto diverso dagli altri: quanti mesi, per quanti anni ho accettato prima la tua indifferenza, poi la tua ostilità, e infine il tuo scherno? Ma ero pronto a farlo, perché ero innamorato. Mi ricordo i miei amici che mi dicevano per quale motivo mai dovevo rovinarmi l'esistenza per una donna che non mi voleva né mi apprezzava, e io sempre rispondevo che le vie dei sentimenti sono irrazionali, non possono essere comprese, ma solo percorse. Lo penso tuttora. Ma queste vie hanno cambiato strada. Non dico di aver perso interesse verso di te, se fosse stato così non sarebbe avvenuto quel che è avvenuto. Tanti anni di passione esasperata, parossistica, non possono essere cancellati, né superati: quando decidi di immolare tutto il tuo io a un sentimento, non puoi più tornare indietro, e a quel punto devi solo sperare di aver puntato tutto sul sentimento giusto. Così ho fatto io, e ho perso. E quali sono stati i risultati della mia sconfitta? Deriso, preso in giro proprio da te, divenuto oggetto di scherno da mezza città, dalle mie vecchie compagnie, da tutta la piazzetta, dagli avventori di ogni locale e di ogni ritrovo. E un pregiudizio di squilibrio mentale impresso a fuoco sul mio petto, ormai indelebile. Indelebile. O forse no. Un modo c'era per cancellare quel pregiudizio. Ma dovevo prima studiarlo. Dovevano considerarmi squilibrato solo perché innamorato? Sì, è normale in un mondo dove nessuno crede più che ci possano essere passioni così forti. Per questo hai potuto trovare sempre così tanta compagnia nel ridere di me. Ma se fossi riuscito a dimostrare che il mio era davvero amore, e non debolezza di mente, allora avrei messo a segno due colpi: eliminare il pregiudizio nei miei confronti, e mettere sotto gli occhi di tutti la tua meschinità. Chiaro come il sole. Unico problema: "come" dimostrarlo? Quando un pregiudizio è profondo, bisogna essere drastici per sradicarlo. Il metodo 33 I Giovedì di Scrittura Fresca più drastico, dunque. Uccidermi. Ho riflettuto a lungo prima di farlo. Ma non per paura della morte, no: ho perso tutto, considerazione, rispetto, felicità, futuro; cosa può fregarmene della vita? No, l'esitazione era dovuta a te: potevo essere così duro nei tuoi confronti? Sì. Non lo avrei mai creduto, ma la mia passione si è trasformata: da amore che era, si è evoluta in un odio sordo, un odio feroce per te e per tutto il male che mi hai fatto, per aver bruciato ogni atomo del mio essere, per avermi costretto a fare ogni cosa in funzione di te e di nient'altro. Come sia stato possibile questo cambiamento non lo so, ma non mi stupisce: le vie del sentimento sono irrazionali, l'ho già detto. Per questo mi sono ucciso, per vendicarmi, per sprofondarti nel disprezzo, per far sì che tutti ti evitino e abbassino la testa quando passi, per farti capire cosa vuol dire essere abbandonati da tutti, essere marchiati a fuoco da un'opinione che non si può cancellare. Mi sembra già di sentire le voci di chi dirà che è stato un gesto di disperazione. No, mai ho compiuto un gesto più razionale e meditato. E senza testimoni, tranne questa lettera che non puoi diffondere perché non ti crederà nessuno, a te che dicevi che ero un sempliciotto, e non farai altro che rinforzare l'ostilità nei tuoi confronti. Un piano perfetto. Addio 34 I Giovedì di Scrittura Fresca 35 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Due 10 Marzo 2005 UN GIRO DI VALZER Hanno partecipato: Doremi Ettore Bilbo Massimo Botturi Uomo Pallido Gerardo Sorrentino Idea Vagante Asclepio Vaan Necatrix e Maiko Nicola Martini Nicola Claudia Demik Marimari Leone Omar Kesabian Serenella Dolphy Fabrizio Dario Carta Talesien Alessandro Gabriele Carmen M.R.Di Lorenzo 36 Un giro di valzer Una mazurca triste sul sopracciglio dell’universo Waltzin’ Matilda Ti porto a fare un giro, ma di Valzer Ancora un giro di walzer Sul Palmo della Mano Scheda 407: la signorina Jolanda Un giro di valzer al turno straordinario A giro di valzer In giro di valzer con Juliette Greco e, in stile Orcabboia! Ma è proprio il giro d’Italia! E io sto al giro di valzer Un giro di valzer Agnese e la sua tela L’ultimo ballo Una volta, antica Vertigine Valzer Gita a Friburgo Un girello di valzer Un giro di valzer Un giro di valzer Ostinato Fiore Circolare Un valzer di Fiori I Giovedì di Scrittura Fresca UN GIRO DI VALZER scritto da: Doremì Una serata estiva, una pizzeria all’aperto con annessa balera e orchestrina di liscio. Lei e lui hanno finito di mangiare e si godono qualche raro refolino di fresco. Più in là, sulla pista, volteggiano coppie di età disparata a ritmo di slow, mazurche, latinoamericani. Ed ecco che dopo un piccolo intervallo l’orchestrina attacca un valzer. -Oddio, il valzer! Almeno un giro di valzer potresti anche farmelo fare. - Lo sai che non ballo. - Eddai ti prego, così come viene viene (lo tira per un braccio). - Ma non sono capace, dai, balla tu! - E con chi, da sola? - Ti metti lì in mezzo e ti invitano subito. Ce ne sono un paio che non ti levano gli occhi di dosso. - Ma guarda che sei un tipo! Io voglio farlo con te, scusa, è il nostro anniversario… - Appunto, ti ho portato a cena fuori no? - Sì, alla casa del popolo, sai che novità, ma guarda, mi sta bene, benissimo… solo che vedere in pista tutte quelle coppie e pensare che non posso avere il piacere di essere invitata da te, così, come gesto galante, solo perché sai che mi farebbe piacere… mi sorprenderesti no? Sarebbe romantico. - Ma vien via topino, sono rigido come un baccalà, ti pesterei i piedi. - Vabbè, ti guido io, oppure lo balliamo come un lento, (fa la voce da gattino) solo per stare abbracciati in pista… - Ma non ti abbraccio abbastanza a casa? - Lo vedi che non capisci un tubo? Non è la stessa cosa! - Ecco che arriviamo sempre lì, io non capisco un tubo, tu sei quella che capisce sempre tutto…. La devo fare controvoglia sta cosa? Via facciamola! (La tira per il braccio) - No, così non mi va… - E no, adesso balliamo, che poi non voglio musi! - Che stronzo… ti pare che voglio farti fare un gesto carino nei miei confronti ‘ controvoglia’? Mica dev’essere un dovere! - Ecco appunto, che di doveri ne ho già abbastanza. - E infatti, chi ti dice che devi farlo per forza. Il problema è che non ti viene spontaneo! (Muso lungo. Si mette a sedere con le braccia incrociate) - Okkei, mi sta venendo spontaneo, (faccia incazzatissima) guarda, muoio dalla voglia, balliamo! -Noo! - Adesso invece balli, se no vuol dire che vuoi rompere solo i coglioni! - Vaffanculo! Balla con chi ti pare ma non con me. 37 I Giovedì di Scrittura Fresca - Bene, se lo dici tu -… Si allontana verso un tavolino con una signora sola. La invita. Li vede scendere insieme in pista. Lui sorride simpaticamente allargando le bracciaecco, starà giustificandosi per non saper ballare il valzer- quindi la cinge in un lento a mattonella. Per pochi secondi. Il valzer sta per finire. Ne riattacca subito un altro. Senza separarsi continuano a ballare allacciati chiacchierando amabilmente per qualche interminabile minuto. Poi lui le bacia la mano e la riaccompagna al tavolino. Ritorna con l’espressione del ‘non ne abbiamo abbastanza? Si può far pace?’ -Dammi le chiavi di casa (lei con voce gelida) -Si va via? - Io vado via, da sola. Tu resta pure a divertirti. - Ma che a divertirmi, dai, basta, piantiamola lì! - Dammi le chiavi, ho detto! - Ma dove vai di sola, di sera, che qui è mezza campagna… - Le Chiaviii!!!! Prende le chiavi e scappa via a passo di marcia, il vestito lungo che si impiglia nel cinturino dei sandali alti, il fresco della notte sulla schiena sudata protetta appena dallo scialle di seta. E pensare che si era fatta tutta bella. Per festeggiare l’anniversario alla casa del popolo con balera annessa. Tanto per fargli capire che non era importante dove. Che anche lì poteva essere una serata speciale. E giù per la discesa, ingoiando rabbia e lacrime, costeggiando il canale con le rive coltivate a cavoli, la strada è deserta, i passi rimbombano veloci, che stronzo, non ci si crede… e che stronza lei, complimenti, una perfetta masochista, brava sempre a rovinare tutto… avanti fino al cavalcavia, ancora una ventina di minuti per arrivare in paese, ancora lungo il canale… i passi rimbombano, ma ora raddoppiano, non sono solo i suoi, ora corrono, si avvicinano la raggiungono. Si volta ed è un abbraccio. Lui la tiene stretta, lei piange. - O topino, ma dove volevi andare tutta sola! - Mi hai fatto arrabbiare (tira su col naso) - Mi hai provocato… sono una merdaccia? - Sì, (broncio finto arrabbiato, voce arrendevole), una merdaccia. - Ma anche tu sei un po’ una merdina? - Tii (bacino, altro bacino) - Si fa la pace per bene? - Annuisce (scoppia a piangere più forte) - Perché noi ci si vuole bene vero? - Tii (bacino, altro bacino) - Come sei bellina… - Anche così con tutto il trucco disfatto? - Ancora più bellina! - E quella? - Ma vien via topino (ride bonario), ma se non mi ricordo nemmen s’era una donna. - Eh eh (piange e ride. Si soffia il naso nel fazzoletto che lui le porge). Senza staccarsi dall’abbraccio dondolano un po’. 38 I Giovedì di Scrittura Fresca - Via, si fa il valzer. - Però non pestarmi i piedi (bacino) - E tu non smocciolarmi tutta la camicia (bacino) Guidami tu. Chi fa la musica? - Si fa in silenzio. Ti dico solo nell’orecchio piano piano zùm pap-pa per darti il ritmo. Eccoli abbracciati nella notte, nel piccolo borgo di case silenziose, danzare nella stradina che costeggia il canale pieno di zanzare, accompagnati dal gracidio di qualche rana. Sulla loro posizione i maestri di ballo avrebbero molto da ridire. Stanno troppo appiccicati e con le guance vicine. E’ che lei deve sussurrargli zùm-pap-pa nell’orecchio, dolcemente, molto dolcemente e lui deve tenersi ben stretto a lei se no perde il passo. Ma che bel giro di valzer! 39 I Giovedì di Scrittura Fresca UNA MAZURKA TRISTE SUL SOPRACCIGLIO DELL’UNIVERSO scritto da: Ettore Bilbo C’è una mazurka triste che suona per strada, non l’ho mai sentita ma s’è messa in testa di regalar ricordi. Non so in che stagione siamo, forse Autunno inoltrato giacché cadono le foglie, una per ogni passo di danza, c’è il pensiero che corre tra noi e anche qualcosa d’altro che non mi ricordo. Intanto la mazurka gira e gira, ed entra dalle finestre, e poi n’esce e afferra la mano di chi non vuole affacciarsi. È vero era Autunno, ma una prima neve era già caduta ed il freddo era Russo, quello di San Pietroburgo. Il vestito era rosso, con un'ampia scollatura a sfidare il rigore del freddo, ma eravamo in casa ed i camini erano accesi, e tu scherzavi. “Non mi stringe signor Teodoro, perché?”, disse la dama. “Ma io la stringo a dire il vero” “Oh… suvvia è cosi che un uomo stringe la propria dama per un ballo?” “Ma è poco più che pomeriggio…”, l’uomo si scusò imbarazzato. “E che significa? Forse ch’è proibito ballare come si deve finché il sole non cala?” Non è proibito ballare per le strade? Non è proibito ascoltare una mazurka triste dalla propria stanza, sentirla incolpare le strade d’essere così solamente strade? No, non è proibito. “Così va meglio Teodoro” “Ci diamo del tu?”. L’uomo parlò divertito, senza sgarbo ma non poté impedirsi una luce negli occhi che non piacque alla dama. “Sì del tu, ma non faccia troppo l’uomo e troppo poco il signore…”, rispose quindi ella. “Ed adesso di nuovo del lei”, scherzò. “No, del tu Teodoro”. Sorrisero e ballarono. Fantasmi che ballano sul folto sopracciglio di signore canuto, appena sotto quel pelo bianco, che cresce in mezzo alla fronte e si nasconde, pudico, nel proprio pallore. Affacciato alla finestra, guardo la mazurka triste volare di persona in persona e assumo quell’espressione pensosa da vecchio, che non vorrei. Penso a questi fantasmi sul mio sopracciglio e mi vedo, già fantasma, ballare sul sopracciglio di questo palazzo, ed il mondo ballare sul sopracciglio dell’universo. “Perché mi guardi così Teodoro?” 40 I Giovedì di Scrittura Fresca “Perché mi fai questa domanda Nastia? Non siamo bambini eppure vogliamo giocare agli innamorati?” “Per le strade di Peter si gioca agli innamorati, nei salotti di queste case a cosa si gioca?”, rispose Nastia. Lui le prese una mano. “Perché mi fai sentire già vecchio Nasten’ka?” “Oh suvvia per due rughe da giovincello, se devo essere sincera ti donano, ti danno un aria così saggia” “Nastia…” “Lo so che te ne andrai…” “Si gioca anche in questi palazzi allora?”, domandò accigliandosi un poco “Non si gioca più da molto tempo Teodoro, non accigliarti”, disse Nastia fermando il ballo tra uno scaffale pieno di libri e l’orlo di un tappeto venuto da chissà quale paese, “Vorrei giocare, ma non lo faccio più” “E allora che fai?” “Mio padre dice che faccio troppe domande ma è evidente che non ti conosce, Teodoro caro” Sul sopracciglio dell’universo mi potrei fermare a pensare tranquillo, forse in quel luogo così lontano questa mazurka triste non suonerebbe per me, ma ogni luogo è un sopracciglio sperduto, ed ogni persona ha la propria mazurka… “È vero che faccio tante domande sai?”, fece la donna riprendendo il passo di danza, “Faccio troppe domande e non mi do mai risposte. Sarà che siamo giovani, che ne dici Teodoro? Sarà che sono stufa di fare domande e adesso mi darò risposte… attento segui il passo… sarà che sono romantica” “Tu romantica? Non è il fiore romantico, è chi lo coglie per gustarne il sapore sotto le nari, spietato o stolto, oltre che romantico” Se adesso mi sdraio sul letto forse m’assopirò e potrò far finta di non sentire, magari non mi sveglierò più. Non in questa città almeno, ma in un'altra, una città con la Neva ghiacciata e tanti bambini che pattinano, con i ghiaccioli sui tetti che pendono e tremano minacciosi, una città dove si parla una lingua che non mi ricordò più e che suona tanto dolce e non credevo, allora non credevo… “Te ne andrai…” “Sì me ne andrò” “E non tornerai mai più” “No” “No” Nastia aveva occhi dal riflesso dorato e si vezzeggiava tanto per quel luccicare nell’iride marrone. Nel ripetere quel no così definitivo si sfiorò il viso con la mano e lavò dal volto quel riflesso, come una nebbia che impedisce di vedere, lo strinse nella 41 I Giovedì di Scrittura Fresca mano ed accarezzò Teodoro. Ora il riflesso del sole era suo, un bene così prezioso in quel paese freddo. Mi sono assopito e non mi sveglierò mai più, suonatore. Non nasconderti, ti vedo laggiù dove sei, all’incrocio sotto il mio palazzo, sei tu che suoni questa mazurka così triste. Ne ho sentita solo un’altra simile, suonava nella mia testa mentre ballavo con Nastia. Solo nella mia testa perché credevo che non potesse esistere una musica così. Tu ne hai bisogno più di me ora, ne hai bisogno perché la tua musica è triste ed allora te lo regalo. Siamo tutti sul sopracciglio dell’universo ed ascoltiamo la stessa musica eppure c’è chi va e chi viene. Prendi questo riflesso dorato e lascialo vagare mentre suoni per le strade. Sono solo strade ma la gente si affaccerà dalla finestra e vedrà il sole. Io vado a sfidare un no che dissi tanto tempo fa, tanto… 42 I Giovedì di Scrittura Fresca WALTZIN’ MATILDA* * Tom Waits scritto da: Massimo Botturi Abbiamo lasciato un ombrello in bilico su quello scaffale povero, banale cella quadrata, piena di rimasugli. Rari momenti d’intimità famigliare, li stiamo vivendo non credi ? Siamo corpi sparsi tra interessi diversi, fanti di cuori caduti dal mazzo in viaggio di fantasia, quando pesare un buon libro tra le mani raddoppia la fatica del tenere aperti gli occhi. Occhi che hanno dato tutto nell’interminabile giornata produttiva, consumati nelle percentuali, negli ammanchi. E controlli su controlli, fino al decimale ridondante, occhi lacerati da vertiginosi tacchi a spillo, reminiscenze d’erotismo da fine settimana. (Aveva calze nere, se non ricordo male, il colore giusto per l’inginocchiatoio del potere) Abbiamo lasciato le briciole in terra, vicino al divano, non c’era voglia di preparare la cena. Un toast, un lusso da bar del centro, una volta, non ora. Ora è un pasto da miserabili, da pigri, chiedo venia, da pigri. Dovremmo usarla quella tovaglia di fiandra, le posate del servizio buono, i bicchieri. Dovremmo trovare un’occasione importante per prenderci cura di noi, del nostro aspetto un po’ sciupato. Fingere d’essere in uno di quei posti di lusso dove una mano, puntuale e indiscreta, ti versa il vino ad ogni sorsata. Potremmo voltare, per una volta, le fotografie dei nostri vent’anni, spegnere il mondo dei notiziari, gli strilli dei figli sui libri di scuola, le maratone di auto coi crampi, i singhiozzi degli alberi, degli oleandri sbattuti nel mezzo di strade in dissesto. Dovremmo scappare, su, in verticale, e guardare tutto, e perdere tutto. Uscire dal corpo e fare l’amore col naso e le mani, dovremmo pensare che il solo respiro è il frutto di grandi elaborazioni, di leggi perfette di microscopi nel cielo universo, che scrutano dentro i nostri polmoni. Dovremmo occuparci di liberare dal marmo grezzo l’opera muta che ci viene data, e farla vibrare, rompere i cardini, e i cigolii. Vivere un giorno come da Dio, senza parabole da salariati. Amore mio caro, dovremmo andare al banco dei pegni, offrire collane, gli anelli piccoli del battesimo, e comprarci dei morbidi asciugamani. Perché il mattino ho voglia d’amore, e sulla pelle, di gentilezze, del caffè buono e un goccio di latte. E un po’ di silenzio, che dietro la porta, la gatta si stira, e un merlo becca quello che resta di una prugna caduta. Dovremmo mettere della musica , com’è che si chiama? Waltzin’ Matilda, o qualcosa del genere 43 I Giovedì di Scrittura Fresca TI PORTO A FARE UN GIRO, MA DI VALZER scritto da: Uomo Pallido È che mi pesti i calli quando balli ed ogni volta - sempre - fai lo stesso. Con te dovrei lo shake o l’hully gully - qualcosa che ci tenga più lontani E invece ho in testa il sesso, le mie mani addosso a te e non solo per sfiorarti. E ballo il valzer, stretto stretto a te - cosa mi tocca fare per toccarti - VALZER scritto da : Serenella La notte s’infrange sull’onda che sale un moto invisibile nella baia assetata sono il porto sono il mare un valzer nell’acqua. 44 I Giovedì di Scrittura Fresca ANCORA UN GIRO DI WALZER scritto da: Gerardo Sorrentino Ho sprecato sogni e desideri in una spicciolata di pensieri e ora che ne vorrei dei nuovi spalanco un ventaglio di suoni, ancora un giro di walzer per la mia mente che è un bunker, le mie urla contro il mondo, io che ho già raschiato il fondo, so che non potrò andare avanti avanti fra i mille e più santi che dell’inchino han fatto religione e legato alle catene della mia prigione quella che sfoglia la mia mente ogni giorno in un destino perdente, so che nel fallimento di una vita c’è sempre speranza fra le dita quella di un inferno comprensivo senza alette da angelo per aperitivo, perché il mio calvario purgante sulla terra l’ho vissuto alla grande e allora ancora un giro di walzer per la mia mente che è un bunker. 45 I Giovedì di Scrittura Fresca SUL PALMO DELLA MANO scritto da: Idea Vagante Sull’orlo acuminato del silenzio passi a danzare le nostre solitudini al ritmo ovattato di un valzer viennese che regala profumi notturni, gesti oracolati a scandire parole sul palmo della mano. Intermittenze d’ascolto riflesse nelle gocce di lampadari in prismi di luce a pioggia sulla pelle che beve ogni pausa fiorita sugli archi tra crome e biscrome di un cercarsi melodia lieve tra le ciglia. E sulla tastiera, tra le corde dei violini andante precoce il disperdersi in note che sanno di congedo già sfibrato d’attesa estenuata, sotto la pensilina. Raccogliamo intenti i nostri sguardi quando un rantolo d’estremo sprofonda senza pianto nel morire scolorito di quest’onda, carezza che lambisce l’anima accartocciata a feto a inseguire ritorni scritti sull’agenda. 46 I Giovedì di Scrittura Fresca SCHEDA 407. LA SIGNORINA JOLANDA scritto da: Asclepio Gira, gira, gira il valzer cantinelante… La vita mi ha dato tanto. Ricordi quando ero bella e sottile? Ero bella perché il sole m’illuminava le gote; ero sottile ma con la pelle soda sulle mie carni. La poltrona ha i segni sui braccioli come i miei occhi quelli del tempo: entrambi sono stati usati a lungo senza ritegno, per tanto tempo. Gira, gira, gira, il valzer e la ballerina sulla punta di un piede fasullo… Un giorno mi dicesti che andavi ma che saresti tornato per amarmi ancora. Non so quanto tempo è passato; potrei fare semplici conti ma non ne ho voglia ed i pensieri sono stanchi di decidere se stare avanti o indietro. Non ho voglia di mangiare la minestra. Quella di ieri era sciapa e fredda; quella di oggi è la stessa ma odora di agro. La signorina viene la mattina, mi obbliga ad alzarmi dal letto e spegne la tivù; cosa m’importa se resta accesa tutta la notte… è meglio sentire i gatti sui tetti che gridano di foia? Ancora una carica. Ancora un valzer. La ballerina non si stanca. Come una gatta ho gridato anch’io. La lettera diceva che non saresti mai tornato. La scriveva tua madre e la carta era macchiata di dolore. La signorina oggi non viene. Non posso fare il bagno da sola. Devo prendere tutte le palline colorate che mi fanno star bene. Le mie pillole. Sono gli unici colori che dal mondo mi entrano dentro. Quando chiudo gli occhi mi stupisco di poterli aprire ancora. Tu avevi gli occhi castani come un cervo. Io ho gli occhi… Avevo gli occhi come due pervinche. Le mie mani sono ossute con troppa pelle per due mani sole. Gira, Damina, balla ancora un giro di valzer… “Il carillon è rimasto attivo… staccalo, chiudilo! Un po’ di rispetto per una povera morta… Dov’è il telefono di suo nipote? Era segnato sulla scheda… verrà, verrà: la casa è già intestata a lui da tanto tempo. Stacca quel carillon…” 47 I Giovedì di Scrittura Fresca UN GIRO DI VALZER AL TURNO STRAORDINARIO scritto da: Vaan all’alberone, grande abete la incontro al punto di questo balcone dai vasti colorati, accesi panorami. turno straordinario, Piera al bar dalle sedici alle due. novanta secondi, l’incrocio penetra le mani che non tocco poi gli occhi sono dentro dice. li scruto riflettersi sul dove porterà il suo corpo, in questo giorno così radioso di sole. l’improbabile attende un lungo giro di walzer, per ripartire da zero un’eco che si diffonda ed invada la voglia sua che ancora viva sento. il corpo intero me la descrive a trovare sbocchi più estesi allo spazio, della sua esposizione. la guardo, sono via una manciata di ore appena oblio me stesso. "giorno... per favore il solito drink". sentisse un uomo le sue parole l’onda sonora che la farà danzare. 48 I Giovedì di Scrittura Fresca A GIRO DI WALZER scritto da: Vaan “Oggi è andata bene, vediamo se nella quotidiana caccia al latte, sarò altrettanto fortunata” disse Eggia rivolta ad Anik. Marion, sull’altro lato della soffitta stava sistemando nella sua borsa, scaldamuscoli e tuta da danza: “Dicono oggi si possa trovare fresco, a piazza Bismark dal biondo.” “ Bene, andrò lì allora.” La guerra oramai volgeva al termine, la Germania nazista stava capitolando. Eggia, Anik e Marion come buona parte della popolazione tedesca, non vedevano l’ora che quell’incubo volgesse a termine. “Finita questa mattanza, vorrei fare qualcosa di speciale” disse Eggia rivolgendosi alle amiche “ ho da tempo un sogno nella testa e lo vorrei proprio realizzare.” “E di cosa si tratterebbe mai?” rispose Marion “Una risposta anomala a questa guerra, un viaggio folle, qualcosa che dia nuovo respiro alla nostra gente.” “Da come parli, sembra come avessi già un’idea più che chiara nella testa. Hai pianificato realmente qualcosa? “ “ Si Marion, sarebbe magnifico sviluppare per esteso una coreografia di danza da Dresda fino a…” s’interruppe poi riprese “… non so dove con precisione; qualsiasi altra località della Germania andrebbe bene, purché non troppo lontana da Dresda. Un viaggio simbolico pensato solo per la gente.” “ Una coreografia immensa. Ma è un’idea strepitosa secondo me… ci sto! “ “ Stupendo “ replicò Anik “ potremmo procedere a staffetta…magari a giro di walzer…trovo l’idea eccitante. Anch’io voglio esserci. “ “ Allora si fa “ disse Eggia in tono risolutivo. Le tre danzatrici, le uniche rimaste di una compagnia oramai decimata, si guardarono negli occhi e si abbracciarono strette, fortemente strette, sotto il cielo triste di Dresda. Appena il tempo di salutarsi che d’improvviso risuonarono inaspettate le sirene d’allarme. Nel fuggi fuggi generale, le tre amiche si ritrovarono dirette verso lo stesso rifugio, quello prossimo alla soffitta che avevano da poco lasciato. Giunte all’interno di quella che in realtà era un’ immensa galleria sotterranea, Anik ebbe un sussulto ed urlò a viva voce: “ Nooo! Maledizione, ho lasciato nello stanzone i due dischi di Ravel! “ Senza nemmeno ascoltare il parere e i consigli delle altre, Anik uscì di corsa dirigendosi verso la sua meta. Nonostante la fame e gli stenti della guerra, era ancora agile e veloce, atleticamente era sempre stata la più dotata della compagnia. L’inseguimento di Eggia, partita a sua volta con l’intento di fermarla, fu vano. Anik correva come un fulmine, sperava dentro di poter recuperare in tempo utile i due dischi, a cui teneva moltissimo, dimenticati sul tavolato di legno, vicino al grammofono. Già nei quartieri più periferici, cadevano le prime bombe, l’attacco aereo sembrava di 49 I Giovedì di Scrittura Fresca una portata inaudita. Anik imboccò il portone della palazzina, era in alto al quinto piano, quando una bomba da cento quintali colpì in pieno il vecchio edificio. La struttura in cemento crollò come un castello di carta, Marion, appena fuori dal rifugio, aveva osservato la scena. In preda all’ isteria, raggomitolandosi e contorcendosi a terra, lanciò un grido disperato che scavalcò il fragore delle bombe, via via più vicine. Tre uomini la riportarono dentro al sicuro. Oramai non c’era nulla in cui sperare. L’ 8 Ottobre 1966, nell’ ospedale di Dessau, Eggia uscì dal coma dove era sprofondata durante il drammatico bombardamento di Dresda. Anik, in quel giorno maledetto era rimasta per sempre, sotto dieci metri di macerie. Come se non fosse mai stata addormentata per così tanto tempo, Eggia, pronunciò inaspettatamente una strana frase. L’affermazione però, non sfuggì all’attenzione del staff medico, fortunatamente presente in quel momento nella stanza. “ Ho un sogno…un sogno da realizzare…un lungo giro di walzer da fare.” Eggia, dopo la disgrazia, si era ritrovata sola e senza famiglia. La primavera successiva, grazie agli aiuti e alla sponsorizzazione dell’ospedale riuscì a dare forma e sostanza alla sua impresa simbolica. L’opinione pubblica si era commossa, ripercorrendo la storia della sua vita. Televisione e giornali parlavano da mesi del suo ambizioso progetto. Prendeva corpo la più lunga coreografia della storia, un giro di walzer, che partendo da Dessau raggiungeva, la non lontana Berlino Ovest. Era la metà del mese di Marzo, Eggia, ora attraversava strade e campagne improvvisando sequenze, mettendo sulla sua scena ambulante vecchie coreografie appartenute alla compagnia, che lei fortunatamente non aveva dimenticato. Il pezzo forte era quando, come promesso, avanzava a giro walzer tra la folla esaltata, la stessa gente ospitale che le offriva da mangiare, bere e dormire, lungo il percorso. Eggia raggiunse Berlino il 20 Aprile 1967. La giornata era radiosa, sembrava festa nazionale. Le bandiere sui balconi, la folla riempiva all’inverosimile le strade. Marion era in prima fila, sul palco d’onore, assieme alle autorità. Desiderava ardentemente riabbracciare, con ancora più forza, la sua compagna del cuore. Mancavano trecento metri circa alla conclusione dell’impresa singolare, trecento metri alla fine di quella magnifica esperienza che apparteneva ad una sola artefice, immensa e straordinaria. Eggia, avrebbe continuato all’infinito. In preda ad una crisi di pianto, avvolta in lacrime di gioia, impazzita nella sua oramai dilagante euforia, imboccò uno stretto vicolo sulla destra, voleva prolungare il suo percorso, con l’intenzione precisa di percepire ancora più forte e vicino, il calore di tutta quella gente accorsa in massa. Almeno così sembrava. Ma il vicolo era vuoto, tutte le persone d’altronde, erano riversate sulla strada principale. Tutte, ora disperatamente, chiamavano e rincorrevano Eggia, con il chiaro intento di fermarla. Lei in fondo sapeva, ma salì il dubbio che forse, non fosse stata avvisata. Marion, come gli altri, fiutò il pericolo a cui quella gazzella, tramutata in donna, andava incontro. Eggia non 50 I Giovedì di Scrittura Fresca sentiva, ruotava piroettando su se stessa veloce come non prima. Vibrava esclusivamente della sua catalessi sensitiva. Arrivò in fondo alla svolta in un baleno, figurarsi se poteva udire le forti grida di richiamo di quel soldato, che ora le sparava una sola spietata raffica di mitra nel petto. Eggia crollò a terra priva di vita. Marion lanciò lo stesso, identico, lontano grido. Il giro di walzer finiva così, sotto un muro: il muro di Berlino. Marion era ancora lì, quando i portantini la presero via. Inginocchiata, notò un biglietto accartocciato a terra, lo prese. C’era scritto qualcosa, riconobbe la calligrafia. “ se scruto a fondo certi meccanismi e poi rifletto, sul dove porterò il mio corpo in questo giorno così radioso di sole allora si ci vorrebbe proprio un infinito giro di valzer per ripartire da zero “ 51 I Giovedì di Scrittura Fresca IN GIRO DI VALZER CON JULIETTE GRECO E, IN STILE CON MAIKO scritto da: Necatrix e Maiko Sul palcoscenico abitando lo spazio accendi di fuoco i segni muti pietre preziose di sogni perduti. Vestale d’avorio e giaietto raccogli parole come cibo lussuoso affascinando in stile sontuoso tutto il mistero d’un cuore amoroso. Sillabando rauca in seta e velluto hai fatto all’amore in tempo sospeso tra un sipario e una voce di liuto. Feroce e selvaggia aggredivi le note un maglione aderente che il corpo sottende, le labbra arcuate volutamente a bere l’ebbrezza del tuo buio perenne. 52 I Giovedì di Scrittura Fresca ORCABBOIA! MA E’ IL GIROD’ITALIA! E IO STO AL GIRO DI VALZER! scritto da: Nicola Martini "Un uomo solo al comando, la sua maglie è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi" Orco belin, disse il Fausto. Che era di Castellanìa, ma aveva passato mezz'ora a Genova una volta nella sua vita e aveva incontrato il Martini, orco belin, ripetè, sta qui è la tappa Cuneo-Pinerolo, che la tappa Virginia me la sono mastrussata ieri con grande soddisfazione, è la Cuneo-Pinerolo e sto a ballare il valzer a Vienna. Vuoi vedere che nella borraccia ci hanno messo la cicoria pestata e shekerata con l'aglio? E vuoi vedere che per vedere ho sbagliato svincolo e ho preso per il Prater? E mi tocca di mangiarmi la sacher invece che le bignole alla crema? E mi tocca di danzare uno svarzo con il Bartali, che quello lì, seppur secondo, sempre nelle palle ce l'ho? Gli è tutto da rifare! così disse il Gino al Martini a proposito di sto pezzo. "Un uomo solo al comando, la sua maglia è Dolce&Gabbana, il suo nome è Nicola Martini" 53 I Giovedì di Scrittura Fresca UN GIRO DI VALZER scritto da: Nicola Pivot di punta o tacco purché deciso ed elegante passi di cambio che si chiudono in fine di frase musicale viennese o inglese poco importa Eccoti un po' di giri in hesitation mode il lilt rovescio mi viene naturale il fleckerl si svolge come deve Assassina del ballo questo è un valzer che tu profani ad ogni passo incrocia il perno non ti beffare dello spin è un valzer, cribbio! non una galoppata di bufala pontina in cerca di foraggio! Ma tu già pensi a maggio quando, sul blu donau fioriscono le orchestre una in particolare È quella del tuo amante aitante suonatore di viola e di grancassa Il valzer che t'illustro lo danzerai con walter; me ne starò in disparte a legger robert walser 54 I Giovedì di Scrittura Fresca AGNESE E LA SUA TELA scritto da: Claudia Demik II reame è in festa. Il buon sovrano ha annunziato che il primo giorno di primavera la propria figlia, la dolce e bellissima Caterina, andrà in sposa al principe Ruggero, nobile di sangue, valoroso e bello. Gli araldi hanno girato tutti i villaggi del regno, tutte le vie del villaggio, tutte le case della via per annunziare il lieto evento e per comunicare che ci saranno dieci giorni di festa ininterrotta, giorno e notte: la festa più bella, più ricca, più gioiosa che mai uomo abbia potuto vedere. Anche Agnese a sentire gli araldi con la voce possente, i vestiti sgargianti, i rulli di tamburo, si sentì il cuore ricolmo di gioia e pianse commossa. Aveva sempre sperato che la figlia del Re sposasse il bei principe Ruggero e adesso il suo sogno stava per avverarsi. Come era bello Ruggero! Alto, biondo, con un sorriso che gli ricordava quello dell'arcangelo Gabriele dipinto nella chiesa del villaggio. Lo aveva visto solo due volte nella sua vita, passare per la strada maestra alla testa dei suoi guerrieri, avvolto nel suo mantello bianco, in groppa al suo destriero, ma erano bastate per farle capire che nessun uomo, in nessuna parte del mondo poteva essere più bello, più buono e più coraggioso di lui. Agnese era una giovane e povera ragazza del villaggio. Rimasta orfana in tenera età, per vivere aveva imparato a fare la sarta. Era intelligente e piena di buona volontà, non conosceva la fatica; aveva mani sottili, agili e precise e così in breve tempo divenne la sarta più brava di tutto il villaggio; perfino il sacerdote andava da lei per farsi aggiustare la tonaca. Era felice che Caterina potesse avere in sposo un principe così! Corse a casa e tanta era la sua gioia che per quel giorno decise di non lavorare. Orli e merletti, sottane e grembiuli potevano ben aspettare: la figlia del Re si sposa una sola volta nella vita! D'un tratto ad Agnese venne un'idea folgorante: anche lei avrebbe fatto un regalo agli sposi. Ma come poteva lei, povera sartina, trovare un dono degno degli sposi, che non sfigurasse in mezzo a quelli di duchi, principi, marchesi e cardinali? «Loro possono regalare oro e argento, seta e broccati, ma io cosa mai posso regalare?». Guardò le sue mani bianche, affusolate, erano quelle la sua unica ricchezza. «Ecco! Tesserò per gli sposi il lenzuolo più bello che mai si sia visto in questo reame e lo ricamerò coi ricami più belli che mai si siano visti sul letto di un Re! ». Agnese si mise al lavoro. Lavorava di giorno e di notte, senza fermarsi ne per mangiare, ne per dormire. Giorno dopo giorno la tela cresceva; era lunga almeno cento metri ed era la tela più bella e più forte che avesse mai visto in vita sua. A coloro che le domandavano perché mai avesse fatto una tela così lunga rispondeva: «Voglio essere sicura che il mio dono sia degno degli sposi; proverò tanti ricami in questa tela poi sceglierò i più belli e li rifarò nella tela rimasta; quello sarà il lenzuolo del principe Ruggero; il resto lo terrò per me, per il mio corredo, perché anch'io mi sposerò». E nel dir così sempre abbassava la testa arrossendo un poco. Avvolse tutta la stoffa attorno a un grosso bambù e ne ricavò un rotolo enorme che a malapena stava nella stanzuccia dove lavorava; neppure due uomini robusti potevano 55 I Giovedì di Scrittura Fresca abbracciarlo tutto. E così Agnese cominciò a ricamare; ricamava di giorno e di notte, al lume di tre candele, senza fermarsi ne per mangiare ne per dormire. Le sue mani si muovevano svelte e precise, le sue dita lunghe e sottili si agitavano come fiammelle, la sua mente lavorava incessantemente per immaginare nuovi disegni: i più belli, i più difficili. Dapprima ricamò ghirlande di fiori di ogni colore, ed erano così belle che le comari del villaggio giuravano sui loro figli di non averne mai viste eguali: i fiori avevano gli stessi colori, le stesse movenze di quelli veri, tanto che era impossibile distinguerli. Perfino le api ne erano attirate e continuavano a posarsi sul ricamo cercando di suggerne il nettare. Agnese però non era soddisfatta. Non poteva negare che il ricamo fosse davvero splendido, ma non le sembrava ancora degno degli sposi e lei si sentiva capace di fare ancora meglio. Così si mise a ricamare dei trionfi di frutta: pesche, mele, uva, lamponi, fichi, ciliegie e tanti, tanti altri, che neppure un libro basterebbe a elencarli tutti, e ogni frutto era fatto con tale gusto, con tale maestria da apparire perfino più bello dell'originale. Le comari, ormai incuriosite, seguivano giorno per giorno, si può dire ora per ora il lavoro di Agnese. Ma lei non era ancora soddisfatta: capiva che il ricamo era bello, ma non ancora bello abbastanza per andare in dono agli sposi. Se si fosse davvero impegnata avrebbe potuto fare di meglio. Ricamò allora un meraviglioso paesaggio: un bosco verdeggiante, popolato di farfalle e uccelli multi-colore e in una luminosa radura un laghetto dalle acque limpide e azzurre; tutt'intorno fiori e animali e funghi. Un vero capolavoro! Bastava fissarlo per qualche istante con un po' di attenzione per sentire il cinguettio degli uccelli, il rumore delle fronde e la povera stanzetta riempirsi dell'aria fresca e profumata del bosco. Era un balsamo per gli occhi e per il cuore restare a guardare quel paradiso, ma Agnese non fu ancora contenta. Lo stesso avvenne ancora per diecine e diecine di volte: la gente restava sbalordita davanti al suo lavoro, tutte le meraviglie del creato prendevano vita in quella tela, ma a lei non sembrava ancora di aver raggiunto il massimo; pensava sempre di poter fare ancora qualcosa di meglio. Le sue mani erano stanche, gli occhi le bruciavano, era pallida come una morta, magra come un fiammifero e solo la sua devozione al Principe e la sua straordinaria forza di volontà le consentivano di continuare a lavorare. Col passare dei giorni insieme alla fatica aumentavano anche l'ansia e la paura di non riuscire a fare in tempo tutto ciò che aveva in cuore di fare. E così, quasi all'improvviso arrivò la vigilia del giorno stabilito per le nozze e ancora Agnese non aveva fatto ciò di cui potesse dire: «Ecco, questo è il dono che volevo per gli sposi!». La fanciulla era ancora più pallida e più magra, aveva gli occhi piccoli e infossati, ma anche quell'ultimo giorno lavorò senza posa, senza respiro. Ma, ahimè, venne la sera e ancora non era riuscita a realizzare quello che sentiva dentro di sé. Ogni volta le sembrava di aver afferrato quell'immagine luminosa ed evanescente che le si agitava nel cuore, ma poi, a cose fatte, si sentiva delusa, il suo ricamo non era mai quale lo aveva immaginato. Le prime ombre della sera erano entrate nella stanzuccia traboccante di ricami accostati tra loro in modo bizzarro per le volute della tela, come in un caleidoscopio, e piena di fili di ogni colore rimescolati in una fantasmagorica, indescrivibile 56 I Giovedì di Scrittura Fresca confusione. Agnese, esausta, si alzò dal suo tavolo da lavoro e uscì. In tutte le case del villaggio i lumi erano accesi, fervevano gli ultimi preparativi per il grande giorno: l'indomani sarebbe stata una giornata indimenticabile per tutti. I bambini, in via del tutto eccezionale, avevano avuto il permesso di restare fuori a giocare anche dopo il tramonto e riempivano i vicoli di grida e di risa; anche le loro voci, i loro gesti, i loro giochi tradivano l'eccitazione di quella magica serata. Soltanto Agnese era triste; alla stanchezza accumulata in tutti quei giorni di frenetico lavoro si era aggiunto il più cupo sconforto, la delusione per non essere stata capace di realizzare colle sue giovani, lunghe mani il suo regalo per i giovani sposi. Agnese si fermò sotto un balcone fiorito, chinò la testa e cominciò a piangere, in silenzio; nessuno avrebbe detto che stesse piangendo se non fosse stato per le grosse lacrime che le rigavano le guance pallide, dello stesso colore della tela. «Non mi resta che andare a dormire» pensò. Girò un ultimo sguardo intorno e rientrò. Quella notte sarebbe stata la più triste di tutta la sua vita, avrebbe preferito morire anziché assistere al proprio fallimento; e poi le donne del villaggio cosa avrebbero detto di lei? Arrivata a casa guardò con aria desolata la tela, che riempiva la stanza fin quasi al soffitto e salì in camera sua. Non pensò neppure a spogliarsi, si gettò sul letto così come era vestita, al buio, e rimase immobile; non sperava neppure di riuscire a dormire: sapeva che quella notte per lei non sarebbe mai finita. Pian piano le voci del villaggio tacquero e le luci, a una a una, si spensero. Era ormai notte fonda e Agnese se ne stava ancora supina, immobile, con la testa piena di pensieri e il cuore pieno di tristezza. Stava pensando che di lì a poche ore sarebbe stata l'alba del gran giorno, quando, a un tratto, nella sua mente balenò un'idea luminosa e davanti ai suoi occhi prese forma quel ricamo che per tanti giorni aveva cercato di fare, ma che sempre le era sfuggito. Ecco, adesso lo vedeva nitidamente! Sì, non potevano esserci dubbi, era proprio quello. Come era bello! Nessuna parola poteva descriverlo, era un'immagine paradisiaca, che nessun altro sarebbe stato in grado di immaginare; che colori, che armonia, che forme sublimi! Ma perché non era riuscita ad afferrarlo prima, perché per tanti giorni quella meraviglia si era presa gioco di lei, apparendole velata, travisata tra le ombre della sua coscienza, per poi svanire non appena le pareva di averla afferrata? Ma non era certo Agnese il tipo che si dava per vinta prima di aver giocato tutte le sue carte. Si alzò di scatto e scese le scale di corsa; c'erano ancora alcune ore di tempo e se Dio l'avesse aiutata forse poteva ancora farcela. «Mani, mie belle mani, dovete lavorare così velocemente come mai avete fatto nella vostra vita, e senza mai sbagliare. Occhi, occhi miei belli, dovete vigilare come mai avete fatto nella vostra vita, e senza mai battere ciglio». Accese febbrilmente tutti i lumi che aveva in casa e quelle luci fioche tremolavano misteriose tra le fantasmagorie multicolori dei ricami. Infilò l'ago, si sedette, ma... Proprio in quel momento si accorse che la sua tela, quella lunga tela che con tanto amore aveva tessuto era finita; ne restava solo un pezzetto, piccolo, piccolo, sufficiente appena a fare un nastro per capelli. Ebbe solo il tempo di esclamare: «Oddio! », perché in quel preciso momento sentì il cuore fermarsi nel petto e la vita uscirle dal cuore. 57 I Giovedì di Scrittura Fresca L’ULTIMO BALLO scritto da: Marimari La musica era piuttosto alta, ma la voce dell'animatore la sovrastava, uscendo dal microfono un po’ distorta. Gli incitamenti e le spiegazioni fioccavano sulle persone che si dimenavano a tempo di musica, non sempre seguendo le direttive dell'instancabile Alfredo, che si asciugava il sudore e continuava imperterrito il suo lavoro. Pareva quasi che si divertisse, anche se i suoi allievi non mancavano di perdere il ritmo o di girare in senso contrario. Certe sere proprio non andava, ma al mare ci si vuole solo divertire, mica si deve imparare a ballare per forza. Si riconoscevano immediatamente le coppie di una certa età, che , un po' in disparte, ballavano in perfetta armonia, le gambe del cavaliere parevano legate a quelle della dama, pure mai un piede calpestava l'altro, né una mossa era fuori tempo. Loro il ballo lo avevano nel sangue, danzavano scalzi da giovani, su vecchie aie polverose o su rumorose piste di legno, accompagnati magari solo da una fisarmonica, ballavano dopo lunghe giornate di lavoro nei campi, con le mollette in tasca, quelle che servivano per impedire ai calzoni di infilarsi nei raggi delle ruote delle biciclette. Le donne, allora giovani, volteggiavano con le sottane lunghe e zoccoli ai piedi, e ora sognavano il bel tempo andato, strette ai loro compagni, in quella piccola, rumorosa rotonda sul mare, proprio come la chiamava Bongusto, e Alfredo continuava il suo lavoro sudando, guardando i giovani malati di discoteca e non avvezzi a mazurche e valzer, e invidiava gli anziani, la loro tranquilla eleganza nel ballo, la loro quieta voglia di ricordare, almeno con le danze, che giovani lo erano stati anche loro. La vecchia signora seguiva le coppie di ballerini con un sorriso a fior di labbra, il cuore forse un po' pesante d'invidia. Sedeva silenziosa, sola, su una sedia a rotelle, e le sue vecchie gambe stanche non fremevano più al ritmo della musica, ma il cuore, quello sì, quello seguiva con desiderio il ritmo cadenzato di un valzer, lo scoppiettio di una mazurca, il serio contegno di un tango. Tutte le sere la vecchia signora si faceva accompagnare dalla nipote alla pista da ballo, poi si metteva in un angolo e guardava, mentre la nipote scappava a passeggio col moroso, o si lanciava, ma raramente, dietro le direttive di Alfredo. Poi, sul tardi, la nipote tornava, riaccompagnava la nonna all'albergo e subito usciva, anima inquieta e nottambula, per ricomparire all'alba, sazia di baci e carezze, ma non felice. - Non capisco che gusto ci sia a passare tutte le sere qui, a veder ballare gli altri aveva più volte osservato Katia, la nipote. La vecchia signora aveva sorriso, non aveva risposto, spesso i giovani hanno tanta 58 I Giovedì di Scrittura Fresca fretta che nemmeno le ascoltano le risposte, ma come avrebbe potute spiegare lei, Maria, alla nipote che guardava l'orologio in attesa del suo lui, che anche a veder ballare si può essere felici, solo poco, magari, ma sempre più che a passare anche le sere a giocare a carte, o a parlare di tutto e di niente con persone della sua età. La musica può farti sognare, basta saperla ascoltare con rispetto, senza massacrarla come si fa nelle discoteche, musica sempre uguale, frastornante, quella mica è musica. Come poteva Katia capire, Katia che proprio in discoteca si annichiliva quasi tutte le sere, che la musica da ballo può farti tornare bambina? La vecchia signora ascoltava, sorrideva, piangeva anche un poco, quieta, dentro di sé, nel modo che più fa male, ma non si può imporre agli altri la propria sofferenza, non si può spiegare il desiderio di un ballo, un ultimo ballo, negato alle ruote di una carrozzella, agognato dal cuore di una vecchia signora incapace di rassegnarsi. Giuseppe ballava con la stessa spensierata sicurezza con cui veniva a prenderla, con la vecchia bicicletta nera dal manubrio diritto, e lei saliva sulla canna, e insieme andavano lontano, ovunque si ballasse, dimentichi della stanchezza, ebbri di gioia di vivere, le gambe che già fremevano, il cuore leggero. Ballavano senza stancarsi mai, e poi tornavano silenziosi nella notte sulla loro bicicletta, e lui le rubava un bacio, ma solo quello, poi partiva fischiettando, e anche quando si erano sposati avevano continuato ad andare a ballare, solo che lui dopo non aveva dovuto più lasciarla per tornarsene a casa, ma aveva fischiettato lo stesso, le aveva rubato ancora un bacio, e non solo quello. Ora Giuseppe non c'era più e lei, Maria, andava sulla sua sedia a rotelle a veder ballare gli altri, e il cuore le si stringeva un poco, è vero, ma andava lo stesso, ed era felice così, anche se le faceva male. Era vecchia, e lo sapeva, ma avrebbe ballato ancora. E una sera ballò, il suo ultimo ballo, quell'ultimo ballo che sognava da tanto, proprio la sera dell'ultimo giorno di vacanza. Se ne stava quieta come al solito, in un angolo, quando un giovanotto le si avvicinò, dopo averla osservata a lungo. Era un capellone, uno di quei giovani che sembrano avere sempre fretta, che non sembrano ascoltare mai. Vestiva in modo trasandato, forse, canottiera e jeans sfrangiati al ginocchio. Aveva un viso dai lineamenti duri, ma un sorriso tranquillo, di serenità interiore. - Permette? - le chiese educatamente e poi, senza aspettare risposta, guidò la carrozzella sulla pista, urtando ballerini senza darsene pensiero, e sulle note di un valzer, con perfetta padronanza, la fece girare, piano, e poi un poco più forte, mentre la pista si vuotava e alla fine rimasero solo loro, padroni assoluti della musica e del tempo. Maria avrebbe voluto chiudere gli occhi, si sentiva frastornata, ma non voleva perdere un istante di quel ballo e così si guardò attorno, ma non vide la balera, vide la 59 I Giovedì di Scrittura Fresca vecchia aia, i vecchi amici di un tempo, e si sentì stringere tra le braccia da Giuseppe, aspirò il suo forte odore di tabacco e cuoio e salute, e fu di nuovo giovane, la vecchia signora, e si lasciò andare al richiamo della musica e fu totalmente felice. La musica si tacque. La vecchia signora si trovò al solito posto. Seppe di aver sognato, ma una gioia nuova le riempiva il cuore. Si guardò attorno, gli occhi ancora brillanti. Incontrò il sorriso di un capellone 60 I Giovedì di Scrittura Fresca UNA VOLTA, ANTICA scritto da: Leone Occhi fissi a guardare stupiti. Una terrazza, fiori in giardino il tappeto verde s'incupisce, sopra. Nero, su un corpo di donna. Fiori, gialli e rossi sul vestito. Lei, la donna, avrà 35 anni anni, l'uomo 40 o forse qualcuno di più. Ha gli occhi grigi, lei, lui verde muschio e trottolano, capiscono gli occhi spillo della bambina stupita. Qui, di fianco, di fianco a me, guarda, il papà dice: Uno. Piede destro in avanti. Due. Piede sinistro in avanti. Tre. Piede destro in avanti. Va bene. Volta. Volta! Così. Da questa parte. Di nuovo: uno: cosa devi fare? Piede destro in avanti. Bene. Due: adesso? Piede sinistro in avanti. Tre. Piede destro in avanti. Volto? Volta, dall'altra parte. Ancora: 61 I Giovedì di Scrittura Fresca uno. Piede destro in avanti. Due. Piede sinistro in avanti. Tre. Piede destro in avanti. Volta. Un'altra volta. Uno. Piede destro in avanti. Due. Piede sinistro in avanti. Tre. Piede destro in avanti. Volto. E una ancora: piede destro in avanti (uno) piede sinistro in avanti (due) piede destro in avanti (tre) (voltare) destro avanti, sinistro avanti, destro avanti, voltare. destroavanti, sinistroavanti, destroavanti, voltare, destroavanti sinistro avanti destro avanti voltare, voltare, voltare. Volta. Adesso di fronte: dammi le mani, morbide le braccia: uno, due, tre. Volta. Volta. Un, due, tre, volta. Un, due, tre, volta. Un due tre volto. 62 I Giovedì di Scrittura Fresca unduetrevolto unduetre e volto gira unduetreevolto unduetrevolto, gira. uneduetrevolto e gira unduetrevolto e giro unduetrevolto, giro unduetrevoltogiro uneduetrevoltogiro uneduetrevoltogiro uneduetrevoltogiro uneduetrevoltogiro girounduetrevoltogiro unduetrevoltogiro Volto. Giro. giro giro giro. girogirogiro. girogirogiro. girogirogiro. girogirogiro. girogirogirogirogirogirogirogirogirogirogirogiro. Mamma, vai avanti tu!, ridono occhi marroni che guardano trottole dai mille riflessi e colori. 63 I Giovedì di Scrittura Fresca VERTIGINE scritto da: Omar Kesabian E così miss Vonegut accavalla una gamba, ha lo sguardo imbronciato e fissa una corona di spine riprodotta in un quadro a olio: “Si può avere qualcosa da bere?” Nell’ampio salone la musica di un valzer, sulle cui pieghe molli danzatori lasciano scivolare le gambe, volteggiando. Il francese, con le sue scarpe sporche di fango, è seduto sul divano e discute di certi tristi errori commessi in passato, e della necessità di liberarsi di alcune strutture. “Inutile zavorra, di questi tempi” afferma guardando fuori dalla finestra, come se all’esterno del davanzale questa sua affermazione si palesasse in tutta la sua nitidezza. Fuori, d’altro canto, nevica. L’uomo calvo che lo ascolta fuma e non stacca un attimo gli occhi dalle gambe di miss Vonegut che solleva un indice, fissa un cameriere negli occhi e ripete: “Si può avere qualcosa da bere?” Il suo profilo si staglia contro la pallida carta da parati rosa, come se la sua figura si spandesse dallo sfondo contro cui appare in contrasto, macchia di sangue su un vestito da sposa. Sul pavimento i tappeti si rincorrono in pieghe liquide, senza che nessuno, fra i vari tacchi che li lisciano, si prenda la briga di appianarle. Una lampadina, su un’applique voluttuosa inchiodata al muro singhiozza e si spegne, come un colpo di tosse. Miss Vonegut, attenta osservatrice di ombre, riceva dal cambio di luce un senso di stordimento, “Una vertigine” dirà, mentre qualcuno l’accompagna fuori con il gomito a squadra incastrato nel suo. Il cameriere, di ritorno dall’ordine di un volto che non dimenticherà, resta con un bicchiere di vino in mano, guardandosi intorno, una mano dietro la schiena. E in cucina cade un coltello, con più efficacia e nitidezza. Fra le due immagini il senso di una storia che cammina di riflesso in riflesso, per esclusione, fino alla scena originaria. * In una piantagione di caffè, in Brasile, d’improvviso le mani che raccolgono e mettono da parte vengono sorprese dal disordine continuativo di una pioggia bianca che non hanno mai visto. Una nevicata, con l’eleganza e il disordine tipico delle cose incoerenti e vive viene giù a spirale, mente tutti i nasi si voltano verso il cielo, francesi. In alto. Così come dall’alto, il poeta, alle due del pomeriggio versa zucchero in una tazzina di caffè, rimirandone il bordo dorato. 64 I Giovedì di Scrittura Fresca Resta ad osservare la crosta assorbire e ingoiare, componendo tante croci col cucchiaino dentro alla tazzina, per sciogliere, per mischiare, proprio come dalle immagini si creano le frasi. In quel momento entra una ragazza, ha gli occhi inchiodati nel muro opposto, lo sguardo che si inchioda alla fine della scena, come lei fosse in un punto lontanissimo e si osservasse compiersi. Il poeta ha appena il tempo di notarla, sagoma nera in contrasto con la luce proveniente dall’esterno – notarla alzare un braccio, e alla fine del braccio la mano, le nocche sbiancate, l’occhio muto della pistola, e la deflagrazione. Una macchia a forma di isola si apre nella camicia bianca del poeta, colpito al cuore. Colpito al cuore. Così come in una strada di Venezia, circondata dalla calma abbondanza del mare in grigio e dal profilo della basilica, una ragazza, seduta per terra, sente una goccia calda scivolarle dal naso, e andare a cadere sul foglio che tiene in mano, una poesia. La ragazza fissa la goccia slabbrata a forma di isola che si apre sul foglio, simile a una macchia rossa su un vestito da sposa, a coprire una sola parola: cuore. In quel momento, in un mite valzer, due fogli di giornale le si fanno incontro dalla piazza, non visti, sospinti da un vento che li muove circolarmente, lento e languido, musica delle cose inerti. I fogli di giornale, passo dopo passo, muro dopo muro, raggiungono le gambe della ragazza e si bloccano, avvolti alle sue caviglie. Lei li fissa, inconsapevole della danza e dei danzatori, piccola dea distratta come la mano che distratta li raccoglie, e leggendo su una pagina la parola “perduto” li getta in un cassonetto, alzandosi, e infrangendo definitivamente l’immagine, o riportandola da dove essa proveniva. L’immagine. Quella di due ballerini in un’ampia sala, che volteggiano sulla musica di un valzer, esclusi – fuori la neve – una lampadina in un’applique che emette un piccolo colpo di tosse e si spegne, inchiodata nel muro – i due, vicendevolmente assorti l’uno ad abitare gli occhi dell’altra, giro dopo giro, piegando dolcemente le gambe, vanno a cozzare contro uno specchio, che frantumandosi si divide in una molteplice schizofrenia di immagini, non viste, fra cui quella di un cameriere che sta con una mano dietro alla schiena, in cerca di una signorina che le aveva chiesto qualcosa da bere ed è improvvisamente sparita. Nella cucina, un cuoco cinese con una figlia cieca si lascia sfuggire un coltello che cade al suolo, riflettendo per un secondo, mentre la porta aperta dal cameriere sventola sullo stipite, le caviglie di miss Vonegut che pronuncia: “Una vertigine”. Che il francese che la sta accompagnando fuori morirà il giorno dopo sono solo pettegolezzi di una penna frivola. 