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I GIOVEDI’
DI SCRITTURA FRESCA
Scrittura a soggetto
Ia Edizione
Da una idea di Dolphy
Grafica di Ettore Bilbo
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I Giovedì di Scrittura Fresca
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Zero 04 Febbraio 2005
LOVE DAY
Hanno partecipato:
Rossana
Un blues
Nicola Martini
What love is
Dolphy
You don’t know where love is
Mare Mosso
Se passi da me
GruppoMistoAttack
Vivere (suicidarsi d’amore)
Nick Damone
Stupide parole (d’amore)
Dario Carta
I just wanna feel real love
Umberto Bertani
Love bites (per Rob Halford)
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN BLUES
scritto da: Rossana
Timida, in una ubbidienza inusuale lo ascoltavo.
Ci sono uomini che nella vita attendono e ci sono quelli attesi. Lui era atteso.
L’animo elegante, la seduzione della serenità rapiscono ogni comune mortale.
Un orizzonte levigato, linee di confine tracciate su ombre oltre le quali è impossibile
accedere, sono il fascino eterno
Anche il suo. Invalicabile, solido. Nessuno smarrimento, solo piena consapevolezza
di essere LUI e non solo.
"Step by step", dicono gli americani. Musicalità di una vita forse poco attraente, ma
viva.
Nel passodopopasso, nella metodicità, in una quotidianità rassicurante come le mura
di una vecchia casa, dove secoli di storia recuperano il tempo e la distanza è una
confidenza che non ci appartiene, abbattendosi con un semplice trillo, incontrai
Francesco.
“Incontrato” è forse eccessivo, ma di sicuro aveva suscitato in me quel melanconico
desiderio di familiarità che ognuno, se pur temendolo, ricerca avidamente. Come
avvenne poco importa, eravamo lì, con il ricevitore in mano, ed altro non c’era. Se un
telefono è da sempre l’esasperazione di una simbiosi bucolica, lui era la semplicità. Il
tradimento, svelato da surrogati di nobili sentimenti trova in questo mezzo la sua
apoteosi. In Francesco, no.
Non mi sottraevo e lo ascoltavo, ancora, mentre Bessie Smith insisteva nella
comunione.. .
C’è chi nella notte assorbe il colore vedovile dell’oscurità e chi si inebria della grazia
trasparente di astri che macchiano il cielo con casualità. Questo era Francesco.
Aveva sete , disse.
Lo sentii allontanarsi..
Le dita sfioravano il bordo del bicchiere, e in uno strofinio la grappa, fluttuando,
rimandava la melodia di quel blues, per compiacerlo. Se anche non fosse stato così,
immaginarlo era sublime e gli apparteneva.
Pensai alle mani. Movimenti persuasivi, a volte, forse, giudici intransigenti, ma mai
sventati. Nessuno avrebbe potuto darmi la certezza di chi fosse veramente
quest’uomo all’altro capo del filo, eppure l’inspiegabile a volte è l’unica verità.
Si è fedeli a noi, e questo basta per non chiedersi altro.
Mentre la conversazione si spostava da un pudico narrare episodi lontani alla
celebrazione di due seni visti, o sognati, in un’ironia che era ancor più seducente del
fatto stesso, mi resi conto come la fonesi, vera, un po’ sorda, non scadesse mai in
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I Giovedì di Scrittura Fresca
propagande ammaliatrici.
Chissà... LeRoy Jones forse, ascoltandolo, avrebbe orchestrato nuovamente il suo
Black, difendendone la malizia.
Fedele ai confini, alle accurate attenzioni , mi restituiva con i suoi dissensi e
approvazioni, una fiducia che è propria del bambino, dove anche il cinismo più
abietto, conserva l’odore pulito e neanche illusori prodotti sostitutivi potranno mai,
negli anni, risarcirne quella purezza.
Sì, puro. Puro come un blues. Questa fu la conclusione. Non volevo esaltare ciò che
si anela , solo constatarne la bellezza straziante. Principi intelligibili, che spesso
incatenano il passato, slacciano le funi riformando l’armonia. Ed ecco la meraviglia
prendere corpo.
Lui.. un blues, sì..
Se i buon pensanti ritengono che gli occhi siano lo specchio dell’anima, la voce ne è
la divulgatrice.
Arrivammo alla “buonanotte” in un saluto tenero.
Chiusi gli occhi…… Il corpo aveva intiepidito le lenzuola , abbandonando il gelo.
Spensi la luce.
"C'erano uomini su di me e molti altri usavano la frusta ... adesso tutti vogliono
sapere perché canto il blues ..." B.B .King
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I Giovedì di Scrittura Fresca
WHAT LOVE IS
scritto da: Nicola Martini
Che cosa è l'amore?
farti male col silenzio
devastarti con le parole
che cosa è l'amore?
è lo stomaco che fa il casqué
la pelle gelida
la testa che frulla
il cuore che si inceppa
le gambe immobili
le mani vuote
l'anima che corre
il sole a mezzanotte
la luna dentro il vento
ridere ad uno sconosciuto
odiare il proprio amico
ballare in ascensore
piangere da soli,
è quello che ci fotte.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
YOU DON'T KNOW WHERE LOVE IS*
*con la complicità di Billie Holiday
scritto da: Dolphy
Vagano nel silenzio
pensieri mixati
annullati ridotti
a grigia poltiglia
senza tempo
Night and day
Notti solitarie
giorni caotici
un telefono muto
E lei canta
Voce suadente
che avvolge l’anima
My Man
Un sax fraseggia
accompagna la sua voce
i miei pensieri
He ‘ll look at me and smile
Canta
Chiunque tu sia
in qualsiasi parte della terra
mi manchi da morire
Sussurro
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I Giovedì di Scrittura Fresca
SE PASSI DA ME
scritto da: MareMosso
Se passi da me, stasera
vieni pure a mani vuote
non sei un ospite
non c’è bisogno di fiori o cioccolatini
Se passi da me, stasera
troverai un abbraccio caldo e un sorriso sincero
niente trucco sul viso
né abito da sera
capelli al vento e scalza
a piede libero a casa mia
Se passi da me, stasera
non sarà una visita di cortesia
né una tappa intermedia tra me e il letto
Se passi da me, stasera
mi troverai così come sono
così come mi vuoi
Ceneremo a lume di noi
mangiandoci con gli occhi
senza fretta
menù curato nei minimi dettagli
E domattina a colazione
respirerò il tuo sorriso
annegato nel tuo profumo
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VIVERE (SUICIDARSI D'AMORE)
scritto da: GruppoMistoAttak
Donna onesta
e madre esemplare
(all’apparenza)
Sicuramente figlia
(prediletta)
T’innamorasti
senza una ragione
scegliendo di sfidare
il mondo
E niente rimpiangesti
Volendo vivere
suicidandoti d'amore
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I Giovedì di Scrittura Fresca
STUPIDE PAROLE (D'AMORE)
scritto da: Nick Damone
Tu hai una casa al mare
io non ti conosco
- che significato ha poi questo verbo –
ma sarebbe bello, insieme a te
sedersi sulla sabbia, fuori stagione
E allora eccoci qui
il mare grigio più che blu, a pochi metri
il sale, l’umidità
mentre ti parlo io gioco con la sabbia
come al solito, sembro distratto
invece non lo sono affatto, ma mi imbarazza
reggere troppo il tuo sguardo,
sono come un attore di teatro che ha bisogno della controscena
le mani nella sabbia a cercare sicurezza
a cercare parole come perle nascoste
Sarebbe bello accendere un fuoco
- io sono bravo ad accendere fuochi –
e allora raccattiamo un paio di ceppi
sperando non siano troppo umidi
così il tepore smorza l’umidità sui nostri maglioni
e nelle nostre ossa
ed io così ho un’altra via di fuga per lo sguardo
- un seduttore vile, si è mai visto? oltre alla sabbia e al mare che gorgoglia
e a qualche albero, dietro la spiaggia
Sarebbe bello, insieme a te
sedersi sulla sabbia, fuori stagione
e anche fuori tempo massimo, in un certo modo
che non abbiamo più vent’anni
E può sembrare un po’ diverso
allora, si raccontava quel poco di vita alle spalle
e poi si parlava dei sogni
delle speranze, dei desideri
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Ora si parla della vita lasciata alle spalle
dei desideri che il tempo ha frustrato
e di come ci sentiamo migliori
di quanto la nostra vita
non dica di noi
Alla fine, però
il fuoco che crepita
il mare che brontola
la sabbia che ovatta
Alla fine noi due
siamo un uomo e una donna
Alla fine
le parole
i brividi
e i gesti, non sono poi così diversi
dalle volte in cui si aveva vent’anni
Alla fine
risuonano promesse già sentite
e baci
e sussurri
Il mare, a pochi metri,
ripete
come noi
stupide parole,
sempre uguali
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I Giovedì di Scrittura Fresca
I JUST WANNA FEEL REAL LOVE*
* “Feel” – Robbie Williams
scritto da: Dario Carta
Ho letto vene
scorrendo il segno del dito
premuto
scavato a impregnarsi
Ho scritto
il verdeblu rigonfio e pulsante
a radicare
sottopelle
Ho imparato a percorrermi stanze
in cui vivere
in cui morirmi dolce
di terra bruna dal respiro d'acqua
Secolare morte
disegnata su ogni cerchio
mascherando il tempo
predica
preghiere di sughero
a tapparmi aroma ombroso e fresco
di-vino
I just wanna feel real love
Voglio solo sentire amore puro
gemere gemme fuori
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LOVE BITES - (PER ROB HALFORD)
scritto da: Umberto Bertani
La musica martella
l’insieme decisamente virato al nero lucido.
I materiali assumono un ruolo basilare, decisivo.
Hai provato a colpirmi a mano aperta
ho percepito lo spostamento e il tuo sorriso viola
afferrando a mezz’aria gli artigli laccati.
Assapora la parola gutturale
è un respiro lento, strascicato dalla trachea infiammata di fumo
attraverso il locale tempestato di suoni e carne
i tacchi a percuotere varia umanità dimenticata.
La musica martella frammenti acuti di decibel scagliati a forza.
Mattonelle avariate
solfato d’argento macchiato da scritte, nessun riflesso di noi
ti sono alle spalle mi regali un sorriso slabbrato
cauterizzato dal trucco.
Lento inesorabile scricchiolare di costole.
Ansimi.
Non qui.
Nessuna resa mai.
Troppo tardi.
Sento il tuo cuore, lo sento vibrare, scalciare impazzito
ti appoggi al muro, mi basta una lama sottile e il latex cede di schianto.
Rovesci la testa all’indietro
mentre esigo il tuo sesso
nutro la mia sete millenaria.
Zanne affilate
vaghi ricordi di foreste lontane, carne violata.
Noi siamo leggenda.
Bevo.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Uno 10 Febbraio 2005
O D I O
Hanno partecipato:
Dario Carta
Non si tratta di te
Leone
Girovagando
Sally
O-D–I-O
Uomo Pallido
Odio chi ti ha lasciata sola
Rossana
Io Rorschach
Nicola Martini
Un pezzo d’odio
Edonista
Noi, Due in uno
Stefano Dal Pra
oDio
Ettore Bilbo
Vestito
Carmen M.R.Di Lorenzo
La vendetta per giornata dell’odio
Doremi
L’odio
Quella
L’ultima notte
Angelo Scotto
La trilogia dell’odio
Un piano perfetto
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I Giovedì di Scrittura Fresca
NON SI TRATTA DI TE
scritto da: Dario Carta
Quando stavo
E solo quando immobile
stanavo ogni puntoluce
per opprimerlo
Allora il sapore basico
del palato spendeva
tristi prologhi alle lacrime
Non era vuoto
l’odore sintetico strofinato
sul cotone
e riempiva le mani
del sangue sottopelle
a frangere
Da non poterle avvicinare
- vetro - agli occhi
E in quel taglio sottile
d’angolo incavo
liquido
compresso dal sopracciglio
carico
Mi morivo
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I Giovedì di Scrittura Fresca
GIROVAGANDO
scritto da: Leone
Odiavo
tanto le scadenze
che mi sono persino inventata un sodalizio con l'eternità
sperdendo intorno tutto ciò che l'effimero richiamava.
Amavo odori, soffio di aria diversa colta in passeggio tra prode in campagna,
o anche di scalogno in sofferenza dentro pentole di cucine a piano terra.
Odiavo profumi, i persistenti bastardi, che si celavano in orli di gonne corte o in
incavi smerigliati di belle ragazze,
nascosti in vaste trappole di reggiseni, di pizzo e neri, per signore in climaterio
precoce.
Perversi, i profumi sottili, dissolti da altra essenza in doccia che cancella aromi di
pelle purificata che il sudore non vuol conoscere.
Poi,
insieme con,
ho odiato la grazia che mi era stata data
ad odiare scadenze
e patti d'eternità
senza poter recuperare fenomeni.
Ora, di spalla,
qualcuno corregge Anna, lei, che quando l'ho conosciuta, sedeva su tre gradini di
spalle ad una casa, guardando
querce là su una ripa grigia, tormentando
una gonna lasciata sciolta in mille pieghe.
Finalmente!, pareva dire lei, stretta
in tessuti di diversa struttura e spessore per una vita.
E piegava spiegando, parlando di cose
ch'io non capivo, diceva
persone vive mentre le seppelliva in piega sfogliata, due orli a combaciare.
Tutto tenuto in un grembo inventato
da due ginocchia in divarico, un incavo le cosce d'origine,
due piedi, che neppure l'età o salite o discese
erano riusciti ad appiattire, la fine.
Ti odio, Anna.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
O-D-I-O
scritto da: Sally
Ascolta il mio sussurro, o-dio
od-io potrei urlare
tutta la rabbia
che ribolle sorniona.
Lo odi-o devo sputare
il disgusto profondo
per questa razza immonda?
Implacabile l'odio rimane
Sulle rovine di ciò che fu Terra.
ODIO CHI TI HA LASCIATA SOLA
scritto da: Uomo Pallido
Io odio
chi ti ha lasciata sola, particella
di sodio spersa in acqua minerale.
Sei così bella. Ti regaleremo
qualcuno che ti sappia consolare,
un'altra particella da sposare:
un bello ione Cl meno
- così la vita avrà un po' più di sale.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
IO, RORSCHACH
scritto da: Rossana
Volevo un resign. Troppo tardi.
Scostai le tende della finestra così che la luce filtrasse dal vetro smerigliato, rendendo
ancor più poetica la visione. Un sospiro e la sensazione, il ricordo, la percezione di
una macchia
La maggioranza avrebbe provato disgusto all’odore aspro e sempre mal tollerato del
sangue. Io, assaporandolo, avvertivo invece la pastosità di uva passa che punzecchia
la lingua , lasciandoti una secchezza fastidiosa ma desiderabile.
Guardai lei e la sua macchia, immagini che si fondevano nel tentativo di riproporre
ricordi.
Perdendo la definizione , si annullavano i lati oscuri del nostro vivere insieme. Avrei
voluto ripiegarla in due, in modo che il rispecchiarsi simmetrico del corpo potesse
restituirmi la memoria.
Mi inquietava il non riuscire a tracciare una strada cognitiva e legare l'immagine alla
psiche. Avevamo vissuto venti anni di convivenza e avevo dato per scontata una
conoscenza assoluta. Non era così.
Un proiettile apre un’immagine diversa da un coltello ed un suolo marmoreo non
assorbe il rosso generato da un corpo esile.
Tentai di ricomporre la figura, e ripiegandola evitavo le ombre che distoglievano
dall’armoniosità, quasi perfetta, della sua grazia. Nessuno avrebbe potuto smontare la
proiezione . Solo io ero l’arbitro insindacabile .
Presi la lama, artefice di quell’opera d’arte, e nell’impronta, sbavata sulla carta
assorbente, riconsegnavo esattamente la Signora Rorschach del pavimento. Sì, mia
moglie.
La sindone….Come potevano le antiche culture considerare impuri gli oggetti che
erano stati a contatto con i cadaveri? Non me ne capacitai..
L’avevo davanti : l’ulteriore richiamo, la tensione dinamica, assolutamente bilanciata:
Specchi di specchi in una simbiotica comunione, ma non completa. Dovevo
raggiungere la perfezione.
Capii la mancanza.
Pulii il coltello, e ricamai una stella nell’avambraccio. La mia uva passa colò,
mescolandosi in quel tripudio di vendemmia, mutando l’incompiuta Rorschach
La gioia di aver dato soluzione all’enigma di un affetto pregno di dubbi, giustificò la
morte.
Nessuno mai avrebbe compreso che in una realtà tanto contraddittoria e
imprevedibile l’innesto di due macchie ridanno la forma elementare dell’amore.
Io, Rorschach, la trovai
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN PEZZO D'ODIO
scritto da: Nicola Martini
L'idea mi girava in testa da un po', volevo rifarmi ad una scena del film Closer.
Rimaneggiarla e tirarne fuori un pezzo erotico. I due protagonisti che si fronteggiano
dopo la confessione di lei: ho un altro.
Intendevo stringere l'attenzione sulla gelosia, rendere l'idea di come, in quel momento
preciso, scatti il pugno nello stomaco, la botta forte. Quella della propria donna fra le
braccia di un estraneo.
Domande, per farsi male. Farne a se stessi in una ricerca spasmodica e veloce del
sapere ad ogni costo.
Costringendola a rispondere.
Ci hai scopato?
E' più bravo di me?
Ti ha fatta godere?
Che gli hai fatto?
Le stesse cose che fai a me?
E la raffica di risposte.
L'odio che monta dal cazzo al cervello, dal cervello al cuore. Schizza come un
disperato, e ne vedi le macchie sull'anima.
Fratello, ti stanno massacrando, dice una voce che non conosci.
E poi non si pretendono più repliche.
Mi avvicino. Non sono carezze, è afferrarla e buttarla sul letto.
E' baciarla come se la lingua fosse spada, come se la saliva fosse sangue a macchiarle
le labbra.
Cominciare a fotterla e proseguire a fotterla.
Distesa, a braccia aperte.
Colpi, solo colpi, colpi dentro.
Fino a che le sue braccia si chiudono su di me.
Fino a sentirla sussurrare: ti amo.
Vedere i suoi occhi di un altro colore, anche se il colore non lo hanno cambiato mai.
E la sua voce: non è vero.
Non è vero, cosa?
Non è vero che ho fatto l'amore con un altro.
Il concetto di base era questo, adeguatamente sviluppato a tema odierno, mi pareva
potesse funzionare. L'elaborazione della gelosia in momentaneo livore. Al ché ho
cominciato a pensarci, col foglio bianco davanti. Ché prima butto giù su carta e poi
trasferisco al PC, la primissima stesura è sempre su foglio.
Ma il pensiero mi è piombato addosso, mentre vedevo la situazione nella mia testa.
L'avevo davanti agli occhi, come se la stessi guardando su un monitor.
Il desiderio mi ha preso e non sono riuscito a scriverlo, il pezzo sull'odio.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
NOI, DUE DI UNO
scritto da: Edonista
- Ti hanno mai scoperto, amico? O dovrei dire amica?- Fai tu, per me è lo stesso - Ok, allora scelgo amico - Non ho mai fatto nulla per nascondere chi fossi. Qualcuno sapeva. Per altri ho solo
utilizzato la tecnica dell’omissione.
- E poi? - Poi non ho più omesso - E cosa è successo? - Che sono morto. Ogni tanto ci torno dentro.
Un gesto velocissimo rovescia il guanto giallo di gomma e la mia anima cambia
sesso. Divento l’uomo sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente, l’amico
di un tizio che saluta i treni con la coda di cavallo.
Io sono un canto senza padrone. L’ho detto tanto tempo fa e lo confermo. Nel dritto e
nel rovescio del guanto. Nella mia anima femmina e maschio. Nell’alternanza dei
giochi di ruolo.
Io parlo a testa in giù. Sempre. Quando le parole vengono direttamente dalla pancia
tanto vale agevolarle.
Io sono la risposta sbagliata. A tutte le domande. Probabilmente perché sono
l’affermazione. Della negazione.
Io sono la mezzanotte del fiume. Aspetto tutte le sere l’uomo in frak. Poi, quando la
gardenia si tuffa, andiamo insieme verso il mare.
E oltre.
Io non ho più fiato per ascoltarmi. Io sono un’intercapedine di parole. Parlo con gli
occhi e non mi vedo.
Io sono un vespro clandestino. In cerca di una chiesa che obliteri il mio permesso di
soggiorno.
Io ho infiniti punti dispersi tra le ascisse e le ordinate. Miliardi di ritagli di guanti
gialli. Dita vuote nel dritto e nel rovescio di una vita di gomma.
Io sono il non vento di un mulino a vento.
Io sono la sbarra del passaggio a livello di un binario morto. Osservo immobile. E
inalo luoghi dove andare a male.
Io ho pensieri di carta pesta che vivono di colori spenti. E muoiono di luce riflessa.
Io ho un albero in giardino e un bastoncino di legno alla gola. Il primo mi serve per
pensare. Il secondo mi serve per scrivere. Inchiostro finto su pezza.
Io sono attento alla cosmetica del nemico. Studio e aggredisco da dentro. Come un
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I Giovedì di Scrittura Fresca
virus.
Io vivo nel posto del buio e mi nutro di similitudini avverse. Correnti e tentacoli.
Io sono l’ago impazzito dentro una bussola di pelle bagnata.
Io sono l’acqua del mare.
Poi che la bevvi.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
oDio!
scritto da: Stefano Dal Pra
Spesso è così: quanto più è scomoda da udire, tanto più una verità è utile da dire
André Gide
Sono condannata. Sarò eliminata fra poco, e nessuno saprà più di me, e del mio
messaggio. Non ho avuto vita facile, mai; ma prima di trovarmi qui, da libera, si
poteva dire quel che si voleva, e non si faceva male a nessuno, almeno questo è quel
che credo oggi. Sì perché ce n'erano davvero un sacco come noi, e ognuna diceva la
sua, con l'effetto buffo d'annullarsi a vicenda, col risultato d'essere, per così dire,
quasi mute, come una folla d'oratori al mercato, dove nessuno badi per davvero a quel
che si dice o si fa. Poi venne quest'idea dell'ordine. Gran cosa l'ordine. Uno sa com'è
fatto il Mondo e così fa ordine. Sa cosa esiste davvero, e sa in quale posto deve stare
qualsiasi cosa esista. Così può fare ordine. Che gran comodità, l'ordine! Basta
intralci, sgradevoli sorprese, scomodità. Quando c'è ordine si sta tranquilli, e la
coscienza può riposare beata, senza darsi pensieri imprevisti.
È così che sono finita qui: il Mondo non ammette la mia esistenza. Intendiamoci, non
sto mica dicendo che sono un fantasma, o un borborigma di fantasia malata... No, io
parlo del Mondo di chi mette ordine: l'ordinatore (permettetemi: permettetemi, solo
per questa volta d'abusare un francesismo, cosí per vezzo, e di chiamarlo ordinateur)
prende quel che trova, lo riconosce e individua la sua collocazione nel Mondo che sa
Lui, e lo mette al suo posto.
Poi, una volta, sono capitata io tra i suoi piedi e... Voilà, salta fuori che l'ordinateur
non trova un posto per me, per mettermi in ordine. Pensavo che si sarebbe creata una
nuova casella, pensavo che una categoria nuova avrebbe figurato nel cristallino
Mondo dell'ordinateur, creata per posizionarmici mettendo, anche me, finalmente, in
ordine. E invece no. L'ordinateur, non trovando una collocazione comoda, ha
concluso che non esisto, che sono fuori dal Mondo, e ha deciso di eliminarmi. Sí
perché l'ordinateur ha questo potere, che per fare ordine colloca le cose, e allora sono
cose di Mondo, belle in ordine, oppure le elimina perché non esistono, non
hanno possibilità d'essere nel Mondo che Lui sa. Ammettermi sarebbe un pericolo per
il Mondo (il Mondo con la M maiuscola, è quello dell'ordinateur, il mondo è quello
fuori, con tutto quel caos, quel disordine...).
Insomma, quando trova qualcosa che non sa dove mettere, l´ordinateur lo elimina,
per la salvezza del Mondo. Questa è la legge dell'ordinateur.
Eccomi qua, adesso; sono in lista di proscrizione, sto per essere eliminata. Sono un
fallimento per il Mondo, sono un'idea fuori dal Mondo e non c'è posto per me, in
questo sistema.
Sono l'idea che si possa mettere ordine, a questo Mondo
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VESTITO
scritto da: Ettore Bilbo
Lei mi odia da quando sono nato, sì più o meno direi da allora.
Mi guarda con quegli occhi accesi, la testa reclinata a tre quarti mentre fa tutt'altro.
Fa sempre altro mentre mi guarda, deve farmi sapere che io non sono il centro del suo
universo ed anche se mai ho voluto esserlo, che c'entra, l'importante è il principio.
Sentire addosso questo vestito diventa elettrizzante col tempo, diventa un buon
motivo per svegliarsi al mattino e sperare di arrivare a sera. Sentire riprodotti nella
mia mente tutti quei bisbigli ed invettive, che mi rivolge nella propria mente, è come
potersi raccontare attraverso la voce di qualcun altro. Lei è il mio più grande sostegno
e non lo sa. O forse sì...
Lei mi odia.
Lei, mia madre.
LA VENDETTA
scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo
La vendetta è l’infausto
rigurgito dell’offesa
che genera odio.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
L'ODIO
scritto da: Doremì
L'odio: quer sentimento
che te corazza er core
che te fa duro er mento
(contrario dell' amore
che l'anima te sforma
er mento te lo stonda
che soridi de norma)
ma l'odio è come n'onda
de iodio e sale vivo
te dà quer gusto strano
de sentitte cattivo,
feroce, subumano.
E sogni la tua festa:
incontri er tuo nemico
je dai un mozzico in testa
j'enfirzi l'ombellico
poi legato alla sedia
lo lasci, da cojone
morire per inedia
alla televisione.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
L’ULTIMA NOTTE
Scritto da: Quella
Morte per coma etilico. C'era solo una cosa che non quadrava. Una sola. Si sarebbe
potuta rivelare una balla, ma quella cosa ancora suonava stonata nella semplicità del
caso, un'overdose etilica. Era quasi certo che fosse una balla, l'ispettore Blowing,
quasi. Però la madre insisteva: la figlia era astemia, l'avrebbe gridato fino alla morte.
L'aveva dichiarato sin dal giorno del referto dell'autopsia, sconvolta dalle cause che
avevano determinato la morte. L'aveva ripetuto con determinazione ancora quella
mattina quando, in centrale, era ritornata alla carica. Tossica sì, fino al midollo, dieci
anni di calvario, lo sapeva bene la madre. Una vita dentro e fuori dalle comunità,
fuori e dentro casa. Furtarelli, prostituzione. Il solito curriculum. Come odiare se
stessi e rendersi infelici. Le prime testimonianze confermavano. La Tonelee tossica lo
era senza ombra di dubbio. E confermavano anche che l'alcol la disgustava
addirittura, mai nemmeno un bicchierino. Era possibile? L'ispettore Blowing ne
aveva conosciuti pochi di tossici astemi. Magari non erano tutti accaniti bevitori, no,
non era affatto detto che fossero alcolisti, ma non era necessario esserlo per farsi
come spugne ogni tanto, magari per accompagnare l'ultimo viaggetto. Tutto
sommato, lui non ci credeva. Vanessa Tonelee era un'indiana nativa americana,
un'emarginata, una tossica, una prostituta, una sbandata, e l'alcolismo era una delle
piaghe della comunità. E una madre è sempre una madre.
L'ultima persona ad averla vista, proprio in quella stanza dove avevano rinvenuto il
cadavere, era stato l'uomo con cui aveva passato la notte. L'avevano già interrogato.
Uno sfigato, una nullità. Barbiere, cinquantasette anni, l'aria dimessa e grigia dello
scapolo abitudinario, viveva del suo lavoro. Nessun precedente penale. Non avevano
fatto troppa fatica a rintracciarlo. Andava abitualmente con le prostitute della zona,
non aveva avuto problemi ad ammetterlo. Il nome della Tonelee non gli diceva
niente, o almeno così affermava. Ma dalle foto l'aveva riconosciuta. L'aveva lasciata
all'albergo, una topaia, verso la una di notte. Il decesso risaliva a qualche ora dopo.
Le dichiarazioni degli altri clienti dell'albergo a ore facevano riferimento a un
tramestio, non proprio delle urla, anzi, qualcosa che era sembrato più che altro un
festino, insomma rumori. Normale amministrazione in un posto come quello. Quel
casino proveniente dalla stanza della coppia occasionale, sempre secondo le
testimonianze, era cessato più o meno intorno all'ora in cui Virgil Wolf aveva
dichiarato di essersene andato dopo aver pagato la ragazza. Erano arrivati alle undici,
aveva detto. Per scaldare la serata, avevano iniziato a bere. No, non avevano fatto
sesso. Avevano bevuto troppo. La ragazza, poi, continuava a buttar giù pasticche. Lui
aveva cercato di dissuaderla, minacciando di piantarla lì senza un soldo, ma lei aveva
continuato a bere. Lui aveva alzato la voce e aveva fatto per togliere di mezzo le
bottiglie, ma a quel punto lei aveva preso a insultarlo. Spaventato per la perdita di
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I Giovedì di Scrittura Fresca
controllo della ragazza, se n'era andato, lasciandola completamente sbronza e fatta
nella camera, che lui aveva pagato in anticipo. Non ricordava di aver notato
qualcuno.
Il bambino se ne stava in braccio alla nonna. La signora Tonelee parlava con la
lentezza di chi ne aveva viste troppe per perdere il controllo davanti allo sfacelo, e
ritornava a battere sullo stesso chiodo: è stata uccisa. Il bambino se ne stava quieto
sul suo petto. Blowing si chiese se, anche senza capire, fosse in grado di assorbire le
vibrazioni sentimentali del suo colloquio con la donna, negative a dispetto della
pacatezza dei toni. In quei quattro giorni, abbarbicato al collo della nonna, quel bebé
doveva aver sentito più cose sulla morte violenta della madre, forse assassinata, di
quante ne aveva sentite lui nel primo mese alla scuola di polizia.
Dalla scientifica, il quinto giorno, l'esame del tasso alcolemico aveva spezzato ogni
residuo dubbio sulla stranezza del caso.
La concentrazione di alcol nel sangue della vittima aveva dell'incredibile e
sorpassava di gran lunga le dosi consigliate a chi volesse spararsi nel mondo eterno
dei sogni con un'overdose. L'alcolemia era del 14%, quando bastava meno della metà
di alcol nel sangue per provocare un arresto cardiocircolatorio. Come aveva fatto la
Tonelee a spararsi la restante percentuale, posto che doveva essere fuori
combattimento da un pezzo mentre il whisky ancora scorreva? Mai sentito niente del
genere, Blowing. Il caso non era chiuso. Qualcuno aveva fatto fuori con una botte di
superalcolici Vanessa Tonelee, una tossica astemia.
Le indagini erano ritornate a orientarsi sulle frequentazioni occasionali dalla vittima.
Blowing aveva ordinato a Berg di fare una ricerca su eventuali casi simili, ragazze
morte per overdose alcolica negli ultimi quindici anni. Era stato rintracciato un altro
saltuario cliente dei periodi bui della ragazza, Arty Capace, un quarantenne
borderline con precedenti davvero poco raccomandabili. La perquisizione
dell'abitazione di quest'ultimo aveva rivelato interessanti reperti pornografici. Wolf, il
prezioso ultimo testimone, era stato nuovamente sentito, ma non c'erano indizi
concreti a suo carico. La stranezza dell'uomo, controllato e disponibile, quasi
untuoso, di un ordine maniacale nella sua bottega, era per l'ispettore Blowing
qualcosa di indefinibile. Ne aveva ordinato l'immediata sorveglianza.
Berg era un agente eccezionale, nonostante dicesse di odiare quel lavoro. Il ruvido
Blowing gli voleva bene, ma sperava che ottenesse il più tardi possibile il
trasferimento dalla sezione, anche se conosceva i seri motivi familiari e personali per
i quali ne aveva fatto richiesta. Del resto, lui stesso non ce la faceva più. Allo
squallore e alla violenza non ci si abitua mai veramente, non se li vuoi combattere
davvero; c'erano colleghi a cui piaceva, ma quelli erano entrati in polizia, sospettava,
perché in fondo erano loro stessi violenti, ma non gli piaceva avere noie.
Gli veniva in mente il bambino piccolo, il figlio della Tonelee che assorbiva
impotente dal petto della nonna tutto quel dolore, quella rabbia. Ma lui non l'aveva
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I Giovedì di Scrittura Fresca
mai pensato davvero di andarsene. Si sentiva troppo bravo per farlo. C'erano le
sconfitte, le fregature, ma erano più frequenti le vittorie, i casi risolti, i criminali
inchiodati. Anche se poi… anche se poi troppe volte, nella fase processuale,
riuscivano a cavarsela. Non per colpa sua, però. Non per la sua inadempienza. Era un
tipo ostinato, che non mollava l'osso. Troppo ostinato per lasciarsi sfuggire
un'intuizione, troppo ostinato per mollare quella sezione tetra. Questa volta, però,
c'era mancato poco. Se non fosse stato per l'ostinazione, nongià sua, ma della signora
Tonelee, l'assassino ora avrebbe dormito più tranquillo. Wolf era apparentemente
tranquillissimo, almeno di giorno, ma chissà se le sue notti lo erano altrettanto.
Capace era un tipetto molto diverso, invece. Spaventato, quasi paranoico, aggressivo.
Anche lui era stato messo sotto sorveglianza.
Dall'indagine d'archivio dell'agente Berg, erano emersi altri quattro casi di ragazze
decedute per coma etilico. I loro profili erano molto simili a quello di Vanessa
Tonelee. Solo una delle quattro ragazze, Janine Parker, era un'americana bianca e non
aveva precedenti di sorta. Le altre tre erano ragazze sbandate di origine indiana,
alcoliste, dedite alla prostituzione; due di esse, come la Tonelee, erano anche
tossicodipendenti. Berg aveva già passato al vaglio i dossier delle inchieste, le
trascrizioni degli interrogatori dei testimoni. Nessuno dei quattro casi, per quanto
sospette fossero le dosi di etanolo rinvenute nel sangue delle donne morte, si era
trasformato in un'indagine per omicidio, a parte quello della trentottenne Hanna
Momaday, che era stato archiviato come sospetto omicidio, a causa dell'elevata
alcolemia rilevata dall'autopsia e, soprattutto, delle ecchimosi su tutto il corpo della
donna, che probabilmente si era difesa da un'aggressione. L'ultimo a vedere Hanna
Momaday, trovata morta in un motel alle porte di Salem tre anni prima, era stato il
barbiere Virgil Wolf, cinquantaquattrenne di razza bianca, incensurato. Bingo.
A quel punto Blowing non gli aveva tolto gli occhi di dosso, senza fare alcun rumore.
L'uomo pareva sicuro di sé. Il telefono era stato messo sotto controllo, ma nessuno gli
telefonava mai, ed evidentemente nemmeno lui aveva qualcuno da chiamare. Un
uomo solo, il nostro Virgil, aveva pensato. Lui non avrebbe mai telefonato a un tipo
come Virgil. I pedinamenti notturni avevano invece confermato una predisposizione
ben precisa per certi luoghi e per un certo tipo di compagnia.
Poi Blowing era scattato. Gli erano piombati addosso sul luogo di lavoro, con un
mandato di perquisizione e un avviso di garanzia. Erano stati molto meno gentili, con
il gentile Virgil, questa volta. Gli avevano sbattuto davanti Hanna Momaday a colori.
L'avevano incalzato. Il vecchio aveva vacillato, si era agitato, si era persino adirato. E
aveva iniziato a contraddirsi, ma mai abbastanza palesemente. Non ricordava. Poteva
essere. No, non l'aveva mai vista. E la sera della Tonelee? Era sicuro di essersene
andato all'una? Un cliente l'aveva visto sgattaiolare dall'albergo molto più tardi,
diciamo verso le due, forse anche più tardi, aveva bluffato Blowing. Il bastardo c'era
rimasto parecchio male, era in preda all'agitazione, però non aveva mollato. Su quel
punto non si era rimangiato niente.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Berg e il tenente Castillo l'avevano pensata sporca. Ma a Blowing piaceva l'azzardo.
Iniziava a temere che solo così avrebbero potuto incastrare quel maiale. Cominciava a
pensare all'indiziato in questi termini. Non tutti i presunti colpevoli gli stavano sul
culo, ma con certi proprio non ci si poteva fare niente. Ti veniva da odiarli. In questo
caso era forse la sua natura femminile, vista la tipologia delle vittime e considerato
come iniziava a immaginare si svolgessero gli omicidi del serial killer. La Castillo si
sarebbe fatta esca. Perché funzionasse, bisognava agire con destrezza. Il rischio a cui
esponevano la collega non era uno scherzo. Sarebbero intervenuti cogliendo Wolf sul
fatto.
Nancy Castillo aveva adescato Wolf all'angolo di Perth Street senza troppa fatica.
Vacillando vistosamente, ridendo e stuzzicandolo, l'aveva condotto allo Charme
Hotel, non lontano da lì. Per la strada, mentre lo seguiva a breve distanza, nascosto
nel buio, l'uomo, nell'abbandono intimo di quel suo momento privato, parve a
Blowling un'altra persona. Provò un brivido di piacere. Non avrebbe mai
abbandonato quel lavoro di merda. La squadra di pronto intervento li aspettava
all'albergo, appostata nelle due stanze accanto. Nella camera di Wolf, la numero 22,
le cimici trasmettevano i movimenti, i dialoghi, le risa alterate di Castillo e quelle
sibilanti di Wolf. Gli uomini erano tesi. Wolf non rideva veramente. Parlava poco,
incitava Nancy a bere. Poi ci furono quei colpi ovattati. Sentirono l'urlo soffocato.
No, non ancora. Ma era questione di attimi. Ci fu il secondo urlo. I tre agenti armati
della stanza di Blowing erano già in corridoio, pronti a fare irruzione. Berg era
nell'altra, la 24, e stava uscendo in quel momento, terreo in volto, seguito da Bentley
e Mahoney.
La donna stava supina sul letto. Le gambe piegate ad angolo retto sul bordo tentavano
di scalciare, bloccate dal peso dell'uomo ritto in piedi, riverso su di lei. Una mano le
tratteneva i polsi al di sopra della testa. Con l'altra reggeva una bottiglia
verticalmente. Quasi tutto il collo di questa era penetrato nella bocca della donna,
costretta a ingerire velocemente il liquido per non soffocare. Ecco com'era finita
Vanessa, com'erano finite tutte le altre, con una bottiglia fino in gola, a lottare per
tanto, tanto tempo, prima che la nausea le strozzasse e la morte non le prendesse.
Sperò che almeno per l'astemia Tonelee quel momento fosse arrivato presto. Per un
secondo, Blowing aveva colto l'espressione dell'uomo prima che si rendesse conto
dell'intrusione. E si era chiesto con disgusto se anche a lui nell'amplesso venisse fuori
quella faccia ebete, animale, di godimento e di odio. Perché era chiaro che quel
bastardo del vecchio Virgil stava scopando, nella sua testa. Porca puttana, se non
credeva che gli stavano facendo un bel pompino.
[Liberamente ispirato a un fatto di cronaca americana realmente avvenuto]
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LA TRILOGIA DELL’ODIO
scritto da: Angelo Scotto
VIZI E VIRTÙ
Non ho un eloquio fluente
per divertirvi,
né quell’istruzione
che vi aiuta così tanto
quando annaspate.
Non ho un bell’aspetto
né motivi per apprezzarmi
ma ho un oceano di rabbia
in cui potreste nuotare,
sino ad annegare.
L’UOMO CHE ODIA
Non mendicate da me
parole di conforto
quando prostrati dai venti
dareste la vita
per un pietoso sollievo
io sono lo stesso
cui negaste aiuto
perché ero diverso
e unico regalo
ebbi odio
per me, per voi.
Oggi troneggio su di voi
ma non mi apro alla pietà
non perdono
i grandi perdonano
ma io sono un piccolo uomo
condannato ad odiare
le vostre lacrime nutrono il mio sangue.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
COSI’
Ogni giorno
è un digrignare in più
i denti
ogni sguardo è un coltello
ogni passo
è una ferita.
Incredibile quanto
possa scendere in basso.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN PIANO PERFETTO
scritto da: Angelo Scotto
Cara Laura,
questo messaggio è per comunicarti che quello che è successo non è altro che la mia
vendetta.
Vendetta.
Forse pensavi di poter comportarti come ti pareva, trastullarti alle mie spalle,
prenderti gioco di me sempre e comunque. In effetti se fossi stato al tuo posto lo avrei
fatto anch'io: è notorio che a chi ti ama puoi infliggere ogni dolore, e quello non
reagirà, non contro di te almeno.
Già, è sempre stato così.
Quasi sempre.
E in quel quasi rientro anche io.
Prima no, prima non ero poi tanto diverso dagli altri: quanti mesi, per quanti anni ho
accettato prima la tua indifferenza, poi la tua ostilità, e infine il tuo scherno? Ma ero
pronto a farlo, perché ero innamorato. Mi ricordo i miei amici che mi dicevano per
quale motivo mai dovevo rovinarmi l'esistenza per una donna che non mi voleva né
mi apprezzava, e io sempre rispondevo che le vie dei sentimenti sono irrazionali, non
possono essere comprese, ma solo percorse. Lo penso tuttora.
Ma queste vie hanno cambiato strada.
Non dico di aver perso interesse verso di te, se fosse stato così non sarebbe avvenuto
quel che è avvenuto. Tanti anni di passione esasperata, parossistica, non possono
essere cancellati, né superati: quando decidi di immolare tutto il tuo io a un
sentimento, non puoi più tornare indietro, e a quel punto devi solo sperare di aver
puntato tutto sul sentimento giusto. Così ho fatto io, e ho perso. E quali sono stati i
risultati della mia sconfitta? Deriso, preso in giro proprio da te, divenuto oggetto di
scherno da mezza città, dalle mie vecchie compagnie, da tutta la piazzetta, dagli
avventori di ogni locale e di ogni ritrovo. E un pregiudizio di squilibrio mentale
impresso a fuoco sul mio petto, ormai indelebile. Indelebile.