65 I Giovedì di Scrittura Fresca GITA A FRIBURGO scritto da : Dolphy Si rese conto improvvisamente che il tempo, quello vissuto, era al suo termine. Fece una semplice somma algebrica: i giorni passati erano più numerosi di quelli a venire. Incredibile come tutto precipita, una grande corsa la vita e una brusca frenata davanti a un baratro, quel baratro. Luisa aveva molti più di anni di quanto ammettesse a sé stessa e quel suo pervicace attaccamento al passato la rendeva immune al trascorrere del tempo. Viveva ormai quasi isolata nella sua camera da letto. Sul tavolino una scelta di vecchie foto, in un portacarte sulla toletta una busta con le sue ultime volontà, ritagli di giornale, alcune prescrizioni mediche. Su uno dei comodini accanto al letto il lettore di CD e nastri con canzoni ascoltate e riascoltate, canticchiate a voce bassa. Sulla poltrona ad angolo i due gattoni dormicchiavano praticamente tutto il giorno, pelo contro pelo. Una vita molto intensa la sua, quando negli anni ’40, moglie di un funzionario della Shell Oil in Sud America, era solita fare la spola tra il Brasile e l’Europa sui grandi transatlantici che solcavano l’oceano in venti giorni. Le feste di bordo erano la sua specialità e il suo carnet da ballo era sempre pieno. Gin tonic la sua bevanda preferita. A Firenze l’aspettava il suo tenente tedesco, una stanza sui tetti, un giradischi con le canzone americane delle grandi orchestre e un carillon. Si rese conto. Lo sguardo fisso su quella foto e vecchie note a canticchiare vecchie strofe. Nella sua mente un abbaino che guardava le stelle, due occhi blu di ghiaccio - ancora un giro, prima che tu parta Di lui non seppe più nulla per anni e anni, sparito, ingoiato dalla storia e dalla ritirata tedesca verso il nord. Una volta provò a cercarlo. Le fu detto che era stato dato per disperso durante la ritirata. Non lo cercò più allora per paura di sentirsi dire che era. Ora, sul finire della sua lunga vita aveva deciso di fare una ultima gita dove Rudi era nato e cresciuto e probabilmente sepolto. Organizzò minuziosamente quel viaggio alla memoria e con molta fatica giunse a destinazione. Prese alloggio in un alberghetto vicino alla stazione per qualche giorno. L’indomani del suo arrivo si fece portare con un taxi al cimitero locale, cercò la tomba di famiglia e la foto di un ufficiale in divisa, ma invano. Delusa tornò in albergo. Il giorno dopo si recò all’indirizzo conosciuto, una villetta fronte strada con un giardinetto ben 66 I Giovedì di Scrittura Fresca curato. Suonò con mano tremante. Un’anziana signora si affacciò alla finestra e scese ad aprire la porta. - abita qui Rudi? - chiese Luisa - chi lo desidera? - sono Luisa La vecchia sbiancò in viso e balbettò qualcosa, aprì la porta e la fece entrare. Nell’ampio salone, in controluce, una figura era seduta su una sedia a rotelle, di spalle, immobile. Lentamente la sua mano girò la sedia e due occhi di ghiaccio la fissarono, l’uomo ebbe un sussulto e la sua testa si accasciò sul petto. Luisa lo riconobbe immediatamente nonostante le rughe, i capelli bianchi e le cicatrici sul suo volto. Restò impietrita per l’emozione. La vecchia cacciò un urlo e corse verso l’uomo poi guardò la donna, la prese per un braccio e l’accompagnò velocemente alla porta. La sera stessa Luisa ricevette una telefonata con la quale la pregavano di partire e non tornare più. Il cuore di Rudi non lo avrebbe sopportato. Due giorni dopo, Luisa era nella sua casa di Arezzo. Lasciò cadere la borsa da viaggio all’ingresso e come un automa si recò nel salone, aprì il cassetto del secretaire e ne tirò fuori un carillon. Dette la carica e la bambolina iniziò a girare al suono di un valzer. Luisa si abbandonò sulla poltrona, prese tra le mani la foto ingiallita dal tempo e un velo le annebbiò la vista. - Ancora un giro, prima che tu parta Quelle parole risuonarono come una pietra in fondo al lago dei ricordi. La bambolina terminò il suo giro e la musica cessò, così anche il suo dolore. 67 I Giovedì di Scrittura Fresca UN GIRELLO DI VALZER scritto da: Fabrizio - Dura la vitella! - si prendeva in giro Rashid, un macellaio indiano buddista che credeva nella reincarnazione ma che faceva più affidamento sulla carne. Dura sì, colpito a destra dalla mucca sacra e a manca dalla mucca pazza. - Porca vacca! Bestemmiò, lui che viveva ad oriente. Un figlio, una moglie e una collezione di figurine di calciatori internazionali. Lui era tifoso della Giuve, anche perché la Giuve in India era famosa e perché Rashid era pur convinto che nella vita come nel calcio c’è bisogno di rigore, e se uno si budda… beh, sta dando il suo assenso alla religione (scherzava mescolando sacro e profano). - Sereni auspici! - , esclamò Rashid, rivolgendosi ad un monaco dell’ordine degli arangianti del tempio di katmanduiott, - che posso servire a vostra anima? - . I monaci parlavano poco e compravano anche meno, si chiamavano arangianti proprio perché dotati di capacità d’arrangio senza pari, sostanzialmente una comitiva di Mc Giver che, entrati in possesso di una matita, di un uovo di camaleccornia e di un tampax, erano in grado di costruire una zattera da tre posti con guanciale per la notte e cambusa integrata. Rashid tagliò delle fettine di elefantasma zelante e diede in omaggio un salamino di galagone pezzato che i monaci apprezzarono, anche se il macellaio rimase col dubbio che non capissero bene la destinazione d’uso (culinaria, tuttattaccato) del cadeau. Era quasi ora di chiusura, il cellulare squillò più volte, la suoneria recitava versi di monaci buddisti col voto del silenzio, Rashid optò per il vibracall. Si faceva sera, sul fiume Gange, alcuni bambini vendevano puntini da fronte per santoni pronti ad invadere l’occidente non prima di aver pagato un master alla scuola italiana di Wanna Marchi, più in là un Eufrate con una sedia in mano domava Tigri. Non era una scena violenta, ma erano decisamente dei fiumi in piena. A sud, i cowboys finalmente raggiunsero gli indiani, ma resisi conto che non avevano in testa neanche l’ombra di una penna e che Toro Seduto stava in piedi dal ridere si rassegnarono e presero a fucilate tutte le vacche sacre del circondario, una di queste schivò un colpo e rivolgendosi ad una compagna di ruminanza disse “Muhhhhhhhhhhhhhh”. L’altra venne colpita a morte, ma fece in tempo a rispondere “Oh, mi hai tolto le parole di boccaahhhhhhhhhhhhh.......” e si consacrò definitivamente al dio barbeque. Rashid guardava interessato tutte queste cose ma non ne faceva una questione personale, e anzi non si fece abbindolare da un americano di origini scozzesi che sapendolo macellaio gli proponeva di entrare in affari con lui. - Mi dispiace - disse il nostro - non sono interessato ai suoi medaglioni di carne… Ho progetti più seri, io, signor Mc Donald… -, orgoglioso dei suoi principi rispose di nuovo al telefono. La moglie Danash gli ricordava che dopo cena avevano lezione di ballo. - No problema , rispose il marito con un accento transalpino, entrando già nella parte del ballerino un po’ bulletto francese, che lega il motorino alla torre Eiffel con la catena e poi danza 68 I Giovedì di Scrittura Fresca con la sua bella sui Campi Elisei. E tiptapando verso casa chiuse la porta alle assurde vicende che osservava intorno a sé. Dopo mangiato, stufi dello stufato di uffa (animale dal muso lungo ma dalla carne tenerissima) che avevano scaldato sulla stufa, presero la loro barca di sughero sardindiano e con una gita lungo il fiume che si rivelò romantica perché benedetta da una luna d’ebano, andarono fino alla palestra di Visnu’. Rashid era eccitato. Voleva provare un tango argentato con un rosario di salsicce di porcilum (insugnato di carne affumicata con sostanze buone buone), oppure un rock and rollé da tacchinaggio, magari con l’opzione di scambio coppia per avere l’opportunità di tastare il petto di pollastra. I suoi erano ovviamente interessi professionali, ma questi di tanto in tanto si rivelavano un macello, la moglie lo accusava di preferirle delle vacche da importazione, lui replicava che era solo lavoro e che cosi facendo stava solo mettendo troppa carne al fuoco, in fondo ora erano lì per ballare, non per discutere. La maestra Ester Parishgi richiamo’ la loro attenzione. Spense le luci, chiese loro di chiudere gli occhi, li prese per mano uno ad uno e li portò immaginificamente sull’astronave di 2001 Odissea nello spazio (alcuni nervosamente immaginarono Jack Nicholson che sbucciava arance meccaniche e vedevano bucce arangianti danzare nel cosmo), diede uno schiaffo discreto ma deciso a Rashid che invece della mano aveva tentato di prendere nell’ordine una coscia, un filetto e una tetta della Ester, accese lo stereo, illuminò la sala come un planetario, poi li spinse a credere che tutti fossero sulla riva del Danubio blu (“Ci saranno topi?”, si chiese Rashid, “e saranno buoni da farci involtini primaveratti?”) quindi pigiò play e il giro di valzer ebbe inizio. Tutti si annullarono armoniosamente in una coreografia dettata dalla loro anima che si era incastonata con le note del valzer con la perfezione di movimento di una catena di montaggio ma con la poesia di un cartone animato della Disney. Ester era commossa, quei personaggi, sconosciuti al mondo, anche goffi, con speranze risibili e desideri opinabili, che prendevano lezioni per orientarsi, sebbene fossero in oriente, ma per trovare un’armonia in generale e non solo nel ballo, ora si proponevano perfetti e chiunque li avesse potuti vedere in quel momento li avrebbe invidiati perché assolutamente felici. Rashid sorrideva, trasportato dal giro di valzer, la moglie lo amava trasportata da lui, lo tsunami che avrebbe dovuto di lì a poco alzarsi per fare una capatina sulla terra ferma rimase estasiato da tanta serenità, decisamente restìo a volerla interrompere andò a sbattere la testa sugli scogli di un’isola dove alcuni militari ameiraqueni facevano esperimenti segreti (che tali rimasero). Fu un giro di valzer, dunque, che impedì, almeno quella volta, che una statistica di morte potesse andare in onda come spettacolo ad occidente, come teatro ad oriente, ma soprattutto come somma di infinite tragedie che un giornale a/occidentale avrebbe sintetizzato con la crudele breviloquenza di una statistica perfetta. 69 I Giovedì di Scrittura Fresca UN GIRO DI VALZER scritto da: Dario Carta Non era sera quando finimmo in quell’unico stretto giro di valzer addormentato nelle scarpe Fu la mano ad incastrarsi appena sotto la scollatura sopra l’incavo glabro di vesti - avidi sarti nella punta calda delle dita ad aprirti lo sguardo Capelli raccolti smisero d’essere in breve e la postura ormai fu rotta in posa da tango tra le tue gambe e il mio bacino Musica in silenzio ritmava di corpi la stanza spegnendo le danze 70 I Giovedì di Scrittura Fresca UN GIRO DI VALZER scritto da: Talesien Piuma che voli tra le mie braccia nel giro di un valzer ci perdiamo Sogniamo di istanti ancora da vivere e tutto è leggero d'estasi libera Verde e turchese col nero screziato d'ambra e seta lasciano tracce Di gioia che puoi morirne, su tappeto di musica come scroscio allegro di torrente 71 I Giovedì di Scrittura Fresca OSTINATO FIORE CIRCOLARE scritto da: Alessandro Gabriele Il professore di fisica posò gli occhiali sulla scrivania di brutta formica e diede una schienata secca alla sedia che, da par suo, non si fece sfuggire l’occasione per scricchiolare di rimando una rispostina infastidita. Fuori dalla finestrella posta a due metri e mezzo d’altezza la piccola città di Linz immersa nella camera oscura della notte raccoglieva in silenzio l’estrema pena dei rami spezzati dall’ultima pesante nevicata. Nelle ristrettezze di una signora spelonca che poggiava proprio sopra la galleria del grande acceleratore di particelle, il professore sbatacchiava la testa appesantita, sgangherava coi pugni stretti gli occhi cisposi. Aveva controllato e ricontrollato, aveva pensato una serie di pensieri, aveva quasi deciso di non decidere alla fine, di nascondere tutto e tornarsene a casa rasentando l’indifferenza dei muri fino alla pace comoda del letto prima che luce di nuovo fosse e tutte quelle facce, di traverso e contro di lui, in fuga per le strade strette della piccola città. Tre ore e mezzo prima, in verità e per un colmo che si dà solo ai momenti che sono lì dal deragliare in disperazione, il professore era già corso a casa in un impeto di foga autoprotettiva rischiando di impattare in quelle poche persone certamente cattive che uscivano dal teatro in mezzo alla tormenta che flagellava Linz. Non riuscendo a ricordarsi bene come fossero andate le ultime ore, aveva ingollato per la terza volta la dose di pasticche spettanti alla serata, poi come tutte le sere aveva controllato se per caso nel frattempo non fosse rientrata Marianne dalla spesa quotidiana al mercato e infine si era buttato cinque minuti sulla poltrona del soggiorno per scavarsi una piccola tana di pace. Penso a Marianne, pensò, ci penso sì a Marianne, soprattutto quando mi viene meno il coraggio. Mi appare lei perché il dinamismo del cerchio è uno dei motori dell’universo, questo so. Lei, il suo volteggio ostinato di fiore circolare, quella vita di giunco come più non ce ne son state, nessun altra grazia così sfacciata, a solcare i grandi saloni impero del palazzo della Cancelleria. Ma penso anche a quando diversi anni dopo usava ancora concedermi il piacere del tutto domestico di esibirci al cospetto del grande Strauss in persona che se ne restava assiso come un feticcio piccato sulla nostra dormeuse di terza mano mentre io e Marianne volteggiando muovevamo quel po’ di vento che ci rimaneva tra il soggiorno il letto e la piccola cucina in ricordo dei grandiosi tempi che furono. Che bellezza e che vergogna, mia piccola libellula, ricordi? Al momento di rientrare in laboratorio, la porta semimurata della spelonca che occupava la parte bassa dell‘ala abbandonata dell’istituto di fisica di Linz lo avvertì 72 I Giovedì di Scrittura Fresca senza troppi fronzoli di fare piano altrimenti considerato l’accumulo di stridore esausto e gli anni si sarebbe finalmente levata la soddisfazione di dargli l’architrave sulla testa. Il professore corse alla scrivania con la certezza che quell’ultimo giro di ricordi di walzer gli aveva schiarito finalmente i pensieri. Anche Marianne avrebbe tirato un sospiro di sollievo a sentire che la simmetrica follia dei calcoli di quella sera era rientrata o era stata solo un abbaglio. Il professore, circostanza nient’affatto disprezzabile peraltro, non avrebbe più dovuto presentarsi al cospetto di Eisemberg, né obbligarsi per amor di scienza a confutare il neo-principio d’indeterminatezza delle particelle subatomiche e l’imprendibile gaglioffagine delle loro traiettorie spurie. Il professore si allungò quanto poté sulla sganghera sedia che, leggermente intenerita dallo sforzo evidente, gli risparmiò uno scricchiolio sinistro e fece fuori qualche tarlo solo per fargli piacere. Il professore rifece per l’ennesima volta i calcoli, disegnò per la ventesima volta il grafico delle traiettorie di ogni singolo positrone accelerato con gli ultimi fuochi di precisione che riuscì a trovare in sé. Non c’è pace, pensò sottovoce, nessuna pace, dev’esser giusto così, vai a sapere poi. Fu quando si abbandonò infine allo sfinimento più logoro, una sciatta tremebonda che portò in una frazione di secondo tutti gli anni della spelonca a pesare contro l’architrave minaccioso della porta, fu solo allora che il professore ebbe visione piena della natura del grafico, delle gravi implicazioni figurative dei tracciati, delle sinestesie musicali applicabili in derivazione, della ridondanza dinamica sfacciatamente reiterata che gli si parava di fronte sul grafico, quella folle simmetria abituata a spiraleggiare che come una tempesta neutrinica avrebbe sollevato del tutto la cigliosa rabbia di Eisemberg... Era solo un giro di walzer mio dio Marianne Eisemberg non deve temere benché traiettoria sfacciata così nell’estremità m’appare delicate ellissi furbe si incorrono e si incorrono e si pressano son tali le impronte dei passi tuoi Marianne son solo molecole di gas io ti ringrazio per questo sguardo estremo tuo piede pennello dio sinuoso in tre quarti incedere in subatomo terra madre e colma infinita distanza ci separa nucleo senza tacere la proporzione relativa delle grandezze che è la stessa replica solo ora vedo Marianne la stessa replica d’architettura dolce e incontenibile che tiene insieme le stelle e slarga l’universo anche se adesso è tutto buio è tutto UNO e non potrò più dirlo e non potrò più dirlo e altro non capiterà 73 I Giovedì di Scrittura Fresca UN WALZER DI FIORI scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo La Margherita Margherita porta l’infanzia in bocca ed i suoi petali bianchi girano come pali del mulino al vento quando indossa il grembiule da mattina a sera resiste come primo ed ultimo fiore al tempo La Viola Nei fili d’erba un posto d’onore per l’umile fiore che canta in coro Composto di specchi d’ombra e d’amore si veste e si spoglia del suo colore. Allo spirito delle fate dedica la sua danza. La Rosa Cortese regina dell’eros che tra petali gaudenti avida ti apri ad umidi segreti Prometti soddisfazione ma taci del dolore che veste lo stelo troneggia l’amore Morire senza corona potresti ma non senza spina 74 I Giovedì di Scrittura Fresca che se per donarti ad una mano gentile ti spogliassero di essa profanerebbero non solo l’orgoglio ma anche l’onore dell'indiscussa regina che ondeggia sul trono. Il Tulipano Danza di gocce su petali giunti come mani in preghiera lo stelo ad arco al sole s’innalza tra pioggia e colori di nubi viaggianti La bella stagione in punta di piede al tulipano incede che ora a petali dischiuse strappa un sogno dal cielo Il Papavero Il sole si estende sui papaveri ardenti e memoria ondeggia al tiepido vento Sui petali un morso dell’attimo fuggente prendono a brillare gocce carminio tra bionde spighe del grano. L’Orchidea Sei sbocciato orchidea a svelare segreti porpora dai petali eruditi un manifesto di vita 75 I Giovedì di Scrittura Fresca Ti ergi potente e fiero a scalfire l’aria di vita breve Ti è concesso morire aristocratico ed elegante ad inondare la stanza di quiete e di solitudine restano a sfaldare misteri d'Oriente. 76 I Giovedì di Scrittura Fresca 77 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Tre 24 Marzo 2005 MUMMIE Hanno partecipato: CYB – Roberto Dice la sabbia del deserto (special guest) Alessandro Gabriele Mummie (racconto quasi sapienziale) Dolphy Mummie Fabrizio A’ mummia Petrolini Horrorganizzazione di un museo (in Ramsettete fasi) Dario Carta Le mummie Vaan Mummia (lo spettro della totalità) Fulvia Rommel Necatrix Come una mummia regale in una piramide con coordinate di stelle Sexi-mummia Virginia Mummia liberata? Leone Mummia? Ettore Bilbo Figlia della bellezza Fucsia Povera mummia povera Doremi Carta igienica Serenella La mia mummia Talesien La mummia Nicola Martini Voglio morire in beata solitudo, annegando nel fermentino (Imothep) 78 I Giovedì di Scrittura Fresca DICE LA SABBIA DEL DESERTO scritto da: CYB Roberto Spero che tu possa comprendere il significato della carezza del vento del Sahara e le parole sussurrate dalla sabbia di questo deserto che punge delicatamente la tua pelle, sotto questa brezza al morire del giorno, in discorsi di avvertimento. Ti vedo assorto e rapito, accoccolato sul crinale di una altura, ad osservare una teoria di dune che scuriscono al tramonto mosso, mentre l’aria raffredda e le ombre allungano una scura coltre su palmizi lontani. Il cielo è terso ora, senza riverberi, con il sole che rapidamente scompare all’orizzonte, e i colori sono più accesi in un purpureo espandersi che stupisce e lascia sgomenti. Sensazioni già da me provate, splendide, di struggimento che invoglia a piangere di gioia per la grandezza della natura anche nei suoi aspetti più desolati. Spero che tu possa apprezzare l’ultimo mio abbraccio di polvere e granelli di rena che il vento sospinge laggiù oltre quella gobba più pronunciata di altre. Ascoltami prima che io mi allontani. Non oltrepassare mai quella duna. Ascolta lo spavento dei saggi berberi che non osano avventurarsi oltre, verso quella landa che si perde in quelle lontane gole rocciose. Non insistere per dirigerti di là. Leggi in quei volti smerigliati, di cuoio, la paura che salva l’esistenza nel rispetto di ciò che si conosce e si teme. Io non volli prestare loro attenzione, derisi l’antica sapienza dei popoli del deserto, e ora non posso che avvertirti mentre accarezzo i tuoi abiti sudati che odorano di benzina e latte fermentato di cammella. Ti pizzico la pelle del viso e cerco di chiuderti gli occhi irrequieti per evitarti il mio stesso atroce destino. Ero come te, non tanto tempo fa: baldanzoso ed entusiasta della vita, curioso come quei babbuini che vidi a Gibilterra, impertinente e sfacciato come quei ragazzini svegli di Tunisi dal sorriso candido come sale marino. Sfidai le terre aride. Ero bene equipaggiato: cammelli e dromedari, guide, viveri e acqua. Mi sentivo il signore del deserto e mi pavoneggiavo in abiti non miei come se fossi a casa mia. Gli accompagnatori indigeni scuotevano il capo tra compianto e divertimento incredulo. Essi sapevano chi è il vero padrone delle zone che avevo deciso di esplorare. Cercarono di dissuadermi dal continuare oltre queste dune che ora tu contempli al tramonto. Mi parlarono sommessamente del Signore degli Scorpioni e del suo territorio da non 79 I Giovedì di Scrittura Fresca profanare. Li apostrofai come servi codardi, senza rispetto per il loro sapere, impudente, e mi avventurai orgogliosamente da solo oltre quella gobba, a tardo pomeriggio, con il fresco, ignorando brezze carezzevoli e sabbia sul volto che mi scongiuravano di non proseguire. Ahimè: non conoscevo il linguaggio del vento e della sabbia. Avevo deciso di pernottare in prossimità di una gola, quella laggiù lontana, che sembrava quasi a portata di mano in un effetto ottico traditore delle deboli percezioni umane. Avevo con me poco bagaglio e un dromedario che stranamente recalcitrava, neanche fosse stato un altro zotico berbero della mia carovana. Procedevo a piedi e lo trattenevo per la cavezza; ero costretto a strattonarlo, di tanto in tanto, per evitare che si impiantasse nella sabbia finissima che stava raffreddando velocemente al crepuscolo, curiosamente rossastra in un contrasto cromatico splendido e inquietante. Mi venne in mente un’associazione di idee pittoresca, con immagini di mummie polverizzate di antichi musei: avevo la sensazione, infatti, di camminare nella polvere sedimentata e solidificata di secoli di storia. Il rossiccio, con l’incedere del buio, assunse toni violacei di sangue. Il cammello improvvisamente scartò per qualche ombra o per un cedimento del passo e mi sorprese disattento. Mi sfuggì il laccio dalle mani e vidi la bestia fuggire, verso la direzione da dove eravamo venuti, in un galoppo sfrenato di animale impaurito. Valutai con freddezza che non mi ero allontanato poi troppo, ma che non avrei dovuto proseguire oltre: avevo con me solamente una borraccia e uno zainetto con pochi viveri e un caffettano arrotolato per affrontare i rigori della notte. Mi volsi intorno ed ebbi i primi avvisi di ansia per nuove percezioni mai provate prima. Rumori. I rumori del deserto nella sera incombente illuminata da una luna che appariva come un ghigno storto a deridermi per l’imprudenza e la superficialità. Tutto intorno a me ormai dominavano i colori blu petrolio, violaceo sempre più scuro, nero e un fievole baluginare lattiginoso che conferiva al paesaggio un’aura spettrale. Percepivo nell’atmosfera circostante un odore persistente di polvere e di terra riarsa che rifiatava. E ancora i rumori… Uno sfregare sommesso di creature che fuoriuscivano dalla sabbia nel silenzio di un’aria morta senza più vento. Alla luce fioca distinsi piccole sagome luccicanti di nero e rabbrividii: scarabei…e scorpioni… Mi maledii per il pressappochismo e per la smania di curiosità non disciplinata dalla prudenza. 80 I Giovedì di Scrittura Fresca Mi posi in difensiva, attento a non pestare nulla che si agitasse, scrutando nel buio febbrilmente un riparo che mi concedesse il piacere di sdraiarmi per riposare. Le dune parevano scomparse: solo una immensa scura distesa piatta e uniforme brulicante intorno a me di impercettibili strofinii. Poi avvertii altro e la mia inquietudine cominciò a trasformarsi in vera paura. Udii un sordo brontolio grave e notai il riaffiorare di una nuova brezza, gelida, che smuoveva il terreno in sbuffi. Mi stavo abituando alla poca luminosità e potei osservare, con raccapriccio, intorno a me, in controluce, un muoversi ondeggiante a pochi millimetri dal suolo, uniforme, scuro lucido molto frastagliato, di zampe, di antenne, di chele, di pungiglioni. La brezza aumentò di intensità sollevando mulinelli di sabbia umida e luccicante di umori di insetti. I mulinelli si cercavano e si univano tra loro sospinti dall’aria e la sabbia acquistava una sua consistenza propria che aumentava di altezza e che pareva dotarsi di sua autonomia nel movimento. Mi coprii il volto a proteggermi dal vento che stava diventando violento: sollevava sabbia e insetti e davanti a me si stava materializzando qualcosa. Distinsi un essere grottesco e orrendo, un impasto di sabbia densa e fine impalpabile come cenere, frammisto a gusci lucidi di scarabei luccicanti e di chele e corazze di scorpioni neri brillanti alla luna. L’essere creato dal vento si concretò come un gigante, rispetto a me, dalle movenze controllate e severe e da una sua fisionomia umana minacciosa. Mi fissava sogghignando. I bagliori delle sue pupille erano due grandi scarabei fosforescenti nella notte. La sua sagoma somigliava al corpo di un lebbroso, con insetti che individuavo come ulcere e ferite su una pelle di talco granulato spesso, ora violaceo. Poi trasalii di raccapriccio nel concentrarmi ancora su quello che ipotizzai fosse il volto. Allo sguardo maligno si era aggiunto un profilo disegnato da vari tipi di scorpioni e la bocca del mostro era una chiostra di scorpioncini albini con due lunghi innaturali pungiglioni bianchi al posto dei canini per il più mostruoso dei terrificanti vampiri. Compresi agghiacciato. Era il Signore degli Scorpioni, il principe del Male di quel territorio che io stavo profanando con la mia presenza. Rimasi immobile, affascinato dalla visione, terrorizzato come un lèmure. La creatura si riscosse di vita propria e il suo sguardo si palesò vivo mentre il vento cessò d’incanto evidenziando di nuovo l’eco di un incessante brulichio, discreto e assordante insieme, in schizofrenica percezione della realtà. Venne verso di me, il mostro, con quello spaventoso ghigno di cheratina rilucente, diabolico Arcimboldo sahariano. Mi sentii avvolgere e stringere da un abbraccio di talco, polvere, sabbia, mentre percepii un risalire dai miei piedi di altre creature che mi zampettavano sui polpacci. Subii, all’improvviso, innumerevoli punture, tutte insieme, lancinanti, per tutto il 81 I Giovedì di Scrittura Fresca corpo, che mi paralizzarono nel terrore, e vidi il mostro chinarsi su di me con il suo volto orribile. Urlai e urlai a perdifiato nella notte, inascoltato. Poi ebbi la percezione dello smarrimento di me, della mia figura come uomo in carne ed ossa e sangue, nella consapevolezza di una condanna ad una maledizione per la mia superbia. Mi disfeci nel dolore e nella sofferenza. Semplicemente. Mi decomposi in una metamorfosi che trasformò la carne di uomo in cibo per le creature del deserto, per poi mutare ancora in sabbia polverosa fina che è quella di ora che ti mormora consigli, condannata ad essere viva e sospinta dal vento. Ora posso solamente avvertire i curiosi che passano da queste parti sperando che mi intendano. Posso solamente sperare di riuscire a salvare un’anima per riuscire a trovare pace con la mia anima nell’eterno riposo in questo terribile deserto. Salvati, ti prego. Ascolta il mio soffio per quello che conserva di umano. Salvami, ti prego… 82 I Giovedì di Scrittura Fresca MUMMIE (racconto quasi sapienziale) scritto da: Alessandro Gabriele "Non ti accorgi di come il vero scopo della Neolingua sia di restringere la capacità del pensiero? Alla fine compiere crimini di pensiero sarà quasi impossibile perché non ci saranno parole per esprimerli... Ogni anno sempre meno parole, e le possibilità di conoscenza ridotte..." G. Orwell - 1984 Con queste parole, varando la ridondanza del significato in oltre 36 milioni di differenti dialetti e impulsi e suoni, giurammo un’eterna fratellanza collettiva sotto i crepuscoli grandinanti dei sette soli del quadrante Logos XIX. Al termine della cerimonia e in seguito per molti eoni, non ebbi mai modo di spiegarti ciò che pur è implicito nel compito della nostra discendenza, non ne ebbi il desiderio nemmeno quando, nel corso di un esercizio di concentrazione collettiva nell’altitudine olografica dell’orbita di Bazzan Zero, una delle tue ninfe elettroplasmate di classe Rossy2 mi scagliò contro il suo grado sublimine acerbo sotto forma di antichi linguaggi involgati. Ciò che richiede tempo, o la carezza stentata di un attimo in cui tutto è intuito già, le essenze, le conseguenze, il silenzio che adesso ci separa, Platoski. Svegliatevi Mummie. Di nuovo è la salvezza di questo mondo l’ossessione che percorre il filo sull’ultimo rocchetto di coscienza di quest’universo in guerre fisiche e mentali che sta per rompersi in singhiozzi di regressione psicopolitica e s’appiattisce in monologhi inquieti di cui pagheremo la confusione, pagheremo la guerra tutti noi quattro lati destinati dell’Unico invisibile che regna centrale ed è nostra discendenza unica. Adesso qui in questa caverna, osservo i vostri antichi occhi conservati fissi in brillantezze estetiche che seducono, sotto il fasciame di bende, dentro la forma di materia rappresentata cui avete deciso di consegnare il verbo infine, sottraendolo dal patrimonio comune. Mummie. Guardo e sono occhi, fasciame di nervi costretto dall’atto stesso ad assumere una forma ideale che non ha niente di essenziale. Dovrò aprire questi sarcofaghi da spelonca uno a uno fino a trovare la faccia che ti sei imposto, l’espressione sprezzante che ti ha catturato, Platoski, fino a svolgere una a una tutte le tue bende di satrapo immaginale, solo allora forse tu e io, riflesso impossibile, devozione d’energia che un 83 I Giovedì di Scrittura Fresca tempo come tutto appariva. Una storia sarà quanto avremo per trovarci, se vorremo, Platoski, non esiste altro canale. Ma se preferisci sentimi qui adesso nel ritmo del come che annulla ogni cosa oltre. Fu nell’ultima delle ere corporee che ci capitò, in seguito alla Grande Zeugmatosi caratteriale collettiva, le genti dei non-sbocciati si distribuivano su piattaforme antigravitazionali di fortuna chiedendo senza voce che le fosse somministrato il verbo. Ciò che feci con la massima naturalezza fu disperdere la conoscenza al vento di quella moltitudine di piccole spore umane fidando in un disegno che tutti comprendesse. Tuonasti tu allora, in un battito d’ecoriflesso semantico alla maniera scivolosa di un Diablo3, contro la mia responsabilità etico-frattale nel somministrare la conoscenza alle nude masse illuse. Masse barbare, dicesti, proprio così, con arcaismo singolarmente preciso nel definire il fastidio che il vecchio volgo di carne ti suscitava. Masse che renderanno esponenziale la curvatura di deriva entropica, balbettavi tra scariche di coscienza non stabilizzate, sono scarti pre-psichici senza possibilità alcuna di inventare altro che rumori di fondo, destini minori la cui inerte lucentezza artistica rischierebbe di oscurare noi cristalli di numerazioni perfette. Alla luce riflessa in tonalità di pietra della spelonca, sotto l’incombere del numero sempreSè dei tuoi sarcofaghi preziosi, guardo adesso la spirale di vita che mi precede, infinito ciclico rappresentante di esistenze in carne che ho abitato. So che da un conto giovanile che sparpagliava aguzzi frammenti di realtà è nato in me un calcolo di seta matura che scava argine rafforzando l’energia della misura. Nel tempo ordinale ho separato fino alla massima divaricazione sostenibile i concetti e le passioni, le figure e le essenze, ho generato guerre millimetriche e ho frustrato destini perché procedessero paralleli come vecchi cavalli da tiro credendomi superiore e intangibile e inereditabile, allora eravamo anche in te, Platoski, in un altro tempo che mi respinse per moto proprio ondulatorio fino a qui nell’incombenza di combatterti. Adesso che ho il tuo viso di spelonca sbendato irrigidito tra le mani mi accorgo che non ci sarà bisogno, se c’è salvezza al mondo di oggi che si corrompe è connettere ciò che di dinamico vibra nel transitorio buio delle galassie, nel fango d’animo dei non-sbocciati fino alle ascendenze comuni di ogni cosa. Il cerchio di Shiva creatore che guida il carro impuro della Nataraja. Perché ci sia un futuro tangibile a ogni mondo prossimo a fine, occorre farsi antenna e captare, restituire, connettere, scavare, svegliare, rovesciare, abbattere le caverne dove si annidano le essenze dei privilegi sensoartistici. Tutto questo è Uno e Ogni e infine Tutto. Il mio pensiero adesso è solo il rumore di una flotta di astronavi invincibili che 84 I Giovedì di Scrittura Fresca premono nella tua orbita, ascolta, trattieni. Se per giustizia naturale dev’essere fuoco, che fuoco sia, fuori dalle caverne. In basso, verso il seme incerto che abita l’uomo. Chorus: Uno è ciò che è stato e dispone e sarà di sempre nel mezzo sta ciò che sparpaglia via sotterranea divenire cose l’orbita occulta che raccoglie e finalizza un numero di rappresentazioni oltre l’infinito conoscibile le dispone come parti di un sé offerto in deflagrazione le svuota nel corpo delle masse celesti negli spazi infiniti nelle oscillazioni di ciò che vive e in tutto ciò che vibra sognando Uno connette senso energia gnosi semantica possibilità deriva scarto e in ogni luogo autodeterminazione finalità geometria condivisione impulso perché così da sempre trascorrono le cose oltre la radice in divenire Sé sommo architetto che tutto riguarda Uno non è che tutti sull’onda respirocosmo nel solco unico che fa calcolo primo la salvezza in un ritorno Se stesso ancora e Uno 85 I Giovedì di Scrittura Fresca MUMMIE scritto da: Dolphy Turchesi i tuoi occhi di pietra di candido lino le bende ormai polvere ma non il tuo corpo di oli ed unguenti scudo del tempo un lungo viaggio feluca su letto di limo verso valli a Ra dedicate verso dimore oscure di pietra su pietra inondate riemerse ad antichi splendori da silenzi di secoli senza fasti né onori funesti presagi nel buio a vegliare il tuo sonno e il mio 86 I Giovedì di Scrittura Fresca A' MUMMIA scritto da: Fabrizio Kamal placò la sveglia, erano le 5:00 del mattino, andò in cucina verificando opportunamente che i gioielli di famiglia fossero sempre al loro posto, li omaggiò di un grattino assemblante, quindi tirò fuori dalla credenza la moka e il caffè (miscela araba!), e si dedicò al rito preparatorio con la stessa ritualità di un appassionato di modellismo che sta montando il suo biplano di qualche guerra mondiale. La fiamma azzurra solleticava il culo alla moka, Kamal aprì la finestra e andò sul balcone per respirare l’aria fresca del mattino. Fuori era ancora buio, la luna era ancora lì, bugiarda. Kamal era un gran collezionista di pensieri buffi, e in quel momento stava meditando sulla possibilità che il suo nome fosse un urlo di battaglia degno di un gran condottiero maghrebino, ma poi sorridendo si disse che suo padre del condottiero doveva aver preso solo una martellata su una mano…Kamaaaaaaaaaaaaaaal… ihihih… rideva timidamente Kamal, che scherzava volentieri sulle proprie origini egiziane, che rispettava la terra italiana che aveva preso a pizze suo padre, che avrebbe voluto conoscere i suoi nonni e che… “Cazzarola!” disse con censurata ira mentre il caffè stava usurpando la superficie cromata della macchina a gas. Intervenne sul pomello come un gatto, ma ormai era tardi. “Chi non ha buona testa, ha buone gambe” si disse, riportandosi la saggezza di suo padre e probabilmente dei suoi nonni. Kamal faceva il pizzaiolo. Aveva due figli. Ma aveva perso la moglie, un’italiana. La malattia del secolo se l’era portata via: i soldi! Sì, Marta era una donna bellissima, si era innamorata di Kamal che in quanto a beltà sapeva il fatto suo. Ma poi si lasciò rapire dal lifting operato da azzeccatissime operazioni finanziarie che trasformarono il suo ex in una storia d’amore travolgente. Da quel 31 ottobre che la moglie gli disse “Dolcetto o scherzetto?” non ebbe più notizie. Da allora, diventò bravo narratore di storie buffe perché non poteva spiegare ai figli che la loro mamma era venuta meno al suo istinto naturale. E poi, in effetti, da buon egiziano sentiva il legame della famiglia d’origine e ogni notte sognava sua madre, tornata in Egitto per accudire la madre ancora viva, la quale in riva al Nilo piangeva per la sorte di suo figlio. Kamal era comunque felice in Italia, non era nato in Egitto, e per lui era solo un luogo esotico che però lo turbava magicamente, specie nei sogni. I piccoli si erano svegliati. La piccola Lisa si preoccupò di far mangiare ad Apu il suo bicchiere di latte con i biscotti, lei invece preferiva i corn flakes. Il giovane papà aveva avuto Lisa a vent’anni perché Marta gli aveva dichiarato un amore indissolubile e un desiderio di maternità genuino. Erano le 6 di mattina, prestino, ma bussò delicatamente alla signora Sonia, la dirimpettaia, che lo aspettava. Questa prese in consegna i due fanciulli, che avrebbe poi accompagnato a scuola e all’asilo. Era una signora veramente cortese, Sonia, bella, non sposata, con uno sguardo un po’ triste dovuto ad 87 I Giovedì di Scrittura Fresca una insoddisfatta vita sentimentale; lui, a sua volta, era troppo deluso da certe storie altrimenti magari ci avrebbe fatto un pensierino, per lo meno nel senso di pensarla come possibile signora Gaddiffh. I figli, in fondo, la consideravano al meglio. Kamal cacciò via un gatto che si era assopito sul cofano della sua marbella verde pisello (un affarone da 700 Euro, per lui che aveva avuto necessità di un mezzo, e per colui che gliel’aveva venduta che era più al verde della macchina). La accese in due tentativi e sfidò l’alba, dirigendosi all’orizzonte. La pizzeria era vicino a un bar, un covo di ragazzi con mille ideali di lotta, abili graffitatori di serrande, votati alla fede per la propria squadra, disoccupati per scelta consapevole, probabilmente di destra ammesso poi che sapessero espletare le operazioni afferenti il loro sacrosanto diritto di voto. Kamal rammentava con affetto che quando aprì fu vittima di avvisaglie razziste. A giorni alterni, sulla serranda, furono proposte diverse tipologie di insegna “Pizzeria der negro”, “Raus kebab e maus”, “Nordafricani manco Alì cani” (la semantica evolveva e l’impegno profuso ad elaborare nuove varianti epitaffiche era comunque in qualche modo segno di affetto che Kamal finiva per apprezzare). Dopo un mese, le scritte continuavano, ma i toni si moderavano e si compiacevano, perché l’inserimento del soggetto migrante diveniva inevitabilmente integrazione, suggerita pure da una voracità atavica che portò i nostri ad assaggiare prima 0,50 centesimi di pizza bianca fino a finire con festini esterni al locale a base di collette di pizza ordinata a teglie intere. L’ultima scritta fu un affettuoso nome che Kamal si guardò bene dal cancellare, poiché la trovò divertente, così in romanesco, ed era anche un chiaro riferimento alle sue origini. Kamal chiamò dunque er carota e gli chiese esplicitamente, dietro compenso di tre teglie di pizza poi mercanteggiate con un corollario di supplì e fiori di zucca fritti, di rifare quella scritta perbene e che avrebbe pensato lui a pagare le bombolette spray. Chiese solo di utilizzare come colore di base l’oro e di abbellire il tutto con un blu pavone e un verde scarabeo. I ragazzi, per la prima volta chiamati ad un impegno stimato in quanto tale, per la prima volta considerati dal contesto sociale nel quale si muovevano, realizzarono un’opera d’arte. Kamal si congratulò prima con l’ideatore, che si schernì mostrando con falsa modestia una galleria di ritagli dal “Corriere dello Sport” con varie foto di striscioni della curva sud. Dopodiché volle fare una foto con i ragazzi, tutti intorno a lui, davanti al graffito. La sua pizzeria aveva finalmente un nome! Il fotografo urlò “Sciogliete le righe!” e la grigia serranda espose così un tatuaggio metropolitano incredibile. Sullo sfondo di una grossa macchia beige, uccelli lontani fuggivano da assolate piramidi, palme speranzose frondavano a sinistra, dune di sabbia in primo piano sostenevano lettere cubitali degne dell’insegna di Hollywood. I contorni dorati delle lettere erano progressivamente sfumati in un blu notte, quindi in un verde elettrico, e finivano con una punta di rosso porpora. “A Kama’, giall’e rosso nun ce stanno male, ‘a maggica te porta fortuna!” disse Ambleto, direttore dei lavori, coordinatore dei cori della sud, unico diplomato del gruppo. In quel momento, arrivò anche Sonia, con i piccoli. Kamal era felicissimo e disse loro “Guardate che opera d’arte…!” si prese una pausa di soddisfazione “… dei miei amici qui. Dai, su, 88 I Giovedì di Scrittura Fresca andiamo a festeggiare!”. Un faretto alogenava orgoglioso la scritta: ‘A MUMMIA Kamal mise i piccoli in macchina. In preda ad una certa euforia, si fece coraggio e chiese a Sonia “Che ne dice, viene con noi per una cioccolata?”. “Perché no…?” rispose lei. La marbella verde speranza carburò lieta. Il commando ultrà serranda sud continuò i festeggiamenti, alcuni curiosi dalla finestra chiedevano “Ma quanto ha vinto ‘a Roma?”. Sulla riva del Nilo, una donna piangeva la morte della madre. “La notte serra i tuoi occhi, mamma” disse sotto la luce riflessa della luna. “Li riaprirà tuo nipote ogni giorno, riposa in pace, ora”. Molto lontano, un aitante giovane aveva appena messo a lievitare un nuovo impasto d’amore. La gentile Sonia si lasciò baciare. E poi lo baciò a sua volta. Lisa sorrideva felice. Apu rovesciava un succo di frutta sul sedile. Ma sorrideva anche lui. 89 I Giovedì di Scrittura Fresca HORRORGANIZZAZIONE DI UN MUSEO (in Ramsettete fasi) scritto da: Petrolini “Maledetta mummia! Lei sì, vecchia spilorcia mummia rinsecchita, altro che questa poveraccia qui dentro…”. Giorgio posò lo sguardo sul sarcofago di Ramsec II. Era il guardiano del museo di arte egizia, assunto con contratto minimo dal comune, quattro ore al giorno, quattro ore di umiliazioni operate da una direttrice settantenne che sembrava avere una sola missione per gli anni che la separavano dal grande tuffo nel fiume sacrofago… rompere i coglioni! Si stava laureando in Archeologia e questo lavoro lo aveva stimato a priori come ottimale per raccimolare qualche euro e per studiare. Ma non aveva fatto i conti con la direttrice, un metro e 55 centimetri di nervi sottili ma taglienti, denti scintillanti, labbra come stagnola, capelli raccolti in una cipolla che esprimendo la semantica del resto del corpo spingevano ogni interlocutore ad un istinto di pianto. Tutto questo popò di ben di dio era confezionato in una specie di tailleur marrone che indossava probabilmente da sempre e che contribuiva a stabilizzare il peso forma sui 47 kg. Era decisamente magra, le movenze erano ruvide ma silenziose, aveva l’abilità innata di comparire alle spalle all’improvviso, e in un museo tetro pieno di sarcofaghi e resti mummificati questa era un'abitudine per lo meno discutibile. “Maledetta!” ripeté Giorgio “te la farò pagare...”, stava spolverando il sarcofago di Ramsec, e aveva anche il compito di pulire i cessi dove peraltro visitatori dell’età del faraone egiziano pisciavano con difficoltà estrema nello scavalcare il salto di 5 centimetri che separava le loro tremanti gambe dall’abisso porcellanato. “Blearch…” pensò e cercò di evitare altre considerazioni sull’argomento. Ma nel contempo meditava vendetta contro la esile direttrice signora Salatino. Faceva richieste assurde e Giorgio francamente aveva voglia già di suo di fare ben poco. Il lavoro non era faticoso, ma l’ambiente era decisamente monotono. Si portava spesso della musica sul lavoro e un giorno la direttrice lo beccò con le cuffie ad ascoltare gli Iron Maiden. “PO-WER SLA-VE!” sillabò l’arpia. “Cos'è questa musica caciarona? E' di quella che ascolta la generazione di perditempo come lei? E questa copertina, col faraone mummificato, che cosa ridicola è? E’ così che lei sta preparando i suoi esami, ascoltando gl’Ironmaiden?”. “No, Miss, gli AIRONMEIDEN… e poi quella copertina è divertente, se lei apre il disco può vedere che tra i graffiti c’è un egiziano che legge alla luce di una lampadina elettrica e più in là c’è addirittura topolino, Mickey Mouse!”. Ci fu una pausa da black out. La feroce Salatino requisì il disco e minacciandolo con una lettera di richiamo costrinse Giorgio a due ore di straordinari. “No!” disse lui “La prego! Devo andare al concerto dei Mamamicarburo… la prego… ho già pulito i cessi… e poi…”. La Salatino non volle sentir ragioni, si girò su se stessa e se ne andò tenendo il naso su di 30 gradi rispetto alla parallela che lo 90 I Giovedì di Scrittura Fresca stesso disegnava sul pavimento. “Porca miseria egizia, maledetta! Maledetta mummia! Ma te la faccio pagare!” e giù un pugno sul sarcofago appena lucidato di Ramsec, che probabilmente cominciava anche lui ad avercene piene le cosiddette della famigerata concorvivente. Lo sguardo vitreo del sarcofago incrociò gli occhi di Giorgio, rifrangendo un gioco di luci sinistro che sembrava rivelare un progetto di scherzo appena presentato da un solo neurone all’assemblea tutta del cervello, che però da quel momento si mise in moto per discutere il disegno di legge e renderlo quindi esecutivo per far poi seguire un’opportuna programmazione. Dopo un ennesimo di secondo, la legge fu approvata dal cervello all’unanimità del collegio neuronale. La Salatino era viragoschematica, ogni giorno faceva un pisolino dalle 15:00 pm alle 16:00 pm. Sebbene il museo aprisse alle 16:30, l’indomani ci sarebbe stata la visita di una scolaresca e il relativo ingresso era previsto alle 15:30. La Salatino non stimava importante l’evento e lasciava la visita guidata al signor Travaglione, che da usciere portinaio per l’occasione diventava guida esperta in cose egizie. Il piano era semplice, l’indomani i ragazzi avrebbero visitato l’ultima mummia vivente - meglio dormiente! - secondo queste fasi: Fase 1 o dell’Epitaffio Geroglifico: Giorgio, discreto disegnatore, su una gamba piallata di un tavolino abbandonato, raffigura tale sequenza pseudogeroglifica: occhio, cane, sole, persone, stargate, mummia, piramide, che intendeva significare: "Attenzione, non svegliate il can che dorme, il sole non vi proteggerà, oh folle!, aperta sarà la strada alla mummia, che dorme nella sua tomba. Fase 2: Applicazione epitaffio al letto della signora Salatino. Fase 3: Cambiamento percorso guide rosse per visita guidata fino alla porta della Salatino (opportunamente aperta). Fase 4: Sonnifero – cartigienicazione zafferanante. Fase 5: Reperimento telecamera per cortometraggio horror. Fase 6: Fuga e dimissioni (o viceversa). 91 I Giovedì di Scrittura Fresca Fase 7 (eventuale): Garantire incolumità e tranquillità a studenti spaventati. La fase uno fu svago piacevole, la fase due risultò già più difficile anche se non era l’applicazione a renderla tale quanto la mistificazione all’occhio vigile della mummia. La fase tre sarebbe stata messa in opera proprio quella sera stessa, dato che gli straordinari avrebbero costretto Giorgio a rimanere un’ora in più rispetto all’uscita del soggetto Salatino. La fase quattro ebbe facile sviluppo grazie all’abitudine della cartacrespica di bere acqua solo lontano dai pasti. Costei, infatti, teneva sulla sua scrivania relativamente incustodita una bottiglia d’acqua minerale leggermente gasata da mezzo litro, che per la fase in oggetto fu siringata con pungente puntualità e successivamente avvolta in un mistero a doppio velo. Le fasi successive erano di semplice esecutività e comunque correlate agli sviluppi delle altre. L’indomani la mummia sbraitò come da copione contro Giorgio e a più riprese, ma questa volta ella dovette constatare che il ragazzo stranamente era sorridente, cosa che le creo qualche perplessità che mandò giù con due sorsate d'acqua. Il piano andava liscio, l’acqua, coerentemente, si confermava gasata. Ore 15:02, la mummia russava con effetto audio inquietante. Ore 15:20, il signor Travagliane indossava la giacca di ordinanza e il fiero taroccato cipiglio dell’egittologo. Ore 15:30, partiva il giro. Ore 15:31, si andava in scena. Telecamera, power - rec - on - zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz . Il fido Travaglione seguiva la guida rossa come un filobus segue la linea elettrica, e non si fece alcuna domanda nel constatare che questa svoltava stranamente verso la zona riservata agli addetti al museo, farsi domande non rientrava nelle sue competenze. La scolaresca vagoinante seguiva la motrice del filobus. Ore 15:45, la guida di fronte all’antro della Salatino era sotto il fastidioso peso di un buon mix di 56 scarpe varianti da un 36 minimo di una certa Lugana ad un 45 surfing del dinoccoluto Marco. Tutti erano più o meno disinteressati ad ogni cosa. La cultura egiziana non apparteneva a nessun neurone impegnato a pedalare nei loro meccanismi cerebrali. Qualcuno faceva battute volgari alla bella di turno, qualcun altro rollava canne incensando la trovata geniale della direzione del museo che aveva sparso profumi orientali in ogni dove, mistificando per cui ogni joint avventure di contrabbando. Il signor Travaglione era relativamente tranquillo. Ma ora si trovava di fronte a qualcosa di nuovo e doveva fingere padronanza cognitiva facendo così il gioco di Giorgio, che di nascosto stava riprendendo ogni singola scena. Il gruppo arrivò ai piedi del letto, la Salatino nel sonno era stata cartigienicata e cosparsa di zafferano pepato. Il signor Travaglione partì per la tangente e si scoprì dannatamente ispirato. Lesse il cartellino “Ramsec II”, l’input era minimale, ma era un vantaggio perché si poteva improvvisare meglio. “Dunque, signori”, fischi di noia si sollevarono, fumo di canne fece altrettanto, “questa è la mummia di Ramsecca seconda”, lesse male e fu magia vera, pensò Giorgio. “Il reperto…”, continuò la 92 I Giovedì di Scrittura Fresca guida “è stato rinvenuto così come lo vedete, senza un sarcofago e il museo si pregia di mostrarvelo in una stanza opportunamente arredata secondo lo schema dell’epoca. Come potete vedere, il corpo è decisamente sgradevole, mostra i segni del tempo anche se il processo di mummificazione lo ha reso immortale e lo ha tramandato a voi”. I ragazzi cominciarono ad insospettirsi se non altro perché quella sembrava una normale stanza, tetra ma normale, non egizia. Travaglione continuò in preda a fervore crescente. “Come potete vedere, ai piedi del sepolcro… “ detto ciò attese conferma di stupore che sottolineasse l’evento, la ottenne soprattutto perché il sepolcro era un letto con una coperta di velluto verde scuro degna di una veglia funebre “dicevo… ai piedi è possibile leggere il testo in antiquo gergoglifico (risate della classe che improvvisamente cominciò ad accomunare l’interesse per una spassosa visita nelle più assurde vicende egiziane) occhio, cane ecc. ecc. lesse sottovoce Travagliane. Fu geniale, perché tradusse “Occhio! Mondo cane! Le sole persone che avranno attraversato questo stargate (aveva visto il film) e cioè questa porta saranno vittime della mummia e resteranno con lei per sempre nella piramide…”. Detto ciò, si girò verso la classe sorridendo sinistramente, ormai entrato in pieno nella parte. La classe cominciò ad apprezzare la cosa come farebbe il pubblico di un cinema, con consapevolezza ma distaccata. Il delirio di Travaglione era totale e realizzava al meglio senza alcuna regia il reality show di Giorgio. “Sentite, avvicinatevi, la mummia sembra dormire, se prestate orecchio la sentirete respirare…”. I ragazzi divertiti fecero capanno intorno alla Salatino involtinata. Partirono dei flash e delle risatine, un ditino impertinente tastò un femore, l’esile corpo faceva la sua porca figura di mummia. Ad un certo punto, il Paolo Saccoia, secchione del gruppo, annotò che in effetti si sentiva qualcosa, un coppino gli segnò cinque dita di merito sul collo. Ma la stessa Silvietta, pettinfuori, confermò. E fu un consenso subito generalizzato che all’improvviso si ammutolì per dare necessaria pausa silente all’evento. La mummia russava, e pure tanto. Una sottile inquietudine guidò i primi passi verso una minimale retromarcia, Travaglione rimase interdetto. Fumo di canna continuava a irrorare l’aria appesantita anche da pranzi al sacco con frittate indicibili. Il momento culminante era al countdown. Giorgio fece scattare l’allarme, o forse fu la canna ad anticiparlo, fatto sta che la mummia si alzò sul letto squarciando le bende con la facilità con cui solo un mostro può farlo e facendo volare zafferano e pepe con un effetto scenico decisamente apprezzabile. I ragazzi iniziarono ad urlare e quindi a fuggire, il signor Travaglione si pisciò più semplicemente addosso. Giorgio non sapeva dove riprendere. La fuga era uno spettacolo incredibile. La Salatino urlava qualcosa come “orghhhh” che poi altro non era che Giorgio, ma aveva la bocca impastata dal sonnifero e da un po’ di catarro per cui echeggiava sinistramente lungo i corridoi egizi. I ragazzi fuggirono con danni lievi per i cocci antichi. Giorgio mise in atto la fase sei, le dimissioni erano sulla scrivania. La fase sette non ebbe realizzazione. Ci fu qualche spavento serio, ma niente di così preoccupante per giovani coronarie. Nel termine di tre ore fu ripristinato l’ordine. La vera mummia di Ramsec dormiva tranquilla e forse se fosse stata viva avrebbe avuto abbastanza spirito da divertirsi anche lei. 93 I Giovedì di Scrittura Fresca Un mese dopo, in un cinemino d’essai nel contesto di un laboratorio cinematografico, la locandina della serata recitava: LA MUMMIA (HORRORGANIZZAZIONE DI UN MUSEO): Interpreti: The awesome Miss Little-Salted The 15:30 school kids Mr. Troublejone Regia: George-Jo Non mancò una dedica dovuta: To my ancient friend Ramsec… 94 I Giovedì di Scrittura Fresca LE MUMMIE scritto da: Dario Carta Occhi cavi restano nascosti sotto secoli di stoffe un tempo profumate d'ingenua infanzia Non han visto i trabocchetti studiati del mondo costruito attorno a crearti lapidi colorate Vorrei togliere le bende a darti luce ma hai seminato sabbie mobili fuori Ed io affondo 95 I Giovedì di Scrittura Fresca MUMMIE ( lo spettro della totalità) scritto da: -Vaanmummie, che non hanno dubbi o domande hanno il calice alzato e brindano convinte di essere uniche. io vedo le loro ombre i tratti contorti che non ammettono repliche nere, inquietanti a diffondersi fitte e solide come radici del diavolo davanti allo sfondo rosso dell’inferno. tutto portano in se, il terrore che alimenta la condizione fissa della nostra sussistenza oltre una fine già scandita ai posteri. al sentirle vicine tu scapperesti eppure tra noi sogghignano aspettando con le braccia conserte ed il capo austero il balzo feroce sulla nostra passività. come alle soglie dei luoghi dove i boli rigurgitati si ghiacciavano in frazioni di minuti. 96 I Giovedì di Scrittura Fresca COME UNA MUMMIA REGALE IN UNA PIRAMIDE CON COORDINATE DI STELLE scritto da: Fulvia Rommel L’oblò della navicella sembrava un punto di vista molto interiore, tutto stava implodendo, la pressione era come quella di due potenti pollici su tempie tenere, i pensieri uscivano dal naso come fossero sangue. Qualcosa doveva succedere, niente di buono. Ormai Antonio era solo, era calmo e nervoso, era in braccio ad una nevrosi intermittente. Il suo cervello gestiva i suoi gesti senza preavviso, era capace di considerazioni squisite sulla natura logica delle cose e dopo qualche frangente, occhi sull’abisso, faccia nell’oblò, si abbandonava a bestemmie violentissime, invettive al nulla ma mirate con una precisione chirurgica. Nessuno poteva sentire quello che diceva, ma lo stava dicendo, lo stava pensando e lo stava sentendo, e il giudizio di altri non cambiava la sostanza delle cose. La sua compagna era lì senza vita su un tavolo di acciaio del laboratorio, il pilota automatico guidava la piccola astronave verso una rotta che si sarebbe affacciata sul nulla. Lui avrebbe fatto il suo dovere fino in fondo. Almeno così era programmato. Non era così per Antonio, che con un pugno tentò di frantumare una cabina di depressurizzazione, che subito dopo accarezzò timidamente, quasi scusandosi per la sua follia ormai ingestibile. “E’ morta” si disse digrignando i denti e piangendo, finalmente libero da ogni pudore adulto. Ora aveva le mani sui capelli e urlava una disperazione che nessuno in quell’assurdo spazio infinito e angusto avrebbe sentito. “E’ morta per un fottuto raffreddore. Posso fare un’operazione a cuore aperto, rimuovere un tumore, eseguire un’appendicectomia senza metodica invasiva, curare definitivamente una miopia, andare su un cazzo di pianeta semplicemente con un teletrasporto molecolare ma lei, la mia Lizzy, è morta per un raffreddore, perché non era minimamente ipotizzabile (probabilità stimabile in misura dello 0.0002%) per cui neanche un’aspirina ha avuto diritto di cittadinanza in quel cazzo di armadietto delle medicine!”. Lizzy era ancora bellissima. Era morta da un giorno. Non poteva più aspettare, non c’erano sistemi refrigeranti sulla navicella, la temperatura era regolata dal computer di bordo sui 20° C, non poteva più indugiare, doveva regalarla alle stelle perché la potessero accogliere così com’era, bellissima. Antonio buttò a terra tutte le medicine e cercò affannosamente i rotoli delle garze. Non lo sapeva neanche lui perché ma la cosparse di unguenti profumati, e lo fece con una ritualità assolutamente puntigliosa. Versò olii e lacrime, le sue mani erano un varco tra la sua anima e quella traslata di sua moglie, stava ancora parlando con lei. Le tagliò i capelli a zero. La baciò. Poi cominciò ad avvolgerla con le garze. Lasciò visibili solo gli occhi, perché sapeva che lei sarebbe stata curiosa di guardare le stelle da vicino. Poi adagiò il corpo nella camera di assemblaggio per le riparazioni esterne, chiuse le porte stagno ed aprì le paratie primarie. La vide dall’oblò, le sue lacrime la facevano galleggiare come sulle 97 I Giovedì di Scrittura Fresca onde gentili di quel loro fiume. Ora Antonio pensava a quel loro viaggio di nozze, al sole che accarezzava le loro palpebre, ai figli che non avevano ancora avuto, alla sabbia che scavò le loro giovani rughe, agli studi fatti per passione sui riti egiziani dell’aldilà, alla loro promessa di amore eterno. Antonio si teneva stretto la sua folle speranza. Sotto le bende di Lizzy, stretta tra le sue mani, l’ultima cartuccia di idrogeno atomizzato che avrebbe dato impulso per anni alla navetta. A lei aveva legato il filo che avrebbe deciso di lì a qualche giorno anche del suo destino. Liz si perse tra le stelle come una mummia regale in una piramide con coordinate di stelle. Antonio aveva contato tutte quelle utili, ma ne scelse una sola per il suo desiderio finale. Chiese perdono al padre. Poi si sostituì al pilota automatico e decise di andare incontro al proprio destino. 98 I Giovedì di Scrittura Fresca SEXI-MUMMIA scritto da: Necatrix Vestita di puro sangue mi spoglierò senza guardarti. Avvolta nella tua saliva mi raggelerò all'interno dei tuoi piedi. Ammantata dalla tua colla vischiosa affonderò le mie labbra sulle tue arterie. Sarà allora che ti scanserai per non morire. 99 I Giovedì di Scrittura Fresca MUMMIA LIBERATA? scritto da: Virginia La criniera del sole s’inchinava tra le pietre di là dai muri nascosti dalle pigre dune che parevano sopite. Non dava suono il giorno sotto il lucido arco. Il silenzio ingoiava tutto non si fermava, tagliava a filo la sabbia un segno a lungo sospeso in alto precipitava. Peso sciolto in barbaglio, il fosso si allargava Ora la terra era oro traboccante, la sua figura la spuma dell’oscuro, troppo buia per me, finché di scatto qualcosa mi fu intorno, nulla e tutto era perduto ed io fui destata dal sibilo delle sue labbra da secoli imprigionate nella vena di cristallo invisibile che attende la sua rinascita. 100 I Giovedì di Scrittura Fresca MUMMIA? scritto da: Leone Sarai voluta morir giovane, non ce l'ho fatta. Oppure vecchia, non ce la farò, e, ormai lo so, mi attiene il vivere in cartapecora di indios figurata, finché mi sarà dato il farlo . Eppure il fuoco di un'estate distruggerà carne che mummia non vuol albergare. Incenerire mi dovranno. E, grigia per l'aria nebbiosa, cenere potrà assorbire riflessi di luce radente da finestre in basso in abbaini di novecentesco metallo. Polvere, infine. Libera. 101 I Giovedì di Scrittura Fresca FIGLIA DELLA BELLEZZA scritto da: Ettore Bilbo C’è quella cosa chiamata deserto la fuori, una interminabile distesa di sabbia che si scioglie al sole e si lascia carezzare mortalmente dai raggi del tramonto. Poi la notte, freddissima. Così le hanno raccontato, mentre, la bocca aperta e gli occhi vaganti, rimaneva in estatica contemplazione di un tramonto in tutto simile a quello. Un tramonto in formato cartolina delimitato dai lati di una finestra, piccola, là in alto, là dove non può arrivare, se non salendo sul letto. La camera misura all’incirca tre metri per quattro, forse cinque. C’è il letto, un armadio ed un tavolo. In molti la definirebbero spoglia ma per lei c’è tutto il necessario. Quella è la sua stanza da quando è nata. No, non è vero, prima era da un’altra parte, quando era davvero piccola; ma in fondo che importa, ricorda quasi nulla di quel periodo. Lontano, si sorprende a pensare, lontano lontano, come quel sole là in alto che fra poco uscirà dalla vista. Una porticina collega la stanza con un bagno. Un lavabo, i servizi, uno specchio, una doccia. Punto. Non si ricorda la parola, eppure il suo maestro l’ha ripetuta tre volte solo la settimana avanti. Qualcosa di estremamente pulito, di sicuro continuava a dirle. Ah sì ecco: asettico. Il suo è un ambiente asettico. È così perché è malata, così dicono. Niente animaletti pericolosi e cattivi in giro, niente che debba temere, lei così giovane e pura. Come l’acqua di fonte, ha detto il maestro mentre la guardava languido. Eppure non ha avuto il coraggio di chiedere cosa fosse l’acqua di fonte, cioè sì, l’acqua sa cos’è ma questa fonte in cosa la rende particolare, più pura? Non ne ha avuto il coraggio, però, perché gli occhi del maestro indugiavano su di lei come un vestito sudato. Avvampava in viso cercando di non darlo a vedere. Questa storia della malattia continua a darle di che pensare da un po’ di tempo. Da quando le sono giunte quelle voci. Povera bimba dicevano, povera. Ma per cosa esattamente? Oh di cose delle quali lamentarsi ne ha fin troppe, che è sola, che non può uscire dall’edificio, che il maestro non le spiega tutte le cose che vorrebbe sapere. Una volta ha letto un libro che era rimasto sul tavolo del dottore (ah sì il suo caro dottore, Ernest si chiama, una strana persona dall’accento straniero) e che lei aveva rubato. Leggendolo ha imparato una parola nuova: recluso. Cioè una persona che non è libera di uscire e di fare quello che vuole. Come lei, ma lei non ha fatto nulla di male per meritarsi questa “reclusione”. Il dottore una volta le ha spiegato che la sua malattia è pericolosa e che non può avvicinarsi ad altre persone ed al mondo esterno, però lui le si avvicina senza problemi, la tocca, le parla. Quando ha imparato il significato di un’altra parola: bugia, le è sembrato che un 102 I Giovedì di Scrittura Fresca orrido peso le cascasse addosso, ma non da tanto in alto, no, da poco sopra la sua altezza così che la schiacciasse piano piano. Il sole se ne è andato lasciando il posto all’illuminazione artificiale che si accende da sola, automaticamente, e riempie il poco spazio della stanza come una pennellata uniforme di giallo chiaro. Anche il sole è una bugia, perché ogni volta fa credere di voler scappare per sempre, a nascondersi sotto terra, e poi invece ritorna. È un bugiardo buono il sole, almeno lei è arrivata a questa conclusione, mentre invece non sa se il dottore ed il maestro sono anch’essi dei bugiardi buoni. Le hanno detto che i suoi genitori sono morti, che devono tenerla sotto continua osservazione, che devono farle dei test, delle analisi, che il suo stato è precario ma che guarirà. Invece non guarisce, non è mai guarita, neppure una volta, almeno per il tempo di uscire da lì. Tutti dicono che il deserto è un posto brutto dove non si può stare ma invece lei crede che sia bellissimo. Come può non esserlo, basta guardarlo. A volte s’immagina che il deserto la chiami, che la voglia. Dicono anche che lei sia bellissima, la più bella sulla terra si è lasciato scappare qualche inserviente, ma non capisce come possa essere davvero così. Si è guardata allo specchio ma il deserto continuava a sembrarle più bello. Forse non ha capito ancora il significato della parola, qualcosa le sfugge, pensa. E poi ritornano nella sua testa quelle voci, quei bisbigli sopiti dalle pareti, quei tonfi sordi e cupi oltre le finestre oscurate. Quel rumore continuo che le hanno spiegato essere macchine. Aggeggi che servono per muoversi. Continuano ad arrivare e poi andarsene. E poi ci sono quelli che la guardano. Una volta al mese la lavano e la portano in una sala tutta bianca. Lei sta sotto a parlare col maestro del più e del meno e quelli che la guardano siedono su una balconata sopra la sua testa, oltre un vetro spesso. Vede le loro bocche muoversi avidamente, come se volessero mangiare le loro stesse parole. Gli occhi brillare. *** il dottor Ernest ed il maestro siedono come al solito nella sala da pranzo. Il pasto è stato da poco servito. - Ernest, la bambina comincia a chiedere sempre più spesso. Ha quattordici anni ormai. - Lo so… - il dottore rimane impassibile con gli occhi posati sul piatto. - Ed allora? - insiste il maestro, tenendo le posate a mezz’aria. - allora niente, che vuoi fare, raccontarle tutto? - forse è la cosa migliore. Gli occhi del dottore si alzano per la prima volta da che i due sono seduti, si posano 103 I Giovedì di Scrittura Fresca con accurata lentezza su quelli dell’interlocutore e dopo aver sbattuto le ciglia un paio di volte si immobilizzano, aperti, sgranati, verso una verità che vorrebbe mostrarsi troppo nuda. - la cosa migliore per chi Aziz? Per lei o per la tua coscienza? - per entrambe… credo. - e quindi vorresti dirle che lei è il frutto di un esperimento? Che non è malata ma che è un clone, che è figlia di nessuno, di una provetta di vetro e di una tecnologia avanzatissima, che è una persona delicatissima, che non potrà mai uscire da questo edificio perché davvero ne morirebbe, senza neppure lasciarle la speranza di una cura, la bugia riparatrice della malattia? - il tono si alza, - vorresti urlarle addosso le tue scuse, ah che scuse contrite, con le lacrime agli occhi magari, davvero, scuse sincere: non sapevamo, non credevamo, non abbiamo pensato al poi. Vorresti anche raccontarle delle visite magari? Di quei ricconi che pagano per vederla, come un mostro del circo, lei così bella, una bellezza omicida, capace di tramutarsi nell’orrido più buio. E magari spereresti pure che vi si sottoponesse ancora magari, per il bene di tutti… - no, questo no - non ne avrei il coraggio, finiscono di dire gli occhi bassi. - ed allora come credi di poter tirare avanti? Sono i loro soldi che ci permettono di portare avanti la baracca… senza di loro non ci sarebbe questo eremo impenetrabile a difenderla dal mondo, e non sto parlando solo dei batteri nell’aria, sto parlando di giornalisti, di medici, di altri scienziati, degli attivisti contro la clonazione. Lei è il loro spauracchio lo sai, li guardi i telegiornali Aziz? Li vedi quando vengono qui, oltre le mura dei cancelli, li senti urlare? Sono solo dei bisbigli ad arrivare alle nostre orecchie ma bruciano come lame roventi. Li senti quei bisbigli? - li sento... - rassegnato. - e li sente anche lei… *** Dopo lo spettacolo del tramonto si dirige in bagno, vuole provare ancora una volta a vedere la sua bellezza. Se potessimo accostarci alle sue spalle e sbirciare oltre la capigliatura lucente, nera come le notti senza luna del deserto, vedremmo due occhi profondi e scuri, con le pupille ritte al centro di un mare bianco, due isole del tesoro, e bandiere conficcate nel terreno i riflessi dorati della luce. Vedremmo un naso piccolo e canzonatore, diritto e proporzionato, affilato come la prua di una nave che le solca il viso all’altezza degli zigomi, due scogli di corallo, sui quali s’adagiano le sirene del rossore delle gote. Una pelle di papiro, sottile e morbida, sulla quale è scritto il mistero della bellezza: il titolo a grandi lettere degli occhi felini, lo svolgimento del viso, delle orecchie minute e la chiusa, magistrale, della bocca carnosa eppure sottile, semiaperta come un alba continua, semichiusa come un tramonto infinito. Questo vedremmo noi, guardandola da oltre le spalle, ma lei invece costretta a guardarsi da dentro se stessa, non vede che un viso di fanciulla ed il peso della 104 I Giovedì di Scrittura Fresca finzione, vede la finitezza dei tratti, la loro incompiuta grandezza, non come l’estendersi sacro, vorrebbe poter dire se ne fosse capace, del deserto. *** Il maestro Aziz è ubriaco. Chiuso nei propri alloggi col peso di pensieri proibiti si è scolato una bottiglia di brandy importato. Sente le voci dei contestatori, ma è notte e nessuno attende infuriato oltre i cancelli, sente le urla affollarsi nella sua testa, non più i bisbigli rauchi che giungono dalle mura ma le voci piene ed arrabbiate di un’orda d’accusatori col dito puntato. Verso di lui. Verso quei pensieri che ha, quella voglia che sente, quel desiderio che immagina rosso di braci sotto il nero fuligginoso dell’anima. Sente le voci e scappa. *** Il maestro è ubriaco. Lei lo sente arrivare di corsa e poi entrare barcollante nella sua stanza, lo scorge da dietro la porta del bagno, ha in mano una bottiglia. Sta parlando concitato ma non urla per non svegliare i guardiani. Sente qualcosa di elettrico stringerle il petto poi si ricorda, lo ha imparato anni addietro, si chiama paura. - piccola santa vieni fuori, piccola dea, devo raccontarti una storia. Lei si lascia vedere entrando nella stanza, è di fronte all’uomo che ora la guarda come se fosse la prima volta, quasi stupito di vederla comparire davvero. - ah, eccoti - riesce a dire il maestro, poi sembra tornare a tacere. Solo un attimo prima che sia lei ad aprire bocca lui ricomincia: - ebbene che hai? Non dormi? Senti le voci anche tu vero? Ah quelle urla come bruciano… ma non devi temere mia dea, no, non devi avere paura delle voci, non permetterò che ti facciano male. - ah, sono ubriaco! E che importa? Ti importa che sono ubriaco piccola? - no - risponde la giovane in un soffio di voce. - bene, meglio così… ah piccola… da dove cominciare? Ah sì, allora tu non sei, non sei… no ti dirò quello che sei: sei un clone! Ah sì, un clone. Un clone? Cosa è un clone? continua a pensare mentre le parole del maestro le arrivano come un fuoco di fila, confuse ed arricciate, accavallate come una stoffa troppe volte ripiegata. E poi cos’è questa storia che sua madre non è morta o che, cioè, lo è ma da millenni, come può essere? Sua madre? e dov’è? Parla più piano maestro, vorrebbe urlare mentre lui continua col suo fiume di parole. - dov’è? Ma certo, certo dov’è! Per dio dove vuoi che sia: nei piani sotterranei dove è sempre stata, piccola dea… grandi i misteri dell’universo. Ah - fa svenevole sbuffandole addosso un alito di alcol e nausea - dove è sempre stata - e poi s’accascia sul pavimento, troppo ubriaco per risentire della botta. Un rumore profondo e terrificante che la lascia esterrefatta. Si stringe nelle spalle per un attimo, aspettando di sentire i passi del guardiano 105 I Giovedì di Scrittura Fresca giungere dal corridoio, ma poi rimane solo il silenzio mentre il suo viso si apre ad un sorriso imbarazzato. È sola nella stanza con un uomo ubriaco e non ne aveva mai visto uno; mai ne aveva neppure parlato. Come del recluso aveva imparato cos’è un ubriaco sul libro proibito rubato al dottore. Poi si rende conto della porta. È aperta. *** Passare oltre la stanza delle guardie senza farsi scorgere è stato facilissimo, dormivano profondamente e nessuno l’ha sentita sgattaiolare via. Dal corridoio ha raggiunto l’ascensore. Sapeva bene dove dirigersi perché lo ha preso più volte, quando c’erano le visite. La stanza bianca dove la gente la guarda è proprio là sotto, nel piano sotterraneo dove non ci sono finestre. E pensare che tante volte era stata così vicina a sua madre, sua madre! In quello stesso edificio. Morta? Il maestro ha detto che era morta? Forse o forse qualcosa di simile, mummificata ha detto il maestro. Ancora una volta tutte quelle parole a cui non sa dare significato, come può sempre chiusa nella stanza. Lei che voleva solo vedere, capire. Cosa è la bellezza? Cosa è la morte esattamente? E cosa è lei? Un clone! Un’altra stupida parola. Sta percorrendo i corridoi del piano alla cieca, ora non sa da che parte dirigersi, tutte le vie le sembrano uguali. Ha sorpassato la porta della grande sala bianca e ha continuato svoltando a caso due o tre volte. Sul pavimento ci sono delle linee colorate, una verde, una gialla ed una rossa. Le piace il verde, lo vede talmente poco. Nel deserto il verde non c’è e neppure nei tramonti. Le uniche occasioni che ha di ammirare il verde sono quando le portano da mangiare verdura fresca e quando la conducono nella sala dei giochi. Molti dei suoi giochi preferiti quando era più piccola erano verdi. Per questo ha deciso di seguire quella linea. Giunge ad una porta imponente, di vetro molto spesso. La spinge e la oltrepassa di fretta spinta dal timore. Il suono delle sirene ed il tonfo alle sue spalle sono fulminei come il sopraggiungere del panico in lei. È chiusa dentro! *** Il dottore si sveglia aggrappandosi ad una fune tagliente, stava sognando una giungla inestricabile. Poi la corda si sfilaccia, le mani si tagliano ed esce sangue, il dolore pulsa ritmicamente come una sirena d’allarme… L’allarme della stanza funeraria. *** Si trova in un ambiente buio, le pareti sono di pietra, non come quelle dell’edificio, 106 I Giovedì di Scrittura Fresca sembrano antiche come gli stessi tramonti che vede dalla sua finestra. E l’odore è diverso da qualsiasi cosa provata in precedenza. Si dirige verso il fondo della sala, l’unica parte che sia illuminata anche se blandamente. Una luce rossa continua a pulsare a ritmo con il rumore, al quale comunque si sta abituando. La paura sembra calare, non è successo più nulla dopo che la parete della porta è venuta giù di botto. È rimasta semplicemente sola in quell’ambiente nuovo che fin dal primo sguardo l’ha affascinata. C’è una teca di cristallo di fronte a suoi occhi e dentro ad essa un corpo rinsecchito e contorto. Su una targa è scritto un nome, è il suo nome. Allora è mia madre pensa, si chiama come me, è per forza lei. Legge: Nefertiti, nome dal significato egizio di “la bella che è arrivata”, identifica la regina egiziana (XIV secolo a.C.), sposa di Amenophis IV (Akhenaton, 1364-1347 a.C.) …, e più avanti: Dotata di straordinaria bellezza e considerata dai suoi sudditi una dea, ha alimentato per secoli il mito della bellezza, divenendone simbolo. La bellezza, dunque, di fronte a lei. Ora capisce. Quella pelle marrone in parte ricoperta di bende putrefatte, proprio come le dune del deserto: così perfetta. E quel viso dalle orbite vuote non è forse atteggiato nella posa più profonda che possa esistere? Come dipinto da una mano fantastica. Era dunque questo il significato della parola bellezza che da sempre le sfuggiva e lei figlia, clone anzi, era destinata a raggiungere tale perfezione. La bellezza che in lei reclamavano tutti era il sospiro di questa più elevata e profonda, e la sua pelle morbida ecco che diviene tale e quale a quelle bende putrefatte; si immagina di potersela levare, strato dopo strato fino a riscoprire la propria vera anima, la bellezza dentro di lei, nella forma e nei colori di quel corpo muto, mummificato come ha detto il maestro. Ora capisce, lei è il clone e solo una volta mummificata sarà la più grande bellezza della terra, più bella addirittura del deserto. Ma come? Come raggiungere quel traguardo impossibile? Pazza e avida di questa ultima verità che ha scoperto girovaga nella sala, aggrappandosi a tutto e graffiando e cercando di spingere la porta bloccata e urlando. Deve uscire, deve chiedere al maestro come si fa, come si fa a essere una mummia? Non può più essere una reclusa, deve togliersi quelle stupide bende, quella stupida pelle che la costringe ad essere sola e ammalata. Deve sapere. Deve. È in quel momento che i cavi del sistema d’allarme s’incendiano. Un cortocircuito provocato dalle infiltrazioni di polvere negli anni, ed il fuoco divampa attorno alla plastica di alcune sedie disposte ai lati della sala, continua a farsi largo tra il legno degli attrezzi di scavo dimenticati da tempo, sembra desistere a quel punto senza aver più nulla da mangiare mentre la piccola Nefertiti lo guarda ammirata. È la risposta alle sue preghiere. È la voce della madre, è la mummificazione! E lei è il cibo per quel corpo impalpabile e rovente. Vi si getta con amore sentendo la puntura di mille aghi aprirle la pelle e bucarle gli occhi. Sì è la mummificazione, lo è, è il dolore che la mummifica, è l’urlo che la schiaccia contro il pavimento e la fa rotolare, è la liberazione. Non è più una reclusa ma una stella luminosa che brucia, una stella bugiarda che ogni mattina tornerà col 107 I Giovedì di Scrittura Fresca sorriso sotto i baffi a far vedere che no, non se n’era mai andata. Ah la bellezza! È un sentimento che arde. La porta si apre, la parete che era caduta si risolleva e dietro ad essa il dottore con negli occhi una maschera d’orrore. È venuto ad aprirle le porte. Lei ed il suo fuoco che corrono, lei e la sua bellezza libere. Poi è il silenzio, non c’è più dolore, rimane la luce delle fiamme, lei è una mummia finalmente, libera. Cade a terra sfinita, morta, e prende il volo. 108 I Giovedì di Scrittura Fresca POVERA MUMMIA POVERA scritto da: Fucsia Vuoti aperti gli occhi le mani sulle guance fermando il passo di un pensiero spezzato. Di legno i pochi denti e tu accucciata guardi giù dall’abisso di vertigine del tempo. Povera, nell’eternità, senza maschera d’oro. Immobile il movimento. Il buio conserva la carne di carta e quasi un ridere accenni in smorfia di ironica morte. Un raggio di luce è fine sicura. Vicino, un piatto rotto unico tuo tesoro, e, compagno di tempi eterni, avvolto in benda gialla il gatto tuo. Dorme. 109 I Giovedì di Scrittura Fresca CARTA IGIENICA scritto da: Doremì E’ finita la carta igienica . Il signor G. irrompe come una furia nel soggiorno, dove è raccolta la famigliola, impugnando il rotolo di cartone marroncino da cui penzola tristemente l’ultimo brandello mezzo incollato di velo sottile: - Questa è tutta la carta igienica che è rimasta!! Il signor G. è un patito delle condizioni impeccabili del bagno. E anche delle filastrocche improvvisate. Ogni tanto una delle bambine si dimentica di tirare la catena, così lui ha scritto col pennarello rosso un cartello che ha appeso sopra il water: CHI NON TIRA LA CATENA SUBIRA’ UNA GRAVE PENA! a cui ha fatto seguito, dopo brevissimo tempo, un altro messaggio, dovuto a qualche sporadica trascuratezza - si presume sempre delle bambine, facili capri espiatori in questi casi - attaccato subito sopra al primo: CHI LA TAZZA SPORCA LASCIA SUBIRA’ UNA GRAVE AMBASCIA! La fine della carta igienica è una specie di catastrofe. Annunciata però dal ridursi delle provviste ad un unico rotolo nell’armadietto, quindi evitabile ed attribuibile perciò a un preciso colpevole: la padrona di casa! - Ma tesoro, ero sicura che ce ne fosse dell’altra - si giustifica lei con un’espressione tra lo stupito e il costernato. - E invece era l’ultimo! - Ma se ieri ce n’erano due rotoli… - Appunto, dovevi ricomprarla ieri, non ridurti all’ultimo momento. - In effetti volevo farlo, poi mi sono dimenticata.. - Ah (sarcastico) Ma se io ti dicessi che non ho portato a casa i soldi perché mi sono DIMENTICATO di lavorare? - Ossignore, cosa c’entra? - C’entra, perché in una famiglia ognuno ha i suoi compiti! - Perché, non li svolgo bene i miei compiti? Per una volta che succede! - Ma se succede continuamente! Anche l’altro ieri col dentifricio! - Non era l'altro ieri, sarà stato un mese fa! - Niente oh, mai che ammettessi una volta… e con la pasta d’acciughe allora, che sai 110 I Giovedì di Scrittura Fresca quanto mi piace! Ma dei miei desideri in questa casa… - Oh che coraggio, ma se la pasta d'acciughe la teniamo solo per te... non mi ero accorta che era finita, non mi e-ro-ac-cor-ta, va bene? (grida lei esasperata con la voce che le trema) - Come devo dirlo (grida lui più forte ) che le cose si ricomprano non quando finiscono, ma quando STANNO per finire! Che bisogna fare provviste! Adesso vi faccio vedere io come si fa! Esce sbattendo la porta. La signora G. ha le lacrime agli occhi. Lia le fa le carezzine. Anna fa le boccacce al padre dietro la porta. Poco dopo il signor G. rientra trascinando dentro casa due enormi balle di carta igienica. Un centinaio di rotoli. In bagno non c’entrano. Le deposita nella stanza delle bambine. Sembra di buon umore. Va alla porta della camera matrimoniale, ma è chiusa a chiave. Bussa ripetutamente. - Va via! - Amore dai apri… - No! - Stellina, perdonami, non fare così… La porta si apre e si richiude. Si sente piangere. Poi ridere. Poi più niente. Nella loro stanza, il pavimento tutto ingombro di rotoli bianchi mezzi disfatti, le bambine giocano alle mummie. 111 I Giovedì di Scrittura Fresca LA MIA MUMMIA... scritto da: Serenella in punta di piedi nella stanza del tempo sciolgo le bende di un arcano mistero mi guarda lento con occhi di giada il cuore in festa in una danza di veli lo vedo sparire in un lembo di cielo come un respiro senza confini l’ombra distesa sorride nel vento 112 I Giovedì di Scrittura Fresca LA MUMMIA scritto da: Talesien C'hai l'occhi a mandorla come un cinese la pelle tirata che se se sgareno i punti te s'accartoccia tutta attorno ar naso le labbra gonfie che pareno canotti o che t'hanno appena gonfiato de cazzotti pari proprio na mummia vecchia e rinsecchita che vole diventà de novo viva ma tu ce lo sai che gli eggizziani quanno creavano na mummia non era pe falla campà de più o pe trasfommalla da racchia a stella ma pe falla annà all'altro monno co tutte e carte n'regola perciò nun insiste ch'è peggio fa finta d'esse vivi ch'esse morti e nun sapello. 113 I Giovedì di Scrittura Fresca VOGLIO MORIRE IN BEATA SOLITUDO, ANNEGANDO NEL VERMENTINO (Imothep) scritto da: Nicola Martini Sta mummia m'è costata troppo di bendaggi, son rimasto senza palanche per l'inchiostro, meno male che oggi è lunedì e ho tre giorni di tempo per scrivere il pezzo. Boris Karloff, fai un giro col piattino. al buon cuore del gentile pubblico....grazie cari qualcuno ve ne renderà merito. Allora succede che conosco una girl di un sito di scrittura creativa. Ci faccio un commento al suo testo, lei mi risponde, simpatizziamo alla grande, ci scambiamo i cellulari (lì m'è un po' dispiaciuto ché al mio Nokia c'ero affezionato, ma sembra d'essere subito pittime e così abbiamo scambiato i cellulari). Poi ci era parso che fosse bello incontrarci e ci siamo dati puntello in un posto che non faccio nomi. Ivi giunto ho subito fatto la foto col gestore del caffè, ne aveva già una assieme a Mino Reitano e vicino ci ha messo la nostra. Me sti fatti mi commuovono, tengo l'animo in forse. Dò un'occhiata in giro e vedo la girl seduta al tavolino, tutta fasciata dalle bende. "O meschina" le dico "ti sei fatta male?" "No" fa lei "io sono Maria Pescosolido del sito Scriviamocazz" "Ebbè, sei Maria Pescosolido del sito Scriviamocazz che s'è fatta male. E pure di brutta!" "Lì ci hai preso" conferma lei. Alchè m'è venuto il dubbio. Vuoi vedere, mi son detto (ma sottovoce ché non è bello farsi sentire) che la sospetta megafiga è un filino ciospa? Se non è incidentata, vuoi vedere che non è propriamente commestibile? E ci dico "Senti gioia, te le leveresti le bende?". E lei " L'aspetto fisico non conta, si è belli dentro". "Sti cazzi!" mi scappa a me. "Uh!sì! Ce ne vogliono parecchi, ché se mi slumi per benino versione nature te ne ammoscio un tot in men che non si dica". Onde riflettere sulla questione mi sono ritirato nella ritirata e ci sto ancora adesso, che sono passati tre anni. Subito ho patito un po', ma ora ci ho fatto l'abitudine. Voci amiche mi riferiscono che ho la mail intasata di messaggi, pare sia la Maria che vuole mie notizie. Eh, si sa, i belli dentro hanno un cuore che li amava tanto. 114 I Giovedì di Scrittura Fresca 115 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Quattro 07 Aprile 2005 LA VERA VITA È FUORI Hanno partecipato: Vaan Lucida anestesia CYB Roberto Il portinaio ed il povero Menenio Agrippa Trevize Là fuori Dolphy Punti di vista Nicola Martini La vita è fuori (come il Martini) Fucsia Vorrei rientrare nell’utero, uno qualsiasi* Citando Woody Allen Bruno B Il civico trenta Nick Damone Derby a Mogliano Veneto Serenella La vita è fuori? Umberto Bertani Outfield Gianfranco M Senza sale Sally Un grattare sul muro Alessandro Gabriele Cosa potrebbe suggerire il Mancio Talesien ‘A vita è fori Ettore Bilbo Oltre Asclepio Illusione 116 I Giovedì di Scrittura Fresca LUCIDA ANESTESIA scritto da: -Vaanla stasi dei sogni a parte ciò che mi dice porta l’orma ferita dei miei ripensamenti a placarsi fuori dal grigio chiaro del mio sonno. vanno i giorni, i mesi, il tempo un rimettere a zero combaciando il risveglio su una prossima anestesia. e vivo un fiore reciso non ha bisogno di sole se basta alle pareti una riproduzione di cielo per sentirsi vero 117 I Giovedì di Scrittura Fresca IL PORTINAIO ED IL POVERO MENENIO AGRIPPA scritto da: CYB Roberto Sono sconvolto… Non dormo da tre notti e tre giorni, terrorizzato da qualcosa che potrebbe essere una mia allucinazione o la scoperta di una terribile verità… Una persona amica mi aiuti asciugando la mia fronte imperlata di sudore ghiacciato, e vegli e vigili per difendermi da incubi tremendi. E’ cominciato tutto quattro notti fa. Mi accingevo, insonnolito, a dormire. Accesi il piccolo stereo sul comodino per lasciarmi cullare da qualche melodia riposante. A poco a poco si confusero, nel dormiveglia, immagini, paesaggi, progetti, idee caotiche senza senso e ordine. Avvertii anche qualcosa di nuovo nel buio, con il perdersi della musica: un progressivo aumento di un brusio indistinto di molte presenze in attesa di un evento. Poi udii una voce calda, baritonale. “Preso atto del numero valido dei partecipanti a questa assemblea, dichiaro aperta la presente riunione di condominio e propongo la candidatura alla presidenza del sottoscritto signor Cervello. Nominerò il signor Stomaco e il signor Fegato come segretari. L’ordine del giorno della presente riunione verterà sulle pericolose fughe di gas nella cantina dello stabile, sulla manutenzione del suddetto stabile e su varie ed eventuali. Se nessuno ha da eccepire sulle candidature, si può dare inizio al dibattito.” Mi agitai nel letto temendo l’inizio di un brutto sogno, con una spiacevole arsura, e udii altre voci tra cui una stridula e acida. “Era ora che si parlasse di quelle fughe di gas, signor Cervello! Uno di questi giorni salteremo tutti in aria. Lo dico da sempre e sono diventata verde di bile, ma mai nessuno che mi ascolti…” “Non dica questo, signora Milza, perché io, nel mio piccolo, solidarizzo: si figuri che quello spiffero quasi continuo mi sta creando anche gravi problemi infiammatori. Piuttosto gli altri, quelli dei piani alti: direi che sono proprio insensibili ed egoisti.” “Non cominciamo a promuovere la rissa del tutti contro tutti, egregia signora Emy Orroide. Le parlo da moderatore: ognuno ha i suoi problemi. Che dovrei dire io che ho due vicine mezze sorde che ascoltano musica snervante a tutte le ore del giorno a volume da discoteca? 118 I Giovedì di Scrittura Fresca Anzi, visto che sono il presidente di questa assemblea di condominio, metterò a verbale anche che ci si debba moderare con i rumori molesti.” “Cosa vuole mettere a verbale? Guardi che io ci sento bene. E’ la vicina di pianerottolo che è sorda, ed è di destra, prepotente e fascista, senza rispetto per alcuno, col volume a palla anche quando tutti dormono. Che c’entro io?” “Ha parlato la compagna racchia orecchia sinistra…come se non fossimo tutti sulla stessa barca, …fascista a me, poi? Perché sono a destra nello stabile? Guarda, carina, che ho anche io la staffa, e pure il martelletto, e con una falcetta sarei una comunista doc. Modera le parole prima di accusare e di dare qualifiche politiche a casaccio.” “Signore e signori, calma, calma, per favore…” S’impose, su tutte, la voce del cervello, del mio cervello, autorevole, – ma un cervello non ha solamente la voce della coscienza o della ragione? – Mi rigirai nel letto inquieto. Chi parlava sembrava vero, vivo e, soprattutto, autonomo, e la cosa non mi piacque affatto. “Presidente…” “Dica pure, signor Fegato.” “Sto rodendo me stesso dalla rabbia. Mi dolgo per le signore orecchie, comuniste o fasciste che siano, e per l’infiammata signora Orroide, ma torniamo a bomba, ai gas. Lei dovrebbe assumere l’iniziativa e lanciare un qualche messaggio al portinaio affinché vada in farmacia e acquisti del carbone vegetale: dicono che sia una mano santa. Tra l’altro, tutti si faticherebbe meno nello smaltire quella fastidiosa corrente, e Tino, il signor Tenue, ci guadagnerebbe anche in salute nel parcheggiare dentro il garage quelle merde di macchine inquinanti.” “Vero, vero, caro signor Fegato.” “Coinvolga anche il signor Aquilino Naso, presidente, e condizioni il portinaio a porre rimedio a questo schifo.” Ebbi la sensazione angosciante che il portinaio fossi considerato proprio io, me medesimo, immobile e teso come una corda di violino a captare il più piccolo sospiro nella notte e nel buio della mia stanzetta. Cominciai a sudare copiosamente. “Bene, allora. Signor Naso, le trasmetterò comunicazioni olfattive inequivocabili sull’inconveniente 119 I Giovedì di Scrittura Fresca e faremo pressioni congiunte sul portinaio perché acquisti il carbone vegetale. Scriva pure, signor segretario Stomaco, verbalizzi, e passiamo quindi senz’altro ai problemi di manutenzione…” Verbalizzare da parte di uno stomaco… Cominciavo a credere in un sabotaggio del barattolino dell’origano in cucina, forse con qualche fungo messicano strano e nocivo. Pensai – se questo è l’inizio della pazzia, è alquanto bizzarra e imprevedibile - ma, al contempo, mi posi domande sull’efficienza del mio portierato, se avevo spazzato bene, se avevo passato la cera, lo straccio, se avevo pulito bene vetri e finestre. Risi irrispettosamente all’idea di essere soltanto il portinaio di un condominio turbolento, ma il presidente dell’assemblea mi richiamò all’ordine e al rispetto procurandomi una fortissima emicrania che mi si affacciò improvvisa e dolorosa e mi consigliò l’immobilità in attesa di tempi migliori. “Aspetti, signor presidente. Ho taciuto con mio fratello fino ad ora, ma adesso parlo perché non ne posso più. I vetri fanno schifo, puliti soltanto quando capita con degli stracci sudici. Io e mio fratello vediamo lungo, ma non si può tollerare che il portinaio pulisca i vetri senza lavarsi le mani dopo avere potato le unghie dei signori Piedi: suvvia, un minimo di decenza, no?” “Cosa avrebbe da dire su di noi, signor Bellocchio destro? Sia prudente con certe affermazioni: abbiamo tutti bisogno di manutenzione, mica solo lei e suo fratello. Non abbiamo colpe se la pulizia viene fatta in maniera approssimativa o disorganizzata. E poi non si lamenti e ricordi qualche anno fa, quando era molto peggio. Il portinaio puliva tutto lo stabile con una sola spugna ruvida e rosicchiata e con la stessa acqua saponata sciacquava piani alti e piani bassi. Meno male che ora usa la pompa a getto, sicuramente più igienica. Mi domando e dico: perché avremmo dovuto sentirci più puliti, prima, con la stessa acqua che serviva per sciacquare anche quei due Coglioni del piano di sopra…” “E adesso che c’entriamo noi? Non ci rompete, eh?” “State zitti voi, coglioni Coglioni!” “Ma come vi permettete, piedacci puzzolenti di cacio! Li piedacci vostri, Piedi!” “Signori, per cortesia, un poco di contegno, vi prego…” L’emicrania mordeva col ruggito delle voci alterate che si insultavano. Tutto assurdo: organi del mio corpo che parlavano, autonomi, critici, litigiosi… “Vorremmo interloquire anche io e mio cugino Paul Mone, signor presidente.” “Prego, esponga signor Ai Mone.” Troviamo inammissibile che il portinaio abbia deciso di spostare la guardiola in 120 I Giovedì di Scrittura Fresca questo quartiere malsano e pieno di gas di scarico. Abbiamo una certa età, ormai, e ci siamo molto sacrificati per migliorare il nostro stato di efficienti mantici, smettendo perfino di fumare, per rispetto nostro, del nostro amico, il signor Amore Cuore, e di altri inquilini. Ci è dovuto un minimo di riconoscenza e collaborazione. Concorda signor Cuore?” “Mi associo, mi associo: sacrosante parole.” “Solidarizziamo anche noi: stiamo molto meglio da qualche anno grazie ai signori Paul e Ai Mone, ex fumatori, inquilini civili e degni di rispetto.” “Grazie signori Guido Reni e Tony Renis.” “Anche se…” “Dica signor Guido…” “Questo pelandrone di portinaio innaffia poco, beve robaccia e ci sottopone a sforzi ripetuti che, ormai, alla nostra età, dovrebbero essere dosati sobriamente, per quando ne vale davvero la pena, magari in compagnia…ma, signor presidente, invece, … costui agisce prevalentemente da solo… Ed inoltre è ghiotto di asparagi: un ‘tour de force’ in certi periodi. Roba da non credere. ” Rabbrividii. Seguivo la grottesca assemblea, soggiogato, e recepivo interventi scontenti e mugugni, ma arrivai ad impermalirmi per questa sfacciata esposizione di mie abitudini segrete. Che diamine! Un minimo di riservatezza e comprensione! E poi volevano cambiare aria… I soldi non li fabbrica neanche Rockfeller: quindi appartamentino in periferia sporca di smog, cari signorini. Vincessi al superenalotto ve la farei vedere: chalet a mezza collina con orto e alberi e cani da guardia e… …E poi sarò padrone di abbuffarmi di asparagi, almeno a stagione? La testa mi stava scoppiando. “Intraprenderemo un’azione sindacale, signor presidente. Ogni tanto, senza preavviso, cesseremo di respirare o tossiremo la nostra protesta nella colazione di quell’essere, quando ha le mani occupate. Lo metteremo alle strette: traslocherà prima o poi.” “Vi darò una mano anche io, cari vicini. E’ sufficiente che mi metta a zoppicare e che qualche volta faccia l’imitazione della coratella del macellaio sul banco di marmo: l’amico se la farà addosso… sempre che non sia un duro insensibile e non mi faccia crepare…” Un cuore crepato di crepacuore: una situazione alla Jonesco, surreale. Ridevo istericamente dentro di me nonostante il dolore lancinante alle tempie. 121 I Giovedì di Scrittura Fresca Avevo gli occhi lacrimanti: pizzicavano come per qualche bruscolino sotto le palpebre, ma non osavo sfregarmeli, neppure delicatamente, perché mi ero appena grattato soprappensiero altre parti, basse, e temevo una reazione o una vendetta. “E poi dovrebbe muoversi di più questo portinaio: é pigro. E’ un sedentario e la spazzatura rimane tutta sullo stomaco – vero signor Stomaco? – e anche io faccio fatica a smaltire i rifiuti. In più ho anche quei problemi di parcheggio di cui si parlava prima… del resto lo spazio è quello che è: o aria o altro no?…” “La capisco, Tino, oh, scusi la confidenza, signor Tenue…” “Ma no, si figuri, diamoci del tu.” “Beata l’appendice Beatrice che ha osato ribellarsi e ha piantato tutti… ” “Lo farei anche io e non escludo in futuro di prendere in esame la possibilità…” “Brava, signorina Fellea, però, dico io, è anche ingiusto che qualcuno possa andarsene e qualcun altro no: le solite sperequazioni tra figli dell’oca bianca e bastardacci!” “Che le devo dire, signor Pancreas: è la vita che è così, ingiusta e sperequata di suo. Non se la prenda con me: in fondo la decisione mi costerebbe sacrifici immensi. Potrei finire in bocca ad un gatto vicino al Policlinico. Lo sa la fine che ha fatto la signora Milza del condominio della sorella del portinaio? E’ stata sezionata e poi bruciata: una fine orribile…” Percepii terrorismo psicologico nella voce arrogante della signorina Cistifellea che si rivolgeva al signor Pancreas con il sussiego di chi è pieno di boria e calcoli, soprattutto calcoli. “Signori, è tardi, cerchiamo di concludere. Proporrei di verbalizzare che il condominio si adopererà affinché venga effettuata una più accurata pulizia e venga spostata la sede della guardiola, magari verso la campagna. Indiremo a breve una assemblea straordinaria per organizzare scioperi selvaggi per il conseguimento dei nostri scopi, con le buone o con le cattive, e qualcuno di voi cominci a studiare qualche piano concreto di sabotaggio. Per quanto mi concerne, offro fin d’ora tutta la mia disponibilità a convogliare qualsiasi messaggio verso il portinaio in maniera che venga recepito senza discussioni o resistenze. Prima di chiudere qualche altra domanda?” “Scusatemi tutti se sono ignorantello, tutto muscolo e istintività, ma non si fa prima a cambiare portinaio? Morto un portinaio se ne fa un altro, no? Lo dice anche il proverbio…” Non compresi subito da dove provenisse quella vocina. Mi resi conto, però, che il cervello si stava adirando violentemente… 122 I Giovedì di Scrittura Fresca “Eccolo qua: la solita testa di cazzo! Lei parla, parla, e dice solo minchiate, signor mio! Se riflettesse invece di fare soltanto ginnastica, sempre su e giù, probabilmente riuscirebbe a comprendere che il portinaio non si può cambiare e che queste sono le regole! Ci teniamo questo imbecille e possiamo solamente fare in modo che cambi qualche idea, entro certi limiti ragionevoli, perché quando interviene lei, solita testa di cazzo, la ragionevolezza va farsi benedire. Faccia silenzio, …e si adopri per sole funzioni innocenti. Lei, un giorno, ci rovinerà tutti con la sua esuberanza imprudente e ignorante! Basta ! Chiudiamo qui l’assemblea. Ci aggiorneremo nei prossimi giorni. Per ora buona notte a tutti…” Percepii un battimani, (un battimani?) di commiato cortese: mi resi conto, sempre nel dormiveglia, che era un battere di denti. Spalancai gli occhi all’alba, ansante e seduto sul letto. I piccoli led dello stereo mi fissavano nemici o almeno questo era il mio stato d’animo: mi sentivo minacciato da tutto e da tutti, soprattutto da me stesso, da dentro. Urlai di raccapriccio all’idea che tutti i giorni scarrozzo fuori organi ostili che rispondono a mie sollecitazioni, che godono di sensazioni piacevoli e soffrono per dolori improvvisi. Ho realizzato, infatti, che non è così, almeno per me. Sono loro che scarrozzano me! Forse voi non ne avete ancora coscienza, ma siete solo dei portinai di condomini formati da litigiosi inquilini scontenti, in lotta con voi per i ‘loro’ diritti. Pensavo di essere un padrone di qualcosa, del mio corpo, della mia vita, del mio destino. Sono soltanto un portinaio, invece, un dipendente da licenziare, e chi comanda sono i miei organi. Mi sovviene il vecchio apologo di Menenio Agrippa. Forse anche lui, poveruomo, ebbe i miei incubi sulle rive dell’Aniene: chissà se trovò un aiuto… Aiutatemi, vi prego, e guardatevi dentro: potreste essere ancora in tempo per una soluzione, semmai ne esista una… La vita vera è fuori…o è dentro?... 123 I Giovedì di Scrittura Fresca LÀ FUORI scritto da: Trevize - La vita è là fuori! - esclamò D. senza svegliarsi, scartando sul sedile del passeggero e tornando ad appoggiare la testa al montante della portiera, seguitando il sonno di ragazzino. - Là fuori un cazzo! - si scosse A.G. per quell'esclamazione nel silenzio di diecimila chilometri, irritato per la sua stessa irritazione e proseguendo la corsa tra i campi, nel dissesto della campagna, tra i cumuli di rifiuti sotto gli alberi, gli edifici rattoppati con i fogli di cartone, gli steccati riversi. - Là fuori un cazzo - declinò in conclusione, dopo la risolutiva occhiata allo spettacolo d'intorno. Guidava ormai da tutta la giornata ed era stanco. Non era stata davvero una buona idea partire quella mattina per accompagnare il nipotino dio solo sa dove e ritrovarsi dopo tredici ore di macchina nella disperazione di quel deserto, con il bambino che parlava nel sonno e la notte a pochi chilometri. Dove diavolo erano finiti. Eppure il viaggio era cominciato bene, nella prima mattina si erano succedute le coltivazioni della pianura, come doveva essere la promessa degli alberi da frutto e accanto correvano i vigneti, la marcia in un soffio dei campi di granturco, i filari in bell'ordine, ma poi la vegetazione era cambiata, il sole aveva battuto i suoi rintocchi per l'intera giornata e come portato dal vento si era addensato uno sterpame rigido e secco, quando era stata la volta della polvere e di piantacce senza foglie, di ceppi rovesciati su un fianco, di tronchi spezzati che non s'erano potuti adagiare, con la corona dei rami intrecciata ad altre piante, nell'intrico innaturale e degradato. Là fuori in breve solo quella periferia e il vento che tagliava la strada con un grido d'autunno. D. non aveva smesso di dormire, lì accanto. La spalla era appoggiata alla portiera e il capo toccava il finestrino, non lo avevano svegliato i dossi né le curve sullo sterrato, da quando avevano abbandonato la statale senza più trovare la via, molte ore prima. Ogni tanto cambiava posizione accomodandosi sul sedile, senza fastidio per gli scuotimenti del percorso, sbatacchiando qui e là la testa contro il vetro. Aveva tra le mani un pupazzo meccanico, un giocattolo pieno di minuscole armi cui aveva disegnato a pennarello una bella B sul petto, o era una G. Spinto dalla curiosità e per la noia, quando il pomeriggio era iniziato A.G. aveva deciso di osservare il balocco arrestando l'automobile per diversi minuti, senza spegnere il motore. Con delicatezza aveva sfilato il soldatino spaziale dalle mani di D. e lo aveva esaminato: era molto leggero e con la superficie lucente, la faccia posava una scura risata, ma i due denti che il bambino aveva pitturato di nero rendevano l'espressione più comica 124 I Giovedì di Scrittura Fresca che minacciosa. Il robottino poi era completamente vuoto, dentro non c'erano meccanismi, rotelle, corde, ingranaggi, non c'era niente di niente. Non stava nemmeno in piedi, era tutto sbilanciato. Chissà quale diavoleria lo faceva parlare, allora. Perché più volte durante il viaggio A.G. aveva udito dei borbottii, dei tossicchiamenti e il pensiero era andato al carburatore della vecchia macchina, quando invece era proprio il giocattolo ad emettere i versi sfiorato dalle dita di D., nel movimento del sonno. Così gli era parso, almeno. A.G. aveva riposto il giocattolo e ripreso il viaggio. Era necessario fare in fretta, adesso, avvicinare una città, un paese prima che facesse buio, perché poi sarebbe stato impossibile procedere, in quel modo senza una mappa, senza sapere dove andare. La radio non riceveva più, il panorama era incupito da un costone cui aveva puntato con gran velocità. Gli ultimi chilometri erano serviti per muoversi verso la parete che copriva la vista ma la distanza era rimasta immutata, vanificando gli sforzi. Poco prima di un tornante che sembrava dare l'avvio alla scalata, A.G. udì una voce. Considerò la radio e rifiatò all'idea di un segno di fuori, della vita oltre le montagne. Ascoltò con tutte le forze, trattenendo con una smorfia il cuore. Ci vollero almeno trenta secondi, rallentava perché il motore non lo disturbasse, in seconda, in prima, infine i pneumatici si assestarono sul ghiaietto, quando udì ancora. Il robottino aveva ricominciato a parlare, il sorriso valgo gli riempiva la testa quadrata, parlava, scandiva le sue parole, diceva toia u-a-na zazzo occo to-zo, con la vocina spiccava termini indecifrabili, mentre le dita del bambino si erano strette al suo corpo vuoto. A.G. lo ascoltava sbalordito, la cantilena suonava irreale nell'abitacolo, toia m-eda meda to-zi, continuava. Allora per udire meglio chinò il capo, non potendo accorgersi di nulla. D. dormiva serenamente, mentre fuori le piante deformi, le baracche e i campi ricurvi accoglievano lo spesso buio senza un lamento. 125 I Giovedì di Scrittura Fresca PUNTI DI VISTA scritto da: Dolphy A volte la realtà non è quella che vorremmo e a volte le parole non le intendiamo per quello che rappresentano o vogliono esprimere così, attraverso un processo mentale velocissimo s’innesca un processo di trasformazione che ribalta in un certo senso i loro significati. Realtà e parole, sfaccettature diverse secondo l’angolazione da cui le guardiamo e le interpretiamo. La vera vita è fuori. Come intendere quel vero e come interpretare quel fuori? Quel “fuori” scritto in maiuscolo mi fa pensare a una rottura, a un pretesto rispetto a ciò che è o si considera “dentro”. Due concetti molto lati che si prestano a diverse interpretazioni nelle quali ciascuno di noi considera il fuori in relazione al proprio microcosmo o al mondo. Due avverbi questi che non si possono circoscrivere o meglio lo si può fare solo avendo un qualcosa, ovvero un soggetto a cui relazionarsi o contrapporsi. Quindi un fuori rispetto a che cosa o da che cosa. C’è poi l’aggettivo “vero”. Ma il “vero”, chi lo decide? Anche qui, Quale è la verità? Dove sta il vero. Chi può dire ciò che è vero e quindi decidere per i suo contrario? La vera vita è fuori. E’ verissimo se consideriamo il dentro come qualcosa che ci circoscrive, ci impedisce la libertà di pensiero e di azione, che ci coercizza e ci impedisce di essere noi stessi o di fare ciò che vogliamo. Ma altrettanto vero è dire “la vera vita è dentro”, e con questo intendo il nostro mondo, le nostre realtà e le nostre aspettative. E allora tutto questo a che porta? Semplicemente a una rilettura del titolo cioè che la vera vita è dentro e non fuori. Punti di vista. Il fuori mi può condizionare, mi stritola, mi angoscia, mi rende diverso da quello che sono, soltanto se glielo permetto perdendo di vista i miei obbiettivi e me stesso. Ma se quel fuori lo gestisco io, anche se faticosamente, allora il fuori mi condizionerà relativamente, o molto meno. Punti di vista, soltanto punti di vista. 126 I Giovedì di Scrittura Fresca LA VITA È FUORI (COME IL MARTINI) scritto da: Nicola Martini Il Martini è come la vita: fuori. Fuori di casa mi ci mise mamma, avevo tre anni. Disse testuale: “E non metterci più piede”, chiudendomi la mano nella porta per essere più sicura. A sei anni fuori mi ci mise la maestra. Disse testuale: “O impari a tastare il culo come si deve o ti spedisco dal preside, che lui è esperto”. A nove anni fuori mi ci mise il parroco. Disse testuale: “Così diventi cieco e io me ne sbatto il belin”. A quindici anni mi ci mise la mia ragazza. Disse testuale: “Non sai mettere la lingua in bocca, e neanche da un'altra parte e non sai scopare”. E imparai a non frequentare quelle di otto anni. A venti mi ci mise la stessa ragazza, era l'unica che mi degnava d'insulto. Le altre manco quello. A trent'anni, ne salto dieci per non tediarvi - li ho passati in un campeggio per maniaci sessuali nudisti, era il solo posto dove se ti aprivi l'impermeabile ad agosto non ghignavano ché c'era una comitiva dell'Est con le pellicce di visone - a trent'anni mi ci ha messo il marito della mia donna. Disse testuale: “Adesso basta, o te la sposi o vai a cascamortare altrove”. A trentacinque mi ci metterà un Editor di SF. Dicendo testuale: “Zi, te sei fuori” E io risponderò testuale: “Alex, a proposito di Ulivo, io giro con uno a portata di mano. L'ulivo sotto il braccio ci fa un effettone alle squinzie che nemmanco il gel sul ciuffo. Ci dico, lo vuoi un martini? ci ho l'oliva bell'e pronta...”. 127 I Giovedì di Scrittura Fresca VORREI RIENTRARE NELL’UTERO, UNO QUALSIASI* *Woody Allen. scritto da: Fucsia Mi dondolo, e faccio il pesce a galla mi succhio il dito e dormo finché ne ho voglia nessuno urla, nessuno chiede. Mai un rimprovero, uno sberleffo o una delusione. La vita è ancora tutta da inventare come la voglio io. Futuro giovanissimo. Ho solo una domanda nella mano: La vera vita è fuori? Tra otto mesi lo saprò. 128 I Giovedì di Scrittura Fresca IL CIVICO TRENTA scritto da: BrunoB Le percorro tutti i mercoledì sera, queste scalette ripide che mi portano al civico trenta. Qui è tutto ripido, queste scale, le sue scale, i suoi occhi. Le mani che ciondolano lungo i miei fianchi, in attesa di tasche comode, e la borsa con tutti i disegni di Martina a tracollo, più per abitudine che per effettiva necessità. Arrivo sulla strada solo dopo aver constatato che le mie scarpe sono tanto fuori moda quanto comode, e che con questo stupido giaccone senza maniche sento freddo. L'uomo con la faccia di spigoli e i capelli che non conoscono il passaggio di un pettine sta davanti alla sua bottega. Come tutti i miei mercoledì. Più che sedersi stasera sembra cavalcare la sedia, messa con lo schienale fronte strada. Ha una fetta di prosciutto tra le mani, come un gatto ed il suo topo, e la faccia accogliente di un buttafuori. Alle sue spalle c'è aperto una via di mezzo tra un ristorante sfigato, e una cucina che si è montata la testa. Ne esce un profumo accogliente più per lo stomaco che per gli occhi. Non ho sete ma bevo, forse per dare un senso a questa fontanella nascosta da macchine incastrate come tasselli di un puzzle gigante. Poco più avanti, a sfiorare due ragazzi con un amore fanciullo tra le mani e grosse scarpe da ginnastica ai piedi, c'è uno stendino ancorato ad una grata con una piccola catena. Sostiene imperterrito il residuo di un bucato, che per oggi non si asciugherà più. Altri panni, più nobili, sono appesi sospesi distesi tra un palazzo e l'altro. Che qui i palazzi sembrano baciarsi. 