O forse no.
Un modo c'era per cancellare quel pregiudizio. Ma dovevo prima studiarlo.
Dovevano considerarmi squilibrato solo perché innamorato? Sì, è normale in un
mondo dove nessuno crede più che ci possano essere passioni così forti. Per questo
hai potuto trovare sempre così tanta compagnia nel ridere di me. Ma se fossi riuscito
a dimostrare che il mio era davvero amore, e non debolezza di mente, allora avrei
messo a segno due colpi: eliminare il pregiudizio nei miei confronti, e mettere sotto
gli occhi di tutti la tua meschinità.
Chiaro come il sole.
Unico problema: "come" dimostrarlo?
Quando un pregiudizio è profondo, bisogna essere drastici per sradicarlo. Il metodo
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I Giovedì di Scrittura Fresca
più drastico, dunque.
Uccidermi.
Ho riflettuto a lungo prima di farlo. Ma non per paura della morte, no: ho perso tutto,
considerazione, rispetto, felicità, futuro; cosa può fregarmene della vita? No,
l'esitazione era dovuta a te: potevo essere così duro nei tuoi confronti?
Sì.
Non lo avrei mai creduto, ma la mia passione si è trasformata: da amore che era, si è
evoluta in un odio sordo, un odio feroce per te e per tutto il male che mi hai fatto, per
aver bruciato ogni atomo del mio essere, per avermi costretto a fare ogni cosa in
funzione di te e di nient'altro. Come sia stato possibile questo cambiamento non lo so,
ma non mi stupisce: le vie del sentimento sono irrazionali, l'ho già detto.
Per questo mi sono ucciso, per vendicarmi, per sprofondarti nel disprezzo, per far sì
che tutti ti evitino e abbassino la testa quando passi, per farti capire cosa vuol dire
essere abbandonati da tutti, essere marchiati a fuoco da un'opinione che non si può
cancellare.
Mi sembra già di sentire le voci di chi dirà che è stato un gesto di disperazione. No,
mai ho compiuto un gesto più razionale e meditato. E senza testimoni, tranne questa
lettera che non puoi diffondere perché non ti crederà nessuno, a te che dicevi che ero
un sempliciotto, e non farai altro che rinforzare l'ostilità nei tuoi confronti.
Un piano perfetto.
Addio
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I Giovedì di Scrittura Fresca
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Due 10 Marzo 2005
UN GIRO DI VALZER
Hanno partecipato:
Doremi
Ettore Bilbo
Massimo Botturi
Uomo Pallido
Gerardo Sorrentino
Idea Vagante
Asclepio
Vaan
Necatrix e Maiko
Nicola Martini
Nicola
Claudia Demik
Marimari
Leone
Omar Kesabian
Serenella
Dolphy
Fabrizio
Dario Carta
Talesien
Alessandro Gabriele
Carmen M.R.Di Lorenzo
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Un giro di valzer
Una mazurca triste sul sopracciglio dell’universo
Waltzin’ Matilda
Ti porto a fare un giro, ma di Valzer
Ancora un giro di walzer
Sul Palmo della Mano
Scheda 407: la signorina Jolanda
Un giro di valzer al turno straordinario
A giro di valzer
In giro di valzer con Juliette Greco e, in stile
Orcabboia! Ma è proprio il giro d’Italia! E io sto al
giro di valzer
Un giro di valzer
Agnese e la sua tela
L’ultimo ballo
Una volta, antica
Vertigine
Valzer
Gita a Friburgo
Un girello di valzer
Un giro di valzer
Un giro di valzer
Ostinato Fiore Circolare
Un valzer di Fiori
I Giovedì di Scrittura Fresca
UN GIRO DI VALZER
scritto da: Doremì
Una serata estiva, una pizzeria all’aperto con annessa balera e orchestrina di liscio.
Lei e lui hanno finito di mangiare e si godono qualche raro refolino di fresco. Più in
là, sulla pista, volteggiano coppie di età disparata a ritmo di slow, mazurche,
latinoamericani. Ed ecco che dopo un piccolo intervallo l’orchestrina attacca un
valzer.
-Oddio, il valzer! Almeno un giro di valzer potresti anche farmelo fare.
- Lo sai che non ballo.
- Eddai ti prego, così come viene viene (lo tira per un braccio).
- Ma non sono capace, dai, balla tu!
- E con chi, da sola?
- Ti metti lì in mezzo e ti invitano subito. Ce ne sono un paio che non ti levano gli
occhi di dosso.
- Ma guarda che sei un tipo! Io voglio farlo con te, scusa, è il nostro anniversario…
- Appunto, ti ho portato a cena fuori no?
- Sì, alla casa del popolo, sai che novità, ma guarda, mi sta bene, benissimo… solo
che vedere in pista tutte quelle coppie e pensare che non posso avere il piacere di
essere invitata da te, così, come gesto galante, solo perché sai che mi farebbe
piacere… mi sorprenderesti no? Sarebbe romantico.
- Ma vien via topino, sono rigido come un baccalà, ti pesterei i piedi.
- Vabbè, ti guido io, oppure lo balliamo come un lento, (fa la voce da gattino) solo
per stare abbracciati in pista…
- Ma non ti abbraccio abbastanza a casa?
- Lo vedi che non capisci un tubo? Non è la stessa cosa!
- Ecco che arriviamo sempre lì, io non capisco un tubo, tu sei quella che capisce
sempre tutto…. La devo fare controvoglia sta cosa? Via facciamola! (La tira per il
braccio)
- No, così non mi va…
- E no, adesso balliamo, che poi non voglio musi!
- Che stronzo… ti pare che voglio farti fare un gesto carino nei miei confronti ‘
controvoglia’? Mica dev’essere un dovere!
- Ecco appunto, che di doveri ne ho già abbastanza.
- E infatti, chi ti dice che devi farlo per forza. Il problema è che non ti viene
spontaneo! (Muso lungo. Si mette a sedere con le braccia incrociate)
- Okkei, mi sta venendo spontaneo, (faccia incazzatissima) guarda, muoio dalla
voglia, balliamo!
-Noo!
- Adesso invece balli, se no vuol dire che vuoi rompere solo i coglioni!
- Vaffanculo! Balla con chi ti pare ma non con me.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
- Bene, se lo dici tu -… Si allontana verso un tavolino con una signora sola. La invita.
Li vede scendere insieme in pista. Lui sorride simpaticamente allargando le bracciaecco, starà giustificandosi per non saper ballare il valzer- quindi la cinge in un lento a
mattonella. Per pochi secondi. Il valzer sta per finire. Ne riattacca subito un altro.
Senza separarsi continuano a ballare allacciati chiacchierando amabilmente per
qualche interminabile minuto. Poi lui le bacia la mano e la riaccompagna al tavolino.
Ritorna con l’espressione del ‘non ne abbiamo abbastanza? Si può far pace?’
-Dammi le chiavi di casa (lei con voce gelida)
-Si va via?
- Io vado via, da sola. Tu resta pure a divertirti.
- Ma che a divertirmi, dai, basta, piantiamola lì!
- Dammi le chiavi, ho detto!
- Ma dove vai di sola, di sera, che qui è mezza campagna…
- Le Chiaviii!!!!
Prende le chiavi e scappa via a passo di marcia, il vestito lungo che si impiglia nel
cinturino dei sandali alti, il fresco della notte sulla schiena sudata protetta appena
dallo scialle di seta. E pensare che si era fatta tutta bella. Per festeggiare
l’anniversario alla casa del popolo con balera annessa. Tanto per fargli capire che non
era importante dove. Che anche lì poteva essere una serata speciale. E giù per la
discesa, ingoiando rabbia e lacrime, costeggiando il canale con le rive coltivate a
cavoli, la strada è deserta, i passi rimbombano veloci, che stronzo, non ci si crede… e
che stronza lei, complimenti, una perfetta masochista, brava sempre a rovinare
tutto… avanti fino al cavalcavia, ancora una ventina di minuti per arrivare in paese,
ancora lungo il canale… i passi rimbombano, ma ora raddoppiano, non sono solo i
suoi, ora corrono, si avvicinano la raggiungono. Si volta ed è un abbraccio. Lui la
tiene stretta, lei piange.
- O topino, ma dove volevi andare tutta sola!
- Mi hai fatto arrabbiare (tira su col naso)
- Mi hai provocato… sono una merdaccia?
- Sì, (broncio finto arrabbiato, voce arrendevole), una merdaccia.
- Ma anche tu sei un po’ una merdina?
- Tii (bacino, altro bacino)
- Si fa la pace per bene?
- Annuisce (scoppia a piangere più forte)
- Perché noi ci si vuole bene vero?
- Tii (bacino, altro bacino)
- Come sei bellina…
- Anche così con tutto il trucco disfatto?
- Ancora più bellina!
- E quella?
- Ma vien via topino (ride bonario), ma se non mi ricordo nemmen s’era una donna.
- Eh eh (piange e ride. Si soffia il naso nel fazzoletto che lui le porge).
Senza staccarsi dall’abbraccio dondolano un po’.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
- Via, si fa il valzer.
- Però non pestarmi i piedi (bacino)
- E tu non smocciolarmi tutta la camicia (bacino) Guidami tu. Chi fa la musica?
- Si fa in silenzio. Ti dico solo nell’orecchio piano piano zùm pap-pa per darti il
ritmo.
Eccoli abbracciati nella notte, nel piccolo borgo di case silenziose, danzare nella
stradina che costeggia il canale pieno di zanzare, accompagnati dal gracidio di
qualche rana. Sulla loro posizione i maestri di ballo avrebbero molto da ridire. Stanno
troppo appiccicati e con le guance vicine. E’ che lei deve sussurrargli zùm-pap-pa
nell’orecchio, dolcemente, molto dolcemente e lui deve tenersi ben stretto a lei se no
perde il passo.
Ma che bel giro di valzer!
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UNA MAZURKA TRISTE SUL SOPRACCIGLIO
DELL’UNIVERSO
scritto da: Ettore Bilbo
C’è una mazurka triste che suona per strada, non l’ho mai sentita ma s’è messa in
testa di regalar ricordi. Non so in che stagione siamo, forse Autunno inoltrato giacché
cadono le foglie, una per ogni passo di danza, c’è il pensiero che corre tra noi e anche
qualcosa d’altro che non mi ricordo.
Intanto la mazurka gira e gira, ed entra dalle finestre, e poi n’esce e afferra la mano di
chi non vuole affacciarsi.
È vero era Autunno, ma una prima neve era già caduta ed il freddo era Russo, quello
di San Pietroburgo. Il vestito era rosso, con un'ampia scollatura a sfidare il rigore del
freddo, ma eravamo in casa ed i camini erano accesi, e tu scherzavi.
“Non mi stringe signor Teodoro, perché?”, disse la dama.
“Ma io la stringo a dire il vero”
“Oh… suvvia è cosi che un uomo stringe la propria dama per un ballo?”
“Ma è poco più che pomeriggio…”, l’uomo si scusò imbarazzato.
“E che significa? Forse ch’è proibito ballare come si deve finché il sole non cala?”
Non è proibito ballare per le strade? Non è proibito ascoltare una mazurka triste dalla
propria stanza, sentirla incolpare le strade d’essere così solamente strade? No, non è
proibito.
“Così va meglio Teodoro”
“Ci diamo del tu?”. L’uomo parlò divertito, senza sgarbo ma non poté impedirsi una
luce negli occhi che non piacque alla dama.
“Sì del tu, ma non faccia troppo l’uomo e troppo poco il signore…”, rispose quindi
ella.
“Ed adesso di nuovo del lei”, scherzò.
“No, del tu Teodoro”.
Sorrisero e ballarono.
Fantasmi che ballano sul folto sopracciglio di signore canuto, appena sotto quel pelo
bianco, che cresce in mezzo alla fronte e si nasconde, pudico, nel proprio pallore.
Affacciato alla finestra, guardo la mazurka triste volare di persona in persona e
assumo quell’espressione pensosa da vecchio, che non vorrei. Penso a questi fantasmi
sul mio sopracciglio e mi vedo, già fantasma, ballare sul sopracciglio di questo
palazzo, ed il mondo ballare sul sopracciglio dell’universo.
“Perché mi guardi così Teodoro?”
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I Giovedì di Scrittura Fresca
“Perché mi fai questa domanda Nastia? Non siamo bambini eppure vogliamo
giocare agli innamorati?”
“Per le strade di Peter si gioca agli innamorati, nei salotti di queste case a cosa si
gioca?”, rispose Nastia.
Lui le prese una mano.
“Perché mi fai sentire già vecchio Nasten’ka?”
“Oh suvvia per due rughe da giovincello, se devo essere sincera ti donano, ti danno
un aria così saggia”
“Nastia…”
“Lo so che te ne andrai…”
“Si gioca anche in questi palazzi allora?”, domandò accigliandosi un poco
“Non si gioca più da molto tempo Teodoro, non accigliarti”, disse Nastia fermando il
ballo tra uno scaffale pieno di libri e l’orlo di un tappeto venuto da chissà quale
paese, “Vorrei giocare, ma non lo faccio più”
“E allora che fai?”
“Mio padre dice che faccio troppe domande ma è evidente che non ti conosce,
Teodoro caro”
Sul sopracciglio dell’universo mi potrei fermare a pensare tranquillo, forse in quel
luogo così lontano questa mazurka triste non suonerebbe per me, ma ogni luogo è un
sopracciglio sperduto, ed ogni persona ha la propria mazurka…
“È vero che faccio tante domande sai?”, fece la donna riprendendo il passo di
danza, “Faccio troppe domande e non mi do mai risposte. Sarà che siamo giovani,
che ne dici Teodoro? Sarà che sono stufa di fare domande e adesso mi darò
risposte… attento segui il passo… sarà che sono romantica”
“Tu romantica? Non è il fiore romantico, è chi lo coglie per gustarne il sapore sotto
le nari, spietato o stolto, oltre che romantico”
Se adesso mi sdraio sul letto forse m’assopirò e potrò far finta di non sentire, magari
non mi sveglierò più. Non in questa città almeno, ma in un'altra, una città con la Neva
ghiacciata e tanti bambini che pattinano, con i ghiaccioli sui tetti che pendono e
tremano minacciosi, una città dove si parla una lingua che non mi ricordò più e che
suona tanto dolce e non credevo, allora non credevo…
“Te ne andrai…”
“Sì me ne andrò”
“E non tornerai mai più”
“No”
“No”
Nastia aveva occhi dal riflesso dorato e si vezzeggiava tanto per quel luccicare
nell’iride marrone. Nel ripetere quel no così definitivo si sfiorò il viso con la mano e
lavò dal volto quel riflesso, come una nebbia che impedisce di vedere, lo strinse nella
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I Giovedì di Scrittura Fresca
mano ed accarezzò Teodoro.
Ora il riflesso del sole era suo, un bene così prezioso in quel paese freddo.
Mi sono assopito e non mi sveglierò mai più, suonatore. Non nasconderti, ti vedo
laggiù dove sei, all’incrocio sotto il mio palazzo, sei tu che suoni questa mazurka così
triste. Ne ho sentita solo un’altra simile, suonava nella mia testa mentre ballavo con
Nastia. Solo nella mia testa perché credevo che non potesse esistere una musica così.
Tu ne hai bisogno più di me ora, ne hai bisogno perché la tua musica è triste ed allora
te lo regalo. Siamo tutti sul sopracciglio dell’universo ed ascoltiamo la stessa musica
eppure c’è chi va e chi viene. Prendi questo riflesso dorato e lascialo vagare mentre
suoni per le strade. Sono solo strade ma la gente si affaccerà dalla finestra e vedrà il
sole. Io vado a sfidare un no che dissi tanto tempo fa, tanto…
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I Giovedì di Scrittura Fresca
WALTZIN’ MATILDA*
* Tom Waits
scritto da: Massimo Botturi
Abbiamo lasciato un ombrello in bilico su quello scaffale povero, banale cella
quadrata, piena di rimasugli. Rari momenti d’intimità famigliare, li stiamo vivendo
non credi ? Siamo corpi sparsi tra interessi diversi, fanti di cuori caduti dal mazzo in
viaggio di fantasia, quando pesare un buon libro tra le mani raddoppia la fatica del
tenere aperti gli occhi.
Occhi che hanno dato tutto nell’interminabile giornata produttiva, consumati nelle
percentuali, negli ammanchi.
E controlli su controlli, fino al decimale ridondante, occhi lacerati da vertiginosi
tacchi a spillo, reminiscenze d’erotismo da fine settimana.
(Aveva calze nere, se non ricordo male, il colore giusto per l’inginocchiatoio del
potere)
Abbiamo lasciato le briciole in terra, vicino al divano, non c’era voglia di preparare la
cena.
Un toast, un lusso da bar del centro, una volta, non ora.
Ora è un pasto da miserabili, da pigri, chiedo venia, da pigri.
Dovremmo usarla quella tovaglia di fiandra, le posate del servizio buono, i bicchieri.
Dovremmo trovare un’occasione importante per prenderci cura di noi, del nostro
aspetto un po’ sciupato.
Fingere d’essere in uno di quei posti di lusso dove una mano, puntuale e indiscreta, ti
versa il vino ad ogni sorsata.
Potremmo voltare, per una volta, le fotografie dei nostri vent’anni, spegnere il mondo
dei notiziari, gli strilli dei figli sui libri di scuola, le maratone di auto coi crampi, i
singhiozzi degli alberi, degli oleandri sbattuti nel mezzo di strade in dissesto.
Dovremmo scappare, su, in verticale, e guardare tutto, e perdere tutto.
Uscire dal corpo e fare l’amore col naso e le mani, dovremmo pensare che il solo
respiro è il frutto di grandi elaborazioni, di leggi perfette di microscopi nel cielo
universo, che scrutano dentro i nostri polmoni.
Dovremmo occuparci di liberare dal marmo grezzo l’opera muta che ci viene data, e
farla vibrare, rompere i cardini, e i cigolii.
Vivere un giorno come da Dio, senza parabole da salariati.
Amore mio caro, dovremmo andare al banco dei pegni, offrire collane, gli anelli
piccoli del battesimo, e comprarci dei morbidi asciugamani.
Perché il mattino ho voglia d’amore, e sulla pelle, di gentilezze, del caffè buono e un
goccio di latte.
E un po’ di silenzio, che dietro la porta, la gatta si stira, e un merlo becca quello che
resta di una prugna caduta.
Dovremmo mettere della musica , com’è che si chiama?
Waltzin’ Matilda, o qualcosa del genere
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I Giovedì di Scrittura Fresca
TI PORTO A FARE UN GIRO, MA DI VALZER
scritto da: Uomo Pallido
È che mi pesti i calli quando balli
ed ogni volta - sempre - fai lo stesso.
Con te dovrei lo shake o l’hully gully
- qualcosa che ci tenga più lontani E invece ho in testa il sesso, le mie mani
addosso a te e non solo per sfiorarti.
E ballo il valzer, stretto stretto a te
- cosa mi tocca fare per toccarti -
VALZER
scritto da : Serenella
La notte s’infrange
sull’onda che sale
un moto invisibile
nella baia assetata
sono il porto
sono il mare
un valzer nell’acqua.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
ANCORA UN GIRO DI WALZER
scritto da: Gerardo Sorrentino
Ho sprecato sogni e desideri
in una spicciolata di pensieri
e ora che ne vorrei dei nuovi
spalanco un ventaglio di suoni,
ancora un giro di walzer
per la mia mente che è un bunker,
le mie urla contro il mondo,
io che ho già raschiato il fondo,
so che non potrò andare avanti
avanti fra i mille e più santi
che dell’inchino han fatto religione
e legato alle catene della mia prigione
quella che sfoglia la mia mente
ogni giorno in un destino perdente,
so che nel fallimento di una vita
c’è sempre speranza fra le dita
quella di un inferno comprensivo
senza alette da angelo per aperitivo,
perché il mio calvario purgante
sulla terra l’ho vissuto alla grande
e allora ancora un giro di walzer
per la mia mente che è un bunker.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
SUL PALMO DELLA MANO
scritto da: Idea Vagante
Sull’orlo acuminato del silenzio
passi
a danzare le nostre solitudini
al ritmo ovattato di un valzer viennese
che regala profumi notturni,
gesti oracolati a scandire parole
sul palmo della mano.
Intermittenze d’ascolto riflesse nelle gocce
di lampadari in prismi di luce
a pioggia sulla pelle
che beve ogni pausa fiorita sugli archi
tra crome e biscrome
di un cercarsi melodia
lieve tra le ciglia.
E sulla tastiera,
tra le corde dei violini
andante precoce il disperdersi in note
che sanno di congedo
già sfibrato d’attesa
estenuata, sotto la pensilina.
Raccogliamo intenti i nostri sguardi
quando
un rantolo d’estremo sprofonda senza pianto
nel morire scolorito di quest’onda,
carezza che lambisce l’anima
accartocciata a feto
a inseguire ritorni
scritti sull’agenda.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
SCHEDA 407. LA SIGNORINA JOLANDA
scritto da: Asclepio
Gira, gira, gira il valzer cantinelante…
La vita mi ha dato tanto.
Ricordi quando ero bella e sottile? Ero bella perché il sole m’illuminava le gote; ero
sottile ma con la pelle soda sulle mie carni.
La poltrona ha i segni sui braccioli come i miei occhi quelli del tempo: entrambi sono
stati usati a lungo senza ritegno, per tanto tempo.
Gira, gira, gira, il valzer e la ballerina sulla punta di un piede fasullo…
Un giorno mi dicesti che andavi ma che saresti tornato per amarmi ancora.
Non so quanto tempo è passato; potrei fare semplici conti ma non ne ho voglia ed i
pensieri sono stanchi di decidere se stare avanti o indietro.
Non ho voglia di mangiare la minestra. Quella di ieri era sciapa e fredda; quella di
oggi è la stessa ma odora di agro.
La signorina viene la mattina, mi obbliga ad alzarmi dal letto e spegne la tivù; cosa
m’importa se resta accesa tutta la notte… è meglio sentire i gatti sui tetti che gridano
di foia?
Ancora una carica. Ancora un valzer. La ballerina non si stanca.
Come una gatta ho gridato anch’io. La lettera diceva che non saresti mai tornato. La
scriveva tua madre e la carta era macchiata di dolore. La signorina oggi non viene.
Non posso fare il bagno da sola. Devo prendere tutte le palline colorate che mi fanno
star bene. Le mie pillole. Sono gli unici colori che dal mondo mi entrano dentro.
Quando chiudo gli occhi mi stupisco di poterli aprire ancora.
Tu avevi gli occhi castani come un cervo.
Io ho gli occhi… Avevo gli occhi come due pervinche.
Le mie mani sono ossute con troppa pelle per due mani sole.
Gira, Damina, balla ancora un giro di valzer…
“Il carillon è rimasto attivo… staccalo, chiudilo! Un po’ di rispetto per una povera
morta… Dov’è il telefono di suo nipote? Era segnato sulla scheda… verrà, verrà: la
casa è già intestata a lui da tanto tempo. Stacca quel carillon…”
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN GIRO DI VALZER AL TURNO STRAORDINARIO
scritto da: Vaan
all’alberone, grande abete
la incontro
al punto di questo balcone
dai vasti colorati, accesi panorami.
turno straordinario, Piera al bar
dalle sedici alle due.
novanta secondi, l’incrocio penetra le mani
che non tocco
poi gli occhi sono dentro dice.
li scruto riflettersi
sul dove porterà il suo corpo, in questo giorno
così radioso di sole.
l’improbabile attende
un lungo giro di walzer, per ripartire da zero
un’eco che si diffonda
ed invada
la voglia sua che ancora viva sento.
il corpo intero me la descrive
a trovare sbocchi più estesi
allo spazio, della sua esposizione.
la guardo, sono via
una manciata di ore appena
oblio me stesso.
"giorno... per favore
il solito drink". sentisse un uomo le sue parole
l’onda sonora che la farà danzare.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
A GIRO DI WALZER
scritto da: Vaan
“Oggi è andata bene, vediamo se nella quotidiana caccia al latte, sarò altrettanto
fortunata” disse Eggia rivolta ad Anik.
Marion, sull’altro lato della soffitta stava sistemando nella sua borsa, scaldamuscoli e
tuta da danza: “Dicono oggi si possa trovare fresco, a piazza Bismark dal biondo.”
“ Bene, andrò lì allora.”
La guerra oramai volgeva al termine, la Germania nazista stava capitolando. Eggia,
Anik e Marion come buona parte della popolazione tedesca, non vedevano l’ora che
quell’incubo volgesse a termine.
“Finita questa mattanza, vorrei fare qualcosa di speciale” disse Eggia rivolgendosi
alle amiche “ ho da tempo un sogno nella testa e lo vorrei proprio realizzare.”
“E di cosa si tratterebbe mai?” rispose Marion
“Una risposta anomala a questa guerra, un viaggio folle, qualcosa che dia nuovo
respiro alla nostra gente.”
“Da come parli, sembra come avessi già un’idea più che chiara nella testa. Hai
pianificato realmente qualcosa? “
“ Si Marion, sarebbe magnifico sviluppare per esteso una coreografia di danza da
Dresda fino a…” s’interruppe poi riprese “… non so dove con precisione; qualsiasi
altra località della Germania andrebbe bene, purché non troppo lontana da Dresda.
Un viaggio simbolico pensato solo per la gente.”
“ Una coreografia immensa. Ma è un’idea strepitosa secondo me… ci sto! “
“ Stupendo “ replicò Anik “ potremmo procedere a staffetta…magari a giro di
walzer…trovo l’idea eccitante. Anch’io voglio esserci. “
“ Allora si fa “ disse Eggia in tono risolutivo.
Le tre danzatrici, le uniche rimaste di una compagnia oramai decimata, si guardarono
negli occhi e si abbracciarono strette, fortemente strette, sotto il cielo triste di Dresda.
Appena il tempo di salutarsi che d’improvviso risuonarono inaspettate le sirene
d’allarme. Nel fuggi fuggi generale, le tre amiche si ritrovarono dirette verso lo stesso
rifugio, quello prossimo alla soffitta che avevano da poco lasciato. Giunte all’interno
di quella che in realtà era un’ immensa galleria sotterranea, Anik ebbe un sussulto ed
urlò a viva voce: “ Nooo! Maledizione, ho lasciato nello stanzone i due dischi di
Ravel! “ Senza nemmeno ascoltare il parere e i consigli delle altre, Anik uscì di corsa
dirigendosi verso la sua meta. Nonostante la fame e gli stenti della guerra, era ancora
agile e veloce, atleticamente era sempre stata la più dotata della compagnia.
L’inseguimento di Eggia, partita a sua volta con l’intento di fermarla, fu vano. Anik
correva come un fulmine, sperava dentro di poter recuperare in tempo utile i due
dischi, a cui teneva moltissimo, dimenticati sul tavolato di legno, vicino al
grammofono.
Già nei quartieri più periferici, cadevano le prime bombe, l’attacco aereo sembrava di
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I Giovedì di Scrittura Fresca
una portata inaudita. Anik imboccò il portone della palazzina, era in alto al quinto
piano, quando una bomba da cento quintali colpì in pieno il vecchio edificio. La
struttura in cemento crollò come un castello di carta, Marion, appena fuori dal
rifugio, aveva osservato la scena. In preda all’ isteria, raggomitolandosi e
contorcendosi a terra, lanciò un grido disperato che scavalcò il fragore delle bombe,
via via più vicine. Tre uomini la riportarono dentro al sicuro. Oramai non c’era nulla
in cui sperare.
L’ 8 Ottobre 1966, nell’ ospedale di Dessau, Eggia uscì dal coma dove era
sprofondata durante il drammatico bombardamento di Dresda. Anik, in quel giorno
maledetto era rimasta per sempre, sotto dieci metri di macerie. Come se non fosse
mai stata addormentata per così tanto tempo, Eggia, pronunciò inaspettatamente una
strana frase. L’affermazione però, non sfuggì all’attenzione del staff medico,
fortunatamente presente in quel momento nella stanza.
“ Ho un sogno…un sogno da realizzare…un lungo giro di walzer da fare.”
Eggia, dopo la disgrazia, si era ritrovata sola e senza famiglia. La primavera
successiva, grazie agli aiuti e alla sponsorizzazione dell’ospedale riuscì a dare forma
e sostanza alla sua impresa simbolica. L’opinione pubblica si era commossa,
ripercorrendo la storia della sua vita. Televisione e giornali parlavano da mesi del suo
ambizioso progetto. Prendeva corpo la più lunga coreografia della storia, un giro di
walzer, che partendo da Dessau raggiungeva, la non lontana Berlino Ovest.
Era la metà del mese di Marzo, Eggia, ora attraversava strade e campagne
improvvisando sequenze, mettendo sulla sua scena ambulante vecchie coreografie
appartenute alla compagnia, che lei fortunatamente non aveva dimenticato. Il pezzo
forte era quando, come promesso, avanzava a giro walzer tra la folla esaltata, la stessa
gente ospitale che le offriva da mangiare, bere e dormire, lungo il percorso.
Eggia raggiunse Berlino il 20 Aprile 1967. La giornata era radiosa, sembrava festa
nazionale. Le bandiere sui balconi, la folla riempiva all’inverosimile le strade.
Marion era in prima fila, sul palco d’onore, assieme alle autorità. Desiderava
ardentemente riabbracciare, con ancora più forza, la sua compagna del cuore.
Mancavano trecento metri circa alla conclusione dell’impresa singolare, trecento
metri alla fine di quella magnifica esperienza che apparteneva ad una sola artefice,
immensa e straordinaria. Eggia, avrebbe continuato all’infinito. In preda ad una crisi
di pianto, avvolta in lacrime di gioia, impazzita nella sua oramai dilagante euforia,
imboccò uno stretto vicolo sulla destra, voleva prolungare il suo percorso, con
l’intenzione precisa di percepire ancora più forte e vicino, il calore di tutta quella
gente accorsa in massa. Almeno così sembrava. Ma il vicolo era vuoto, tutte le
persone d’altronde, erano riversate sulla strada principale. Tutte, ora disperatamente,
chiamavano e rincorrevano Eggia, con il chiaro intento di fermarla. Lei in fondo
sapeva, ma salì il dubbio che forse, non fosse stata avvisata. Marion, come gli altri,
fiutò il pericolo a cui quella gazzella, tramutata in donna, andava incontro. Eggia non
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I Giovedì di Scrittura Fresca
sentiva, ruotava piroettando su se stessa veloce come non prima. Vibrava
esclusivamente della sua catalessi sensitiva. Arrivò in fondo alla svolta in un baleno,
figurarsi se poteva udire le forti grida di richiamo di quel soldato, che ora le sparava
una sola spietata raffica di mitra nel petto.
Eggia crollò a terra priva di vita.
Marion lanciò lo stesso, identico, lontano grido.
Il giro di walzer finiva così, sotto un muro: il muro di Berlino.
Marion era ancora lì, quando i portantini la presero via. Inginocchiata, notò un
biglietto accartocciato a terra, lo prese. C’era scritto qualcosa, riconobbe la
calligrafia.
“ se scruto a fondo certi meccanismi
e poi rifletto, sul dove porterò il mio corpo in questo giorno
così radioso di sole
allora si
ci vorrebbe proprio un infinito giro di valzer
per ripartire da zero “
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I Giovedì di Scrittura Fresca
IN GIRO DI VALZER CON JULIETTE GRECO E, IN
STILE CON MAIKO
scritto da: Necatrix e Maiko
Sul palcoscenico
abitando lo spazio
accendi di fuoco i segni muti
pietre preziose di sogni perduti.
Vestale d’avorio e giaietto
raccogli parole come cibo lussuoso
affascinando in stile sontuoso
tutto il mistero d’un cuore amoroso.
Sillabando rauca in seta e velluto
hai fatto all’amore in tempo sospeso
tra un sipario e una voce di liuto.
Feroce e selvaggia aggredivi le note
un maglione aderente
che il corpo sottende,
le labbra arcuate volutamente
a bere l’ebbrezza del tuo buio perenne.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
ORCABBOIA! MA E’ IL GIROD’ITALIA! E IO STO AL
GIRO DI VALZER!
scritto da: Nicola Martini
"Un uomo solo al comando, la sua maglie è bianco-celeste, il suo nome è Fausto
Coppi"
Orco belin, disse il Fausto. Che era di Castellanìa, ma aveva passato mezz'ora a
Genova una volta nella sua vita e aveva incontrato il Martini, orco belin, ripetè, sta
qui è la tappa Cuneo-Pinerolo, che la tappa Virginia me la sono mastrussata ieri con
grande soddisfazione, è la Cuneo-Pinerolo e sto a ballare il valzer a Vienna.
Vuoi vedere che nella borraccia ci hanno messo la cicoria pestata e shekerata con
l'aglio? E vuoi vedere che per vedere ho sbagliato svincolo e ho preso per il Prater? E
mi tocca di mangiarmi la sacher invece che le bignole alla crema?
E mi tocca di danzare uno svarzo con il Bartali, che quello lì, seppur secondo, sempre
nelle palle ce l'ho?
Gli è tutto da rifare!
così disse il Gino al Martini a proposito di sto pezzo.
"Un uomo solo al comando, la sua maglia è Dolce&Gabbana, il suo nome è Nicola
Martini"
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN GIRO DI VALZER
scritto da: Nicola
Pivot di punta o tacco
purché deciso ed elegante
passi di cambio che si chiudono
in fine di frase musicale
viennese o inglese poco importa
Eccoti un po' di giri
in hesitation mode
il lilt rovescio mi viene naturale
il fleckerl si svolge come deve
Assassina del ballo
questo è un valzer
che tu profani ad ogni passo
incrocia il perno
non ti beffare dello spin
è un valzer, cribbio!
non una galoppata
di bufala pontina
in cerca di foraggio!
Ma tu già pensi a maggio
quando, sul blu donau
fioriscono le orchestre
una in particolare
È quella del tuo amante
aitante suonatore
di viola e di grancassa
Il valzer che t'illustro
lo danzerai con walter;
me ne starò in disparte
a legger robert walser
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I Giovedì di Scrittura Fresca
AGNESE E LA SUA TELA
scritto da: Claudia Demik
II reame è in festa. Il buon sovrano ha annunziato che il primo giorno di primavera la
propria figlia, la dolce e bellissima Caterina, andrà in sposa al principe Ruggero,
nobile di sangue, valoroso e bello. Gli araldi hanno girato tutti i villaggi del regno,
tutte le vie del villaggio, tutte le case della via per annunziare il lieto evento e per
comunicare che ci saranno dieci giorni di festa ininterrotta, giorno e notte: la festa più
bella, più ricca, più gioiosa che mai uomo abbia potuto vedere.
Anche Agnese a sentire gli araldi con la voce possente, i vestiti sgargianti, i rulli di
tamburo, si sentì il cuore ricolmo di gioia e pianse commossa. Aveva sempre sperato
che la figlia del Re sposasse il bei principe Ruggero e adesso il suo sogno stava per
avverarsi. Come era bello Ruggero! Alto, biondo, con un sorriso che gli ricordava
quello dell'arcangelo Gabriele dipinto nella chiesa del villaggio. Lo aveva visto solo
due volte nella sua vita, passare per la strada maestra alla testa dei suoi guerrieri,
avvolto nel suo mantello bianco, in groppa al suo destriero, ma erano bastate per farle
capire che nessun uomo, in nessuna parte del mondo poteva essere più bello, più
buono e più coraggioso di lui.
Agnese era una giovane e povera ragazza del villaggio. Rimasta orfana in tenera età,
per vivere aveva imparato a fare la sarta. Era intelligente e piena di buona volontà,
non conosceva la fatica; aveva mani sottili, agili e precise e così in breve tempo
divenne la sarta più brava di tutto il villaggio; perfino il sacerdote andava da lei per
farsi aggiustare la tonaca. Era felice che Caterina potesse avere in sposo un principe
così! Corse a casa e tanta era la sua gioia che per quel giorno decise di non lavorare.
Orli e merletti, sottane e grembiuli potevano ben aspettare: la figlia del Re si sposa
una sola volta nella vita! D'un tratto ad Agnese venne un'idea folgorante: anche lei
avrebbe fatto un regalo agli sposi. Ma come poteva lei, povera sartina, trovare un
dono degno degli sposi, che non sfigurasse in mezzo a quelli di duchi, principi,
marchesi e cardinali? «Loro possono regalare oro e argento, seta e broccati, ma io
cosa mai posso regalare?». Guardò le sue mani bianche, affusolate, erano quelle la
sua unica ricchezza. «Ecco! Tesserò per gli sposi il lenzuolo più bello che mai si sia
visto in questo reame e lo ricamerò coi ricami più belli che mai si siano visti sul letto
di un Re! ». Agnese si mise al lavoro. Lavorava di giorno e di notte, senza fermarsi
ne per mangiare, ne per dormire. Giorno dopo giorno la tela cresceva; era lunga
almeno cento metri ed era la tela più bella e più forte che avesse mai visto in vita sua.
A coloro che le domandavano perché mai avesse fatto una tela così lunga rispondeva:
«Voglio essere sicura che il mio dono sia degno degli sposi; proverò tanti ricami in
questa tela poi sceglierò i più belli e li rifarò nella tela rimasta; quello sarà il lenzuolo
del principe Ruggero; il resto lo terrò per me, per il mio corredo, perché anch'io mi
sposerò». E nel dir così sempre abbassava la testa arrossendo un poco. Avvolse tutta
la stoffa attorno a un grosso bambù e ne ricavò un rotolo enorme che a malapena
stava nella stanzuccia dove lavorava; neppure due uomini robusti potevano
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I Giovedì di Scrittura Fresca
abbracciarlo tutto. E così Agnese cominciò a ricamare; ricamava di giorno e di notte,
al lume di tre candele, senza fermarsi ne per mangiare ne per dormire. Le sue mani si
muovevano svelte e precise, le sue dita lunghe e sottili si agitavano come fiammelle,
la sua mente lavorava incessantemente per immaginare nuovi disegni: i più belli, i più
difficili.
Dapprima ricamò ghirlande di fiori di ogni colore, ed erano così belle che le comari
del villaggio giuravano sui loro figli di non averne mai viste eguali: i fiori avevano gli
stessi colori, le stesse movenze di quelli veri, tanto che era impossibile distinguerli.
Perfino le api ne erano attirate e continuavano a posarsi sul ricamo cercando di
suggerne il nettare. Agnese però non era soddisfatta. Non poteva negare che il ricamo
fosse davvero splendido, ma non le sembrava ancora degno degli sposi e lei si sentiva
capace di fare ancora meglio. Così si mise a ricamare dei trionfi di frutta: pesche,
mele, uva, lamponi, fichi, ciliegie e tanti, tanti altri, che neppure un libro basterebbe a
elencarli tutti, e ogni frutto era fatto con tale gusto, con tale maestria da apparire
perfino più bello dell'originale. Le comari, ormai incuriosite, seguivano giorno per
giorno, si può dire ora per ora il lavoro di Agnese. Ma lei non era ancora soddisfatta:
capiva che il ricamo era bello, ma non ancora bello abbastanza per andare in dono
agli sposi. Se si fosse davvero impegnata avrebbe potuto fare di meglio.
Ricamò allora un meraviglioso paesaggio: un bosco verdeggiante, popolato di farfalle
e uccelli multi-colore e in una luminosa radura un laghetto dalle acque limpide e
azzurre; tutt'intorno fiori e animali e funghi. Un vero capolavoro! Bastava fissarlo per
qualche istante con un po' di attenzione per sentire il cinguettio degli uccelli, il
rumore delle fronde e la povera stanzetta riempirsi dell'aria fresca e profumata del
bosco. Era un balsamo per gli occhi e per il cuore restare a guardare quel paradiso,
ma Agnese non fu ancora contenta. Lo stesso avvenne ancora per diecine e diecine di
volte: la gente restava sbalordita davanti al suo lavoro, tutte le meraviglie del creato
prendevano vita in quella tela, ma a lei non sembrava ancora di aver raggiunto il
massimo; pensava sempre di poter fare ancora qualcosa di meglio. Le sue mani erano
stanche, gli occhi le bruciavano, era pallida come una morta, magra come un
fiammifero e solo la sua devozione al Principe e la sua straordinaria forza di volontà
le consentivano di continuare a lavorare. Col passare dei giorni insieme alla fatica
aumentavano anche l'ansia e la paura di non riuscire a fare in tempo tutto ciò che
aveva in cuore di fare. E così, quasi all'improvviso arrivò la vigilia del giorno
stabilito per le nozze e ancora Agnese non aveva fatto ciò di cui potesse dire: «Ecco,
questo è il dono che volevo per gli sposi!». La fanciulla era ancora più pallida e più
magra, aveva gli occhi piccoli e infossati, ma anche quell'ultimo giorno lavorò senza
posa, senza respiro. Ma, ahimè, venne la sera e ancora non era riuscita a realizzare
quello che sentiva dentro di sé. Ogni volta le sembrava di aver afferrato
quell'immagine luminosa ed evanescente che le si agitava nel cuore, ma poi, a cose
fatte, si sentiva delusa, il suo ricamo non era mai quale lo aveva immaginato.
Le prime ombre della sera erano entrate nella stanzuccia traboccante di ricami
accostati tra loro in modo bizzarro per le volute della tela, come in un caleidoscopio,
e piena di fili di ogni colore rimescolati in una fantasmagorica, indescrivibile
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I Giovedì di Scrittura Fresca
confusione. Agnese, esausta, si alzò dal suo tavolo da lavoro e uscì. In tutte le case
del villaggio i lumi erano accesi, fervevano gli ultimi preparativi per il grande giorno:
l'indomani sarebbe stata una giornata indimenticabile per tutti. I bambini, in via del
tutto eccezionale, avevano avuto il permesso di restare fuori a giocare anche dopo il
tramonto e riempivano i vicoli di grida e di risa; anche le loro voci, i loro gesti, i loro
giochi tradivano l'eccitazione di quella magica serata. Soltanto Agnese era triste; alla
stanchezza accumulata in tutti quei giorni di frenetico lavoro si era aggiunto il più
cupo sconforto, la delusione per non essere stata capace di realizzare colle sue
giovani, lunghe mani il suo regalo per i giovani sposi. Agnese si fermò sotto un
balcone fiorito, chinò la testa e cominciò a piangere, in silenzio; nessuno avrebbe
detto che stesse piangendo se non fosse stato per le grosse lacrime che le rigavano le
guance pallide, dello stesso colore della tela. «Non mi resta che andare a dormire»
pensò. Girò un ultimo sguardo intorno e rientrò. Quella notte sarebbe stata la più
triste di tutta la sua vita, avrebbe preferito morire anziché assistere al proprio
fallimento; e poi le donne del villaggio cosa avrebbero detto di lei? Arrivata a casa
guardò con aria desolata la tela, che riempiva la stanza fin quasi al soffitto e salì in
camera sua. Non pensò neppure a spogliarsi, si gettò sul letto così come era vestita, al
buio, e rimase immobile; non sperava neppure di riuscire a dormire: sapeva che
quella notte per lei non sarebbe mai finita. Pian piano le voci del villaggio tacquero e
le luci, a una a una, si spensero.
Era ormai notte fonda e Agnese se ne stava ancora supina, immobile, con la testa
piena di pensieri e il cuore pieno di tristezza. Stava pensando che di lì a poche ore
sarebbe stata l'alba del gran giorno, quando, a un tratto, nella sua mente balenò
un'idea luminosa e davanti ai suoi occhi prese forma quel ricamo che per tanti giorni
aveva cercato di fare, ma che sempre le era sfuggito. Ecco, adesso lo vedeva
nitidamente! Sì, non potevano esserci dubbi, era proprio quello. Come era bello!
Nessuna parola poteva descriverlo, era un'immagine paradisiaca, che nessun altro
sarebbe stato in grado di immaginare; che colori, che armonia, che forme sublimi! Ma
perché non era riuscita ad afferrarlo prima, perché per tanti giorni quella meraviglia si
era presa gioco di lei, apparendole velata, travisata tra le ombre della sua coscienza,
per poi svanire non appena le pareva di averla afferrata? Ma non era certo Agnese il
tipo che si dava per vinta prima di aver giocato tutte le sue carte. Si alzò di scatto e
scese le scale di corsa; c'erano ancora alcune ore di tempo e se Dio l'avesse aiutata
forse poteva ancora farcela. «Mani, mie belle mani, dovete lavorare così velocemente
come mai avete fatto nella vostra vita, e senza mai sbagliare. Occhi, occhi miei belli,
dovete vigilare come mai avete fatto nella vostra vita, e senza mai battere ciglio».
Accese febbrilmente tutti i lumi che aveva in casa e quelle luci fioche tremolavano
misteriose tra le fantasmagorie multicolori dei ricami. Infilò l'ago, si sedette, ma...
Proprio in quel momento si accorse che la sua tela, quella lunga tela che con tanto
amore aveva tessuto era finita; ne restava solo un pezzetto, piccolo, piccolo,
sufficiente appena a fare un nastro per capelli. Ebbe solo il tempo di esclamare:
«Oddio! », perché in quel preciso momento sentì il cuore fermarsi nel petto e la vita
uscirle dal cuore.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
L’ULTIMO BALLO
scritto da: Marimari
La musica era piuttosto alta, ma la voce dell'animatore la sovrastava, uscendo dal
microfono un po’ distorta. Gli incitamenti e le spiegazioni fioccavano sulle persone
che si dimenavano a tempo di musica, non sempre seguendo le direttive
dell'instancabile Alfredo, che si asciugava il sudore e continuava imperterrito il suo
lavoro. Pareva quasi che si divertisse, anche se i suoi allievi non mancavano di
perdere il ritmo o di girare in senso contrario. Certe sere proprio non andava, ma al
mare ci si vuole solo divertire, mica si deve imparare a ballare per forza.
Si riconoscevano immediatamente le coppie di una certa età, che , un po' in disparte,
ballavano in perfetta armonia, le gambe del cavaliere parevano legate a quelle della
dama, pure mai un piede calpestava l'altro, né una mossa era fuori tempo. Loro il
ballo lo avevano nel sangue, danzavano scalzi da giovani, su vecchie aie polverose o
su rumorose piste di legno, accompagnati magari solo da una fisarmonica, ballavano
dopo lunghe giornate di lavoro nei campi, con le mollette in tasca, quelle che
servivano per impedire ai calzoni di infilarsi nei raggi delle ruote delle biciclette.
Le donne, allora giovani, volteggiavano con le sottane lunghe e zoccoli ai piedi, e ora
sognavano il bel tempo andato, strette ai loro compagni, in quella piccola, rumorosa
rotonda sul mare, proprio come la chiamava Bongusto, e Alfredo continuava il suo
lavoro sudando, guardando i giovani malati di discoteca e non avvezzi a mazurche e
valzer, e invidiava gli anziani, la loro tranquilla eleganza nel ballo, la loro quieta
voglia di ricordare, almeno con le danze, che giovani lo erano stati anche loro.
La vecchia signora seguiva le coppie di ballerini con un sorriso a fior di labbra, il
cuore forse un po' pesante d'invidia. Sedeva silenziosa, sola, su una sedia a rotelle, e
le sue vecchie gambe stanche non fremevano più al ritmo della musica, ma il cuore,
quello sì, quello seguiva con desiderio il ritmo cadenzato di un valzer, lo scoppiettio
di una mazurca, il serio contegno di un tango.
Tutte le sere la vecchia signora si faceva accompagnare dalla nipote alla pista da
ballo, poi si metteva in un angolo e guardava, mentre la nipote scappava a passeggio
col moroso, o si lanciava, ma raramente, dietro le direttive di Alfredo. Poi, sul tardi,
la nipote tornava, riaccompagnava la nonna all'albergo e subito usciva, anima
inquieta e nottambula, per ricomparire all'alba, sazia di baci e carezze, ma non felice.
- Non capisco che gusto ci sia a passare tutte le sere qui, a veder ballare gli altri aveva più volte osservato Katia, la nipote.
La vecchia signora aveva sorriso, non aveva risposto, spesso i giovani hanno tanta
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I Giovedì di Scrittura Fresca
fretta che nemmeno le ascoltano le risposte, ma come avrebbe potute spiegare lei,
Maria, alla nipote che guardava l'orologio in attesa del suo lui, che anche a veder
ballare si può essere felici, solo poco, magari, ma sempre più che a passare anche le
sere a giocare a carte, o a parlare di tutto e di niente con persone della sua età. La
musica può farti sognare, basta saperla ascoltare con rispetto, senza massacrarla come
si fa nelle discoteche, musica sempre uguale, frastornante, quella mica è musica.
Come poteva Katia capire, Katia che proprio in discoteca si annichiliva quasi tutte le
sere, che la musica da ballo può farti tornare bambina?
La vecchia signora ascoltava, sorrideva, piangeva anche un poco, quieta, dentro di sé,
nel modo che più fa male, ma non si può imporre agli altri la propria sofferenza, non
si può spiegare il desiderio di un ballo, un ultimo ballo, negato alle ruote di una
carrozzella, agognato dal cuore di una vecchia signora incapace di rassegnarsi.
Giuseppe ballava con la stessa spensierata sicurezza con cui veniva a prenderla, con
la vecchia bicicletta nera dal manubrio diritto, e lei saliva sulla canna, e insieme
andavano lontano, ovunque si ballasse, dimentichi della stanchezza, ebbri di gioia di
vivere, le gambe che già fremevano, il cuore leggero. Ballavano senza stancarsi mai,
e poi tornavano silenziosi nella notte sulla loro bicicletta, e lui le rubava un bacio, ma
solo quello, poi partiva fischiettando, e anche quando si erano sposati avevano
continuato ad andare a ballare, solo che lui dopo non aveva dovuto più lasciarla per
tornarsene a casa, ma aveva fischiettato lo stesso, le aveva rubato ancora un bacio, e
non solo quello.
Ora Giuseppe non c'era più e lei, Maria, andava sulla sua sedia a rotelle a veder
ballare gli altri, e il cuore le si stringeva un poco, è vero, ma andava lo stesso, ed era
felice così, anche se le faceva male. Era vecchia, e lo sapeva, ma avrebbe ballato
ancora.
E una sera ballò, il suo ultimo ballo, quell'ultimo ballo che sognava da tanto, proprio
la sera dell'ultimo giorno di vacanza. Se ne stava quieta come al solito, in un angolo,
quando un giovanotto le si avvicinò, dopo averla osservata a lungo. Era un capellone,
uno di quei giovani che sembrano avere sempre fretta, che non sembrano ascoltare
mai. Vestiva in modo trasandato, forse, canottiera e jeans sfrangiati al ginocchio.
Aveva un viso dai lineamenti duri, ma un sorriso tranquillo, di serenità interiore.
- Permette? - le chiese educatamente e poi, senza aspettare risposta, guidò la
carrozzella sulla pista, urtando ballerini senza darsene pensiero, e sulle note di un
valzer, con perfetta padronanza, la fece girare, piano, e poi un poco più forte, mentre
la pista si vuotava e alla fine rimasero solo loro, padroni assoluti della musica e del
tempo.
Maria avrebbe voluto chiudere gli occhi, si sentiva frastornata, ma non voleva
perdere un istante di quel ballo e così si guardò attorno, ma non vide la balera, vide la
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I Giovedì di Scrittura Fresca
vecchia aia, i vecchi amici di un tempo, e si sentì stringere tra le braccia da Giuseppe,
aspirò il suo forte odore di tabacco e cuoio e salute, e fu di nuovo giovane, la vecchia
signora, e si lasciò andare al richiamo della musica e fu totalmente felice.
La musica si tacque.
La vecchia signora si trovò al solito posto.
Seppe di aver sognato, ma una gioia nuova le riempiva il cuore.
Si guardò attorno, gli occhi ancora brillanti.
Incontrò il sorriso di un capellone
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UNA VOLTA, ANTICA
scritto da: Leone
Occhi fissi a guardare stupiti.
Una terrazza, fiori in giardino
il tappeto verde s'incupisce,
sopra.
Nero,
su un corpo di donna.
Fiori, gialli e rossi sul vestito.
Lei, la donna, avrà 35 anni anni,
l'uomo 40 o forse qualcuno di più.
Ha gli occhi grigi, lei,
lui verde muschio
e
trottolano,
capiscono gli occhi spillo della bambina stupita.
Qui, di fianco, di fianco a me, guarda, il papà dice:
Uno.
Piede destro in avanti.
Due.
Piede sinistro in avanti.
Tre.
Piede destro in avanti.
Va bene.
Volta.
Volta! Così. Da questa parte.
Di nuovo:
uno: cosa devi fare?
Piede destro in avanti.
Bene.
Due: adesso?
Piede sinistro in avanti.
Tre.
Piede destro in avanti.
Volto?
Volta, dall'altra parte.
Ancora:
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I Giovedì di Scrittura Fresca
uno.
Piede destro in avanti.
Due.
Piede sinistro in avanti.
Tre.
Piede destro in avanti.
Volta.
Un'altra volta.
Uno. Piede destro in avanti.
Due. Piede sinistro in avanti.
Tre. Piede destro in avanti.
Volto.
E una ancora:
piede destro in avanti (uno)
piede sinistro in avanti (due)
piede destro in avanti (tre)
(voltare)
destro avanti, sinistro avanti, destro avanti, voltare.
destroavanti, sinistroavanti, destroavanti, voltare,
destroavanti sinistro avanti destro avanti voltare,
voltare, voltare.
Volta.
Adesso di fronte: dammi le mani, morbide le braccia:
uno,
due,
tre.
Volta.
Volta.
Un,
due,
tre,
volta.
Un, due, tre, volta.
Un due tre volto.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
unduetrevolto
unduetre e volto
gira
unduetreevolto
unduetrevolto, gira.
uneduetrevolto e gira
unduetrevolto e giro
unduetrevolto, giro
unduetrevoltogiro
uneduetrevoltogiro
uneduetrevoltogiro
uneduetrevoltogiro
uneduetrevoltogiro
girounduetrevoltogiro
unduetrevoltogiro
Volto.
Giro.
giro giro giro.
girogirogiro.
girogirogiro.
girogirogiro. girogirogiro.
girogirogirogirogirogirogirogirogirogirogirogiro.
Mamma, vai avanti tu!,
ridono occhi marroni
che guardano trottole
dai mille riflessi e colori.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VERTIGINE
scritto da: Omar Kesabian
E così miss Vonegut accavalla una gamba, ha lo sguardo imbronciato e fissa una
corona di spine riprodotta in un quadro a olio: “Si può avere qualcosa da bere?”
Nell’ampio salone la musica di un valzer, sulle cui pieghe molli danzatori lasciano
scivolare le gambe, volteggiando.
Il francese, con le sue scarpe sporche di fango, è seduto sul divano e discute di certi
tristi errori commessi in passato, e della necessità di liberarsi di alcune strutture.
“Inutile zavorra, di questi tempi” afferma guardando fuori dalla finestra, come se
all’esterno del davanzale questa sua affermazione si palesasse in tutta la sua
nitidezza. Fuori, d’altro canto, nevica.
L’uomo calvo che lo ascolta fuma e non stacca un attimo gli occhi dalle gambe di
miss Vonegut che solleva un indice, fissa un cameriere negli occhi e ripete: “Si può
avere qualcosa da bere?”
Il suo profilo si staglia contro la pallida carta da parati rosa, come se la sua figura si
spandesse dallo sfondo contro cui appare in contrasto, macchia di sangue su un
vestito da sposa.
Sul pavimento i tappeti si rincorrono in pieghe liquide, senza che nessuno, fra i vari
tacchi che li lisciano, si prenda la briga di appianarle.
Una lampadina, su un’applique voluttuosa inchiodata al muro singhiozza e si spegne,
come un colpo di tosse.
Miss Vonegut, attenta osservatrice di ombre, riceva dal cambio di luce un senso di
stordimento, “Una vertigine” dirà, mentre qualcuno l’accompagna fuori con il gomito
a squadra incastrato nel suo.
Il cameriere, di ritorno dall’ordine di un volto che non dimenticherà, resta con un
bicchiere di vino in mano, guardandosi intorno, una mano dietro la schiena.
E in cucina cade un coltello, con più efficacia e nitidezza.
Fra le due immagini il senso di una storia che cammina di riflesso in riflesso, per
esclusione, fino alla scena originaria.
*
In una piantagione di caffè, in Brasile, d’improvviso le mani che raccolgono e
mettono da parte vengono sorprese dal disordine continuativo di una pioggia bianca
che non hanno mai visto.
Una nevicata, con l’eleganza e il disordine tipico delle cose incoerenti e vive viene
giù a spirale, mente tutti i nasi si voltano verso il cielo, francesi.
In alto.
Così come dall’alto, il poeta, alle due del pomeriggio versa zucchero in una tazzina di
caffè, rimirandone il bordo dorato.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Resta ad osservare la crosta assorbire e ingoiare, componendo tante croci col
cucchiaino dentro alla tazzina, per sciogliere, per mischiare, proprio come dalle
immagini si creano le frasi.
In quel momento entra una ragazza, ha gli occhi inchiodati nel muro opposto, lo
sguardo che si inchioda alla fine della scena, come lei fosse in un punto lontanissimo
e si osservasse compiersi.
Il poeta ha appena il tempo di notarla, sagoma nera in contrasto con la luce
proveniente dall’esterno – notarla alzare un braccio, e alla fine del braccio la mano, le
nocche sbiancate, l’occhio muto della pistola, e la deflagrazione.
Una macchia a forma di isola si apre nella camicia bianca del poeta, colpito al cuore.
Colpito al cuore.
Così come in una strada di Venezia, circondata dalla calma abbondanza del mare in
grigio e dal profilo della basilica, una ragazza, seduta per terra, sente una goccia calda
scivolarle dal naso, e andare a cadere sul foglio che tiene in mano, una poesia.
La ragazza fissa la goccia slabbrata a forma di isola che si apre sul foglio, simile a
una macchia rossa su un vestito da sposa, a coprire una sola parola: cuore.
In quel momento, in un mite valzer, due fogli di giornale le si fanno incontro dalla
piazza, non visti, sospinti da un vento che li muove circolarmente, lento e languido,
musica delle cose inerti.
I fogli di giornale, passo dopo passo, muro dopo muro, raggiungono le gambe della
ragazza e si bloccano, avvolti alle sue caviglie.
Lei li fissa, inconsapevole della danza e dei danzatori, piccola dea distratta come la
mano che distratta li raccoglie, e leggendo su una pagina la parola “perduto” li getta
in un cassonetto, alzandosi, e infrangendo definitivamente l’immagine, o riportandola
da dove essa proveniva.
L’immagine.
Quella di due ballerini in un’ampia sala, che volteggiano sulla musica di un valzer,
esclusi – fuori la neve – una lampadina in un’applique che emette un piccolo colpo di
tosse e si spegne, inchiodata nel muro – i due, vicendevolmente assorti l’uno ad
abitare gli occhi dell’altra, giro dopo giro, piegando dolcemente le gambe, vanno a
cozzare contro uno specchio, che frantumandosi si divide in una molteplice
schizofrenia di immagini, non viste, fra cui quella di un cameriere che sta con una
mano dietro alla schiena, in cerca di una signorina che le aveva chiesto qualcosa da
bere ed è improvvisamente sparita.
Nella cucina, un cuoco cinese con una figlia cieca si lascia sfuggire un coltello che
cade al suolo, riflettendo per un secondo, mentre la porta aperta dal cameriere
sventola sullo stipite, le caviglie di miss Vonegut che pronuncia: “Una vertigine”.
Che il francese che la sta accompagnando fuori morirà il giorno dopo sono solo
pettegolezzi di una penna frivola.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
GITA A FRIBURGO
scritto da : Dolphy
Si rese conto improvvisamente che il tempo, quello vissuto, era al suo termine.
Fece una semplice somma algebrica: i giorni passati erano più numerosi di quelli a
venire.
Incredibile come tutto precipita, una grande corsa la vita e una brusca frenata davanti
a un baratro, quel baratro.
Luisa aveva molti più di anni di quanto ammettesse a sé stessa e quel suo pervicace
attaccamento al passato la rendeva immune al trascorrere del tempo.
Viveva ormai quasi isolata nella sua camera da letto. Sul tavolino una scelta di
vecchie foto, in un portacarte sulla toletta una busta con le sue ultime volontà, ritagli
di giornale, alcune prescrizioni mediche. Su uno dei comodini accanto al letto il
lettore di CD e nastri con canzoni ascoltate e riascoltate, canticchiate a voce bassa.
Sulla poltrona ad angolo i due gattoni dormicchiavano praticamente tutto il giorno,
pelo contro pelo.
Una vita molto intensa la sua, quando negli anni ’40, moglie di un funzionario della
Shell Oil in Sud America, era solita fare la spola tra il Brasile e l’Europa sui grandi
transatlantici che solcavano l’oceano in venti giorni. Le feste di bordo erano la sua
specialità e il suo carnet da ballo era sempre pieno. Gin tonic la sua bevanda preferita.
A Firenze l’aspettava il suo tenente tedesco, una stanza sui tetti, un giradischi con le
canzone americane delle grandi orchestre e un carillon.
Si rese conto.
Lo sguardo fisso su quella foto e vecchie note a canticchiare vecchie strofe. Nella sua
mente un abbaino che guardava le stelle, due occhi blu di ghiaccio
- ancora un giro, prima che tu parta
Di lui non seppe più nulla per anni e anni, sparito, ingoiato dalla storia e dalla ritirata
tedesca verso il nord.
Una volta provò a cercarlo. Le fu detto che era stato dato per disperso durante la
ritirata.
Non lo cercò più allora per paura di sentirsi dire che era.
Ora, sul finire della sua lunga vita aveva deciso di fare una ultima gita dove Rudi era
nato e cresciuto e probabilmente sepolto. Organizzò minuziosamente quel viaggio
alla memoria e con molta fatica giunse a destinazione. Prese alloggio in un
alberghetto vicino alla stazione per qualche giorno.
L’indomani del suo arrivo si fece portare con un taxi al cimitero locale, cercò la
tomba di famiglia e la foto di un ufficiale in divisa, ma invano. Delusa tornò in
albergo. Il giorno
dopo si recò all’indirizzo conosciuto, una villetta fronte strada con un giardinetto ben
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I Giovedì di Scrittura Fresca
curato. Suonò con mano tremante. Un’anziana signora si affacciò alla finestra e scese
ad
aprire la porta.
- abita qui Rudi? - chiese Luisa
- chi lo desidera?
- sono Luisa
La vecchia sbiancò in viso e balbettò qualcosa, aprì la porta e la fece entrare.
Nell’ampio salone, in controluce, una figura era seduta su una sedia a rotelle, di
spalle, immobile. Lentamente la sua mano girò la sedia e due occhi di ghiaccio la
fissarono, l’uomo ebbe un sussulto e la sua testa si accasciò sul petto.
Luisa lo riconobbe immediatamente nonostante le rughe, i capelli bianchi e le
cicatrici sul suo volto. Restò impietrita per l’emozione.
La vecchia cacciò un urlo e corse verso l’uomo poi guardò la donna, la prese per un
braccio e l’accompagnò velocemente alla porta.
La sera stessa Luisa ricevette una telefonata con la quale la pregavano di partire e non
tornare più. Il cuore di Rudi non lo avrebbe sopportato.
Due giorni dopo, Luisa era nella sua casa di Arezzo. Lasciò cadere la borsa da
viaggio all’ingresso e come un automa si recò nel salone, aprì il cassetto del
secretaire e ne tirò fuori un carillon. Dette la carica e la bambolina iniziò a girare al
suono di un valzer.
Luisa si abbandonò sulla poltrona, prese tra le mani la foto ingiallita dal tempo e un
velo le annebbiò la vista.
- Ancora un giro, prima che tu parta
Quelle parole risuonarono come una pietra in fondo al lago dei ricordi. La bambolina
terminò il suo giro e la musica cessò, così anche il suo dolore.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN GIRELLO DI VALZER
scritto da: Fabrizio
- Dura la vitella! - si prendeva in giro Rashid, un macellaio indiano buddista che
credeva nella reincarnazione ma che faceva più affidamento sulla carne. Dura sì,
colpito a destra dalla mucca sacra e a manca dalla mucca pazza. - Porca vacca! Bestemmiò, lui che viveva ad oriente. Un figlio, una moglie e una collezione di
figurine di calciatori internazionali. Lui era tifoso della Giuve, anche perché la Giuve
in India era famosa e perché Rashid era pur convinto che nella vita come nel calcio
c’è bisogno di rigore, e se uno si budda… beh, sta dando il suo assenso alla religione
(scherzava mescolando sacro e profano).
- Sereni auspici! - , esclamò Rashid, rivolgendosi ad un monaco dell’ordine degli
arangianti del tempio di katmanduiott, - che posso servire a vostra anima? - . I monaci
parlavano poco e compravano anche meno, si chiamavano arangianti proprio perché
dotati di capacità d’arrangio senza pari, sostanzialmente una comitiva di Mc Giver
che, entrati in possesso di una matita, di un uovo di camaleccornia e di un tampax,
erano in grado di costruire una zattera da tre posti con guanciale per la notte e
cambusa integrata. Rashid tagliò delle fettine di elefantasma zelante e diede in
omaggio un salamino di galagone pezzato che i monaci apprezzarono, anche se il
macellaio rimase col dubbio che non capissero bene la destinazione d’uso (culinaria,
tuttattaccato) del cadeau.
Era quasi ora di chiusura, il cellulare squillò più volte, la suoneria recitava versi di
monaci buddisti col voto del silenzio, Rashid optò per il vibracall. Si faceva sera, sul
fiume Gange, alcuni bambini vendevano puntini da fronte per santoni pronti ad
invadere l’occidente non prima di aver pagato un master alla scuola italiana di Wanna
Marchi, più in là un Eufrate con una sedia in mano domava Tigri. Non era una scena
violenta, ma erano decisamente dei fiumi in piena. A sud, i cowboys finalmente
raggiunsero gli indiani, ma resisi conto che non avevano in testa neanche l’ombra di
una penna e che Toro Seduto stava in piedi dal ridere si rassegnarono e presero a
fucilate tutte le vacche sacre del circondario, una di queste schivò un colpo e
rivolgendosi ad una compagna di ruminanza disse “Muhhhhhhhhhhhhhh”. L’altra
venne colpita a morte, ma fece in tempo a rispondere “Oh, mi hai tolto le parole di
boccaahhhhhhhhhhhhh.......” e si consacrò definitivamente al dio barbeque.
Rashid guardava interessato tutte queste cose ma non ne faceva una questione
personale, e anzi non si fece abbindolare da un americano di origini scozzesi che
sapendolo macellaio gli proponeva di entrare in affari con lui. - Mi dispiace - disse il
nostro - non sono interessato ai suoi medaglioni di carne… Ho progetti più seri, io,
signor Mc Donald… -, orgoglioso dei suoi principi rispose di nuovo al telefono. La
moglie Danash gli ricordava che dopo cena avevano lezione di ballo. - No problema , rispose il marito con un accento transalpino, entrando già nella parte del ballerino un
po’ bulletto francese, che lega il motorino alla torre Eiffel con la catena e poi danza
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I Giovedì di Scrittura Fresca
con la sua bella sui Campi Elisei. E tiptapando verso casa chiuse la porta alle assurde
vicende che osservava intorno a sé.
Dopo mangiato, stufi dello stufato di uffa (animale dal muso lungo ma dalla carne
tenerissima) che avevano scaldato sulla stufa, presero la loro barca di sughero
sardindiano e con una gita lungo il fiume che si rivelò romantica perché benedetta da
una luna d’ebano, andarono fino alla palestra di Visnu’. Rashid era eccitato. Voleva
provare un tango argentato con un rosario di salsicce di porcilum (insugnato di carne
affumicata con sostanze buone buone), oppure un rock and rollé da tacchinaggio,
magari con l’opzione di scambio coppia per avere l’opportunità di tastare il petto di
pollastra. I suoi erano ovviamente interessi professionali, ma questi di tanto in tanto si
rivelavano un macello, la moglie lo accusava di preferirle delle vacche da
importazione, lui replicava che era solo lavoro e che cosi facendo stava solo mettendo
troppa carne al fuoco, in fondo ora erano lì per ballare, non per discutere.
La maestra Ester Parishgi richiamo’ la loro attenzione. Spense le luci, chiese loro di
chiudere gli occhi, li prese per mano uno ad uno e li portò immaginificamente
sull’astronave di 2001 Odissea nello spazio (alcuni nervosamente immaginarono Jack
Nicholson che sbucciava arance meccaniche e vedevano bucce arangianti danzare nel
cosmo), diede uno schiaffo discreto ma deciso a Rashid che invece della mano aveva
tentato di prendere nell’ordine una coscia, un filetto e una tetta della Ester, accese lo
stereo, illuminò la sala come un planetario, poi li spinse a credere che tutti fossero
sulla riva del Danubio blu (“Ci saranno topi?”, si chiese Rashid, “e saranno buoni da
farci involtini primaveratti?”) quindi pigiò play e il giro di valzer ebbe inizio.
Tutti si annullarono armoniosamente in una coreografia dettata dalla loro anima che
si era incastonata con le note del valzer con la perfezione di movimento di una catena
di montaggio ma con la poesia di un cartone animato della Disney. Ester era
commossa, quei personaggi, sconosciuti al mondo, anche goffi, con speranze risibili e
desideri opinabili, che prendevano lezioni per orientarsi, sebbene fossero in oriente,
ma per trovare un’armonia in generale e non solo nel ballo, ora si proponevano
perfetti e chiunque li avesse potuti vedere in quel momento li avrebbe invidiati perché
assolutamente felici. Rashid sorrideva, trasportato dal giro di valzer, la moglie lo
amava trasportata da lui, lo tsunami che avrebbe dovuto di lì a poco alzarsi per fare
una capatina sulla terra ferma rimase estasiato da tanta serenità, decisamente restìo a
volerla interrompere andò a sbattere la testa sugli scogli di un’isola dove alcuni
militari ameiraqueni facevano esperimenti segreti (che tali rimasero).
Fu un giro di valzer, dunque, che impedì, almeno quella volta, che una statistica di
morte potesse andare in onda come spettacolo ad occidente, come teatro ad oriente,
ma soprattutto come somma di infinite tragedie che un giornale a/occidentale avrebbe
sintetizzato con la crudele breviloquenza di una statistica perfetta.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN GIRO DI VALZER
scritto da: Dario Carta
Non era sera quando finimmo
in quell’unico
stretto
giro di valzer
addormentato nelle scarpe
Fu la mano
ad incastrarsi appena
sotto la scollatura
sopra l’incavo glabro di vesti
- avidi sarti nella punta calda delle dita
ad aprirti lo sguardo
Capelli raccolti smisero d’essere
in breve
e la postura ormai fu rotta
in posa da tango
tra le tue gambe e il mio bacino
Musica in silenzio
ritmava di corpi la stanza
spegnendo le danze
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN GIRO DI VALZER
scritto da: Talesien
Piuma che voli
tra le mie braccia
nel giro
di un valzer
ci perdiamo
Sogniamo
di istanti
ancora da vivere
e tutto è leggero
d'estasi libera
Verde e turchese
col nero
screziato d'ambra
e seta
lasciano tracce
Di gioia
che puoi morirne,
su tappeto
di musica
come scroscio
allegro di torrente
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I Giovedì di Scrittura Fresca
OSTINATO FIORE CIRCOLARE
scritto da: Alessandro Gabriele
Il professore di fisica posò gli occhiali sulla scrivania di brutta formica e diede una
schienata secca alla sedia che, da par suo, non si fece sfuggire l’occasione per
scricchiolare di rimando una rispostina infastidita. Fuori dalla finestrella posta a due
metri e mezzo d’altezza la piccola città di Linz immersa nella camera oscura della
notte raccoglieva in silenzio l’estrema pena dei rami spezzati dall’ultima pesante
nevicata.
Nelle ristrettezze di una signora spelonca che poggiava proprio sopra la galleria del
grande acceleratore di particelle, il professore sbatacchiava la testa appesantita,
sgangherava coi pugni stretti gli occhi cisposi. Aveva controllato e ricontrollato,
aveva pensato una serie di pensieri, aveva quasi deciso di non decidere alla fine, di
nascondere tutto e tornarsene a casa rasentando l’indifferenza dei muri fino alla pace
comoda del letto prima che luce di nuovo fosse e tutte quelle facce, di traverso e
contro di lui, in fuga per le strade strette della piccola città.
Tre ore e mezzo prima, in verità e per un colmo che si dà solo ai momenti che sono lì
dal deragliare in disperazione, il professore era già corso a casa in un impeto di foga
autoprotettiva rischiando di impattare in quelle poche persone certamente cattive che
uscivano dal teatro in mezzo alla tormenta che flagellava Linz.
Non riuscendo a ricordarsi bene come fossero andate le ultime ore, aveva ingollato
per la terza volta la dose di pasticche spettanti alla serata, poi come tutte le sere aveva
controllato se per caso nel frattempo non fosse rientrata Marianne dalla spesa
quotidiana al mercato e infine si era buttato cinque minuti sulla poltrona del
soggiorno per scavarsi una piccola tana di pace.
Penso a Marianne, pensò, ci penso sì a Marianne, soprattutto quando mi viene meno
il coraggio. Mi appare lei perché il dinamismo del cerchio è uno dei motori
dell’universo, questo so. Lei, il suo volteggio ostinato di fiore circolare, quella vita di
giunco come più non ce ne son state, nessun altra grazia così sfacciata, a solcare i
grandi saloni impero del palazzo della Cancelleria. Ma penso anche a quando diversi
anni dopo usava ancora concedermi il piacere del tutto domestico di esibirci al
cospetto del grande Strauss in persona che se ne restava assiso come un feticcio
piccato sulla nostra dormeuse di terza mano mentre io e Marianne volteggiando
muovevamo quel po’ di vento che ci rimaneva tra il soggiorno il letto e la piccola
cucina in ricordo dei grandiosi tempi che furono. Che bellezza e che vergogna, mia
piccola libellula, ricordi?
Al momento di rientrare in laboratorio, la porta semimurata della spelonca che
occupava la parte bassa dell‘ala abbandonata dell’istituto di fisica di Linz lo avvertì
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I Giovedì di Scrittura Fresca
senza troppi fronzoli di fare piano altrimenti considerato l’accumulo di stridore
esausto e gli anni si sarebbe finalmente levata la soddisfazione di dargli l’architrave
sulla testa.
Il professore corse alla scrivania con la certezza che quell’ultimo giro di ricordi di
walzer gli aveva schiarito finalmente i pensieri. Anche Marianne avrebbe tirato un
sospiro di sollievo a sentire che la simmetrica follia dei calcoli di quella sera era
rientrata o era stata solo un abbaglio. Il professore, circostanza nient’affatto
disprezzabile peraltro, non avrebbe più dovuto presentarsi al cospetto di Eisemberg,
né obbligarsi per amor di scienza a confutare il neo-principio d’indeterminatezza
delle particelle subatomiche e l’imprendibile gaglioffagine delle loro traiettorie
spurie.
Il professore si allungò quanto poté sulla sganghera sedia che, leggermente intenerita
dallo sforzo evidente, gli risparmiò uno scricchiolio sinistro e fece fuori qualche tarlo
solo per fargli piacere. Il professore rifece per l’ennesima volta i calcoli, disegnò per
la ventesima volta il grafico delle traiettorie di ogni singolo positrone accelerato con
gli ultimi fuochi di precisione che riuscì a trovare in sé.
Non c’è pace, pensò sottovoce, nessuna pace, dev’esser giusto così, vai a sapere poi.
Fu quando si abbandonò infine allo sfinimento più logoro, una sciatta tremebonda che
portò in una frazione di secondo tutti gli anni della spelonca a pesare contro
l’architrave minaccioso della porta, fu solo allora che il professore ebbe visione piena
della natura del grafico, delle gravi implicazioni figurative dei tracciati, delle
sinestesie musicali applicabili in derivazione, della ridondanza dinamica
sfacciatamente reiterata che gli si parava di fronte sul grafico, quella folle simmetria
abituata a spiraleggiare che come una tempesta neutrinica avrebbe sollevato del tutto
la cigliosa rabbia di Eisemberg...
Era solo un giro di walzer mio dio Marianne Eisemberg non deve temere benché
traiettoria sfacciata così nell’estremità m’appare delicate ellissi furbe si incorrono e si
incorrono e si pressano son tali le impronte dei passi tuoi Marianne son solo molecole
di gas io ti ringrazio per questo sguardo estremo tuo piede pennello dio sinuoso in tre
quarti incedere in subatomo terra madre e colma infinita distanza ci separa nucleo
senza tacere la proporzione relativa delle grandezze che è la stessa replica solo ora
vedo Marianne la stessa replica d’architettura dolce e incontenibile che tiene insieme
le stelle e slarga l’universo anche se adesso è tutto buio è tutto UNO e non potrò più
dirlo e non potrò più dirlo e altro non capiterà
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN WALZER DI FIORI
scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo
La Margherita
Margherita porta l’infanzia in bocca
ed i suoi petali bianchi girano
come pali del mulino al vento
quando indossa il grembiule
da mattina a sera resiste
come primo ed ultimo fiore al tempo
La Viola
Nei fili d’erba
un posto d’onore
per l’umile fiore
che canta in coro
Composto di specchi
d’ombra e d’amore
si veste e si spoglia
del suo colore.
Allo spirito delle fate
dedica la sua danza.
La Rosa
Cortese regina dell’eros
che tra petali gaudenti
avida ti apri ad umidi segreti
Prometti soddisfazione
ma taci del dolore
che veste lo stelo
troneggia l’amore
Morire senza corona potresti
ma non senza spina
74
I Giovedì di Scrittura Fresca
che se per donarti
ad una mano gentile
ti spogliassero di essa
profanerebbero
non solo l’orgoglio
ma anche l’onore
dell'indiscussa regina
che ondeggia sul trono.
Il Tulipano
Danza di gocce su petali giunti
come mani in preghiera
lo stelo ad arco al sole s’innalza
tra pioggia e colori di nubi viaggianti
La bella stagione in punta di piede
al tulipano incede
che ora a petali dischiuse
strappa un sogno dal cielo
Il Papavero
Il sole si estende
sui papaveri ardenti
e memoria ondeggia
al tiepido vento
Sui petali un morso
dell’attimo fuggente
prendono a brillare
gocce carminio
tra bionde spighe del grano.
L’Orchidea
Sei sbocciato orchidea
a svelare segreti porpora
dai petali eruditi
un manifesto di vita
75
I Giovedì di Scrittura Fresca
Ti ergi potente e fiero
a scalfire l’aria di vita breve
Ti è concesso morire
aristocratico ed elegante
ad inondare la stanza
di quiete e di solitudine
restano a sfaldare
misteri d'Oriente.
76
I Giovedì di Scrittura Fresca
77
I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Tre 24 Marzo 2005
MUMMIE
Hanno partecipato:
CYB – Roberto
Dice la sabbia del deserto (special guest)
Alessandro Gabriele
Mummie (racconto quasi sapienziale)
Dolphy
Mummie
Fabrizio
A’ mummia
Petrolini
Horrorganizzazione di un museo (in Ramsettete fasi)
Dario Carta
Le mummie
Vaan
Mummia (lo spettro della totalità)
Fulvia Rommel
Necatrix
Come una mummia regale in una piramide con
coordinate di stelle
Sexi-mummia
Virginia
Mummia liberata?
Leone
Mummia?
Ettore Bilbo
Figlia della bellezza
Fucsia
Povera mummia povera
Doremi
Carta igienica
Serenella
La mia mummia
Talesien
La mummia
Nicola Martini
Voglio morire in beata solitudo, annegando nel
fermentino (Imothep)
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I Giovedì di Scrittura Fresca
DICE LA SABBIA DEL DESERTO
scritto da: CYB Roberto
Spero che tu possa comprendere il significato della carezza del vento del Sahara e le
parole sussurrate dalla sabbia di questo deserto che punge delicatamente la tua pelle,
sotto questa brezza al morire del giorno, in discorsi di avvertimento.
Ti vedo assorto e rapito, accoccolato sul crinale di una altura, ad osservare una teoria
di dune che scuriscono al tramonto mosso, mentre l’aria raffredda e le ombre
allungano una scura coltre su palmizi lontani.
Il cielo è terso ora, senza riverberi, con il sole che rapidamente scompare
all’orizzonte, e i colori sono più accesi in un purpureo espandersi che stupisce e lascia
sgomenti.
Sensazioni già da me provate, splendide, di struggimento che invoglia a piangere di
gioia per la grandezza della natura anche nei suoi aspetti più desolati.
Spero che tu possa apprezzare l’ultimo mio abbraccio di polvere e granelli di rena che
il vento sospinge laggiù oltre quella gobba più pronunciata di altre.
Ascoltami prima che io mi allontani.
Non oltrepassare mai quella duna.
Ascolta lo spavento dei saggi berberi che non osano avventurarsi oltre, verso quella
landa che si perde in quelle lontane gole rocciose.
Non insistere per dirigerti di là.
Leggi in quei volti smerigliati, di cuoio, la paura che salva l’esistenza nel rispetto di
ciò che si conosce e si teme.
Io non volli prestare loro attenzione, derisi l’antica sapienza dei popoli del deserto, e
ora non posso che avvertirti mentre accarezzo i tuoi abiti sudati che odorano di
benzina e latte fermentato di cammella.
Ti pizzico la pelle del viso e cerco di chiuderti gli occhi irrequieti per evitarti il mio
stesso atroce destino.
Ero come te, non tanto tempo fa: baldanzoso ed entusiasta della vita, curioso come
quei babbuini che vidi a Gibilterra, impertinente e sfacciato come quei ragazzini
svegli di Tunisi dal sorriso candido come sale marino.
Sfidai le terre aride.
Ero bene equipaggiato: cammelli e dromedari, guide, viveri e acqua.
Mi sentivo il signore del deserto e mi pavoneggiavo in abiti non miei come se fossi a
casa mia.
Gli accompagnatori indigeni scuotevano il capo tra compianto e divertimento
incredulo.
Essi sapevano chi è il vero padrone delle zone che avevo deciso di esplorare.
Cercarono di dissuadermi dal continuare oltre queste dune che ora tu contempli al
tramonto.
Mi parlarono sommessamente del Signore degli Scorpioni e del suo territorio da non
79
I Giovedì di Scrittura Fresca
profanare.
Li apostrofai come servi codardi, senza rispetto per il loro sapere, impudente, e mi
avventurai orgogliosamente da solo oltre quella gobba, a tardo pomeriggio, con il
fresco, ignorando brezze carezzevoli e sabbia sul volto che mi scongiuravano di non
proseguire.
Ahimè: non conoscevo il linguaggio del vento e della sabbia.
Avevo deciso di pernottare in prossimità di una gola, quella laggiù lontana, che
sembrava quasi a portata di mano in un effetto ottico traditore delle deboli percezioni
umane.
Avevo con me poco bagaglio e un dromedario che stranamente recalcitrava, neanche
fosse stato un altro zotico berbero della mia carovana.
Procedevo a piedi e lo trattenevo per la cavezza; ero costretto a strattonarlo, di tanto
in tanto, per evitare che si impiantasse nella sabbia finissima che stava raffreddando
velocemente al crepuscolo, curiosamente rossastra in un contrasto cromatico
splendido e inquietante.
Mi venne in mente un’associazione di idee pittoresca, con immagini di mummie
polverizzate di antichi musei: avevo la sensazione, infatti, di camminare nella polvere
sedimentata e solidificata di secoli di storia.
Il rossiccio, con l’incedere del buio, assunse toni violacei di sangue.
Il cammello improvvisamente scartò per qualche ombra o per un cedimento del passo
e mi sorprese disattento.
Mi sfuggì il laccio dalle mani e vidi la bestia fuggire, verso la direzione da dove
eravamo venuti, in un galoppo sfrenato di animale impaurito.