129 I Giovedì di Scrittura Fresca Di fronte allo stendino con l'antifurto c'è il negozio delle cose strane. Mobili strani e costosi. Tutte le volte mi fermo ad osservarli, naso sfiorare la vetrina, per vedere se la bellezza è anche una questione di abitudine. A sfiorarlo inizia la fila di motorini muti, allineati come carte in un mazzo da gioco, saranno venti, trenta, saranno tanti. Come formiche di metallo la processione si interrompe solo davanti ad una officina ancora aperta. Capelli lunghi e mani sporche al di la della saracinesca semi aperta come una palpebra stanca, per una passione che non ha orari di chiusura. Poi c'è la bottega delle carcasse di strumenti appesi al soffitto, e dentro quel piacevole disordine della gente che lavora. Dentro c'è musica per orecchie delicate, odore di legno e lavoro, e due grossi gatti che non si curano di me. Il fruttivendolo all'angolo che espone frutta di plastica quando lo stomaco oramai è già pieno, e un cestino che sostiene stanco i resti di una giornata di vita. I tavolini del Bar con il maxischermo che sputa una partita di calcio hanno ingoiato il marciapiede, e un gruppo di Americani che ingoiano birra ed il loro ciarlare di parole rotonde. E il civico trenta è davanti a me. 130 I Giovedì di Scrittura Fresca DERBY A MOGLIANO VENETO scritto da: Nick Damone Ho lavorato a ritmo blando fino alle 17.30 in un centro direzionale. Moderno. Funzionale. Triste. Una cattedrale nel deserto della campagna veneta. Poi con due colleghi siamo tornati al nostro albergo. Loro trattengono a stento l’euforia per aver finito così presto, che proprio non ci capita mai. “Che si fa stasera? Andiamo a Treviso? Oppure a Venezia?” “Io non ci sono, stasera” “Come non ci sei? Cos’hai da fare?” è il mio capo che parla. Io non sono euforico per nulla, tra la rabbia di essere in questo posto dimenticato da Dio e la tensione pregara che comincia a dare segni di sè. “C’è il derby di Champions stasera, voglio vederlo” “Ah, già. Bè, possiamo cercare un locale che lo trasmetta e ce lo vediamo tutti insieme”, propone l’altro. “No, dai, non voglio condizionarvi, lo so che a voi non interessa il calcio” provo a scrollarmeli. “Ma non preoccuparti, è un modo come un altro per passare la serata, dai” è di nuovo il mio capo. Taccio qualche istante. “So che vi sembrerò un animale strano, ma io preferirei vederla da solo, senza megaschermi, gente che grida, eccetera. Mangio una cosa al volo e poi resto in camera” ecco, l’ho detto mi guardano come un extraterrestre, poi fanno “ok”, poi mi prendono un po’ per il culo. Alle 20 sono di nuovo in camera, in attesa, chiuso dentro. In questo cazzo di paese non si prende telelombardia, quindi niente informazioni prepartita. Scendono in campo le squadre, io non riesco a stare sdraiato, vedo la partita seduto sul bordo del letto. Parlo da solo, dico un sacco di parolacce, butto fuori tutto il mio pessimismo, evidenzio (a chi, poi?) aspetti tattici che non vanno. Nel primo tempo attacchiamo noi e segnano loro. Nel secondo tempo attaccano loro e segnano loro. Inutile sperare nella simmetria del fato. Guardo gli sms che mi arrivano, mando affanculo qualcuno. 2-0 senza appello, il ritorno è inutile, siamo fuori, fuori dalla Champions. Cammino per la stanza, mi sembra una gabbia. Dopo mezz’ora esco, la vita è fuori, mi dico, la vita è fuori. Il paese è deserto, la chiesa è illuminata, due puttane si avviano al lavoro, una di loro mi chiama tesoro. Io torno dentro. 131 I Giovedì di Scrittura Fresca LA VITA È FUORI? scritto da: Serenella Come onda imbevuta di sole vago senza meta fra terra e cielo oltre il dentro e il fuori forma precisa e cangiante come nube d’aprile mi lascio cadere nel regno nascosto ologramma stupito senza perimetro mi dissolvo nel tempo sono il porto sono il mare 132 I Giovedì di Scrittura Fresca BROULÈ DÉSIR (IN-POTENZA) scritto da: PE effeeffe È difficile sai, amore mio baciarti ogni mattina sulla soglia tu più giovane e piena di vita ed io qui a scrivere e dipingere dei tuoi occhi e delle tue labbra tutte. È difficile sai, amore mio non prendere a morsi questa mela mentre la sbuccio e l’affetto ma non voglio e non posso farlo mi serve intera e tutta intera fetta. È difficile sai, amore mio spostarmi di cantina in cantina a cercar di ritrovare il tuo sapore ed assaggiarne tanti e mai nessuno fino a quello che più a te assomiglia. È difficile sai, amore mio travasarlo poi dal tanto al poco e poi ancora viceversa come un rito senza che una goccia si perda o si perda il pensiero nelle gocce di te. Sarà difficile sai, amore mio ingannare i tuoi sensi al ritorno accecarti e stordirti e bendarti e difficile sarà poi spogliarti ed immergerti nella vasca colma. Sarà difficile sai, amore mio che io non soffra per solo guardarti spezia preziosa accompagnata di garofano mela e cannella mentre ti sfili la benda e a me la passi. Sarà difficile sai, amore mio non morire mentre al buio 133 I Giovedì di Scrittura Fresca di polpastrelli m'immagino e sento quel perfetto inequivocabile soffice ritmo con cui batti leggera l’onda e te stessa. Sarà difficile sai, amore mio ammettere ancora una volta che non c’è uomo che possa sfiorare una donna meglio di quanto donna stessa sappia fare ed ancora una volta ingelosirmi di te. Sarà difficile sai, amore mio che io capisca mai o fino in fondo cosa ti faccia avere quegli occhi vivi e quella rossa bocca per me, per me che sono morto nei gesti. (È facile sai, amore mio percepire l’amore ed il calore costanti sentire che non sono stata una sfida, un premio, un regalo, una scommessa e farmi d’amore per te che non puoi che sei morto nel gesto potente ma ancora mi vuoi come quando potevi e ancora mi prendi come nessuno altro mai) 134 I Giovedì di Scrittura Fresca OUTFIELD scritto da: Umberto Bertani Il rumore dei passi trascinati nella non-pioggia di Milano Concedersi mezzora di neuroni impazziti Forse solo stanchi After the gold rush Eppure adoro le atmosfere, le luci di questi viali sfrontati, spezzati I berretti cata dei vigili urbani e fumo acre a filtrare un velo rotto dentro Di noia ghiacciata Senza-soluzione-di-continuità Dalle urla a pugni chiusi Al silenzio, quasi timido, dei vincenti Nemmeno i soliti clacson a bucare la primavera di mezza chiusura stagione Il tempio risplende nella sua bellezza mistica Accarezzo con lo sguardo le sue linee perfette, giuste, rassicuranti Puttane bambine stivalate bianco E strisce di colore Sempre e solo quello sbagliato Primo round di bolina, il vento si fa beffe del desiderio E spinge contro Appoggiato alla portiera, studio le facce da stadio Sullo sfondo luci a svanire, che la vita è fuori da là Forse per sempre Bip “Tuo figlio fa il pazzo, mi sa che gli manchi” 135 I Giovedì di Scrittura Fresca SENZA SALE scritto da: Gianfranco M. In zucchero caffè negli occhi / fumo già macchiato per favore o almeno intorno nel bar lume fatemi silenzio facce mescolate nel [rifletto] Senso di tazzina nell'aRoma [homing] provo e non riparto con il cambio in (folle folle) moltitudini di peregrini sulla pelle (folle folle) e appesi ai fili / pupazzia di carne La vita è fuori 136 I Giovedì di Scrittura Fresca UN GRATTARE SUL MURO scritto da: Sally Ne avvertì la presenza ancora prima di vederli. Non proprio tracce, anche se dicono quelle siano le prime a scoprirsi. No, nessun segno evidente. Però qualche fruscio sospetto, uno scricchiolio ogni tanto, quelli sì catturarono la sua attenzione, anche perché l’udito si era affinato parecchio a stare sempre in quella grande casa. Poi una sera ci fu il primo incontro, un faccia a faccia con un piccolo topo che dal bagno si dirigeva tranquillo in salotto nell’attimo in cui lui, dal salotto, si spostava in cucina. Si bloccarono insieme imprecando - giurò che anche il topo smadonnò spaventato – tornando precipitosamente ognuno da dove era venuto. “Cazzo, un topo! C’è un topo in casa.. e adesso che faccio?” pensò velocemente occhieggiando la porta della stanza. Non si vedeva a rincorrere l’intruso con la scopa in mano, magari urlando pure. Non avrebbe sopportato il rumore sinistro del corpicino spiaccicato sul pavimento. “Non sono violento, io!” si disse, tacitando così quei milioni di consigli che gli turbinarono nella testa inviati da lui per lui stesso. Rimase in piedi un poco indeciso, intanto la bestiola era sparita nascosta chissà dove. Decise così di far finta di nulla e la mattina dopo si affrettò a comprare delle belle scatolette ad ultrasuoni che, gli avevano assicurato, avrebbero cacciato gli intrusi in maniera pulita e corretta. Ne mise una in ogni stanza fiducioso. Dopo qualche giorno non solo il topetto non scomparve, ma chiamò anche i suoi compagni, forse attratti dal suono ammaliante degli ultrasuoni. Ne ebbe la certezza quando cominciò a vederli scorrazzare tranquillamente per casa, senza alcuna paura. A volte si fermavano a guardarlo da sotto una poltrona o vicino alla libreria mentre lui, inchiodato alla scrivania, era sempre più estenuato. A mali estremi, estremi rimedi, si disse. Comprò un potente veleno in succulenti bustine rosa da lasciare nei punti strategici della casa. Furono rosicchiate immediatamente e, dopo qualche giorno, cominciò a trovare qualche cadavere sparso qui e lì. “Siete stati voi a costringermi” era la monotona litania che ripeteva ogni volta che ne raccoglieva uno per andarlo a buttare nel fosso. Pulendo così la coscienza nello stesso modo in cui, dopo, correva a lavarsi più volte le mani con il sapone. Ma la storia sembrava infinita: i topi morivano, ma non sparivano da casa. Alla fine si accorse del buco che si era creato sotto il camino comunicante con l’esterno. “Ecco!”, gridò contento e fischiettando prese calce e cazzuola chiudendolo allegramente. Quella sera andò a letto più tranquillo, ormai certo che non ne sarebbero arrivati di nuovi e che i pochi restanti avrebbero avuto vita breve. Ancora qualche passeggiata fino al fosso, si trattava solo di avere pazienza. E lui ne aveva. 137 I Giovedì di Scrittura Fresca Si addormentò felice. Fu svegliato in piena notte da un rumore lontano ma insistente. Spalancò gli occhi e tese le orecchie. Gli sembrava arrivasse dal piano inferiore anche se era molto attutito. Si fece coraggio e cominciò a scendere le scale, il rumore aumentava. Guardò in salotto, veniva dal camino. Si avvicinò lentamente. Appoggiò l’orecchio alla parete. Il rumore adesso era chiaro e lampante in tutta la sua mostruosità. Era un grattare sul muro. Vide chiaramente orde di topi con le loro unghiette a scavare la calce ancora fresca. Li sentiva quasi ridere. Gli si gelò il sangue. Ne aveva sopportato la convivenza, ma questo non riusciva ad accettarlo. Questo grattare furioso gli bucò il cervello e gli tolse ogni ragione. In pochi attimi corse a vestirsi e, benché fossero le tre di notte, non ci pensò un attimo ad uscire da casa chiudendosi la porta alle spalle. “In fondo la vita è fuori”, pensò con un sorriso tirato mentre saliva in macchina diretto non sapeva dove. Sicuramente lontano. 138 I Giovedì di Scrittura Fresca COSA POTREBBE SUGGERIRE IL MANCIO scritto da: Alessandro Gabriele Il match l'avete visto e giocato tutti. Abbiamo fatto la nostra partita per vincerla e ci siamo andati molto vicini. Adesso rigiochiamo questa cazzo di partita e ribaltiamo il risultato. Tre gol li facciamo in novanta minuti, non ci costa niente. E la festa che faremo Fuori sarà più bella se partiamo da due pere sul groppone. Un frammento di Storia, pensate. Persino chi ha voglia di smettere como Bobo Vieri, andrà via più lieto. (risatine che emergono dal silenzio impassibile dello spogliatoio) Ecco, questo è un buon inizio ragazzi. Ora. Oba!... tirala tu la volata, voglio vedere tre capriole cazzarola!!! Tre capriole ragazzi e sbarre d'acciaio sulla porta. Cazzo venite fuori! Fuori! Forza! Forza! Forza Inter!!! * discorso serio questo è nello stesso tempo un testo e un meta-testo, è costruito con le tecniche della Programmazione Neurolinguistica (PNL) che è una disciplina della Comunicazione che studia - tra le altre cose - come si attivano le Risorse positive nelle persone. Fabio Capello, ad esempio, è un team-leader che utilizza questo schema di strategia che è molto semplice: si prende il punto debole e lo si rende punto forte stimolando la motivazione e le risorse del gruppo 139 I Giovedì di Scrittura Fresca 'A VITA È FORI scritto da: Talesien M'hanno detto: “A Ninè, viè a vive, nun rimanè ficcato tutto er giorno dentro casa, 'a vita è fori, tutt'intorno. (L'ha detto pure Megàn a nà reclam)” Così gli ho risposto: “ma ce lo sai che er vino che sta troppo aperto pià d'aceto? ma che m'hai proposto? de uscì pe poi che fà? Lo so come va er monno nun stò a filosofà: preferisco sta a vedè i movimenti de la panza, che annà in mezzo a sta bolgia de matti senza speranza” 140 I Giovedì di Scrittura Fresca OLTRE scritto da: Ettore Bilbo Quando l’aria è greve, qui si sente un basso profondo salire dagli inferi. Non saprei spiegarmi meglio, perché il suono che si sente non sembra provenire da nessuna direzione in particolare; scoppia, per così dire, direttamente nel cervello e lo scalda, lo crogiola nel torpore di un sonno angosciato. Ma forse è meglio che vi racconti come sono arrivato in questo non-luogo. Vivevo la mia vita come ogni altro essere umano, vivevo nel quotidiano insomma, assorbito dal passare dal tempo ed escluso dallo spazio. Sentivo la compresenza di qualcosa d’altro, come tutti voi, credo, ma non potevo far nulla per arrivare a capirne il senso, toccarla, anche solo sfiorarla. Un giorno, invece, tutto questo è cambiato. Non so, ed in fondo non importa sapere, chi abbia deciso di inserire il mio nome nella lista di quei fortunati che come me, adesso, si trovano nel non-luogo. Al di la del tempo e dello spazio, insomma. Meglio dirla in parole povere perché, per chi non è qui con me, è impossibile capire cosa si provi. Il fatto, in breve, è che mi è stato offerto di partire per la colonizzazione del nonluogo ed io ho accettato. Pensai, quando venne il momento di esprimere il mio sì, che quella era l’occasione di una vita, la possibilità di andare oltre, oltre a tutto il resto e diventare parte dell’universo. O qualcosa di simile. Partimmo, era il 13 Aprile dell’anno 2115, io e un centinaio di altre persone, con una navetta di ultimissima generazione; percorremmo distanze inimmaginabili, a velocità altissime, mentre il tempo scorreva e ci logorava. Fu una dura prova perché ci sovvenne lo sconforto. Alcuni cominciarono a cedere durante il viaggio. Ho visto atrocità… un piccolo gruppo di esseri viventi minacciato, beh, vi lascio immaginare come si può difendere: escludere il più debole, la minoranza, non lasciare alcun spazio vitale, usare la violenza infine. Passò ancora del tempo. Si era allo stremo delle forze. Eppure la nostra meta doveva essere vicina, lo sentivamo. Non fu in un giorno preciso che raggiungemmo il non-luogo, o forse, più semplicemente, non sono in grado di ricordarlo perché il cambio di prospettiva è stato troppo repentino. Prima le cose erano in un certo modo e poi… Poi è ora. Ora è sempre. Ed io sono fuori. Finalmente. *** 141 I Giovedì di Scrittura Fresca Anno 3015: - Comandante, abbiamo raggiunto il relitto. Il comandante Priscilla Parker, si voltò in direzione del navigatore per rispondere, come si era preparata spesso fantasticando in solitudine di quel momento: Agganciamo! Il relitto del Redemption fluttuava nel vuoto di fronte alla prua della nave del comandante Parker, sembrava un viandante smarrito, indeciso sulla strada da prendere. Forse per il fatto che nello spazio profondo non esistono strade. - La compagnia esplorativa è pronta Khao? Il sottufficiale Khao Ten rispose affermativamente e poi rivolgendosi al proprio assistente intimò la partenza della cellula esplorativa. Dopo qualche minuto lo schermo principale sopra la plancia di comando si illuminò a giorno. Le immagini di un portellone a tenuta stagna si composero dal nulla, come in un processo di liquefazione al contrario. Sembrava di trovarsi di fronte ad uno spazio reale, in tre dimensioni. Priscilla arricciò il naso, nascondendo un moto di nausea, poi si rivolse al nulla: - Mi sente Tenente? - Forte e chiaro - fece una voce molto profonda, una bella voce da annunciatore. - Allora apra il portellone e vediamo, una volta per tutte. Il portellone venne aperto, piccoli granelli di detriti presero a fluttuare accanto alla cellula esplorativa che se ne stava placida, appiccicata allo scafo della Redemption come una bolla d’aria. Il tenente si chinò leggermente ed entrò. - Ma sono solo cadaveri!? Khao Ten non voleva credere ai propri occhi, la spedizione non aveva mai raggiunto il proprio scopo, il non-luogo era rimasto solo una chimera allora, ecco perché non erano mai stati contattati dagli eletti, la peggiore delle ipotesi. Doveva avere fede. - Sì Khao, solo cadaveri. - precisò Priscilla. - Il gran sacerdote non sarà felice di saperlo. - Nessuno lo sarà. - dovette precisare ulteriormente il comandante Parker. I suoi sentimenti erano un misto di sconforto e di rassegnazione; come se lo avesse sempre saputo. Se fossero tornati sulla terra il grande consiglio episcopale avrebbe insabbiato tutto; non si potevano permettere di perdere il non-luogo. Non poteva non esistere. Li avrebbero uccisi e dato le loro polveri al vento cosmico. Doveva rassegnarsi. *** Quando l’aria è greve, qui si sente un basso profondo salire dagli inferi. Non saprei spiegarmi perché il suono non nasce dentro di me come sarebbe naturale, sembra davvero provenire da un sotto. O da un fuori, non riesco a capire. Mi sento schiacciato, compresso, eppure è bello, sono contenuto nello spazio. 142 I Giovedì di Scrittura Fresca Sono giunto qui attraversando il non-luogo, ho raggiunto il sogno di una vita. Prima conducevo un esistenza come tante altre, trascinandomi nell’essere di sempre, senza conoscere limiti o provare il conforto della fine. Quando il mio nome è stato inserito nella lista dei fortunati ho accettato subito: poter andare oltre a tutto il resto, uscire da una vita fatta di inutili domande ed entrare nello spazio. Mi è sembrato impossibile che capitasse proprio a me. Sento lo scorrere del tempo, è un battere incessante che mi rallegra nel suo dilatarsi. Sono sensazioni nuove che non so come spiegarvi, mi mancano i termini di confronto perché il passaggio è avvenuto senza che me ne rendessi conto. Adesso il tempo c’è e la vita è li fuori che mi aspetta. Il dottor Skiettle prese sotto la nuca il piccolo aiutandolo a farsi strada tra le cosce della madre. Il neonato lo guardò divertito, come se non avesse mai visto nulla di simile, ed è proprio così pensò Skiettle. Poi il piccolo iniziò a piangere con tutto il fiato che aveva in gola. 143 I Giovedì di Scrittura Fresca ILLUSIONE scritto da: Asclepio Mi risuonano ancora le sue parole nelle orecchie: “…la vita è fuori…” Tutto il resto, frasi, suoni, idee, scivolava untuoso dalle mie orecchie ed un unico grande ronzio percuoteva il cervello. “…la vita è fuori…” Speravo che non succedesse. L’impegno di giorni, mesi, vanificato sicuramente. Sacrifici che pochi conoscono, affrontati in silenzio, quotidianamente. Far finta di niente per poi non ottenere niente. “…la vita è fuori…” Sentire la notte quel senso di vuoto che sapresti bene come colmare ma che non puoi ascoltare. Mettere a tacere ogni istinto. Saperti sola, con addosso gli occhi impietosi di chi pretende da te il risultato senza badare alle tue sofferenze. Sola e con quel morso allo stomaco che ti ricorda quello che devi fare e che ti distrae da tutto quello che dovrebbe distrarti. “…la vita è fuori…” Detto solo una volta, rimbalza insolente a rimescolare le tue delusioni. Dovrò ricominciare, o peggio, non finire, continuare ancora, carica di disillusione. “…la vita è fuori di 5 cm…. Deve continuare la dieta! Non perdo tempo a misurarle il giro fianchi…Figuriamoci la coscia!!! Signora, o s’impegna nella dieta, o non vedremo mai il suo BMI modificarsi adeguatamente. Ci vediamo tra un mese.” 144 I Giovedì di Scrittura Fresca 145 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Cinque 21 Aprile 2005 POLVERE DI FOGLIE Hanno partecipato: Dario Carta Polvere di foglie CYB Roberto Primo Maggio 2003 Nicola Martini Sponsorized by Fito (fogliame zozzoso) Serenella Polvere di foglie Dolphy Polvere di foglie Massimo Botturi La creta dell’autunno fa di piombo il fogliame Un bacio secco, di foglie rilassate Carmen M.R. Di Lorenzo I vapori di Maria Oltremare Dialogo tra il cielo e la terra Vaan Polvere di foglie Leone Polvere di foglie Sally Battibecchi casalinghi Franco Zadra Polvere di foglie Necatrix In foglie spolverate d’amore che si può Ettore Bilbo Toilet poetry in salsa di forfora Brizgraz Foje in porvere 146 I Giovedì di Scrittura Fresca POLVERE DI FOGLIE scritto da: Dario Carta Autunni disegnano strade rotolate del vento fintamente distratto E i colori in briciole minute di clessidra decorano occhi passanti tra uno sguardo e l’altro - leggici il tempo tra divenire ed esser stati Nel quando dei cieli rovescia la sfera vitrea del paesaggio che cadente (in sospensione) s’allaccia in venature e frastaglia i margini Ed è verde il cielo quando ancora si nasconde all’ombra della primavera 147 I Giovedì di Scrittura Fresca PRIMO MAGGIO 2003 scritto da: CYB Roberto Cielo splendido al largo di San Diego, California. L’azzurro intenso, come polarizzato da un potente filtro fotografico, si fonde con il blu cobalto dell’oceano, un tappeto di foglie spumeggianti appena increspato da una brezza insistente e piacevole. Il ponte della portaerei è gremito fino all’inverosimile. Il Presidente è raggiante: “Vi ringrazio tutti sentitamente. Ammiraglio Kelly, Capitano di Vascello Card, ufficiali e marinai della portaerei Uss Abraham Lincoln, miei concittadini Americani: la fase principale dei combattimenti in Iraq è terminata. Nella guerra in Iraq, gli Stati Uniti e i nostri alleati hanno prevalso. E ora la nostra coalizione è impegnata nella ricostruzione e nel garantire la sicurezza del Paese. In questa battaglia, abbiamo combattuto per la causa della libertà e della pace nel mondo. La nostra nazione e la coalizione sono orgogliose di questa impresa, e siete stati voi, le Forze Armate degli Stati Uniti, ad averla compiuta. Il vostro coraggio, la vostra determinazione nell'affrontare il pericolo per il vostro Paese e l'uno per l'altro, hanno reso possibile questo giorno. Grazie a voi, la nostra nazione è più sicura. Grazie a voi, il tiranno è stato sconfitto e l'Iraq è libero…” Garriscono all’aria salmastra striscioni di benvenuto, e i pantaloni e le casacche dei marinai si animano, concitati, sui corpi di una gioventù attenta e orgogliosa, ingaggiando una lotta giocosa con il vento. E’ tutto un incrociare di sguardi, tra soldati e comandanti e autorità, in commistioni di gratitudine e fierezza per consapevolezze e intenti parimenti sconfinati. “...Uniti difendono questi principi di sicurezza e di libertà con tutti i mezzi della diplomazia, della polizia, dei servizi segreti ed economici. Stiamo lavorando con un'ampia coalizione di nazioni che riconoscono la minaccia e la nostra comune responsabilità nel far fronte a tale minaccia. L'impiego della forza è stato e rimane la nostra ultima risorsa. Tutti, amici e nemici allo stesso modo, sanno che la nostra Nazione ha una missione: reagiremo alle minacce rivolte contro la nostra sicurezza e difenderemo la pace…” Bart è defilato, timido. E’ lì presente con uno strano agitarsi di sentimenti nell’intimo. 148 I Giovedì di Scrittura Fresca “…Gli uomini che abbiamo perso sono stati visti per l'ultima volta mentre compivano il loro dovere. La loro ultima azione su questa Terra è stata quella di combattere un grande male e di portare la libertà agli altri. Tutti voi, in questa generazione di militari, avete accettato la più grande responsabilità della storia. State difendendo il vostro Paese e proteggendo gli innocenti dal male. Ovunque andiate portate un messaggio antico ma sempre valido. Usando le parole dette dal profeta Isaia "Ai prigionieri: ‘Uscite!’, e a quelli che sono nelle tenebre: ‘Venite alla luce!’…” E’ un tripudio di applausi e di berretti lanciati in aria. I militari si abbracciano sull’immenso ponte della nave lasciando che il protocollo e la disciplina si dissolvano per un attimo nell’incontenibile gioia per l’adempimento di una missione importante. Qualcuno improvvisa una danza, qualcun altro saltella per riuscire a carpire tra le tante teste lo sguardo commosso del Presidente laggiù tra i microfoni. Bart è urtato violentemente da un gigantesco mulatto imponente come una sequoia e perde l’equilibrio annaspando sul bordo del ponte. Un piccolo portoricano, nello sbracciarsi, gli assesta una gomitata allo sterno. Bart indietreggia risucchiando aria e poggiando il piede sul nulla… Nessuno si accorge di niente, al momento: del resto, rigogliose foglie verdi avide di vita, nervose e tese, o masticate come berretti, non portano il lutto per una foglia ingiallita che diviene estranea alla comunità… Non se ne accorgono neanche, forse, impegnate a sostenersi vicendevolmente nella compagnia e nell’unica comune funzione di succhiare linfa e offrire ombra e riparo. Il cadere da una portaerei è come precipitare da un palazzo di oltre dieci piani e l’impatto con il mare, da oltre sessanta metri, è per lo più definitivo e non morbido come si potrebbe credere. E’ un’altezza, tuttavia, che permette di elaborare ultime perplessità e di impadronirsi di estreme verità contingenti, avvolte nel terrore della fine, sulla bontà di un discorso e su certezze e reali valori della vita: quel famoso avanzamento veloce nel ralenty che relativizza il tempo rimasto a disposizione. “…Grazie per il servizio prestato al nostro Paese e alla nostra causa. Dio vi benedica e continui a benedire l'America.” 149 I Giovedì di Scrittura Fresca SPONSORIZED BY FITO (fogliame zozzoso) scritto da: Nicola Martini Il testo polvere di foglie è dal sottoscritto sviluppato in versione bilingue: lombarda e ligure. I° vers: “vunciun” 2° vers: “spurcacciun” adatta anche a lettori sabaudopiemonti o piemontosabaudi. Quelli che in dove vai se la banana non ce l'hai ci avevano la polvere di stelle, noi in SF ce l'abbiamo di foglie. Stavo leggendo Giovanni e mi chiedevo: “Sta cosa la postolo o non la postolo?”. E mi è venuta l’allergia alla polvere, al ché è venuto un acaro del mio materasso, sono amico di tutti ma sto qui ci sono affezionato di più, si è messo vicino a me che era dai tempi dell'orsacchiotto che nel letto non ci avevo più nessuno e ce le siamo raccontate. Mi diceva che la sua ragazza dichiara 30 anni, gli ho risposto: “gli va di culo che hanno aperto le frontiere...” 150 I Giovedì di Scrittura Fresca POLVERE DI FOGLIE scritto da: Serenella È l’eco del tempo quella polvere rosa che nutre le zolle di un girotondo stupore dorato intriso di miele nel mare nudo di un acerbo corallo tana di sogni vestiti d’arancio nell’isola ambrata densa d’attese un viale di vetro fra luci dissolte nel cerchio che ingabbia l’arcobaleno 151 I Giovedì di Scrittura Fresca POLVERE DI FOGLIE scritto da: Dolphy Era autunno ricordi amore mio? l’Orangerie apriva ai nostri occhi le sue Ninfee e le Tuileries era un tappeto intorno un tappeto giallo arancio terra bruciata L’indaco del cielo contrastava i tuoi occhi riflessi in mute fontane, orfane le panchine lungo i viali Parlavi di una estate ormai trascorsa sulle rive du Pont Neuf pigramente al suono di una armonica inseguendo un volo Era autunno amore mio ricordi? Ero persa nel tuo sguardo e già sapevo Calpestavo lentamente quel soffice tappeto e già sapevo. A volte i ricordi inseguono quei giorni rimuovendo a fatica la polvere del tempo 152 I Giovedì di Scrittura Fresca Polvere che ha il colore di quell’autunno quando l’Orangerie aprì ai nostri occhi le sue Ninfee. 153 I Giovedì di Scrittura Fresca LA CRETA DELL’AUTUNNO FA DI PIOMBO IL FOGLIAME * *Eluard scritto da: Massimo Botturi Viaggiano insieme talune rigano il cielo in contro tendenza senza macchiare di un solo grido quella spanna serena che filtra nell’ora di pranzo Tacciono come monete girate di croce come dadi sull’uno 154 I Giovedì di Scrittura Fresca UN BACIO SECCO, DI FOGLIE RILASSATE scritto da: Massimo Botturi Non ci sorride più la smania di nasconderci quando l’attesa sfiancava i nostri sensi e si viveva per dare, dietro un albero baci furtivi, carezze immacolate Eppure t’amo di quell’amore eterno che ci vorrebbe a fianco nei giorni più infelici eppure m’ami perché a tenerti la mano in sofferenza sono capace, l’ho fatto mille volte e non si vive di soli vent’anni in corpo ma di paura, di ansia del morire e quando appoggi la testa, dentro un cinema li sento tutti questi anni passati insieme e penso a quando non si vedeva nulla Così, ti bacio, e nemmeno te l’aspetti un bacio tenero, di bocca, siamo grandi un bacio secco, di foglie rilassate con dignità e austera comprensione ci basta poco, una telefonata o il rispettoso silenzio della sera quando ti chiudi nel bagno per fumare ed io sparecchio, gentile coi bicchieri attento che gli avanzi sian buoni per domani e poi ti accendo il canale preferito mi siedo a destra e metto via le scarpe 155 I Giovedì di Scrittura Fresca I VAPORI DI MARIA scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo Quando il vento si alza scuote foglie d’oro polvere a lustrare vetri di memoria Tutto tace intorno tranne lo stormo dei rami flebile speranza che sul tronco arranca Maria è sorda al tempo e prega sulle zolle giaciglio del suo sogno perché germogli Ma la lingua di Maria esule di parole resta muta ai sapori nuovi. 156 I Giovedì di Scrittura Fresca DIALOGO TRA IL CIELO E LA TERRA scritto da: Oltremare - Ehi, laggiù, hai da fare? - urlò il cielo. - Dipende, cosa vuoi? - rispose la terra. - Volevo chiederti un favore - Tu che puoi tutto chiedi un favore a me che non posso niente? - Sì, insomma, c’è qualcosa che tu possiedi che mi piacerebbe avere - Anche a me piacerebbe avere qualcosa di tuo - Allora ti propongo uno scambio - Sentiamo, ti ascolto - Vedi, sto organizzando una festa per l’arrivo dell’estate e mi piacerebbe poter truccare le mie nuvole che hanno sempre quei volti sbattuti. Bianchi, grigi, al massimo un rosa pallido quando il sole scende e si prepara per andare a dormire. Ho pensato che forse tu potresti aiutarmi - E come? - Con le foglie - Le foglie? Vuoi truccare le nuvole di verde? E poi le foglie non sono mie, sono degli alberi. Certo io posso metterci una buona parola, visto che gli alberi prendono nutrimento anche da me, ma…- No, aspetta. Io parlo delle foglie secche, quelle che una volta cadute dagli alberi ti solleticano la nuca - Ah, quelle! Ma anche se io decidessi di regalartene un po’, come pensi di portarle lassù? Io in questo non posso certo aiutarti - Lo so, ma ho pensato a tutto. Ascolta. Ci sono alcune tue radure dove le foglie cadute si sono ormai sbriciolate, grazie anche all’acqua delle mie piogge. Potrei mandare giù un bel po’ di vento suggerendogli di muoversi a mulinello. Il vento raccoglierebbe la polvere di foglie, togliendoti anche quell’aspetto triste che autunno e inverno ti hanno imposto, e la spingerebbe verso di me. Io poi la userei per truccare le mie nuvole, che potrebbero salutare l’estate con un colorito florido. Che ne pensi? - Beh, si può fare, ma tu cosa mi dai in cambio? - Avevo pensato che per l’arrivo dell’estate avresti bisogno di un vestito nuovo. Così potrei donarti qualcosa che ti renda luminosa, brillante. - Tipo? - Polvere di stelle - Oh, sì, polvere di stelle! La mattina che l’estate arrivò le nuvole sorridevano di un colore albicocca. La sera che l’estate arrivò la terra indossava un vestito di piccole scaglie d’oro. 157 I Giovedì di Scrittura Fresca POLVERE DI FOGLIE scritto da: -vaanSoli, in silenzio gli ultimi alberi osservano sulla valle. e non avranno seme loro fra i tanti che si specchiano a quei rami, con gli occhi induriti. una magra possibilità di mettere da parte, una miseria di stipendio che la voglia di avere figli è un cero spento in mezzo alla bufera. e sul bosco a conifere dalle ruspe l’assalto vedranno, il prossimo inverno spianato il crinale e spoglio un futuro incolore quasi vuoto come polvere di foglie. POLVERE DI FOGLIE scritto da: Leone Vere pere, l'ere-prole doglie in gole, oli e fidi geli. 158 I Giovedì di Scrittura Fresca BATTIBECCHI CASALINGHI scritto da: Sally Ero tranquilla a pensare ai fatti miei, il fuoco faceva il suo dovere nel camino, il cd faceva il suo dovere nello stereo, il vino faceva il suo dovere nella mia testa, il fumo faceva il suo dovere nella mia gola. Insomma una serie di cose ad interagire tra loro facendo esattamente il loro dovere. Ed ecco che un ragno si cala dall’alto. Si ferma ad altezza occhi (i miei naturalmente) e mi guarda stizzito. Stizzito? Sei a casa mia, un po’ di rispetto almeno, non ti pare? Non si scompone il bastardo, anzi controbatte. Sei tu che invadi il mio spazio. Vocina flebile e pretenziosa. Vocina da ragno, insomma. Sto invadendo il tuo spazio? Certo, non te ne sei accorta? Una ragnatela è geometria pura, ogni lato ha la sua dimensione che va rispettata. Tu sei in un mio lato e devi sloggiare. Devo sloggiare?? Uè ragnetto sei tu che sei in casa mia.. vai a fare i tuoi lati perfetti tra le mille foglie del bosco qui vicino. Vacci tu carina. Carina? Non me l’ha mai detto nessuno e certo non comincerà un ragnaccio peloso. Iniziamo ad offendere? Non sei peloso? Sì, ma avverto un tono astioso in te. Astioso è dir poco. Ti cali a sfiorarmi il naso e mi dici di sloggiare, come dovrei reagire secondo te? Potresti fare quello che ti ho chiesto, magari mentre ti alzi e ti allontani mi chiedi anche scusa. Devo ammettere che è riuscito a farmi ridere però. Non riesco a resistere alla tentazione e gli sbuffo del fumo addosso. Inizia a tossire mentre le zampette cercano di pizzicarmi. Ondeggia pericolosamente davanti al mio naso ma il fumo sembra averlo addolcito. Sembra quasi che mi sorrida. Meglio adesso? Sì, sto bene anche se tu non ti sei ancora spostata! Ma guarda che non ho nessuna intenzione di spostarmi. Torna su e calati un poco più in là. Lasciami fuori dalle tue geometrie perfette che io con la perfezione non vado d’accordo. Perché dovrei dartela vinta? Ah, ma allora sta diventando una questione di principio? In un certo senso sì. Principio per principio, non ti sfiora l’idea che con un gesto minimo ti elimino dalla faccia della terra? Ecco! Mi mancava la solita boria di chi si sente più grande e grosso. 159 I Giovedì di Scrittura Fresca Ma lascia perdere la boria che io sono buona e ti lascio fare tutte le ragnatele che vuoi, sei tu che attacchi. Sì, buona! La casa è sempre piena di fumo, la musica altissima anche in piena notte ed ho intravisto anche un topo passeggiare. Il topastro lascialo in pace che mi diverte come rosicchia e poi scusa, chi ti tiene qui? E dove dovrei andare? Fatti tuoi, scusa la franchezza. Lo vedi che sei antipatica? Tu sei noioso. E quindi? E quindi? ... Facciamo una cosa ... Tu ritorni nel tuo angoletto ed io mi dimentico che mi stai riempiendo di fili appiccicosi tutta casa, mi sembra che ci puoi stare. ... Allora? Mi ributti un po’ di fumo addosso? Ah ah ah.. ti è piaciuto allora? Sì Ti credo, erba così se ne trova poca in giro ormai. Credi che altrimenti potevo stare qui a battibeccare con te? Io ti ributto un po’ di fumo sul quella testolina di ragno e tu torni zigzagando al tuo angolo. Ok? Questo è un ricatto.. ok! Sorrido mentre lo avvolgo in una nuvoletta di fumo denso, non ci giurerei ma mi sembra anche di sentirlo aspirare, ma tu guarda se mi dovevano capitare anche i ragni sconvolti. Dovrò stare attenta a dove la lascio che quello è capace che me l’avvolge in un bozzolo e non la trovo più. Intanto la bestiola se ne ritorna alla base. Cazzo, me l’aveva detto mio fratello che quest’erba era allucinogena, ghigno tra me e me mentre cerco un’altra cartina. 160 I Giovedì di Scrittura Fresca POLVERE DI FOGLIE scritto da: Franco Zadra Impalpabile evanescente traccia di permanenza fuggita che il liquido ricordo discioglie e trascina nel profondo del mondo perché rifiorisca l'apparenza del Sé Di me che ero quando eri tu Un Noi. Molto di più dell'impronta del tuo capo sull'altro guanciale. 161 I Giovedì di Scrittura Fresca IN FOGLIE SPOLVERATE D'AMORE CHE SI PUÒ scritto da: Necatrix Sinuoso è l'amore che si può in serpentina di neon e minuti spersi con mano minore a scostare i capelli di questa mia monaca esi-lienza monca d'ogni iddio sotto un cielo di cera (d'Api?) che mi (si?) racconta a vuoti e mai che la vita riesca a risuonarsi da capo a piedi qualora anche solo un trucco metabolico s'attivi in esperienze rammaricate. Eppure non mai io vengo meno a questo fair play che è gioco d'agonie e pellegrinaggi espiatori (tutti?) da assolvere - suhnwallfahrts al simulacro di quel che è il resto dell'onore dell'uomo. 162 I Giovedì di Scrittura Fresca TOILET POETRY IN SALSA DI FORFORA (Elegia del derma d’elefante) scritto da: Ettore Bilbo Con badilate di pazienza riempirò secchielli di pazzia Ma non credere davvero che non possa farmi scherno dei tuoi rutti fuori tempo in quanto il ritmo l’ho dettato prima ancor tu fossi nato. Questo disse il mio signore poi si fece bianco perla manto increspo di candore e in brache mi lasciò giusto in tempo per godersi per godersi ballarò Poi via, verso domani lasciando il pasto ai cani e ciotole ripiene di passi falsi, angosce e pene che non son degne di lasciare altro che aria da buttare e come un’aquila volare Son grammi, di solitudine patita cercando invano una ferita tanto stupida e bugiarda da creder ancora sia sincera, e senza dubbio tralasciare che non tocchi a lei incolpare di non aver ancora amato quel po’ che basta ad aspettare e continuare ad aspettare lasciando al tempo il suo daffare 163 I Giovedì di Scrittura Fresca Ché i domani corron svelti e perder tempo paga dazio per chi ha voglia di dormire sopra materassi sporchi di congiunture dette perse perse sì ma non lasciate anzì invece riafferrate giusto in tempo per morire Acciò che noi lasciam cadere come alberi le foglie, ma non raccogliamo frutti di quelli pochi assai perché se ci pensiamo, maturi in primavera non lo siamo stati mai… Siam polvere di foglie martirizzati santi in doglie, per quanto valga inconsapevoli di noi Perché la notte le storie fragili raccontano echi, sogni, sonorità sbiadite e l’inverno si scioglie senza vento e scivola poi via 164 I Giovedì di Scrittura Fresca FOJIE IN PORVERE scritto da: Brizgraz Er vento spazza er viale e tra le fojie, che voleno portate da la brezza, c'è un fojio scolorito de giornale rubbato dar ciclone a la monnezza. Un vecchio incuriosito lo raccoje, se ferma, se lo legge, se sbilancia, poi se ripija, seguita er cammino, e mentre passa lento e a capo chino, 'na lagrima je scenne su la guancia. Ha letto de quarcosa de violento, oppure avrà pensato, bene o male, che semo tutti come fojie ar vento? 165 I Giovedì di Scrittura Fresca 166 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Sei 05 Maggio 2005 EUTANASIANDI Hanno partecipato: CYB Roberto Eutanasia di laida creatura Bobboti Sogni sono duri a morire Punto Mosso Un vuoto? Brenno Tanto… Ettore Bilbo A cosa serve il silenzio Dolphy Vita Vaan Di rughe Massimo Botturi Mare dentro Pasquino I dubbi di Minasse Simonetta Ferrante Bivio umiltà Idea Vagante Dolcemiele la morte sulle labbra Sally Eutanasiandi Carmen M.R. Di Lorenzo Brava Sara Maiko La generazione di Thanatos Brizgraz La morte pietosa Necatrix Eutanasiandi – CYB Serenella Una tazza di ricordi 167 I Giovedì di Scrittura Fresca EUTANASIA DI LAIDA CREATURA scritto da: CYB Roberto Cala rapida e violenta un’immaginaria spranga su quel cespuglio grigio, come un’affilata katana medievale, a dividere di netto il bene dal male… Si è materializzata dal nulla nel parco cintato, repellente. Si potrebbe chiamare Ida, la Ida, laida. Si presenta come un elfo saltellante, con una giacca di panno del colore acceso tra il giallo uovo e la senape cremosa di un chiosco di hot dog. E’ piccola, ossuta e piallata, con il seno licenziato, e i jeans sono sempre e comunque troppo grandi, increspati con una corda al bacino posteriormente scarenato. Ha una testa che è un groviglio di mangrovie stritolate in un frantoio, grigia e unta, uno stampo di ragnatela fusa sul viso scavato, di rughe, una bocca storta con denti guasti aperta oscenamente a parlare e parlare e parlare con lingua saettante da mamba ninfomane… Si muove come una marionetta, a scatti, stringendo un sacchetto di supermercato pieno di biancheria cimiciosa e una borsa consunta. Emana un odore di stantio, di disidratati biscotti della salute quasi ammuffiti… I capelli altamente infiammabili nobiliterebbero una fine gloriosa da bonzo, anche se i bonzi non hanno capelli… Flashspot. Rage Against the Machine. Urla selvagge liberatorie di vittime e carnefici. Evoca il concetto di Legione, di posseduta, di altra protagonista di un esorcista otto o nove, con sguardi schizofrenici che chiedono aiuto e insieme soppesano puttanescamente bassa macelleria di maschio caucasico alto e massiccio. Ha occhi neri e fondi con luccichii che sembrano cerchi concentrici in una pozza immobile: luci intermittenti come un presepio in prevalenza espositiva di buio misterioso o mistico. Anche la voce è un insieme di voci: diverse nell’assenza comune di speranza. Querula: “Chissà dove dormirò stasera un avvocato pazzo di me mi ha dato il bidone sono perseguitata dagli sbirri che non vogliono che io stia da queste parti un maresciallo della finanza si è innamorato già non sono poi malaccio…” Sfrontata: 168 I Giovedì di Scrittura Fresca “Ma non sei in libertà vigilata con quel pacchetto tra le gambe dove vai a fare danni?” Stanca: “Non ne posso più di voi uomini e della vita fanculo il sentimento, ha la sifilide.” Dissociata in toni e concetti: “Ti vesti proprio sexy e mandi un buon profumo la vita è dura e ho lo sfratto ho fame mi ci vorrebbe un caffè o un cappuccino potrei essere una brava moglie so cucinare cosa non darei per una doccia sì carino ci so fare con gli uomini e non ridere che ti potrei mandare al manicomio se queste mani potessero parlare dio è distratto e io vorrei un panino colla mortadella…” La morte migliore, per chi è logorroico, è il soffocamento, forse, nemesi naturale da legge del taglione. Danzano nell’aria cuscini grassocci di morbide piume d’oca che interagiscono con maggiori effetti devastanti in senso allergenico… Una pressione minima come da manuale: come soffocare uno scricciolo unto e affamato di panini con la mortadella. Provoca con ammiccamenti, torsioni di lingua sui denti algosi, un leggero disinvolto sfiorare l’animale in letargo. Incalza aggressiva: “Ti faccio così ridere eppure non rideresti se ti succhiassi come so fare dio come sono stanca di combattere perché deve durare così tanto padre nostro che sei nei cieli altro da fare mi ha abbandonata ti mangerei tutto bello rosa che sei come un porcellino ce l’hai a ricciolo anche tu?” Ride aspra, forzata, costretta da un cervello che manifesta altre idee con lo sguardo supplichevole… Forse piove, tra poco. Spero che sia un diluvio universale soggettivo, alla Fantozzi, ad annegare sofferenze, torture di fame e di uomini voraci senza altro che fame. Senza saper nuotare, in un cilindro di cristallo ribollente di acqua verdastra acida che ripulisca incrostazioni esistenziali e lavi il feto di nuova innocenza sotto formalina. Piove a goccioloni radi che infittiscono poco a poco. Il parco si svuota, come un lavandino, dall’unica uscita. L’elfo scompare magicamente correndo come Olivia di Braccio di Ferro in un viale. La giacca gialla uovo diviene giallo uovo strapazzato con balzelloni goffi esaltati 169 I Giovedì di Scrittura Fresca dall’ondeggiare della mangrovia unta e grigia. La Ida si parcheggia all’entrata di una toilette pubblica, una casetta di nuova costruzione al limitare del parco, non ancora istoriata di numeri di cellulare, non ancora fetida di umanità unita dal bisogno. Scruta i fuggitivi. E’ braccata da qualche fuggitivo. Un cotechino ambulante si srotola pigro verso il riparo dell’elfo. E’ un duello rusticano di sguardi e gesti. Lei accentua la motilità galvanicamente e mi appare, da lontano, come una rana inchiodata allo stipite della porta dei cessi pubblici. Serpeggia la lingua e alterna sguardi richiedenti pietà a occhiate da vendita in saldo. Il salume tira in dentro la pancia e ghigna disinvolto, rivolto alla pioggia, massaggiandosi promozionalmente lo scroto a mano piena. Sensazione d’onnipotenza divina è il padroneggiare uno scenario da un mirino telescopico di un maneggevole bazooka d’ultima generazione. Inquadrare rane galvanoputtane sullo stipite di una porta di cesso e punire insaccati sfrontati che sanno già di rancido. L’inquadratura è verdignitosa e retinata da coordinate filosofiche. L’indice preme... Credo che si possa chiamare pietà. 170 I Giovedì di Scrittura Fresca I SOGNI SONO DURI A MORIRE scritto da: Bobboti Quella mattina mi ero svegliato prima del solito, mancavano quasi tre ore al suono della sveglia. Rimasi per un po’ sotto le coperte. Fuori era buio, la città ancora dormiva. Nel totale silenzio, calcolai il ritmo del mio respiro, ascoltai il cuore nell’orecchio premuto sul cuscino, cercai inutilmente di riprendere sonno. Non potei ricordare cosa stavo sognando. Dopo qualche minuto mi alzai e lentamente ciabattai fino alla finestra della cucina. Fissai lo sguardo oltre la linea dei palazzi di fronte. Non ricordo quanto tempo attesi, immobile, il sorgere del sole. Ricordo, però, che quella luce non mi piacque. Il cielo era carico di pioggia e le nuvole correvano basse. Mi feci la barba, mi vestii in fretta e tornai in cucina, per la colazione. Guardando una tazzina vuota, ascoltai i sette rintocchi del campanile della chiesa di San Carlo. Solo allora presi l’ombrello e uscii, per la mia solita passeggiata. Avevo percorso quasi tutta Via Sironi e mi accingevo a deviare in Via della Solitudine, in direzione della mia panchina abituale, quando un ticchettio sul selciato mi fece voltare. Vidi un uomo, piccolo di statura, la faccia pallida, intabarrato sotto un ridicolo cappotto d’orbace, fuori misura, che lo copriva fino ai piedi. Avanzava verso di me, accompagnando la sua rapida andatura con un bastone da cieco. Mi si parò davanti, sbarrandomi il passo. Lo riconobbi. Appena vidi l’orecchio mozzato e un occhio di vetro sul lato destro del suo viso irregolare, non ebbi alcun dubbio: era lo stesso uomo che poche ore prima aveva occupato il mio sonno, in quella notte agitata. Non dissi niente, aspettai che fosse lui a parlare per primo. Mi disse solo “buongiorno”. Poi mi guardò, con una cattiveria da inquisitore, e con un cenno del capo mi intimò di seguirlo. Con riluttanza, ma a un tempo arrendevole, come un reo condotto al patibolo che non può contrastare i suoi aguzzini, gli ubbidii e mi ritrovai a seguirlo, attraverso le viuzze deserte del centro storico. Camminammo in silenzio, per dieci minuti. Alcune vecchie donne, ombre nere, affacciate curiose alle finestre, si segnarono al nostro passaggio. Un gatto saltò fuori da un cassonetto e scappò via spaventato. Un corvo smise di becchettare una scultura di granito. Giungemmo davanti al vecchio mulino abbandonato, in Via Deledda, in pratica a pochi metri di distanza dal punto da cui eravamo partiti. L’uomo, con un’antica e rugginosa chiave di ferro, aprì il grosso portone. Mi spinse dentro. Nella semioscurità, salimmo tre rampe di scale, fino ad uno stanzone all’ultimo piano. Il locale odorava di muffa e merda di piccioni. I muri, scrostati dall’umidità, erano illuminati da una debole luce che filtrava dal canniccio del soffitto. Al centro campeggiava un tavolo rettangolare, coperto di polvere e calcinacci, e una sola sedia, discosta dal lato più corto. Appesa ad una parete, una testa di cinghiale faceva mostra di sé. Stranamente, quel luogo, mi sembrò familiare. 171 I Giovedì di Scrittura Fresca L’uomo poggiò il bastone e mi fece sedere. Poi cominciò a passeggiare, con le mani dietro la schiena. Dall’esterno arrivava il rumore di una pioggia battente. - Bene… così ci incontriamo di nuovo! - disse con tono soddisfatto, scandendo le parole e facendone cadere una, e solo una, dentro ogni passo. Poi si fermò, come se stesse cercando le intonazioni più giuste. - Molto bene! - riprese - comincia piovere e noi ci possiamo conoscere meglio. Ma dovrei dire riconoscere. Io ti ho osservato, sai. Ti ho guardato mentre dormivi, per molti giorni di seguito. E sono entrato nelle tue visioni, e ti ho parlato e ti ho ascoltato. Ti ho voluto anche bene. In fondo volevo capirti, volevo penetrare in quell’uomo che cercava una vita senza sogni. Avevo riposto in te le mie ultime speranze, mi sembravi la persona giusta, uno che aveva smesso di crederci. E’ da anni che cerco la morte. Fece una pausa. Poi riattaccò, mantenendo inalterata la sua camminata alle mie spalle. - Non è sempre stato così, naturalmente. Fino a non molto tempo fa ho nutrito la speranza di molti uomini e donne, le dolci illusioni dei giovani. Ho spinto il vagheggiamento della fantasia, alimentato rivoluzioni vere o inventate. Ho parlato d’amore. In quest’isola, mi sono accompagnato anche al senso antico di giustizia e di riscatto. Ma poi, tutto questo è finito. Pian piano ha preso il sopravvento il nuovo fascismo, quello che il grande poeta civile aveva profetizzato molti anni prima, parlando di abiure. Per i bei sogni c’è stato sempre meno spazio. E a un certo punto ho dovuto contribuire anch’io a quella mostruosità, facendo cose che non avrei mai immaginato di fare, fra false tolleranze e finte conquiste. Infine ho solo inventato nuovi telefoni cellulari e programmi televisivi. Fino a diventare, per sempre, un sogno malato. Per questo ho invocato la fine. Ero vecchio e stanco. Ma tutti quelli che potevano aiutarmi si sono sempre svegliati un attimo prima. Hanno ucciso un pezzo di me, ma non mi hanno mai finito. Così come hai fatto tu, questa notte, quando mi hai solo ferito. Guarda qua. Aprì il suo cappotto e mi mostrò una grossa chiazza di sangue che macchiava la sua camicia, all’altezza del ventre. Una gamba era stata sostituita da una protesi di metallo. - Io non la conosco - cercai di replicare- non ricordo quasi nulla di quel che succede nei sogni. - Stai zitto, stronzo! - urlò, isterico - hai avuto tutto il tempo per parlare. Ora devi solo ascoltare. Ascoltare, amico mio. Se non l’hai ancora capito sei nella merda fino al collo. Si avvicinò, mi venne di fronte e mi puntò un dito in gola. - Ora comando io, qui siamo fuori dal sogno. Ora devi arrivare fino in fondo. Tirò fuori da una tasca un grosso coltello a serramanico e lo fece cadere sul tavolo. Anche se era sporca di sangue, riconobbi la mia “pattadese” dal manico d’osso, 172 I Giovedì di Scrittura Fresca l’avrei distinta fra mille. - A te - mi disse. - Devi colpirmi con forza e quante più volte potrai. Ci sono parti di me che sono dure a morire, perciò non fermarti alle prime stoccate. Io non opporrò troppa resistenza. Il suo respirò aveva cominciato a farsi affannoso e un filo di bava gli colava dalla bocca. Provai un lieve tremore. Determinato, gli risposi che aveva sbagliato persona, che non sarei stato capace di fare male a una mosca, che la vista del sangue mi faceva svenire. Mi alzai, gli voltai le spalle e cercai di guadagnare l’uscita. Fu a quel punto che sentii il suo bastone abbattersi con violenza sulla mia testa. Istintivamente mi voltai e lo colpii con un pugno che lo fece rotolare per terra. Subito si rialzò e afferrando il coltello mi si lanciò contro. Riuscii a scansare il suo attacco. Un senso di vertigine, un misto di panico e istinto di sopravvivenza, si impadronì allora di me. Mi scagliai su di lui, con tutta la furia che avevo in corpo. Lo disarmai e con precisione affondai la lama del coltello dentro il suo cuore. L’uomo rideva. Rideva e mi incitava - ancora, ancora - gridava, facendo crescere un odio smisurato che non riuscii più a controllare. Colpii di nuovo, ripetutamente, alla cieca. Vidi le sue budella fra le mie mani. Vidi pezzi di carne che si staccavano dalla sua faccia. Vidi la sua gamba di ferro rotolare sul pavimento, le sue dita mozzate in un angolo della stanza. Ma finché la risata mostruosa non si fermò, continuai a infierire su quel tronco straziato, fino a staccarne la testa. Quando mi fermai, la stanza era un lago di sangue. Si sentiva solo il rumore della pioggia. Un rivolo d’acqua scendeva incessante dal tetto. Rimasi fermo, per qualche minuto, con le lacrime agli occhi. Poi scesi lentamente le scale e tornai in strada. Non incontrai nessuno, la città sembrava ancora irreale. Arrivai a casa. Sfinito mi abbandonai sul divano e mi addormentai. Poco dopo aprii gli occhi. Sul ripiano del caminetto, una testa di cinghiale, appoggiata vicino al libro che avevo finito di leggere il giorno prima, mi guardava dagli occhi di vetro. Quella testa è ancora lì, da quel giorno. Da quella mattina in cui è cominciata la mia vita senza sonno. Senza sogni. 173 I Giovedì di Scrittura Fresca UN VUOTO? scritto da: Punto Mosso Cerchiamo il lato grande della seta, no, non questo, aspetta, una vibrazione, può essere il tetto che si muove? Dai lacci si direbbe che il gatto tornerà ad uccidere, lascia sempre i lacci questa pietra cattiva. Lasciamolo per ora, proveremo più tardi. Di questo mio occhio centrale non riesco a mettere a fuoco l'immagine, non riesco a leggere con la sola mano destra, se solo potessi allungarla come fanno tutti. Lo sforzo puro per leggere la carta, nulla mi dà, interpreto, per non essere colto in fallo, la gente vuole sapere, chiedono altri stessi fogli di essere impilati. G. mi senti? Lo so che mi senti, ti devo dire ancora tante cose, ti debbo chiedere molte verità Un prato, ma l'erba non c'è, dicono che sia normale in questo momento, perché i supermercati non passano più. È triste, ma si può vedere che va tutto a occidente anche se lo volessi, potrei volare ma servirebbe un pallone da ping pong. Troverò mai in tempo utile il grasso per andare a comperare? Non danno nulla se prima non ti procuri di che ridere. Come volete, faremo in modo che sia il più breve possibile, state tranquilli, c'è la certezza che non proverà dolore. E la donna che mi passeggia davanti, mi guarda, e mi chiede come stanno tutte le mie gambe, le mie enormi gambe, le prime cento sono riuscito a contarle, ma senza dare loro molta attenzione. Rispondo che stanno tutte bene, come si risponde sempre in questi casi, pensando che un giorno mi prenderò più cura di queste scatole. Cosa che non faccio spesso, prendi ora, per esempio, sono in cima a una piattaforma di un edificio e c'è un vento così forte da far oscillare la struttura, mi tengo con le mani abbracciando tutto il tetto, ma il vento è forte, e se mi lasciassi andare? Cadere, volare? Non è difficile, a volte è solo il respiro che dà problemi. Riesco a entrare a forza nella porta che conduce alle scale e incontro altra gente che scende, qualcuno mi prende l'anima e mi trascina per le scale, vedo che ancora si scende fino al mare, e lì ci si siede intorno, vedo solo chi è ai miei lati, persone dal viso scomparso ricordi lontani, lontani che mi ride il cuore, per l'improbabilità. Era un caro amico, ma il suo stare causava tristezza peggio di una morte, un non rispondere freddo a cui nessuno poteva dare più il cuore. 