Valutai con freddezza che non mi ero allontanato poi troppo, ma che non avrei
dovuto proseguire oltre: avevo con me solamente una borraccia e uno zainetto con
pochi viveri e un caffettano arrotolato per affrontare i rigori della notte.
Mi volsi intorno ed ebbi i primi avvisi di ansia per nuove percezioni mai provate
prima.
Rumori.
I rumori del deserto nella sera incombente illuminata da una luna che appariva come
un ghigno storto a deridermi per l’imprudenza e la superficialità.
Tutto intorno a me ormai dominavano i colori blu petrolio, violaceo sempre più
scuro, nero e un fievole baluginare lattiginoso che conferiva al paesaggio un’aura
spettrale.
Percepivo nell’atmosfera circostante un odore persistente di polvere e di terra riarsa
che rifiatava.
E ancora i rumori…
Uno sfregare sommesso di creature che fuoriuscivano dalla sabbia nel silenzio di
un’aria morta senza più vento.
Alla luce fioca distinsi piccole sagome luccicanti di nero e rabbrividii: scarabei…e
scorpioni…
Mi maledii per il pressappochismo e per la smania di curiosità non disciplinata dalla
prudenza.
80
I Giovedì di Scrittura Fresca
Mi posi in difensiva, attento a non pestare nulla che si agitasse, scrutando nel buio
febbrilmente un riparo che mi concedesse il piacere di sdraiarmi per riposare.
Le dune parevano scomparse: solo una immensa scura distesa piatta e uniforme
brulicante intorno a me di impercettibili strofinii.
Poi avvertii altro e la mia inquietudine cominciò a trasformarsi in vera paura.
Udii un sordo brontolio grave e notai il riaffiorare di una nuova brezza, gelida, che
smuoveva il terreno in sbuffi.
Mi stavo abituando alla poca luminosità e potei osservare, con raccapriccio, intorno a
me, in controluce, un muoversi ondeggiante a pochi millimetri dal suolo, uniforme,
scuro lucido molto frastagliato, di zampe, di antenne, di chele, di pungiglioni.
La brezza aumentò di intensità sollevando mulinelli di sabbia umida e luccicante di
umori di insetti.
I mulinelli si cercavano e si univano tra loro sospinti dall’aria e la sabbia acquistava
una sua consistenza propria che aumentava di altezza e che pareva dotarsi di sua
autonomia nel movimento.
Mi coprii il volto a proteggermi dal vento che stava diventando violento: sollevava
sabbia e insetti e davanti a me si stava materializzando qualcosa.
Distinsi un essere grottesco e orrendo, un impasto di sabbia densa e fine impalpabile
come cenere, frammisto a gusci lucidi di scarabei luccicanti e di chele e corazze di
scorpioni neri brillanti alla luna.
L’essere creato dal vento si concretò come un gigante, rispetto a me, dalle movenze
controllate e severe e da una sua fisionomia umana minacciosa.
Mi fissava sogghignando.
I bagliori delle sue pupille erano due grandi scarabei fosforescenti nella notte.
La sua sagoma somigliava al corpo di un lebbroso, con insetti che individuavo come
ulcere e ferite su una pelle di talco granulato spesso, ora violaceo.
Poi trasalii di raccapriccio nel concentrarmi ancora su quello che ipotizzai fosse il
volto.
Allo sguardo maligno si era aggiunto un profilo disegnato da vari tipi di scorpioni e la
bocca del mostro era una chiostra di scorpioncini albini con due lunghi innaturali
pungiglioni bianchi al posto dei canini per il più mostruoso dei terrificanti vampiri.
Compresi agghiacciato.
Era il Signore degli Scorpioni, il principe del Male di quel territorio che io stavo
profanando con la mia presenza.
Rimasi immobile, affascinato dalla visione, terrorizzato come un lèmure.
La creatura si riscosse di vita propria e il suo sguardo si palesò vivo mentre il vento
cessò d’incanto evidenziando di nuovo l’eco di un incessante brulichio, discreto e
assordante insieme, in schizofrenica percezione della realtà.
Venne verso di me, il mostro, con quello spaventoso ghigno di cheratina rilucente,
diabolico Arcimboldo sahariano.
Mi sentii avvolgere e stringere da un abbraccio di talco, polvere, sabbia, mentre
percepii un risalire dai miei piedi di altre creature che mi zampettavano sui polpacci.
Subii, all’improvviso, innumerevoli punture, tutte insieme, lancinanti, per tutto il
81
I Giovedì di Scrittura Fresca
corpo, che mi paralizzarono nel terrore, e vidi il mostro chinarsi su di me con il suo
volto orribile.
Urlai e urlai a perdifiato nella notte, inascoltato.
Poi ebbi la percezione dello smarrimento di me, della mia figura come uomo in carne
ed ossa e sangue, nella consapevolezza di una condanna ad una maledizione per la
mia superbia.
Mi disfeci nel dolore e nella sofferenza.
Semplicemente.
Mi decomposi in una metamorfosi che trasformò la carne di uomo in cibo per le
creature del deserto, per poi mutare ancora in sabbia polverosa fina che è quella di
ora che ti mormora consigli, condannata ad essere viva e sospinta dal vento.
Ora posso solamente avvertire i curiosi che passano da queste parti sperando che mi
intendano.
Posso solamente sperare di riuscire a salvare un’anima per riuscire a trovare pace con
la mia anima nell’eterno riposo in questo terribile deserto.
Salvati, ti prego.
Ascolta il mio soffio per quello che conserva di umano.
Salvami, ti prego…
82
I Giovedì di Scrittura Fresca
MUMMIE (racconto quasi sapienziale)
scritto da: Alessandro Gabriele
"Non ti accorgi di come il vero scopo della Neolingua sia di restringere la capacità
del pensiero?
Alla fine compiere crimini di pensiero sarà quasi impossibile perché non ci saranno
parole per esprimerli...
Ogni anno sempre meno parole, e le possibilità di conoscenza ridotte..."
G. Orwell - 1984
Con queste parole, varando la ridondanza del significato in oltre 36 milioni di
differenti dialetti e impulsi e suoni, giurammo un’eterna fratellanza collettiva sotto i
crepuscoli grandinanti dei sette soli del quadrante Logos XIX.
Al termine della cerimonia e in seguito per molti eoni, non ebbi mai modo di
spiegarti ciò che pur è implicito nel compito della nostra discendenza, non ne ebbi il
desiderio nemmeno quando, nel corso di un esercizio di concentrazione collettiva
nell’altitudine olografica dell’orbita di Bazzan Zero, una delle tue ninfe
elettroplasmate di classe Rossy2 mi scagliò contro il suo grado sublimine acerbo
sotto forma di antichi linguaggi involgati.
Ciò che richiede tempo, o la carezza stentata di un attimo in cui tutto è intuito già, le
essenze, le conseguenze, il silenzio che adesso ci separa, Platoski.
Svegliatevi Mummie. Di nuovo è la salvezza di questo mondo l’ossessione che
percorre il filo sull’ultimo rocchetto di coscienza di quest’universo in guerre fisiche e
mentali che sta per rompersi in singhiozzi di regressione psicopolitica e s’appiattisce
in monologhi inquieti di cui pagheremo la confusione, pagheremo la guerra tutti noi
quattro lati destinati dell’Unico invisibile che regna centrale ed è nostra discendenza
unica.
Adesso qui in questa caverna, osservo i vostri antichi occhi conservati fissi in
brillantezze estetiche che seducono, sotto il fasciame di bende, dentro la forma di
materia rappresentata cui avete deciso di consegnare il verbo infine, sottraendolo dal
patrimonio comune.
Mummie.
Guardo e sono occhi, fasciame di nervi costretto dall’atto stesso ad assumere una
forma ideale che non ha niente di essenziale. Dovrò aprire questi sarcofaghi da
spelonca uno a uno fino a trovare la faccia che ti sei imposto, l’espressione sprezzante
che ti ha catturato, Platoski, fino a svolgere una a una tutte le tue bende di satrapo
immaginale, solo allora forse tu e io, riflesso impossibile, devozione d’energia che un
83
I Giovedì di Scrittura Fresca
tempo come tutto appariva.
Una storia sarà quanto avremo per trovarci, se vorremo, Platoski, non esiste altro
canale. Ma se preferisci sentimi qui adesso nel ritmo del come che annulla ogni cosa
oltre.
Fu nell’ultima delle ere corporee che ci capitò, in seguito alla Grande Zeugmatosi
caratteriale collettiva, le genti dei non-sbocciati si distribuivano su piattaforme
antigravitazionali di fortuna chiedendo senza voce che le fosse somministrato il
verbo. Ciò che feci con la massima naturalezza fu disperdere la conoscenza al vento
di quella moltitudine di piccole spore umane fidando in un disegno che tutti
comprendesse.
Tuonasti tu allora, in un battito d’ecoriflesso semantico alla maniera scivolosa di un
Diablo3, contro la mia responsabilità etico-frattale nel somministrare la conoscenza
alle nude masse illuse.
Masse barbare, dicesti, proprio così, con arcaismo singolarmente preciso nel definire
il fastidio che il vecchio volgo di carne ti suscitava. Masse che renderanno
esponenziale la curvatura di deriva entropica, balbettavi tra scariche di coscienza non
stabilizzate, sono scarti pre-psichici senza possibilità alcuna di inventare altro che
rumori di fondo, destini minori la cui inerte lucentezza artistica rischierebbe di
oscurare noi cristalli di numerazioni perfette.
Alla luce riflessa in tonalità di pietra della spelonca, sotto l’incombere del numero
sempreSè dei tuoi sarcofaghi preziosi, guardo adesso la spirale di vita che mi precede,
infinito ciclico rappresentante di esistenze in carne che ho abitato.
So che da un conto giovanile che sparpagliava aguzzi frammenti di realtà è nato in
me un calcolo di seta matura che scava argine rafforzando l’energia della misura.
Nel tempo ordinale ho separato fino alla massima divaricazione sostenibile i concetti
e le passioni, le figure e le essenze, ho generato guerre millimetriche e ho frustrato
destini perché procedessero paralleli come vecchi cavalli da tiro credendomi
superiore e intangibile e inereditabile, allora eravamo anche in te, Platoski, in un altro
tempo che mi respinse per moto proprio ondulatorio fino a qui nell’incombenza di
combatterti.
Adesso che ho il tuo viso di spelonca sbendato irrigidito tra le mani mi accorgo che
non ci sarà bisogno, se c’è salvezza al mondo di oggi che si corrompe è connettere
ciò che di dinamico vibra nel transitorio buio delle galassie, nel fango d’animo dei
non-sbocciati fino alle ascendenze comuni di ogni cosa.
Il cerchio di Shiva creatore che guida il carro impuro della Nataraja.
Perché ci sia un futuro tangibile a ogni mondo prossimo a fine, occorre farsi antenna
e captare, restituire, connettere, scavare, svegliare, rovesciare, abbattere le caverne
dove si annidano le essenze dei privilegi sensoartistici.
Tutto questo è Uno e Ogni e infine Tutto.
Il mio pensiero adesso è solo il rumore di una flotta di astronavi invincibili che
84
I Giovedì di Scrittura Fresca
premono nella tua orbita, ascolta, trattieni.
Se per giustizia naturale dev’essere fuoco, che fuoco sia, fuori dalle caverne.
In basso, verso il seme incerto che abita l’uomo.
Chorus:
Uno è ciò che è stato e dispone e sarà di sempre
nel mezzo sta ciò che sparpaglia
via sotterranea divenire cose
l’orbita occulta che raccoglie e finalizza
un numero di rappresentazioni oltre l’infinito conoscibile
le dispone come parti di un sé offerto in deflagrazione
le svuota nel corpo delle masse celesti negli spazi infiniti
nelle oscillazioni di ciò che vive
e in tutto ciò che vibra sognando
Uno connette
senso energia gnosi semantica possibilità deriva scarto
e in ogni luogo autodeterminazione finalità geometria
condivisione impulso
perché così da sempre trascorrono le cose
oltre la radice in divenire Sé
sommo architetto che tutto riguarda
Uno non è che tutti sull’onda respirocosmo
nel solco unico che fa calcolo primo
la salvezza in un ritorno
Se stesso ancora
e Uno
85
I Giovedì di Scrittura Fresca
MUMMIE
scritto da: Dolphy
Turchesi
i tuoi occhi di pietra
di candido lino
le bende ormai polvere
ma non il tuo corpo
di oli ed unguenti
scudo del tempo
un lungo viaggio
feluca su letto di limo
verso valli a Ra dedicate
verso dimore oscure
di pietra su pietra
inondate
riemerse ad antichi splendori
da silenzi di secoli
senza fasti né onori
funesti presagi
nel buio
a vegliare il tuo sonno
e il mio
86
I Giovedì di Scrittura Fresca
A' MUMMIA
scritto da: Fabrizio
Kamal placò la sveglia, erano le 5:00 del mattino, andò in cucina verificando
opportunamente che i gioielli di famiglia fossero sempre al loro posto, li omaggiò di
un grattino assemblante, quindi tirò fuori dalla credenza la moka e il caffè (miscela
araba!), e si dedicò al rito preparatorio con la stessa ritualità di un appassionato di
modellismo che sta montando il suo biplano di qualche guerra mondiale. La fiamma
azzurra solleticava il culo alla moka, Kamal aprì la finestra e andò sul balcone per
respirare l’aria fresca del mattino. Fuori era ancora buio, la luna era ancora lì,
bugiarda. Kamal era un gran collezionista di pensieri buffi, e in quel momento stava
meditando sulla possibilità che il suo nome fosse un urlo di battaglia degno di un gran
condottiero maghrebino, ma poi sorridendo si disse che suo padre del condottiero
doveva aver preso solo una martellata su una mano…Kamaaaaaaaaaaaaaaal…
ihihih… rideva timidamente Kamal, che scherzava volentieri sulle proprie origini
egiziane, che rispettava la terra italiana che aveva preso a pizze suo padre, che
avrebbe voluto conoscere i suoi nonni e che… “Cazzarola!” disse con censurata ira
mentre il caffè stava usurpando la superficie cromata della macchina a gas.
Intervenne sul pomello come un gatto, ma ormai era tardi. “Chi non ha buona testa,
ha buone gambe” si disse, riportandosi la saggezza di suo padre e probabilmente dei
suoi nonni.
Kamal faceva il pizzaiolo. Aveva due figli. Ma aveva perso la moglie, un’italiana. La
malattia del secolo se l’era portata via: i soldi! Sì, Marta era una donna bellissima, si
era innamorata di Kamal che in quanto a beltà sapeva il fatto suo. Ma poi si lasciò
rapire dal lifting operato da azzeccatissime operazioni finanziarie che trasformarono
il suo ex in una storia d’amore travolgente. Da quel 31 ottobre che la moglie gli disse
“Dolcetto o scherzetto?” non ebbe più notizie. Da allora, diventò bravo narratore di
storie buffe perché non poteva spiegare ai figli che la loro mamma era venuta meno al
suo istinto naturale. E poi, in effetti, da buon egiziano sentiva il legame della famiglia
d’origine e ogni notte sognava sua madre, tornata in Egitto per accudire la madre
ancora viva, la quale in riva al Nilo piangeva per la sorte di suo figlio. Kamal era
comunque felice in Italia, non era nato in Egitto, e per lui era solo un luogo esotico
che però lo turbava magicamente, specie nei sogni. I piccoli si erano svegliati. La
piccola Lisa si preoccupò di far mangiare ad Apu il suo bicchiere di latte con i
biscotti, lei invece preferiva i corn flakes. Il giovane papà aveva avuto Lisa a
vent’anni perché Marta gli aveva dichiarato un amore indissolubile e un desiderio di
maternità genuino. Erano le 6 di mattina, prestino, ma bussò delicatamente alla
signora Sonia, la dirimpettaia, che lo aspettava. Questa prese in consegna i due
fanciulli, che avrebbe poi accompagnato a scuola e all’asilo. Era una signora
veramente cortese, Sonia, bella, non sposata, con uno sguardo un po’ triste dovuto ad
87
I Giovedì di Scrittura Fresca
una insoddisfatta vita sentimentale; lui, a sua volta, era troppo deluso da certe storie
altrimenti magari ci avrebbe fatto un pensierino, per lo meno nel senso di pensarla
come possibile signora Gaddiffh. I figli, in fondo, la consideravano al meglio.
Kamal cacciò via un gatto che si era assopito sul cofano della sua marbella verde
pisello (un affarone da 700 Euro, per lui che aveva avuto necessità di un mezzo, e per
colui che gliel’aveva venduta che era più al verde della macchina). La accese in due
tentativi e sfidò l’alba, dirigendosi all’orizzonte. La pizzeria era vicino a un bar, un
covo di ragazzi con mille ideali di lotta, abili graffitatori di serrande, votati alla fede
per la propria squadra, disoccupati per scelta consapevole, probabilmente di destra
ammesso poi che sapessero espletare le operazioni afferenti il loro sacrosanto diritto
di voto. Kamal rammentava con affetto che quando aprì fu vittima di avvisaglie
razziste. A giorni alterni, sulla serranda, furono proposte diverse tipologie di insegna
“Pizzeria der negro”, “Raus kebab e maus”, “Nordafricani manco Alì cani” (la
semantica evolveva e l’impegno profuso ad elaborare nuove varianti epitaffiche era
comunque in qualche modo segno di affetto che Kamal finiva per apprezzare). Dopo
un mese, le scritte continuavano, ma i toni si moderavano e si compiacevano, perché
l’inserimento del soggetto migrante diveniva inevitabilmente integrazione, suggerita
pure da una voracità atavica che portò i nostri ad assaggiare prima 0,50 centesimi di
pizza bianca fino a finire con festini esterni al locale a base di collette di pizza
ordinata a teglie intere. L’ultima scritta fu un affettuoso nome che Kamal si guardò
bene dal cancellare, poiché la trovò divertente, così in romanesco, ed era anche un
chiaro riferimento alle sue origini. Kamal chiamò dunque er carota e gli chiese
esplicitamente, dietro compenso di tre teglie di pizza poi mercanteggiate con un
corollario di supplì e fiori di zucca fritti, di rifare quella scritta perbene e che avrebbe
pensato lui a pagare le bombolette spray. Chiese solo di utilizzare come colore di
base l’oro e di abbellire il tutto con un blu pavone e un verde scarabeo.
I ragazzi, per la prima volta chiamati ad un impegno stimato in quanto tale, per la
prima volta considerati dal contesto sociale nel quale si muovevano, realizzarono
un’opera d’arte. Kamal si congratulò prima con l’ideatore, che si schernì mostrando
con falsa modestia una galleria di ritagli dal “Corriere dello Sport” con varie foto di
striscioni della curva sud. Dopodiché volle fare una foto con i ragazzi, tutti intorno a
lui, davanti al graffito. La sua pizzeria aveva finalmente un nome! Il fotografo urlò
“Sciogliete le righe!” e la grigia serranda espose così un tatuaggio metropolitano
incredibile. Sullo sfondo di una grossa macchia beige, uccelli lontani fuggivano da
assolate piramidi, palme speranzose frondavano a sinistra, dune di sabbia in primo
piano sostenevano lettere cubitali degne dell’insegna di Hollywood. I contorni dorati
delle lettere erano progressivamente sfumati in un blu notte, quindi in un verde
elettrico, e finivano con una punta di rosso porpora. “A Kama’, giall’e rosso nun ce
stanno male, ‘a maggica te porta fortuna!” disse Ambleto, direttore dei lavori,
coordinatore dei cori della sud, unico diplomato del gruppo. In quel momento, arrivò
anche Sonia, con i piccoli. Kamal era felicissimo e disse loro “Guardate che opera
d’arte…!” si prese una pausa di soddisfazione “… dei miei amici qui. Dai, su,
88
I Giovedì di Scrittura Fresca
andiamo a festeggiare!”.
Un faretto alogenava orgoglioso la scritta:
‘A MUMMIA
Kamal mise i piccoli in macchina. In preda ad una certa euforia, si fece coraggio e
chiese a Sonia “Che ne dice, viene con noi per una cioccolata?”. “Perché no…?”
rispose lei. La marbella verde speranza carburò lieta.
Il commando ultrà serranda sud continuò i festeggiamenti, alcuni curiosi dalla
finestra chiedevano “Ma quanto ha vinto ‘a Roma?”.
Sulla riva del Nilo, una donna piangeva la morte della madre. “La notte serra i tuoi
occhi, mamma” disse sotto la luce riflessa della luna. “Li riaprirà tuo nipote ogni
giorno, riposa in pace, ora”.
Molto lontano, un aitante giovane aveva appena messo a lievitare un nuovo impasto
d’amore. La gentile Sonia si lasciò baciare. E poi lo baciò a sua volta. Lisa sorrideva
felice. Apu rovesciava un succo di frutta sul sedile. Ma sorrideva anche lui.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
HORRORGANIZZAZIONE DI UN MUSEO
(in Ramsettete fasi)
scritto da: Petrolini
“Maledetta mummia! Lei sì, vecchia spilorcia mummia rinsecchita, altro che questa
poveraccia qui dentro…”. Giorgio posò lo sguardo sul sarcofago di Ramsec II. Era il
guardiano del museo di arte egizia, assunto con contratto minimo dal comune, quattro
ore al giorno, quattro ore di umiliazioni operate da una direttrice settantenne che
sembrava avere una sola missione per gli anni che la separavano dal grande tuffo nel
fiume sacrofago… rompere i coglioni! Si stava laureando in Archeologia e questo
lavoro lo aveva stimato a priori come ottimale per raccimolare qualche euro e per
studiare. Ma non aveva fatto i conti con la direttrice, un metro e 55 centimetri di nervi
sottili ma taglienti, denti scintillanti, labbra come stagnola, capelli raccolti in una
cipolla che esprimendo la semantica del resto del corpo spingevano ogni interlocutore
ad un istinto di pianto. Tutto questo popò di ben di dio era confezionato in una specie
di tailleur marrone che indossava probabilmente da sempre e che contribuiva a
stabilizzare il peso forma sui 47 kg. Era decisamente magra, le movenze erano ruvide
ma silenziose, aveva l’abilità innata di comparire alle spalle all’improvviso, e in un
museo tetro pieno di sarcofaghi e resti mummificati questa era un'abitudine per lo
meno discutibile.
“Maledetta!” ripeté Giorgio “te la farò pagare...”, stava spolverando il sarcofago di
Ramsec, e aveva anche il compito di pulire i cessi dove peraltro visitatori dell’età del
faraone egiziano pisciavano con difficoltà estrema nello scavalcare il salto di 5
centimetri che separava le loro tremanti gambe dall’abisso porcellanato. “Blearch…”
pensò e cercò di evitare altre considerazioni sull’argomento. Ma nel contempo
meditava vendetta contro la esile direttrice signora Salatino. Faceva richieste assurde
e Giorgio francamente aveva voglia già di suo di fare ben poco. Il lavoro non era
faticoso, ma l’ambiente era decisamente monotono. Si portava spesso della musica
sul lavoro e un giorno la direttrice lo beccò con le cuffie ad ascoltare gli Iron Maiden.
“PO-WER SLA-VE!” sillabò l’arpia. “Cos'è questa musica caciarona? E' di quella
che ascolta la generazione di perditempo come lei? E questa copertina, col faraone
mummificato, che cosa ridicola è? E’ così che lei sta preparando i suoi esami,
ascoltando gl’Ironmaiden?”. “No, Miss, gli AIRONMEIDEN… e poi quella
copertina è divertente, se lei apre il disco può vedere che tra i graffiti c’è un egiziano
che legge alla luce di una lampadina elettrica e più in là c’è addirittura topolino,
Mickey Mouse!”. Ci fu una pausa da black out. La feroce Salatino requisì il disco e
minacciandolo con una lettera di richiamo costrinse Giorgio a due ore di straordinari.
“No!” disse lui “La prego! Devo andare al concerto dei Mamamicarburo… la
prego… ho già pulito i cessi… e poi…”. La Salatino non volle sentir ragioni, si girò
su se stessa e se ne andò tenendo il naso su di 30 gradi rispetto alla parallela che lo
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I Giovedì di Scrittura Fresca
stesso disegnava sul pavimento. “Porca miseria egizia, maledetta! Maledetta
mummia! Ma te la faccio pagare!” e giù un pugno sul sarcofago appena lucidato di
Ramsec, che probabilmente cominciava anche lui ad avercene piene le cosiddette
della famigerata concorvivente.
Lo sguardo vitreo del sarcofago incrociò gli occhi di Giorgio, rifrangendo un gioco di
luci sinistro che sembrava rivelare un progetto di scherzo appena presentato da un
solo neurone all’assemblea tutta del cervello, che però da quel momento si mise in
moto per discutere il disegno di legge e renderlo quindi esecutivo per far poi seguire
un’opportuna programmazione. Dopo un ennesimo di secondo, la legge fu approvata
dal cervello all’unanimità del collegio neuronale.
La Salatino era viragoschematica, ogni giorno faceva un pisolino dalle 15:00 pm alle
16:00 pm. Sebbene il museo aprisse alle 16:30, l’indomani ci sarebbe stata la visita di
una scolaresca e il relativo ingresso era previsto alle 15:30. La Salatino non stimava
importante l’evento e lasciava la visita guidata al signor Travaglione, che da usciere
portinaio per l’occasione diventava guida esperta in cose egizie.
Il piano era semplice, l’indomani i ragazzi avrebbero visitato l’ultima mummia
vivente - meglio dormiente! - secondo queste fasi:
Fase 1 o dell’Epitaffio Geroglifico:
Giorgio, discreto disegnatore, su una gamba piallata di un tavolino abbandonato,
raffigura tale sequenza pseudogeroglifica: occhio, cane, sole, persone, stargate,
mummia, piramide, che intendeva significare: "Attenzione, non svegliate il can che
dorme, il sole non vi proteggerà, oh folle!, aperta sarà la strada alla mummia, che
dorme nella sua tomba.
Fase 2:
Applicazione epitaffio al letto della signora Salatino.
Fase 3:
Cambiamento percorso guide rosse per visita guidata fino alla porta della Salatino
(opportunamente aperta).
Fase 4:
Sonnifero – cartigienicazione zafferanante.
Fase 5:
Reperimento telecamera per cortometraggio horror.
Fase 6:
Fuga e dimissioni (o viceversa).
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Fase 7 (eventuale):
Garantire incolumità e tranquillità a studenti spaventati.
La fase uno fu svago piacevole, la fase due risultò già più difficile anche se non era
l’applicazione a renderla tale quanto la mistificazione all’occhio vigile della
mummia. La fase tre sarebbe stata messa in opera proprio quella sera stessa, dato che
gli straordinari avrebbero costretto Giorgio a rimanere un’ora in più rispetto all’uscita
del soggetto Salatino. La fase quattro ebbe facile sviluppo grazie all’abitudine della
cartacrespica di bere acqua solo lontano dai pasti. Costei, infatti, teneva sulla sua
scrivania relativamente incustodita una bottiglia d’acqua minerale leggermente gasata
da mezzo litro, che per la fase in oggetto fu siringata con pungente puntualità e
successivamente avvolta in un mistero a doppio velo. Le fasi successive erano di
semplice esecutività e comunque correlate agli sviluppi delle altre.
L’indomani la mummia sbraitò come da copione contro Giorgio e a più riprese, ma
questa volta ella dovette constatare che il ragazzo stranamente era sorridente, cosa
che le creo qualche perplessità che mandò giù con due sorsate d'acqua. Il piano
andava liscio, l’acqua, coerentemente, si confermava gasata.
Ore 15:02, la mummia russava con effetto audio inquietante. Ore 15:20, il signor
Travagliane indossava la giacca di ordinanza e il fiero taroccato cipiglio
dell’egittologo. Ore 15:30, partiva il giro. Ore 15:31, si andava in scena. Telecamera,
power - rec - on - zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz .
Il fido Travaglione seguiva la guida rossa come un filobus segue la linea elettrica, e
non si fece alcuna domanda nel constatare che questa svoltava stranamente verso la
zona riservata agli addetti al museo, farsi domande non rientrava nelle sue
competenze. La scolaresca vagoinante seguiva la motrice del filobus. Ore 15:45, la
guida di fronte all’antro della Salatino era sotto il fastidioso peso di un buon mix di
56 scarpe varianti da un 36 minimo di una certa Lugana ad un 45 surfing del
dinoccoluto Marco. Tutti erano più o meno disinteressati ad ogni cosa. La cultura
egiziana non apparteneva a nessun neurone impegnato a pedalare nei loro
meccanismi cerebrali. Qualcuno faceva battute volgari alla bella di turno, qualcun
altro rollava canne incensando la trovata geniale della direzione del museo che aveva
sparso profumi orientali in ogni dove, mistificando per cui ogni joint avventure di
contrabbando. Il signor Travaglione era relativamente tranquillo. Ma ora si trovava di
fronte a qualcosa di nuovo e doveva fingere padronanza cognitiva facendo così il
gioco di Giorgio, che di nascosto stava riprendendo ogni singola scena. Il gruppo
arrivò ai piedi del letto, la Salatino nel sonno era stata cartigienicata e cosparsa di
zafferano pepato. Il signor Travaglione partì per la tangente e si scoprì dannatamente
ispirato. Lesse il cartellino “Ramsec II”, l’input era minimale, ma era un vantaggio
perché si poteva improvvisare meglio. “Dunque, signori”, fischi di noia si
sollevarono, fumo di canne fece altrettanto, “questa è la mummia di Ramsecca
seconda”, lesse male e fu magia vera, pensò Giorgio. “Il reperto…”, continuò la
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I Giovedì di Scrittura Fresca
guida “è stato rinvenuto così come lo vedete, senza un sarcofago e il museo si pregia
di mostrarvelo in una stanza opportunamente arredata secondo lo schema dell’epoca.
Come potete vedere, il corpo è decisamente sgradevole, mostra i segni del tempo
anche se il processo di mummificazione lo ha reso immortale e lo ha tramandato a
voi”. I ragazzi cominciarono ad insospettirsi se non altro perché quella sembrava una
normale stanza, tetra ma normale, non egizia. Travaglione continuò in preda a fervore
crescente. “Come potete vedere, ai piedi del sepolcro… “ detto ciò attese conferma di
stupore che sottolineasse l’evento, la ottenne soprattutto perché il sepolcro era un
letto con una coperta di velluto verde scuro degna di una veglia funebre “dicevo… ai
piedi è possibile leggere il testo in antiquo gergoglifico (risate della classe che
improvvisamente cominciò ad accomunare l’interesse per una spassosa visita nelle
più assurde vicende egiziane) occhio, cane ecc. ecc. lesse sottovoce Travagliane. Fu
geniale, perché tradusse “Occhio! Mondo cane! Le sole persone che avranno
attraversato questo stargate (aveva visto il film) e cioè questa porta saranno vittime
della mummia e resteranno con lei per sempre nella piramide…”. Detto ciò, si girò
verso la classe sorridendo sinistramente, ormai entrato in pieno nella parte. La classe
cominciò ad apprezzare la cosa come farebbe il pubblico di un cinema, con
consapevolezza ma distaccata. Il delirio di Travaglione era totale e realizzava al
meglio senza alcuna regia il reality show di Giorgio. “Sentite, avvicinatevi, la
mummia sembra dormire, se prestate orecchio la sentirete respirare…”. I ragazzi
divertiti fecero capanno intorno alla Salatino involtinata. Partirono dei flash e delle
risatine, un ditino impertinente tastò un femore, l’esile corpo faceva la sua porca
figura di mummia. Ad un certo punto, il Paolo Saccoia, secchione del gruppo, annotò
che in effetti si sentiva qualcosa, un coppino gli segnò cinque dita di merito sul collo.
Ma la stessa Silvietta, pettinfuori, confermò. E fu un consenso subito generalizzato
che all’improvviso si ammutolì per dare necessaria pausa silente all’evento. La
mummia russava, e pure tanto. Una sottile inquietudine guidò i primi passi verso una
minimale retromarcia, Travaglione rimase interdetto. Fumo di canna continuava a
irrorare l’aria appesantita anche da pranzi al sacco con frittate indicibili. Il momento
culminante era al countdown. Giorgio fece scattare l’allarme, o forse fu la canna ad
anticiparlo, fatto sta che la mummia si alzò sul letto squarciando le bende con la
facilità con cui solo un mostro può farlo e facendo volare zafferano e pepe con un
effetto scenico decisamente apprezzabile. I ragazzi iniziarono ad urlare e quindi a
fuggire, il signor Travaglione si pisciò più semplicemente addosso. Giorgio non
sapeva dove riprendere. La fuga era uno spettacolo incredibile. La Salatino urlava
qualcosa come “orghhhh” che poi altro non era che Giorgio, ma aveva la bocca
impastata dal sonnifero e da un po’ di catarro per cui echeggiava sinistramente lungo
i corridoi egizi. I ragazzi fuggirono con danni lievi per i cocci antichi. Giorgio mise in
atto la fase sei, le dimissioni erano sulla scrivania. La fase sette non ebbe
realizzazione. Ci fu qualche spavento serio, ma niente di così preoccupante per
giovani coronarie. Nel termine di tre ore fu ripristinato l’ordine. La vera mummia di
Ramsec dormiva tranquilla e forse se fosse stata viva avrebbe avuto abbastanza
spirito da divertirsi anche lei.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Un mese dopo, in un cinemino d’essai nel contesto di un laboratorio cinematografico,
la locandina della serata recitava:
LA MUMMIA (HORRORGANIZZAZIONE DI UN MUSEO):
Interpreti:
The awesome Miss Little-Salted
The 15:30 school kids
Mr. Troublejone
Regia:
George-Jo
Non mancò una dedica dovuta:
To my ancient friend Ramsec…
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LE MUMMIE
scritto da: Dario Carta
Occhi cavi
restano nascosti sotto secoli
di stoffe
un tempo profumate
d'ingenua infanzia
Non han visto i trabocchetti
studiati
del mondo costruito attorno
a crearti lapidi
colorate
Vorrei togliere le bende
a darti luce
ma hai seminato sabbie mobili
fuori
Ed io
affondo
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I Giovedì di Scrittura Fresca
MUMMIE ( lo spettro della totalità)
scritto da: -Vaanmummie, che non hanno dubbi
o domande
hanno il calice alzato e brindano
convinte di essere uniche.
io vedo le loro ombre
i tratti contorti
che non ammettono repliche
nere, inquietanti
a diffondersi fitte e solide
come radici del diavolo
davanti allo sfondo rosso dell’inferno.
tutto portano in se, il terrore che alimenta
la condizione fissa della nostra sussistenza
oltre una fine già scandita ai posteri.
al sentirle vicine tu scapperesti
eppure tra noi
sogghignano aspettando
con le braccia conserte ed il capo austero
il balzo feroce sulla nostra passività.
come alle soglie dei luoghi
dove i boli rigurgitati si ghiacciavano
in frazioni di minuti.
96
I Giovedì di Scrittura Fresca
COME UNA MUMMIA REGALE IN UNA PIRAMIDE
CON COORDINATE DI STELLE
scritto da: Fulvia Rommel
L’oblò della navicella sembrava un punto di vista molto interiore, tutto stava
implodendo, la pressione era come quella di due potenti pollici su tempie tenere, i
pensieri uscivano dal naso come fossero sangue. Qualcosa doveva succedere, niente
di buono. Ormai Antonio era solo, era calmo e nervoso, era in braccio ad una nevrosi
intermittente. Il suo cervello gestiva i suoi gesti senza preavviso, era capace di
considerazioni squisite sulla natura logica delle cose e dopo qualche frangente, occhi
sull’abisso, faccia nell’oblò, si abbandonava a bestemmie violentissime, invettive al
nulla ma mirate con una precisione chirurgica. Nessuno poteva sentire quello che
diceva, ma lo stava dicendo, lo stava pensando e lo stava sentendo, e il giudizio di
altri non cambiava la sostanza delle cose. La sua compagna era lì senza vita su un
tavolo di acciaio del laboratorio, il pilota automatico guidava la piccola astronave
verso una rotta che si sarebbe affacciata sul nulla. Lui avrebbe fatto il suo dovere fino
in fondo. Almeno così era programmato. Non era così per Antonio, che con un pugno
tentò di frantumare una cabina di depressurizzazione, che subito dopo accarezzò
timidamente, quasi scusandosi per la sua follia ormai ingestibile. “E’ morta” si disse
digrignando i denti e piangendo, finalmente libero da ogni pudore adulto. Ora aveva
le mani sui capelli e urlava una disperazione che nessuno in quell’assurdo spazio
infinito e angusto avrebbe sentito. “E’ morta per un fottuto raffreddore. Posso fare
un’operazione a cuore aperto, rimuovere un tumore, eseguire un’appendicectomia
senza metodica invasiva, curare definitivamente una miopia, andare su un cazzo di
pianeta semplicemente con un teletrasporto molecolare ma lei, la mia Lizzy, è morta
per un raffreddore, perché non era minimamente ipotizzabile (probabilità stimabile in
misura dello 0.0002%) per cui neanche un’aspirina ha avuto diritto di cittadinanza in
quel cazzo di armadietto delle medicine!”.
Lizzy era ancora bellissima. Era morta da un giorno. Non poteva più aspettare, non
c’erano sistemi refrigeranti sulla navicella, la temperatura era regolata dal computer
di bordo sui 20° C, non poteva più indugiare, doveva regalarla alle stelle perché la
potessero accogliere così com’era, bellissima. Antonio buttò a terra tutte le medicine
e cercò affannosamente i rotoli delle garze. Non lo sapeva neanche lui perché ma la
cosparse di unguenti profumati, e lo fece con una ritualità assolutamente puntigliosa.
Versò olii e lacrime, le sue mani erano un varco tra la sua anima e quella traslata di
sua moglie, stava ancora parlando con lei. Le tagliò i capelli a zero. La baciò. Poi
cominciò ad avvolgerla con le garze. Lasciò visibili solo gli occhi, perché sapeva che
lei sarebbe stata curiosa di guardare le stelle da vicino. Poi adagiò il corpo nella
camera di assemblaggio per le riparazioni esterne, chiuse le porte stagno ed aprì le
paratie primarie. La vide dall’oblò, le sue lacrime la facevano galleggiare come sulle
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I Giovedì di Scrittura Fresca
onde gentili di quel loro fiume. Ora Antonio pensava a quel loro viaggio di nozze, al
sole che accarezzava le loro palpebre, ai figli che non avevano ancora avuto, alla
sabbia che scavò le loro giovani rughe, agli studi fatti per passione sui riti egiziani
dell’aldilà, alla loro promessa di amore eterno. Antonio si teneva stretto la sua folle
speranza. Sotto le bende di Lizzy, stretta tra le sue mani, l’ultima cartuccia di
idrogeno atomizzato che avrebbe dato impulso per anni alla navetta. A lei aveva
legato il filo che avrebbe deciso di lì a qualche giorno anche del suo destino.
Liz si perse tra le stelle come una mummia regale in una piramide con coordinate di
stelle. Antonio aveva contato tutte quelle utili, ma ne scelse una sola per il suo
desiderio finale. Chiese perdono al padre. Poi si sostituì al pilota automatico e decise
di andare incontro al proprio destino.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
SEXI-MUMMIA
scritto da: Necatrix
Vestita di puro sangue
mi spoglierò
senza guardarti.
Avvolta nella tua saliva
mi raggelerò
all'interno
dei tuoi piedi.
Ammantata dalla tua
colla vischiosa
affonderò
le mie labbra
sulle tue arterie.
Sarà allora
che ti scanserai
per non morire.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
MUMMIA LIBERATA?
scritto da: Virginia
La criniera del sole s’inchinava
tra le pietre di là dai muri
nascosti dalle pigre dune che parevano sopite.
Non dava suono il giorno sotto il lucido arco.
Il silenzio ingoiava tutto
non si fermava, tagliava a filo la sabbia
un segno a lungo sospeso in alto
precipitava. Peso sciolto in barbaglio,
il fosso si allargava
Ora la terra era oro traboccante,
la sua figura la spuma dell’oscuro,
troppo buia per me, finché di scatto
qualcosa mi fu intorno,
nulla e tutto era perduto
ed io fui destata dal sibilo delle sue labbra
da secoli imprigionate
nella vena di cristallo invisibile
che attende la sua rinascita.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
MUMMIA?
scritto da: Leone
Sarai voluta morir giovane,
non ce l'ho fatta.
Oppure vecchia,
non ce la farò,
e,
ormai lo so,
mi attiene il vivere in cartapecora di indios figurata,
finché mi sarà dato il farlo .
Eppure
il fuoco di un'estate
distruggerà carne che mummia
non vuol albergare.
Incenerire mi dovranno.
E, grigia per l'aria nebbiosa,
cenere
potrà assorbire riflessi
di luce radente
da finestre in basso
in abbaini
di novecentesco metallo.
Polvere, infine.
Libera.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
FIGLIA DELLA BELLEZZA
scritto da: Ettore Bilbo
C’è quella cosa chiamata deserto la fuori, una interminabile distesa di sabbia che si
scioglie al sole e si lascia carezzare mortalmente dai raggi del tramonto. Poi la notte,
freddissima. Così le hanno raccontato, mentre, la bocca aperta e gli occhi vaganti,
rimaneva in estatica contemplazione di un tramonto in tutto simile a quello.
Un tramonto in formato cartolina delimitato dai lati di una finestra, piccola, là in alto,
là dove non può arrivare, se non salendo sul letto.
La camera misura all’incirca tre metri per quattro, forse cinque. C’è il letto, un
armadio ed un tavolo. In molti la definirebbero spoglia ma per lei c’è tutto il
necessario. Quella è la sua stanza da quando è nata. No, non è vero, prima era da
un’altra parte, quando era davvero piccola; ma in fondo che importa, ricorda quasi
nulla di quel periodo. Lontano, si sorprende a pensare, lontano lontano, come quel
sole là in alto che fra poco uscirà dalla vista.
Una porticina collega la stanza con un bagno. Un lavabo, i servizi, uno specchio, una
doccia. Punto.
Non si ricorda la parola, eppure il suo maestro l’ha ripetuta tre volte solo la settimana
avanti. Qualcosa di estremamente pulito, di sicuro continuava a dirle. Ah sì ecco:
asettico. Il suo è un ambiente asettico. È così perché è malata, così dicono. Niente
animaletti pericolosi e cattivi in giro, niente che debba temere, lei così giovane e
pura. Come l’acqua di fonte, ha detto il maestro mentre la guardava languido.
Eppure non ha avuto il coraggio di chiedere cosa fosse l’acqua di fonte, cioè sì,
l’acqua sa cos’è ma questa fonte in cosa la rende particolare, più pura? Non ne ha
avuto il coraggio, però, perché gli occhi del maestro indugiavano su di lei come un
vestito sudato. Avvampava in viso cercando di non darlo a vedere.
Questa storia della malattia continua a darle di che pensare da un po’ di tempo. Da
quando le sono giunte quelle voci. Povera bimba dicevano, povera. Ma per cosa
esattamente? Oh di cose delle quali lamentarsi ne ha fin troppe, che è sola, che non
può uscire dall’edificio, che il maestro non le spiega tutte le cose che vorrebbe
sapere.
Una volta ha letto un libro che era rimasto sul tavolo del dottore (ah sì il suo caro
dottore, Ernest si chiama, una strana persona dall’accento straniero) e che lei aveva
rubato. Leggendolo ha imparato una parola nuova: recluso. Cioè una persona che non
è libera di uscire e di fare quello che vuole. Come lei, ma lei non ha fatto nulla di
male per meritarsi questa “reclusione”.
Il dottore una volta le ha spiegato che la sua malattia è pericolosa e che non può
avvicinarsi ad altre persone ed al mondo esterno, però lui le si avvicina senza
problemi, la tocca, le parla.
Quando ha imparato il significato di un’altra parola: bugia, le è sembrato che un
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I Giovedì di Scrittura Fresca
orrido peso le cascasse addosso, ma non da tanto in alto, no, da poco sopra la sua
altezza così che la schiacciasse piano piano.
Il sole se ne è andato lasciando il posto all’illuminazione artificiale che si accende da
sola, automaticamente, e riempie il poco spazio della stanza come una pennellata
uniforme di giallo chiaro. Anche il sole è una bugia, perché ogni volta fa credere di
voler scappare per sempre, a nascondersi sotto terra, e poi invece ritorna. È un
bugiardo buono il sole, almeno lei è arrivata a questa conclusione, mentre invece non
sa se il dottore ed il maestro sono anch’essi dei bugiardi buoni. Le hanno detto che i
suoi genitori sono morti, che devono tenerla sotto continua osservazione, che devono
farle dei test, delle analisi, che il suo stato è precario ma che guarirà.
Invece non guarisce, non è mai guarita, neppure una volta, almeno per il tempo di
uscire da lì.
Tutti dicono che il deserto è un posto brutto dove non si può stare ma invece lei crede
che sia bellissimo. Come può non esserlo, basta guardarlo. A volte s’immagina che il
deserto la chiami, che la voglia.
Dicono anche che lei sia bellissima, la più bella sulla terra si è lasciato scappare
qualche inserviente, ma non capisce come possa essere davvero così. Si è guardata
allo specchio ma il deserto continuava a sembrarle più bello. Forse non ha capito
ancora il significato della parola, qualcosa le sfugge, pensa.
E poi ritornano nella sua testa quelle voci, quei bisbigli sopiti dalle pareti, quei tonfi
sordi e cupi oltre le finestre oscurate. Quel rumore continuo che le hanno spiegato
essere macchine. Aggeggi che servono per muoversi. Continuano ad arrivare e poi
andarsene. E poi ci sono quelli che la guardano.
Una volta al mese la lavano e la portano in una sala tutta bianca. Lei sta sotto a
parlare col maestro del più e del meno e quelli che la guardano siedono su una
balconata sopra la sua testa, oltre un vetro spesso. Vede le loro bocche muoversi
avidamente, come se volessero mangiare le loro stesse parole. Gli occhi brillare.
***
il dottor Ernest ed il maestro siedono come al solito nella sala da pranzo. Il pasto è
stato da poco servito.
- Ernest, la bambina comincia a chiedere sempre più spesso. Ha quattordici anni
ormai.
- Lo so… - il dottore rimane impassibile con gli occhi posati sul piatto.
- Ed allora? - insiste il maestro, tenendo le posate a mezz’aria.
- allora niente, che vuoi fare, raccontarle tutto?
- forse è la cosa migliore.
Gli occhi del dottore si alzano per la prima volta da che i due sono seduti, si posano
103
I Giovedì di Scrittura Fresca
con accurata lentezza su quelli dell’interlocutore e dopo aver sbattuto le ciglia un paio
di volte si immobilizzano, aperti, sgranati, verso una verità che vorrebbe mostrarsi
troppo nuda.
- la cosa migliore per chi Aziz? Per lei o per la tua coscienza?
- per entrambe… credo.
- e quindi vorresti dirle che lei è il frutto di un esperimento? Che non è malata ma che
è un clone, che è figlia di nessuno, di una provetta di vetro e di una tecnologia
avanzatissima, che è una persona delicatissima, che non potrà mai uscire da questo
edificio perché davvero ne morirebbe, senza neppure lasciarle la speranza di una
cura, la bugia riparatrice della malattia? - il tono si alza, - vorresti urlarle addosso le
tue scuse, ah che scuse contrite, con le lacrime agli occhi magari, davvero, scuse
sincere: non sapevamo, non credevamo, non abbiamo pensato al poi. Vorresti anche
raccontarle delle visite magari? Di quei ricconi che pagano per vederla, come un
mostro del circo, lei così bella, una bellezza omicida, capace di tramutarsi nell’orrido
più buio. E magari spereresti pure che vi si sottoponesse ancora magari, per il bene di
tutti…
- no, questo no - non ne avrei il coraggio, finiscono di dire gli occhi bassi.
- ed allora come credi di poter tirare avanti? Sono i loro soldi che ci permettono di
portare avanti la baracca… senza di loro non ci sarebbe questo eremo impenetrabile a
difenderla dal mondo, e non sto parlando solo dei batteri nell’aria, sto parlando di
giornalisti, di medici, di altri scienziati, degli attivisti contro la clonazione. Lei è il
loro spauracchio lo sai, li guardi i telegiornali Aziz? Li vedi quando vengono qui,
oltre le mura dei cancelli, li senti urlare? Sono solo dei bisbigli ad arrivare alle nostre
orecchie ma bruciano come lame roventi. Li senti quei bisbigli?
- li sento... - rassegnato. - e li sente anche lei…
***
Dopo lo spettacolo del tramonto si dirige in bagno, vuole provare ancora una volta a
vedere la sua bellezza.
Se potessimo accostarci alle sue spalle e sbirciare oltre la capigliatura lucente, nera
come le notti senza luna del deserto, vedremmo due occhi profondi e scuri, con le
pupille ritte al centro di un mare bianco, due isole del tesoro, e bandiere conficcate
nel terreno i riflessi dorati della luce. Vedremmo un naso piccolo e canzonatore,
diritto e proporzionato, affilato come la prua di una nave che le solca il viso
all’altezza degli zigomi, due scogli di corallo, sui quali s’adagiano le sirene del
rossore delle gote. Una pelle di papiro, sottile e morbida, sulla quale è scritto il
mistero della bellezza: il titolo a grandi lettere degli occhi felini, lo svolgimento del
viso, delle orecchie minute e la chiusa, magistrale, della bocca carnosa eppure sottile,
semiaperta come un alba continua, semichiusa come un tramonto infinito.
Questo vedremmo noi, guardandola da oltre le spalle, ma lei invece costretta a
guardarsi da dentro se stessa, non vede che un viso di fanciulla ed il peso della
104
I Giovedì di Scrittura Fresca
finzione, vede la finitezza dei tratti, la loro incompiuta grandezza, non come
l’estendersi sacro, vorrebbe poter dire se ne fosse capace, del deserto.
***
Il maestro Aziz è ubriaco. Chiuso nei propri alloggi col peso di pensieri proibiti si è
scolato una bottiglia di brandy importato. Sente le voci dei contestatori, ma è notte e
nessuno attende infuriato oltre i cancelli, sente le urla affollarsi nella sua testa, non
più i bisbigli rauchi che giungono dalle mura ma le voci piene ed arrabbiate di
un’orda d’accusatori col dito puntato. Verso di lui. Verso quei pensieri che ha, quella
voglia che sente, quel desiderio che immagina rosso di braci sotto il nero fuligginoso
dell’anima. Sente le voci e scappa.
***
Il maestro è ubriaco. Lei lo sente arrivare di corsa e poi entrare barcollante nella sua
stanza, lo scorge da dietro la porta del bagno, ha in mano una bottiglia. Sta parlando
concitato ma non urla per non svegliare i guardiani. Sente qualcosa di elettrico
stringerle il petto poi si ricorda, lo ha imparato anni addietro, si chiama paura.
- piccola santa vieni fuori, piccola dea, devo raccontarti una storia.
Lei si lascia vedere entrando nella stanza, è di fronte all’uomo che ora la guarda come
se fosse la prima volta, quasi stupito di vederla comparire davvero.
- ah, eccoti - riesce a dire il maestro, poi sembra tornare a tacere. Solo un attimo
prima che sia lei ad aprire bocca lui ricomincia: - ebbene che hai? Non dormi? Senti
le voci anche tu vero? Ah quelle urla come bruciano… ma non devi temere mia dea,
no, non devi avere paura delle voci, non permetterò che ti facciano male.
- ah, sono ubriaco! E che importa? Ti importa che sono ubriaco piccola?
- no - risponde la giovane in un soffio di voce.
- bene, meglio così… ah piccola… da dove cominciare? Ah sì, allora tu non sei, non
sei… no ti dirò quello che sei: sei un clone! Ah sì, un clone.
Un clone? Cosa è un clone? continua a pensare mentre le parole del maestro le
arrivano come un fuoco di fila, confuse ed arricciate, accavallate come una stoffa
troppe volte ripiegata. E poi cos’è questa storia che sua madre non è morta o che,
cioè, lo è ma da millenni, come può essere? Sua madre? e dov’è? Parla più piano
maestro, vorrebbe urlare mentre lui continua col suo fiume di parole.
- dov’è? Ma certo, certo dov’è! Per dio dove vuoi che sia: nei piani sotterranei dove è
sempre stata, piccola dea… grandi i misteri dell’universo. Ah - fa svenevole
sbuffandole addosso un alito di alcol e nausea - dove è sempre stata - e poi s’accascia
sul pavimento, troppo ubriaco per risentire della botta. Un rumore profondo e
terrificante che la lascia esterrefatta.
Si stringe nelle spalle per un attimo, aspettando di sentire i passi del guardiano
105
I Giovedì di Scrittura Fresca
giungere dal corridoio, ma poi rimane solo il silenzio mentre il suo viso si apre ad un
sorriso imbarazzato. È sola nella stanza con un uomo ubriaco e non ne aveva mai
visto uno; mai ne aveva neppure parlato. Come del recluso aveva imparato cos’è un
ubriaco sul libro proibito rubato al dottore. Poi si rende conto della porta.
È aperta.
***
Passare oltre la stanza delle guardie senza farsi scorgere è stato facilissimo,
dormivano profondamente e nessuno l’ha sentita sgattaiolare via. Dal corridoio ha
raggiunto l’ascensore. Sapeva bene dove dirigersi perché lo ha preso più volte,
quando c’erano le visite. La stanza bianca dove la gente la guarda è proprio là sotto,
nel piano sotterraneo dove non ci sono finestre. E pensare che tante volte era stata
così vicina a sua madre, sua madre! In quello stesso edificio.
Morta? Il maestro ha detto che era morta? Forse o forse qualcosa di simile,
mummificata ha detto il maestro. Ancora una volta tutte quelle parole a cui non sa
dare significato, come può sempre chiusa nella stanza. Lei che voleva solo vedere,
capire. Cosa è la bellezza? Cosa è la morte esattamente? E cosa è lei? Un clone!
Un’altra stupida parola.
Sta percorrendo i corridoi del piano alla cieca, ora non sa da che parte dirigersi, tutte
le vie le sembrano uguali. Ha sorpassato la porta della grande sala bianca e ha
continuato svoltando a caso due o tre volte. Sul pavimento ci sono delle linee
colorate, una verde, una gialla ed una rossa. Le piace il verde, lo vede talmente poco.
Nel deserto il verde non c’è e neppure nei tramonti. Le uniche occasioni che ha di
ammirare il verde sono quando le portano da mangiare verdura fresca e quando la
conducono nella sala dei giochi. Molti dei suoi giochi preferiti quando era più piccola
erano verdi. Per questo ha deciso di seguire quella linea.
Giunge ad una porta imponente, di vetro molto spesso. La spinge e la oltrepassa di
fretta spinta dal timore. Il suono delle sirene ed il tonfo alle sue spalle sono fulminei
come il sopraggiungere del panico in lei. È chiusa dentro!
***
Il dottore si sveglia aggrappandosi ad una fune tagliente, stava sognando una giungla
inestricabile. Poi la corda si sfilaccia, le mani si tagliano ed esce sangue, il dolore
pulsa ritmicamente come una sirena d’allarme…
L’allarme della stanza funeraria.
***
Si trova in un ambiente buio, le pareti sono di pietra, non come quelle dell’edificio,
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I Giovedì di Scrittura Fresca
sembrano antiche come gli stessi tramonti che vede dalla sua finestra. E l’odore è
diverso da qualsiasi cosa provata in precedenza.
Si dirige verso il fondo della sala, l’unica parte che sia illuminata anche se
blandamente. Una luce rossa continua a pulsare a ritmo con il rumore, al quale
comunque si sta abituando. La paura sembra calare, non è successo più nulla dopo
che la parete della porta è venuta giù di botto. È rimasta semplicemente sola in
quell’ambiente nuovo che fin dal primo sguardo l’ha affascinata.
C’è una teca di cristallo di fronte a suoi occhi e dentro ad essa un corpo rinsecchito e
contorto. Su una targa è scritto un nome, è il suo nome. Allora è mia madre pensa, si
chiama come me, è per forza lei. Legge: Nefertiti, nome dal significato egizio di “la
bella che è arrivata”, identifica la regina egiziana (XIV secolo a.C.), sposa di
Amenophis IV (Akhenaton, 1364-1347 a.C.) …, e più avanti: Dotata di straordinaria
bellezza e considerata dai suoi sudditi una dea, ha alimentato per secoli il mito della
bellezza, divenendone simbolo.
La bellezza, dunque, di fronte a lei. Ora capisce. Quella pelle marrone in parte
ricoperta di bende putrefatte, proprio come le dune del deserto: così perfetta. E quel
viso dalle orbite vuote non è forse atteggiato nella posa più profonda che possa
esistere? Come dipinto da una mano fantastica. Era dunque questo il significato della
parola bellezza che da sempre le sfuggiva e lei figlia, clone anzi, era destinata a
raggiungere tale perfezione. La bellezza che in lei reclamavano tutti era il sospiro di
questa più elevata e profonda, e la sua pelle morbida ecco che diviene tale e quale a
quelle bende putrefatte; si immagina di potersela levare, strato dopo strato fino a
riscoprire la propria vera anima, la bellezza dentro di lei, nella forma e nei colori di
quel corpo muto, mummificato come ha detto il maestro. Ora capisce, lei è il clone e
solo una volta mummificata sarà la più grande bellezza della terra, più bella
addirittura del deserto. Ma come? Come raggiungere quel traguardo impossibile?
Pazza e avida di questa ultima verità che ha scoperto girovaga nella sala,
aggrappandosi a tutto e graffiando e cercando di spingere la porta bloccata e urlando.
Deve uscire, deve chiedere al maestro come si fa, come si fa a essere una mummia?
Non può più essere una reclusa, deve togliersi quelle stupide bende, quella stupida
pelle che la costringe ad essere sola e ammalata. Deve sapere. Deve.
È in quel momento che i cavi del sistema d’allarme s’incendiano. Un cortocircuito
provocato dalle infiltrazioni di polvere negli anni, ed il fuoco divampa attorno alla
plastica di alcune sedie disposte ai lati della sala, continua a farsi largo tra il legno
degli attrezzi di scavo dimenticati da tempo, sembra desistere a quel punto senza aver
più nulla da mangiare mentre la piccola Nefertiti lo guarda ammirata. È la risposta
alle sue preghiere. È la voce della madre, è la mummificazione!
E lei è il cibo per quel corpo impalpabile e rovente.
Vi si getta con amore sentendo la puntura di mille aghi aprirle la pelle e bucarle gli
occhi. Sì è la mummificazione, lo è, è il dolore che la mummifica, è l’urlo che la
schiaccia contro il pavimento e la fa rotolare, è la liberazione. Non è più una reclusa
ma una stella luminosa che brucia, una stella bugiarda che ogni mattina tornerà col
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I Giovedì di Scrittura Fresca
sorriso sotto i baffi a far vedere che no, non se n’era mai andata. Ah la bellezza! È un
sentimento che arde.
La porta si apre, la parete che era caduta si risolleva e dietro ad essa il dottore con
negli occhi una maschera d’orrore. È venuto ad aprirle le porte. Lei ed il suo fuoco
che corrono, lei e la sua bellezza libere. Poi è il silenzio, non c’è più dolore, rimane la
luce delle fiamme, lei è una mummia finalmente, libera.
Cade a terra sfinita, morta, e prende il volo.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
POVERA MUMMIA POVERA
scritto da: Fucsia
Vuoti aperti gli occhi
le mani sulle guance
fermando il passo di un pensiero spezzato.
Di legno i pochi denti
e tu accucciata guardi giù
dall’abisso di vertigine del tempo.
Povera, nell’eternità, senza maschera d’oro.
Immobile il movimento.
Il buio conserva la carne di carta
e quasi un ridere accenni
in smorfia di ironica morte.
Un raggio di luce
è fine sicura.
Vicino, un piatto rotto
unico tuo tesoro,
e, compagno di tempi eterni,
avvolto in benda gialla
il gatto tuo.
Dorme.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
CARTA IGIENICA
scritto da: Doremì
E’ finita la carta igienica . Il signor G. irrompe come una furia nel soggiorno, dove è
raccolta la famigliola, impugnando il rotolo di cartone marroncino da cui penzola
tristemente l’ultimo brandello mezzo incollato di velo sottile:
- Questa è tutta la carta igienica che è rimasta!!
Il signor G. è un patito delle condizioni impeccabili del bagno. E anche delle
filastrocche improvvisate. Ogni tanto una delle bambine si dimentica di tirare la
catena, così lui ha scritto col pennarello rosso un cartello che ha appeso sopra il
water:
CHI NON TIRA LA CATENA
SUBIRA’ UNA GRAVE PENA!
a cui ha fatto seguito, dopo brevissimo tempo, un altro messaggio, dovuto a qualche
sporadica trascuratezza - si presume sempre delle bambine, facili capri espiatori in
questi casi - attaccato subito sopra al primo:
CHI LA TAZZA SPORCA LASCIA
SUBIRA’ UNA GRAVE AMBASCIA!
La fine della carta igienica è una specie di catastrofe. Annunciata però dal ridursi
delle provviste ad un unico rotolo nell’armadietto, quindi evitabile ed attribuibile
perciò a un preciso colpevole: la padrona di casa!
- Ma tesoro, ero sicura che ce ne fosse dell’altra - si giustifica lei con un’espressione
tra lo stupito e il costernato.
- E invece era l’ultimo!
- Ma se ieri ce n’erano due rotoli…
- Appunto, dovevi ricomprarla ieri, non ridurti all’ultimo momento.
- In effetti volevo farlo, poi mi sono dimenticata..
- Ah (sarcastico) Ma se io ti dicessi che non ho portato a casa i soldi perché mi sono
DIMENTICATO di lavorare?
- Ossignore, cosa c’entra?
- C’entra, perché in una famiglia ognuno ha i suoi compiti!
- Perché, non li svolgo bene i miei compiti? Per una volta che succede!
- Ma se succede continuamente! Anche l’altro ieri col dentifricio!
- Non era l'altro ieri, sarà stato un mese fa!
- Niente oh, mai che ammettessi una volta… e con la pasta d’acciughe allora, che sai
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I Giovedì di Scrittura Fresca
quanto mi piace! Ma dei miei desideri in questa casa…
- Oh che coraggio, ma se la pasta d'acciughe la teniamo solo per te... non mi ero
accorta che era finita, non mi e-ro-ac-cor-ta, va bene? (grida lei esasperata con la
voce che le trema)
- Come devo dirlo (grida lui più forte ) che le cose si ricomprano non quando
finiscono, ma quando STANNO per finire! Che bisogna fare provviste! Adesso vi
faccio vedere io come si fa!
Esce sbattendo la porta.
La signora G. ha le lacrime agli occhi. Lia le fa le carezzine. Anna fa le boccacce al
padre dietro la porta.
Poco dopo il signor G. rientra trascinando dentro casa due enormi balle di carta
igienica. Un centinaio di rotoli. In bagno non c’entrano. Le deposita nella stanza delle
bambine. Sembra di buon umore. Va alla porta della camera matrimoniale, ma è
chiusa a chiave. Bussa ripetutamente.
- Va via!
- Amore dai apri…
- No!
- Stellina, perdonami, non fare così…
La porta si apre e si richiude. Si sente piangere. Poi ridere. Poi più niente. Nella loro
stanza, il pavimento tutto ingombro di rotoli bianchi mezzi disfatti, le bambine
giocano alle mummie.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LA MIA MUMMIA...
scritto da: Serenella
in punta di piedi
nella stanza del tempo
sciolgo le bende
di un arcano mistero
mi guarda lento
con occhi di giada
il cuore in festa
in una danza di veli
lo vedo sparire
in un lembo di cielo
come un respiro
senza confini
l’ombra distesa
sorride nel vento
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LA MUMMIA
scritto da: Talesien
C'hai l'occhi a mandorla
come un cinese
la pelle tirata che se
se sgareno i punti
te s'accartoccia tutta
attorno ar naso
le labbra gonfie
che pareno canotti
o che t'hanno
appena gonfiato de cazzotti
pari proprio na mummia
vecchia e rinsecchita
che vole diventà
de novo viva
ma tu ce lo sai
che gli eggizziani
quanno creavano na mummia
non era pe falla campà de più
o pe trasfommalla da racchia a stella
ma pe falla annà all'altro monno
co tutte e carte n'regola
perciò nun insiste
ch'è peggio fa finta d'esse vivi
ch'esse morti e nun sapello.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VOGLIO MORIRE IN BEATA SOLITUDO,
ANNEGANDO NEL VERMENTINO (Imothep)
scritto da: Nicola Martini
Sta mummia m'è costata troppo di bendaggi, son rimasto senza palanche per
l'inchiostro, meno male che oggi è lunedì e ho tre giorni di tempo per scrivere il
pezzo.
Boris Karloff, fai un giro col piattino. al buon cuore del gentile pubblico....grazie cari
qualcuno ve ne renderà merito.
Allora succede che conosco una girl di un sito di scrittura creativa. Ci faccio un
commento al suo testo, lei mi risponde, simpatizziamo alla grande, ci scambiamo i
cellulari (lì m'è un po' dispiaciuto ché al mio Nokia c'ero affezionato, ma sembra
d'essere subito pittime e così abbiamo scambiato i cellulari). Poi ci era parso che
fosse bello incontrarci e ci siamo dati puntello in un posto che non faccio nomi.
Ivi giunto ho subito fatto la foto col gestore del caffè, ne aveva già una assieme a
Mino Reitano e vicino ci ha messo la nostra. Me sti fatti mi commuovono, tengo
l'animo in forse.
Dò un'occhiata in giro e vedo la girl seduta al tavolino, tutta fasciata dalle bende.
"O meschina" le dico "ti sei fatta male?"
"No" fa lei "io sono Maria Pescosolido del sito Scriviamocazz"
"Ebbè, sei Maria Pescosolido del sito Scriviamocazz che s'è fatta male. E pure di
brutta!"
"Lì ci hai preso" conferma lei.
Alchè m'è venuto il dubbio. Vuoi vedere, mi son detto (ma sottovoce ché non è bello
farsi sentire) che la sospetta megafiga è un filino ciospa? Se non è incidentata, vuoi
vedere che non è propriamente commestibile?
E ci dico "Senti gioia, te le leveresti le bende?".
E lei " L'aspetto fisico non conta, si è belli dentro".
"Sti cazzi!" mi scappa a me.
"Uh!sì! Ce ne vogliono parecchi, ché se mi slumi per benino versione nature te ne
ammoscio un tot in men che non si dica".
Onde riflettere sulla questione mi sono ritirato nella ritirata e ci sto ancora adesso, che
sono passati tre anni.
Subito ho patito un po', ma ora ci ho fatto l'abitudine.
Voci amiche mi riferiscono che ho la mail intasata di messaggi, pare sia la Maria che
vuole mie notizie.
Eh, si sa, i belli dentro hanno un cuore che li amava tanto.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Quattro 07 Aprile 2005
LA VERA VITA È FUORI
Hanno partecipato:
Vaan
Lucida anestesia
CYB Roberto
Il portinaio ed il povero Menenio Agrippa
Trevize
Là fuori
Dolphy
Punti di vista
Nicola Martini
La vita è fuori (come il Martini)
Fucsia
Vorrei rientrare nell’utero, uno qualsiasi*
Citando Woody Allen
Bruno B
Il civico trenta
Nick Damone
Derby a Mogliano Veneto
Serenella
La vita è fuori?
Umberto Bertani
Outfield
Gianfranco M
Senza sale
Sally
Un grattare sul muro
Alessandro Gabriele
Cosa potrebbe suggerire il Mancio
Talesien
‘A vita è fori
Ettore Bilbo
Oltre
Asclepio
Illusione
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LUCIDA ANESTESIA
scritto da: -Vaanla stasi dei sogni
a parte ciò che mi dice
porta l’orma ferita dei miei ripensamenti
a placarsi fuori
dal grigio chiaro del mio sonno.
vanno i giorni, i mesi, il tempo
un rimettere a zero
combaciando il risveglio
su una prossima anestesia.
e vivo
un fiore reciso
non ha bisogno di sole
se basta alle pareti una riproduzione di cielo
per sentirsi vero
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I Giovedì di Scrittura Fresca
IL PORTINAIO ED IL POVERO MENENIO AGRIPPA
scritto da: CYB Roberto
Sono sconvolto…
Non dormo da tre notti e tre giorni, terrorizzato da qualcosa che potrebbe essere una
mia allucinazione o la scoperta di una terribile verità…
Una persona amica mi aiuti asciugando la mia fronte imperlata di sudore ghiacciato, e
vegli e vigili per difendermi da incubi tremendi.
E’ cominciato tutto quattro notti fa.
Mi accingevo, insonnolito, a dormire.
Accesi il piccolo stereo sul comodino per lasciarmi cullare da qualche melodia
riposante.
A poco a poco si confusero, nel dormiveglia, immagini, paesaggi, progetti, idee
caotiche senza senso e ordine.
Avvertii anche qualcosa di nuovo nel buio, con il perdersi della musica: un
progressivo aumento di un brusio indistinto di molte presenze in attesa di un evento.
Poi udii una voce calda, baritonale.
“Preso atto del numero valido dei partecipanti a questa assemblea, dichiaro aperta la
presente riunione di condominio e propongo la candidatura alla presidenza del
sottoscritto signor Cervello.
Nominerò il signor Stomaco e il signor Fegato come segretari.
L’ordine del giorno della presente riunione verterà sulle pericolose fughe di gas nella
cantina dello stabile, sulla manutenzione del suddetto stabile e su varie ed eventuali.
Se nessuno ha da eccepire sulle candidature, si può dare inizio al dibattito.”
Mi agitai nel letto temendo l’inizio di un brutto sogno, con
una spiacevole arsura, e udii altre voci tra cui una stridula e acida.
“Era ora che si parlasse di quelle fughe di gas, signor Cervello!
Uno di questi giorni salteremo tutti in aria.
Lo dico da sempre e sono diventata verde di bile, ma mai nessuno che mi ascolti…”
“Non dica questo, signora Milza, perché io, nel mio piccolo, solidarizzo: si figuri che
quello spiffero quasi continuo mi sta creando anche gravi problemi infiammatori.
Piuttosto gli altri, quelli dei piani alti: direi che sono proprio insensibili ed egoisti.”
“Non cominciamo a promuovere la rissa del tutti contro tutti, egregia signora Emy
Orroide.
Le parlo da moderatore: ognuno ha i suoi problemi.
Che dovrei dire io che ho due vicine mezze sorde che ascoltano musica snervante a
tutte le ore del giorno a volume da discoteca?
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Anzi, visto che sono il presidente di questa assemblea di condominio, metterò a
verbale anche che ci si debba moderare con i rumori molesti.”
“Cosa vuole mettere a verbale?
Guardi che io ci sento bene. E’ la vicina di pianerottolo che è sorda, ed è di destra,
prepotente e fascista, senza rispetto per alcuno, col volume a palla anche quando tutti
dormono.
Che c’entro io?”
“Ha parlato la compagna racchia orecchia sinistra…come se non fossimo tutti sulla
stessa barca, …fascista a me, poi?
Perché sono a destra nello stabile?
Guarda, carina, che ho anche io la staffa, e pure il martelletto, e con una falcetta sarei
una comunista doc.
Modera le parole prima di accusare e di dare qualifiche politiche a casaccio.”
“Signore e signori, calma, calma, per favore…”
S’impose, su tutte, la voce del cervello, del mio cervello, autorevole, – ma un cervello
non ha solamente la voce della coscienza o della ragione? –
Mi rigirai nel letto inquieto.
Chi parlava sembrava vero, vivo e, soprattutto, autonomo, e la cosa non mi piacque
affatto.
“Presidente…”
“Dica pure, signor Fegato.”
“Sto rodendo me stesso dalla rabbia.
Mi dolgo per le signore orecchie, comuniste o fasciste che siano, e per l’infiammata
signora Orroide, ma torniamo a bomba, ai gas.
Lei dovrebbe assumere l’iniziativa e lanciare un qualche messaggio al portinaio
affinché vada in farmacia e acquisti del carbone vegetale: dicono che sia una mano
santa.
Tra l’altro, tutti si faticherebbe meno nello smaltire quella fastidiosa corrente, e Tino,
il signor Tenue, ci guadagnerebbe anche in salute nel parcheggiare dentro il garage
quelle merde di macchine inquinanti.”
“Vero, vero, caro signor Fegato.”
“Coinvolga anche il signor Aquilino Naso, presidente, e condizioni il portinaio a
porre rimedio a questo schifo.”
Ebbi la sensazione angosciante che il portinaio fossi considerato proprio io, me
medesimo, immobile e teso come una corda di violino a captare il più piccolo sospiro
nella notte e nel buio della mia stanzetta.
Cominciai a sudare copiosamente.
“Bene, allora.
Signor Naso, le trasmetterò comunicazioni olfattive inequivocabili sull’inconveniente
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I Giovedì di Scrittura Fresca
e faremo pressioni congiunte sul portinaio perché acquisti il carbone vegetale.
Scriva pure, signor segretario Stomaco, verbalizzi, e passiamo quindi senz’altro ai
problemi di manutenzione…”
Verbalizzare da parte di uno stomaco…
Cominciavo a credere in un sabotaggio del barattolino dell’origano in cucina, forse
con qualche fungo messicano strano e nocivo.
Pensai – se questo è l’inizio della pazzia, è alquanto bizzarra e imprevedibile - ma, al
contempo, mi posi domande sull’efficienza del mio portierato, se avevo spazzato
bene, se avevo passato la cera, lo straccio, se avevo pulito bene vetri e finestre.
Risi irrispettosamente all’idea di essere soltanto il portinaio di un condominio
turbolento, ma il presidente dell’assemblea mi richiamò all’ordine e al rispetto
procurandomi una fortissima emicrania che mi si affacciò improvvisa e dolorosa e mi
consigliò l’immobilità in attesa di tempi migliori.
“Aspetti, signor presidente.
Ho taciuto con mio fratello fino ad ora, ma adesso parlo perché non ne posso più.
I vetri fanno schifo, puliti soltanto quando capita con degli stracci sudici.
Io e mio fratello vediamo lungo, ma non si può tollerare che il portinaio pulisca i vetri
senza lavarsi le mani dopo avere potato le unghie dei signori Piedi: suvvia, un
minimo di decenza, no?”
“Cosa avrebbe da dire su di noi, signor Bellocchio destro?
Sia prudente con certe affermazioni: abbiamo tutti bisogno di manutenzione, mica
solo lei e suo fratello.
Non abbiamo colpe se la pulizia viene fatta in maniera approssimativa o
disorganizzata.
E poi non si lamenti e ricordi qualche anno fa, quando era molto peggio.
Il portinaio puliva tutto lo stabile con una sola spugna ruvida e rosicchiata e con la
stessa acqua saponata sciacquava piani alti e piani bassi.
Meno male che ora usa la pompa a getto, sicuramente più igienica.
Mi domando e dico: perché avremmo dovuto sentirci più puliti, prima, con la stessa
acqua che serviva per sciacquare anche quei due Coglioni del piano di sopra…”
“E adesso che c’entriamo noi? Non ci rompete, eh?”
“State zitti voi, coglioni Coglioni!”
“Ma come vi permettete, piedacci puzzolenti di cacio! Li piedacci vostri, Piedi!”
“Signori, per cortesia, un poco di contegno, vi prego…”
L’emicrania mordeva col ruggito delle voci alterate che si insultavano.
Tutto assurdo: organi del mio corpo che parlavano, autonomi, critici, litigiosi…
“Vorremmo interloquire anche io e mio cugino Paul Mone, signor presidente.”
“Prego, esponga signor Ai Mone.”
Troviamo inammissibile che il portinaio abbia deciso di spostare la guardiola in
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I Giovedì di Scrittura Fresca
questo quartiere malsano e pieno di gas di scarico.
Abbiamo una certa età, ormai, e ci siamo molto sacrificati per migliorare il nostro
stato di efficienti mantici, smettendo perfino di fumare, per rispetto nostro, del nostro
amico, il signor Amore Cuore, e di altri inquilini.
Ci è dovuto un minimo di riconoscenza e collaborazione.
Concorda signor Cuore?”
“Mi associo, mi associo: sacrosante parole.”
“Solidarizziamo anche noi: stiamo molto meglio da qualche anno grazie ai signori
Paul e Ai Mone, ex fumatori, inquilini civili e degni di rispetto.”
“Grazie signori Guido Reni e Tony Renis.”
“Anche se…”
“Dica signor Guido…”
“Questo pelandrone di portinaio innaffia poco, beve robaccia e ci sottopone a sforzi
ripetuti che, ormai, alla nostra età, dovrebbero essere dosati sobriamente, per quando
ne vale davvero la pena, magari in compagnia…ma, signor presidente, invece, …
costui agisce prevalentemente da solo…
Ed inoltre è ghiotto di asparagi: un ‘tour de force’ in certi periodi.
Roba da non credere. ”
Rabbrividii.
Seguivo la grottesca assemblea, soggiogato, e recepivo interventi scontenti e
mugugni, ma arrivai ad impermalirmi per questa sfacciata esposizione di mie
abitudini segrete.
Che diamine! Un minimo di riservatezza e comprensione!
E poi volevano cambiare aria…
I soldi non li fabbrica neanche Rockfeller: quindi appartamentino in periferia sporca
di smog, cari signorini.
Vincessi al superenalotto ve la farei vedere: chalet a mezza collina con orto e alberi e
cani da guardia e…
…E poi sarò padrone di abbuffarmi di asparagi, almeno a stagione?
La testa mi stava scoppiando.
“Intraprenderemo un’azione sindacale, signor presidente.
Ogni tanto, senza preavviso, cesseremo di respirare o tossiremo la nostra protesta
nella colazione di quell’essere, quando ha le mani occupate. Lo metteremo alle
strette: traslocherà prima o poi.”
“Vi darò una mano anche io, cari vicini. E’ sufficiente che mi metta a zoppicare e che
qualche volta faccia l’imitazione della coratella del macellaio sul banco di marmo:
l’amico se la farà addosso… sempre che non sia un duro insensibile e non mi faccia
crepare…”
Un cuore crepato di crepacuore: una situazione alla Jonesco, surreale.
Ridevo istericamente dentro di me nonostante il dolore lancinante alle tempie.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Avevo gli occhi lacrimanti: pizzicavano come per qualche bruscolino sotto le
palpebre, ma non osavo sfregarmeli, neppure delicatamente, perché mi ero appena
grattato soprappensiero altre parti, basse, e temevo una reazione o una vendetta.
“E poi dovrebbe muoversi di più questo portinaio: é pigro.
E’ un sedentario e la spazzatura rimane tutta sullo stomaco – vero signor Stomaco? –
e anche io faccio fatica a smaltire i rifiuti. In più ho anche quei problemi di
parcheggio di cui si parlava prima… del resto lo spazio è quello che è: o aria o altro
no?…”
“La capisco, Tino, oh, scusi la confidenza, signor Tenue…”
“Ma no, si figuri, diamoci del tu.”
“Beata l’appendice Beatrice che ha osato ribellarsi e ha piantato tutti… ”
“Lo farei anche io e non escludo in futuro di prendere in esame la possibilità…”
“Brava, signorina Fellea, però, dico io, è anche ingiusto che qualcuno possa
andarsene e qualcun altro no: le solite sperequazioni tra figli dell’oca bianca e
bastardacci!”
“Che le devo dire, signor Pancreas: è la vita che è così, ingiusta e sperequata di suo.
Non se la prenda con me: in fondo la decisione mi costerebbe sacrifici immensi.
Potrei finire in bocca ad un gatto vicino al Policlinico.
Lo sa la fine che ha fatto la signora Milza del condominio della sorella del portinaio?
E’ stata sezionata e poi bruciata: una fine orribile…”
Percepii terrorismo psicologico nella voce arrogante della signorina Cistifellea che si
rivolgeva al signor Pancreas con il sussiego di chi è pieno di boria e calcoli,
soprattutto calcoli.
“Signori, è tardi, cerchiamo di concludere.
Proporrei di verbalizzare che il condominio si adopererà affinché venga effettuata una
più accurata pulizia e venga spostata la sede della guardiola, magari verso la
campagna.
Indiremo a breve una assemblea straordinaria per organizzare scioperi selvaggi per il
conseguimento dei nostri scopi, con le buone o con le cattive, e qualcuno di voi
cominci a studiare qualche piano concreto di sabotaggio.
Per quanto mi concerne, offro fin d’ora tutta la mia disponibilità a convogliare
qualsiasi messaggio verso il portinaio in maniera che venga recepito senza
discussioni o resistenze.
Prima di chiudere qualche altra domanda?”
“Scusatemi tutti se sono ignorantello, tutto muscolo e istintività, ma non si fa prima a
cambiare portinaio?
Morto un portinaio se ne fa un altro, no? Lo dice anche il proverbio…”
Non compresi subito da dove provenisse quella vocina.
Mi resi conto, però, che il cervello si stava adirando violentemente…
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I Giovedì di Scrittura Fresca
“Eccolo qua: la solita testa di cazzo!
Lei parla, parla, e dice solo minchiate, signor mio!
Se riflettesse invece di fare soltanto ginnastica, sempre su e giù, probabilmente
riuscirebbe a comprendere che il portinaio non si può cambiare e che queste sono le
regole!
Ci teniamo questo imbecille e possiamo solamente fare in modo che cambi qualche
idea, entro certi limiti ragionevoli, perché quando interviene lei, solita testa di cazzo,
la ragionevolezza va farsi benedire.
Faccia silenzio, …e si adopri per sole funzioni innocenti.
Lei, un giorno, ci rovinerà tutti con la sua esuberanza imprudente e ignorante!
Basta ! Chiudiamo qui l’assemblea.
Ci aggiorneremo nei prossimi giorni.
Per ora buona notte a tutti…”
Percepii un battimani, (un battimani?) di commiato cortese: mi resi conto, sempre nel
dormiveglia, che era un battere di denti.
Spalancai gli occhi all’alba, ansante e seduto sul letto.
I piccoli led dello stereo mi fissavano nemici o almeno questo era il mio stato
d’animo: mi sentivo minacciato da tutto e da tutti, soprattutto da me stesso, da dentro.
Urlai di raccapriccio all’idea che tutti i giorni scarrozzo fuori organi ostili che
rispondono a mie sollecitazioni, che godono di sensazioni piacevoli e soffrono per
dolori improvvisi.
Ho realizzato, infatti, che non è così, almeno per me.
Sono loro che scarrozzano me!
Forse voi non ne avete ancora coscienza, ma siete solo dei portinai di condomini
formati da litigiosi inquilini scontenti, in lotta con voi per i ‘loro’ diritti.
Pensavo di essere un padrone di qualcosa, del mio corpo, della mia vita, del mio
destino.
Sono soltanto un portinaio, invece, un dipendente da licenziare, e chi comanda sono i
miei organi.
Mi sovviene il vecchio apologo di Menenio Agrippa.
Forse anche lui, poveruomo, ebbe i miei incubi sulle rive dell’Aniene: chissà se trovò
un aiuto…
Aiutatemi, vi prego, e guardatevi dentro: potreste essere ancora in tempo per una
soluzione, semmai ne esista una…
La vita vera è fuori…o è dentro?...
123
I Giovedì di Scrittura Fresca
LÀ FUORI
scritto da: Trevize
- La vita è là fuori! - esclamò D. senza svegliarsi, scartando sul sedile del passeggero
e tornando ad appoggiare la testa al montante della portiera, seguitando il sonno di
ragazzino.
- Là fuori un cazzo! - si scosse A.G. per quell'esclamazione nel silenzio di diecimila
chilometri, irritato per la sua stessa irritazione e proseguendo la corsa tra i campi, nel
dissesto della campagna, tra i cumuli di rifiuti sotto gli alberi, gli edifici rattoppati
con i fogli di cartone, gli steccati riversi.
- Là fuori un cazzo - declinò in conclusione, dopo la risolutiva occhiata allo
spettacolo d'intorno.