174 I Giovedì di Scrittura Fresca TANTO... scritto da: Brenno Accadde mentre la picchiava, come tutte le sere. L’uomo si fermò col braccio alzato ed emise un grido strozzato, crollando al suolo. La donna smise di piangere sentendo il rumore cupo alle sue spalle, e si girò, incredula. Il marito, che di nome faceva Giacinto, camionista, giaceva a bocca aperta, incosciente. Lei, che di nome, invece, faceva Caterina, non poteva crederci. Provò a smuovere piano l’uomo, senza costrutto. Avvicinò la testa al petto villoso per sentire se il cuore batteva ancora. Rumore flebile di tamburo. Magari la sbronza gli era arrivata alla testa tutta in un momento e si era addormentato. Era successo altre volte. Molte. Ma vedendo che non si muoveva un muscolo, Caterina capì che il marito non respirava più. Era morto. Anche se non veramente, perché gli batteva il cuore, ancora, perciò. Si alzò a fatica, con tutti gli arti doloranti, per chiamare il 118. - Pronto?- disse - senta, mio marito si è sentito male. Il cuore gli batte ma non respira...- Corriamo subito! Dove abitate?- via dei Glicini, 18. Quarto piano.- Bene. Signora, lei cerchi di rianimarlo. Gli faccia la respirazione bocca a bocca- Va bene- disse, sempre senza battere ciglio, e riattaccò. L’uomo giaceva ancora a terra, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato. Niente, era proprio morto. Ma non del tutto. Si accucciò vicino al corpo del marito, provando a soffiargli in bocca, come aveva visto fare in televisione. Però non sembrava servisse a molto. E poi dopo pochi secondi quelli in televisione si riprendevano. Oppure no, e allora voleva dire che erano proprio morti. Caterina si alzò, dubbiosa se aprire la porta o meno. Stava ancora in piedi nell’ingresso quando sentì le sirene. Aprì la porta e si sedette, aspettando il 118. Ma prima, guardandosi attorno come per paura che qualcuno la vedesse, si avvicinò ancora al corpo inanimato del marito e lo prese a calci. Due, tre calci, non di più. Dati piano, senza convinzione. “Tanto...”, pensò. Poi arrivarono con la barella. Michele faceva l’infermiere. Un lavoro del cazzo, sempre tra due ali di pazienti sporchi, maleodoranti e lamentevoli. Un rosario continuo di lamenti. Michele faceva anche il turno di notte, e straordinari, per pagarsi gli studi di Medicina. Per quanto, si domandava spesso, che ci faceva lui a Medicina non lo sapeva. Ma a volte pensava che avrebbe preso una specializzazione in Odontoiatria. 175 I Giovedì di Scrittura Fresca Pochi pazienti, due cariette qui, un apparecchietto là. Al limite una gengiva da aprire. Al limite. Comodo, pulito, remunerativo. Nel frattempo ospedale. Quando li vide entrare non ci fece quasi caso, Michele. Ne vedeva tanti di cadaveri viventi, ogni giorno. Ictus, infarto, qualche altro accidente del genere. Gli fecero sistemare il paziente, un tizio grasso e peloso, nell’unico letto ancora libero. Che culo. - Posso fare qualcosa, signora?Domanda di rito. Il tizio intanto respirava col tubo. Coma, probabilmente. - Tanto...- gli rispose la donna, senza nemmeno guardarlo, scrollando un po’ le spalle. - Vabbè - Michele colse l’occasione per cavarsi di lì. Sigarettina in guardiola. Un’occhiata al culo non indifferente di Monica, un tipa nuova, che si diceva fosse lì perché amante di non si sapeva quale primario, o del Dirigente, addirittura. Le versioni erano contrastanti. A Michele non interessava. Chiunque fosse era un uomo fortunato, pensava assecondando l’ondeggiamento dei fianchi mal riposti nel camice bianco. Proprio fortunato. Caterina, una volta, era quasi bella. Cioè, non proprio una da far girare la testa per strada, però più che rispettabile. Giacinto, allora, era magro. E non beveva. E faceva un gran sesso, a dire il vero. Guidava l’autobus. Cioè, faceva l’autista per il Consorzio cittadino dei trasporti pubblici, o qualcosa del genere. Non si stava poi male. In fondo a due giovani non serve troppo. Poi erano cominciati i casini. Prima avevano scoperto che Caterina era sterile. Una roba comune. Comunque non potevano avere figli, e tanto basta. Meglio così, in fondo. Chissà come avrebbero retto economicamente l’arrivo di un pupo. Poi il lavoro. Sull’onda della recessione, dei grandi tagli al bilancio per entrare o restare in Europa, Caterina non ricordava bene, il Consorzio del marito era passato in mani private, che lo avevano pelato per bene e, come si dice, ripulito dei rami secchi. Oddio, non è che Giacinto fosse poi tanto secco. Novanta chili, pesava, per un metro e settanta scarso. Quindi. Ma tant’è. Insomma, era finito a trovarsi un lavoro come camionista. Un lavoro pesante, di sicuro. A volte stava giorni e giorni fuori. Ma non era un problema troppo grave. Anche perché col passare degli anni Giacinto aveva cominciato a bere. Qualcuno avrebbe detto la depressione. E ad andare a puttane, di questo era sicura, perché una volta gli aveva trovato dei preservativi nella tasca del giubbotto. E loro preservativi non ne avevano mai usati, visto che comunque figli... Alla fine tornava a casa sempre più stravolto, quasi sempre sbronzo e la picchiava. La prima volta non ci era preparata e la cosa fu davvero brutta. Poi ci si era quasi abituata. Tanto... 176 I Giovedì di Scrittura Fresca E poi lui dopo un po’ si stancava. Non aveva più il fiato di una volta. Michele aveva una strana idea della vita, che però non diceva a nessuno. E un trattato di anatomia a fare polvere sul tavolo della guardiola. Qualche sogno, anche, nella stessa polvere. Michele non guardava mai le cose due volte. Insomma, almeno niente che non fosse il culo di Monica o simili. Non gli piaceva domandarsi troppi perché, non credeva nell’esistenza di un qualcosa di altro dalla sua vita e dal possibile. Non aspettava in una città di specchi. E non sopportava gli autori sudamericani. Specialmente Isabel Allende. Ogni tanto restava qualche minuto, durante il turno di notte, appoggiato allo stipite dei Vegetali, i senza-ritorno, come quel signore grasso. Vista la cartella: encefalogramma piatto. Quella signora, intanto, la moglie tipo, stava lì da due giorni... Comunque gli piaceva stare un po’ a lì a riflettere. In qualche modo lo faceva sentire più vivo, vederli ansimare nei polmoni d’acciaio o attaccati ad altri mille macchinari. Vite di convenienza, vivi per dovere. Come quando muore il geranio e ficchi una stecchetta nel vaso per tenerlo diritto, e convincere convincerti che sia ancora vivo. Ma è morto. E la colpa è tua, che non gli hai dato un goccio d’acqua. Perché era morto quel signore grasso? Era colpa della moglie, che non lo faceva vivere? Del lavoro troppo duro? Di figli ingrati, debiti? Colpa della vita, che è così e non altrimenti, anche se potrebbe. Forse. Michele si trascinò per l’ennesima volta negli ultimi tre giorni dalla signora. Quella si alzava solo per pisciare e bere un goccio d’acqua dal rubinetto del bagno. Ma non parlava, non faceva niente. Sembrava più lei, quella in coma, che il marito. - Veramente, signora, posso fare qualcosa?La signora lo guardò negli occhi, senza battere ciglio. Caterina non si domandava perché era successo e come avrebbe fatto adesso senza il marito, con la casa e tutto. Non si domandava, perché avrebbe dovuto rispondere. Veramente Caterina non pensava a niente. Tanto... Tanto le sembrava così strano, tutto. A quale cadavere stava facendo l’ennesima veglia? Non se lo ricordava nemmeno più, a volte, e confondeva il funerale del padre con l’agonia dello zio con la malattia della cugina. Confondeva il dolore come si confondono i colori al buio dei mattini senza riscaldamento, come affacciarsi alla finestra e sentire solo puzza di fritto e vite sporche, fingendo siano mare. Caterina si sentì stanca, a un tratto. Non capiva più cosa stesse accadendo. Qualcosa le diceva che non c’era pietà nella sua veglia. L’aveva detto il dottore che casi come quello non c’erano speranze, per cui si mettesse l’anima in pace. Anima in pace. 177 I Giovedì di Scrittura Fresca Caterina che una pace la sentiva, ma era come mettere il muto al televisore. Parole e immagini cariche di rumori, esplosive. Ma senza didascalie. Poi quel ragazzo venne ancora una volta a chiederle se voleva qualcosa. Caterina lo guardò negli occhi, senza battere ciglio. Insomma, stavano lì da due minuti a guardarsi, in questo modo un po’ solenne e insieme ridicolo. Poi a Michele sembrò di capire. Caterina lo guardò armeggiare. Lo lasciò fare. Tanto... pensò. Una tacchetta in meno da segnare sulla canna di una sciocca misericordia. Un vivo in meno da piangere. Quell’uomo, rifletté Michele, occupava uno spazio fisico e mentale che non gli competeva più. Era un moroso. Come tutti gli altri attorno, nel reparto e forse anche oltre. Sui marciapiedi, nei bar, nelle discariche brulicanti, nei caseggiati, sui moli. Come tutti quelli cui mancava il respiro. Come tutti quelli che tirano per senso del dovere, e volte nemmeno per quello. Devo fare due passi, si disse. Si accese una sigaretta, mentre staccava il respiratore. Tanto... pensò. 178 I Giovedì di Scrittura Fresca A COSA SERVE IL SILENZIO? scritto da: Ettore Bilbo Chiacchieravo con Ada mentre preparavo la moka per il caffè. Adoravo quelle routine fatte di gesti semplici, e non mancavo di sottolinearle ulteriormente con la nenia delle parole, tante, inconsapevoli e spumose. Era difficile trovare chi mi stesse dietro quando partivo nei miei sproloqui ipnotici. Succedeva mentre lavavo qualche mutandina nel lavabo, mentre preparavo una torta, mentre riordinavo gli appunti del lavoro. Ogni buona occasione di battezzare delle nuove abitudini attraverso queste mie chiacchierate cicloniche era ben accetta. Mi mettevano di buon umore. Ada era tra le mie partner migliori. Amica da sempre, mi metteva a parte d’ogni segreto. La sua dote migliore era l’ammiccamento; come sapeva renderti complice lei nessun’altra. Con la sua compagnia il discorso procedeva filato, si dipanava come un gomitolo di lana che, se da un lato si rimpiccioliva sempre più, dall’altro andava trasformandosi in un bel maglioncino od una sciarpa calda. Riusciva a rendere utili perfino le chiacchiere. Svolgeva un po’ il ruolo del timoniere insomma, ed era brava in questo. Le bastavano due o tre parole giuste, quelle che poi t’accorgi quanto fossero state ben mirate; poi ammiccava come sapeva lei ed il gioco era fatto: io mettevo la quarta e partivo verso i lidi inesplorati della retorica e della dialettica. Per una donna immagino che poter chiacchierare così liberamente sia un po’ come per mio marito il potersi bere una birra con gli amici. Poter agguantare la vita e dirgli resta ferma un po’ che voglio gustarti un attimo, non correre sempre. Poi, a volte, inciampavo in un dubbio o semplicemente dovevo riprendere fiato ed allora c’era Ada che mi veniva incontro con un'altra delle sue frecce, sempre pronta a colpire nel bersaglio. “Ti ricordi mio nonno?” mi domandò. “Certo!” dissi a gran voce, cercando di riempire i toni di colore, perché il nonno di Ada valeva ben la pena di sprecare la tavolozza intera. “Già”, mi fermò subito lei in maniera inconsueta, si vedeva che aveva qualcosa in più da dire. Infatti riprese subito: “Quando ero piccola, una volta, mi disse una cosa davvero strana, sai quelle frasi enigmatiche che sanno di saggezza ma che non ne sei sicura”; in televisione, che come sempre era accesa, ma senza volume, passavano le immagini tristi di un caso che teneva in sospeso l’America. Ada parlava guardando in quella direzione, pensosa, accavallando gli uni sugli altri lo sguardo fisso, le parole, e i pensieri. “Mi disse che lui la morte aveva creduto parecchie volte d’averla capita, quando era stato in guerra, quando aveva avuto l’incidente, quando era morta la nonna, insomma, un sacco di occasioni, che di occasioni ne aveva avuto per far quattro chiacchiere con la bastarda. Però, però poi mi disse che in realtà non aveva capito un fico secco. Che la morte l’aveva capita solo quando era morto. Ma tu non sei mica morto gli avevo risposto. Immagina c’ero rimasta così, pensavo che si stesse 179 I Giovedì di Scrittura Fresca rincitrullendo. Lo so bambina che non son morto, m’ha risposto, è questo il punto. Poi sorrise il vecchio. Sorrise”. In tv si vedevano le immagini del detersivo che più bianco non si può. “C’ha lasciati un mese dopo il vecchio, sempre con quel sorriso che la mamma dice s’è stampato sulla mia faccia. Sembrava che lo sapesse che l’ora era arrivata. Magari dopo tante occasioni per parlare con la morte s’era deciso a farsi rispondere. Il tempo delle chiacchiere era finito per lui, che poi, se le parole bastassero sempre a che servirebbe il silenzio?”. Smise di parlare, io guardavo Ada e lei guardava me, poi sfoderò l’arma segreta e mi rese complice della sua frase saggia. Anche io stetti zitta. Mi sembrava di avere tante cose da dire, un milione, di dover continuare a godere di tutta quella vita che erano le mie chiacchiere, gustarle con Ada, perché di parole ce ne erano un sacco. Ma per un po’ rimasi in silenzio, non ne ero sicura ma in qualche modo era la cosa giusta. Vedendomi riflessa in un angolino dello specchio del salotto ebbi la fugace impressione che per un attimo, quel sorriso ammiccante di Ada, fosse migrato anche sul mio volto. 180 I Giovedì di Scrittura Fresca VITA scritto da: Dolphy Legati a quel filo sottile chiamata vita aspettiamo E' solo un attimo il distacco annunciato DI RUGHE scritto da: -VaanQuasi a tentare il motivo del freddo o il suono di un gesto dagli occhi umidi. nel dolore riposto, perché oggi così trattengo il respiro che la sotterranea sua sofferenza mi precipita un urlo. come fosse già scritto di nuove abitudini che non la spaventano oramai immune a quella stretta che dice basta. mi darei di ghiaccio, cruda eutanasia se potessi riscattare a mia madre la sua più viva parola di rughe. 181 I Giovedì di Scrittura Fresca MARE DENTRO scritto da: Massimo Botturi Giocato, e vinto da un vino a tarda notte pigolo appena questa mattina lavata sopra i tetti Quello che vedo s’è fatto largo in un altro me, sparito o sparpagliato sui rami ricamati da tenui fiori che spaccano la vista e intonano nel petto, le furibonde corse delle api i cigolii degli arcolai dei ragni che chiazzano i soffitti come gli araldi che portano messaggi i banditori che primavera annunciano Lascio ti arrivi la poesia migliore che mette i bimbi, a mazzi per le città arancioni che scorcia le vesti antiche ed imbelletta i balconi di gerani lascio fuggire, intera la mia canzone privata degli allori per le finestre da dove spose s’impegnano ai mariti dove si lavano i lampadari a goccia ed i tappeti s’orientano, felici Ho un oratorio, in questa pancia di piume e di coriandoli come il solletico dei frizzi in gioventù perché continua, il mare il suo venirmi dentro come una rondine decisa, al porticato 182 I Giovedì di Scrittura Fresca I DUBBI DI MINOSSE scritto da: Pasquino Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Inferno –Canto V° Perplesso Minosse arrotolò la coda come una poltrona ci si sbracò e rosicchiandosi un artiglio cominciò a pensare. Quest’Inferno è vecchio e angusto. I gironi sono diventati pochi e c’è bisogno di nuovi contrappassi. I peccatori moderni ormai ci stanno stretti nei sette peccati capitali, ne hanno inventati di nuovi e così, tante anime non so proprio dove sbatterle, mi manca il posto e la pena! E poi ci sono uomini che sono una multinazionale del peccato. Ne fanno tali e tanti, verticali, orizzontali e trasversali che è praticamente impossibile stabilire una graduatoria di gravità. Devo andare giù alla Giudecca a parlarne con Lucifero. (Meglio che mi metto un pellicciotto che laggiù fa un diavolo di freddo!!) - Ciao Lucy, scusa se ti disturbo mentre mangi, ma ho un problemino grave che solo tu che sei il capo puoi risolvere Dopo aver ascoltato le lagnanze di Minosse, Lucifero sputò un pezzo di Giuda dalla bocca nera, fece un rutto cavernoso e latrò: - A Minò, nun te se regge più! Stai sempre a rompe li cojoni e mò te metti puro a fà er sindacalista! Si nun te sta bene er posto de lavoro, smamma! E poi lo sai che co’ ste cose moderne nun ce capisco n’ cazzo. Ma famme capì mejo, famme qualche esempio - E’ sempre un piacere goder delle tue licenze linguistiche…del resto, cosa si può pretendere in questo postaccio? Ma bando alle ciance…un esempio? Allora, tra poco arriverà qui un certo Silvio Berlusconi. Se tu ti prendessi la briga di leggere almeno la rassegna stampa che ti mando tutte le mattine, ti renderesti conto dell’inadeguatezza dei nostri mezzi nel dover punire tanta pervicace scelleratezza - Ah, ma chi è, quer botolo spocchioso che s’è tutto rifatto peggio de na’ mignotta? - Lui in corpo e anima - A Minò, dà retta ammè, co’ quello abbasteno li vecchi metodi: o’ ficcamo drento a na’ gogna, tutto ignudo e o’ famo annà su e giù pe’ tutti li gironi a pecorina, co’ Barbariccia che o’ spettina ogni dù minuti e lo pija a nerbate sur culo quanno che se ferma. E deve da sorride, sempre. 183 I Giovedì di Scrittura Fresca - Diavolaccio d’un Lucy, sei veramente un grande! Una rozzezza illuminata la tua! - C’è artro? - Non ti preoccupare. Ho capito il sistema. Con un po’ di fantasia li sistemerò tutti. Grazie comunque grande Lucifero. - De gnente! Gli rispose l’Angelo del male mentre “avea del cul fatto trombetta”. Tornato nella sua guardiola, Minosse prese carta e penna e cominciò ad appuntare. PROSSIMI ARRIVI BRUNO VESPA Castigo Condannato per l’eternità, a mani giunte ed espressione di compenetrato dolore, a leccare il culo a tutti i dannati presenti in Inferno SORELLE LECCISO E ALBANO Castigo Condannate ad imparare a memoria tutta la Divina Commedia e a ripeterla in eterno mentre Albano gliela canta nelle orecchie a squarciagola MAURIZIO COSTANZO E IL TRAVESTITO MARIA DE FILIPPI Castigo Fornirli di coscienza e farli macerare per l’eternità nella perfetta consapevolezza di quello che sono stati e di quello che hanno fatto GEORGE W. BUSH Castigo In una capanna, sotto i bombardamenti, sodomizzato in perpetuo da Bin Laden e costretto ad assistere allo spogliarello di Condoleeza Rice ACHILLE BONITO OLIVA (Mens vana in corpore nano) Solo per aver scritto: "la scrittura è spostamento del logos a luogo intransitivo, a prospettiva di piacere, ad affondamento nella profondità, nella prospettiva appunto, non è possibile ritorno ma solo l'eterna smagliatura, quella emarginata e non abilitata all'uso della storia che pratica le improvvise curvature del disorientamento, la tensione sistematica ed obbligatoria del nomadismo" Castigo Con martello e scalpello dovrà incidere su tutte le rocce dell’Inferno la frase “IO SONO SCEMO” Il castigo si rinnova con cadenza biennale 184 I Giovedì di Scrittura Fresca VITTORIO SGARBI Castigo (Questo lo metto direttamente vicino al deretano di Lucifero onde possa usare le di lui flautolenze come phon per pettinarsi) E Minosse andò avanti per un pezzo a prendere appunti, poi, soddisfatto, chiamò il diavolo di servizio e si fece portare un hamburger di tarantola formaggio e nutella e una bottiglia di Rocchetta din-din (puliti dentro, belli fuori). - E adesso al lavoro! - Tuonò satollo. Con un unghione premette il pulsante che alzava la barra all’entrata e con un ghigno luciferino (?) abbaiò: - Avanti il Primo! 185 I Giovedì di Scrittura Fresca BIVIO UMILTÀ scritto da: Simonetta Ferrante Si chiama così un incrocio che devia da una superstrada e sale per una stradina asfaltata coi ciuffi d'erba e un contorno di casette nuove piene di fiori, si sale e silenzioso appare un edificio circondato da alberi. Cammino, sono appena scesa da un autobus di linea di quelli blu coi sedili alti e il motore gracchiante. Lascio la città le mie certezze alle spalle, levo l'ancora e mi dirigo nel nulla. Nei corridoi puliti i miei passi gravi si fanno più veloci, accompagnano le speranze di guardarla ancora guardarmi. La visita fatta degli stessi gesti , gli infermieri le solite domande, una parte di me sta ad ascoltare aggrappata a un fede di illusioni. Tutto è grave e senza senso. Devo scendere al bar al piano inferiore, parlo di astrologia col barista, vorrebbe un oroscopo tutto suo per scrutare nella sua vita. Penso alla futilità di quelle chiacchiere. Sorrido, triste mangio un panino fatto lì per lì e sento la freschezza nella bocca, fuori c'è il sole e tutto splende inutilmente per me. Risalgo in ascensore e mi affaccio alla finestra in fondo al corridoio, a parte qualche rondine solitaria, un vento insignificante, un aria che non circola quasi in attesa, un gatto che si nasconde, la natura esprime una timidezza diventata il ritratto di un luogo in cui il silenzio è già una premonizione di perdita, ormai alle porte. Mi ritiro seccamente, in quella natura brulla c'è l'unica verità, tutto mi riporta a quel pensiero. Mi accomiato da lei con la finta aria efficiente e leggera di chi promette che tornerà presto. Esco, mentre scendo nel viale alberato un cane randagio mi viene incontro quasi come se mi "riconoscesse", mi segue dopo le mie carezze, e qualche parola:- ma chi sei tu? - Creatura dolce dagli occhi imperterriti che giochi e mi vuoi... mi si accolla ai calcagni e io cammino, verso la superstrada, tutto è ancora senza senso; lui dietro non si stacca, a un certo punto devo attraversare c'è un ponte di cemento allora cerco di seminarlo lui guaisce, corre disperato avanti e indietro, ci ripenso lo rintraccio mi segue ancora fino alla fermata, non ho più riserve per soffrire anche per lui... Dopo un attesa che si fa sempre più lunga ecco arriva il pullman salgo in fretta e lui resta lì escluso, a terra. Al guidatore che mi guarda interrogativo dico: "non è mio..."Il pullman sgomma, romba e riparte dal Bivio Umiltà. Siamo in tre ad attendere a quel bivio delle risposte. Sospesi appesi fra la vita e la morte. Lei nel suo letto ad annegare inesorabile sola le piaghe della sua malattia, anche le pillole giacciono sul tavolo, nessuno gliele porterà, non ne ha più bisogno, e il cane in cerca di uscire ad ogni costo dalla condizione di abbandono, e me, in questo registrare impotente emozioni assurde. In questo siamo uguali mi dico. Nel pensare di tentare "una mossa" che possa vincere quella condizione di pre-morte che sembra una lunga ombra venuta a spegnerci. Ci dibattiamo uniti da un comune senso di assurda speranza. 186 I Giovedì di Scrittura Fresca C'è un antica leggenda che narra di un uomo che appesa una camicia ad asciugare al sole la sua ombra era diventata una nuvola ed era salita nel cielo. Fissare l'attenzione su quelle ombre è per me come avvicinarmi a quella "zona" oscura, doppia, della morte, nello stesso tempo l'attenzione si posa con umiltà attraverso il dolore e si spinge verso "zone " di luce dove è possibile inventare proiezioni, concatenazioni, cellule graffiti che nel movimento formano all'interno del pensiero e anche fuori quella nuvola che sale su... 187 I Giovedì di Scrittura Fresca DOLCEMIELE LA MORTE SULLE LABBRA scritto da: Idea Vagante (Dolcemiele la morte sulle labbra ultimo bacio o ambrosia pura a nettare stanchezze di tenebre smunte. Appuntamento scritto sull’agenda quel suono a martello). Si chiudono stanchi gli occhi ammalati di tramonti di fuoco odorosi di glicini (raspi di ricordi, scarabei di cristallo e d’onice a pioggia tra le ciglia). La notte presto calerà a ritagliare arcate cieche, linee oblunghe a sforbiciare orizzonti e triangoli e prismi in deserti sabbiosi a figurare cattedrali (Pulsa l’affanno nelle pupille del gatto in fondo al vicolo). Il pulviscolo affocato di non più stelle immobile s'instatua a raggelare l’aria e le ore impigrite dall’afa trasudano impercettibili sulla pelle (calde gocce da parole che piangono di festa e scavano rughe sui tuoi passi) mentre ronzio è il tempo che rimane a concertare gli ultimi giri delle lancette sul quadrante. 188 I Giovedì di Scrittura Fresca EUTANASIANDI scritto da: Sally Non poteva immaginare l’inferno in cui si era volontariamente cacciata. Certo che non poteva prevederlo, sembrava tutto così perfetto. L’appartamento era una bella mansarda con ingresso indipendente in un villino in mezzo ai boschi, a pochi chilometri da Roma. Esattamente quello che sognava. Un ampio salone con angolo cottura, il camino, le travi di legno sul soffitto ed il pavimento in cotto; poi due camere da letto e due bagni. Un sogno, insomma. Considerando anche il costo dell’affitto che trovava decisamente alla sua portata. Il giardino era molto grande e tenuto benissimo ed il bosco lo circondava con un abbraccio benevolo. I proprietari della casa vivevano al piano di sotto e questo l’aveva un attimo frenata, ma le erano sembrate persone gradevoli e discrete. Insomma non ci aveva pensato due volte firmando il contratto. Marina siede davanti al camino spento, i suoi pensieri corrono agli ultimi tre mesi della sua vita, al baratro in cui sta sprofondando inesorabilmente. Persone gradevoli e discrete, sorride con amarezza mentre sorseggia una grappa. Era cominciato praticamente subito, neanche il tempo di svuotare il primo scatolone che la processione aveva avuto inizio. La signora Concetta si era precipitata da lei con un pezzo di crostata ed un sorrisone grosso grosso, gli occhi intanto a scrutare ogni angolo di casa. Dopo poco un nuovo bussare, questa volta il signor Gino a dire che per qualunque lavoretto lui sarebbe stato ben felice ad aiutarla, gli occhi intanto a scrutare ogni angolo del suo corpo. Di nuovo sola era riuscita anche a sorridere di quella sfrontata curiosità in fondo innocua. Che di innocuo c’era ben poco però ebbe modo di accorgersene con il passare dei giorni. La presenza continua e per niente discreta dei due padroni di casa l’aveva avvolta come una vischiosa ragnatela lasciandola senza vie d’uscita. Battute per niente velate sulle sue abitudini erano all’ordine del giorno. La signora Concetta le rimproverava il passeggiare continuo in casa, il suo modo di cucinare, il trillo del telefono che l’infastidiva, la luce accesa in casa fino a tardi. Battute che, con l’andare del tempo, si erano fatte sempre più astiose ed aspre. Ma era il signor Gino a preoccupare maggiormente Marina; la sua presenza silenziosa e costante; i suoi occhi invadenti che sentiva incollati al suo corpo. Quella sera poi si era raggiunto l’inverosimile: pensava di uscire un poco per distrarsi da quell’atmosfera opprimente ed aveva trovato il cancello chiuso con un nuovo lucchetto. Il signor Gino si era materializzato all’improvviso da dietro un cespuglio, un ghigno negli occhi. “Abbiamo pensato sia troppo pericoloso uscire di notte per una ragazza, così il 189 I Giovedì di Scrittura Fresca cancello resterà chiuso”. A nulla erano valse le sue proteste, e sì che si era arrabbiata sul serio minacciando anche di avvertire la polizia e di denunciarli per sequestro di persona. Tutta la sua rabbia era semplicemente rimbalzata sull’ottusità del signor Gino lasciandolo del tutto indifferente. Solo quel sorrisetto becero sul viso e gli occhi che non smettevano di spogliarla. Si era spaventata ed era rientrata in casa mettendo il paletto. Sorseggia la grappa Marina e pensa. Un disegno preciso comincia a prendere forma nella sua mente e lei comincia a seguirne i contorni con un’eccitazione via via crescente. È l’unica via di uscita si ripete convinta mentre un sorriso le fa brillare gli occhi. Si guarda intorno, sa perfettamente che dovrà dire addio a tutte le sue cose, ma il gioco vale la candela. Di questo è sicura. Finisce la grappa e si alza. Si avvicina alla cucina e gira tutte le manopole. Il sibilo del gas l’accompagna mentre con calma si aggira per casa. Raccoglie pochissime cose in una borsa, si versa ancora un poco di grappa e aspetta. Quando inizia a sentire i movimenti farsi più ovattati dal gas che sta saturando l’ambiente si alza decisa. Si avvicina alla porta e manomette il campanello. Adesso deve essere veloce. Accende lo stereo alzando il volume al massimo, esce silenziosamente da casa chiudendo la porta e corre a nascondersi dietro una macchia di cespugli nell’angolo più lontano del giardino. Sa che è questione di minuti. La porta di casa dei due bastardi si apre, li vede uscire. I Muse riempiono l’aria. Salgono la scala esterna. Questione di attimi pensa, mentre stringe i pugni. Attimi. Un braccio che si alza verso il campanello. Risucchio. Fiammata. Boato. Libertà è un cancello divelto, ride tra sé imboccando la strada nel bosco. 190 I Giovedì di Scrittura Fresca BRAVA SARA scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo Ogni sera, prima di addormentarsi, Sara teneva stretta a sé la sua bambolabambina che la guardava con occhi sterili di luce. Aspettava che la cantilena della sua ninnananna si confinasse tra le pareti basse della soffitta oscura, dove il castigo prendeva forma dalle ombre più strane. La bambina indossava un vestito di pizzo macchiato dai livori degli adulti e aveva battezzata la sua bambola con il suo stesso nome, e lei era la mamma. Aveva fatto la cattiva pure oggi, Sara, e in soffitta ci andava ormai da sola. La madre, giù in cucina, affogava le inquietudini e i suoi fallimenti in una bottiglia di alcool. Sara incominciò a spogliare la sua bambola rimproverandola di essere muta, voleva sentire il suono rauco del dolore, spezzandole un braccio. Ma la bambola restava ostinatamente con la stessa espressione e allora Sara provò a sculacciarla fino a farsi male le mani, ma sulla bambola nessun livore. Improvvisamente, Sara pensò alla madre. Si ricordò come anche lei aveva picchiato la sua bambola. Ma quella bambola aveva pianto. Perché la sua continuava invece a guardarla con quella stupida espressione negli occhi ? Occhi. Gli occhi. Spinse con un dito in dentro gli occhi della bambola, che ora senza occhi pareva cambiare espressione. Senza espressione e senza occhi la bambola era più bella, le sembrava. Intanto, dalla cucina la madre salì barcollando su per le scale. Aprì la porta della soffitta e vide cosa aveva fatto la figlia alla sua bambola. Le disse: “Brava Sara”. 191 I Giovedì di Scrittura Fresca LA GENERAZIONE DI THANATOS scritto da: Maiko Di bella morte in controverso ostello coi fianchi rovesciati in balze e raso Di rosa rossa segregata nell'ostentata bianca sottanina lo sguardo perso indietro appena prima di una chioma in seta Inferta nell'amore la ferita rapita alla bellezza l'ansa di un respiro in mutuata mia caverna Fatua allo stupore dell'attimo frugato dal ladro di delizia mutato in assassino Da bella morte consegnata all'umido del vino versato in una notte nel foro buio dello spioncino dove intravedo il letto Dove intravedo il tavolo ed il lume ma la ragione perdo se pretendo di trattenere il fremito donato in nera alcova al mio assassino Sono dolente in tiepido incantesimo che mi trattiene calda come in vita e in ventre ho quel coltello e il seme suo in segreto 192 I Giovedì di Scrittura Fresca LA MORTE PIETOSA scritto da: Brizgraz Te sei mai chiesto come mai ar cavallo, quanno se rompe l’osso de la zampa, je spareno invece da curallo? Pe’ nun fallo soffri’, perché si campa, nun correrebbe libbero ar galoppo, chè si la gamba è rotta nun se scampa… mejo ammazzallo prima co’ lo schioppo! Però nessuno penza che ar cavallo, magara piacerebbe vive zoppo! EUTANASIANDI-CYB scritto da: Necatrix Miei cari oggi ho deciso di non pubblicare per protesta. Intanto perché mi sembra gesto non responsabile lasciare ad uno come Cyb la scelta dell'argomento del giovedì. Che già polvere di foglie mi aveva fatto venire strane immagini alla memoria (che ho ricacciato nel profondo, insieme al diavoletto che me le aveva sussurrate...) , maSCUSATE!- eutanasiandi solo la mente malata di uno che ha respirato afror di gianduia per anni poteva partorirlo. A me, che, invece, respiro quotidianamente profumo di tartufo e fonduta, l'unico eutanasiando che riesce a venir in mente in questo momento è il Roberto del sitone nostro. E che Malos non me ne incolga! 193 I Giovedì di Scrittura Fresca UNA TAZZA DI RICORDI scritto da: Serenella Bicchieri in festa sotto il pergolato stelle nei prati una tazza di ricordi in fila come marionette il copione in tasca nel vestito buono una stilla alla menta mia giovane speranza gusto d’azzurro occhi di cielo un succo viola mio giardiniere estratto ambrato sole di mezzanotte ciack si gira l’ultimo bacio l’ultima scena i vuoti a rendere 194 I Giovedì di Scrittura Fresca 195 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Sette 19 Maggio 2005 LABIRINTI Hanno partecipato: Punto Mosso Simonetta Ferrante Alessandro Gabriele Dolphy Gruppo MistoAttak Nicola Martini Pasquino Massimo Botturi Oltremare Carmen M.R. Di Lorenzo Sally Serenella Ettore Bilbo Fucsia Bobboti Brizgraz Leone Vaan Doremi Quella 196 Macchinari La visione del razzo Labirinti(te) (No flai zòn) Labirinti Labirinti Dalla Macedonia con gelato Ciao Cicciola Fly on a Windshield La voce A trovar l’(as)soluzione Il labirinto Labirinti La torre 97cm: labirinti italiani Diabolici disegni Er labirinto Labirinti Labirinti Er labirinto, Fabbrì (indegna risposta) Tra tufi e pietre I Giovedì di Scrittura Fresca MACCHINARI scritto da: Punto Mosso Era stato progettato da un ingegnere del comune, insieme a tutto il parco, esisteva dunque una soluzione, era pure stata prodotta una mappa, e in risposta a tutto questo da molti anni ormai di quell'edificio in plastica riciclata non se ne parlava che male. Maldicenze, non come di case stregate di altri tempi, ma come se la grossa struttura in sé e per sé non avesse molti motivi di esistere, faceva piangere i bambini che ci vi si avventuravano, obbligando i genitori a camminare sulle strette e alte passerelle, previste per questi recuperi in extremis, dava rifugio ai senzatetto, il che seccava molto all'amministrazione del piccolo capoluogo, ed era inoltre una grande superficie per tutti i graffiti-writer delle zone limitrofe, libera arte, liberi pensieri, shock alla società. Ma in tutto questo, Barbara ci vedeva il bene, quello era il suo labirinto, amava camminarci, sola, o così le piaceva pensare, ella conosceva la soluzione. Abitava vicino al parco, questa zona verde sempre ben curata, sfruttata in estate per ogni tipo di manifestazione, comprese folli feste dell'alcool e campionati di mimo. Il parco, un corpo che come cuore aveva un labirinto. Ma di quanti labirinti Barbara conosceva la soluzione? Di quanti percorsi era giunta alla conclusione? Pochi, oltre a questo plasticoso che poteva essere intrapreso quante volte si voleva, esso che non cambiava, struttura che non scappava, sentiero tedioso che dava una piccola soddisfazione ogni volta mostrava la sua uscita. Perché della sua vita, i labirinti ne erano le stanze, ed anche i corridoi, ma questi ultimi corrispondendo al tempo restavano dritti. dunque ella poteva percorrerli, guardare gli ingressi di questi mille labirinti ma mai avventurarsi, restare nel sicuro e facile corridoio. Purtroppo per il suo coraggio, che ella metteva spesso al lavoro, non le bastava guardare, entrava, senza fili di Arianna, in queste stanze anonime, senza nessuna indicazione, continui con ripetizione periodica di piccole conformazioni. Nessun aiuto mai accettava, a volte dei ciechi si presentavano sulla sua via, ma come pesi del viaggio li interpretava, lasciava la loro esistenza riporre poco dopo il punto esatto da dove si erano staccati. Perché Barbara non era una campionessa dei labirinti? - Settore ricerca e sviluppo G.R.E. s.p.a. "Dammi tempo Ernesto, non posso certo risponderti così su due piedi, devo consultare il mio capo, e poi quello che proponi sarebbe l'investimento più grande dell'anno per l'azienda" "Se ho contattato te, è perché penso che possa farvi comodo questo macchinario ungherese" 197 I Giovedì di Scrittura Fresca "A quanti altri lo hai proposto?" "Cosa importa? Vuoi basare la tua decisione su una improvvisata indagine di mercato? Vuoi sapere quanti lo hanno già comprato?" "No Ernesto, ripeto la domanda, a quanti lo hai proposto?" "Beh, a tutti" "Tutti... Beh, ti farò sapere, il capo sta ancora controllando il rapporto che ho scritto sull'utilizzo della macchina test. Ormai, l'ho scritto e inviato, supplicarmi non serve, chiama Monterzi direttamente se vuoi agire su chi decide" "Barbara sii seria, Comunque questa telefonata era cominciata in tono personale, volevo solo sapere a che punto eravate nel delicato processo di giudizio, non ti preoccupare, è finita qui, piuttosto, il fine settimana che fai?" "Ma è solo lunedì" "Va beh, cosa fai stasera allora?" "Di certo non voglio sentir parlare di viti e monitor ungheresi" "Non mi prendere in giro, avresti voglia di uscire un po'? Un film o una birra, anzi ora che ricordo, stasera dovrebbe esserci uno spettacolo in centro" "Se ti dicessi di lasciar perdere per stasera?" - Hotel del centro città Lasciar perdere, perché le ho permesso di dirmi questo, di finire la telefonata con una frase fatta, avrei dovuto insistere, impormi, ma come avrei io potuto fare quando in contesti molto più semplici non riesco a farlo? Questi eccezionali macchinari ungheresi non si vendono mica da soli. Sono io il loro viso ormai, ma non riesco ad andare a fondo. - Settore ricerca e sviluppo G.R.E. s.p.a. Uscire? Con quel tizio? Conosciuto in un bar un mai di sere fa, amico di amici, che ha messo il suo lavoro tra noi prima ancora di mettere un discorso? Ma ho altro da fare ora, un rapporto su queste benedette cianfrusaglie, il mio capo sembra vagamente interessato ma da ormai tre giorni attende un mio resoconto, ma il fatto è che mi tolgono la voglia loro stesse, arrivate il giorno dopo un bicchiere di vino in allegria, quando proprio mi aspettavo tutt'altro. Ancora tre ore e sarò a casetta, magari allungo un po' e faccio un salto al parco, tanto nella borsa ho le mie letture e le giornate si fanno lunghe ultimamente. 198 I Giovedì di Scrittura Fresca - Nel parco Sono giunta a buon punto, posso dirmi soddisfatta, anche oggi mi sono guadagnata la pagnotta, domani il rapporto sarà sulla scrivania di Piero. Stasera no, non potevo finirlo così su due piedi, meglio rifletterci senza necessariamente pensarci per una notte intera. C'è luce, ma c'è freddo anche, e sono sola in questo parco, posso girarmi in ogni direzione, ma non vedo anima viva, fortuna che i cancelli rimangono aperti. Ci vorrebbe un po' di compagnia, o forse no? Basterebbe chiamare Ernesto, verrebbe subito, ma io non so decidere ora e lui non saprebbe cosa fare una volta qui, meglio cedere al nulla, è più facile, meglio non prendere questa azzardata svolta, meglio fermarsi qui e non prendere iniziative strane. Sono venuta qui per leggere no? E il tomo di 350 pagine fa giusto al caso mio, e finché c'è chiaro, c'è speranza. - Casa di Barbara Cucinare è sempre una tragedia quando si è soli, si fa poco per non occupare troppo tempo e si finisce per mangiare le solite schifezze preconfezionate al massimo un po' scaldate, quando richiederebbe poco sforzo fare qualcosa di più, ma forse richiederebbe anche qualche altra persona per cui farlo, quando faccio una serata con gli amici è difficile staccarmi dai fornelli, cucino bene, a mio avviso, e cucino per tutti, tanto, più di quanto basta. - Nei sogni di Barbara Non voglio camminare se non c'è tutto in piano, tutto deve avere lo stesso livello, se no che senso ha spostarsi? Non si sente questo liquido che mi blocca? Mi è già difficile muovermi così figuriamoci se dovessi salire anche solo un po', tutto piano, tutto liscio, tutto pronto per muoversi, tutto facile. - Settore ricerca e sviluppo G.R.E. s.p.a. "Ecco tutto Piero, mi ci è voluto un po' ma devi capire che le macchine sono nuove e che di molte loro parti meccaniche non mi era chiaro lo scopo... senza aggiungere che..." "Sì, sì, 'poggia lì" Quando fa così si meriterebbe solo la porta in faccia, altro che ringraziamenti per il suo tempo e bla bla bla, fargli vedere per una volta che non dipendo da lui per la mia vita ed invece mi ritiro dal suo ufficio chiedendo a quando la prossima riunione e quindi un responso sull'acquisizione, un modo semplice per chiedere congedo. 199 I Giovedì di Scrittura Fresca E adesso cosa? Beh, proviamo a ricontattare il fornitore che c'ha dato picche per il prezzo che gli offrivamo, vediamo se stavolta è un po' più ragionevole. - Casa di Barbara Girare e girarci intorno, non trovare mai l'uscita, il lieto fine. Una condanna direi, ma dove sono le svolte, e soprattutto dove quelle giuste, fare andare tutto avanti da solo o prendere attiva parte in esso e quindi rischiare sulla propria pelle il non trovare l'uscita? Il rapporto sulle macchine nuove sono almeno 2 settimane che è in mano a Piero, Ernesto non si è più fatto vivo. Tutto procede dritto, e io non vedo alternative che dipendano da mie scelte. - In un bar del centro Aver scelto questo bar per incontrarci non poteva che essere una mia idea, un bar più stupido non l'ho mai visto, fantocci di idee appese alla parete, c'è persino una balestra palesemente finta o giocattolo in quell'angolo, ma è stato il primo che mi è venuto in mente, e già la chiamata non mi sembrava facile, volevo che si fosse conclusa al più presto, quanto sembrava non mia, sia nel tono sia negli obiettivi. "Ordiniamo o tu stai già aspettando?" "No, no, le liste me le hanno portate ma aspettavo te per ordinare, comunque io ho già deciso, appena vedi il cameriere e anche tu sei pronto fagli un cenno" "Beh, chiamami monotono ma io la sera nei bar prendo il solito amaro" "Non ti ho detto perché ti ho chiamato, e ti sembrerà strano ciò di cui voglio parlare" "Capisco benissimo che il lavoro non è sempre il miglior posto per parlare" "Comunque, volevo parlarti di quella proposta di acquisto, non che io ci tenga, ma la cosa sembrava essere stata abissata, e non se ne era più parlato" "Parli di quei cavatappi ungheresi... pensavo volessi parlare d'altro, promozioni o cose del genere" "No, la cosa che mi sta a cuore al momento sono le cose che faccio, e quel rapporto mi aveva preso una carta quantità di impegno e vorrei dunque sapere a che punto si è giunti" "A dire la verità, essendo ora al di fuori del contesto lavorativo, ti posso dire che non lo ho nemmeno letto e che dall'alto mi hanno tagliato i fondi per qualsiasi iniziativa di implementazione su scala di produzione di qualsiasi cosa da noi studiata, anche i soggetti che ci vengono proposti, soprattutto quelli ti dirò" "Ah" "Non la prendere male, non ti ho detto nulla perché pensavo non ti stesse così a cuore, se vuoi discuterne posso leggerlo un po' a tempo perso, ma non posso garantirti nulla più" 200 I Giovedì di Scrittura Fresca "No, no, lascia perdere, tanto non ne vale la pena a quanto ho capito, magari uno dei prossimi anni" "Quando ci saranno un po' più di soldi in cassa..." - Nel parco Vicolo cieco, ma poi cosa mi avrebbe dato in se stessa l'acquisizione di quelle macchine da parte della mia azienda? Nulla, ero comunque ad un Vicolo cieco, la mia vita ha urtato contro un episodio sterile. Ma quali sono gli eventi che possono prendere parte ad un fine? Cosa può toccare il mio animo? Sono convinta che tutti i giorni mi succede qualcosa del genere, ma passa inosservato, oppure scartato rispetto alla quotidianità che attira con la sua sicurezza. - Casa di Barbara "Signora siamo gli impiegati del comune, siamo qui in seguito ad una sua lamentela sulla posizione di un lampione pubblico" "Sì vi faccio salire" "Ma questo lampione sembra ben allineato, perché dovrebbe darle fastidio la notte?" "Lei lo sposti un po' più a destra, tanto non cambia per l'illuminazione stradale, no?" "No beh, certo" "Vi ringrazio e vi farò sapere se questa notte ho dormito oppure no" Anni e anni che convivevo con quella mezza luce non mia, ora l'ho spenta. 201 I Giovedì di Scrittura Fresca LA VISIONE DEL RAZZO scritto da: Simonetta Ferrante Quando c'è il sole impazzisco vedo un razzo curvo nel cielo che traccia grida di fumo nell'aria, inonda la bocca del cielo, vomita la sua luce dalla sua forza mille volte rinasci e come un cristallo lucido da tutte le parti accechi l'indifferenza. Il tuo tragitto è disegnare le traiettorie per la gente ai confini di strade. Naso all'insù a cercare conferme al tuo demone nell'infinito che finisce col tuo gioco cieco dell'immaginazione ritrovi il coraggio di splendere sopra il labirinto della terra. 202 I Giovedì di Scrittura Fresca LABIRINTIte (No Flai Zòn) scritto da: Alessandro Gabriele Le femmine cercano e trovano il posto adatto attraverso i radars olfattivi posti sulle antenne. La deposizione delle uova avviene all'interno della matrice nutritiva la quale, di norma, deve essere esposta alla luce. In un solo giorno una femmina può deporre 100-150 uova di un intero ciclo e tale operazione può ripetersi fino a 5-6 volte in un anno. Alcuni ricercatori ritengono che in una sola ovodeposizione si possano produrre fino a 800 uova, altri che una sola coppia possa dar vita fino a 4/5 miliardi di individui l'anno. Fu più un sorriso che una smorfia o un brivido. Federico Bini finì di leggere e chiuse la pagina web senza salvarla. Ci mise uno scatto all’indietro della schiena. Un gesto fulmineo della mano destra e un piacere sottile e ambiguo. Come di cose più grandi che vanno in malora senza che si abbia davvero l’intenzione e la necessità di fermarle. La pupa possiede un corpo molto trasformato rispetto alla larva, teme le temperature superiori ai 40° C (per essa letali), per cui dagli ambienti caldi si sposta progressivamente verso i terreni freddi, anche ipogei. A maturazione, l'adulto preme sull'involucro del pupario, che si rompe in maniera caratteristica,simmetrica. L'adulto, per fendere il pupario si aiuta con una sacca d'aria, posta esternamente a livello degli occhi, che viene utilizzata solo per questa occasione. Da giorni ormai. I reclami che non contemplassero richieste d’aiuto, esternazioni di scandalo, minacce di denuncia penale riguardo alla presenza massiccia delle mosche ovunque posasse culo d'uomo, si contavano sulle dita di una mano di ET. Federico spese qualche ulteriore minuto a rispondere in posta elettronica una serie di “scusateci, provvederemo, siam lieti che abbia scelto il nostro servizio disinfestazioni!” a pioggia. Nonché, pur dimenticandosi del tutto di spingere l'Invio, dispiacendosi sinceramente in una parte di sé lontana come l'eco del Big Bang, di non poter fare di più e di meglio. Caratteristici sono gli occhi composti (ocelli), con circa 4000 sfaccettature, a sottolineare l'acume visivo della mosca. Le antenne servono da organi olfattivi e di orientamento (particolarmente attraenti sono le misture di odori forti). L'organo olfattivo pi raffinato posseduto dal moscone azzurro della carne (Calliphora erythrocephala), pure la mosca domestica possiede un ottimo olfatto, oltre che un'ottima vista. A differenza delle api, sembra che le mosche non siano in grado di riconoscere i colori: certo che sono più sensibili alla luce con breve lunghezza d'onda, 203 I Giovedì di Scrittura Fresca e, se disturbate, si dirigono verso il blu e i colori affini, mentre, se sono lasciate in pace, preferiscono i colori scuri come il marrone. Se lo prendeva a cuore il suo lavoro, Federico, benché nel corso degli anni fosse precipitato a vite nella scala societaria verso il purgatorio dell’ufficio reclami, un posto snobbato da tutti, dove anche i liquami del Mobbing piovevano ormai a stento, una stanzetta giallastra e semibuia al piano terra che affacciava sulle scale d’emergenza arrugginite della Sessantaquattresima East. Bella vita, sì bella, perché? Sapete del mondo postmoderno corretto nelle fondamenta, giusto? Anche voi sospirereste di sollievo a non dovervi combattere ogni giorno la scarsità di risorse con la massa sociale diseredata che invade ormai costantemente le strade del mondo. OVODEPOSIZIONE: la mosca fecondata cerca un posto adatto ove deporre le uova, cerca un substrato ricco di materia putrefatta, fermentata: ricco di umidità e di sostanze organico-proteiche. Tipici terreni adatti all'ovodeposizione sono gli escrementi di uomo e di animali, le sostanze vegetali in putrefazione ed ogni genere di immondizie. Federico sorrise e spense tutto con un pensiero quantizzabile in acceleratori di pensieri a cappella, un genere d'intrattenimento molto in voga tra l'alta borghesia dei salotti di questa capitale del Paese delle Ultime Cose*. Pochi minuti dopo viaggiava in Taxi sognando duro contro il finestrino fumé dove il traffico di punta rifletteva tutta la sua tracotanza feroce minore, ogni cosa avveniva lenta e silenziosa e in due ecologiche dimensioni di striscio sulla sua fronte intatta. L'ufficio della Direzione Centrale stava beato per i fatti suoi al 300esimo piano tra le nuvole, affacciato su Battery Park e il canale dell'Hudson che contiene la lontana prospettiva di Miss Liberty e del suo cespo d'insalata issato in cielo dalla mano destra di pietra. Federico sprofondava lietamente in poltrona di realpolitikstirolo espanso stile 70 prima che cascasse the wall, il capo aveva sempre da fare, ma la volta che ti chiamava sul serio in ufficio al 300° tuttovetri c'era di che giovializzarsi come la minchia di Santa Claus. La larva odia la luce e ama il caldo; si annida nella matrice organica e pu sopportare temperature fino a 60° C. Ottime temperature per il suo sviluppo sono quelle che si stabilizzano sui 40°-50° C. Se la matrice si raffredda le larve penetrano sempre di più al suo interno. Il periodo larvale consta di 3 stadi. Il corpo della larva conta 13 segmenti ed è di forma conica. L'apparato boccale è privo di particolarità, 2 artigli all'interno della bocca sono collegati con la struttura simil-scheletrica della larva; nella parte terminale si notano 2 aperture-sfilatoi, collegate con il sistema respiratorio. La cuticola abbastanza resistente, dapprima bianca, in seguito ingiallisce e, in prossimità della pupazione, diviene più scura a motivo delle riserve di grasso che vanno accumulandosi. 204 I Giovedì di Scrittura Fresca Si udì solo il tintinnio dei calici, si intuirono sorrisi e circostanze, Federico guardava il Boss come un Joe Pesci asfittico saltato fuori dall'acquario. Ma le prospektive apparivano decisamente buone, sempre più reclami, sempre più clienti. Fatturato a palla. Mentre tutte le cifre facevano cassa suonando nei cervelli della Direzione 300°, in fondo alla prospettiva verso Staten Island qualcosa di grosso volava ronzando come un muratore sardo di notte quando le adenoidi e il vino la fanno da padrone. Il torace della mosca, molto possente, ben predisposto alla locomozione per la presenza di masse muscolari (circa il 10% del peso totale). Le ali battono velocemente con 2-300 battiti al secondo e permettono un discreto volo, nell'ordine di 7-10 Km all'ora. In genere preferiscono l'appoggio su superfici ruvide, anche se possono camminare su superfici lisce, grazie alla pelosità degli arti. Non si allontanano oltre i 2-3 Km dalla fonte del nutrimento: il loro volo veloce e strano, con angolature impossibili e virate è al di fuori di ogni legge aerodinamica. Il coleottero gigante, in fondo alla visuale, si posò maestoso sulla testa invecchiata di Miss Liberty. Il gesto fu privo del rumore naturale che accompagna solitamente la pietra quando si spezza di netto come un tramezzino ingiallito in un bar di periferia. Il coleottero vide il cespo d'insalata, appetitoso, a due centimetri appena dal proprio trombone gastricolfattivo eccitato. Fu veramente un niente farne morso veloce e poi un boccone e ripartire scarburando altrove. I cibi solidi vengono leccati, predigeriti col vomito salivare e quindi assorbiti. Il vomito, che esercita un forte richiamo sulle altre mosche, rivelato dai puntolini neri che le mosche lasciano al loro passaggio. Le mosche sono grandi contaminatrici dell'ambiente attraverso il vomito, il rigurgito e le feci, piuttosto liquide, che emettono ogni 5 minuti. Intanto, per le strade le piazze delle città di tutto il mondo, una folla di straccioni privi di senno si contendevano a dentate le poche risorse che il mondo ancora seminava dall'alto, neanche fosse qualche minchia di Hansel e Gretel dopo il diluvio. Per tenersi su in nervi, tutta la folla di labbra composte, parallelamente, faceva AMEN a voce alta. E davvero non c'era un cazzo d'altro. * Paul Auster, Il Paese delle Ultime Cose 205 I Giovedì di Scrittura Fresca LABIRINTI scritto da: Dolphy Angosce della mente le tue paure nascoste in angoli di strade Il rifiuto si fa ossessione e nulla può chi segue La mano accompagna il cammino del corpo La parola indica il cammino dell’anima Sdoppiati per sempre persi in labirinti inestricabili LABIRINTI scritto da: GruppoMistoAttak Sono mantelli neri i labirinti che il tuo piccolo cuore a tratti espone (e più spesso nasconde) Rantoli spersi nel turbinio del vento che tutto trascina Volti lignei d’una vita fessa (Nei ricordi sbiaditi ritroverò i tuoi occhi lucidi di pianto e sbiancherò nel pallore che ti ricamerà il viso) 206 I Giovedì di Scrittura Fresca DALLA MACEDONIA CON GELATO scritto da: Nicola Martini dalla Macedonia con gelato e dall'embrione pure che lesto s'è mangiato il mio, pistacchio crema, quest'ode che l'ode pure il sordo e il tordo, è labirintica giovedisticamente poetando. Il tordo è belga e si noma Poirot, nel labirinto che poi la costellazione di Arianna appare, è meglio se qui di astri non si evoca, lune ite lune sekkate l'une e l'altre. Dedalò dedalò questo bimbo a chi lo dò, sto in un gorviglio o belin la zozza e oggi è sabato. 207 I Giovedì di Scrittura Fresca CIAO CICCIOLA… scritto da: Pasquino ENTRATA: - Ciao Cicciola, come va? - Mmmm… - Che vuol dire mmmm…? - Niente! - Dai, dimmi che c’hai.. - Ti ho detto niente! - Se fosse niente mi parleresti - E non mi va di parlare. Va bene!? - E perché non ti va di parlare? - Uffa! Mi stai rompendo le palle! Percorso A= Mi incazzo Percorso B= Sto calmo B) - Per favore, mi dici cosa è successo? -…lo sai benissimo! - ?!?!....so benissimo cosa? - Adesso cade dalle nuvole! L’ipocrita! - Giuro che non so di cosa parli…ho detto o fatto qualcosa di male? - Perché? Fa differenza se DICI o FAI una cosa che mi fa male? - Bhè… no… - E allora?? - Allora cosa? - Allora perché continui a dire stronzate e a far finta di non sapere? - Ma… Percorso C= Continuo ad affermare la mia buona fede ripetendo che non so a cosa si riferisce = Non ne esco Percorso D= Me ne vado sbattendo la porta = Muso e casini per un mese Percorso H= Cerco di farla parlare senza sbilanciarmi Percorso L= Le metto le mani al collo 208 I Giovedì di Scrittura Fresca Percorso M= Cedo rovinosamente H) - Senti Cicciola, …non mi sembra di aver fatto nulla, oggi o ieri o una settimana fa, che ti possa aver fatto del male… - Non ti sembra o non l’hai fatto? - Non l’ho fatto - Come volevasi dimostrare! - Dimostrare cosa? - Secondo te, due persone che dicono di amarsi, che vivono insieme , dovrebbero o no spontaneamente sviluppare una reciproca sensibilità, una particolare attenzione all’altro, un interesse a capire e a difenderne le fragilità? - Certo! - Bene. Questa è la dimostrazione che sei un mostro egoista e insensibile!! -… - Maschilista di merda! Percorso H= Vicolo cieco Torno indietro - Se ti ho fatto del male ti chiedo scusa, credimi, sicuramente non me ne sono reso conto… - SE… dice. Insisti! Tu fai o dici una cosa che mi fa terribilmente male e neanche te ne rendi conto?? Ma che cazzo di rapporto è questo?? - Ma dimmi almeno cosa ho fatto… - Lascia perdere. A questo punto, non è tanto importante QUELLO che hai fatto, anche se rimane gravissimo, ma è il COME: un rullo compressore che non distingue una formica da un elefante. E questo non posso né VOGLIO sopportarlo! Percorso N= Reagisco N) - Io posso anche aver fatto INCONSAPEVOLMENTE qualcosa che ti ha fatto male, ma se sono INCONSAPEVOLE di quello che ho fatto, gradirei essere illuminato da te sul fatto! - A cosa serve che te lo dica adesso?? Le cose sono DUE: o quello che hai fatto l’hai fatto INCOSAPEVOMENTE, come dici tu, quindi senza capire la gravità di cosa hai fatto e questo dimostra la tua indifferenza nei miei confronti e quindi la tua incompatibilità e quindi la tua inadeguatezza, o l’hai fatto CONSAPEVOLE della gravità del fatto e del dolore che mi avresti procurato facendolo e allora è evidente che sei uno stronzo indegno e infame come tanti altri e io quegli stronzi lì non li voglio in casa! Come vedi la sostanza non cambia!!! Cosa mi rispondi? - Bhè… messa così non avresti torto… ma… 209 I Giovedì di Scrittura Fresca - Ma? -… -… Riparto dal via - Ciao Cicciola, come va? 210 I Giovedì di Scrittura Fresca FLY ON A WINDSHIELD * * Genesis scritto da: Massimo Botturi È il sentore della mosca… Parevasi gironzolare, in parassita suzione del cerchio del bicchiere traccia percepita perlopiù, col polpastrello o in contro luce, adunchi Di scatto mi volto arimo è un concetto sconosciuto al mondo animale solo alle libellule se la mia ignoranza non m’inganna è consentito lo statico fermo immagine Prodotto d’interessante ingegneria ingranaggi silenziosi e un alquanto vivace muovere, non c’è che dire Fugge meno veloce di quanto la sequenza dell’infinitesimo di secondo riesca a immortalare eppure la tridimensionale misura dello spazio, lei, la mosca frantuma, in giravolte, e cambi di rotta in iperboli ed ellissi È la negligenza della mosca confondere lo stillicidio di mala guarnizione per l’orifizio che origina la vita e goccia a goccia, riuscirne a non berne solo che la misera sua ombra, appiccicata al bianco del lavello È la limatura della mosca la decomposizione, sparita nelle fauci come le infermiere spariscono nel ventre acido degli ospedali dove si lotta, e si scommette e si baratta una fede troppo tarda 211 I Giovedì di Scrittura Fresca con la quaterna dell’unica cartella concessa dal dottore È la Royal Air Force che ha perso la formazione il contatto su frequenze segrete decifrate è il gioco del cammino sul dorso della mano sottile, come il miracolo dei piedi sopra l’acqua È il ghigno esagerato del trine delle tende zampe diamante vorrebbe, ora, lei, la mosca triangoli imperfetti, incrinature fratture, fori sbeccati moschettoni e cime acciaio per la parete in ghiaccio affacciata all’inverno complice È il vorticoso calare su ogni distrazione l’inutile sentinella ai piedi di Morfeo nostro destino, soccombere al panzer micro grammo La catapulta è già puntata sull’orlo della bocca, inevitabile e ridicola mangiatoia Si squarcia come un velo trafitto con insolenza da un dito spiritoso l’ipnosi di lady notte, funziona, puntuale catarsi delle debolezza del limitato impero dei sensi umani trionfo delle pere cotte delle tare sulla stadera Newton non ha capito nulla meglio lasciare le mele sopra gli alberi ed aspettare che il tempo faccia il suo corso comatoso Geometrici strumenti d’analisi, bavosi perlustrano, ora, lo sporco depositato fin dove glicerina non riesce a convincersi salvatrice di regole d’igiene di profilassi minima È la sopravvivenza della mosca l’azzardo gioco di cercare merda, e di trovarla, ovunque 212 I Giovedì di Scrittura Fresca ovunque profumi asiatici si curino di somigliarci favola gli oggetti i posti il soffice cuscino Viviamo sopra cumuli di immondizia rosa scriviamoci il destino, amici miei mosconi la lancetta delle ore ha rotto il quadrante bianco minuti e fragili “minuti” aspettano ore, inutilmente la mosca è ferma sul parabrezza . 213 I Giovedì di Scrittura Fresca LA VOCE scritto da: Oltremare La voce fu catapultata fuori dal petto della donna a velocità supersonica. Un grido, ovviamente. Che adesso avrebbe dovuto fare il suo dovere. Arrivare alle orecchie dell’uomo, penetrarle e compiere un lungo viaggio per arrivare al cospetto del cervello. Avvertirlo che stava succedendo qualcosa di orribile e convincerlo a mobilitare l’uomo il più presto possibile. In due parole, farsi sentire. Questo lo sapeva, la voce. Ma non sapeva bene cosa avrebbe trovato una volta superato il padiglione dell’entrata. Nessuno glielo aveva detto. Così, dopo il volo fulmineo e un atterraggio di fortuna su un grande spiazzo semicircolare, fu raccolta, spinta attraverso il padiglione e convogliata in un canale dove qualcuno aveva passato la cera. Sola e titubante si guardò intorno, finché scorse qualcuno molto interessante in fondo al canale. Era Eustachio, noto t(r)ombeur des femmes. La voce si aggiustò i capelli, improvvisò un sorriso e lo raggiunse. Lui, che era uno di poche parole, la avvinghiò e la fece sua su un letto sottile e molleggiato. Insieme vibrarono e vibrarono, fino a raggiungere l’acme e l’applauso di una catena di tre ossicini, uno comunista e due ancora indecisi. Ma l’estasi, sebbene profonda, durò poco. Gli ossicini erano lì apposta per separare i due amanti e ricordare alla voce che il viaggio era appena iniziato. Martello, incudine e staffa condussero Eustachio e la sua bella nel vestibolo, dove si rivestirono e un po’ tristi si salutarono. La voce fu lasciata sola all’entrata di un labirinto. Davanti a lei, tre canali semicircolari e un condotto a forma di chiocciola. E adesso? Come avrebbe fatto a raggiungere il cervello? Quale strada avrebbe dovuto prendere? Decise di seguire il condotto a spirale e iniziò il cammino. Cammino si fa per dire, perché all’interno del condotto dovette piuttosto nuotare in una strana linfa maculata. Passò attraverso onde, ampolle, rampe e stazioni intermedie, finché, sfinita e sporca scorse un tronco che delimitava l’uscita del labirinto. Lo abbracciò e si fermò a riprendere fiato. Si accorse quasi subito però che il tronco altro non era che una gamba dell’encefalo. Era arrivata da sua santità il cervello. Si arrampicò sul troncogamba, si accomodò su un cuscino rosa con i ricami ad intarsio rossi e attese. Non successe nulla. Allora si mosse, strattonando più volte il cuscino, finché il cervello parlò. - Che diavolo vuoi? - disse - Come che diavolo voglio, sono un grido, non mi riconosci? - Ah, sì, un grido, giusto - E allora? - Allora che? - Fai qualcosa, manda un impulso, avvisa l’uomo! 214 I Giovedì di Scrittura Fresca - Ehi, grido, rilassati, quest’uomo è sordo - Sordo? - Sì, sordo - Ma allora tutta la strada che ho fatto per arrivare fino qui è stata inutile! - Beh, sì, sei entrata nell’orecchio sbagliato - Ma c’era solo quello! - Mica è colpa mia! - E neanche mia! - Mi stai acciaccando le piume - Ah, scusa - Vorrai mica restare qui, vero? - E dove vuoi che vada? - Che ne so, vai dove vuoi, basta che ti togli da qui che ho da fare - Non so dove anda… La voce si interruppe, si alzò di scatto e senza salutare affrontò velocemente la discesa del troncogamba. Si rituffò nel labirinto e passò per la seconda volta attraverso onde, ampolle, rampe e stazioni intermedie. Nuotò nella linfa maculata del condotto a forma di chiocciola, uscì dal labirinto, entrò nel vestibolo, si spogliò, fece un inchino a Martello, incudine e staffa e raggiunse Eustachio sul letto sottile e molleggiato. Il t(r)ombeur des femmes, che era uno di poche parole, l’avvinghiò e la fece sua. La donna dell’urlo agitò le mani nell’aria e scacciò il calabrone. L’uomo sordo vide la scena e sorrise. 215 I Giovedì di Scrittura Fresca A TROVAR L'(AS)SOLUZIONE… scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo Al goffo tentativo di trovar l’(as)soluzione m’addentrai per certe vie tinteggiate dalle giovani stagioni proseguii a passo lento nel cammino a ritroso volteggiando il passato al presente incontrai delle persone giammai dimenticate: “Ehilà Carmen come stai ?” gridarono in coro sono qui che sto cercando una certa (as)soluzione potete suggerirmi da dove incominciare? difficile da dirsi - mi risposero tutti quanti questo è un labirinto e chi entra gira in tondo o gira al quadrato non trova né l’uscita né l’entrata accidenti - replicai per le vie della memoria ho perduto soluzione e grazia ! 216 I Giovedì di Scrittura Fresca IL LABIRINTO scritto da: Sally Era stato svegliato all’improvviso e catapultato in quella stanza buia da una forza decisamente più grande di lui; si era appoggiato alla parete cercando di regolarizzare il respiro che inesorabilmente si era fatto frenetico. Doveva cercare di rimanere lucido, ma l’unico pensiero che gli urlava nel cervello era l’allucinante realtà che lo vedeva chiuso nel Labirinto. Non poteva credere che questa volta fosse toccato a lui eppure ci stava dentro e probabilmente non ne sarebbe più uscito. Nessuno ne era mai venuto fuori. Sentiva di non essere solo, un’intuizione remota gli fece capire l’importanza di andare, di muoversi prima di essere raggiunto. Non doveva assolutamente restare indietro. Cominciò ad avanzare, gli occhi ormai abituati alla semioscurità. Passata la prima stanza si trovò a percorrere un corridoio notando ogni tanto aperture che portavano a percorsi diversi. Rallentò leggermente a vagliare le strade, ma, a parte le pendenze diverse, non c’era assolutamente altro a differenziarle. Poteva solo agire d’istinto. Imboccò una delle gallerie che saliva. Non un’indicazione né una segnalazione, solo questo percorso che cambiava in continuazione a seconda delle sue scelte. Decise di camminare quasi ad occhi chiusi lasciandosi guidare dalla fantasia. Proseguì a lungo procedendo in un dedalo di sentieri che a volte salivano, a volte scendevano. Aveva perso il conto di quanti ne aveva imboccati, delle volte che aveva seguito la strada incurvarsi a destra e delle altre che invece lo portavano verso sinistra. Cominciava ad essere stanco sul serio, si sentiva pesante, ma sapeva che non poteva ancora fermarsi, avvertiva altre presenze alitargli sul collo, decise anche loro ad ottenere quello che voleva lui. Non poteva permettersi di cedere adesso. All’improvviso si accorse che l’ultimo percorso imboccato finiva con una parete a bloccare il cammino. Si sentì morire, cosciente dell’impossibilità di tornare indietro a cercare altre strade. Ci si appoggiò sfinito lottando contro la voglia di piangere. La parete lo avvolse materna, asciugandogli le lacrime lo circondò; con stupore sentì il bisogno di spingere, di farsi largo, di andare ancora avanti. La parete alla fine aveva ceduto facendolo entrare in una stanza accogliente e richiudendosi subito alle sue spalle. In quel momento seppe che avrebbe potuto finalmente riposare, si stese rilassato e lì rimase a lungo. Molto a lungo. Per mesi e mesi. Nove, per la precisione. “Signora, è un bel maschietto” 217 I Giovedì di Scrittura Fresca LABIRINTI... scritto da: Serenella ingabbiata nell’ordito di piccoli baci muti m’inoltro come gazzella nei labirinti scoscesi del tuo silenzio frammenti di albe sul cuscino distratto sguardi vagabondi a illudere sogni attendo la musica col cuore appeso 218 I Giovedì di Scrittura Fresca LA TORRE scritto da: Ettore Bilbo Nella mia vita, labirinto edificato sui pezzi di altri labirinti, c'era un grande punto di riferimento. Svettava come un campanile entro le mura della città e rincuorava scorgerlo spuntare oltre i tetti delle case. Ero vivo e questo mi bastava per continuare ad esserlo. Poi successe che le mie orecchie iniziarono ad ingannarmi, che la luce del sole ferisse i miei occhi stanchi. Ombre e voci dalla casa dei morti. L'olfatto si riempì di putrefazione ed il tatto di rughe antiche come il profilo dei templi del passato. Polvere e miasma, che spazzavano nel correre del vento tra gli antri dell'inferno e questo mondo. D'un tratto vivevo nel buio, trasformato in una creatura senza certezze, costretto a vagolare entro quei confini che mi erano familiari senza riconoscerli più. Dimenticai di avere una casa ed abbandonai gli amici al loro destino. L'amore si travestì di impronte, di lunghe e ossute dita disposte a percuotermi le carni, di denti, aguzzi e insaziabili, bramosi di morsi come lo erano stati di baci. Ed il campanile, la torre, il faro dei giorni passati si era spento come un fuoco senza più calore. Infine dimenticai il mio nome. Mi spogliai dell'ultima parte di me stesso e intrapresi un viaggio nuovo e diverso, senza meta, senza destino. E senza nome rimasero gli oggetti e le persone, privati del diritto di essere se stessi oltre ogni dubbio; il giallo, il verde e persino il grigio si mischiarono ed annullarono dimenticandosi d'essere mai esistiti. E tra le mie mani vidi svanire tutte le certezze, fino all'ultima... Fin quando non ebbi il coraggio di aprire le fauci, volgendole in direzione dei miei passi. Allora vidi un nuovo colore espandersi fino ad un eterno tramonto, lo sentii stuzzicarmi le pelle, delicatamente viscido. Lo assaporai riscoprendone il gusto. Fin quando non succhiai dalla fonte della vita la linfa rossa che disseta gli dei. Allora ai miei piedi serpeggiò un fumo creatore e tutt'intorno si eressero mura indistinte e sentieri di lamenti, la materia si ricostruì attorno ai polpastrelli, la luce filtrò attraverso il buio fino a far scintillare i miei occhi. Ero chino sul corpo di una giovane donna, un mantello a coprirmi le spalle, un ombra fugace a nascondermi il viso. Inginocchiato sul suolo, che dirigeva i miei passi in un lontano passato, tornarono i ricordi. Li afferrai col pensiero scoprendoli fragili e li uccisi, come si strangola un bambino. Alzai la testa e vidi, oltre il rosso del sangue, che la torre era tornata. Alta e arrogante come non mai. Non ero più vivo, avevo perso questa certezza, ma dalla sommità della torre strisciava sottilmente un risorto destino: non ero neppure morto. La mia vittima, esangue, roteò negli occhi le pupille e soltanto nell'ultimo sforzo fissò lo sguardo su di me: era montato su lame di terrore, supplicava un perché. Parlò prima di cessare di vivere: “cos'è questo labirinto in cui sto precipitando?” “Soltanto una buona occasione per perdersi mia cara, soltanto questo”, risposi. Ero felice. Non sarei più stato solo. 219 I Giovedì di Scrittura Fresca 97 CM:LABIRINTI ITALIANI scritto da: Fucsia Salvatore oggi si è alzato presto. Deve accompagnare la mamma e la zia a votare. Stamattina a Catania c’è il sole e fa caldo, nei bar già alle 6,30 si agitano le tazzine di caffè e le brioche effluivano quel caldo odore di lievito e zucchero che mobilitano le mucose orbe da parecchie ore di astinenza. Salvatore si rade e accende la radio, mentre il suo mach 3 Gillette scorre come negli spot pubblicitari più allettanti, lo speaker di radio Etna commenta le future ore della giornata elettorale. Collegamenti da Roma, da Milano, dai covi di Forza Italia e da quelli della Margherita. Alcuni politici buttati giù dal letto a ore antelucane farfugliano pareri e frecciate miste a ottenebramenti post notturni. La lega dichiara con severità che i siciliani sarebbero ben felici di festeggiare l’entrata in vigore di una suggestiva Festa della Polenta con data da definirsi a risultati ottenuti, il Polo confida in una responsabile presa di coscienza della popolazione catanese allettata da: lavoro per tutti, giustizia per tutti, abiti firmati per tutti e un nuovo ponte-bretella sullo stretto ( con date da stabilirsi) per tutti. La margherita, forte delle sue recenti vittorie assume comportamenti di ironica sicurezza psicologica e tiene interviste in garage artistici dove si proiettano film di nicchia con collegamenti ai siti web più elitari. Intanto gruppi di cantautori severi e coperti di stracci intonano musica live in un misto di etnic-ironic-globalpacifist-grunge-etico. Ecco sì l’etica è sbandierata e tutti si ritrovano buoni e bravi, pagatori di tasse e provvedenti per tutte le problematiche dei diversamente-abili! Salvatore sale le scalette della casa materna in via Gaspare Bivona e già sente un odore di caffè misto a sugo misto a brillantina e sapone palmolive. La vecchia madre, un donnone dai capelli sale e pepe in perenne lutto da 40 anni con sguardo severo, attende sul pianerottolo. Per andare a votare si è svegliata alle 4,40 di mattina. E’ confortata dalla compagnia della zia Maria, una vecchietta stecchita, baffuta con neri occhi arguti e con una dentiera traballante. Tutte e due stazionano impazienti davanti alla porta ormai chiusa con una trentina di mandate del catenaccio. Alla vista di Salvatore la madre allunga un’occhiata severissima verso la pavida zia e tutti e tre si avviano a frettolosi passettini verso la scuola Giuseppe Garibaldi con i documenti in mano. L’entrata è sorvegliata da agenti in uniforme che chiacchierano sotto un bandierone tricolore che sventola sotto il soffio di un lieve venticello mattutino. Salvatore, il donnone e la zietta assumono una postura grave, sospettosa e referenziale al contempo. Aula 7: sui banchi piccoli e stretti di formica verdognola stazionano, sonnolenti, il presidente e gli addetti ai seggi elettorali, uno di loro neanche si accorge ( o finge di non accorgersi) di un “w la fica” scritto sul lato di un banco e tutto sa di gomma , di inchiostro e di ragazzo, quell’odore inconfondibile delle scuole. I tre si mettono in fila indiana rispettando una gerarchia ideale del loro codice familiare: mamma donnone, zia stecchino, Salvatore ben rasato e con acqua di colonia. Il presidente si sveglia dal torpore e controlla i documenti, una giovane signora rossocrinita e attillata 220 I Giovedì di Scrittura Fresca trascrive i dati, una ex professoressa con capelli blu-chachè assume un’aria distaccata e altera, mentre un giovane in jeans e maglietta si arrotola i capelli. I tre elettori sono invitati a entrare ciascuno nella propria urna segreta e siccome sono gli unici nella stanza, il silenzio si propaga . Ora sono soli, ognuno nella sua urna, ognuno con il suo bagaglio di incrostazioni della più banale comunicazione elettorale , ognuno trepido per il da farsi e sul come farsi. Aprono la scheda, anzi la srotolano e con orrore scoprono il foglio di carta: 97 cm! Il donnone perde la matita statale e con i gomiti regge i lembi del papiro elettorale, di solito le lenzuola le piega con l’aiuto delle vicine e perde all’istante la facoltà del perché si trova dentro a quel séparé di legno. La zietta potrebbe essere incartata dentro alla scheda e una vertigine l’avvolge. Non trova più’ le pieghe prestabilite, i nomi precipitano sulle pareti dell’urna, la carta è maneggiata a tal punto da assumere la forma di una palla anzi di un pallone. L’ultima cosa a cui la vecchietta pensa è a chi dare il voto. Salvatore pensa a uno scherzo della commissione del seggio e dopo essersi dipinto un sorriso sardonico fa spuntare il nasone e un occhio lucido dal pannello di legno e senza dire una parola assume un’aria interrogativa come…” eddai che burloni che siete!”…. Il presidente aggrotta il ciglio unico e sussurra roco “ non si distragga!”. Salvatore improvvisamente si sente le gambe molli. I tre, vicini, ma terribilmente soli si sentono prigionieri di un labirinto. Come Arianna vorrebbero un filo in aiuto, terrorizzati come sono dal mostro cartaceo. Nessuno più’ pensa al bene del paese, tutti e tre vorrebbero piegare quel plico e fuggire lontani, tutti e tre vorrebbero un sindaco che alle prossime elezioni gli presenterà un foglietto con due nomi in grassetto corpo 18 e una scritta che dice:” Metti una croce sull’uno o sull’altro! e poi piega in due!” Le cartiere della zecca di stato hanno dato un giorno di riposo agli addetti, mentre i fornitori di cellulosa a fine maggio andranno in crociera. Ha vinto lo schieramento politico che aveva tra i suoi elettori quelli che alle elementari sapevano fare meglio gli aeroplani di carta. Origami per tutti! 221 I Giovedì di Scrittura Fresca DIABOLICI DISEGNI scritto da: Bobboti I figli domandavano ai padri il perché di quell’arsura nella tanca crepata; le nuvole sostavano, novembrine, sopra i piccoli branchi belanti di sete. Ma non pioveva. Gli agnelli chiedevano latte alla pecora asciutta, il capraio raschiava anche le pietre. E tutto era giallo: anche le facce dei bambini, gli ulivastri, le acque del mare. E c’era odore di morte, in paese, con gli uccelli neri che modulavano versi stridenti, nel cielo, per la fretta di mangiare. Allora chiamarono Tia Badora, dal paese vicino, per fare la magia contro Brusore Siccagno, il diavolo puzzolente della siccità. Tia Badora, col corno di muflone e la sua piccola croce di legno di salice, giunse a Berruìle all’alba di un giovedì. Non parlò con nessuno, neppure con prete Basile che era il padrone di tutto - anime e grano, balzelli e contadini -. Si sistemò nella piazza grande, sulla seggiola di sughero fatta a mano, e per un giorno intero guardò verso i luoghi dell’aria che sembravano più lontani. Col corno tracciava strani segni nel vuoto e diceva parole piccole, ferme: “ru, aisè, trubà, su gò”. Interamente coperta dallo scialle, s’intravedevano solo le ciglia serrate sugli occhi, faceva un po’ paura, come il bobboti nelle notti d’estate. Dopo venti ore si alzò in piedi. Tenendola con la mano sinistra, mostrava la piccola croce in tutte le direzioni, e sputava, rabbiosamente bestemmiando, mentre guardava verso l’alto. Subito un lampo di rosso segnò il cielo e si udì un muggito assordante che bucava le orecchie. Lei andò via, silenziosa come una lumaca, stanca e piena di tristezza, senza mai voltarsi nel suo cammino. E allora cominciò a piovere. Piovvero gocce benedette, di quelle che bagnano in fretta. E molto. Troppo. Dopo un mese la dovettero richiamare per fare la fattura contro l’acqua cattiva. Badora Manai arriva a Berruìle verso le otto di sera. Il cielo è nero come il tormento. I vicoli intorno alla chiesa sono ruscelli che trascinano a valle sporcizia e preghiere. Si sente solo il rumore dell’acqua, la litania di interminabili rosari, il pianto sommesso di un bambino, l’invettiva di una donna che urla “io me ne vado”. Badora non ascolta, tira dritta verso la piazza principale. Giunta sotto la quercia secolare, raccoglie tredici sassi e un numero imprecisato di rametti dritti. Uno lo stacca dall’albero. Con questo disegna per terra un cerchio. Dentro il cerchio dispone le pietre e i legni, con cura, fino ad ottenere una strana geometria. 222 I Giovedì di Scrittura Fresca _ __ _______ | |____ ___ ___--_|__ |___| __ ___ __ | |_ _|__ __+____ | | _| _____|__ __ | |___ ____ |__ __ | |__|__|_ ____|__ Apre un piccolo sacchetto di iuta, che ha tenuto al riparo sotto lo scialle, e rovescia il contenuto al centro del quadrato irregolare, in corrispondenza di una piccola croce. Sei carramerda cominciano a zampettare. Ognuno ritrova la sua palla di sterco e ognuno cerca la via d’uscita, facendo rotolare le piccole sfere fra gli ostacoli di quella prigione. Badora guarda, immobile. E pronuncia ripetutamente una frase: “Essinde a pizzu, de grodde su fizzu”. Passano molti minuti, prima che uno stercorario riesca a trovare la direzione giusta. In quel momento, Badora solleva la testa e guarda verso le nuvole. Improvvisamente cessa di piovere. Rimette tutto nella sacca e, con passo deciso, prende la via del ritorno verso il suo villaggio. La mattina dopo, Bachis Barui, mentre all’alba si reca ai suoi campi per valutare i danni dell’alluvione, scopre che don Basile si è impiccato. Quando vede il corpo del canonico che penzola dal ramo più grosso della quercia grande, il contadino sorride al sole che sta nascendo dietro Monte Pitzinnu. In quel preciso istante anche Badora Manai sorride, guardando nella stessa direzione. Nonostante l’ora, fa già caldo. 223 I Giovedì di Scrittura Fresca ER LABBIRINTO scritto da: Brizgraz Giri e riggiri, senza direzzione, rincori tutto er giorno 'na chimera, e nun te renni conto, quann'è sera, che t'è rimasta solo l'illusione d'esse riuscito a annà da quarche parte... La vita è un labbirinto e all'occasione quanno er destino mescola le carte, capischi che la strada che hai percorso, nun era giusta e resti cor rimorso. Ce vorebbe 'na guida premurosa, che ce prenna la mano e piano piano ciaccompagni all'uscita der pantano, che ce faccia capì quarsiasi cosa, persino ar buio quanno nun se vede... 'Sta luce guida tanto generosa, quarcuno ce l'ha già: se chiama Fede! Chi invece come me nun è convinto... je tocca brancolà ner labbirinto. 224 I Giovedì di Scrittura Fresca LABIRINTI BAMBINI scritto da: Leone Non ce l’ho neppure più tanto bene in testa il sogno della principessa Dorina, forse neppure Dorina si chiamava e il suo nome era Maria o era solo una donna ma vestita di giallo. Abitava in una casa grande, di questo sì sono sicuro, non alta come un castello, larga piuttosto, con due torrette, una che si elevava dal corpo di stanze l'una nell’altra a piano terra, l’altra che si protendeva, adagiandosi in larghezza, i lati minori ad est e ad ovest, verso sud. Viveva lì Dorina muovendosi tra scale e locali, apparendo improvvisamente ora dalle vetrate colorate a nord, ora rientrando quasi furtivamente da una porta di ferro ad est, ora la vedevo spalancare persiane a sud. Ma erano attimi, pochi passi veloci e di nuovo in casa, era lì che passava il suo tempo ad aspettare. Io non ricordo se lei sapeva chi o cosa stesse attendendo ma sono certo che voleva qualcosa che fuori non trovava o forse non cercava. Era tranquilla la principessa che cuciva, preparava il pranzo e la cena, leggeva e ascoltava una musica, che lei solo sentiva perché sorrideva. Però, poi, sull’uscio di una delle vetrate colorate di verde trovava un pupazzo vestito di blu. Lo guardava, lo sollevava, lo rigirava, lo esaminava per bene. Mi piace, decideva, lo prendeva, lo portava in una casa torre tutta per lui, lo metteva nella culla che era stato il suo letto da piccolina e continuava a cucire, preparare pranzo e cena, leggere, muoversi nella sua casa grande, sentire la musica della sua testa ed essere felice finché quel bambolotto non incominciava a piangere. La principessa, che non sapeva cosa fare, chiamava la regina la quale lo cambiava di vestito e colore, gli dava da mangiare, cantava una ninna nanna e il pupazzo diventava una bambolina che dormiva. La regina se n’andava, ma poi la bambola di notte si svegliava al buio e allora gridava e la principessa, che strilli non poteva sentire, chiamava una damigella e fuggiva nei labirinti sotto casa. Anche da lì, però, sentiva la sua bambolina piangere e quindi scappava fuori nel buio e, siccome brillava come una lampadina, la sua luce le indicava la strada. Continuava a camminare, correva lontano e arrivava alla caverna di un drago verde e giallo con gli occhi rossi che la mangiava con la sua bocca grande. Ma il drago era cattivo e diceva “non te, non solo te” e succhiava anche la bambolina che aveva la mia faccia. 225 I Giovedì di Scrittura Fresca LABIRINTI scritto da: -VaanAi confini scorro questo viaggio tastoni, muro a muro, fra cuori e pareti scolorite nel vivo volo da queste sinapsi di rebus giunto, ad un arco di conquiste che sembrano fallimenti osservo i miei affetti non prima dell’esatta proporzione di tutti i solchi che hanno fatto strada al numero irrisolto dei miei volti in uno e sono felice se stasera dico di una cosa inutile la sua luce. in questi labirinti risuona una canzone è il mio sud che si muove quanto mi basta adesso. 226 I Giovedì di Scrittura Fresca ER LABBIRINTO, FABBRÌ (indegna risposta) scritto da: Doremì Certo Fabbrì, che come l'hai dipinto tale e quale a la vita ntorcinata me casca propio a cecio er labbirinto che l'uscita pe' mo' nun l'ho trovata. La fede nun cellò, perciò me tocca tenemme tutta questa confusione annà de quà e dellà come n'allocca ogni tanto cambianno direzzione D'artra parte ogni tanto n'aioletta uno la trova, siede e un po' rifiata poi n'artra vorta na stradella stretta e n'artra ancora, ma nun so' arivata. Ma si ce penso, spero d'aggiramme drento a sto labbirinto che è la vita un ber pochetto ancora e de trovamme più tardi che se po' verso l'uscita! 227 I Giovedì di Scrittura Fresca TRA TUFI E PIETRE scritto da: Quella Nunziatina era stata la cognata zitella di mia nonna, quella che viveva fino all'ultimo con i genitori e prima o poi, alla loro morte, veniva annessa alla nuova famiglia di uno dei fratelli. Così, nella grande casa della nonna, c'era la Stanza di Zia Nunziatina. Come le altre, si apriva sull'androne di disimpegno al termine dello scalone di marmo. Anche quando la presenza familiare di quella donna anziana, sottile, silenziosa, garbata e nera dalla testa ai piedi non era più che il ricordo, ormai, della vecchiaia, la stanza restava sempre, di estate in estate, quella di zia Nunziatina. Tra tutte, quella era la stanza dalla pianta più regolare, in una casa fatta di anfratti, rientranze, aggetti e dislivelli. Là dormivo io nelle vacanze, in quella stanza monacale con le pareti imbiancate a calce, il cassettone e il letto di noce e le mattonelle fresche di graniglia. Ma le cose che più mi piacevano, a parte la solitudine di una stanza tutta per me da non dividere con una sorella, in una casa senza genitori tra i piedi, erano i due armadi a muro smaltati di bianco, uno dei quali adibito a contenitore di segreti, e la porta finestra suddivisa in tre finestrelle più piccole, ognuna con ante proprie, la più bassa delle quali era posta quasi a rasoterra e invitava a sgusciare sulla veranda aperta al sole di cemento come in una casa delle bambole. Nell'armadio dei segreti, sollevato a un metro da terra, gli scaffali all'interno formavano complicati cunicoli dove il braccio si doveva avventurare alla cieca per rinvenire i tesori celati. Lì, in quelle vacanze ''da sola'', ficcavo i fotoromanzi e le sigarette, le mie ultime novità nella vita. La controra troppo calda per qualunque attività da cristiani, quando tutto si fermava, era il momento ideale per concedermi queste letture e immedesimarmi, evidentemente, in quelle signorine bionde, rosse e permanentate, nei loro sguardi sognanti, accigliati, ma più che altro tragici, imploranti quanto accusatori mentre fissavano uomini anch'essi sofferenti nonostante quelle zazzere lucenti e voluminose piallate a phon. A dispetto di tutte le loro incomprensioni, le corna, gli intrighi e i contrasti, gli altalenanti umori si ricomponevano nell'ultima puntata in sorrisi splendidi di amore eterno, i profili di lei e di lui stretti nelle camiciole aderenti di terital dai colletti sproporzionatamente lunghi e appuntiti e nessun abbraccio scompigliava mai quelle cofane perfette che si portavano in testa. Un giorno, pensavo, anch'io mi sarei fatta una testa così e avrei avuto una vita degna di quella testa. In tal modo rinfrancata nello spirito e rifornita di quelle sigarette che nelle storie di Grand Hotel producevano effetti fumé che muovevano l'atmosfera congelata dei fotogrammi più intensi, passavo nella grande veranda aperta, inondata da una luce abbacinante riverberata dalla gettata di cemento. Era impossibile stabilire una geometria in quel labirinto di case tra le quali la veranda, esposta a sud, si incastrava. 228 I Giovedì di Scrittura Fresca Su uno dei quattro lati, nascosta dal parapetto in muratura, correva una scala scoperta che portava (ma da dove partiva?) a un'altra casa addossata al tetto di quella di mia nonna. Sul muro perpendicolare al parapetto della scala si aprivano due finestre, molto in alto però, ed era impossibile capire come si accedesse a queste case incastrate una nell'altra. Le persone che animavano quelle scale invisibili e le finestre lassù in alto avevano solo voci. Le vite nascoste, eppure pubbliche, mi regalavano commedie radiofoniche in diretta all'aria aperta. Mia nonna parlava con loro, con le voci, e le voci facevano altrettanto, senza mai vedersi, dirimpettaie anomale scombinate dalle quote diverse, dal groviglio urbanistico e dai paraventi di tufo generati nei secoli dei secoli. Per sfuggire all'invadenza del sole e dei vicini, mio cugino aveva studiato un metodo che restò infallibile fino a che non fui beccata da una dirimpettaia, spia di professione al soldo di mia nonna. Bisognava cioè scavalcare il parapetto e buttarsi nel terrazzino dei due Vecchi Morti che faceva angolo con la terrazza di mia nonna, sul lato che dava sulla strada. Poiché l'anno prima questa coppia decrepita era passata a miglior vita e nessuno si era curato di chiudere definitivamente le imposte, l'accesso al primo piano della casa abbandonata era garantito a noi giovani fumatori minorenni in cerca di pace colpevole e fresche mura, a patto che avessimo tentato il salto nell'ora in cui il vicinato sempre all'erta si ritirava nel sonno pomeridiano e non fossimo volati giù rompendoci il collo e tutto. Avevano un sapore strano quelle sigarette, fumate in questa stanzetta avventurosa in cui aleggiava l'odore della muffa e la paurosa ombra della morte, ché quei due vecchietti, in vita, erano stati un po' il nostro spauracchio, quando, sbucando dalla stanza sempre buia, ci parlavano dal loro terrazzino. Sicché le ultime tirate, che non toccavano i polmoni per imperizia, erano velocissime stantuffate e il ritorno alla veranda da quella specie di cripta rialzata, una vera e propria fuga in territorio sicuro. Angelica, mi ripresentavo al cospetto di mia nonna che mi preparava la frisella per merenda. La cucina, a nord, era lunga e stretta e aveva anche lei il suo angolo di meraviglia. In fondo, una finestra si affacciava su un budello, che mai, dalle strade esterne, dove era facile perdersi, riuscii a rintracciare, tra le intricate maglie arabe su cui si dividevano ma più spesso accavallavano le case di tufo bianco. In punta di piedi mi aggrappavo alle grate di quel mondo che sembrava esistere solo attraverso questa finestra, incomprensibilmente irraggiungibile da altri sbocchi, strettamente popolato da due famiglie povere e piene di bambini di ogni età. Lì mi perdevo in quel teatrino di suoni sgraziati e bellissimi, di risate, di urli e di pianti di neonati, di bambini scalzi sul lastricato perfettamente lucido della grigia pietra di Trani. Il vicolo era come un prolungamento aperto di casette di per sé minuscole e sovraffollate, pulito e vivace come gli interni, privo di ogni diaframma con questi nelle funzioni e nell'intimità. Il vicolo odorava di acqua e sapone di Marsiglia. 229 I Giovedì di Scrittura Fresca 230 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Otto 02 Giugno 2005 Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati? Hanno partecipato: Ettore Bilbo Quello che vede il sole Alessandro Gabriele Luna Indiana (un’estate del 90) dareios Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati? rana fritta Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati? Nicola Martini Potrà l’estate rimettere tutti i peccati del Martini? fucsia Playboy Dario Carta Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati? Brizgraz La cicala peccatrice Doremi Il tempo discontinuo Punto Mosso Coincidenze 231 I Giovedì di Scrittura Fresca QUELLO CHE VEDE IL SOLE scritto da: Ettore Bilbo Dopo aver definitivamente risolto il caso l’ispettore Giuliani si portò ai margini del campo di mais. C’era una grossa quercia in mezzo al sentiero che li aveva condotti fin lì, che nessuno evidentemente s’era sentito di tagliare. Un albero veramente magnifico, disse al carabiniere che lo accompagnava, poi si accese una sigaretta e guardò il fumo salire verso il cielo come una preghiera di redenzione, una preghiera già macchiata del peccato originale. Giuliani aveva seguito la pista, come ogni altra volta e come ogni altra volta aveva sperato in un epilogo diverso, ma si rendeva conto che lavorando nella omicidi di finali, come sperava di vederne, ne accadevano ben pochi. Il corpo di Maddalena era stato trovato in mezzo al campo. Il rigor mortis aveva costretto il corpo in una posa quasi fetale, con le ginocchia sotto il mento e le braccia conserte. Sembrava che il cadavere avesse un gran freddo ed invece si era in luglio. Trentasei gradi e non un filo di vento che lenisse la disperazione del caldo. Trentasei gocce di sudore che si accatastavano sulla pelle in un peso opprimente, trentasei pugnalate che sventravano la carne. Uno sconfinato spazio davanti agli occhi ed un orizzonte fluttuante, che mischiava i pochi movimenti delle foglie alla distorsione ottica dell’aria calda che saliva, ed in mezzo a quel mare, con le sue onde immaginarie, un cadavere a porre la parola fine su quella storia cominciata tre giorni prima… La famiglia Benvenuti era tornata in città da poco, per via d’una promozione sul lavoro d’Ernesto Benvenuti, il padre di Maddalena; questo era stato detto a Giuliani prima di presentarsi alla residenza in via Ortica. Del resto venne a conoscenza sul posto, interrogando i familiari. La sua presenza era richiesta per prassi anche se non si trattava ancora di un caso di omicidio. Precauzione diceva sempre il suo capo. Maddalena era scomparsa da due giorni, nessuna notizia, nessuna richiesta di riscatto. Stando alle parole del padre e della madre la ragazza si sentiva bene a casa, era a suo agio nella città che non vedeva da quindici anni ma che, comunque, conosceva per averci passato l’infanzia. Nessun nemico e nemmeno tanti amici, solo una coetanea conosciuta il mese prima in università, dove aveva appena ripreso le lezioni dopo il trasferimento. Il fratello di Maddalena, più piccolo, stava svolgendo il servizio militare e di lì a pochi giorni, se non ci fossero state notizie, gli avrebbero concesso un congedo temporaneo per raggiungere la famiglia. Giuliani si fece dire il nome e l’indirizzo dell’amica. Si recò in Via De Amicis immediatamente, al numero ventisei dove alloggiava Alessandra Bellocchio, l’amica di Maddalena. L’appartamento era il classico buco da studente. Vi albergavano in tre; tre ragazze tutte di ventisei anni. Alessandra ed Elena erano studentesse. Marta lavorava, invece, già da un anno. 232 I Giovedì di Scrittura Fresca Tutte e tre conoscevano Maddalena sebbene l’amicizia più intima fosse con Alessandra. La ragazza visitava il loro appartamento molto spesso e la sera uscivano assieme, per lo più frequentando bar serali e discopub. Maddalena aveva introdotto nel gruppo l’abitudine di fare l’aperitivo ed erano riuscite a trovare un locale poco distante dove si poteva mangiare qualcosa di caldo mentre si beveva un cocktail od una birra gelata. A prima vista il loro sembrava essere un gruppo di quattro ragazze normali, senza nessun problema fuori dell’ordinario. Era per l’appunto in quel locale che le tre ragazze avevano visto Maddalena l’ultima volta: al Mohito bar. Il proprietario del Mohito era un uomo sulla cinquantina, vestito alla moda, con uno stile decisamente più giovanile della sua età. Giuliani ebbe l’impressione che volesse apparire simpatico a tutti i costi. Inconvenienti della divisa. Gli domandò se conosceva Maddalena Benvenuti e l’uomo rispose subito di sì, che era una delle ragazze più carine che frequentavano il posto, che veniva spesso in compagnia di tre amiche. Si ricordava bene dell’ultima volta che l’aveva vista perché era solo tre giorni addietro e le ragazze avevano bevuto un po’ troppo. S’erano messe a ballare sui tavoli, raccontò il proprietario, e non c’era verso di farle smettere di ridere. L’uomo disse anche di non aver cercato di fermarle più di tanto perché non era una serata molto movimentata e poi, quattro ragazze giovani e belle come loro, erano una delizia da vedere. Senza malizia, precisò subito, sono un uomo di cinquantatré anni, sposato e con due figli, ma le cose belle le so ancora riconoscere. Poi l’uomo si lasciò andare in un ampio sorriso cercando di conquistare Giuliani. Forse anche un po’ imbarazzato per paura d’essere frainteso. L’ispettore si concesse solo una smorfia. Il secondo giorno d’indagini iniziò com’era finito il primo, senza nessun indizio particolare, solo altre testimonianze di quanto Maddalena fosse una ragazza simpatica e benvoluta, e del fatto che non avesse né motivo di fuggire, né amicizie “pericolose”. Giuliani cominciava a preoccuparsi: questa mancanza d’indizi aveva di per sé un valore importante. Lo conduceva verso una strada che non avrebbe voluto percorrere, soprattutto per i genitori della ragazza. Si decise comunque a diramare una fotografia di Maddalena verso gli ispettorati delle città limitrofe, fece seguire la fotografia dalla didascalia: ragazza scomparsa. Fu solo nel pomeriggio di quel giorno che arrivò la notizia. Una ragazza senza vita era stata ritrovata in un burrone, poco distante dalla città, sembrava corrispondere all’identikit di Maddalena. Giuliani si precipitò sul posto. Sul fondo della scarpata si intravedeva un bozzolo giallo, un telone sotto al quale stava il cadavere. Così lo aveva coperto la scientifica, nell’attesa del medico legale, mentre compiva il proprio lavoro cercando di leggere segni improbabili sul terreno circostante. Il corpo era stato gettato dalla cima ed era poi rotolato fino a valle. Giuliani fu costretto a compiere un ampio giro per raggiungere il resto della squadra, perché lungo il declivio principale erano stati messi dei pali a proteggere le eventuali prove. Il padre di Maddalena arrivò frenando appena in tempo con la propria BMW grigia. Piangeva ed urlava chiedendo di poter vedere la figlia. Giuliani si domandò chi lo 233 I Giovedì di Scrittura Fresca avesse avvertito prima ancora che la ragazza fosse identificata da lui. Imprecò contro quell’assurda mancanza di tatto e si lanciò sull’uomo, incontrandolo a mezza discesa per bloccarlo col proprio corpo. Gli disse di aspettare e Benvenuti accettò a capo chino, esausto dopo la forte emozione. Arrivò anche il medico legale e Giuliani lo accompagnò fino al corpo. Un ultimo rivolo di sangue si insinuava da sotto il telo e zigzagava attraverso piccoli sassi, morendo poi disseccato tra la terra arsa dal sole. Il corpo era stato gettato poco dopo la morte quindi, forse ancor prima dell’ultimo respiro. Scostò il telo. Il padre della ragazza, non ebbe la forza di aspettare un’inutile responso e si avvicinò inosservato con la morte negli occhi, ma le parole che gli uscirono di bocca sorpresero anche lui. Non era lei, disse, non era lei, anche se le somigliava. Veronica, una ragazza alta e bruna, vita snella, un tatuaggio sull’avambraccio destro simile ad un bracciale e degli occhi marroni dai contorni languidi, guardava di traverso Giuliani dalla fotografia appoggiata sul piano del tavolo. Era uno scatto dell’estate precedente; mostrava la ragazza con una mano tra i capelli ed il viso di tre quarti rivolto verso l’obiettivo. Giuliani decise che la pausa di silenzio poteva concludersi lì. Distolse lo sguardo dalla fotografia, sulla quale erano incollati anche gli sguardi dei due genitori, e domandò subito se la figlia avesse conosciuto qualcuno negli ultimi giorni, qualcuno di nuovo, o di strano. Gli risposero che no, nulla era cambiato delle solite abitudini della ragazza. L’ispettore aspettò che il pianto sugli occhi della madre si asciugasse, anche se sapeva che lacrime di quel genere avrebbero lasciato una macchia indelebile sulla pelle. Si disse d’essere abituato ormai, ma l’ombra di un sottile senso di colpa lo percosse dentro lo sterno. Il cinismo non lo aveva mai aiutato in realtà, e per quanto dovesse apparire freddo e lucido, vi era una sorta di dolore personale a guidarlo. Giuliani estrasse dalla tasca una busta di plastica sigillata. Era trasparente e ne mostrò il contenuto ai due che aveva di fronte. Si trattava di un biglietto scritto a macchina il cui testo recitava: “Nella gola tagliata degli inferi si nasconde, quando ancora il sangue bagna la barba della terra. L’occhio lucente di Dio è l’unico a poter vedere lo scempio. Nella casa del signore la santissima trinità avrà giudizio”. Il padre di Veronica lesse ad alta voce, come già aveva fatto quello di Maddalena, con il medesimo risultato: il testo non aveva alcun senso alle sue orecchie. L’uomo domandò cosa fosse e Giuliani rispose che era stato trovato addosso alla figlia. La madre riprese a piangere, mentre il padre diede voce al pensiero comune. Un pazzo dunque, disse reprimendo un singhiozzo carico di tensione. Giuliani rispose che era probabile, a questo punto. Raccontò loro la storia di Maddalena, potevano esserci delle affinità tra i due casi. Il biglietto suonava come una poesia od un enigma ed, in effetti, l’ispettore credeva che la gola tagliata fosse il burrone nel quale era stata trovata Veronica. Evitò d’aggiungere che anch’essa aveva la gola aperta da una lama. 234 I Giovedì di Scrittura Fresca Quando uscì dalla casa la luna era già alta. Piena di luce gialla. Gravida di cattivo presagio pensò l’ispettore, riferendosi però alla sua mente. Scacciò i pensieri e cercò di ragionare. Se l’assassino di Maddalena aveva lasciato un indizio, quella specie d’indovinello, allora era davvero probabile che si trattasse di un omicida seriale. Veronica era troppo somigliante a Maddalena per essere un caso: lo stesso colore di capelli, la stessa corporatura, la stessa età. Era scomparsa pressappoco lo stesso giorno di Maddalena anche se i genitori non avevano dato peso alla sua assenza; era una ragazza vivace avevano detto, spesso si dileguava qualche giorno in compagnia di amici. Amava viaggiare e capitava che lasciasse solo un biglietto, o neppure quello, tornando dopo pochi giorni piena di regali per i genitori. Lavorava come Copyrighter in un’agenzia pubblicitaria ed economicamente non aveva problemi. Ancora una volta nessun indizio tangibile cui aggrapparsi. Veronica non conosceva Maddalena, avevano amici differenti, ed oltre alla somiglianza Giuliani non riusciva a trovare punti di contatto. Gli servivano luoghi o persone invece, dei nodi, delle congiunture che spiegassero come il possibile assassino le avesse unite nei suoi disegni. La mattina del terzo giorno, l’ispettore si svegliò di buon mattino. Solo l’occhio lucente di Dio poteva vedere. Il sole! Solo dall’alto si poteva vedere lo scempio. Solo da lassù, da quel cielo terso dell’estate torrida. Ma quale fosse la barba della terra neppure la notte aveva saputo dirglielo. Telefonò in centrale, chiedendo ad un elicottero di sorvolare la zona. Poi si recò nuovamente dai genitori di Maddalena. Il signor Benvenuti lo accolse fingendosi di buon umore. Il fatto che la ragazza nel burrone non fosse la figlia lo aveva sollevato, cercava di convincersi che era un buon segno, ma rimaneva conscio del fatto che portava le indagini in una direzione scabrosa. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie e cantare una nenia. Come da piccolo. Giuliani chiese di poter salire nella stanza della ragazza anche se già i suoi colleghi vi erano stati senza trovarvi nulla di utile. Aveva bisogno di conoscere Maddalena più a fondo, arrivare dove neppure i genitori sarebbero potuti giungere. La stanza era abbastanza grande, arredata in maniera semplice senza un eccessivo gusto. Non diceva molto della ragazza, in effetti. Niente disegni alle pareti, né poster. Solo la stampa di un quadro di Magritte. Sul letto mancavano i classici pupazzetti. Maddalena a detta dei genitori era una ragazza seriosa e non amava certe abitudini fanciullesche. Passò ai cassetti. Quelli del comodino rivelarono soltanto oggetti d’uso quotidiano, nell’armadio invece vestiario estivo: gonne, magliette, abiti da sera non particolarmente eleganti ma di buon gusto. Giuliani guardò sotto il letto. Nulla, neppure la polvere, perché la madre continuava a fare le pulizie nella stanza ogni giorno. Cercò di immaginare dove una ragazza come Maddalena potesse tenere i propri segreti, sperando che non fosse una di quelle poche persone tanto furbe da tenerli soltanto nella propria testa. Chiese dove fossero i vestiti invernali ed i genitori lo portarono in uno sgabuzzino nel sottotetto. Là, dentro due armadi incassati nel muro, stavano maglioni e giacche accatastati a sandwich assieme a tonnellate di prodotti anti tarme. L’ispettore provò a frugare con le mani oltre quel muro di lana. 235 I Giovedì di Scrittura Fresca Tastò a lungo la parete posteriore del primo armadio e poi del secondo, fin quando sul volto non gli si dipinse un aria svagata, piena di mal simulata eccitazione. Aveva trovato qualcosa. Quando si mise in contatto con l’elicottero già sapeva dove farlo dirigere, quello che non sapeva era cosa avrebbero trovato in quel luogo i suoi uomini. Ma prima doveva andare da un'altra parte. Entrò nel Mohito bar a passo spedito. Franco era il nome del proprietario e Giuliani si sorprese ad urlarlo con forza. L’uomo sopraggiunse spaventato spuntando da dietro il bancone. Chi sono? Chiese l’ispettore senza neppure salutare. Franco lo guardò con aria interrogativa. Cosa c’entrava quella fotografia che gli veniva mostrata? Dove l’aveva trovata Giuliani? L’immagine ritraeva Maddalena e Veronica assieme, sorridenti, sedute ad un tavolo del Mohito. Con loro una terza donna: una suora. Anche Franco riconobbe Veronica. Disse che frequentava il locale solo poche volte e che si ricordava bene la sera in cui quella foto venne scattata, l’aveva fatto lui stesso. Maddalena era venuta da sola e così anche Veronica immaginava. No, le due ragazze non si conoscevano. Aveva fatto da catalizzatore suor Maria che s’era messa a suonare la chitarra. Fuori pioveva ed entrambe le ragazze non sembravano di buon umore, così la musica di Suor Maria le aveva attirate allo stesso tavolo. Giuliani chiese dove fosse Suor Maria, se sapeva come rintracciarla. Il proprietario del bar sembrò allarmato ma disse lo stesso che, ovviamente, sapeva dove trovarla; non sono molte le suore che frequentano certi locali, tranne quando sono le sorelle del proprietario. La madre superiora non sembrava incline ad aiutarlo. Era restia a rispondere alle sue domande. Solo quando Giuliani divenne rude e la spaventò questa acconsentì a dirgli dove potesse trovarsi suor Maria. Quella era l’ora della preghiera: nella cappella per cui. Giuliani corse verso il corridoio centrale del convento, la superiora aveva detto di andare sempre dritto fino in fondo e poi entrare nella porta a destra. Correva senza saperne il perché, sentiva dentro di sé che non aveva più tempo, che qualcosa stava per chiudersi alle sue spalle inesorabilmente. Un cerchio aperto chissà quando di cui nemmeno conosceva il contenuto, lui aveva solo viaggiato attorno al perimetro sfiorando verità che si celavano troppo profonde per venire scorte. Solo più tempo, solo ancora un po’ di tempo per capire, per non lasciarsi sfuggire anche questa volta la verità sotto al naso. Solo per avere qualcosa da raccontare ai genitori di quelle due ragazze e non lasciarli semplicemente nella disperazione. Un motivo, questo stava cercando, un motivo qualunque per comprendere tanta violenza. Suor Maria non era nella cappella. Tutte le sorelle si erano alzate assieme, di scatto, all’entrare dell’ispettore e parlottavano tra loro incuriosite come tante stupide galline, pensò Giuliani, Parlate voleva urlare, dov’è Maria, dov’è? Eppure sembrò che non una si fosse accorta della mancanza della donna, sembrarono stupite della loro stessa poca accortezza. La cappella ad una sola navata era lunga una decina di metri, con una fila centrale di 236 I Giovedì di Scrittura Fresca panche e l’abside sul fondo. Il santissimo non era esposto naturalmente, stava ben chiuso dentro al tabernacolo che lo proteggeva dal sole di quell’estate sempre più rovente. I raggi si riflettevano sulle rifiniture in oro dell’altare e accecavano Giuliani che guardava in quella direzione, quasi chiedendo conforto. Il sole, certo. Lo scempio si vede solo dall’alto. Solo dal cielo si può vedere tutta la verità, quando sulla terra noi navighiamo come poveri ciechi. Giuliani chiese alla suora più vicina quale fosse il luogo più alto del convento. Il campanile, gli venne risposto dalla suora, che indicò una porticina sul lato della cappella. L’ispettore corse ancora, e dietro a lui tre carabinieri giunti con una volante dalla centrale. Gli scalini salivano ripidi entro i confini angusti della tromba delle scale. Poi lo spazio si rimpicciolì ulteriormente e rimase solo una scala a chiocciola di pietra che si avvolgeva attorno ad un pilastro portante. Infine giunse sulla sommità e varcò una porta se possibile ancor più piccola di quella dalla quale era entrato. Ebbe appena il tempo di vedere una saetta nera dietro alla campana sfiorare il cielo. Poi un urlo. Poi un tonfo. Poi silenzio, solo l’affanno dei carabinieri rimasti indietro, sulle scale. Giuliani stava guardando il corpo di Suor Maria accasciato al suolo. Dal campanile, quando aveva guardato di sotto, gli era sembrato soltanto un punticino nero affogato nel verde. Si rese conto che non aveva trovato quello che andava cercando. Se suor Maria si era uccisa questo significava, con tutta probabilità, che il cerchio si era effettivamente chiuso senza che lui potesse afferrarne il senso. Ma ora aveva tempo… anche se tutto il tempo del mondo non sarebbe bastato ai signori Benvenuti né ai Rossetti, i genitori di Veronica. Guardò, mentre lo stringeva fra le mani, il raccoglitore che aveva trovato nell’armadio. Era pieno di fotografie che ritraevano Maddalena fin dall’infanzia. Dal bordo spuntava ancora la foglia che segnava la pagina in cui aveva trovato la fotografia che la ritraeva con veronica e suor Maria. Era tutta rinsecchita ma si distinguevano ancora i filamenti che compongono la barba della pannocchia del mais. Quando arrivò la telefonata dall’elicottero, Giuliani rispose parlando a monosillabi, sì, sì, mm, va bene. Molto di più dicevano i suoi occhi che s’andavano arrendendo a quanto già sapeva. Chiuse la chiamata dicendo che stava arrivando. C’era ancora una storia che univa quelle tre donne, tutta da scoprire, eppure il caso era risolto, nella camera della suora il carabiniere aveva trovato vestiti sporchi di sangue ed una piena confessione. Ho ucciso Maddalena e Veronica, firmato, punto. Quanto bastava. Ma a chi? Non alla sua colpevole innocenza di uomo. Non fece in tempo a sentire il carabiniere rimasto sul campanile, Giuliani era già risalito in macchina. Era un giovane appuntato dai capelli rasati, con un velo di peletti sopra le labbra a fingere dei baffi che ancora non c’erano. Disse: “Signor ispettore, ho trovato, è tutto quassù, tutto. La spiegazione!”