Guidava ormai da tutta la giornata ed era stanco.
Non era stata davvero una buona idea partire quella mattina per accompagnare il
nipotino dio solo sa dove e ritrovarsi dopo tredici ore di macchina nella disperazione
di quel deserto, con il bambino che parlava nel sonno e la notte a pochi chilometri.
Dove diavolo erano finiti.
Eppure il viaggio era cominciato bene, nella prima mattina si erano succedute le
coltivazioni della pianura, come doveva essere la promessa degli alberi da frutto e
accanto correvano i vigneti, la marcia in un soffio dei campi di granturco, i filari in
bell'ordine, ma poi la vegetazione era cambiata, il sole aveva battuto i suoi rintocchi
per l'intera giornata e come portato dal vento si era addensato uno sterpame rigido e
secco, quando era stata la volta della polvere e di piantacce senza foglie, di ceppi
rovesciati su un fianco, di tronchi spezzati che non s'erano potuti adagiare, con la
corona dei rami intrecciata ad altre piante, nell'intrico innaturale e degradato.
Là fuori in breve solo quella periferia e il vento che tagliava la strada con un grido
d'autunno.
D. non aveva smesso di dormire, lì accanto. La spalla era appoggiata alla portiera e il
capo toccava il finestrino, non lo avevano svegliato i dossi né le curve sullo sterrato,
da quando avevano abbandonato la statale senza più trovare la via, molte ore prima.
Ogni tanto cambiava posizione accomodandosi sul sedile, senza fastidio per gli
scuotimenti del percorso, sbatacchiando qui e là la testa contro il vetro.
Aveva tra le mani un pupazzo meccanico, un giocattolo pieno di minuscole armi cui
aveva disegnato a pennarello una bella B sul petto, o era una G. Spinto dalla curiosità
e per la noia, quando il pomeriggio era iniziato A.G. aveva deciso di osservare il
balocco arrestando l'automobile per diversi minuti, senza spegnere il motore. Con
delicatezza aveva sfilato il soldatino spaziale dalle mani di D. e lo aveva esaminato:
era molto leggero e con la superficie lucente, la faccia posava una scura risata, ma i
due denti che il bambino aveva pitturato di nero rendevano l'espressione più comica
124
I Giovedì di Scrittura Fresca
che minacciosa. Il robottino poi era completamente vuoto, dentro non c'erano
meccanismi, rotelle, corde, ingranaggi, non c'era niente di niente. Non stava
nemmeno in piedi, era tutto sbilanciato.
Chissà quale diavoleria lo faceva parlare, allora. Perché più volte durante il viaggio
A.G. aveva udito dei borbottii, dei tossicchiamenti e il pensiero era andato al
carburatore della vecchia macchina, quando invece era proprio il giocattolo ad
emettere i versi sfiorato dalle dita di D., nel movimento del sonno.
Così gli era parso, almeno.
A.G. aveva riposto il giocattolo e ripreso il viaggio.
Era necessario fare in fretta, adesso, avvicinare una città, un paese prima che facesse
buio, perché poi sarebbe stato impossibile procedere, in quel modo senza una mappa,
senza sapere dove andare.
La radio non riceveva più, il panorama era incupito da un costone cui aveva puntato
con gran velocità. Gli ultimi chilometri erano serviti per muoversi verso la parete che
copriva la vista ma la distanza era rimasta immutata, vanificando gli sforzi.
Poco prima di un tornante che sembrava dare l'avvio alla scalata, A.G. udì una voce.
Considerò la radio e rifiatò all'idea di un segno di fuori, della vita oltre le montagne.
Ascoltò con tutte le forze, trattenendo con una smorfia il cuore. Ci vollero almeno
trenta secondi, rallentava perché il motore non lo disturbasse, in seconda, in prima,
infine i pneumatici si assestarono sul ghiaietto, quando udì ancora.
Il robottino aveva ricominciato a parlare, il sorriso valgo gli riempiva la testa
quadrata, parlava, scandiva le sue parole, diceva toia u-a-na zazzo occo to-zo, con la
vocina spiccava termini indecifrabili, mentre le dita del bambino si erano strette al
suo corpo vuoto.
A.G. lo ascoltava sbalordito, la cantilena suonava irreale nell'abitacolo, toia m-eda meda to-zi, continuava.
Allora per udire meglio chinò il capo, non potendo accorgersi di nulla.
D. dormiva serenamente, mentre fuori le piante deformi, le baracche e i campi ricurvi
accoglievano lo spesso buio senza un lamento.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
PUNTI DI VISTA
scritto da: Dolphy
A volte la realtà non è quella che vorremmo e a volte le parole non le intendiamo per
quello che rappresentano o vogliono esprimere così, attraverso un processo mentale
velocissimo s’innesca un processo di trasformazione che ribalta in un certo senso i
loro significati. Realtà e parole, sfaccettature diverse secondo l’angolazione da cui le
guardiamo e le interpretiamo.
La vera vita è fuori.
Come intendere quel vero e come interpretare quel fuori?
Quel “fuori” scritto in maiuscolo mi fa pensare a una rottura, a un pretesto rispetto a
ciò che è o si considera “dentro”.
Due concetti molto lati che si prestano a diverse interpretazioni nelle quali ciascuno
di noi considera il fuori in relazione al proprio microcosmo o al mondo.
Due avverbi questi che non si possono circoscrivere o meglio lo si può fare solo
avendo un qualcosa, ovvero un soggetto a cui relazionarsi o contrapporsi.
Quindi un fuori rispetto a che cosa o da che cosa.
C’è poi l’aggettivo “vero”. Ma il “vero”, chi lo decide? Anche qui, Quale è la verità?
Dove sta il vero. Chi può dire ciò che è vero e quindi decidere per i suo contrario?
La vera vita è fuori. E’ verissimo se consideriamo il dentro come qualcosa che ci
circoscrive, ci impedisce la libertà di pensiero e di azione, che ci coercizza e ci
impedisce di essere noi stessi o di fare ciò che vogliamo.
Ma altrettanto vero è dire “la vera vita è dentro”, e con questo intendo il nostro
mondo, le nostre realtà e le nostre aspettative.
E allora tutto questo a che porta? Semplicemente a una rilettura del titolo cioè che la
vera vita è dentro e non fuori.
Punti di vista.
Il fuori mi può condizionare, mi stritola, mi angoscia, mi rende diverso da quello che
sono, soltanto se glielo permetto perdendo di vista i miei obbiettivi e me stesso.
Ma se quel fuori lo gestisco io, anche se faticosamente, allora il fuori mi condizionerà
relativamente, o molto meno.
Punti di vista, soltanto punti di vista.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LA VITA È FUORI (COME IL MARTINI)
scritto da: Nicola Martini
Il Martini è come la vita: fuori.
Fuori di casa mi ci mise mamma, avevo tre anni.
Disse testuale: “E non metterci più piede”, chiudendomi la mano nella porta per
essere più sicura.
A sei anni fuori mi ci mise la maestra.
Disse testuale: “O impari a tastare il culo come si deve o ti spedisco dal preside, che
lui è esperto”.
A nove anni fuori mi ci mise il parroco.
Disse testuale: “Così diventi cieco e io me ne sbatto il belin”.
A quindici anni mi ci mise la mia ragazza.
Disse testuale: “Non sai mettere la lingua in bocca, e neanche da un'altra parte e non
sai scopare”.
E imparai a non frequentare quelle di otto anni.
A venti mi ci mise la stessa ragazza, era l'unica che mi degnava d'insulto. Le altre
manco quello.
A trent'anni, ne salto dieci per non tediarvi - li ho passati in un campeggio per
maniaci sessuali nudisti, era il solo posto dove se ti aprivi l'impermeabile ad agosto
non ghignavano ché c'era una comitiva dell'Est con le pellicce di visone - a trent'anni
mi ci ha messo il marito della mia donna.
Disse testuale: “Adesso basta, o te la sposi o vai a cascamortare altrove”.
A trentacinque mi ci metterà un Editor di SF.
Dicendo testuale: “Zi, te sei fuori”
E io risponderò testuale: “Alex, a proposito di Ulivo, io giro con uno a portata di
mano. L'ulivo sotto il braccio ci fa un effettone alle squinzie che nemmanco il gel sul
ciuffo. Ci dico, lo vuoi un martini? ci ho l'oliva bell'e pronta...”.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VORREI RIENTRARE NELL’UTERO, UNO
QUALSIASI*
*Woody Allen.
scritto da: Fucsia
Mi dondolo, e faccio il pesce a galla
mi succhio il dito e dormo finché ne ho voglia
nessuno urla, nessuno chiede.
Mai un rimprovero, uno sberleffo o una delusione.
La vita è ancora tutta da inventare come la voglio io.
Futuro giovanissimo.
Ho solo una domanda nella mano:
La vera vita è fuori?
Tra otto mesi lo saprò.
128
I Giovedì di Scrittura Fresca
IL CIVICO TRENTA
scritto da: BrunoB
Le percorro tutti i mercoledì sera, queste scalette ripide che mi portano al civico
trenta.
Qui è tutto ripido, queste scale, le sue scale, i suoi occhi.
Le mani che ciondolano lungo i miei fianchi, in attesa di tasche comode, e la borsa
con tutti i disegni di Martina a tracollo,
più per abitudine che per effettiva necessità.
Arrivo sulla strada solo dopo aver constatato che le mie scarpe sono tanto fuori moda
quanto comode,
e che con questo stupido giaccone senza maniche sento freddo.
L'uomo con la faccia di spigoli e i capelli che non conoscono il passaggio di un
pettine sta davanti alla sua bottega.
Come tutti i miei mercoledì.
Più che sedersi stasera sembra cavalcare la sedia, messa con lo schienale fronte
strada.
Ha una fetta di prosciutto tra le mani, come un gatto ed il suo topo, e la faccia
accogliente di un buttafuori.
Alle sue spalle c'è aperto una via di mezzo tra un ristorante sfigato, e una cucina che
si è montata la testa.
Ne esce un profumo accogliente più per lo stomaco che per gli occhi.
Non ho sete ma bevo, forse per dare un senso a questa fontanella nascosta da
macchine incastrate come tasselli di un puzzle gigante.
Poco più avanti, a sfiorare due ragazzi con un amore fanciullo tra le mani e grosse
scarpe da ginnastica ai piedi,
c'è uno stendino ancorato ad una grata con una piccola catena.
Sostiene imperterrito il residuo di un bucato, che per oggi non si asciugherà più.
Altri panni, più nobili, sono appesi
sospesi
distesi
tra un palazzo e l'altro.
Che qui i palazzi sembrano baciarsi.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Di fronte allo stendino con l'antifurto c'è il negozio delle cose strane.
Mobili strani e costosi.
Tutte le volte mi fermo ad osservarli, naso sfiorare la vetrina, per vedere se la
bellezza è anche una questione di abitudine.
A sfiorarlo inizia la fila di motorini muti, allineati come carte in un mazzo da gioco,
saranno venti,
trenta,
saranno tanti.
Come formiche di metallo la processione si interrompe solo davanti ad una officina
ancora aperta.
Capelli lunghi e mani sporche al di la della saracinesca semi aperta come una
palpebra stanca,
per una passione che non ha orari di chiusura.
Poi c'è la bottega delle carcasse di strumenti appesi al soffitto,
e dentro quel piacevole disordine della gente che lavora.
Dentro c'è musica per orecchie delicate, odore di legno e lavoro, e due grossi gatti
che non si curano di me.
Il fruttivendolo all'angolo che espone frutta di plastica quando lo stomaco oramai è
già pieno, e un cestino che sostiene stanco i resti di una giornata di vita.
I tavolini del Bar con il maxischermo che sputa una partita di calcio hanno ingoiato il
marciapiede,
e un gruppo di Americani che ingoiano birra ed il loro ciarlare di parole rotonde.
E il civico trenta è davanti a me.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
DERBY A MOGLIANO VENETO
scritto da: Nick Damone
Ho lavorato a ritmo blando fino alle 17.30 in un centro direzionale. Moderno.
Funzionale. Triste. Una cattedrale nel deserto della campagna veneta.
Poi con due colleghi siamo tornati al nostro albergo.
Loro trattengono a stento l’euforia per aver finito così presto, che proprio non ci
capita mai.
“Che si fa stasera? Andiamo a Treviso? Oppure a Venezia?”
“Io non ci sono, stasera”
“Come non ci sei? Cos’hai da fare?” è il mio capo che parla.
Io non sono euforico per nulla, tra la rabbia di essere in questo posto dimenticato da
Dio e la tensione pregara che comincia a dare segni di sè. “C’è il derby di Champions
stasera, voglio vederlo”
“Ah, già. Bè, possiamo cercare un locale che lo trasmetta e ce lo vediamo tutti
insieme”, propone l’altro.
“No, dai, non voglio condizionarvi, lo so che a voi non interessa il calcio” provo a
scrollarmeli.
“Ma non preoccuparti, è un modo come un altro per passare la serata, dai” è di nuovo
il mio capo.
Taccio qualche istante.
“So che vi sembrerò un animale strano, ma io preferirei vederla da solo, senza
megaschermi, gente che grida, eccetera. Mangio una cosa al volo e poi resto in
camera” ecco, l’ho detto
mi guardano come un extraterrestre, poi fanno “ok”, poi mi prendono un po’ per il
culo.
Alle 20 sono di nuovo in camera, in attesa, chiuso dentro. In questo cazzo di paese
non si prende telelombardia, quindi niente informazioni prepartita.
Scendono in campo le squadre, io non riesco a stare sdraiato, vedo la partita seduto
sul bordo del letto.
Parlo da solo, dico un sacco di parolacce, butto fuori tutto il mio pessimismo,
evidenzio (a chi, poi?) aspetti tattici che non vanno.
Nel primo tempo attacchiamo noi e segnano loro.
Nel secondo tempo attaccano loro e segnano loro.
Inutile sperare nella simmetria del fato.
Guardo gli sms che mi arrivano, mando affanculo qualcuno.
2-0 senza appello, il ritorno è inutile, siamo fuori, fuori dalla Champions.
Cammino per la stanza, mi sembra una gabbia.
Dopo mezz’ora esco, la vita è fuori, mi dico, la vita è fuori.
Il paese è deserto, la chiesa è illuminata, due puttane si avviano al lavoro, una di loro
mi chiama tesoro.
Io torno dentro.
131
I Giovedì di Scrittura Fresca
LA VITA È FUORI?
scritto da: Serenella
Come onda
imbevuta di sole
vago senza meta
fra terra e cielo
oltre il dentro e il fuori
forma precisa e cangiante
come nube d’aprile
mi lascio cadere
nel regno nascosto
ologramma stupito
senza perimetro
mi dissolvo nel tempo
sono il porto
sono il mare
132
I Giovedì di Scrittura Fresca
BROULÈ DÉSIR (IN-POTENZA)
scritto da: PE effeeffe
È difficile sai, amore mio
baciarti ogni mattina sulla soglia
tu più giovane e piena di vita
ed io qui a scrivere e dipingere
dei tuoi occhi e delle tue labbra tutte.
È difficile sai, amore mio
non prendere a morsi questa mela
mentre la sbuccio e l’affetto
ma non voglio e non posso farlo
mi serve intera e tutta intera fetta.
È difficile sai, amore mio
spostarmi di cantina in cantina
a cercar di ritrovare il tuo sapore
ed assaggiarne tanti e mai nessuno
fino a quello che più a te assomiglia.
È difficile sai, amore mio
travasarlo poi dal tanto al poco
e poi ancora viceversa come un rito
senza che una goccia si perda
o si perda il pensiero nelle gocce di te.
Sarà difficile sai, amore mio
ingannare i tuoi sensi al ritorno
accecarti e stordirti e bendarti
e difficile sarà poi spogliarti
ed immergerti nella vasca colma.
Sarà difficile sai, amore mio
che io non soffra per solo guardarti
spezia preziosa accompagnata
di garofano mela e cannella
mentre ti sfili la benda e a me la passi.
Sarà difficile sai, amore mio
non morire mentre al buio
133
I Giovedì di Scrittura Fresca
di polpastrelli m'immagino e sento
quel perfetto inequivocabile soffice ritmo
con cui batti leggera l’onda e te stessa.
Sarà difficile sai, amore mio
ammettere ancora una volta
che non c’è uomo che possa sfiorare una donna
meglio di quanto donna stessa sappia fare
ed ancora una volta ingelosirmi di te.
Sarà difficile sai, amore mio
che io capisca mai o fino in fondo
cosa ti faccia avere quegli occhi vivi
e quella rossa bocca per me,
per me che sono morto nei gesti.
(È facile sai, amore mio
percepire l’amore ed il calore costanti
sentire che non sono stata una sfida,
un premio, un regalo, una scommessa
e farmi d’amore per te che non puoi
che sei morto nel gesto potente
ma ancora mi vuoi come quando potevi
e ancora mi prendi come nessuno altro mai)
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I Giovedì di Scrittura Fresca
OUTFIELD
scritto da: Umberto Bertani
Il rumore dei passi trascinati nella non-pioggia di Milano
Concedersi mezzora di neuroni impazziti
Forse solo stanchi
After the gold rush
Eppure adoro le atmosfere, le luci di questi viali sfrontati, spezzati
I berretti cata dei vigili urbani e fumo acre a filtrare un velo rotto dentro
Di noia ghiacciata
Senza-soluzione-di-continuità
Dalle urla a pugni chiusi
Al silenzio, quasi timido, dei vincenti
Nemmeno i soliti clacson a bucare la primavera di mezza chiusura stagione
Il tempio risplende nella sua bellezza mistica
Accarezzo con lo sguardo le sue linee perfette, giuste, rassicuranti
Puttane bambine stivalate bianco
E strisce di colore
Sempre e solo quello sbagliato
Primo round di bolina, il vento si fa beffe del desiderio
E spinge contro
Appoggiato alla portiera, studio le facce da stadio
Sullo sfondo luci a svanire, che la vita è fuori da là
Forse per sempre
Bip
“Tuo figlio fa il pazzo, mi sa che gli manchi”
135
I Giovedì di Scrittura Fresca
SENZA SALE
scritto da: Gianfranco M.
In zucchero
caffè negli occhi / fumo già macchiato
per favore
o almeno intorno nel bar lume
fatemi silenzio
facce mescolate nel
[rifletto]
Senso di tazzina nell'aRoma
[homing]
provo e non riparto con il cambio in
(folle folle)
moltitudini di peregrini sulla pelle
(folle folle)
e appesi ai fili / pupazzia di carne
La vita è fuori
136
I Giovedì di Scrittura Fresca
UN GRATTARE SUL MURO
scritto da: Sally
Ne avvertì la presenza ancora prima di vederli. Non proprio tracce, anche se dicono
quelle siano le prime a scoprirsi. No, nessun segno evidente. Però qualche fruscio
sospetto, uno scricchiolio ogni tanto, quelli sì catturarono la sua attenzione, anche
perché l’udito si era affinato parecchio a stare sempre in quella grande casa.
Poi una sera ci fu il primo incontro, un faccia a faccia con un piccolo topo che dal
bagno si dirigeva tranquillo in salotto nell’attimo in cui lui, dal salotto, si spostava in
cucina. Si bloccarono insieme imprecando - giurò che anche il topo smadonnò
spaventato – tornando precipitosamente ognuno da dove era venuto.
“Cazzo, un topo! C’è un topo in casa.. e adesso che faccio?” pensò velocemente
occhieggiando la porta della stanza. Non si vedeva a rincorrere l’intruso con la scopa
in mano, magari urlando pure. Non avrebbe sopportato il rumore sinistro del
corpicino spiaccicato sul pavimento. “Non sono violento, io!” si disse, tacitando così
quei milioni di consigli che gli turbinarono nella testa inviati da lui per lui stesso.
Rimase in piedi un poco indeciso, intanto la bestiola era sparita nascosta chissà dove.
Decise così di far finta di nulla e la mattina dopo si affrettò a comprare delle belle
scatolette ad ultrasuoni che, gli avevano assicurato, avrebbero cacciato gli intrusi in
maniera pulita e corretta.
Ne mise una in ogni stanza fiducioso.
Dopo qualche giorno non solo il topetto non scomparve, ma chiamò anche i suoi
compagni, forse attratti dal suono ammaliante degli ultrasuoni.
Ne ebbe la certezza quando cominciò a vederli scorrazzare tranquillamente per casa,
senza alcuna paura. A volte si fermavano a guardarlo da sotto una poltrona o vicino
alla libreria mentre lui, inchiodato alla scrivania, era sempre più estenuato.
A mali estremi, estremi rimedi, si disse.
Comprò un potente veleno in succulenti bustine rosa da lasciare nei punti strategici
della casa. Furono rosicchiate immediatamente e, dopo qualche giorno, cominciò a
trovare qualche cadavere sparso qui e lì.
“Siete stati voi a costringermi” era la monotona litania che ripeteva ogni volta che ne
raccoglieva uno per andarlo a buttare nel fosso. Pulendo così la coscienza nello stesso
modo in cui, dopo, correva a lavarsi più volte le mani con il sapone.
Ma la storia sembrava infinita: i topi morivano, ma non sparivano da casa.
Alla fine si accorse del buco che si era creato sotto il camino comunicante con
l’esterno. “Ecco!”, gridò contento e fischiettando prese calce e cazzuola chiudendolo
allegramente.
Quella sera andò a letto più tranquillo, ormai certo che non ne sarebbero arrivati di
nuovi e che i pochi restanti avrebbero avuto vita breve.
Ancora qualche passeggiata fino al fosso, si trattava solo di avere pazienza. E lui ne
aveva.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Si addormentò felice.
Fu svegliato in piena notte da un rumore lontano ma insistente. Spalancò gli occhi e
tese le orecchie. Gli sembrava arrivasse dal piano inferiore anche se era molto
attutito. Si fece coraggio e cominciò a scendere le scale, il rumore aumentava.
Guardò in salotto, veniva dal camino.
Si avvicinò lentamente.
Appoggiò l’orecchio alla parete.
Il rumore adesso era chiaro e lampante in tutta la sua mostruosità. Era un grattare sul
muro. Vide chiaramente orde di topi con le loro unghiette a scavare la calce ancora
fresca. Li sentiva quasi ridere.
Gli si gelò il sangue.
Ne aveva sopportato la convivenza, ma questo non riusciva ad accettarlo. Questo
grattare furioso gli bucò il cervello e gli tolse ogni ragione.
In pochi attimi corse a vestirsi e, benché fossero le tre di notte, non ci pensò un attimo
ad uscire da casa chiudendosi la porta alle spalle.
“In fondo la vita è fuori”, pensò con un sorriso tirato mentre saliva in macchina
diretto non sapeva dove. Sicuramente lontano.
138
I Giovedì di Scrittura Fresca
COSA POTREBBE SUGGERIRE IL MANCIO
scritto da: Alessandro Gabriele
Il match l'avete visto e giocato tutti.
Abbiamo fatto la nostra partita per vincerla e ci siamo andati molto vicini.
Adesso rigiochiamo questa cazzo di partita e ribaltiamo il risultato.
Tre gol li facciamo in novanta minuti, non ci costa niente.
E la festa che faremo Fuori sarà più bella se partiamo da due pere sul groppone.
Un frammento di Storia, pensate.
Persino chi ha voglia di smettere como Bobo Vieri, andrà via più lieto.
(risatine che emergono dal silenzio impassibile dello spogliatoio)
Ecco, questo è un buon inizio ragazzi.
Ora.
Oba!... tirala tu la volata, voglio vedere tre capriole cazzarola!!!
Tre capriole ragazzi e sbarre d'acciaio sulla porta.
Cazzo venite fuori!
Fuori!
Forza! Forza! Forza Inter!!!
* discorso serio
questo è nello stesso tempo un testo e un meta-testo, è costruito con le tecniche della
Programmazione Neurolinguistica (PNL) che è una disciplina della Comunicazione
che studia - tra le altre cose - come si attivano le Risorse positive nelle persone.
Fabio Capello, ad esempio, è un team-leader che utilizza questo schema di strategia
che è molto semplice: si prende il punto debole e lo si rende punto forte stimolando
la motivazione e le risorse del gruppo
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I Giovedì di Scrittura Fresca
'A VITA È FORI
scritto da: Talesien
M'hanno detto: “A Ninè,
viè a vive, nun rimanè
ficcato tutto er giorno
dentro casa,
'a vita è fori, tutt'intorno.
(L'ha detto pure Megàn
a nà reclam)”
Così gli ho risposto:
“ma ce lo sai che
er vino che sta troppo
aperto pià d'aceto?
ma che m'hai proposto?
de uscì pe poi che fà?
Lo so come va er monno
nun stò a filosofà:
preferisco sta a vedè
i movimenti de la panza,
che annà in mezzo a sta bolgia
de matti senza speranza”
140
I Giovedì di Scrittura Fresca
OLTRE
scritto da: Ettore Bilbo
Quando l’aria è greve, qui si sente un basso profondo salire dagli inferi. Non saprei
spiegarmi meglio, perché il suono che si sente non sembra provenire da nessuna
direzione in particolare; scoppia, per così dire, direttamente nel cervello e lo scalda,
lo crogiola nel torpore di un sonno angosciato.
Ma forse è meglio che vi racconti come sono arrivato in questo non-luogo.
Vivevo la mia vita come ogni altro essere umano, vivevo nel quotidiano insomma,
assorbito dal passare dal tempo ed escluso dallo spazio. Sentivo la compresenza di
qualcosa d’altro, come tutti voi, credo, ma non potevo far nulla per arrivare a capirne
il senso, toccarla, anche solo sfiorarla. Un giorno, invece, tutto questo è cambiato.
Non so, ed in fondo non importa sapere, chi abbia deciso di inserire il mio nome nella
lista di quei fortunati che come me, adesso, si trovano nel non-luogo.
Al di la del tempo e dello spazio, insomma. Meglio dirla in parole povere perché, per
chi non è qui con me, è impossibile capire cosa si provi.
Il fatto, in breve, è che mi è stato offerto di partire per la colonizzazione del nonluogo ed io ho accettato. Pensai, quando venne il momento di esprimere il mio sì, che
quella era l’occasione di una vita, la possibilità di andare oltre, oltre a tutto il resto e
diventare parte dell’universo. O qualcosa di simile.
Partimmo, era il 13 Aprile dell’anno 2115, io e un centinaio di altre persone, con una
navetta di ultimissima generazione; percorremmo distanze inimmaginabili, a velocità
altissime, mentre il tempo scorreva e ci logorava. Fu una dura prova perché ci
sovvenne lo sconforto. Alcuni cominciarono a cedere durante il viaggio. Ho visto
atrocità… un piccolo gruppo di esseri viventi minacciato, beh, vi lascio immaginare
come si può difendere: escludere il più debole, la minoranza, non lasciare alcun
spazio vitale, usare la violenza infine.
Passò ancora del tempo. Si era allo stremo delle forze.
Eppure la nostra meta doveva essere vicina, lo sentivamo. Non fu in un giorno
preciso che raggiungemmo il non-luogo, o forse, più semplicemente, non sono in
grado di ricordarlo perché il cambio di prospettiva è stato troppo repentino. Prima le
cose erano in un certo modo e poi…
Poi è ora.
Ora è sempre.
Ed io sono fuori. Finalmente.
***
141
I Giovedì di Scrittura Fresca
Anno 3015:
- Comandante, abbiamo raggiunto il relitto.
Il comandante Priscilla Parker, si voltò in direzione del navigatore per rispondere,
come si era preparata spesso fantasticando in solitudine di quel momento: Agganciamo!
Il relitto del Redemption fluttuava nel vuoto di fronte alla prua della nave del
comandante Parker, sembrava un viandante smarrito, indeciso sulla strada da
prendere. Forse per il fatto che nello spazio profondo non esistono strade.
- La compagnia esplorativa è pronta Khao?
Il sottufficiale Khao Ten rispose affermativamente e poi rivolgendosi al proprio
assistente intimò la partenza della cellula esplorativa.
Dopo qualche minuto lo schermo principale sopra la plancia di comando si illuminò a
giorno. Le immagini di un portellone a tenuta stagna si composero dal nulla, come in
un processo di liquefazione al contrario. Sembrava di trovarsi di fronte ad uno spazio
reale, in tre dimensioni.
Priscilla arricciò il naso, nascondendo un moto di nausea, poi si rivolse al nulla: - Mi
sente Tenente?
- Forte e chiaro - fece una voce molto profonda, una bella voce da annunciatore.
- Allora apra il portellone e vediamo, una volta per tutte.
Il portellone venne aperto, piccoli granelli di detriti presero a fluttuare accanto alla
cellula esplorativa che se ne stava placida, appiccicata allo scafo della Redemption
come una bolla d’aria. Il tenente si chinò leggermente ed entrò.
- Ma sono solo cadaveri!?
Khao Ten non voleva credere ai propri occhi, la spedizione non aveva mai raggiunto
il proprio scopo, il non-luogo era rimasto solo una chimera allora, ecco perché non
erano mai stati contattati dagli eletti, la peggiore delle ipotesi. Doveva avere fede.
- Sì Khao, solo cadaveri. - precisò Priscilla.
- Il gran sacerdote non sarà felice di saperlo.
- Nessuno lo sarà. - dovette precisare ulteriormente il comandante Parker. I suoi
sentimenti erano un misto di sconforto e di rassegnazione; come se lo avesse sempre
saputo. Se fossero tornati sulla terra il grande consiglio episcopale avrebbe insabbiato
tutto; non si potevano permettere di perdere il non-luogo. Non poteva non esistere. Li
avrebbero uccisi e dato le loro polveri al vento cosmico. Doveva rassegnarsi.
***
Quando l’aria è greve, qui si sente un basso profondo salire dagli inferi.
Non saprei spiegarmi perché il suono non nasce dentro di me come sarebbe naturale,
sembra davvero provenire da un sotto. O da un fuori, non riesco a capire. Mi sento
schiacciato, compresso, eppure è bello, sono contenuto nello spazio.
142
I Giovedì di Scrittura Fresca
Sono giunto qui attraversando il non-luogo, ho raggiunto il sogno di una vita. Prima
conducevo un esistenza come tante altre, trascinandomi nell’essere di sempre, senza
conoscere limiti o provare il conforto della fine. Quando il mio nome è stato inserito
nella lista dei fortunati ho accettato subito: poter andare oltre a tutto il resto, uscire da
una vita fatta di inutili domande ed entrare nello spazio. Mi è sembrato impossibile
che capitasse proprio a me.
Sento lo scorrere del tempo, è un battere incessante che mi rallegra nel suo dilatarsi.
Sono sensazioni nuove che non so come spiegarvi, mi mancano i termini di confronto
perché il passaggio è avvenuto senza che me ne rendessi conto. Adesso il tempo c’è e
la vita è li fuori che mi aspetta.
Il dottor Skiettle prese sotto la nuca il piccolo aiutandolo a farsi strada tra le cosce
della madre. Il neonato lo guardò divertito, come se non avesse mai visto nulla di
simile, ed è proprio così pensò Skiettle.
Poi il piccolo iniziò a piangere con tutto il fiato che aveva in gola.
143
I Giovedì di Scrittura Fresca
ILLUSIONE
scritto da: Asclepio
Mi risuonano ancora le sue parole nelle orecchie: “…la vita è fuori…” Tutto il resto,
frasi, suoni, idee, scivolava untuoso dalle mie orecchie ed un unico grande ronzio
percuoteva il cervello.
“…la vita è fuori…”
Speravo che non succedesse. L’impegno di giorni, mesi, vanificato sicuramente.
Sacrifici che pochi conoscono, affrontati in silenzio, quotidianamente.
Far finta di niente per poi non ottenere niente.
“…la vita è fuori…”
Sentire la notte quel senso di vuoto che sapresti bene come colmare ma che non puoi
ascoltare.
Mettere a tacere ogni istinto.
Saperti sola, con addosso gli occhi impietosi di chi pretende da te il risultato senza
badare alle tue sofferenze.
Sola e con quel morso allo stomaco che ti ricorda quello che devi fare e che ti distrae
da tutto quello che dovrebbe distrarti.
“…la vita è fuori…”
Detto solo una volta, rimbalza insolente a rimescolare le tue delusioni.
Dovrò ricominciare, o peggio, non finire, continuare ancora, carica di disillusione.
“…la vita è fuori di 5 cm…. Deve continuare la dieta! Non perdo tempo a misurarle il
giro fianchi…Figuriamoci la coscia!!! Signora, o s’impegna nella dieta, o non
vedremo mai il suo BMI modificarsi adeguatamente. Ci vediamo tra un mese.”
144
I Giovedì di Scrittura Fresca
145
I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Cinque 21 Aprile 2005
POLVERE DI FOGLIE
Hanno partecipato:
Dario Carta
Polvere di foglie
CYB Roberto
Primo Maggio 2003
Nicola Martini
Sponsorized by Fito (fogliame zozzoso)
Serenella
Polvere di foglie
Dolphy
Polvere di foglie
Massimo Botturi
La creta dell’autunno fa di piombo il fogliame
Un bacio secco, di foglie rilassate
Carmen M.R. Di Lorenzo
I vapori di Maria
Oltremare
Dialogo tra il cielo e la terra
Vaan
Polvere di foglie
Leone
Polvere di foglie
Sally
Battibecchi casalinghi
Franco Zadra
Polvere di foglie
Necatrix
In foglie spolverate d’amore che si può
Ettore Bilbo
Toilet poetry in salsa di forfora
Brizgraz
Foje in porvere
146
I Giovedì di Scrittura Fresca
POLVERE DI FOGLIE
scritto da: Dario Carta
Autunni
disegnano strade
rotolate
del vento fintamente distratto
E i colori
in briciole minute di clessidra
decorano occhi passanti
tra uno sguardo e l’altro
- leggici il tempo tra divenire ed esser stati Nel quando dei cieli
rovescia la sfera vitrea
del paesaggio che
cadente
(in sospensione)
s’allaccia in venature
e frastaglia i margini
Ed è verde il cielo
quando ancora si nasconde
all’ombra della primavera
147
I Giovedì di Scrittura Fresca
PRIMO MAGGIO 2003
scritto da: CYB Roberto
Cielo splendido al largo di San Diego, California.
L’azzurro intenso, come polarizzato da un potente filtro fotografico, si fonde con il
blu cobalto dell’oceano, un tappeto di foglie spumeggianti appena increspato da una
brezza insistente e piacevole.
Il ponte della portaerei è gremito fino all’inverosimile.
Il Presidente è raggiante:
“Vi ringrazio tutti sentitamente. Ammiraglio Kelly, Capitano di Vascello Card,
ufficiali e marinai della portaerei Uss Abraham Lincoln, miei concittadini
Americani: la fase principale dei combattimenti in Iraq è terminata. Nella guerra in
Iraq, gli Stati Uniti e i nostri alleati hanno prevalso. E ora la nostra coalizione è
impegnata nella ricostruzione e nel garantire la sicurezza del Paese. In questa
battaglia, abbiamo combattuto per la causa della libertà e della pace nel mondo. La
nostra nazione e la coalizione sono orgogliose di questa impresa, e siete stati voi, le
Forze Armate degli Stati Uniti, ad averla compiuta. Il vostro coraggio, la vostra
determinazione nell'affrontare il pericolo per il vostro Paese e l'uno per l'altro,
hanno reso possibile questo giorno. Grazie a voi, la nostra nazione è più sicura.
Grazie a voi, il tiranno è stato sconfitto e l'Iraq è libero…”
Garriscono all’aria salmastra striscioni di benvenuto, e i pantaloni e le casacche dei
marinai si animano, concitati, sui corpi di una gioventù attenta e orgogliosa,
ingaggiando una lotta giocosa con il vento.
E’ tutto un incrociare di sguardi, tra soldati e comandanti e autorità, in commistioni di
gratitudine e fierezza per consapevolezze e intenti parimenti sconfinati.
“...Uniti difendono questi principi di sicurezza e di libertà con tutti i mezzi della
diplomazia, della polizia, dei servizi segreti ed economici. Stiamo lavorando con
un'ampia coalizione di nazioni che riconoscono la minaccia e la nostra comune
responsabilità nel far fronte a tale minaccia. L'impiego della forza è stato e rimane
la nostra ultima risorsa. Tutti, amici e nemici allo stesso modo, sanno che la nostra
Nazione ha una missione: reagiremo alle minacce rivolte contro la nostra sicurezza
e difenderemo la pace…”
Bart è defilato, timido.
E’ lì presente con uno strano agitarsi di sentimenti nell’intimo.
148
I Giovedì di Scrittura Fresca
“…Gli uomini che abbiamo perso sono stati visti per l'ultima volta mentre
compivano il loro dovere. La loro ultima azione su questa Terra è stata quella di
combattere un grande male e di portare la libertà agli altri. Tutti voi, in questa
generazione di militari, avete accettato la più grande responsabilità della storia.
State difendendo il vostro Paese e proteggendo gli innocenti dal male. Ovunque
andiate portate un messaggio antico ma sempre valido. Usando le parole dette dal
profeta Isaia "Ai prigionieri: ‘Uscite!’, e a quelli che sono nelle tenebre: ‘Venite alla
luce!’…”
E’ un tripudio di applausi e di berretti lanciati in aria.
I militari si abbracciano sull’immenso ponte della nave lasciando che il protocollo e
la disciplina si dissolvano per un attimo nell’incontenibile gioia per l’adempimento di
una missione importante.
Qualcuno improvvisa una danza, qualcun altro saltella per riuscire a carpire tra le
tante teste lo sguardo commosso del Presidente laggiù tra i microfoni.
Bart è urtato violentemente da un gigantesco mulatto imponente come una sequoia e
perde l’equilibrio annaspando sul bordo del ponte.
Un piccolo portoricano, nello sbracciarsi, gli assesta una gomitata allo sterno.
Bart indietreggia risucchiando aria e poggiando il piede sul nulla…
Nessuno si accorge di niente, al momento: del resto, rigogliose foglie verdi avide di
vita, nervose e tese, o masticate come berretti, non portano il lutto per una foglia
ingiallita che diviene estranea alla comunità…
Non se ne accorgono neanche, forse, impegnate a sostenersi vicendevolmente nella
compagnia e nell’unica comune funzione di succhiare linfa e offrire ombra e riparo.
Il cadere da una portaerei è come precipitare da un palazzo di oltre dieci piani e
l’impatto con il mare, da oltre sessanta metri, è per lo più definitivo e non morbido
come si potrebbe credere.
E’ un’altezza, tuttavia, che permette di elaborare ultime perplessità e di impadronirsi
di estreme verità contingenti, avvolte nel terrore della fine, sulla bontà di un discorso
e su certezze e reali valori della vita: quel famoso avanzamento veloce nel ralenty che
relativizza il tempo rimasto a disposizione.
“…Grazie per il servizio prestato al nostro Paese e alla nostra causa. Dio vi
benedica e continui a benedire l'America.”
149
I Giovedì di Scrittura Fresca
SPONSORIZED BY FITO (fogliame zozzoso)
scritto da: Nicola Martini
Il testo polvere di foglie è dal sottoscritto sviluppato in versione bilingue:
lombarda e ligure.
I° vers:
“vunciun”
2° vers:
“spurcacciun”
adatta anche a lettori sabaudopiemonti o piemontosabaudi.
Quelli che in dove vai se la banana non ce l'hai ci avevano la polvere di stelle, noi in
SF ce l'abbiamo di foglie. Stavo leggendo Giovanni e mi chiedevo: “Sta cosa la
postolo o non la postolo?”.
E mi è venuta l’allergia alla polvere, al ché è venuto un acaro del mio materasso,
sono amico di tutti ma sto qui ci sono affezionato di più, si è messo vicino a me che
era dai tempi dell'orsacchiotto che nel letto non ci avevo più nessuno e ce le siamo
raccontate.
Mi diceva che la sua ragazza dichiara 30 anni, gli ho risposto: “gli va di culo che
hanno aperto le frontiere...”
150
I Giovedì di Scrittura Fresca
POLVERE DI FOGLIE
scritto da: Serenella
È l’eco del tempo
quella polvere rosa
che nutre le zolle
di un girotondo
stupore dorato
intriso di miele
nel mare nudo
di un acerbo corallo
tana di sogni
vestiti d’arancio
nell’isola ambrata
densa d’attese
un viale di vetro
fra luci dissolte
nel cerchio
che ingabbia
l’arcobaleno
151
I Giovedì di Scrittura Fresca
POLVERE DI FOGLIE
scritto da: Dolphy
Era autunno
ricordi amore mio?
l’Orangerie apriva ai nostri occhi
le sue Ninfee
e le Tuileries era un tappeto intorno
un tappeto giallo
arancio
terra bruciata
L’indaco del cielo contrastava
i tuoi occhi
riflessi in mute fontane,
orfane le panchine
lungo i viali
Parlavi di una estate ormai trascorsa
sulle rive du Pont Neuf
pigramente
al suono di una armonica
inseguendo un volo
Era autunno
amore mio
ricordi?
Ero persa nel tuo sguardo
e già sapevo
Calpestavo lentamente
quel soffice tappeto
e già sapevo.
A volte i ricordi inseguono
quei giorni
rimuovendo a fatica
la polvere del tempo
152
I Giovedì di Scrittura Fresca
Polvere
che ha il colore
di quell’autunno
quando l’Orangerie aprì
ai nostri occhi le sue Ninfee.
153
I Giovedì di Scrittura Fresca
LA CRETA DELL’AUTUNNO FA DI PIOMBO IL
FOGLIAME *
*Eluard
scritto da: Massimo Botturi
Viaggiano insieme
talune rigano il cielo in contro tendenza
senza macchiare di un solo grido
quella spanna serena
che filtra
nell’ora di pranzo
Tacciono
come monete girate di croce
come dadi sull’uno
154
I Giovedì di Scrittura Fresca
UN BACIO SECCO, DI FOGLIE RILASSATE
scritto da: Massimo Botturi
Non ci sorride più la smania di nasconderci
quando l’attesa sfiancava i nostri sensi
e si viveva per dare, dietro un albero
baci furtivi, carezze immacolate
Eppure t’amo
di quell’amore eterno che ci vorrebbe a fianco
nei giorni più infelici
eppure m’ami
perché a tenerti la mano in sofferenza
sono capace, l’ho fatto mille volte
e non si vive di soli vent’anni in corpo
ma di paura, di ansia del morire
e quando appoggi la testa, dentro un cinema
li sento tutti questi anni passati insieme
e penso a quando non si vedeva nulla
Così, ti bacio, e nemmeno te l’aspetti
un bacio tenero, di bocca, siamo grandi
un bacio secco, di foglie rilassate
con dignità e austera comprensione
ci basta poco, una telefonata
o il rispettoso silenzio della sera
quando ti chiudi nel bagno per fumare
ed io sparecchio, gentile coi bicchieri
attento che gli avanzi sian buoni per domani
e poi ti accendo il canale preferito
mi siedo a destra
e metto via le scarpe
155
I Giovedì di Scrittura Fresca
I VAPORI DI MARIA
scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo
Quando il vento si alza
scuote foglie d’oro
polvere a lustrare
vetri di memoria
Tutto tace intorno
tranne lo stormo dei rami
flebile speranza
che sul tronco arranca
Maria è sorda al tempo
e prega sulle zolle
giaciglio del suo sogno
perché germogli
Ma la lingua di Maria
esule di parole
resta muta
ai sapori nuovi.
156
I Giovedì di Scrittura Fresca
DIALOGO TRA IL CIELO E LA TERRA
scritto da: Oltremare
- Ehi, laggiù, hai da fare? - urlò il cielo.
- Dipende, cosa vuoi? - rispose la terra.
- Volevo chiederti un favore - Tu che puoi tutto chiedi un favore a me che non posso niente? - Sì, insomma, c’è qualcosa che tu possiedi che mi piacerebbe avere - Anche a me piacerebbe avere qualcosa di tuo - Allora ti propongo uno scambio - Sentiamo, ti ascolto - Vedi, sto organizzando una festa per l’arrivo dell’estate e mi piacerebbe poter
truccare le mie nuvole che hanno sempre quei volti sbattuti. Bianchi, grigi, al
massimo un rosa pallido quando il sole scende e si prepara per andare a dormire. Ho
pensato che forse tu potresti aiutarmi - E come? - Con le foglie - Le foglie? Vuoi truccare le nuvole di verde? E poi le foglie non sono mie, sono
degli alberi. Certo io posso metterci una buona parola, visto che gli alberi prendono
nutrimento anche da me, ma…- No, aspetta. Io parlo delle foglie secche, quelle che una volta cadute dagli alberi ti
solleticano la nuca - Ah, quelle! Ma anche se io decidessi di regalartene un po’, come pensi di portarle
lassù? Io in questo non posso certo aiutarti - Lo so, ma ho pensato a tutto. Ascolta. Ci sono alcune tue radure dove le foglie
cadute si sono ormai sbriciolate, grazie anche all’acqua delle mie piogge. Potrei
mandare giù un bel po’ di vento suggerendogli di muoversi a mulinello. Il vento
raccoglierebbe la polvere di foglie, togliendoti anche quell’aspetto triste che autunno
e inverno ti hanno imposto, e la spingerebbe verso di me. Io poi la userei per truccare
le mie nuvole, che potrebbero salutare l’estate con un colorito florido. Che ne pensi? - Beh, si può fare, ma tu cosa mi dai in cambio? - Avevo pensato che per l’arrivo dell’estate avresti bisogno di un vestito nuovo. Così
potrei donarti qualcosa che ti renda luminosa, brillante. - Tipo? - Polvere di stelle - Oh, sì, polvere di stelle! La mattina che l’estate arrivò le nuvole sorridevano di un colore albicocca.
La sera che l’estate arrivò la terra indossava un vestito di piccole scaglie d’oro.
157
I Giovedì di Scrittura Fresca
POLVERE DI FOGLIE
scritto da: -vaanSoli, in silenzio
gli ultimi alberi osservano sulla valle.
e non avranno seme
loro fra i tanti
che si specchiano
a quei rami, con gli occhi induriti.
una magra possibilità
di mettere da parte, una miseria di stipendio
che la voglia di avere figli
è un cero spento in mezzo alla bufera.
e sul bosco a conifere
dalle ruspe l’assalto
vedranno, il prossimo inverno
spianato il crinale
e spoglio
un futuro incolore quasi vuoto
come polvere di foglie.
POLVERE DI FOGLIE
scritto da: Leone
Vere pere, l'ere-prole
doglie in gole,
oli e fidi geli.
158
I Giovedì di Scrittura Fresca
BATTIBECCHI CASALINGHI
scritto da: Sally
Ero tranquilla a pensare ai fatti miei, il fuoco faceva il suo dovere nel camino, il cd
faceva il suo dovere nello stereo, il vino faceva il suo dovere nella mia testa, il fumo
faceva il suo dovere nella mia gola. Insomma una serie di cose ad interagire tra loro
facendo esattamente il loro dovere. Ed ecco che un ragno si cala dall’alto. Si ferma ad
altezza occhi (i miei naturalmente) e mi guarda stizzito.
Stizzito? Sei a casa mia, un po’ di rispetto almeno, non ti pare?
Non si scompone il bastardo, anzi controbatte.
Sei tu che invadi il mio spazio.
Vocina flebile e pretenziosa. Vocina da ragno, insomma.
Sto invadendo il tuo spazio?
Certo, non te ne sei accorta? Una ragnatela è geometria pura, ogni lato ha la sua
dimensione che va rispettata. Tu sei in un mio lato e devi sloggiare.
Devo sloggiare?? Uè ragnetto sei tu che sei in casa mia.. vai a fare i tuoi lati perfetti
tra le mille foglie del bosco qui vicino.
Vacci tu carina.
Carina? Non me l’ha mai detto nessuno e certo non comincerà un ragnaccio peloso.
Iniziamo ad offendere?
Non sei peloso?
Sì, ma avverto un tono astioso in te.
Astioso è dir poco. Ti cali a sfiorarmi il naso e mi dici di sloggiare, come dovrei
reagire secondo te?
Potresti fare quello che ti ho chiesto, magari mentre ti alzi e ti allontani mi chiedi
anche scusa.
Devo ammettere che è riuscito a farmi ridere però. Non riesco a resistere alla
tentazione e gli sbuffo del fumo addosso. Inizia a tossire mentre le zampette cercano
di pizzicarmi. Ondeggia pericolosamente davanti al mio naso ma il fumo sembra
averlo addolcito. Sembra quasi che mi sorrida.
Meglio adesso?
Sì, sto bene anche se tu non ti sei ancora spostata!
Ma guarda che non ho nessuna intenzione di spostarmi. Torna su e calati un poco più
in là. Lasciami fuori dalle tue geometrie perfette che io con la perfezione non vado
d’accordo.
Perché dovrei dartela vinta?
Ah, ma allora sta diventando una questione di principio?
In un certo senso sì.
Principio per principio, non ti sfiora l’idea che con un gesto minimo ti elimino dalla
faccia della terra?
Ecco! Mi mancava la solita boria di chi si sente più grande e grosso.
159
I Giovedì di Scrittura Fresca
Ma lascia perdere la boria che io sono buona e ti lascio fare tutte le ragnatele che
vuoi, sei tu che attacchi.
Sì, buona! La casa è sempre piena di fumo, la musica altissima anche in piena notte
ed ho intravisto anche un topo passeggiare.
Il topastro lascialo in pace che mi diverte come rosicchia e poi scusa, chi ti tiene qui?
E dove dovrei andare?
Fatti tuoi, scusa la franchezza.
Lo vedi che sei antipatica?
Tu sei noioso.
E quindi?
E quindi?
...
Facciamo una cosa
...
Tu ritorni nel tuo angoletto ed io mi dimentico che mi stai riempiendo di fili
appiccicosi tutta casa, mi sembra che ci puoi stare.
...
Allora?
Mi ributti un po’ di fumo addosso?
Ah ah ah.. ti è piaciuto allora?
Sì
Ti credo, erba così se ne trova poca in giro ormai. Credi che altrimenti potevo stare
qui a battibeccare con te? Io ti ributto un po’ di fumo sul quella testolina di ragno e tu
torni zigzagando al tuo angolo. Ok?
Questo è un ricatto.. ok!
Sorrido mentre lo avvolgo in una nuvoletta di fumo denso, non ci giurerei ma mi
sembra anche di sentirlo aspirare, ma tu guarda se mi dovevano capitare anche i ragni
sconvolti. Dovrò stare attenta a dove la lascio che quello è capace che me l’avvolge
in un bozzolo e non la trovo più. Intanto la bestiola se ne ritorna alla base.
Cazzo, me l’aveva detto mio fratello che quest’erba era allucinogena, ghigno tra me e
me mentre cerco un’altra cartina.
160
I Giovedì di Scrittura Fresca
POLVERE DI FOGLIE
scritto da: Franco Zadra
Impalpabile
evanescente traccia
di permanenza
fuggita
che il liquido ricordo
discioglie e trascina
nel profondo
del mondo
perché rifiorisca
l'apparenza del Sé
Di me che ero
quando eri tu
Un
Noi.
Molto di più
dell'impronta
del tuo capo
sull'altro
guanciale.
161
I Giovedì di Scrittura Fresca
IN FOGLIE SPOLVERATE D'AMORE CHE SI PUÒ
scritto da: Necatrix
Sinuoso è l'amore che si può
in serpentina di neon
e minuti spersi
con mano minore
a scostare i capelli
di questa mia monaca
esi-lienza
monca d'ogni iddio
sotto un cielo
di cera (d'Api?)
che mi (si?) racconta
a vuoti
e mai che la vita
riesca a risuonarsi
da capo a piedi
qualora anche solo
un trucco metabolico
s'attivi
in esperienze rammaricate.
Eppure non mai io vengo meno
a questo fair play
che è gioco d'agonie
e pellegrinaggi espiatori
(tutti?) da assolvere
- suhnwallfahrts al simulacro
di quel che è il resto
dell'onore dell'uomo.
162
I Giovedì di Scrittura Fresca
TOILET POETRY IN SALSA DI FORFORA
(Elegia del derma d’elefante)
scritto da: Ettore Bilbo
Con badilate di pazienza
riempirò secchielli di pazzia
Ma non credere davvero
che non possa farmi scherno
dei tuoi rutti fuori tempo
in quanto il ritmo l’ho dettato
prima ancor tu fossi nato.
Questo disse il mio signore
poi si fece bianco perla
manto increspo di candore
e in brache mi lasciò
giusto in tempo per godersi
per godersi ballarò
Poi via, verso domani
lasciando il pasto ai cani
e ciotole ripiene
di passi falsi, angosce e pene
che non son degne di lasciare
altro che aria da buttare
e come un’aquila volare
Son grammi,
di solitudine patita
cercando invano una ferita
tanto stupida e bugiarda
da creder ancora sia sincera,
e senza dubbio tralasciare
che non tocchi a lei incolpare
di non aver ancora amato
quel po’ che basta ad aspettare
e continuare ad aspettare
lasciando al tempo il suo daffare
163
I Giovedì di Scrittura Fresca
Ché i domani corron svelti
e perder tempo paga dazio
per chi ha voglia di dormire
sopra materassi sporchi
di congiunture dette perse
perse sì ma non lasciate
anzì invece riafferrate
giusto in tempo per morire
Acciò che noi lasciam cadere
come alberi le foglie,
ma non raccogliamo frutti
di quelli pochi assai
perché se ci pensiamo,
maturi in primavera
non lo siamo stati mai…
Siam polvere di foglie
martirizzati santi in doglie,
per quanto valga
inconsapevoli di noi
Perché la notte
le storie fragili raccontano
echi, sogni, sonorità sbiadite
e l’inverno
si scioglie senza vento
e scivola poi via
164
I Giovedì di Scrittura Fresca
FOJIE IN PORVERE
scritto da: Brizgraz
Er vento spazza er viale e tra le fojie,
che voleno portate da la brezza,
c'è un fojio scolorito de giornale
rubbato dar ciclone a la monnezza.
Un vecchio incuriosito lo raccoje,
se ferma, se lo legge, se sbilancia,
poi se ripija, seguita er cammino,
e mentre passa lento e a capo chino,
'na lagrima je scenne su la guancia.
Ha letto de quarcosa de violento,
oppure avrà pensato, bene o male,
che semo tutti come fojie ar vento?
165
I Giovedì di Scrittura Fresca
166
I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Sei 05 Maggio 2005
EUTANASIANDI
Hanno partecipato:
CYB Roberto
Eutanasia di laida creatura
Bobboti
Sogni sono duri a morire
Punto Mosso
Un vuoto?
Brenno
Tanto…
Ettore Bilbo
A cosa serve il silenzio
Dolphy
Vita
Vaan
Di rughe
Massimo Botturi
Mare dentro
Pasquino
I dubbi di Minasse
Simonetta Ferrante
Bivio umiltà
Idea Vagante
Dolcemiele la morte sulle labbra
Sally
Eutanasiandi
Carmen M.R. Di Lorenzo
Brava Sara
Maiko
La generazione di Thanatos
Brizgraz
La morte pietosa
Necatrix
Eutanasiandi – CYB
Serenella
Una tazza di ricordi
167
I Giovedì di Scrittura Fresca
EUTANASIA DI LAIDA CREATURA
scritto da: CYB Roberto
Cala rapida e violenta un’immaginaria spranga su quel cespuglio grigio, come
un’affilata katana medievale, a dividere di netto il bene dal male…
Si è materializzata dal nulla nel parco cintato, repellente.
Si potrebbe chiamare Ida, la Ida, laida.
Si presenta come un elfo saltellante, con una giacca di panno del colore acceso tra il
giallo uovo e la senape cremosa di un chiosco di hot dog.
E’ piccola, ossuta e piallata, con il seno licenziato, e i jeans sono sempre e comunque
troppo grandi, increspati con una corda al bacino posteriormente scarenato.
Ha una testa che è un groviglio di mangrovie stritolate in un frantoio, grigia e unta,
uno stampo di ragnatela fusa sul viso scavato, di rughe, una bocca storta con denti
guasti aperta oscenamente a parlare e parlare e parlare con lingua saettante da mamba
ninfomane…
Si muove come una marionetta, a scatti, stringendo un sacchetto di supermercato
pieno di biancheria cimiciosa e una borsa consunta.
Emana un odore di stantio, di disidratati biscotti della salute quasi ammuffiti…
I capelli altamente infiammabili nobiliterebbero una fine gloriosa da bonzo, anche se
i bonzi non hanno capelli…
Flashspot.
Rage Against the Machine.
Urla selvagge liberatorie di vittime e carnefici.
Evoca il concetto di Legione, di posseduta, di altra protagonista di un esorcista otto o
nove, con sguardi schizofrenici che chiedono aiuto e insieme soppesano
puttanescamente bassa macelleria di maschio caucasico alto e massiccio.
Ha occhi neri e fondi con luccichii che sembrano cerchi concentrici in una pozza
immobile: luci intermittenti come un presepio in prevalenza espositiva di buio
misterioso o mistico.
Anche la voce è un insieme di voci: diverse nell’assenza comune di speranza.
Querula:
“Chissà dove dormirò stasera un avvocato pazzo di me mi ha dato il bidone sono
perseguitata dagli sbirri che non vogliono che io stia da queste parti un maresciallo
della finanza si è innamorato già non sono poi malaccio…”
Sfrontata:
168
I Giovedì di Scrittura Fresca
“Ma non sei in libertà vigilata con quel pacchetto tra le gambe dove vai a fare
danni?”
Stanca:
“Non ne posso più di voi uomini e della vita fanculo il sentimento, ha la sifilide.”
Dissociata in toni e concetti:
“Ti vesti proprio sexy e mandi un buon profumo la vita è dura e ho lo sfratto ho fame
mi ci vorrebbe un caffè o un cappuccino potrei essere una brava moglie so cucinare
cosa non darei per una doccia sì carino ci so fare con gli uomini e non ridere che ti
potrei mandare al manicomio se queste mani potessero parlare dio è distratto e io
vorrei un panino colla mortadella…”
La morte migliore, per chi è logorroico, è il soffocamento, forse, nemesi naturale da
legge del taglione.
Danzano nell’aria cuscini grassocci di morbide piume d’oca che interagiscono con
maggiori effetti devastanti in senso allergenico…
Una pressione minima come da manuale: come soffocare uno scricciolo unto e
affamato di panini con la mortadella.
Provoca con ammiccamenti, torsioni di lingua sui denti algosi, un leggero disinvolto
sfiorare l’animale in letargo.
Incalza aggressiva:
“Ti faccio così ridere eppure non rideresti se ti succhiassi come so fare dio come sono
stanca di combattere perché deve durare così tanto padre nostro che sei nei cieli altro
da fare mi ha abbandonata ti mangerei tutto bello rosa che sei come un porcellino ce
l’hai a ricciolo anche tu?”
Ride aspra, forzata, costretta da un cervello che manifesta altre idee con lo sguardo
supplichevole…
Forse piove, tra poco.
Spero che sia un diluvio universale soggettivo, alla Fantozzi, ad annegare sofferenze,
torture di fame e di uomini voraci senza altro che fame.
Senza saper nuotare, in un cilindro di cristallo ribollente di acqua verdastra acida che
ripulisca incrostazioni esistenziali e lavi il feto di nuova innocenza sotto formalina.
Piove a goccioloni radi che infittiscono poco a poco.
Il parco si svuota, come un lavandino, dall’unica uscita.
L’elfo scompare magicamente correndo come Olivia di Braccio di Ferro in un viale.
La giacca gialla uovo diviene giallo uovo strapazzato con balzelloni goffi esaltati
169
I Giovedì di Scrittura Fresca
dall’ondeggiare della mangrovia unta e grigia.
La Ida si parcheggia all’entrata di una toilette pubblica, una casetta di nuova
costruzione al limitare del parco, non ancora istoriata di numeri di cellulare, non
ancora fetida di umanità unita dal bisogno.
Scruta i fuggitivi.
E’ braccata da qualche fuggitivo.
Un cotechino ambulante si srotola pigro verso il riparo dell’elfo.
E’ un duello rusticano di sguardi e gesti.
Lei accentua la motilità galvanicamente e mi appare, da lontano, come una rana
inchiodata allo stipite della porta dei cessi pubblici.
Serpeggia la lingua e alterna sguardi richiedenti pietà a occhiate da vendita in saldo.
Il salume tira in dentro la pancia e ghigna disinvolto, rivolto alla pioggia,
massaggiandosi promozionalmente lo scroto a mano piena.
Sensazione d’onnipotenza divina è il padroneggiare uno scenario da un mirino
telescopico di un maneggevole bazooka d’ultima generazione.
Inquadrare rane galvanoputtane sullo stipite di una porta di cesso e punire insaccati
sfrontati che sanno già di rancido.
L’inquadratura è verdignitosa e retinata da coordinate filosofiche.
L’indice preme...
Credo che si possa chiamare pietà.
170
I Giovedì di Scrittura Fresca
I SOGNI SONO DURI A MORIRE
scritto da: Bobboti
Quella mattina mi ero svegliato prima del solito, mancavano quasi tre ore al suono
della sveglia. Rimasi per un po’ sotto le coperte. Fuori era buio, la città ancora
dormiva. Nel totale silenzio, calcolai il ritmo del mio respiro, ascoltai il cuore
nell’orecchio premuto sul cuscino, cercai inutilmente di riprendere sonno. Non potei
ricordare cosa stavo sognando.
Dopo qualche minuto mi alzai e lentamente ciabattai fino alla finestra della cucina.
Fissai lo sguardo oltre la linea dei palazzi di fronte. Non ricordo quanto tempo attesi,
immobile, il sorgere del sole. Ricordo, però, che quella luce non mi piacque. Il cielo
era carico di pioggia e le nuvole correvano basse.
Mi feci la barba, mi vestii in fretta e tornai in cucina, per la colazione. Guardando una
tazzina vuota, ascoltai i sette rintocchi del campanile della chiesa di San Carlo. Solo
allora presi l’ombrello e uscii, per la mia solita passeggiata.
Avevo percorso quasi tutta Via Sironi e mi accingevo a deviare in Via della
Solitudine, in direzione della mia panchina abituale, quando un ticchettio sul selciato
mi fece voltare. Vidi un uomo, piccolo di statura, la faccia pallida, intabarrato sotto
un ridicolo cappotto d’orbace, fuori misura, che lo copriva fino ai piedi. Avanzava
verso di me, accompagnando la sua rapida andatura con un bastone da cieco. Mi si
parò davanti, sbarrandomi il passo. Lo riconobbi. Appena vidi l’orecchio mozzato e
un occhio di vetro sul lato destro del suo viso irregolare, non ebbi alcun dubbio: era
lo stesso uomo che poche ore prima aveva occupato il mio sonno, in quella notte
agitata. Non dissi niente, aspettai che fosse lui a parlare per primo. Mi disse solo
“buongiorno”. Poi mi guardò, con una cattiveria da inquisitore, e con un cenno del
capo mi intimò di seguirlo. Con riluttanza, ma a un tempo arrendevole, come un reo
condotto al patibolo che non può contrastare i suoi aguzzini, gli ubbidii e mi ritrovai a
seguirlo, attraverso le viuzze deserte del centro storico. Camminammo in silenzio, per
dieci minuti. Alcune vecchie donne, ombre nere, affacciate curiose alle finestre, si
segnarono al nostro passaggio. Un gatto saltò fuori da un cassonetto e scappò via
spaventato. Un corvo smise di becchettare una scultura di granito.
Giungemmo davanti al vecchio mulino abbandonato, in Via Deledda, in pratica a
pochi metri di distanza dal punto da cui eravamo partiti. L’uomo, con un’antica e
rugginosa chiave di ferro, aprì il grosso portone. Mi spinse dentro. Nella
semioscurità, salimmo tre rampe di scale, fino ad uno stanzone all’ultimo piano. Il
locale odorava di muffa e merda di piccioni. I muri, scrostati dall’umidità, erano
illuminati da una debole luce che filtrava dal canniccio del soffitto. Al centro
campeggiava un tavolo rettangolare, coperto di polvere e calcinacci, e una sola sedia,
discosta dal lato più corto. Appesa ad una parete, una testa di cinghiale faceva mostra
di sé.
Stranamente, quel luogo, mi sembrò familiare.
171
I Giovedì di Scrittura Fresca
L’uomo poggiò il bastone e mi fece sedere. Poi cominciò a passeggiare, con le mani
dietro la schiena. Dall’esterno arrivava il rumore di una pioggia battente.
- Bene… così ci incontriamo di nuovo! - disse con tono soddisfatto, scandendo le
parole e facendone cadere una, e solo una, dentro ogni passo. Poi si fermò, come se
stesse cercando le intonazioni più giuste.
- Molto bene! - riprese - comincia piovere e noi ci possiamo conoscere meglio. Ma
dovrei dire riconoscere.
Io ti ho osservato, sai. Ti ho guardato mentre dormivi, per molti giorni di seguito. E
sono entrato nelle tue visioni, e ti ho parlato e ti ho ascoltato. Ti ho voluto anche
bene. In fondo volevo capirti, volevo penetrare in quell’uomo che cercava una vita
senza sogni. Avevo riposto in te le mie ultime speranze, mi sembravi la persona
giusta, uno che aveva smesso di crederci. E’ da anni che cerco la morte.
Fece una pausa. Poi riattaccò, mantenendo inalterata la sua camminata alle mie
spalle.
- Non è sempre stato così, naturalmente. Fino a non molto tempo fa ho nutrito la
speranza di molti uomini e donne, le dolci illusioni dei giovani. Ho spinto il
vagheggiamento della fantasia, alimentato rivoluzioni vere o inventate. Ho parlato
d’amore. In quest’isola, mi sono accompagnato anche al senso antico di giustizia e di
riscatto. Ma poi, tutto questo è finito. Pian piano ha preso il sopravvento il nuovo
fascismo, quello che il grande poeta civile aveva profetizzato molti anni prima,
parlando di abiure. Per i bei sogni c’è stato sempre meno spazio. E a un certo punto
ho dovuto contribuire anch’io a quella mostruosità, facendo cose che non avrei mai
immaginato di fare, fra false tolleranze e finte conquiste. Infine ho solo inventato
nuovi telefoni cellulari e programmi televisivi.
Fino a diventare, per sempre, un sogno malato. Per questo ho invocato la fine. Ero
vecchio e stanco. Ma tutti quelli che potevano aiutarmi si sono sempre svegliati un
attimo prima. Hanno ucciso un pezzo di me, ma non mi hanno mai finito. Così come
hai fatto tu, questa notte, quando mi hai solo ferito. Guarda qua.
Aprì il suo cappotto e mi mostrò una grossa chiazza di sangue che macchiava la sua
camicia, all’altezza del ventre. Una gamba era stata sostituita da una protesi di
metallo.
- Io non la conosco - cercai di replicare- non ricordo quasi nulla di quel che succede
nei sogni.
- Stai zitto, stronzo! - urlò, isterico - hai avuto tutto il tempo per parlare. Ora devi
solo ascoltare. Ascoltare, amico mio. Se non l’hai ancora capito sei nella merda fino
al collo.
Si avvicinò, mi venne di fronte e mi puntò un dito in gola. - Ora comando io, qui
siamo fuori dal sogno. Ora devi arrivare fino in fondo.
Tirò fuori da una tasca un grosso coltello a serramanico e lo fece cadere sul tavolo.
Anche se era sporca di sangue, riconobbi la mia “pattadese” dal manico d’osso,
172
I Giovedì di Scrittura Fresca
l’avrei distinta fra mille.
- A te - mi disse. - Devi colpirmi con forza e quante più volte potrai. Ci sono parti di
me che sono dure a morire, perciò non fermarti alle prime stoccate. Io non opporrò
troppa resistenza.
Il suo respirò aveva cominciato a farsi affannoso e un filo di bava gli colava dalla
bocca. Provai un lieve tremore. Determinato, gli risposi che aveva sbagliato persona,
che non sarei stato capace di fare male a una mosca, che la vista del sangue mi faceva
svenire. Mi alzai, gli voltai le spalle e cercai di guadagnare l’uscita. Fu a quel punto
che sentii il suo bastone abbattersi con violenza sulla mia testa. Istintivamente mi
voltai e lo colpii con un pugno che lo fece rotolare per terra. Subito si rialzò e
afferrando il coltello mi si lanciò contro. Riuscii a scansare il suo attacco. Un senso di
vertigine, un misto di panico e istinto di sopravvivenza, si impadronì allora di me. Mi
scagliai su di lui, con tutta la furia che avevo in corpo. Lo disarmai e con precisione
affondai la lama del coltello dentro il suo cuore. L’uomo rideva. Rideva e mi incitava
- ancora, ancora - gridava, facendo crescere un odio smisurato che non riuscii più a
controllare. Colpii di nuovo, ripetutamente, alla cieca. Vidi le sue budella fra le mie
mani. Vidi pezzi di carne che si staccavano dalla sua faccia. Vidi la sua gamba di
ferro rotolare sul pavimento, le sue dita mozzate in un angolo della stanza.
Ma finché la risata mostruosa non si fermò, continuai a infierire su quel tronco
straziato, fino a staccarne la testa.
Quando mi fermai, la stanza era un lago di sangue. Si sentiva solo il rumore della
pioggia. Un rivolo d’acqua scendeva incessante dal tetto.
Rimasi fermo, per qualche minuto, con le lacrime agli occhi. Poi scesi lentamente le
scale e tornai in strada. Non incontrai nessuno, la città sembrava ancora irreale.
Arrivai a casa. Sfinito mi abbandonai sul divano e mi addormentai. Poco dopo aprii
gli occhi. Sul ripiano del caminetto, una testa di cinghiale, appoggiata vicino al libro
che avevo finito di leggere il giorno prima, mi guardava dagli occhi di vetro.
Quella testa è ancora lì, da quel giorno. Da quella mattina in cui è cominciata la mia
vita senza sonno. Senza sogni.
173
I Giovedì di Scrittura Fresca
UN VUOTO?
scritto da: Punto Mosso
Cerchiamo il lato grande della seta, no, non questo, aspetta, una vibrazione, può
essere il tetto che si muove?
Dai lacci si direbbe che il gatto tornerà ad uccidere, lascia sempre i lacci questa pietra
cattiva.
Lasciamolo per ora, proveremo più tardi.
Di questo mio occhio centrale non riesco a mettere a fuoco l'immagine, non riesco a
leggere con la sola mano destra, se solo potessi allungarla come fanno tutti.
Lo sforzo puro per leggere la carta, nulla mi dà, interpreto, per non essere colto in
fallo, la gente vuole sapere, chiedono altri stessi fogli di essere impilati.
G. mi senti? Lo so che mi senti, ti devo dire ancora tante cose, ti debbo chiedere
molte verità
Un prato, ma l'erba non c'è, dicono che sia normale in questo momento, perché i
supermercati non passano più. È triste, ma si può vedere che va tutto a occidente
anche se lo volessi, potrei volare ma servirebbe un pallone da ping pong.
Troverò mai in tempo utile il grasso per andare a comperare? Non danno nulla se
prima non ti procuri di che ridere.
Come volete, faremo in modo che sia il più breve possibile, state tranquilli, c'è la
certezza che non proverà dolore.
E la donna che mi passeggia davanti, mi guarda, e mi chiede come stanno tutte le mie
gambe, le mie enormi gambe, le prime cento sono riuscito a contarle, ma senza dare
loro molta attenzione. Rispondo che stanno tutte bene, come si risponde sempre in
questi casi, pensando che un giorno mi prenderò più cura di queste scatole.
Cosa che non faccio spesso, prendi ora, per esempio, sono in cima a una piattaforma
di un edificio e c'è un vento così forte da far oscillare la struttura, mi tengo con le
mani abbracciando tutto il tetto, ma il vento è forte, e se mi lasciassi andare? Cadere,
volare? Non è difficile, a volte è solo il respiro che dà problemi.
Riesco a entrare a forza nella porta che conduce alle scale e incontro altra gente che
scende, qualcuno mi prende l'anima e mi trascina per le scale, vedo che ancora si
scende fino al mare, e lì ci si siede intorno, vedo solo chi è ai miei lati, persone dal
viso scomparso ricordi lontani, lontani che mi ride il cuore, per l'improbabilità.
Era un caro amico, ma il suo stare causava tristezza peggio di una morte, un non
rispondere freddo a cui nessuno poteva dare più il cuore.
174
I Giovedì di Scrittura Fresca
TANTO...
scritto da: Brenno
Accadde mentre la picchiava, come tutte le sere.
L’uomo si fermò col braccio alzato ed emise un grido strozzato, crollando al suolo.
La donna smise di piangere sentendo il rumore cupo alle sue spalle, e si girò,
incredula.
Il marito, che di nome faceva Giacinto, camionista, giaceva a bocca aperta,
incosciente.
Lei, che di nome, invece, faceva Caterina, non poteva crederci.
Provò a smuovere piano l’uomo, senza costrutto. Avvicinò la testa al petto villoso per
sentire se il cuore batteva ancora. Rumore flebile di tamburo.
Magari la sbronza gli era arrivata alla testa tutta in un momento e si era
addormentato. Era successo altre volte. Molte.
Ma vedendo che non si muoveva un muscolo, Caterina capì che il marito non
respirava più. Era morto. Anche se non veramente, perché gli batteva il cuore, ancora,
perciò.
Si alzò a fatica, con tutti gli arti doloranti, per chiamare il 118.
- Pronto?- disse - senta, mio marito si è sentito male. Il cuore gli batte ma non
respira...- Corriamo subito! Dove abitate?- via dei Glicini, 18. Quarto piano.- Bene. Signora, lei cerchi di rianimarlo. Gli faccia la respirazione bocca a bocca- Va bene- disse, sempre senza battere ciglio, e riattaccò.
L’uomo giaceva ancora a terra, nella stessa posizione in cui l’aveva lasciato. Niente,
era proprio morto. Ma non del tutto.
Si accucciò vicino al corpo del marito, provando a soffiargli in bocca, come aveva
visto fare in televisione. Però non sembrava servisse a molto. E poi dopo pochi
secondi quelli in televisione si riprendevano. Oppure no, e allora voleva dire che
erano proprio morti.
Caterina si alzò, dubbiosa se aprire la porta o meno. Stava ancora in piedi
nell’ingresso quando sentì le sirene. Aprì la porta e si sedette, aspettando il 118.
Ma prima, guardandosi attorno come per paura che qualcuno la vedesse, si avvicinò
ancora al corpo inanimato del marito e lo prese a calci. Due, tre calci, non di più. Dati
piano, senza convinzione. “Tanto...”, pensò. Poi arrivarono con la barella.
Michele faceva l’infermiere.
Un lavoro del cazzo, sempre tra due ali di pazienti sporchi, maleodoranti e
lamentevoli. Un rosario continuo di lamenti.
Michele faceva anche il turno di notte, e straordinari, per pagarsi gli studi di
Medicina. Per quanto, si domandava spesso, che ci faceva lui a Medicina non lo
sapeva. Ma a volte pensava che avrebbe preso una specializzazione in Odontoiatria.
175
I Giovedì di Scrittura Fresca
Pochi pazienti, due cariette qui, un apparecchietto là. Al limite una gengiva da aprire.
Al limite.
Comodo, pulito, remunerativo.
Nel frattempo ospedale.
Quando li vide entrare non ci fece quasi caso, Michele. Ne vedeva tanti di cadaveri
viventi, ogni giorno. Ictus, infarto, qualche altro accidente del genere.
Gli fecero sistemare il paziente, un tizio grasso e peloso, nell’unico letto ancora
libero. Che culo.
- Posso fare qualcosa, signora?Domanda di rito. Il tizio intanto respirava col tubo. Coma, probabilmente.
- Tanto...- gli rispose la donna, senza nemmeno guardarlo, scrollando un po’ le spalle.
- Vabbè - Michele colse l’occasione per cavarsi di lì. Sigarettina in guardiola.
Un’occhiata al culo non indifferente di Monica, un tipa nuova, che si diceva fosse lì
perché amante di non si sapeva quale primario, o del Dirigente, addirittura. Le
versioni erano contrastanti.
A Michele non interessava. Chiunque fosse era un uomo fortunato, pensava
assecondando l’ondeggiamento dei fianchi mal riposti nel camice bianco. Proprio
fortunato.
Caterina, una volta, era quasi bella. Cioè, non proprio una da far girare la testa per
strada, però più che rispettabile. Giacinto, allora, era magro. E non beveva.
E faceva un gran sesso, a dire il vero.
Guidava l’autobus. Cioè, faceva l’autista per il Consorzio cittadino dei trasporti
pubblici, o qualcosa del genere. Non si stava poi male. In fondo a due giovani non
serve troppo.
Poi erano cominciati i casini.
Prima avevano scoperto che Caterina era sterile. Una roba comune. Comunque non
potevano avere figli, e tanto basta. Meglio così, in fondo. Chissà come avrebbero
retto economicamente l’arrivo di un pupo.
Poi il lavoro. Sull’onda della recessione, dei grandi tagli al bilancio per entrare o
restare in Europa, Caterina non ricordava bene, il Consorzio del marito era passato in
mani private, che lo avevano pelato per bene e, come si dice, ripulito dei rami secchi.
Oddio, non è che Giacinto fosse poi tanto secco. Novanta chili, pesava, per un metro
e settanta scarso. Quindi. Ma tant’è.
Insomma, era finito a trovarsi un lavoro come camionista. Un lavoro pesante, di
sicuro.
A volte stava giorni e giorni fuori. Ma non era un problema troppo grave.
Anche perché col passare degli anni Giacinto aveva cominciato a bere. Qualcuno
avrebbe detto la depressione. E ad andare a puttane, di questo era sicura, perché una
volta gli aveva trovato dei preservativi nella tasca del giubbotto. E loro preservativi
non ne avevano mai usati, visto che comunque figli...
Alla fine tornava a casa sempre più stravolto, quasi sempre sbronzo e la picchiava. La
prima volta non ci era preparata e la cosa fu davvero brutta. Poi ci si era quasi
abituata. Tanto...
176
I Giovedì di Scrittura Fresca
E poi lui dopo un po’ si stancava. Non aveva più il fiato di una volta.
Michele aveva una strana idea della vita, che però non diceva a nessuno.
E un trattato di anatomia a fare polvere sul tavolo della guardiola.
Qualche sogno, anche, nella stessa polvere.
Michele non guardava mai le cose due volte. Insomma, almeno niente che non fosse
il culo di Monica o simili.
Non gli piaceva domandarsi troppi perché, non credeva nell’esistenza di un qualcosa
di altro dalla sua vita e dal possibile. Non aspettava in una città di specchi. E non
sopportava gli autori sudamericani. Specialmente Isabel Allende.
Ogni tanto restava qualche minuto, durante il turno di notte, appoggiato allo stipite
dei Vegetali, i senza-ritorno, come quel signore grasso. Vista la cartella:
encefalogramma piatto. Quella signora, intanto, la moglie tipo, stava lì da due
giorni...
Comunque gli piaceva stare un po’ a lì a riflettere. In qualche modo lo faceva sentire
più vivo, vederli ansimare nei polmoni d’acciaio o attaccati ad altri mille macchinari.
Vite di convenienza, vivi per dovere.
Come quando muore il geranio e ficchi una stecchetta nel vaso per tenerlo diritto, e
convincere convincerti che sia ancora vivo.
Ma è morto. E la colpa è tua, che non gli hai dato un goccio d’acqua.
Perché era morto quel signore grasso?
Era colpa della moglie, che non lo faceva vivere? Del lavoro troppo duro? Di figli
ingrati, debiti? Colpa della vita, che è così e non altrimenti, anche se potrebbe. Forse.
Michele si trascinò per l’ennesima volta negli ultimi tre giorni dalla signora. Quella si
alzava solo per pisciare e bere un goccio d’acqua dal rubinetto del bagno.
Ma non parlava, non faceva niente.
Sembrava più lei, quella in coma, che il marito.
- Veramente, signora, posso fare qualcosa?La signora lo guardò negli occhi, senza battere ciglio.
Caterina non si domandava perché era successo e come avrebbe fatto adesso senza il
marito, con la casa e tutto. Non si domandava, perché avrebbe dovuto rispondere.
Veramente Caterina non pensava a niente. Tanto...
Tanto le sembrava così strano, tutto. A quale cadavere stava facendo l’ennesima
veglia? Non se lo ricordava nemmeno più, a volte, e confondeva il funerale del padre
con l’agonia dello zio con la malattia della cugina.
Confondeva il dolore come si confondono i colori al buio dei mattini senza
riscaldamento, come affacciarsi alla finestra e sentire solo puzza di fritto e vite
sporche, fingendo siano mare.
Caterina si sentì stanca, a un tratto.
Non capiva più cosa stesse accadendo. Qualcosa le diceva che non c’era pietà nella
sua veglia. L’aveva detto il dottore che casi come quello non c’erano speranze, per
cui si mettesse l’anima in pace.
Anima in pace.
177
I Giovedì di Scrittura Fresca
Caterina che una pace la sentiva, ma era come mettere il muto al televisore. Parole e
immagini cariche di rumori, esplosive. Ma senza didascalie.
Poi quel ragazzo venne ancora una volta a chiederle se voleva qualcosa.
Caterina lo guardò negli occhi, senza battere ciglio.
Insomma, stavano lì da due minuti a guardarsi, in questo modo un po’ solenne e
insieme ridicolo.
Poi a Michele sembrò di capire.
Caterina lo guardò armeggiare. Lo lasciò fare. Tanto... pensò.
Una tacchetta in meno da segnare sulla canna di una sciocca misericordia. Un vivo in
meno da piangere. Quell’uomo, rifletté Michele, occupava uno spazio fisico e
mentale che non gli competeva più.
Era un moroso.
Come tutti gli altri attorno, nel reparto e forse anche oltre. Sui marciapiedi, nei bar,
nelle discariche brulicanti, nei caseggiati, sui moli. Come tutti quelli cui mancava il
respiro. Come tutti quelli che tirano per senso del dovere, e volte nemmeno per
quello.
Devo fare due passi, si disse.
Si accese una sigaretta, mentre staccava il respiratore.
Tanto... pensò.
178
I Giovedì di Scrittura Fresca
A COSA SERVE IL SILENZIO?
scritto da: Ettore Bilbo
Chiacchieravo con Ada mentre preparavo la moka per il caffè. Adoravo quelle
routine fatte di gesti semplici, e non mancavo di sottolinearle ulteriormente con la
nenia delle parole, tante, inconsapevoli e spumose. Era difficile trovare chi mi stesse
dietro quando partivo nei miei sproloqui ipnotici. Succedeva mentre lavavo qualche
mutandina nel lavabo, mentre preparavo una torta, mentre riordinavo gli appunti del
lavoro. Ogni buona occasione di battezzare delle nuove abitudini attraverso queste
mie chiacchierate cicloniche era ben accetta. Mi mettevano di buon umore.
Ada era tra le mie partner migliori. Amica da sempre, mi metteva a parte d’ogni
segreto. La sua dote migliore era l’ammiccamento; come sapeva renderti complice lei
nessun’altra.
Con la sua compagnia il discorso procedeva filato, si dipanava come un gomitolo di
lana che, se da un lato si rimpiccioliva sempre più, dall’altro andava trasformandosi
in un bel maglioncino od una sciarpa calda. Riusciva a rendere utili perfino le
chiacchiere. Svolgeva un po’ il ruolo del timoniere insomma, ed era brava in questo.
Le bastavano due o tre parole giuste, quelle che poi t’accorgi quanto fossero state ben
mirate; poi ammiccava come sapeva lei ed il gioco era fatto: io mettevo la quarta e
partivo verso i lidi inesplorati della retorica e della dialettica.
Per una donna immagino che poter chiacchierare così liberamente sia un po’ come
per mio marito il potersi bere una birra con gli amici. Poter agguantare la vita e dirgli
resta ferma un po’ che voglio gustarti un attimo, non correre sempre.
Poi, a volte, inciampavo in un dubbio o semplicemente dovevo riprendere fiato ed
allora c’era Ada che mi veniva incontro con un'altra delle sue frecce, sempre pronta a
colpire nel bersaglio.