. Ma la sua voce si perse nell’immensità del cielo e nel calore dell’aria. 237 I Giovedì di Scrittura Fresca LUNA INDIANA (un'estate del 90) scritto da: Alessandro Gabriele Guardo il Baba naufrago alla fine della sua passeggiata mattutina, un vecchio bellissimo che cammina tutto storto come sulle fiamme di una probabile artrosi. Ha l’aspetto sorridente di uno scampato a una teoria infinita di disastri materiali, vestiti stracciati tenuti su da una corda grezza di fibra di cocco, due dita mancanti alla mano sinistra e una specie di buco profondo rimarginato a lato dell’ombelico. Qualcuno gli ha strappato le viscere chissà quando. Eppure ha due occhi come soli tropicali che scaldano ancora molto dopo che il tuo sguardo si è perso dietro l’India sfuggente a lato. Se ne sta in piedi tra le palme e la spiaggia, con le mani sui fianchi e il barbone bianco che svolazza leggermente. Lo vedo girare lentamente su se stesso, spingere lo sguardo verso l’orizzonte, considerare prospettive, respirare venti, formulare pensieri ignoti, forse definitivi, chissà se giusti e maturi, privi di rimpianti, così pare, che senta questo sollievo, lui spiaggiato ora tranquillo ai piedi della sua esistenza, io sfuggito alla mia estate che odio, se la penso così squarciata brevemente nel corpo di una madre lavoro necessaria come una spada nel braccio che non sente più. Aggiungo, Baba, amore per il ciclo di questa vita che ci manda in giro come palline da ammaestrare nel gran gioco dell'infinito. Mi osservo scrivere fintopoeticamente di una realtà che mi scavalca come una rampa per traffico superveloce, buona solo per sentirne il rumore fastidioso di gas espulso, l’attrito di ciò che sogni e non si trova, si trova, il peccato semplice di rintracciarla in te, la Visione, l’imprecisione delle forme degli uomini. Di questo scrivi come un invasato, senza meta e senza costrutto, in braccio a Goa facile e avvolgente, in mezzo all’India putrida alla tua vita di transito senza un centro, spessa come un fantasma, semplice come un amore platonico e irrisolto, puttana dello Spirito con slanci eroici e verità definitive. Controllo il popolo degli amici abbandonati tra i tavolini sotto la tettoia di foglie secche, di ritorno dal bagno per bere nel Sun’n’Moon cullati dal drum’n’bass che agita in alto le grandi palme piegate al suolo. Qualcuno si dà il cambio sulle amache distese quasi a riva. Cerco Herbert dagli occhi azzurri vivacissimi e folli, medico etilico impressionante e lucidissimo, la sua bella moglie tibetana, una villetta e discografia Pure Seventies, Reiki e Chakras, due figli pienotti, i più grassi dell’India, tranquilli e fortunati. Chi ha trovato casa e chi come me si accontenta di accamparsi lungo il percorso compiuto, o su quello che verrà, se verrà, tra amori sempre più rari e difficili da decifrare. Arriva il vento improvviso fortissimo che fa volare i bicchieri, un’altra scarica di pioggia. Il monsone si prende tutto, attenzione, cartacce, libri, i resti della mia 238 I Giovedì di Scrittura Fresca passione breve e secca per Marina, la pelle che fa male, vestiti da lavare, mutande da asciugare, mezzanotti da rispettare, cani randagi di Palolem da accudire. L’ho presa in agosto pieno da un palazzo di Testaccio, stava spaurita e dignitosa a passarsi una mezza estate deludente, qualcuno l’aveva lasciata sul più bello. Le ho organizzato venti giorni che non s’aspettava, l’addio che non sapeva, sotto un monsone che siamo tutti ubriachi alle sette di sera. Kathrina mi legge le carte, mezzoinglese mezzotedesco, Katrina la scansano dal Sun’n’moon, è pazza dicono, ha occhi di una Durga sassone abituata all’omicidio rituale, qualcuno traduce il gesto che fa avvicinandosi alla mia testa: dice che ho come un’antenna di luce che mi esce dal cervello, che è pericoloso, che capto senza filtro il dolore dell’universo, mica cazzi. Con Marina. Farò spegnere il piccolo fuoco di cenere. Non ce la faremo a diventare nemmeno amici, per questo viaggio, sento la lunga marea del suo dolore che mi sfiora inutilmente le dita dei piedi. E l’India in mezzo che ci separa, il patimento vuoto per i derelitti, l’orrore per la merda e piedi nudi che si fermano inutilmente sulla sporcizia del tempio di Laxmi a Hampi. Penso a mio fratello che ce l’ha fatta a passarmi il testimone prima di scendere da questo viaggio, a cartoline estatiche di passaggio da Calangute vent’anni fa, al sorriso leggero di Marco in qualche vecchia posa di album. Marco non ce l’ha fatta, l’India che gli ha dato una mano a riempirsi le vene di sogni corrosivi e il cuore di oblio. Scatto tutte le fotografie che posso per allungare il giorno. Il giorno più lungo di un viaggio che non mi basta più. La solitudine, infine, come potrò dirlo a Marina, tutte le moltitudini di solitudini che allagano il Subcontinente indiano tra Cape Comorin in Keraka a sud, fino alle creste dell’Himalaya che chiudono il nord. La solitudine di Terzani in cerca di una morte di pace giusta, quella di Cesare, Baba torinese trapiantato tra le rovine di Hampi nello stato del Maharastra, la lunga teoria dei suoi capelli che trascinano la terra al suolo, senza misteri, con un accento di circonvallazione che strappa il sorriso, solo sperduto nelle pianure centrali, senza seguaci. La mia che ho pazientemente atteso, che mi ha generosamente avvolto cinque anni fa e tre anni fa e oggi ancora, scavata tra il deserto del Thar e le spaventose maree di Kovalam fin dentro i deliri prospettici del Kailasa Temple tra le colline di Ellora. Tutto il dolore che oggi fa sorridere: in definitiva, l’unico tesoro di saggezza strappato a questa vita. Me ne vado a fine estate, vergognandomi un po’, con un amore struggente che mi riempie, un amore donatomi gli ultimi giorni, quando già t’assale il blues del rientro, qualcosa ti dice che tra una settimana precisa sarai di nuovo carne del tuo macello, dei loro mercati, impossibile da spiegare, che ti sembra il peccato ultimo, quello più denso che li racchiude tutti, i tuoi. Marina fa sorridere al confronto. Mi ubriaco per questo e passo l’ultima notte a voltarmi nella sete di un letto che è una fossa tra noi. Mi sono innamorato di Ratna, una piccola bambina di otto anni, una piccola regina vagabonda, questo dice il mio poeta segaiolo. Metà del viaggio l’ho 239 I Giovedì di Scrittura Fresca fatto attraverso i suoi occhi, con la sua voce, dentro il piccolo grugnito di gioia che avevamo incontrandoci per strada, piccolo verso rimasto alle sue infanzie già trascorse che tuttavia rifiutavano evidentemente di perdersi. La mattina che siamo partiti pensavo che non sarei riuscito a dirle addio e lei deve averlo sentito, non son riuscito più a trovarla, dicevano che fosse andata a giocare lontano, i suoi saltelli di piccola pazzia e l’ignoranza del futuro, desolato come l’arida piana del Karnataka da cui venivano i suoi poverissimi. Ora sei sola nel vicolo notturno di Hampi a sgranare il rosario dei giorni che mancano. E botte certo non ne prenderai più, piccola mia, perché io tornerò a prenderti, io, bambino di mezz’età che confonde il giorno con la notte, il seme del dolore con l’albero del frutto maturo. Io bambino, quel giorno mi esiste già da sempre nel novero delle favole bruciate, quelle che non aiutano ad addormentarsi, che invece di scacciare i demoni li nutrono e li moltiplicano. E in questo terribile rimando di specchi che maledice la mia notte di sete, c’è una sola uscita dove ti vedo percorrere il suolo polveroso del marciapiede, truccata da Durga e da Kali, con una collana di teste che spargono sangue sul vestito giallo e cento braccia per illudere chi, sdraiato su di te, va a cercare la piccola morte tra le pieghe poco costose della tua carne. Ratna, io sono lontano e sono la stessa cosa, come te giudiziosa e disperata e libera e priva di domani, come il tuo amore semplice e la malinconia. E cosa importa che sia finito anche questo viaggio. Cosa importa che faremo domani, i sogni che si perdono, quelli che vanno via di testa. Sono andato giù da solo l’ultima mattina a Delhi per il viale congestionato tra la Jama Mashid e il Forte Rosso, come cinque anni fa. Ho visto lo stesso troncone umano elemosinare con rabbia sull’ingresso della moschea, gli stessi lebbrosi agitare moncherini e cantilenare misteriosi Mantra sospesi tra inferno e paradiso, lo stesso vecchio esporre una notte di tenebra al posto delle palle degli occhi. Ricordo un bagno di notte per accompagnare Ganesh tra le viscere dell’Oceano Indiano. C’era la luna altissima e intoccabile, la luna che sorge sulla spiaggia di notte, la più intima e segreta. E sono sceso dal bus scassato, affollato di odori, con gli occhi semichiusi in cerca di un Chay bollente. La luna che si arrampica sulle mura rosa di Jaisalmer al tramonto, il disco perfetto che risuona di percussioni acquatiche, la luna che mi accompagna intorno al lago di Udaipur, perfettamente riflessa in milioni di pieghe liquide e fin dentro quest'ultimo respiro stasera. La luna è testimone ed è il viaggio stesso. Ganesh, mio dio infantile e un po’ pasticcione, signore della fortuna e del buon commercio, accompagnami verso casa. Non ho più voglia di scrivere, di sognare, di dormire. Vengo da te, con le moltitudini dei tuoi fratelli dispersi tra i fumi d’incenso e la musica assordante, partiti come me a settembre di ritorno dalle spiagge dell’India. 240 I Giovedì di Scrittura Fresca POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI PECCATI? scritto da: Dareios (sonetto caudato in terza rima) Chiedete, amici, se potrà l'estate Rimettere i peccati d'una vita? Rispondo a modo mio, dico: guardate, Secondo la dottrina stabilita, Le colpe solo vengono lavate Se almeno un poco l'anima è contrita. E io, sapete... io non sono un frate: Colgo tutti i piaceri cui m'invitano, Non mi rimorde affatto il coltivarne, Si tratti dell'accidia, della gola O, quando gira bene, della carne... Non abbiam altro che una vita sola! E per quanto riguarda il Padre Eterno, Penso ci sia uno sbaglio di parola: Gli inquisitori hanno capito "inferno", Ma credo, anche irredento, di scamparne: Dopo l'estate, Iddio intendeva "inverno". 241 I Giovedì di Scrittura Fresca POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI PECCATI? scritto da: Rana Fritta a me, e al mio amico Guido La ricordo abbastanza bene, iniziò il 10 luglio e sarebbe finita il 5 settembre. La mia estate apriva le sue parentesi allorché partivo per il campeggio e le chiudeva al ritorno. Tutto ciò che rimaneva fuori era semplicemente un periodo afoso fatto di semplici tentativi di evadere dalla mortale nenia dei grilli. La ricordo abbastanza bene quell’estate perché l’amico Sandro riuscì a rimetterci un esame. Io ero come lui novella matricola all’università e entrambi, abbagliati dalla forte luce degli studi finalmente autogestibili, rimettemmo a quella stagione un anno di vita di studi. Era appena finita la stagione calcistica e la Roma ci rimise la Coppa dei Campioni, perché Sebino non rimise al centro e qualche tifoso deluso, ingozzatosi di gloria preventivata, andò al bagno a rimettere le sue speranze. Come ogni anno, ma quella volta fu una chiavedivolta, si partiva per il campeggio. Luogo di regole non scritte. Centro sociale delle mie speranze. Zona franca per l’approccio terapeutico della mia timidezza che mi avrebbe portato ad essere il giullare di tutti, ma mai nei pensieri di nessuno, meglio di nessuna, in particolare. Portai con me un’energia incredibile, un amore giovane per la vita, un marsupio di speranze timidissime, una chitarra da boy scout e un giro di do. Che se hai la musica nel cuore, con un giro di do ci puoi cantare qualsiasi cosa. A mezzanotte, il menù estivo prevedeva spiaggia e stelle gratis con illuminazione cannabis e karaoke di cazzate. Il giro di do suonava alla grande e ogni tanto sbluesava in tempi più larghi. Anche le zanzare mi volevano bene. Qualcuno camminava sull’acqua perché si sentiva un dio. Durante il giorno c’era troppo sole per i miei gusti di spiagge annuvolate, avevo un fisico che suggeriva sempre una t-shirt. Ero brillante con le fanciulle. Tutte mi adoravano, ma ovviamente scopavano con chiunque altro. Misi su un gruppo di giocherelloni, suonatori e cantastorie, Le rane fritte. Dominammo la scena con idee geniali che ancora nutrono la luce dei nostri ricordi. Giocammo a calcio con l’entusiasmo di chi si gioca ogni volta una finale dentro uno stadio di persone che hanno soprattutto voglia di divertirsi e con la consapevolezza pur competitiva che, vaffanculo, alla fine l’importante è partecipare. 242 I Giovedì di Scrittura Fresca In quaranta giorni feci di tutto e cioè non feci niente, ma il mio entusiasmo era tale che non percepivo più se mi stavo divertendo alla follia o se mi stavo annoiando ed ero semplicemente folle. Ma qualcosa non andava. Avevo un blues da suonare e quello, cazzo!, non potevo farlo solo con un giro di do. “Devi trovare altri accordi” mi disse qualcuno. “D’accordo!” replicai io e intonai “Campèggio di così si muore…”. La città mi aveva lasciato andare con delle raccomandazioni precise “Divertiti ma fallo sapendo di vivere una menzogna…”. Quell’estate ebbe pietà della mia innocenza e mi rimise i miei peccati di ingenuitudine, poi tornò a spiegarmi, l’estate successiva, che la mia ricerca di ciò che era stato era futile e vana, che nulla si ripete. Io prendevo le cartoline dei miei ricordi dell’anno prima e le mettevo in controluce per confrontarle con ciò che avevo sotto i piedi in quei momenti. Anche la mia chitarra perdeva il suo smalto. Avevo anche altri accordi nelle dita ma la magia non era più la stessa, a corte c’erano altri giullari, più bravi, più seri, più divertenti, più colorati o più cupi. Il mio blues era l’omaggio che gli altri mi facevano ascoltandolo e io ero felice solo tre minuti… campèggio di così si muore… cantavo e sorridevo, gli altri pure, poi mi auguravano la buonanotte. Quell’estate fu la prima a rimettere i miei peccati. Mi donò emozioni energiche ma al tempo stesso calibrò il parametro di riferimento di ogni mia felicità marginale. Ogni anno affidava ai miei ricordi l’ennesima effimera consolazione. L’estate significava per me essenzialmente due cose. L’amicizia e la scoperta mai definitiva dell’altro sesso, sicché la meraviglia non finì mai di abitare la mia bocca. Avrei voluto amare fisicamente, perché sarebbe stata la prima volta, ogni amica, farla mia, toccarla e sorridere con lei nell’intimità più vergognosa. Ma sapevo che ogni volta mi sarei innamorato e così mi fermavo a ragionare per almeno sette anni e lasciavo andare sguardi consenzienti, labbra lucide e timide, desideri e sogni di passione. E quel ricordo mi sta scavando ancora le tempie echeggiando nel mio teschio come in un tempio sconsacrato, facendosi beffe del mio candore. Quell’estate rimise anche quel mio peccato. E mi lasciò nella convinzione che sarei stato in grado di supplire ai miei gesti paralizzati con le parole, soprattutto quelle scritte col senno di poi, poi dissennato. E le estati successive mi dettarono lettere lunghissime. Lusingai molte fanciulle e forse fui anche poeta romantico oltre che ispirato, ma se 243 I Giovedì di Scrittura Fresca ero sincero con loro, non lo ero con me stesso, perché non ebbi mai neppure una volta il coraggio di scrivere “Sappilo, cara, che sarei voluto entrare nelle tue grazie, sdraiato su di te sulla sabbia fresca, sotto curiose stelle tenute al guinzaglio dalla luna che le ha portate fuori a pisciare”. Non ho mai capito dove finiva il romanticismo e dove poteva essere il confine della mia cerebrale passione. Non ho mai osato. Non ho mai portato un po’ d’acqua nel vaso di una qualsiasi orchidea. Mai tentata una puntata. Son sempre rimasto con quella fiche in mano, senza mai scegliere rosso o nero. E la roulette girava per altri che puntavano vincendo sui miei numeri. Quell’estate ha rimesso i miei peccati ogni volta che mi ha chiamato a crescere almeno un po’, allorché mi ha dato il primo gettone stringendomi il pugno con la sua mano affabile. Mi diceva “Fanne buon uso!”. Io invece ne ho fatto solo tesoro. Ogni tanto oggi apro la mano e provo a giocarla quella fiche, ma il croupier mi rimprovera “Ma fammi il piacere, sono passati quindici anni, quelle puntate sono memoria antica, quella roulette ha smesso di girare e probabilmente è gettata in una discarica che i topi ci fanno girare le loro merdine tonde. Quella tua è una mancia di una vecchia notte di una degna estate, un invito alla vita, da consumarsi preferibilmente entro… guarda sul retro, bimbo, che la data è scaduta...”. Io la conservo quella fiche. Ci punto su i miei ricordi e poi faccio girare la ruota delle mie stagioni felici con i suoi quindici numeri, qualsiasi numero esca vinco comunque e l’uomo al tavolo congratulandosi annoiato mi restituisce ogni volta la fiche e mi dice “Les jeux sont faits, rien ne va plus…”. Stringo forte quella fiche come fosse la medaglietta di un reduce. Avevo diciotto anni quando fui arruolato. Ho combattuto per dieci anni contro le regole della vita “da grandi”, ho resistito alla naturale mia crescita, ho sparato cazzate contro i nemici che mi volevano serio sotto la loro bandiera. Ho studiato più del dovuto per non laurearmi presto e perdermi nel labirinto del “presto ché è tardi se vogliamo arrivare in anticipo”. Ma la guerra era di anno in anno sempre più feroce e ogni volta contavo numerose vittime tra i miei amici e la spiaggia era sempre più vuota, rimanevamo in pochi a combattere. Ovunque chitarre abbandonate e echi di blues portati dal vento da chissadove o chissaquando. Alla fine, mi sono arreso anch’io, io non sono un eroe, sono stato fatto prigioniero dalle cose della vita, non prima di essere ferito a morte. Quell’estate, lei sì, è tornata a trovarmi, anche d’inverno. Mi ha portato i suoi conforti reliquiosi “Te li rimetto io, i tuoi debiti, mio fiero custode di gioie giovanili. Io ti perdono, ché tu il sole ce lo avevi dentro e io di quello mi nutrivo”. Poi sono morto. Solo allora quell’estate mi ha frugato piangendo nelle tasche, ha preso la mia fiche e l’ha puntata tutta sulla mia anima, poi ha imbracciato la mia chitarra e seduta su un 244 I Giovedì di Scrittura Fresca gommone in riva a onde balbuzienti ha cantato il mio blues. La roulette sta ancora girando. E io sono qui, non chiedetemi dove, con le dita incrociate. 245 I Giovedì di Scrittura Fresca POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I PECCATI DEL MARTINI? scritto da: Nicola Martini Potrà rimettere, mettendosi due dita in gola e vomitando, di conseguenza, fino al 15 settembre. I peccati del Martini son venali, che lui è genovese. C'è il refuso, ma lì per lì non lo trovo. Ad ogni buon conto, siccome è imprenditore, non vorrebbe rimetterci, quindi l'estate, per quanto lo riguarda, può anche andare a dare di stomaco in un'altra contrada e presso altra famiglia. Rimetto adesso il testo alla vostra gentile attenzione. Quello che mi sta seduto davanti si scosti sennò lo prendo in pieno. Qui i sacchetti non usano. PLAYBOY scritto da: Fucsia Col cappotto sulla spiaggia. Dentro un astro che infuoca, un cappello sbilenco incastrato nei pensieri calze di lana a grattare la pelle e guanti e scarpe gravi dove la gomma nera appoggia sulla rena davanti al mare. Fermo, trasfigurato tra gelati squagliati e imprudenti totali protezioni. Stai. Per perdonarti quelle cento notti al freddo quando la neve incorniciava i vetri e tu nudo acciuffavi la vita per i capelli e annusavi l’odore di ogni bocca Ogni volta era rinascita sopra una morte altrui. 246 I Giovedì di Scrittura Fresca POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI PECCATI? scritto da: Dario Carta Lo vedi nel vibrare del fiato terreno Il muovere lento della luce dice che costa fatica sentirsi leggeri E chiami il vento a sorreggere irrigazioni di pelle a sdebitarti della siccità Quasi che le sere senza ombra non possano cristallizzare - emozionate Finestre spalancate sulle lenzuola spiate dalla luna Ma se anche fossi inverno non vorrei davvero evitare l’estate della mia stessa acqua Sarei sempre io con i miei peccati a fluire Solo mi vedresti diverso solo mi sentiresti vita nella tua sete 247 I Giovedì di Scrittura Fresca LA CICALA PECCATRICE scritto da: Brizgraz Stornella la cicala ar solleone e se la gode spenzieratamente, chè dell'inverno nun ricorda gnente e canta a squarciagola la canzone! Se passa la formica previdente spignendo la mollica cor fiatone, la pija in giro, ride e all'occasione se je risponne, quella nun ce sente. D'artronne la cicala cià 'sto vizzio e quest'estate invece da capillo e mettese de impegno e de giudizzio, S'è fatta giurà amore sempiterno da quer frescone fracico der grillo che la mantiene quanno viè l'inverno! Un grazie a Trilussa per lo spunto e la sponda per la poesiola. Lo sviluppo però è mio... 248 I Giovedì di Scrittura Fresca IL TEMPO DISCONTINUO scritto da: Doremì A sei, sette anni, il tempo è discontinuo. Perché un futuro atteso è come un quadro lontano, da cui ci separa un fossato che ci appare insuperabile. Si può solo credere, per pura fede, che quel momento arriverà. Ma è contrario all’esperienza, perché il tempo non passa mai e sei mesi, come sei giorni ed anche sei ore, a volte sono un tempo infinito, impercorribile. E allora Anna si dice, mentre, in un giorno d’inverno si annoia dietro il vetro della sua camera di Roma, primo pomeriggio, adulti a riposare e bambini zitti: eppure ci sarà una prossima estate a San Remo ed io sarò di nuovo nel giardino della villa dei nonni, sentirò l’odore delle tuberose lungo la strada del Solaro e il cigolio del cancello dei Verruggio, di fronte al nostro, la mattina presto, e salirò nella soffitta a giocare coi pupi siciliani a grandezza naturale abbandonati in un angolo e a odorare la carta dei libri vecchi vecchi, quelli che erano per bambini quando erano bambini i grandi, e verrà il momento che sentirò l’odore delle alghe, sulla spiaggia… No, ecco, non è esattamente così. Anna deve immaginare un momento preciso: ad esempio l’arrivo a San Remo, con la nonna, la sua sorellina e la cameriera, piene di bagagli per una villeggiatura che durerà tre o quattro mesi – una vita - e poi il tassì, che alla curva stretta del Solaro dovrà fare marcia indietro per riuscire a girare e questo vuol dire che ci sono quasi, e presto – ma anche ora il tempo è discontinuo e qui gli ultimi minuti si dilatano in una bolla immobile - comparirà la villa tutta coperta di buganvillee e la zia Teresa col fazzoletto in testa e Mino Franco e Floriana, calzoncini e canottiera e piedi nudi, che avranno appena finito di irrigare i campi sotto la villa, ad aspettarle sulla strada sorridenti e festosi. No, neanche questo, bisogna immaginare qualcosa di più preciso, quasi una fotografia, per poter avere un riferimento : ad esempio lei e Floriana che fanno il giro della strada Solaro subito dopo il tramonto, per andare comprare il latte alla stalla, vicino al campo ippico, e, ancora più a fuoco: proprio il momento in cui, alla prima curva, sotto di loro si apre il panorama delle terrazze coltivate a tuberose e giù in fondo quel mare /cielo dolce, senza più orizzonte e piccole vele bianche a solcarlo e Anna si affaccia al parapetto perché questo Anna, sei o sette anni, lo fa sempre e sente uno struggimento e non lo sa definire. - Che bello neh! - fa la Floriana, che ha sei anni più di lei, ma se la porta sempre dietro in questa commissione quotidiana. E intanto scorrono lontane, sulle terrazze, figure di ragazzi e uomini a torso nudo, abbronzato, e i pantaloni arrotolati, che tornano dai campi con fasci di fiori dai gambi lunghi sulle spalle e quando Gino Verruggio le incrocerà, proprio in quel punto sulla strada, lasciando quel ‘Boona’ 249 I Giovedì di Scrittura Fresca strascicato di saluto, il profumo dei fiori sarà così forte che Anna ne sarà stordita. In quel preciso momento, si dice Anna , in quel preciso momento dovrò ricordarmi di ora, di me che sono qui alla finestra della mia stanza di Roma a chiedermi come mai potrà passare tutto il tempo necessario perché quel momento arrivi. E stabilisce una posizione precisa nella sua stanza, magari prende un quaderno in mano, perché la fotografia sia più nitida, e legge: classe seconda elementare. Mi dovrò ricordare, allora, di me che leggo le parole classe seconda elementare su una copertina azzurra. E così Anna si dà degli appuntamenti col tempo, tratti di un tempo discontinuo, sperando di afferrarne il mistero. Perché la sua fede vacilla e forse il tempo non passerà e quel momento non arriverà mai. Puntualmente arriva l’estate e con l’estate San Remo, in uno scorrere a scatti del tempo, segmentato in frazioni sempre più brevi. Anna entra nel salone della villa e sente subito l’odore di muffa e cera della casa vecchia e le si allarga il cuore, poi guarda il mandarino cinese appeso al muro, proprio nell’ingresso, che le fa tanta paura perché ha gli occhi che ti seguono ovunque tu vada, e poi arriva la zia Teresa con la torta di zucchine preparata come sempre per il giorno dell’arrivo e presto tutto diventa dolcemente quotidiano anche l’odore del DDT spruzzato la sera con la macchinetta nelle stanze da letto, e Anna dimentica il suo appuntamento col tempo e con l’istante di Roma, perché dovrebbe guardare a ritroso. E non fa ammenda per aver mancato di fede. La sabbia sotto ai piedi e l’odore forte del mare, il pane e pomodoro e basilico, ‘pane e pumata’ dopo il bagno, i pomeriggi pigri in giardino, mentre i grandi riposano, a giocare e leccarsi il sale dalla pelle, che odora di sole e di buono e poi giù nei campi a seguire in mezzo alle zolle allagate Floriana che regge la manica ai fratelli, le merende di pane e fichi. E alla sera, prima di cena, proprio all’imbrunire, Floriana va a chiamare Anna per andare a comprare il latte. La passeggiata più bella, l’aria dolce e il mare che ti aspetta ad ogni curva. Ed ecco Anna che si affaccia al muretto e Floriana dice : - Che bello neh? - e si incantano a guardare il celeste delicato e piatto su cui scendono i fianchi delle colline. E teorie di uomini e ragazzi a torso nudo e abbronzati scorrono sulle terrazze coltivate a tuberose tornando a casa con fasci di fiori dai lunghi gambi sulle spalle. - Boona - saluta Gino Verruggio e il profumo è così intenso che Anna ne è stordita. Poi riprendono il cammino e scherzano e chiacchierano ed Anna ha dimenticato l’appuntamento con la Anna dell’altro tempo, quell’altra lei di Roma, immobile alla finestra con quel quaderno in mano con su scritto Seconda Elementare. E’ estate. E l’estate è dolce e sa perdonare. 250 I Giovedì di Scrittura Fresca COINCIDENZE scritto da: Punto Mosso Potrà l'estate rimettere tutti i nostri peccati? Le strofe, allineate a sinistra, sono il testo di una canzone dei Múm, presa dal loro ultimo albo: "Summer make good" L'ho pagato un occhio della testa, l'ho visto al collo di tutti i passeggeri della metropolitana, ho sentito dire che la fabbrica che lo ha prodotto ha implementato questa scatoletta con un macello di funzioni in più rispetto a quelle accessibili con i bottoni che ci sono sopra per questioni di marketing. Ma ora ce l'ho anch'io, questa collana di altri tempi, con fili di colore alla moda e auricolari dalla forma facilmente riconoscibile e quindi accettabili senza pensieri. Si connette direttamente al cervello e lo stimola con onde di pressione di lieve entità. Lievi, onde di piccolo ordine, senza peso, come leggere sono le canzoni che ho scelto. Will The Summer Make Good For All Of Our Sins Potrà l'estate rimettere tutti i nostri peccati? Please don't cry for hammer in your teeth We'll spoil the pretty snow that lies beneath Who go cry for hammer in her teeth We'll spoil her pretty face at least she feels real No-go cry for hammer in your teeth We'll spoil the pretty snow that never feels real Per favore non piangere per il martello nei tuoi denti noi ritorceremo la neve bella che sta sotto Colei che grida per il martello nei suoi denti noi ritorceremo il suo viso bello almeno che si senta viva Non serve piangere per il martello nei tuoi denti noi ritorceremo la neve bella che non sembra mai vera Prima fermata, questo convoglio comincia a riempirsi di gente, menomale che un posto c'è sempre, ed è questo il vantaggio di abitare un po' fuori, tranquilli, sempre, sia sopra sia sotto, sia a casa sia quando si va in centro. 251 I Giovedì di Scrittura Fresca E così sempre, da ormai 4 anni a questa parte, da quando ho accettato a occhi chiusi, o per meglio dire bendati di un paraocchi molto stretto, questo contratto in questa anonima città, lasciando tutto, tutto ciò che ora è scordato, appassito, dimenticato, memoria persa nelle illuse speranze. Seduti, tutti ormai seduti, e come tutte le mattine debbo farmi queste quattro stazioni in piedi, poco più che cinque minuti, ma vorrei per una volta farli da seduto. Chi in un libro, chi con la testa guidata da fili a pensieri normali ai suoi gusti, chi guarda fuori per guardarsi dentro, chi guarda dentro per sentirsi osservato a sua volta. Non è certo il periodo della giornata che attiva di più le mie conversazioni interiori, diciamo che lo sfrutto solo se un pensiero mi perseguita già dalla mattina prestissimo, allora con un quarto di occhio guardo il percorso e con il resto delle attività celebrali faccio finta di tirare su un punto della situazione. Cosa mangio oggi a pranzo? Come al solito andrò nella mensa comune e prenderò qualcosa di cui mi lamenterò in silenzio pensando: "Se me lo fossi cucinato io..." per poi rientrare a casa la sera e mangiare una scatoletta di tonno, e, se è la serata buona, anche un po' di verdura in scatola. Breathe, you breathe Believe you me tonight Breath in, breath out Make good, make float Bleed you me ú nótt Respira, respira tu Credi in me tu questa notte inspira, espira redimi, solleva sanguinami ú nótt Lasciate che mi presenti, se voi siete gli interessati, io sono la persona che soddisferà i vostri bisogni, altrimenti per tutti gli altri sono alcune righe a libero complemento di tutto ciò che sta sopra o sotto, prima e dopo. Una metropolitana e due persone, sono sullo stesso vagone? Il ciò vorrebbe dire: lo stesso treno, alla stessa ora, nella stessa città, lasciatemi dire subito che siccome non ci interessano queste due povere anime, la probabilità di una loro vicinanza non si sacrifica a costruzioni di scena. Ebbene no, per ora non ci servono queste due vite, ma sono uscite dal sacco, e forse riuscirò a non doverle buttare, se la scopa e la paletta verranno usate bene e se non c'è troppa sporcizia per terra li rivedremo perché riusati. Mi viene giusto ora un'idea... Ma no, alla prossima volta, lasciamo le cose come stanno, anzi interessiamoci di due 252 I Giovedì di Scrittura Fresca attimi di tempo differenti, due luoghi diversi, ma anche loro coincidenze. Please don't cry for hammer in your teeth We'll spoil the pretty snow that lies beneath And summer will make good for all of our sins if we only wish it hard enough Per favore non piangere per il martello nei tuoi denti noi ritorceremo la neve bella che sta sotto E l'estate redimererà tutti i nostri peccati se solo noi lo desideriamo forte a sufficienza Giulia dormiva ancora nel suo letto, e sentiva rumori, i rumori della mattina, o perlomeno quello che lei presumeva fosse mattina, e in ogni caso, nulla le poteva dare indizi che quelli fossero esattamente i rumori della mattina di una mattina in quella casa che aveva visto per la prima volta circa 10 ore prima. Dario, vestito di poco, entra con tutta la delicatezza di un ladro, spinge l'anta della porta della camera, che cigola con quel rumore ben conosciuto. L'unica cosa che riesce a fare è bestemmiare in silenzio contro un dio, "ma quale dio", aggiunge mentalmente. Non poteva far meglio il poverino, ci ha sempre provato, a lui dava fastidio dover svegliare il suo normale compare di stanza alle 3 o 4 di notte,quando, dopo aver visto su internet non si sa quale cavolata, -e vi giuro che anche se sono onnisciente sui fatti, questa è una di quelle cose che dimentico e poi ignoro- rientrava in quella sua stanza doppia, e che oggi era una fantastica singola per una coppia. Ma quella mattina era una mattina diversa, nuova, una mattina di regali, dove le cose terrene non dovevano prendere nessuna influenza dalla materialità delle cose. Breathe, you breathe who go who cry believe you me to night/múm night Breathe in, breathe out make good, make float bleed you me ú nótt Respira, respira tu Chi va, chi piange Credi in me tu questa notte inspira, espira redimi, solleva sanguinami ú nótt 253 I Giovedì di Scrittura Fresca Shé cry, who closes eyes and hopes not to come back Il pianto di Shé, che chiude gli occhi e spera di non tornare. Diciamo che spiegarvi anche quello che passa ora per la testa di Dario è un po' difficile, magari vi riporto pari pari il suo monologo. Eccovelo Non la amo, ma non riesco a capire da dove arriva questa mancanza, forse dal fatto che mi preservo per Giulia, Giulia che mi ha rimosso, forse dal fatto che non riesco a baciarla, se si fosse concessa al primo momento, avrei detto cosa? Sacrificarsi a soli abbracci, per chi? Devo dirglielo, devo baciarla, a costo di capire dopo che era tutto dettato da una voglia, anche se fosse, non sarebbe giusto consumare questa voglia? E provare dei sentimenti non sarebbe sbagliato, anzi ci farebbe sentire in vita, cosa che non succede così spesso. Se fa affidamento sulla mia scarsa passione, si ricrederà, martedì non mi muoverò anzi non la seguirò se non ci scambiamo un segno di affetto un po' più grande di un bacio. Non posso andare avanti così, non ha senso, non la amo e perché dovrei proprio perdere così il mio tempo? Aspettare... no nemmeno, tollerare quasi, ma io sono fatto di carne e anche lei, perché darci regole? perché vivere per uno stupido futuro, viviamo il presente, che già è difficile così. In definitiva, io vedo tutto ciò a termine, non prevedo nulla con lei oltre il primo giugno, questo è solo una vacanza, un modo per evitare di restare soli, perché lei non la pensa uguale? Penso che con il suo comportamento lei è consapevole di queste cose, basta, devo farla cedere, devo baciarla, devo farla mia, devo farla urlare di piacere, e le piacerà, più di quanto lei possa credere, più di quanto lei possa mai aver avuto esperienza. Devo proporle la cosa come normale, mi sta facendo mito del rapporto sessuale, cosa che sono convinto non essere vera, miticizzandola si rovinano i rapporti che vivono questo aspetto pregiudiziando i momenti relegandolo a attimi troppo incercabili, prendere un caffè e fare un po' di sesso. Voglio sfruttare lei per esercitare la mia passione, io non la voglio, o per lo meno, non 24/7 come succedeva con Giulia, ma a volte, vorrei proprio averla, mia, come la natura ci chiede di accontentarci tra di noi. E mi chiederete del resto, e mi chiederete di darvi un lieto fine, o se si vuole scendere a compromessi una semplice fine, e non queste scene interrotte e non legate, beh, non chiedetele a me, io vi ho dato qualche attimo di persone immaginarie e ho rubato il vostro tempo. Questo è un peccato. 254 I Giovedì di Scrittura Fresca 255 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero Nove 16 Giugno 2005 VIRUS Hanno partecipato Dareios Virus Vittorio Fioravanti Portatrice del virus CYB Roberto Mater dolorosa (tutti figli di buone donne) Sally Virus Massimo Botturi La lunga degenza Franco Zadra Virus Carmen M.R. Di Lorenzo Il malaffare En y gma La malattia Dolphy Virus Ettore Bilbo Mi chiamavano il quarto cavaliere dell’apocalisse Serenella HIVirus Vaan Virus.anni settanta Brizgraz Er virus Ermione Ma lo sapete cosa è un virus? Rana Fritta V.I.R.U.S. 256 I Giovedì di Scrittura Fresca VIRUS scritto da: Dareios Non ho neanche avuto bisogno di cellule staminali embrionali, né dei soldi di Telethon, né dei fondi riservati agli amici degli amici di Milly “the Bitch” Moratti. Ce l'ho fatta tutto da solo. L'opera della mia vita è compiuta. L'elusivo HDV, lo Human Deficiency Virus, è stato finalmente identificato. Le conseguenze dell'infezione sono sotto gli occhi di tutti: baldi leader dell'opposizione trasformati in piacioni stracotti che nemmeno ricordano da che parte dovrebbero stare e srutellano fesseria su fesseria; scienziati che dovrebbero perorare i progressi della ricerca e mandano avanti uno che dovrebbe stare dentro, doktor Antinori, che auspica la soluzione finale per quelli che lui chiama "mongoloidi" e, se qualcuno aveva dubbi sulla capacità di autocontrollo dei genetisti, glieli toglie; comitati di donne per il sì che mandano a parlare in televisione una che, tanto per mandare ai milioni di elettori in ascolto un messaggio chiaro, comincia a dire che voterà tre sì e un no; e via così, continuando a farci il male che pensavamo indotto dal nostro congenito masochismo, e che invece era causato dal virus che sono riuscito a isolare. Di materiale da cui partire ce n'era in abbondanza: io ho cominciato con un frullato di citazioni miste Pannella - Capezzone - Cappato (graziosa quella che equiparava i seguaci del sì ai dissidenti sovietici degli anni settanta, tanto per restare in tema), il tutto in un brodo di coltura a base di margherite e altri Fioroni veterodemocristiani, un pizzico di cicoria, del precipitato di opportunismo sondaggistico, e, ciliegina sulla torta, un bel "vado a votare ma non vi dico come". Così mi è rimasto in provetta l'HDV. È un retrovirus, nel senso che questo disastro ci fa fare un bel passo indietro verso i tempi vagheggiati dal doktor Ratzinger. Inoltre, è estremamente contagioso: si trasmette coi canali tradizionali e ora anche in digitale terrestre. Devo mettermi a spron battuto a produrre il vaccino. Non sarà facile e Il Tempo stringe. Stasera ho sentito al telegiornale che è imminente la scissione di uno dei partiti dell'Unione... ce la farò prima delle prossime elezioni? 257 I Giovedì di Scrittura Fresca PORTATRICE DEL VIRUS scritto da: Vittorio Fioravanti Non c'era stato null'altro che un tenero appuntamento dopo anni d'opposti cammini una chiamata annunciando il mio ritorno inatteso per incontrarci di nuovo sui passi irrequieti d'allora lungo le calli a Venezia per rivederci e parlarci nello stesso caffè discreto in quell'ora tutta nostra gli occhi e le mani insieme per un'ultima volta ancora Era cambiata nel volto ma aveva serbato lo sguardo e l'iride d'acquamarina tra i rossi capelli raccolti ch'io ricordavo disciolti nella brezza selvaggia l'onde infrante e le dune d'una spiaggia del Lido Diverso ero anch'io grande e pesante di stagioni trascorse fuggendo d'evasioni e di ripartenze marcate a fuoco sul viso ma entrambi lo sapevamo accogliendoci tra le braccia taciti con un sorriso L'affiorare di certe memorie nella marea di reminiscenze il suo viso sommerso nelle immagini e le trasparenze delle mie parole suadenti lette fra le tazzine e le spire del fumo di due sigarette 258 I Giovedì di Scrittura Fresca Stava di spalle nel riquadro della finestra come se stesse guardando fuori tra i riflessi nel cielo oltre il vetro ed era invece chiusa nel buio dentro se stessa Portatrice m'aveva detto ed io glielo stavo accettando in silenzio senza voler sapere Così salimmo le scale penetrammo la stanza ci accostammo sul letto seminudi come la prima volta a luci spente dietro le gelosie prigionieri liberi di farlo E mentre lungo il canale reso fluido condotto d'alghe scorreva muta la stessa identica gondola e s'udiva rauco il richiamo del gabbiano d'allora una stilla passava umida e viva attraverso le nostre vene 259 I Giovedì di Scrittura Fresca MATER DOLOROSA - (tutti figli di buone donne) scritto da: CYB Roberto Da giorni, ormai, ho smarrito la cognizione del concetto di ciclo sonno-veglia. Mi aggiro frenetico tra i banchi di un improvvisato laboratorio e armeggio con vetrini, microscopi e reagenti, consultando libri d’ogni genere, con un orecchio rivolto alle ultime notizie della radio sempre più frammentarie. Una luce fredda di neon tremolante mi affossa in stato depressivo tendendomi come una corda di violino nel raggiungimento di una qualsiasi verità. Simulo prove di vaccini al computer e piango lacrime d’impotenza e sgomento per una realtà che ha travalicato ogni immaginazione, consapevole di essere uno degli ultimi scampati. Com’è cominciato tutto questo? Ho riunito ricerche internautiche, ritagli d’autorevoli riviste scientifiche e pettegoli articoletti di tabloids pruriginosi raccolti fin dall’inizio. Ogni ipotesi appare possibile. Nei primi tempi, qualcuno, come il giovane affermato dottor Kao di Shangai, ventilò la possibilità di una radiazione sconosciuta proveniente dal passaggio di una cometa. Ripercorro la sua teoria con un sorriso amaro e un brivido. Mi sovvengono vecchi films dell’orrore con morti viventi risvegliati da casuali asteroidi di passaggio. Ma ora sono sopraffatto dall’inquietudine nel sapere che il povero dottor Kao, pochi giorni fa, è stato rinvenuto chino su un microscopio atomico nel suo laboratorio con un coltello cinese da cucina, una piccola mannaia, conficcato tra le scapole. Qualche ultimo luminare virologo europeo attualmente ipotizza di cause genetiche, di spermatozoi promiscui, in utero, saldati tra loro in una reazione incontrollata che potrebbe avere liberato il micidiale virus nella donna ospitante, ma rimane sempre un enigma la conoscenza del meccanismo di trasmissione contagiosa. Unica e sola certezza è che l’inizio di questa calamità è scaturito e si evolve tuttora nell’ambito di soggetti femminili. Alcune riviste scandalistiche, colte al volo ghiotte possibilità, si sono spinte, sul filo della querela, ad individuare qualche portatrice sana che abbia avuto la funzione di untore. Le più famose attrici e donne di spettacolo, recentemente madri, sono state perfidamente additate ad una gogna mediatica come fonti della pandemia mortale. Un’icona del cinema francese, bellissima e di recente mamma, è stata, in effetti, immortalata inequivocabilmente da un paparazzo battagliero di una di queste riviste di quart’ordine. Appare trasfigurata, con la pelle ingrigita e tirata e con uno sguardo folle da invasata. Il servizio fotografico è agghiacciante. La donna è stata ripresa con un teleobiettivo mentre getta il suo neonato, orrendamente sbranato, dentro un cassonetto, ed è chiaramente distinguibile una sua 260 I Giovedì di Scrittura Fresca espressione catatonica che atterrisce, ben lontana dal fascino intrigante di poche settimane fa. E’ certo tuttavia, di là del sensazionalismo, che il virus si è diffuso in maniera capillare in tutto il pianeta con una velocità sorprendente. Continua a mietere vittime, seppure di conseguenza e non direttamente: ogni donna affetta dal virus, contagiata o portatrice sana, appare inspiegabilmente in ottima salute, seppure aggressiva fuori d’ogni controllo. E’ curioso, allora, analizzare lo svilupparsi della piaga apocalittica e la tipologia delle vittime indirette. I più esposti sono stati fin da subito i neonati. E’ stata un’ecatombe. Poi, progressivamente, l’età delle vittime è andata crescendo, spopolando il pianeta: ed ora non sopravvivono che persone di una certa età, come me, vecchie o quasi, nascoste come topi di fogna nell’illusione di scampare ad un destino segnato. Sì: è un destino segnato. Si sa solamente che quasi tutti, ad uno ad uno, alla fine, sono individuati e rimangono vittime del tremendo virus. Tutti figli. Vittime di madri. Le loro. Madri infette trasfigurate in lineamenti di streghe orride che, impazzite, vagano senza sosta alla ricerca della loro prole per sopprimerla, in preda ad un incontrollabile ‘raptus’ d’inaudita violenza. Si ha notizia anche dello sviluppo del virus presso suore missionarie, assai compenetrate nel ruolo di madri putative di piccoli orfani abbandonati appena nati. Intere missioni africane o brasiliane si sono trasformate in mattatoi. Il virus sconosciuto colpisce dunque le mamme, i vecchi angeli della casa, le care nostre donne sante dai capelli argentati, le eroine d’esistenze grame intessute di sacrifici e rinunce per amore di una famiglia e di tanto desiderati figli. Oggi, per colpa di questa pandemia, non più. Annusano l’aria, le madri d’ogni età infette d’oggi, come predatori insaziabili con i denti scoperti, a captare ferormoni filiali anche distanti e mimetizzati, e braccano i frutti del loro ventre senza remore e con feroce determinazione, a sopprimere l’essenza della loro femminilità matriarcale. Ho trovato un rifugio precario con la disperazione dell’istinto di conservazione: sono chiuso in una cantina di un mio collega ricercatore già ucciso qualche settimana fa dalla sua anziana mamma. Ho sprangato la porta dall’interno dopo avere fatto incetta di provviste e d’acqua. Ho attrezzato il locale in maniera da ricavarne un laboratorio di fortuna per cercare di scoprire qualcosa che mi salvi da un’anziana arzilla vecchietta artritica che mi ha già sospirato le sue intenzioni minacciosamente per telefono. Spero di salvare anche il mondo intero che ormai è popolato quasi esclusivamente da donne assassine che si uccidono anche tra loro, madri contro figlie, in un continuo elevare l’età di sopravvivenza. 261 I Giovedì di Scrittura Fresca Non riesco a dare alcuna spiegazione razionale a tutto questo: tutto è, almeno finora, da scoprire. Sono travolto, invece, da molti ricordi e associazioni d’idee: Erode, Medea, Madre Coraggio, confusi tutti in accavallarsi di sensazioni e nausea. E poi canzoni e luoghi comuni… Son tutte belle le mamme del mondo… Mamma, solo per te la mia canzone vola… Ogni scarrafone è bell’a mamma soja… Di mamma ce n’è una sola… Bella, dolce cara mammina, la più bella del mondo… Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio andar… Mamma, tu compri soltanto balocchi per te… I figli so’ piezze ‘e core… Qualcuno, però, sta già raspando alla porta… L’avvenire sarà degli orfani… 262 I Giovedì di Scrittura Fresca VIRUS scritto da: Sally Cominciò in sordina, come tutte le cose veramente gravi. I primi casi sporadici non destarono preoccupazioni. Improvvisamente qualcuno cominciava a ridere. Avete presente quelle risate irrefrenabili, che partono dallo stomaco e prorompono in gola facendo lacrimare? Cominciò così e la gente non ci fece nemmeno caso. Qualche bambino tornava a casa raccontando ai genitori che, senza motivo, il loro serissimo professore di latino si era interrotto a metà di un’interrogazione scoppiando a ridere senza riuscire a smettere; era rimasto lì, piegato in due sulla cattedra e rideva, rideva, facendo quasi fatica a prendere fiato. Aveva dovuto abbandonare la lezione di corsa, uscendo dall’aula senza smettere di ridere. Qualche signore rientrava a casa e raccontava alla moglie che, senza nessun motivo apparente, il pedante capoufficio aveva cominciato a ridere in mezzo ad una noiosissima riunione di lavoro ed aveva continuato a farlo fino a che non era dovuto tornare di corsa a casa. Qualche signora, la sera, raccontava al marito che il conducente dell’autobus ad un certo punto aveva interrotto la corsa del bus strapieno ed atteso per ore e si era piegato in due sul volante colto da un’inarrestabile risata che non era riuscito a calmare. Cominciò cosi e la gente non ci fece nemmeno caso. A parte i poveretti che avevano cominciato a ridere, chiaramente. Quelli sì che ci stavano facendo caso. L’impulso improvviso di ridere si era impossessato della loro volontà e non li aveva più mollati. Cercavano di opporsi con tutte le loro forze; si sforzavano a pensare alle cose più tristi, ai lutti di famiglia, c’era anche chi si era piazzato davanti ai telegiornali con la speranza d’intristirsi come sempre. Niente da fare. Ridevano, ridevano senza smettere e dopo qualche giorno cominciarono a morire. Il cuore cedeva di schianto dopo tutto quel ridere, il fiato mancava ed i polmoni non facevano in tempo a riempirsi sufficientemente d’aria. A quel punto la gente cominciò a farci caso. I contagiati aumentarono a vista d’occhio, scoppiavano a ridere, si sganasciavano per qualche giorno e poi crollavano stecchiti. Presto ci fu il panico. Gli scienziati non si raccapezzavano. Nessuno capiva come poteva accadere, non vi era nessun criterio, nessun sintomo; nulla che facesse presagire l’imminente disastro. Nel giro di un mese tutta la nazione risuonava di risate disperate, i disgraziati ridevano sapendo che di lì a poco sarebbero morti. E morivano davvero. Tutti diffidavano di tutti non conoscendo i veri motivi di questa strana storia. Molti giravano con guanti e mascherine, salvo poi doversele strappare di corsa dal viso per cominciare a ridere. 263 I Giovedì di Scrittura Fresca Gli ospedali risuonavano di risate, le caserme grondavano di risate, i ministeri colavano di risate. Gli spettacoli televisivi cominciarono a scarseggiare visto che quasi tutti i presentatori e le veline avevano cominciato a ridere, così i giornalisti. I processi furono interrotti, non era possibile condannare una persona ridendogli in faccia. Lentamente la risata contagiò praticamente tutto il paese. A parte qualcuno. Una persona lì, un’altra da un’altra parte, ancora una più a nord e qualcuna più a sud. Pochissime persone a cui il virus non faceva nessun effetto. Poche persone che furono subito individuate, sottratte alla ridanciana rabbia della gente ancora viva e studiate dagli scienziati. La cosa si rivelò subito molto difficile, primo perché gli scienziati venivano contagiati e quindi dovevano essere sostituiti di continuo e poi perché le analisi non riportavano nessun dato anomalo. I pochi non contagiati erano perfettamente identici a quelli a cui il virus della risata pazza toglieva la vita. Nessuno si raccapezzava. I non contagiati erano molto seri e, bisogna dire, anche molto calmi. Intorno a loro la gente rideva disperandosi. Ormai il paese si era ridotto al fantasma di se stesso: tutto era fermo, nulla più funzionava; i negozi erano chiusi e così anche i cinema, le banche, i musei. Non c’era più un governo, gli ultimi rappresentanti si sganasciavano in Parlamento maledicendosi ed incolpandosi a vicenda. Le scuole erano chiuse. I cimiteri traboccavano. Non c’erano più rappresentanti dell’ordine, ma d’altra parte non c’erano neanche reati, ché commetterne ridendo non è che sia così facile. Le poche persone non contagiate si guardarono negli occhi e si divisero i compiti in maniera equa e giusta: abolirono la proprietà privata, evitarono leggi e non crearono nessun tipo di autorità; formarono un’unione di bisogni e interessi per tutti: una completa libertà dentro una completa solidarietà. L’ultimo scienziato che ancora li studiava, ormai già in preda alle risate li guardò uno per uno ed urlò: “Ecco cosa avete in comune voi, siete anarchici!” e con un’ultima e, questa volta, vera risata morì anche lui. A questo punto in cielo si addensarono velocemente alcune nuvole che, roteando più volte su se stesse, formarono il volto di un uomo: fronte alta, stempiata, capelli ricci sulle spalle, un bel barbone folto e scuro, guance paffute e due grandi occhiaie *. Il vecchio guardò in basso e disse: “Eppure l’avevamo detto che sarebbe stata una risata che li avrebbe sepolti!” Mentre le nuvole si dissolvevano i sopravvissuti si guardarono negli occhi e, per la prima volta, proruppero in una risata. Breve però, ché per ricostruire il paese bisognava rimboccarsi le maniche. * No, non era dio, ma Bakunin! 264 I Giovedì di Scrittura Fresca LUNGA DEGENZA scritto da: Massimo Botturi Questo tripudio di folli margherite dice soltanto che non sei più con noi, e allunga l’ombra, verso quel bere più generoso a sera, del prato dei vicini pulito e profumato come la nuca d’un bimbo immacolata appena fuori bottega del barbiere tutto ti prendi ora figlia terrena, diseredata ai tagli e scalci e già sconfini, tu pianta ossuta che trascurata, torni felina in un balzo verde caccia come quell’edera determinata e milite nella poltiglia dell’accecante bianco riflesso tinto del muro soleggiato 265 I Giovedì di Scrittura Fresca VIRUS scritto da: Franco Zadra Versavo in condizioni precarie e Inutilmente mi provai a chiedere Riconoscenti gesti in risposta Umilmente implorando Solidarietà negate. IL MALAFFARE scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo Che il padre sbagliasse i conti era chiaro per questo il figlio fu un malaffare e finì tra i virus delle puttane. 266 I Giovedì di Scrittura Fresca LA MALATTIA scritto da: En_y_gma Esiste un Virus che sta contagiando milioni di persone. E’ un Virus subdolo che si manifesta solo a giochi fatti. I sintomi sono: Lo stereotipo, la noia, la ripetizione, la sciocchezza, la stoltezza, la banalità, il pressapochismo. Che sono dolori insopportabili per i perfezionisti. Secondo loro questa malattia ci ucciderà se si aggiungono volgarità e ignoranza. Sembra una strada senza uscita. E` una minaccia in tempo reale. In effetti, ognuno ha i suoi interessi, molti sono concentrati a far in modo di non perdere quel che hanno, né i privilegi guadagnati. E' il potere della seduzione del potere. Il mistero velato, l'onniscienza del sentimento, della semplicità, della fantasia, della femminilità. Qualcuno pensa che basti prenderlo in prestito e via... sei subito qualcuno... “ed una vita come vuoi che sia...” Cosa possiamo fare per combattere questo virus? Forse “superare l'uomo” come esorta Nietzsche. Si vive e rivive e si cambia e si diviene, l'importante è essere sempre importanti. Ma la cura è una sola: essere noi stessi e credere di esserlo fino in fondo. Ma non è facile. L'uomo è già superato, purtroppo andiamo verso il basso da un pezzo. E molti si illudono perché credono di essere qualcuno come quelli che "vogliono che siamo". Eh si, siamo animali no? Senza sentimento, sensibilità... e limiti. Ma ho ancora fiducia, perché quella cura esiste. Le cosa facili non sono mai interessanti. Chi eravamo prima che il diluvio seppellisse le montagne e costruissimo la famosa barca? Nessuno, in realtà siamo tutti dei, ma solo di noi stessi. 267 I Giovedì di Scrittura Fresca VIRUS (Qualcosa è successo) scritto da: Dolphy Il passaparola risuonò come un tam-tam. L’appuntamento era per le 12,00 al solito bar, mancava però qualcuno. Apparentemente nulla sembrava cambiato ma quegli sguardi che interrogavano, quei visi tirati e quell’aria preoccupata che si leggeva nei loro occhi, testimoniavano che qualcosa era successo. Nella stanza 107, l’ossigeno ribolliva nella grossa bottiglia di vetro. L’aria espulsa dai polmoni creava allegre bolle festose. Bruno, seduto in poltrona accanto al letto, cercava di concentrarsi su quel cinque verticale che iniziava con O e finiva con O, di otto lettere, ma inutilmente. Era stato ricoverato la settimana prima senza un apparente motivo. Faceva fatica a respirare, si sentiva stanco, era bianco come un cencio. Dopo una tac e i dovuti accertamenti gli furono riscontrate bolle di aria nei polmoni. In un momento di maggiore stress fisico, un virus congenito si era manifestato improvvisamente e lo aveva mandato in tilt. Ecco lì gli amici, seduti al tavolino di un bar, in silenzio, a guardarsi negli occhi consci di quella situazione più grande di loro. Quella cosa, presente e viva non era relegata tra le mura di un ospedale ma aleggiava nelle loro teste, era tra loro. Quella cosa era il vero virus. Partiva dalle viscere e lentamente risaliva verso lo stomaco e su su fino al cervello. S’insinuava tra le lenzuola mentre gli occhi si chiudevano o li assaliva all’improvviso, in macchina mentre tornavano a casa. Quella cosa. Si chiedevano a chi sarebbe toccato domani. Percepivano un senso di sollievo all’idea che per quanto li riguardasse tutto fosse sotto controllo, ma quel tarlo, quel tarlo continuava a rosicchiare. A chi sarebbe toccato dopo? Avevano dei sensi di colpa al pensiero che l’altro fosse lì, su un letto a boccheggiare come un pesce fuori dall’acqua mentre loro pensavano al prossimo viaggio. Sicuramente quel viaggio lo avrebbero rimandato e nell’attesa che qualcuno iniziasse il discorso si guardavano gli uni con gli altri, in una sorta di imbarazzo collettivo. Alla fine qualcuno parlò. Si certo, dissero le solite cose che si dicono in questi casi e si sentirono consolati all’idea di sentirsi vicini e condividere le stesse preoccupazioni. Ma ormai lo sapevano. Erano stati contagiati tutti da un virus più forte e imbattibile, un virus che nessuna medicina avrebbe potuto curare perché si era ormai radicato in loro. Il virus della paura. 268 I Giovedì di Scrittura Fresca MI CHIAMAVANO IL QUARTO CAVALIERE DELL'APOCALISSE scritto da: Ettore Bilbo I miei guai sono pervicaci. Ogni volta provo a convincermi che non ci sono ma loro, i guai, emergono dal fondo del bugliolo belli gonfi e maleodoranti. Vita cacca. Per tentare di risolverli una volta sono andato dall’estetista, tale Maria Giovanna Gambettini. Una rossa, dai capelli ariosi ed unghie in perfetto stile pantera, che mi fumerei con piacere. Purtroppo la bella non è del parere. Maria Giovanna che in paese chiamano la fumosa, per via del suo carattere tendente al burbero, ma anche per altri e vari motivi, gestisce il negozio d’estetista sulla strada principale del paese. Si tratta di una strada importante e n’è riprova il fatto che gli altri balconi ad affacciarsi sulla via sono quelli del comune, della scuola elementare, del dentista e per finire della baldracca Carmela. Carmela ed il sindaco si contendono la fascia di primo cittadino in paese, lui per questioni ufficiali e lei per motivazioni decisamente ufficiose, ma non meno valenti, anzi, credetemi. Fatto sta che andai da Maria Giovanna pieno di belle speranze, ben vestito e preparato sulle tecniche più innovative di questa scienza moderna, che tanto si avvicina ad un'arte, pronto a disquisire sul taglio migliore, sulla lacca più ecologica e sui prodotti più innovativi. La felina mi accolse con una risata di scherno, per cominciare, e poi continuò con la scopa in mano, ma non le do torto che nella fioca luce del salone rischiavo di spaventarle i clienti. Perché, ebbene sì lo dico, il mio problema è di esser brutto. Ma non brutto che con due passate di vernice e tre d’orgoglio tutto passa, proprio brutto che se mi vede il prete si segna e poi corre in sagrestia a rincuorarsi sulle pagine di Play Boy. Quando a tredici anni c’ho provato con Carmela - apro e chiudo parentesi per far notare la perfidia della natura, tale da consegnarmi un corpo disgraziato con una fame precoce -, questa non ne ha voluto sapere neppure previo consistente pagamento rateale. Avesse acconsentito starei pagando adesso le ultime rate. Mi disse invece che non ne valeva la pena di tentare, che ad esser brutti come me si è peggio della malattia. “Tienlo bene stretto il tuo cosino”, mi disse “ che il tuo seme non ha da spargersi in giro. Tu sei peggio dell’AIDS!”. Siccome a tredici anni la mia ignoranza era somma, l’AIDS nemmeno sapevo se era buono da mangiare, fu per questo che non mi diedi per vinto. Ma, l’ho detto, i miei guai sono duri a morire. Era tempo, quello, di ghiaccioli al bar del Ciccio, poche lire per slurpare come porci. Presi l’abitudine di offrire ghiaccioli ad ogni compagna di classe la cui rettitudine morale assomigliasse ad un cerchio. C’erano Anna, cuore di panna, Mariella, gusto cannella e Iolanda, detta la Iola fino alla gola. Tre amabili divoratrici di dolci che 269 I Giovedì di Scrittura Fresca presero in simpatia il mio piccolo portafogli peloso. Sì peloso, che volete, mia madre ha un gusto tutto suo per i regali, basta guardarmi per capire che razza di senso estetico abbia. Ma io sono il suo cucciolo d’oro, capite, e giusto fossi fatto tutto d’oro qualcuna mi piglierebbe. Tornando ai gelati, quella fu un’estate calda, Anna mi dissanguava di cornetti, Mariella mi spellava con i coni e Iolanda scorticava il poco che restava di me con i ghiaccioli. Eppure, ogni volta che seduti sulla panchina del sagrato a mangiarci i gelati, io allungavo furtivo la mano libera verso le anche giovincelle delle mie tre parche, queste non esitavano a tagliarmi il filo, anzi m’avrebbero tagliato altro a loro dire, ma la mia somma ignoranza si moltiplicava in ingenuità per cui non desistetti neppure dopo tale prova. Diventando più grandicello ho cominciato a subodorare la fregatura. I miei coetanei sfoggiavano capelli fluenti e ben pettinati, io andavo in giro con una massa schiumosa e posticcia di un biondo pipì. I miei compagni correvano per le vie mostrando i muscoli in crescita alle ragazzine, io zoppicavo sul marciapiede e chiedevo aiuto alle vecchiette per attraversare la strada. Loro che gioivano del bel tempo e del sole perché potevano fare i pic-nik, io che a stento mi rendevo conto di che giorno era. Tanto tutti uguali mi parevano. Io e loro. Me ne stavo seduto per terra sotto casa di Carmela - ogni mese rilanciavo con la mia offerta rateale -, quando ci pensai: c’era un muro a dividermi dal resto del mondo. Io, la malattia, il virus, non dovevo perforare la parete cellulare ed infettarli, non avevo diritto neppure di pensarci, figurarsi a riprodurmi. Mi misi a studiare sodo: come fanno i virus ad inchiappettare la gente? Mi dissi che se ce la fa un organismo che neppure è del tutto vivo, potevo farcela pure io. Dovevo farcela. Sognavo di tanti piccoli girini brutti e informi come me che scorrazzavano liberi per le vie uterine di qualche donzella, ci passavo le ore su questo pensiero, ma nel frattempo sprecavo cartucce chiudendomi in bagno. Continuai a studiare, perché un modo doveva pur esserci e se non lo trovavo allora significava che dovevo cercare più a fondo. Finite le superiori ho iniziato l’università, finita l’università mi sono fatto un dottorato e dopo il dottorato un master negli Stati Uniti. Laggiù negli States era ben diverso dal mio paesello, per un attimo credetti di potercela davvero fare. Di baldracche ne servono per accontentare tutta quella gente, mi dissi, ed una pietosa per me l’avrei pur trovata, no? Ed invece non la trovai, l’avrete capito, altrimenti non sarei qui a raccontarvi questa storia. Così continuai a passare il mio tempo chiuso in stanza a studiare, mi ero addirittura stufato di affacciarmi alla finestre per sbavare alle cow-girl di passaggio, ho imparato che quelle guardano solo i cavalli da monta. In fine che dirvi, io che volevo infettare il mondo di me fui infettato dal mondo. Una mattina mi svegliai ed era successo: ero diventato intelligente. Decisi che dovevo subito chiamare mia madre per informarla, ma ebbi paura che non prendesse bene la notizia. Da noi al paesello non eravamo abituati a queste cose. In fondo già ero 270 I Giovedì di Scrittura Fresca brutto, pure intelligente era davvero troppo. Fu per questo che non tornai in Italia e rimasi a studiare in quella università lontana. Ho studiato e studiato ancora, fino a stasera che mi ritrovo qui. Per cui bella gente, guardatemi, mi vedete per bene che sono vecchio ed il pagliericcio tendente all’urina dei miei capelli è diventato bianco latte scaduto, ed il gracilotto muscolame cadente s’è trasformato in rotoli lardosi altrettanto cadenti e anche di più. Ma ora che ho studiato tanto da trovare la cura al male del secolo e mi ringraziate con il Nobel, ora che pendete dalle mie labbra nonostante le assurdità che biascico, dico: ora c’è in sala qualche baldracca che voglia farsi un Nobel o davvero ho studiato tutti questi anni per niente? 271 I Giovedì di Scrittura Fresca HIVirus scritto da: Serenella la mano sapiente correva sui seni slegava incertezze rotolava sui fianchi ghermiva piaceri giocattolo vuoto piccola bimba senza orizzonti appesa alle ali di un cielo muto 272 I Giovedì di Scrittura Fresca VIRUS . ANNI SETTANTA scritto da: -Vaannon è mai stato sufficiente sapere, quando arriva il primo raggio dietro l’ombra enorme di questi conglomerati di calcestruzzo proiezione decadente dentro la mia stanza. chissà se una tromba d’aria e quale aria mai investe intera la palude gremita dove nessuno smuove il miracolo, che hanno chiamato architettonica tutto soggetto a poche variazioni di gemmazione spontanea in disuso sole. nemmeno una piazza degna di una stagione in queste gabbie cilindriche fatte polifemi gendarmi per quattro fisarmoniche s’un palco, mezzovuoto, che attende i corpi e il corpo unico di parrocchia mamma con la banda esaltata in processione a benedire un traffico di bestemmie nel dormitorio quartiere diffuso virus peninsulare e un popolo di fantasmi pallidi ammalati di grigiore, in periferie mammouth trascina il suo futuro in errore un uomo solo che ripara seduto alle braccia la sua guancia e mi guarda nel mio impotere che l’osservo cliccare il vuoto, per saperne di più 273 I Giovedì di Scrittura Fresca ER VIRUS scritto da: Brizgraz Piagno da l’artro ieri e sopra l’occhi me c’è venuto come un gran rossore me manca er fiato, sto cor batticore e me fa male solo si me tocchi. So’ annato pure a dijelo ar dottore, che m’ha scucito più de du’ bajocchi: “la corpa –dice- è delli strettococchi de un virus spriggionato a Singapore!” Sarà così però me pare strano che tutto sto fastidio e sto dolore sia corpa de un animaletto nano! Li sintomi so’ quelli dell’Amore e io che ciò sperato tanto, invano… ciò solamente un artro raffreddore! 274 I Giovedì di Scrittura Fresca MA LO SAPETE COSA È UN VIRUS scritto da: Ermione Ma lo sapete cosa è un virus? Un ammasso subdolo di proteine, dice la Biologia. Una cosa, forse, neanche un essere, perché non c'è esistenza propria quando si vive alle spalle degli altri. Questo dice la Biologia, che quando non sa dare una definizione alla vita e alla morte, almeno, dà un significato alla “non vita”. Che cos’è un virus? Un capside stupendo -una scatola, per farla breve- di mirabolante armonia geometrica, con l’eleganza delle cupole del seicento e la grazia leggiadra degli arabeschi orientali con all’interno nascosto un filo magico di DNA. Con questo patrimonio, che si porta dietro ovunque o quasi, come la chiocciola fa con il suo guscio, il virus gira il mondo e si espande secondo la voglia, secondo il terreno che trova, senza scopo o pena. Senza fatica alcuna, ché la fatica la fa chi lo ospita e gli mette a servizio tutto quello che possiede: energia, trasporti ed industrie specializzate. Così, bellamente a suo agio, il virus fuoriesce da ogni orizzonte teleologico ed agisce come è programmato, secondo il suo piccolo fardello di DNA . L’unica memoria che possiede è questa, e la trasmette uguale ai suoi figli - una nidiata di dimensioni considerevoli- e per ognuno di loro viene spontaneo affermare:” sei proprio il ritratto di tuo padre”, perché gli rassomigliano in tutto e per tutto. Talvolta capita che il virus si affezioni a qualche luogo e vi si annidi, subdolamente e all’insaputa dell’ospite - l'ignara cellula- nascosto nel nucleo confortevole, in ozio perfetto, tra un codone ed un introne, come se dormisse tra cuscini di seta. Ma quando vuole fa i bagagli, DNA in spalla, e senza salutare nessuno parte e naviga pigramente verso nuovi lidi più graditi. A volte ruba, non per cattiveria o per necessità, ma per puro caso, o distrazione. Così qualche frammento dell’ospite gli rimane attaccato, a fare la fortuna o la sfortuna delle successive generazioni, che con l’innovazione sbadatamente ottenuta, interrompono l’uguaglianza gemellare dei precedenti parti e quindi del precedenti successi di colonizzazione e proliferazione. Così agisce la selezione naturale, cui l’uomo non è più sottoposto, secondo quanto dice e crede la Biologia. E’ triste la vita di un virus, vilipeso per azioni di cui non ha neanche consapevolezza, perché la sua, povero tapino, è solo “volontà di vita” di filosofica memoria e di pura innocenza, ché il peccato non arriva là dove non c’è il calcolo. Dopo un giorno intero di crudele commemorazione, in cui l’imputato non ha potuto difendersi, mi piace lasciarne quest'ultimo ritratto: aggrappato con infamia e senza gloria, alla sottana della vita di un altro. 275 I Giovedì di Scrittura Fresca V.I.R.U.S. scritto da: Rana Fritta Phil imbracciava annoiato il fucile, con le dita tiptappava silenziosamente il metallo della canna, era cacciatore convinto almeno quanto essere umano dubbioso, camminava tra gli alberi fingendo interesse per ogni potenziale obiettivo da fuoco, ma in realtà girava in cerca dei suoi pensieri, calpestava il suo umore, spezzava foglie di vario tipo che arricchivano la sua insalata di problemi. Ne aveva di problemi in effetti, ma quella mattina era cacciatore e pensava di potersene fregare. Prima di tutto sparare, prima di tutto uccidere, soprattutto evitare di morire. Mark dal suo canto era entusiasta di quella gita fatta senza svegliare il sole, vestito come alle prove militari e con la possibilità di mirare e sparare. A un cerbietto, una cervacca, una volpestifera, un cinghiacciolo, un’aquilaica reale, un falcoraggioso, un lepredatore, uno squonk, un pendragone, un galagone pezzato, un ornitorincoglionito, una lumaserati, un colibriaco, un dainonsparare e chissà cos’altro… Erano partiti presto per quella battuta di caccia, battuta seria, si sperava di ridere, ma l’intenzione di uccidere era impegnativa. La macchina era rimasta parcheggiata sul suo cuscino d’aria e ologrammata a sembiante zero per antifurtarsi e per non rovinare l’ambiente circostante col suo colore acrilico e innaturale. Gli animali non potrebbero capire e si intrerrogherebbero, e interrogarsi significa farsi domande, elaborare, pensare, diventare umani e quindi magari iniziare a camminare e poi imbracciare un’arma e decidere forse anche di andare a caccia. Di uomini? Inammissibile, impensabile, non auspicabile, per lo meno disdicevole. Non era certo questione di buco nell’ozono, ma ormai la teoria evolutiva era di gran lunga soppiantata dalla prassi evolutiva e bastava che un comportamento venisse mediamente accettato dal mondo animale o giudicato tout court conveniente perché giustificasse nell’arco di 48 ore evoluzioni che in secoli precedenti sarebbero state giudicate fuori da ogni concezione o grazia di dio. E l’uomo ancora non si accettava animale come un altro. Qualcuno nei secoli evidentemente l’aveva lasciato fare, concedendogli una pericolosa assuefazione alla preponderanza, alla prepotenza, alla presupponenza. Ovviamente ogni essere umano preferiva essere inconsapevole piuttosto che rassegnato. E sparava e uccideva in omaggio ad antico sport (“La caccia è uno sport…!” aveva sempre ripetuto senza corollare alcun dubbio Mark) ma anche e soprattutto ora per evitare che qualcuno o qualcosa decidesse di chiedergli di farsi da parte. Del resto, gli animali commestibili erano rimasti pochi e pochi erano i cacciatori che avevano ancora fame. Dai tempi del grande Kevin e dei lupiagnoni non si sentiva più una storia di saggezza. I bufalieni erano quasi estinti. E da allora anche il saggio Costernauta balla coi cupi. 276 I Giovedì di Scrittura Fresca L’umanità viveva la grande menzogna. Da una parte del globo si moriva di fame, dall’altra si entrava in clinica per dimagrire, in mezzo scatolette scortanti cibo che si sarebbero esaurite solo quando ziodio avesse deciso di aggiungere un posto a tavola per qualche razza aliena. “Cavolo pensi, Phil?” “Be’, pensavo al fatto che se incontro un squonk… sì, insomma… ho paura della maledizione del Trick of the tail…”. “Il colpo di coda?”. “Già, si dice sia una leggenda ma io una volta l’ho visto uno squonk. E’ feroce e sai perché? Perché è bello e grazioso e sembra innocuo, ma ha una coda lunghissima, ti frusta e ti inietta milioni di spore nel sangue, ti dona il suo… seme…”. “Seme…?”. “Sì! Seme, anche se alcuni ricercatori lo chiamavano virus…”. “E che ti fa il seme?”. “Be’, ammesso sia vero… ha un potere particolare… se riesce a guardarti negli occhi prima di colpirti, trasmette ad ogni singola spora istruzioni di interazione assoluta e di conseguenza, come per effetto di nanoistruzioni marginali a livello di ogni singola molecola, si prende il tuo corpo e ti dona il suo…”. “Ma che stupidaggine! Scusa, sai quante molecole ci sono in un corpo umano…?”. “Certo che lo so, ma le spore sono attive, nel senso che ognuna fornisce istruzioni di comunicazione coatta, come se impartisse una sorta di catena comunicativa ineluttabile, che annulla la volontà del corpo ospitante. V.I.R.U.S., Variabile Invasiva Reagente Unicellulare Seriale, per il resto, vuoi la magia, vuoi la dinamica biologica incomprensibile, be’, si prende la tua anima se preferisci che te lo dica con parole più… poetiche!”. Intanto col fucile scasava la vegetazione che era più fitta, gli anfibi camminavano meno spediti, l’ansia era percezione non indifferente, il racconto suggeriva ponderazione anche nei passi). “E poi?”. “E poi cerca di imitarti, ma in realtà ti clona lo spirito, perché lo squonk gioca…”. “Gioca?”. “Sì, gioca, non ha coscienza di averti infettato, non si rende conto di ciò che fa, si vede come riflesso in uno specchio ma si conforma alle istruzioni comportamentali del corpo che lo ospita e francamente non so se succede lo stesso all’anima del poveraccio che finisce nello squonk… del resto, non ne sono certo perché altrimenti chi avesse avuto l’esperienza e fosse tornato alla casa madre avrebbe potuto raccontare le sue “sensazioni” ma pare che nessuno poi ricordi nulla, si ritrova inebetito e cerca di capire cosa ha fatto in quegli istanti…”. “E poi?”. “Ti ho detto tutto quello che ho sentito dire, favole metropolitane comprese, non saprei dirti altro… ah sì, si dice che l’effetto duri cinque minuti a meno che…”. “A meno che?”. “A meno che nei cinque minuti non succeda qualcosa che impedisca allo squonk di riprendersi il suo corpo e di restituire quello in prestito...". 277 I Giovedì di Scrittura Fresca “Ma che insulsaggini…” affermò Mark con eloquio monotono, scalciando un sasso e un’evidente ansia insieme. “Attento! Un pettirozzo…”. Uno sparo violentò il silenzio quasi sacro del posto. Mark sventrò un albero e fece volare una nuvola di piume disintegrando il pennuto in una poltiglia nuvolante di sangue, terrore e piume. Cento metri più avanti, voli affannati lasciavano tracce di disperazione nell’aria. “Ma porc…” disse Mark, ricaricando il suo bazooka a spanne mozze, accendendosi una sigaretta. “Sei un idiota! Hai un fucile con munizioni per ippopotesi da tre tonnellate e ci spari a pettirozzi da mezzo kilo! Sei il solito bastardo…”. “Uah uah…”. Clang, il ferro che celava il siluro pronto a obbedire e a colpire il prossimo obiettivo, qualunque esso fosse. “Ma che ti frega…? Dài, su, stavo solo riscaldando i muscoli, un po’ come un atleta che scioglie le gambe sui nastri di partenza”. “Sì, uguale, solo che la pistola ce l’ha lo starter e spara in aria! E non disintegra un polletto imbrattandomi, porca miseria, la giacca nuova, di sangue e merda! Il povero pennutile non ha sofferto, questo è sicuro, ma prima di morire ha avuto il tempo di cacarsi sotto…! E questa cosa mi sembra molto triste. Per la mia giacca e per una morale che sento ci sta sfuggendo…”. “Ah ah… sì, come no, la morale… lo vedo infatti il tuo fucile… fino a poco fa pensavo fosse solo un bastone per la tua vecchiaia… ma fammi il piacere, amico mio… cos’è, stamani lo hai caricato a cavolate… come si chiamano, morali…?” “Tu mi preoccupi, non so, ma ho l’impressione che sei più animale di tanti altri… chissà magari un giorno metto la tua capoccia come trofeo sul mio ologramma di caminetto…” abbozzò un sorriso perché si rese conto che l’amico non poteva comprendere il suo sfogo e che non poteva chiedergli dopo tanti anni di cambiare. Sentiva di essere fuori contesto, sapeva che quella mattina non sarebbe voluto andare a caccia, non per una questione di morale o di etica o di teoria comportamentale evolutiva, ma semplicemente perché si rendeva conto di quanta pochezza ci fosse nei gesti umani. Aveva piena coscienza che certi strumenti erano macchine strepitose e perfette per realizzare urlando intenzioni sublimi, in un senso o in un altro. Laddove l’uomo non arriva, ci arrivano certi strumenti, incapaci di pensare e semplicemente di eseguire. E se questo è un meccanismo alchemico apprezzabile, per esempio, in campo musicale, diventa un meccanismo ferale allorché l’uomo affida ad un grilletto la sua intenzione e la sua coscienza… “Sai, Mark, pensavo… ti è mai successo di mirare e di sparare ma nella stessa frazione di secondo decidere di non farlo, ma ormai è troppo tardi, hai visto l’occhio del dainonsparare e ti rendi conto di non poterci fare nulla, perché tu, omino presuntuoso, hai affidato a un’arma la realizzazione di una tua intenzione?”. “Che? Ferma ferma… non ci sto capendo niente…” Mark intanto fischiettava, lucidando la canna del fucile, verificandone ossessivamente ogni due o tre minuti la perfezione. 278 I Giovedì di Scrittura Fresca “Dài, lo so che non sei stupido, voglio dire, tu hai un’intenzione, ma decidi improvvisamente di cambiare idea… quando premi un grilletto, lo fai in un istante talmente breve che non ti lascia neanche il beneficio del dubbio, ormai non puoi cambiare idea, hai passato il testimone e il tuo strumento è perfetto, obbedisce e finisce il suo compito. Non lo trovi terribile?”. “Uah uah uah… amico mio, lo sai che ti voglio bene, e accetto anche le tue seghe mentali! Piuttosto…” ora Mark ostentava spavalderia e intendeva con ciò differenziarsi dal lume sempre più perplesso dell’amico “dammi un tuo squonk che gli faccio una foto!” prese la mira col bazooka e mirò in più punti minacciandoli tutti. Phil lasciò cadere il suo discorso poetico “Non scherzare, Mark, non scherzare su queste cose, un colpo di coda di squonk lancia spore in un raggio di dieci metri, se non lo becchi prima della frustata, be’, il virus si trasmetterà a qualsiasi cosa organica vivente nel raggio di slancio della coda… Uno squonk di trenta cm ha una coda di un metro buono, sottilissima, la porta come nascosta arrotolata, ma se terrorizzato la tira fuori e colpisce rincoglionendo l’ambiente che lo ha disturbato e noi umani per lui siamo ambiente di disturbo…”. “Ma va' là, Phil, ora esageri…” Mark accarezzò il bazooka come ostentando un’evidente dichiarazione di fiducia “dammi il tuo porcelato d’india o squonk o come càspita si chiama e stasera ti lascio cantare Supper’s ready prima delle sette!”. “Povero illuso… Lo squonk si dice sia imprendibile e ammirabile, per diversi motivi che dovresti sperare di non verificare. Non hai mai letto i “Nursery crimes” di... be’, non ricordo l’autore…”. “Cosa?”. “Vabbè, un libro giallo… E’ la storia di una nutrice che incrocia lo sguardo con uno squonk e che per un qualche motivo in una trance di cinque minuti fa fuori un’intera classe di bimbi, ti evito i particolari… Ovviamente, il libro parlava poi dello squonk con dovizia di particolari e, ti ripeto, si dice non fossero solo invenzioni letterarie…”. “Non so cosa ti preoccupi, oggi, Phil, ma sta’ tranquillo, non temere ho mira infallibile e il tuo animaletto te lo porti a casa attaccato allo specchietto… e lo metti sul caminetto al posto della mia capoccia... ihihih…”. Phil mise un piede sulla coda di un volpetarda, e lo scoppio lo fece saltare. Mark sorrise. “Hai calpestato una merda di fungo esplodente… uah uah… funghetto velenoso con la coda! Dài, su, cerchiamo di prendere almeno un’uccellodola nella sua polentana… almeno stasera mangiamo qualcosa…”. “Ma piantala! Non vedi che non ci sono animali in giro…? Ed è strano, arriva l’alba, e al mattino anche gli orsonnambuli si svegliano… eppure niente…”. “Be’, te ne do atto, hai detto un mucchio di idiozie apocazzalittiche, ma in effetti hai ragione in questo caso…” e si accese un'altra sigaretta, sbuffando fumo stressato. I due si fermarono e si misero seduti su un grosso sasso, lasciando i fucili su un braccio. In quel preciso istante, un rumore di passi brevi attirò la loro attenzione, Phil si girò, fece in tempo ad avvertire Mark che si gettò sul suo bazooka quasi scusandosi con lo stesso per averlo abbandonato anche un solo attimo… avevano di fronte… “Cosa è questo coso?” disse Mark sorprendosi a tal punto da lasciare il suo fucile 279 I Giovedì di Scrittura Fresca a(m)mirare il terreno. “Oddio, non ci posso credere, uno squonk… lo vedi il pelo bianco con le striature rovere, li vedi gli occhi rosa e le orecchie flaccide?”. “Sì, li vedo, ma che cavolo significa?”. “Niente di buono! È spaventato e ora… ci sfida a duello… se provi a premere il grilletto lui se ne accorge e ci frusta infettandoci… ora abbiamo due soluzioni… o ci allontaniamo e almeno uno si salva… o proviamo…” Phil provò a spiegare, ma inutilmente, Mark aveva il dito sul grilletto, lo squonk cambiò angolatura al pelo, sgranò gli occhi, tirò fuori la coda e frustò l’aria facendo vibrare sottilmente il colpo, e poi ancora un altro per tornare a seminare laddove avesse mancato. Le spore colpirono prima Mark e poi Phil, quest’ultimo però stava guardando un orsoltraggioso nano che sullo sfondo cercava salmerende in un ruscello inquinato, Mark stava guardando negli occhi lo squonk invece. L’animale fece lo scambio, si prese il suo corpo e gli donò il suo. In campo lungo l’orsetto fuggì rinunciando al pasto e sollevando pozzanghere di acqua stagnante, ci fu uno scoppio, Mark urlò. Poi urlò di nuovo ma stavolta non era più lui. Lo squonk ora aveva le mani di Mark, le sue intenzioni e soprattutto il suo fucile. Phil capì tutto e gridò “Noooooooooooooooooo”. Mark tentò di scappare inciampando nella sua nuova coda e indossando goffamente il suo nuovo corpo, lo squonk si divertiva, riceveva istruzioni semplici e dirette dalle memorie sinapsiche del corpo di Mark, prese la mira e sparò. Colpì lo squonk ad una gamba. Mark provò un dolore atroce e del tutto nuovo. Il suo avversario prese di nuovo la mira, aveva intento giocoso a dire il vero, neanche sportivo, e sparò al cuore. Lo squonk con gli occhi di Mark sgranò gli occhi cercando di scrutare tra le nuvole amaranto l’assurdità della situazione, tra le stesse riuscì a capire in un certo qual modo i dubbi dell’amico Phil, proprio Phil invece in quel momento non palesò dubbi, puntò l’arma su Mark e uccise lo squonk che stava giocando. Quindi si avvicinò all’animaletto ferito a morte e ebbe modo di verificare che con la morte l’effetto virale di scambio diventava definitivo. Vide gli occhi dell’amico nell’animale e sentì dall’altra parte l’uomo posseduto parlare. “Incredibile, amico mio, per una volta ho provato la sensazione di chi o cosa viene cacciato, come te la descrivo? Non sono in grado… posso solo dirti che ho avuto tanta paura, che ne ho e che però ho la strana consapevolezza che morire è l’unica cosa che mi rimette in pace con la coscienza. Come faceva quella canzone… la ricordi? The carpet crawlers mi pare...”. Mark iniziò a cantare. “We got to get in to get out... we got to get in to get out…” poi smise e tornò all’amico “Mi spiace, Phil, hai dovuto spararmi, tu che non eri neanche troppo convinto della caccia… Tranquillizzati, del resto che se ne sarebbe fatto lo squonk del mio corpo, avrebbe tentato uno scambio con te e avrebbe continuato a giocare... Un fottuto colpo di coda... Un virus bastardissimo... Non cercare di vendicarmi... E’ un gioco che prende in prestito le istruzioni dalla scatola umana che ogni volta apre... Mi ha sparato cercando di capire cosa divertisse me, uomo, cacciatore... Divertente, no...?” e smise di dire, per sempre, fissando le nuvole fuxia, sorridendo però. 280 I Giovedì di Scrittura Fresca Lo squonk fece altrettanto riprendendosi e restituendo l’anima per consegnarle ai rispettivi giudici definitivi. Phil si mise l’amico in spalla e cominciò a vagare nella boscaglia cantando anche lui una canzone, “I know what I like and I like what I know...”. Ma non tornò più a casa. Leggenda vuole che forse abbia incrociato anche lui lo sguardo dello squonk prima che questi morisse e che ora vaghi senza mèta spinto dalla voglia di non capire le assurdità delle cose divertenti degli uomini. “...arrivo a comprendere quindi che le spore dello squonk non sono elementi vettoriali di alcun virus, ma al contrario l’antidoto a ben altro V.I.R.U.S. [Variante Ingenita Recrudescente Umanoide Staminale] che gli uomini sintetizzano al momento della nascita e che li porterà – con probabilità statistica non irrilevante in stati embrionali successivi a generare violenza nella convinzione di "giocare" sportivamente...” in Nursery Crimes di Gabry Peter Hell – 2004, Ed. Selling my land by playground 281 I Giovedì di Scrittura Fresca 282 I Giovedì di Scrittura Fresca Numero dieci 30 Giugno 2005 Quando gli uomini ci provavano come si deve Hanno partecipato Brizgraz Li penzieri der giovane Spartaco Talesien Sesso selvaggio Franco Zadra Quando gli uomini potranno vedere lo Zed alla luce del sole? Dareios Quando Shakespeare ci provava con la Dark Lady (traduzione del sonetto 135) Vittorio Fioravanti 283 Pelle morbida I Giovedì di Scrittura Fresca LI PENZIERI DER GIOVANE SPARTACO scritto da: Brizgraz “E daje Ervì ... e levete ‘sta vestaja, che te faccio vedè io ... artro che bambola de gomma ... e girete così ... ammazza quanto sei bona ... famme toccà ... preparete che mò ariva Spartaco tuo ... m’hai messo in subbujo da quanno t’ho visto la camicetta sbottonata ... e dì la verità che pur’io te piacio ... tu m’hai provocato e io mò te distuggo ... io me te magno ... ecchissenefrega de quer cojone de Rolando ...” Nooooo!!!! Oddio che stavo a sognà .... Che ore sò, famme vedè ... le due! Meno male che hanno sonato alla porta prima quanno stavo a casa de Ervira... sennò chissà come annava a finì... certo che ce semo annati proprio vicini ... e mò quanno me riaddormo? Sò ancora tutto eccitato ... certo che ‘sti Biuti Senter fanno li miracoli! Ervira s’è trasformata, è diventata ‘na bomba sexy ... eppoi io la conosco da quindici anni è pure ‘no spasso ... ma come avrà fatto Rolando a pijassela una così! Certo che sur più bello, quanno prorpio che se stava a indurì la situazzione e che te l’avevo sdrajata sur talamo... sona er campanello e quello stronzo de Oronzo, er professore der piano de sopra, me viè a rovinà er piattino!!! “Scusi ho finito i pennarelli – dice- che ciavrebbe qualcosa per scrivere che sò rimasto co’ na dimostrazzione a metà?” Ma vatteneamorìaffanculo Orò ... te e tutti li pennarelli Carioca che t’aritrovi! Mejo così, però! ‘Ste cose bisogna falle a mente fredda ... se s’eravamo fatti trasportà da la passione ... mo’ Rolando era cornuto e io, er suo migliore amico ero er corpevole! Nun ce vojo pensà! Però Ervira mia ... come te dovrò guardà domani? Come te potrò più venì vicino senza provà er brivido de la lussuria che ce se stava pe’ pijà? Come potrò incrocià lo sguardo tuo senza lanciatte un segnale de complicità e de intesa? Come potrò parlà serenamente co Rolando senza ripensà a quello che c’è stato tra de noi? Nun posso ... l’amicizzia pe me è sempre stata sacra ... ce dovemo sacrificà Ervì ... dovemo tenesse dentro tutto ... è stato solo ‘n’attimo ... io t’amerò in segreto ... pe sempre! No tanto nun ce riesco più a dormì! Mo’ me metto a preparà le convocazzioni de l’Assemblea der condominio. In fonno so’ ancora Amministratore! Dici bene, dici ... ma come faccio che ciò solo Ervira in mente ... je devo spiegà ... je devo scrive ‘na poesia, lei capirà! Domani matina jela darò… 284 I Giovedì di Scrittura Fresca DRINNN ... DRINN ... “Arivo, arivo ...” “Ciao Ervira…” “ah ... Spartaco ... ciao ... che me voi parlà pe ieri sera? ... Io nun me sò pentita de gnente ... e quanno che lo voressimo rifà tu me trovi pronta ... anzi entra che Rolando nun c’è ...” “Ervira bella ... pure a me me s’è smosso quarcosa drentro ... me piaci e m’è piaciuto lasciamme annà ieri sera ... però ... però ...” “Però che ... a Spartaco ... tra me e Rolando ormai nun c’è più gnente ... nun lo amo più ... mò penso solo a te ... viè drentro Amministratore mio ... che te faccio la partita doppia eppoi er bilancio lo fai ... a consuntivo!!!” “Nun fà così Ervì che si nun la smetti te sarto addosso sur pianerottolo ... se dovemo controllà ... tiè, questa è la convocazzione de l’Assemblea ...” “E sti cazzi ... io nun la vojo l’Assemblea ... a me me basta er Presidente ... daje entra dentro che te lo metto a verbale!” “ Leggila Ervì e capirai ... ciao!” “Nun te ne annà, resta ... se n’è annato ... ma perchè insisteva tanto co sta busta? Io nun ce sò mai annata alle Assemblee ... famme vedè ...dunque ... e che d’è ... un bijettino!” A ERVIRA, VITA MIA Ervì tu lo sai che nun ce sò fa co le parole, ma da ieri sera me tormento e ripenso a noi ogni momento ... però c’è Rolando e tu lo sai che semo amici da sempre! Per adesso accetta ‘sta poesia ... certo nun sò Ghepardi ... però ciò er sentimento! In questo granne mare de perzone ce stà ‘na donna che m’ha innammorato, che m’ha stordito, m’ha rinvortolato e che me fa rinasce la passione! Però l’Amore spesso è travajato, e quarche vorta è solo ‘n’illusione che te fà crede che quell’emozzione, sia sempre pura e che nun sia peccato. Vorei gridallo ar Monno e nun lo dico, perchè l’impone la cavalleria: “Amo la moje der più caro amico!” 285 I Giovedì di Scrittura Fresca E ‘r fiore profumato che m’attira, come nient’artro ne la vita mia ... risponne ar nome de Cecconi Ervira! CHISS X X X (icchese, icchese, icchese) ... Spartaco tuo “...Com’è romantico! Rolando a me nun m’ha mai scritto manco la lista de la spesa! ... ” 286 I Giovedì di Scrittura Fresca SESSO PRIMITIVO (fantascienza) scritto da: Talesien Jack Bobbit si avvicinò alla sua segretaria. -Ti va di farlo?- disse senza preamboli. Jessica alzò gli occhi blu dal monitor per fissare Jack -Finisco di inserire un paio di comandi e possiamo...farlo- disse la frase in un modo così sexy che Jack sentì un brivido salirgli dal fondo della spina dorsale. Lavoravano entrambi per la "Minerva Mineraria" una società che estraeva ferro e cadmio dagli asteroidi della "fascia". Era un lavoro noioso e ripetitivo; un modo come un altro per passare il tempo. Jessica armeggiò con la testa e le mani dando degli impulsi particolari alla sua computer-scrivania e si dichiarò disponibile a fare sesso con Jack. A lui Jessica piaceva parecchio: aveva un corpo da dea e i capelli lunghi e verdi che mandavano ogni trenta secondi flash fucsia. Jack pensò a sua moglie Andrea. Ripensò a quando tre anni prima l'aveva conosciuta su "Luna Due" ad un torneo di squash a gravità zero. Era nato subito un buon feeling tra loro. Avevano anche scoperto di essere nati nella stessa vasca di incubazione e ciò li aveva uniti ancor di più, come se un destino li avesse predestinati già dal concepimento. E adesso? Era ancora molto innamorato di lei, ma ultimamente la trovava molto cambiata, presa da chissà quale occupazione o pensieri in cui lui non aveva la minima parte. E non avevano rapporti sessuali da almeno due mesi. Jack prese la cuffia e l'applicò con una leggera pressione sulla testa. I sensori gli aderirono perfettamente alle tempie. Jessica fece la stessa cosa. Poi ci fu il contatto e fecero sesso. Raggiunsero l'orgasmo quasi in contemporanea e quella volta a Jack parve la migliore scopata che avesse mai fatto con la sua segretaria. Andrea era già a casa quando Jack arrivò. Abitavano in un appartamento standard del 101° livello di una stazione abitativa di circa un milione di abitanti alla periferia di Nuova Roma. Appena entrato il cane robot classe Fido che avevano acquistato da poco, gli saltò addosso per salutarlo. Jack gli tirò un calcio mandandolo ruzzoloni sul pavimento. Andrea stava leggendo seduta sulla sua poltrona preferita. -Ciao- gli disse distrattamente. -Ciao- disse lui -cosa stai leggendo di bello?-Vieni- Andrea lo invitò a sedersi accanto a lei -Ti vedo rilassato: o ai preso una pillola verde, o hai fatto l'amore con Jessica- gli disse dopo averlo guardato mentre si sedeva. -La seconda - rispose Jack – Tu invece riesci a fare a meno di tutto a quanto pareLei gli porse il foglio-libro e lui cominciò a leggere, dapprima distrattamente poi sempre più con attenzione. Si trattava del libro “Ritorno al primitivo”del famoso cibernetico Otto Pan. Jack ricordava di aver letto che lo scienziato si era ritirato dalla professione da diversi anni. Nel libro asseriva che gli uomini sarebbero dovuti ritornare alla natura, ritrovare la propria istintualità perduta e abbandonare la vita 287 I Giovedì di Scrittura Fresca moderna artificiale e piena di finzione. -Ma leggi questa robaccia? Mi chiedo come hai fatto a procurartelo. Sinceramente sono molto preoccupato per te Andrea e vorrei aiutarti ad uscire fuori da queste tue fissazioni-Se vuoi aiutarmi allora...- Andrea fece una pausa -sto andando a trovare Otto Pan. Vuoi venire con me?Dieci minuti dopo si trovavano su un aereo taxi diretti verso il centro di Nuova Roma dov'era l'abitazione del cibernetico. L'appartamento era ingombro di ogni genere di oggetto a cui Jack non poté dare nome tanto erano strani e alieni. Lo scienziato era molto gentile e molto vecchio, più vecchio di chiunque altro uomo avessero visto prima. Jack e Andrea si sedettero su un piccolo divano sfasciato che doveva sicuramente essere un relitto del XX secolo. Pan preparò un the per i suoi ospiti e cominciò a discutere delle sue teorie. Disse che ormai era giunto il momento che l'umanità compisse quello che sembrava un passo indietro e ritornasse alle origini. Spiegò come l'uomo era entrato in un vicolo cieco e non riuscisse più a venirne fuori: ormai era diventato schiavo delle sue macchine, non era più padrone nemmeno del suo corpo. -L'uomo considera il suo corpo come una delle sue macchine- disse Otto Pan -e lo tratta alla stessa stregua. Se un pezzo si guasta o diventa inutilizzabile lo sostituisce con un altro. Se l'organismo si ammala lo guarisce usando meccanismi che possono essere utilizzati anche per macchine fatte d'acciaio. E così l'uomo sta cercando di vincere anche la morte. Una macchina infatti non muore...Ma il corpo non è una macchina. Esso pensa, reagisce alle emozioni, è una struttura vivente straordinariamente complessa e interconnessa...Jack non era affatto d'accordo con il vecchio scienziato ed elogiò i grandi successi che l'uomo moderno era riuscito a realizzare. -E poi non si dimentichi che anche lei ha contribuito a circondare l'uomo di macchine sempre più sofisticate.Il vecchio guardò intensamente Jack poi disse: -Ora non più. Il mio scopo è diventato esattamente l'opposto di quello di un tempo. Da dieci anni non faccio più cure per rimanere giovane. Non mi importa di raggiungere i 130 anni. Voglio vivere il tempo che mi resta per far si che l'uomo ritorni umano. E non mi rimane molto. Un tumore mi sta lentamente consumando. Per questo ho urgenza.Pan prese la mano di Andrea tra le sue e la guardò negli occhi come un vecchio padre guarda sua figlia prima di lasciarla per un viaggio senza ritorno. -Ho un regalo per te- le disse. Fece un cenno e dalla stanza vicina apparve un uomo giovane completamente nudo e in piena erezione. -Questo è Ector, la mia ultima creazione. E' il mio regalo per te. Anzi per voi dueJack era schifato da ciò che vedeva. Un uomo, anzi un androide, che non aveva nemmeno un indumento addosso e col pene eretto era ora vicino a sua moglie la quale sembrava guardarlo con un misto di concupiscenza e orgoglio. -Questo ammasso di ferraglia sarebbe il nostro regalo? Proprio lei che predica contro le macchine!- sbottò Jack -Lo copra per favore. Anzi lo faccia tornare da dove è venuto. Vecchio pazzo! Di un regalo così né io né Andrea sappiamo che farci!288 I Giovedì di Scrittura Fresca -Si calmi Jack- disse Pan sorridendo.- Ector è una macchina utile. E' la perfetta riproduzione di un uomo com'era cento anni fa.-Il dottor Pan già mi aveva accennato...- intervenne Andrea toccando Jack come per calmarlo, ma lui si era già alzato e stava per andarsene rosso in viso per la rabbia e la vergogna. -Non vada via Jack. Non fugga ancora da se stesso- disse il vecchio scienziato. Jack era arrivato alla porta, si girò, guardò sua moglie. Non aveva mai provato un'umiliazione simile. Aprì l'uscio e se ne andò. Jack vagò per i livelli di strutture abitative sconosciute per gran parte della notte rischiando di essere “resettato” dalla polizia. Si sentiva male, ma quando si trovò di fronte al distributore automatico di Serenov, la pillola verde della felicità, non prese nulla e continuò a camminare senza meta. -E' solo un vecchio pazzo malato e pericoloso. Ed è riuscito anche a far impazzire mia moglie!- diceva tra sé. Immaginò Andrea mentre l'androide la possedeva con quel pene artificiale e quasi vomitò. Quello non era fare l'amore, era depravazione. Per i rapporti c'erano le cuffie, quello era sesso pulito, regolare. In fondo era stato scientificamente provato che il sesso era un fatto puramente mentale, non c'era affatto bisogno di quello “biologico”. Ma l'angoscia lo divorava. Doveva prendere una pillola al più presto. Ma di distributori nemmeno l'ombra. Ma dov'era? E come se fosse uscito da un sogno si rese conto di essersi perso. Si guardò intorno e vide centinaia di porte di cubicoli che si aprivano lungo il corridoio. Ricordava vagamente di aver preso un paio di ascensori e di essere sceso di diversi piani. Cercò inutilmente sui muri il numero che indicasse il livello. Continuò a camminare sperando di incontrare qualcuno o di imbattersi in un distributore di pillole. Dopo dieci minuti di cammino arrivò ad un incrocio. Girò a destra perché gli era parso di vedere la sagoma di un distributore in lontananza. Da un cubicolo sbucò una bambina che poteva avere pressappoco dieci anni. -Ciao- le disse subito Jack -mi chiamo Jack....mi sono perso...potresti aiutarmi per favore?Ma la bambina, prima che potesse finire la frase, era corsa subito via infilandosi di nuovo nel cubicolo da dove era uscita. La porta d'acciaio si chiuse davanti a Jack con un leggero scatto. Solo, di nuovo. Nessuno si perdeva a Nuova Roma, tutti aveva il loro posto assegnato, tutti sapevano chi erano, cosa dovevano fare. Non erano ammessi i confusi. E intanto l'ansia di Jack cresceva. Pensò di bussare alla porta, ma poi si rese conto che la polizia era già stata avvisata e che fra non molto sarebbe arrivata per “rimetterlo sulla giusta strada” come recitava lo spot alla videotv. Forse era giusto così. Non avrebbe dovuto far altro che aspettare che lo prendessero e al resto avrebbero pensato loro. Sarebbe ritornato come prima. Gli avrebbe raccontato di Otto Pan, di sua moglie Andrea e loro avrebbero provveduto a farli tornare normali, di nuovo essere ragionevoli. Forse. Forse era giusto. Ma era quel “forse” che non gli suonava, che gli martellava il cervello. Senti i cigolii delle ruote di gomma delle macchine elettriche della polizia provenire 289 I Giovedì di Scrittura Fresca dal corridoio da dove Jack era venuto. Si mise a correre più veloce che poteva nella direzione opposta. Imboccò un corridoio alla sua sinistra e, proprio all'angolo vide un distributore di Serenov. Si fermò e, ansimando, s'appoggiò sulla scatola di metallo. Aveva la fessura per la carta di credito e una lastra di vetro proteggeva le pillole verdi all'interno. Jack prese la sua carta di credito e fece per inserirla, ma il martellamento nella sua testa lo distraeva. Pensò alla sua impotenza. E non era solo un'impotenza fisica. Lui non era niente. Non era mai stato niente. Niente. Fu allora che l'angoscia si tramutò in rabbia. Vide un asta metallica che serviva a sorreggere uno schermo pubblicitario 3d proprio accanto al distributore. Con una forza che mai avrebbe immaginato di avere, divelse l'asta facendo cadere a terra e fracassare in un boato lo schermo. Con quell'arma improvvisata cominciò a colpire il distributore distruggendo la lastra e mandando le pillole a sparpagliarsi per il pavimento. Intanto la polizia era arrivata e due agenti erano già smontati dall'auto. Non ci misero molto a far si che tutto ritornasse come prima. Jack Bobbit si avvicinò alla sua segretaria. -Ti va di farlo?- disse senza preamboli. Jessica alzò gli occhi blu dal monitor per fissare Jack -Finisco di inserire un paio di comandi e possiamo...farlo- disse la frase in un modo così sexy che Jack sentì un brivido salirgli dal fondo della spina dorsale. Prese la cuffia e l'applicò con una leggera pressione sulla testa. 290 I Giovedì di Scrittura Fresca QUANDO GLI UOMINI POTRANNO VEDERE LO ZED ALLA LUCE DEL SOLE? scritto da: Franco Zadra ...non sono che il redattore di questi (mi pare 57) testi diversi raccolti digitando "Quando gli uomini" in Google. Per quanto riguardano le sgrammaticature e i refusi ho deliberamente scelto di non correggere nulla. Ho poi compilato il tutto in ordine alfabetico crescente. E' una sorta di fast-letteratura che può avere degli esiti accettabili (l'unica che mi posso permettere di questi tempi!) Quando gli uomini amavano, la Madre Terra amava. Quando gli uomini arano i campi, volteggiano in aria sopra di loro, gridando. Quando gli uomini armarono la clava e... con le donne fecero din-don. Quando gli uomini arrivarono sulla collina, in paese arrivò Alvin con un cesto di funghi accompagnato da Bill il Boscaiolo. Quando gli uomini avevano soltanto le mani e l'intelligenza, e inventarono le città. Quando gli uomini avranno capito che l’infelicità che attribuiscono a Dio e al cielo viene da loro stessi. Quando gli uomini avranno imparato a scegliere il bene al posto del male. Quando gli uomini avranno raggiunto il numero delle stelle. Quando gli uomini cominciano ad accorgersi quanto sia duro. Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra. Quando gli uomini cominciarono a vivere in città. Quando gli uomini continueranno a morire. Quando gli uomini correranno più veloci, salteranno più in alto e per loro tutto sarà possibile. Quando gli uomini del "Moretto" sono saliti a bordo della "Raven". Quando gli uomini del commando raggiunsero la piazza. Quando gli uomini di quelle città tentarono di usare violenza ai nostri messaggeri. Quando gli uomini diventano rifiuti. Quando gli uomini diventano virtuosi in vecchiaia, semplicemente sacrificano a Dio gli avanzi del diavolo. Quando gli uomini e le donne avessero terminato il mondo che nasceva. Quando gli uomini e le donne veri dicono “è ora di sognare” è come se dicessero “è ora di lottare”. Quando gli uomini erano blu. Quando gli uomini fanno "boh" c'è un matrimonio. Quando gli uomini fossero contenti a vivere del loro, e non volessono cercare di comandare altrui. Quando gli uomini fronteggiarono l’estinzione. Quando gli uomini giunsero sul posto, fissarono quella forma gigantesca e furono colti da un grande spavento. 291 I Giovedì di Scrittura Fresca Quando gli uomini giunsero vicino al cespuglio, Nicomede fece un gran salto fino sulla spalla dell'uomo che teneva il sacco. Quando gli uomini hanno cercato di dare. Quando gli uomini imparano ad amare. Quando gli uomini inventarono il pudore. Quando gli uomini invitavano i loro amici maschi, a bere ea festeggiare nella loro casa, alle loro mogli e figlie non era permesso partecipare. Quando gli uomini lavorano. Quando gli uomini mi guardano hanno paura di me, ma mi desiderano anche. Quando gli uomini ne hanno verificato il bene per la collettività. Quando gli uomini non riterranno più utile per se stessi riconoscere il diritto degli animali a non soffrire. Quando gli uomini non riusciranno più a sostenere le proprie ragioni sempre più violente. Quando gli uomini oltre ad essere privati della libertá sono anche male trattati, vengono in disperazione. Quando gli uomini parlano, soltanto la metà sinistra del cervello è attiva. Quando gli uomini potevano seguire e amare gli Dei che più piacevano loro. Quando gli uomini ricoprono loro il volto di sperma. Quando gli uomini saranno tutti fratelli, quando tutti gli uomini potranno vivere del loro lavoro. Quando gli uomini si accinsero a ripartire. Quando gli uomini si accordano fra di loro per sottomettersi a qualche uomo o a qualche assemblea di uomini. Quando gli uomini si arrampicano sui camion. Quando gli uomini si chiedono perché sono al mondo. Quando gli uomini si nutriranno del balsamo che ho detto, i loro intestini non mancheranno di accorciarsi di parecchie spanne. Quando gli uomini si riuniscono le loro teste si restringono. Quando gli uomini si spostano. Quando gli uomini siano giudici nella propria causa. Quando gli uomini smetteranno di avvelenare il fiume. Quando gli uomini sono andati ai loro medici che chiedono l'aiuto per i problemi erectile, si sono detti a che non ci fosse trattamento. Quando gli uomini sono coscritti solo in virtù del loro sesso questo viene chiamato potere. Quando gli uomini ti chiamano. Quando gli uomini tornarono dal fronte e le donne che li avevano. Quando gli uomini usano il falsetto, sopprimono tutte le armoniche, ottenendo una brutta voce composta da soli toni alti. Quando gli uomini vi odieranno e Quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato. Quando gli uomini vivono in modo tale da creare parecchia energia negativa. 292 I Giovedì di Scrittura Fresca QUANDO SHAKESPEARE CI PROVAVA CON LA DARK LADY.* * Traduzione del sonetto 135 scritto da: Dareios Han tutte i loro belli, e tu il tuo Billy Poi l’altro Billy, e poi billi in eccesso. Io son di più, per quanto io t’assilli Per esser membro ammesso nel consesso. Sei di vedute ampie, spalancate, Mi accetteresti il fallo nel tuo vallo? Le virtù d’altri vengono apprezzate E sulla mia non brillerà il tuo avallo? L’oceano abbonda d’acque eppure accoglie Nel suo bacino piogge a suo piacere: Così anche tu, che hai colto molte voglie, Fallo con me e allargati il carniere. Non rifiutare grazie ai tuoi pupilli, Ma abbraccia tutti, e me, che anch’io son Billy. Un testo va giudicato per ciò che è, non per gli obbiettivi che l’autore si prefissava. Tuttavia, per completezza, vi dico che il mio scopo era quello di conservare la metrica, per quanto possibile il significato con le ambiguità, i doppi sensi e gli ammiccamenti del testo originale, e un po’ le allitterazioni e i giochi fonetici, correndo il rischio di arrivare lontano da tutti i bersagli. Vi allego il testo originale, qualche nota mia, e un paio di link. Non mi resta che dire: Beh, io ci ho provato... Whoever hath her wish, thou hast thy Will, And Will to boot, and will in overplus. More than enough am I, who vex thee still To thy sweet will making addition thus. 293 I Giovedì di Scrittura Fresca Wilt thou, whose will is large, and spacious, Not once vouchsafe to hide my will in thine? Shall will in others seem right gracious, And in my will no fair acceptance shine? The sea, all water, yet receives rain still And in abundance addeth to his store; So thou, being rich in will add to thy will One will of mine to make thy large will more. Let no unkind no fair beseechers kill; Think all but one, and me in that one Will. Note: Questo sonetto appartiene a quelli dedicati da Shakespeare alla misteriosa Dark Lady, sulla cui identificazione sono stati inutilmente versati fiumi e fiumi di inchiostro (e un buon numero di reciproche scomuniche accademiche.) A me piace pensare che fosse la veneziana Emilia Bassano, poetessa, musicista, moglie infedele del musicista Alphonse Lanier (detto William?), e raffinata amatrice provvista di chiome nerissime che mandavano in visibilio i biondastri d’Albione. La parola su cui si gioca tuttto è will, che compare in media una volta per verso (compresa l'occorrenza della forma coniugata wilt), e che in inglese elisabettiano vuol dire volere, volontà, benevolenza, desiderio, arrapamento, pene, vagina, oltre ad essere il diminutivo di William, il nome del poeta e (secondo la mia interpretazione) quello del marito della donna (il tuo Billy) e di un altro suo amante (l'altro Billy, forse il lovely boy che compare in altri sonetti di questo ciclo.) Nella trascrizione del testo originale ho scrittto Will maiuscolo dove mi sembrava preponderante il significato di nome proprio, ma è un’operazione arbitraria, perché in tutti i casi tutti i significati sono compresenti e ammiccano l’uno all’altro. Il mio gusto è stato, più che tentare una traduzione in partenza impossibile, quello di studiare in profondità un testo così disperatamente pieno di doppi sensi, che pongono problemi insolubili quasi ad ogni parola. Dato che non ci sono abbastanza documenti, non si giungerà mai a conclusioni certe (il senso del viaggio sta nell’andare, non nell’arrivare,) quindi non ha senso che vi annoi con altri dettagli, se non due brevi spunti. Un punto di partenza per l’approfondimento del testo originale è http://www.shakespeares-sonnets.com/135comm.htm, anche se le interpretazioni 294 I Giovedì di Scrittura Fresca preferite in quella pagina sono diverse da quelle alla base della mia traduzione. Poi, provate a googlare Lanier Bassano Rowse. Poi… Un ultimo cenno: non ho trovato su internet commenti che mettessero in luce l’aspetto recitativo dell’originale, quindi ne faccio qui un esempio tra i tanti: al verso 5 whose will is large può significare sia la cui fica è larga, sia la cui benevolenza è grande; il declamatore deve qui fare una sapiente pausa, e poi aggiungere and spacious che disambigua il tutto e rende il significato sessuale predominante, se non l'unico possibile. Una recitazione abile può salvare qualunque testo, spero anche la mia traduzione... Dedicata a Giuseppe Gioacchino Belli, che non era Billy, ma quasi... 295 I Giovedì di Scrittura Fresca PELLE MORBIDA scritto da: Vittorio Fioravanti “Tutto ciò mi mette una nostalgia terribile di quando ancora gli uomini ci provavano come si deve invece di star lì ad aspettare che gliela spalmino in faccia per paura di un rifiuto.” MAMBO *** Color camoscio striata di bruno la coscia vellutata che m'apri alla mano L'odore che emano vinto dal tuo urgente profumo sospinto dalla corrente tra parole ed abbracci nelle mie nari accese desiderio che affiora come spuma nei calici fra la gente che hai intorno Non siamo soli ma osiamo senza guardarci in viso appena un'intesa di ciglia nere e la piega socchiusa delle tue labbra l'accenno ad un mio sorriso fra le spalle e le schiene di chi brinda ignaro Pelle morbida di sconosciuta tra le mie dita audaci penetranti carezze spinte baci sfiorati nel buio d'un obliquo spiovente riquadro ignorando suono di nomi 296 I Giovedì di Scrittura Fresca di ruoli di veti e legami tralasciando ogni appiglio senza un passato tra noi né un giorno dopo carpire entrambi il momento che sfugge senza ritorno 297 I Giovedì di Scrittura Fresca 298 I Giovedì di Scrittura Fresca UN GRAZIE A TUTTI I PARTECIPANTI Arrivederci alla prossima edizione… 299 I Giovedì di Scrittura Fresca