“Ti ricordi mio nonno?” mi domandò.
“Certo!” dissi a gran voce, cercando di riempire i toni di colore, perché il nonno di
Ada valeva ben la pena di sprecare la tavolozza intera.
“Già”, mi fermò subito lei in maniera inconsueta, si vedeva che aveva qualcosa in più
da dire. Infatti riprese subito: “Quando ero piccola, una volta, mi disse una cosa
davvero strana, sai quelle frasi enigmatiche che sanno di saggezza ma che non ne sei
sicura”; in televisione, che come sempre era accesa, ma senza volume, passavano le
immagini tristi di un caso che teneva in sospeso l’America. Ada parlava guardando in
quella direzione, pensosa, accavallando gli uni sugli altri lo sguardo fisso, le parole, e
i pensieri. “Mi disse che lui la morte aveva creduto parecchie volte d’averla capita,
quando era stato in guerra, quando aveva avuto l’incidente, quando era morta la
nonna, insomma, un sacco di occasioni, che di occasioni ne aveva avuto per far
quattro chiacchiere con la bastarda. Però, però poi mi disse che in realtà non aveva
capito un fico secco. Che la morte l’aveva capita solo quando era morto. Ma tu non
sei mica morto gli avevo risposto. Immagina c’ero rimasta così, pensavo che si stesse
179
I Giovedì di Scrittura Fresca
rincitrullendo. Lo so bambina che non son morto, m’ha risposto, è questo il punto.
Poi sorrise il vecchio. Sorrise”.
In tv si vedevano le immagini del detersivo che più bianco non si può.
“C’ha lasciati un mese dopo il vecchio, sempre con quel sorriso che la mamma dice
s’è stampato sulla mia faccia. Sembrava che lo sapesse che l’ora era arrivata. Magari
dopo tante occasioni per parlare con la morte s’era deciso a farsi rispondere. Il tempo
delle chiacchiere era finito per lui, che poi, se le parole bastassero sempre a che
servirebbe il silenzio?”.
Smise di parlare, io guardavo Ada e lei guardava me, poi sfoderò l’arma segreta e mi
rese complice della sua frase saggia.
Anche io stetti zitta. Mi sembrava di avere tante cose da dire, un milione, di dover
continuare a godere di tutta quella vita che erano le mie chiacchiere, gustarle con
Ada, perché di parole ce ne erano un sacco. Ma per un po’ rimasi in silenzio, non ne
ero sicura ma in qualche modo era la cosa giusta. Vedendomi riflessa in un angolino
dello specchio del salotto ebbi la fugace impressione che per un attimo, quel sorriso
ammiccante di Ada, fosse migrato anche sul mio volto.
180
I Giovedì di Scrittura Fresca
VITA
scritto da: Dolphy
Legati a quel filo sottile
chiamata vita
aspettiamo
E' solo un attimo
il distacco annunciato
DI RUGHE
scritto da: -VaanQuasi a tentare
il motivo del freddo
o il suono di un gesto
dagli occhi umidi. nel dolore
riposto, perché oggi così
trattengo il respiro
che la sotterranea sua sofferenza
mi precipita un urlo.
come fosse già scritto
di nuove abitudini che non la spaventano
oramai immune
a quella stretta che dice basta.
mi darei di ghiaccio, cruda eutanasia
se potessi riscattare
a mia madre la sua più viva parola
di rughe.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
MARE DENTRO
scritto da: Massimo Botturi
Giocato, e vinto
da un vino a tarda notte
pigolo appena
questa mattina lavata sopra i tetti
Quello che vedo
s’è fatto largo in un altro me, sparito
o sparpagliato sui rami ricamati
da tenui fiori
che spaccano la vista
e intonano nel petto, le furibonde corse delle api
i cigolii degli arcolai dei ragni
che chiazzano i soffitti
come gli araldi che portano messaggi
i banditori che primavera annunciano
Lascio ti arrivi la poesia migliore
che mette i bimbi, a mazzi
per le città arancioni
che scorcia le vesti antiche
ed imbelletta i balconi di gerani
lascio fuggire, intera
la mia canzone privata degli allori
per le finestre
da dove spose s’impegnano ai mariti
dove si lavano i lampadari a goccia
ed i tappeti s’orientano, felici
Ho un oratorio,
in questa pancia di piume
e di coriandoli
come il solletico dei frizzi in gioventù
perché continua, il mare
il suo venirmi dentro
come una rondine
decisa,
al porticato
182
I Giovedì di Scrittura Fresca
I DUBBI DI MINOSSE
scritto da: Pasquino
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Inferno –Canto V°
Perplesso Minosse arrotolò la coda come una poltrona ci si sbracò e rosicchiandosi un
artiglio cominciò a pensare.
Quest’Inferno è vecchio e angusto. I gironi sono diventati pochi e c’è bisogno di
nuovi contrappassi.
I peccatori moderni ormai ci stanno stretti nei sette peccati capitali, ne hanno
inventati di nuovi e così, tante anime non so proprio dove sbatterle, mi manca il posto
e la pena!
E poi ci sono uomini che sono una multinazionale del peccato. Ne fanno tali e tanti,
verticali, orizzontali e trasversali che è praticamente impossibile stabilire una
graduatoria di gravità.
Devo andare giù alla Giudecca a parlarne con Lucifero.
(Meglio che mi metto un pellicciotto che laggiù fa un diavolo di freddo!!)
- Ciao Lucy, scusa se ti disturbo mentre mangi, ma ho un problemino grave che solo
tu che sei il capo puoi risolvere
Dopo aver ascoltato le lagnanze di Minosse, Lucifero sputò un pezzo di Giuda dalla
bocca nera, fece un rutto cavernoso e latrò:
- A Minò, nun te se regge più! Stai sempre a rompe li cojoni e mò te metti puro a fà
er sindacalista! Si nun te sta bene er posto de lavoro, smamma! E poi lo sai che co’
ste cose moderne nun ce capisco n’ cazzo. Ma famme capì mejo, famme qualche
esempio
- E’ sempre un piacere goder delle tue licenze linguistiche…del resto, cosa si può
pretendere in questo postaccio? Ma bando alle ciance…un esempio? Allora, tra poco
arriverà qui un certo Silvio Berlusconi. Se tu ti prendessi la briga di leggere almeno la
rassegna stampa che ti mando tutte le mattine, ti renderesti conto dell’inadeguatezza
dei nostri mezzi nel dover punire tanta pervicace scelleratezza
- Ah, ma chi è, quer botolo spocchioso che s’è tutto rifatto peggio de na’ mignotta?
- Lui in corpo e anima
- A Minò, dà retta ammè, co’ quello abbasteno li vecchi metodi: o’ ficcamo drento a
na’ gogna, tutto ignudo e o’ famo annà su e giù pe’ tutti li gironi a pecorina, co’
Barbariccia che o’ spettina ogni dù minuti e lo pija a nerbate sur culo quanno che se
ferma. E deve da sorride, sempre.
183
I Giovedì di Scrittura Fresca
- Diavolaccio d’un Lucy, sei veramente un grande! Una rozzezza illuminata la tua!
- C’è artro?
- Non ti preoccupare. Ho capito il sistema. Con un po’ di fantasia li sistemerò tutti.
Grazie comunque grande Lucifero.
- De gnente!
Gli rispose l’Angelo del male mentre “avea del cul fatto trombetta”.
Tornato nella sua guardiola, Minosse prese carta e penna e cominciò ad appuntare.
PROSSIMI ARRIVI
BRUNO VESPA
Castigo
Condannato per l’eternità, a mani giunte ed espressione di compenetrato dolore, a
leccare il culo a tutti i dannati presenti in Inferno
SORELLE LECCISO E ALBANO
Castigo
Condannate ad imparare a memoria tutta la Divina Commedia e a ripeterla in eterno
mentre Albano gliela canta nelle orecchie a squarciagola
MAURIZIO COSTANZO E IL TRAVESTITO MARIA DE FILIPPI
Castigo
Fornirli di coscienza e farli macerare per l’eternità nella perfetta consapevolezza di
quello che sono stati e di quello che hanno fatto
GEORGE W. BUSH
Castigo
In una capanna, sotto i bombardamenti, sodomizzato in perpetuo da Bin Laden e
costretto ad assistere allo spogliarello di Condoleeza Rice
ACHILLE BONITO OLIVA (Mens vana in corpore nano)
Solo per aver scritto: "la scrittura è spostamento del logos a luogo intransitivo, a
prospettiva di piacere, ad affondamento nella profondità, nella prospettiva appunto,
non è possibile ritorno ma solo l'eterna smagliatura, quella emarginata e non abilitata
all'uso della storia che pratica le improvvise curvature del disorientamento, la
tensione sistematica ed obbligatoria del nomadismo"
Castigo
Con martello e scalpello dovrà incidere su tutte le rocce dell’Inferno la frase “IO
SONO SCEMO” Il castigo si rinnova con cadenza biennale
184
I Giovedì di Scrittura Fresca
VITTORIO SGARBI
Castigo
(Questo lo metto direttamente vicino al deretano di Lucifero onde possa usare le di
lui flautolenze come phon per pettinarsi)
E Minosse andò avanti per un pezzo a prendere appunti, poi, soddisfatto, chiamò il
diavolo di servizio e si fece portare un hamburger di tarantola formaggio e nutella e
una bottiglia di Rocchetta din-din (puliti dentro, belli fuori).
- E adesso al lavoro! - Tuonò satollo.
Con un unghione premette il pulsante che alzava la barra all’entrata e con un ghigno
luciferino (?) abbaiò:
- Avanti il Primo!
185
I Giovedì di Scrittura Fresca
BIVIO UMILTÀ
scritto da: Simonetta Ferrante
Si chiama così un incrocio che devia da una superstrada e sale per una stradina
asfaltata coi ciuffi d'erba e un contorno di casette nuove piene di fiori, si sale e
silenzioso appare un edificio circondato da alberi. Cammino, sono appena scesa da un
autobus di linea di quelli blu coi sedili alti e il motore gracchiante. Lascio la città le
mie certezze alle spalle, levo l'ancora e mi dirigo nel nulla.
Nei corridoi puliti i miei passi gravi si fanno più veloci, accompagnano le speranze di
guardarla ancora guardarmi. La visita fatta degli stessi gesti , gli infermieri le solite
domande, una parte di me sta ad ascoltare aggrappata a un fede di illusioni. Tutto è
grave e senza senso.
Devo scendere al bar al piano inferiore, parlo di astrologia col barista, vorrebbe un
oroscopo tutto suo per scrutare nella sua vita. Penso alla futilità di quelle chiacchiere.
Sorrido, triste mangio un panino fatto lì per lì e sento la freschezza nella bocca, fuori
c'è il sole e tutto splende inutilmente per me. Risalgo in ascensore e mi affaccio alla
finestra in fondo al corridoio, a parte qualche rondine solitaria, un vento
insignificante, un aria che non circola quasi in attesa, un gatto che si nasconde, la
natura esprime una timidezza diventata il ritratto di un luogo in cui il silenzio è già
una premonizione di perdita,
ormai alle porte. Mi ritiro seccamente, in quella natura brulla c'è l'unica verità, tutto
mi riporta a quel pensiero. Mi accomiato da lei con la finta aria efficiente e leggera di
chi promette che tornerà presto. Esco, mentre scendo nel viale alberato un cane
randagio mi viene incontro quasi come se mi "riconoscesse", mi segue dopo le mie
carezze, e qualche parola:- ma chi sei tu? - Creatura dolce dagli occhi imperterriti che
giochi e mi vuoi... mi si accolla ai calcagni e io cammino, verso la superstrada, tutto è
ancora senza senso; lui dietro non si stacca, a un certo punto devo attraversare c'è un
ponte di cemento allora cerco di seminarlo lui guaisce, corre disperato avanti e
indietro, ci ripenso lo rintraccio mi segue ancora fino alla fermata, non ho più riserve
per soffrire anche per lui...
Dopo un attesa che si fa sempre più lunga ecco arriva il pullman salgo in fretta e lui
resta lì escluso, a terra. Al guidatore che mi guarda interrogativo dico: "non è
mio..."Il pullman sgomma, romba e riparte dal Bivio Umiltà.
Siamo in tre ad attendere a quel bivio delle risposte. Sospesi appesi fra la vita e la
morte.
Lei nel suo letto ad annegare inesorabile sola le piaghe della sua malattia, anche le
pillole giacciono sul tavolo, nessuno gliele porterà, non ne ha più bisogno, e il cane in
cerca di uscire ad ogni costo dalla condizione di abbandono, e me, in questo
registrare impotente emozioni assurde. In questo siamo uguali mi dico. Nel pensare di
tentare "una mossa" che possa vincere quella condizione di pre-morte che sembra una
lunga ombra venuta a spegnerci. Ci dibattiamo uniti da un comune senso di assurda
speranza.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
C'è un antica leggenda che narra di un uomo che appesa una camicia ad asciugare al
sole la sua ombra era diventata una nuvola ed era salita nel cielo.
Fissare l'attenzione su quelle ombre è per me come avvicinarmi a quella "zona"
oscura, doppia, della morte, nello stesso tempo l'attenzione si posa con umiltà
attraverso il dolore e si spinge verso "zone " di luce dove è possibile inventare
proiezioni, concatenazioni, cellule graffiti che nel movimento formano all'interno del
pensiero e anche fuori quella nuvola che sale su...
187
I Giovedì di Scrittura Fresca
DOLCEMIELE LA MORTE SULLE LABBRA
scritto da: Idea Vagante
(Dolcemiele la morte sulle labbra
ultimo bacio
o ambrosia pura a nettare stanchezze
di tenebre smunte.
Appuntamento scritto sull’agenda
quel suono a martello).
Si chiudono stanchi gli occhi
ammalati di tramonti di fuoco
odorosi di glicini
(raspi di ricordi,
scarabei di cristallo e d’onice
a pioggia tra le ciglia).
La notte presto calerà
a ritagliare arcate cieche,
linee oblunghe a sforbiciare orizzonti
e triangoli e prismi
in deserti sabbiosi a figurare
cattedrali
(Pulsa l’affanno
nelle pupille del gatto
in fondo al vicolo).
Il pulviscolo affocato di non più stelle
immobile s'instatua a raggelare l’aria
e le ore impigrite dall’afa
trasudano impercettibili sulla pelle
(calde gocce da parole che piangono di festa
e scavano rughe sui tuoi passi)
mentre ronzio è il tempo che rimane
a concertare gli ultimi giri delle lancette
sul quadrante.
188
I Giovedì di Scrittura Fresca
EUTANASIANDI
scritto da: Sally
Non poteva immaginare l’inferno in cui si era volontariamente cacciata. Certo che
non poteva prevederlo, sembrava tutto così perfetto.
L’appartamento era una bella mansarda con ingresso indipendente in un villino in
mezzo ai boschi, a pochi chilometri da Roma. Esattamente quello che sognava.
Un ampio salone con angolo cottura, il camino, le travi di legno sul soffitto ed il
pavimento in cotto; poi due camere da letto e due bagni. Un sogno, insomma.
Considerando anche il costo dell’affitto che trovava decisamente alla sua portata.
Il giardino era molto grande e tenuto benissimo ed il bosco lo circondava con un
abbraccio benevolo.
I proprietari della casa vivevano al piano di sotto e questo l’aveva un attimo frenata,
ma le erano sembrate persone gradevoli e discrete. Insomma non ci aveva pensato
due volte firmando il contratto.
Marina siede davanti al camino spento, i suoi pensieri corrono agli ultimi tre mesi
della sua vita, al baratro in cui sta sprofondando inesorabilmente.
Persone gradevoli e discrete, sorride con amarezza mentre sorseggia una grappa.
Era cominciato praticamente subito, neanche il tempo di svuotare il primo scatolone
che la processione aveva avuto inizio. La signora Concetta si era precipitata da lei
con un pezzo di crostata ed un sorrisone grosso grosso, gli occhi intanto a scrutare
ogni angolo di casa. Dopo poco un nuovo bussare, questa volta il signor Gino a dire
che per qualunque lavoretto lui sarebbe stato ben felice ad aiutarla, gli occhi intanto a
scrutare ogni angolo del suo corpo.
Di nuovo sola era riuscita anche a sorridere di quella sfrontata curiosità in fondo
innocua.
Che di innocuo c’era ben poco però ebbe modo di accorgersene con il passare dei
giorni. La presenza continua e per niente discreta dei due padroni di casa l’aveva
avvolta come una vischiosa ragnatela lasciandola senza vie d’uscita.
Battute per niente velate sulle sue abitudini erano all’ordine del giorno. La signora
Concetta le rimproverava il passeggiare continuo in casa, il suo modo di cucinare, il
trillo del telefono che l’infastidiva, la luce accesa in casa fino a tardi. Battute che, con
l’andare del tempo, si erano fatte sempre più astiose ed aspre.
Ma era il signor Gino a preoccupare maggiormente Marina; la sua presenza silenziosa
e costante; i suoi occhi invadenti che sentiva incollati al suo corpo.
Quella sera poi si era raggiunto l’inverosimile: pensava di uscire un poco per distrarsi
da quell’atmosfera opprimente ed aveva trovato il cancello chiuso con un nuovo
lucchetto. Il signor Gino si era materializzato all’improvviso da dietro un cespuglio,
un ghigno negli occhi.
“Abbiamo pensato sia troppo pericoloso uscire di notte per una ragazza, così il
189
I Giovedì di Scrittura Fresca
cancello resterà chiuso”.
A nulla erano valse le sue proteste, e sì che si era arrabbiata sul serio minacciando
anche di avvertire la polizia e di denunciarli per sequestro di persona.
Tutta la sua rabbia era semplicemente rimbalzata sull’ottusità del signor Gino
lasciandolo del tutto indifferente. Solo quel sorrisetto becero sul viso e gli occhi che
non smettevano di spogliarla.
Si era spaventata ed era rientrata in casa mettendo il paletto.
Sorseggia la grappa Marina e pensa. Un disegno preciso comincia a prendere forma
nella sua mente e lei comincia a seguirne i contorni con un’eccitazione via via
crescente. È l’unica via di uscita si ripete convinta mentre un sorriso le fa brillare gli
occhi.
Si guarda intorno, sa perfettamente che dovrà dire addio a tutte le sue cose, ma il
gioco vale la candela. Di questo è sicura.
Finisce la grappa e si alza. Si avvicina alla cucina e gira tutte le manopole. Il sibilo
del gas l’accompagna mentre con calma si aggira per casa. Raccoglie pochissime
cose in una borsa, si versa ancora un poco di grappa e aspetta.
Quando inizia a sentire i movimenti farsi più ovattati dal gas che sta saturando
l’ambiente si alza decisa.
Si avvicina alla porta e manomette il campanello. Adesso deve essere veloce.
Accende lo stereo alzando il volume al massimo, esce silenziosamente da casa
chiudendo la porta e corre a nascondersi dietro una macchia di cespugli nell’angolo
più lontano del giardino. Sa che è questione di minuti.
La porta di casa dei due bastardi si apre, li vede uscire.
I Muse riempiono l’aria.
Salgono la scala esterna.
Questione di attimi pensa, mentre stringe i pugni.
Attimi.
Un braccio che si alza verso il campanello.
Risucchio.
Fiammata.
Boato.
Libertà è un cancello divelto, ride tra sé imboccando la strada nel bosco.
190
I Giovedì di Scrittura Fresca
BRAVA SARA
scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo
Ogni sera, prima di addormentarsi, Sara teneva stretta a sé la sua bambolabambina
che la guardava con occhi sterili di luce.
Aspettava che la cantilena della sua ninnananna si confinasse tra le pareti basse della
soffitta oscura, dove il castigo prendeva forma dalle ombre più strane.
La bambina indossava un vestito di pizzo macchiato dai livori degli adulti e aveva
battezzata la sua bambola con il suo stesso nome, e lei era la mamma.
Aveva fatto la cattiva pure oggi, Sara, e in soffitta ci andava ormai da sola.
La madre, giù in cucina, affogava le inquietudini e i suoi fallimenti in una bottiglia di
alcool.
Sara incominciò a spogliare la sua bambola rimproverandola di essere muta, voleva
sentire il suono rauco del dolore, spezzandole un braccio. Ma la bambola restava
ostinatamente con la stessa espressione e allora Sara provò a sculacciarla fino a farsi
male le mani, ma sulla bambola nessun livore.
Improvvisamente, Sara pensò alla madre.
Si ricordò come anche lei aveva picchiato la sua bambola. Ma quella bambola aveva
pianto.
Perché la sua continuava invece a guardarla con quella stupida espressione negli
occhi ?
Occhi. Gli occhi.
Spinse con un dito in dentro gli occhi della bambola, che ora senza occhi pareva
cambiare espressione.
Senza espressione e senza occhi la bambola era più bella, le sembrava.
Intanto, dalla cucina la madre salì barcollando su per le scale.
Aprì la porta della soffitta e vide cosa aveva fatto la figlia alla sua bambola.
Le disse: “Brava Sara”.
191
I Giovedì di Scrittura Fresca
LA GENERAZIONE DI THANATOS
scritto da: Maiko
Di bella morte
in controverso ostello
coi fianchi rovesciati
in balze e raso
Di rosa rossa segregata
nell'ostentata bianca sottanina
lo sguardo perso indietro
appena prima di una chioma in seta
Inferta nell'amore la ferita
rapita alla bellezza
l'ansa di un respiro
in mutuata mia caverna
Fatua allo stupore
dell'attimo frugato
dal ladro di delizia
mutato in assassino
Da bella morte consegnata
all'umido del vino
versato in una notte
nel foro buio dello spioncino
dove intravedo il letto
Dove intravedo il tavolo ed il lume
ma la ragione perdo se pretendo
di trattenere il fremito donato
in nera alcova al mio assassino
Sono dolente
in tiepido incantesimo
che mi trattiene calda come in vita
e in ventre ho quel coltello
e il seme suo in segreto
192
I Giovedì di Scrittura Fresca
LA MORTE PIETOSA
scritto da: Brizgraz
Te sei mai chiesto come mai ar cavallo,
quanno se rompe l’osso de la zampa,
je spareno invece da curallo?
Pe’ nun fallo soffri’, perché si campa,
nun correrebbe libbero ar galoppo,
chè si la gamba è rotta nun se scampa…
mejo ammazzallo prima co’ lo schioppo!
Però nessuno penza che ar cavallo,
magara piacerebbe vive zoppo!
EUTANASIANDI-CYB
scritto da: Necatrix
Miei cari oggi ho deciso di non pubblicare per protesta.
Intanto perché mi sembra gesto non responsabile lasciare ad uno come Cyb la scelta
dell'argomento del giovedì.
Che già polvere di foglie mi aveva fatto venire strane immagini alla memoria (che ho
ricacciato nel profondo, insieme al diavoletto che me le aveva sussurrate...) , maSCUSATE!- eutanasiandi solo la mente malata di uno che ha respirato afror di
gianduia per anni poteva partorirlo.
A me, che, invece, respiro quotidianamente profumo di tartufo e fonduta, l'unico
eutanasiando che riesce a venir in mente in questo momento è il Roberto del sitone
nostro.
E che Malos non me ne incolga!
193
I Giovedì di Scrittura Fresca
UNA TAZZA DI RICORDI
scritto da: Serenella
Bicchieri in festa
sotto il pergolato
stelle nei prati
una tazza di ricordi
in fila come marionette
il copione in tasca
nel vestito buono
una stilla alla menta
mia giovane speranza
gusto d’azzurro
occhi di cielo
un succo viola
mio giardiniere
estratto ambrato
sole di mezzanotte
ciack
si gira
l’ultimo bacio
l’ultima scena
i vuoti a rendere
194
I Giovedì di Scrittura Fresca
195
I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Sette 19 Maggio 2005
LABIRINTI
Hanno partecipato:
Punto Mosso
Simonetta Ferrante
Alessandro Gabriele
Dolphy
Gruppo MistoAttak
Nicola Martini
Pasquino
Massimo Botturi
Oltremare
Carmen M.R. Di Lorenzo
Sally
Serenella
Ettore Bilbo
Fucsia
Bobboti
Brizgraz
Leone
Vaan
Doremi
Quella
196
Macchinari
La visione del razzo
Labirinti(te) (No flai zòn)
Labirinti
Labirinti
Dalla Macedonia con gelato
Ciao Cicciola
Fly on a Windshield
La voce
A trovar l’(as)soluzione
Il labirinto
Labirinti
La torre
97cm: labirinti italiani
Diabolici disegni
Er labirinto
Labirinti
Labirinti
Er labirinto, Fabbrì (indegna risposta)
Tra tufi e pietre
I Giovedì di Scrittura Fresca
MACCHINARI
scritto da: Punto Mosso
Era stato progettato da un ingegnere del comune, insieme a tutto il parco, esisteva
dunque una soluzione, era pure stata prodotta una mappa, e in risposta a tutto questo
da molti anni ormai di quell'edificio in plastica riciclata non se ne parlava che male.
Maldicenze, non come di case stregate di altri tempi, ma come se la grossa struttura
in sé e per sé non avesse molti motivi di esistere, faceva piangere i bambini che ci vi
si avventuravano, obbligando i genitori a camminare sulle strette e alte passerelle,
previste per questi recuperi in extremis, dava rifugio ai senzatetto, il che seccava
molto all'amministrazione del piccolo capoluogo, ed era inoltre una grande superficie
per tutti i graffiti-writer delle zone limitrofe, libera arte, liberi pensieri, shock alla
società.
Ma in tutto questo, Barbara ci vedeva il bene, quello era il suo labirinto, amava
camminarci, sola, o così le piaceva pensare, ella conosceva la soluzione. Abitava
vicino al parco, questa zona verde sempre ben curata, sfruttata in estate per ogni tipo
di manifestazione, comprese folli feste dell'alcool e campionati di mimo. Il parco, un
corpo che come cuore aveva un labirinto.
Ma di quanti labirinti Barbara conosceva la soluzione? Di quanti percorsi era giunta
alla conclusione? Pochi, oltre a questo plasticoso che poteva essere intrapreso quante
volte si voleva, esso che non cambiava, struttura che non scappava, sentiero tedioso
che dava una piccola soddisfazione ogni volta mostrava la sua uscita.
Perché della sua vita, i labirinti ne erano le stanze, ed anche i corridoi, ma questi
ultimi corrispondendo al tempo restavano dritti. dunque ella poteva percorrerli,
guardare gli ingressi di questi mille labirinti ma mai avventurarsi, restare nel sicuro e
facile corridoio.
Purtroppo per il suo coraggio, che ella metteva spesso al lavoro, non le bastava
guardare, entrava, senza fili di Arianna, in queste stanze anonime, senza nessuna
indicazione, continui con ripetizione periodica di piccole conformazioni.
Nessun aiuto mai accettava, a volte dei ciechi si presentavano sulla sua via, ma come
pesi del viaggio li interpretava, lasciava la loro esistenza riporre poco dopo il punto
esatto da dove si erano staccati.
Perché Barbara non era una campionessa dei labirinti?
- Settore ricerca e sviluppo G.R.E. s.p.a. "Dammi tempo Ernesto, non posso certo risponderti così su due piedi, devo
consultare il mio capo, e poi quello che proponi sarebbe l'investimento più grande
dell'anno per l'azienda"
"Se ho contattato te, è perché penso che possa farvi comodo questo macchinario
ungherese"
197
I Giovedì di Scrittura Fresca
"A quanti altri lo hai proposto?"
"Cosa importa? Vuoi basare la tua decisione su una improvvisata indagine di
mercato? Vuoi sapere quanti lo hanno già comprato?"
"No Ernesto, ripeto la domanda, a quanti lo hai proposto?"
"Beh, a tutti"
"Tutti... Beh, ti farò sapere, il capo sta ancora controllando il rapporto che ho scritto
sull'utilizzo della macchina test. Ormai, l'ho scritto e inviato, supplicarmi non serve,
chiama Monterzi direttamente se vuoi agire su chi decide"
"Barbara sii seria, Comunque questa telefonata era cominciata in tono personale,
volevo solo sapere a che punto eravate nel delicato processo di giudizio, non ti
preoccupare, è finita qui, piuttosto, il fine settimana che fai?"
"Ma è solo lunedì"
"Va beh, cosa fai stasera allora?"
"Di certo non voglio sentir parlare di viti e monitor ungheresi"
"Non mi prendere in giro, avresti voglia di uscire un po'? Un film o una birra, anzi
ora che ricordo, stasera dovrebbe esserci uno spettacolo in centro"
"Se ti dicessi di lasciar perdere per stasera?"
- Hotel del centro città Lasciar perdere, perché le ho permesso di dirmi questo, di finire la telefonata con una
frase fatta, avrei dovuto insistere, impormi, ma come avrei io potuto fare quando in
contesti molto più semplici non riesco a farlo? Questi eccezionali macchinari
ungheresi non si vendono mica da soli. Sono io il loro viso ormai, ma non riesco ad
andare a fondo.
- Settore ricerca e sviluppo G.R.E. s.p.a. Uscire? Con quel tizio? Conosciuto in un bar un mai di sere fa, amico di amici, che
ha messo il suo lavoro tra noi prima ancora di mettere un discorso?
Ma ho altro da fare ora, un rapporto su queste benedette cianfrusaglie, il mio capo
sembra vagamente interessato ma da ormai tre giorni attende un mio resoconto, ma il
fatto è che mi tolgono la voglia loro stesse, arrivate il giorno dopo un bicchiere di
vino in allegria, quando proprio mi aspettavo tutt'altro.
Ancora tre ore e sarò a casetta, magari allungo un po' e faccio un salto al parco, tanto
nella borsa ho le mie letture e le giornate si fanno lunghe ultimamente.
198
I Giovedì di Scrittura Fresca
- Nel parco Sono giunta a buon punto, posso dirmi soddisfatta, anche oggi mi sono guadagnata la
pagnotta, domani il rapporto sarà sulla scrivania di Piero.
Stasera no, non potevo finirlo così su due piedi, meglio rifletterci senza
necessariamente pensarci per una notte intera.
C'è luce, ma c'è freddo anche, e sono sola in questo parco, posso girarmi in ogni
direzione, ma non vedo anima viva, fortuna che i cancelli rimangono aperti. Ci
vorrebbe un po' di compagnia, o forse no?
Basterebbe chiamare Ernesto, verrebbe subito, ma io non so decidere ora e lui non
saprebbe cosa fare una volta qui, meglio cedere al nulla, è più facile, meglio non
prendere questa azzardata svolta, meglio fermarsi qui e non prendere iniziative strane.
Sono venuta qui per leggere no? E il tomo di 350 pagine fa giusto al caso mio, e
finché c'è chiaro, c'è speranza.
- Casa di Barbara Cucinare è sempre una tragedia quando si è soli, si fa poco per non occupare troppo
tempo e si finisce per mangiare le solite schifezze preconfezionate al massimo un po'
scaldate, quando richiederebbe poco sforzo fare qualcosa di più, ma forse
richiederebbe anche qualche altra persona per cui farlo, quando faccio una serata con
gli amici è difficile staccarmi dai fornelli, cucino bene, a mio avviso, e cucino per
tutti, tanto, più di quanto basta.
- Nei sogni di Barbara Non voglio camminare se non c'è tutto in piano, tutto deve avere lo stesso livello, se
no che senso ha spostarsi?
Non si sente questo liquido che mi blocca? Mi è già difficile muovermi così
figuriamoci se dovessi salire anche solo un po', tutto piano, tutto liscio, tutto pronto
per muoversi, tutto facile.
- Settore ricerca e sviluppo G.R.E. s.p.a. "Ecco tutto Piero, mi ci è voluto un po' ma devi capire che le macchine sono nuove e
che di molte loro parti meccaniche non mi era chiaro lo scopo... senza aggiungere
che..."
"Sì, sì, 'poggia lì"
Quando fa così si meriterebbe solo la porta in faccia, altro che ringraziamenti per il
suo tempo e bla bla bla, fargli vedere per una volta che non dipendo da lui per la mia
vita ed invece mi ritiro dal suo ufficio chiedendo a quando la prossima riunione e
quindi un responso sull'acquisizione, un modo semplice per chiedere congedo.
199
I Giovedì di Scrittura Fresca
E adesso cosa? Beh, proviamo a ricontattare il fornitore che c'ha dato picche per il
prezzo che gli offrivamo, vediamo se stavolta è un po' più ragionevole.
- Casa di Barbara Girare e girarci intorno, non trovare mai l'uscita, il lieto fine.
Una condanna direi, ma dove sono le svolte, e soprattutto dove quelle giuste, fare
andare tutto avanti da solo o prendere attiva parte in esso e quindi rischiare sulla
propria pelle il non trovare l'uscita?
Il rapporto sulle macchine nuove sono almeno 2 settimane che è in mano a Piero,
Ernesto non si è più fatto vivo.
Tutto procede dritto, e io non vedo alternative che dipendano da mie scelte.
- In un bar del centro Aver scelto questo bar per incontrarci non poteva che essere una mia idea, un bar più
stupido non l'ho mai visto, fantocci di idee appese alla parete, c'è persino una balestra
palesemente finta o giocattolo in quell'angolo, ma è stato il primo che mi è venuto in
mente, e già la chiamata non mi sembrava facile, volevo che si fosse conclusa al più
presto, quanto sembrava non mia, sia nel tono sia negli obiettivi.
"Ordiniamo o tu stai già aspettando?"
"No, no, le liste me le hanno portate ma aspettavo te per ordinare, comunque io ho
già deciso, appena vedi il cameriere e anche tu sei pronto fagli un cenno"
"Beh, chiamami monotono ma io la sera nei bar prendo il solito amaro"
"Non ti ho detto perché ti ho chiamato, e ti sembrerà strano ciò di cui voglio parlare"
"Capisco benissimo che il lavoro non è sempre il miglior posto per parlare"
"Comunque, volevo parlarti di quella proposta di acquisto, non che io ci tenga, ma la
cosa sembrava essere stata abissata, e non se ne era più parlato"
"Parli di quei cavatappi ungheresi... pensavo volessi parlare d'altro, promozioni o
cose del genere"
"No, la cosa che mi sta a cuore al momento sono le cose che faccio, e quel rapporto
mi aveva preso una carta quantità di impegno e vorrei dunque sapere a che punto si è
giunti"
"A dire la verità, essendo ora al di fuori del contesto lavorativo, ti posso dire che non
lo ho nemmeno letto e che dall'alto mi hanno tagliato i fondi per qualsiasi iniziativa
di implementazione su scala di produzione di qualsiasi cosa da noi studiata, anche i
soggetti che ci vengono proposti, soprattutto quelli ti dirò"
"Ah"
"Non la prendere male, non ti ho detto nulla perché pensavo non ti stesse così a
cuore, se vuoi discuterne posso leggerlo un po' a tempo perso, ma non posso
garantirti nulla più"
200
I Giovedì di Scrittura Fresca
"No, no, lascia perdere, tanto non ne vale la pena a quanto ho capito, magari uno dei
prossimi anni"
"Quando ci saranno un po' più di soldi in cassa..."
- Nel parco Vicolo cieco, ma poi cosa mi avrebbe dato in se stessa l'acquisizione di quelle
macchine da parte della mia azienda? Nulla, ero comunque ad un Vicolo cieco, la mia
vita ha urtato contro un episodio sterile.
Ma quali sono gli eventi che possono prendere parte ad un fine?
Cosa può toccare il mio animo? Sono convinta che tutti i giorni mi succede qualcosa
del genere, ma passa inosservato, oppure scartato rispetto alla quotidianità che attira
con la sua sicurezza.
- Casa di Barbara "Signora siamo gli impiegati del comune, siamo qui in seguito ad una sua lamentela
sulla posizione di un lampione pubblico"
"Sì vi faccio salire"
"Ma questo lampione sembra ben allineato, perché dovrebbe darle fastidio la notte?"
"Lei lo sposti un po' più a destra, tanto non cambia per l'illuminazione stradale, no?"
"No beh, certo"
"Vi ringrazio e vi farò sapere se questa notte ho dormito oppure no"
Anni e anni che convivevo con quella mezza luce non mia, ora l'ho spenta.
201
I Giovedì di Scrittura Fresca
LA VISIONE DEL RAZZO
scritto da: Simonetta Ferrante
Quando c'è il sole impazzisco
vedo un razzo curvo nel cielo
che traccia grida di fumo nell'aria,
inonda la bocca del cielo,
vomita la sua luce
dalla sua forza
mille volte rinasci
e come un cristallo
lucido da tutte le parti
accechi l'indifferenza.
Il tuo tragitto è
disegnare le
traiettorie
per la gente ai confini di strade.
Naso all'insù
a cercare conferme al tuo demone
nell'infinito che finisce
col tuo gioco cieco
dell'immaginazione
ritrovi il coraggio
di splendere sopra
il labirinto della terra.
202
I Giovedì di Scrittura Fresca
LABIRINTIte (No Flai Zòn)
scritto da: Alessandro Gabriele
Le femmine cercano e trovano il posto adatto attraverso i radars olfattivi posti sulle
antenne. La deposizione delle uova avviene all'interno della matrice nutritiva la
quale, di norma, deve essere esposta alla luce. In un solo giorno una femmina può
deporre 100-150 uova di un intero ciclo e tale operazione può ripetersi fino a 5-6
volte in un anno. Alcuni ricercatori ritengono che in una sola ovodeposizione si
possano produrre fino a 800 uova, altri che una sola coppia possa dar vita fino a 4/5
miliardi di individui l'anno.
Fu più un sorriso che una smorfia o un brivido.
Federico Bini finì di leggere e chiuse la pagina web senza salvarla.
Ci mise uno scatto all’indietro della schiena.
Un gesto fulmineo della mano destra e un piacere sottile e ambiguo.
Come di cose più grandi che vanno in malora senza che si abbia davvero l’intenzione
e la necessità di fermarle.
La pupa possiede un corpo molto trasformato rispetto alla larva, teme le temperature
superiori ai 40° C (per essa letali), per cui dagli ambienti caldi si sposta
progressivamente verso i terreni freddi, anche ipogei. A maturazione, l'adulto preme
sull'involucro del pupario, che si rompe in maniera caratteristica,simmetrica.
L'adulto, per fendere il pupario si aiuta con una sacca d'aria, posta esternamente a
livello degli occhi, che viene utilizzata solo per questa occasione.
Da giorni ormai. I reclami che non contemplassero richieste d’aiuto, esternazioni di
scandalo, minacce di denuncia penale riguardo alla presenza massiccia delle mosche
ovunque posasse culo d'uomo, si contavano sulle dita di una mano di ET.
Federico spese qualche ulteriore minuto a rispondere in posta elettronica una serie di
“scusateci, provvederemo, siam lieti che abbia scelto il nostro servizio
disinfestazioni!” a pioggia.
Nonché, pur dimenticandosi del tutto di spingere l'Invio, dispiacendosi sinceramente
in una parte di sé lontana come l'eco del Big Bang, di non poter fare di più e di
meglio.
Caratteristici sono gli occhi composti (ocelli), con circa 4000 sfaccettature, a
sottolineare l'acume visivo della mosca. Le antenne servono da organi olfattivi e di
orientamento (particolarmente attraenti sono le misture di odori forti).
L'organo olfattivo pi raffinato posseduto dal moscone azzurro della carne (Calliphora
erythrocephala), pure la mosca domestica possiede un ottimo olfatto, oltre che
un'ottima vista. A differenza delle api, sembra che le mosche non siano in grado di
riconoscere i colori: certo che sono più sensibili alla luce con breve lunghezza d'onda,
203
I Giovedì di Scrittura Fresca
e, se disturbate, si dirigono verso il blu e i colori affini, mentre, se sono lasciate in
pace, preferiscono i colori scuri come il marrone.
Se lo prendeva a cuore il suo lavoro, Federico, benché nel corso degli anni fosse
precipitato a vite nella scala societaria verso il purgatorio dell’ufficio reclami, un
posto snobbato da tutti, dove anche i liquami del Mobbing piovevano ormai a stento,
una stanzetta giallastra e semibuia al piano terra che affacciava sulle scale
d’emergenza arrugginite della Sessantaquattresima East.
Bella vita, sì bella, perché? Sapete del mondo postmoderno corretto nelle
fondamenta, giusto? Anche voi sospirereste di sollievo a non dovervi combattere ogni
giorno la scarsità di risorse con la massa sociale diseredata che invade ormai
costantemente le strade del mondo.
OVODEPOSIZIONE: la mosca fecondata cerca un posto adatto ove deporre le uova,
cerca un substrato ricco di materia putrefatta, fermentata: ricco di umidità e di
sostanze organico-proteiche. Tipici terreni adatti all'ovodeposizione sono gli
escrementi di uomo e di animali, le sostanze vegetali in putrefazione ed ogni genere
di immondizie.
Federico sorrise e spense tutto con un pensiero quantizzabile in acceleratori di
pensieri a cappella, un genere d'intrattenimento molto in voga tra l'alta borghesia dei
salotti di questa capitale del Paese delle Ultime Cose*.
Pochi minuti dopo viaggiava in Taxi sognando duro contro il finestrino fumé dove il
traffico di punta rifletteva tutta la sua tracotanza feroce minore, ogni cosa avveniva
lenta e silenziosa e in due ecologiche dimensioni di striscio sulla sua fronte intatta.
L'ufficio della Direzione Centrale stava beato per i fatti suoi al 300esimo piano tra le
nuvole, affacciato su Battery Park e il canale dell'Hudson che contiene la lontana
prospettiva di Miss Liberty e del suo cespo d'insalata issato in cielo dalla mano destra
di pietra.
Federico sprofondava lietamente in poltrona di realpolitikstirolo espanso stile 70
prima che cascasse the wall, il capo aveva sempre da fare, ma la volta che ti
chiamava sul serio in ufficio al 300° tuttovetri c'era di che giovializzarsi come la
minchia di Santa Claus.
La larva odia la luce e ama il caldo; si annida nella matrice organica e pu sopportare
temperature fino a 60° C. Ottime temperature per il suo sviluppo sono quelle che si
stabilizzano sui 40°-50° C.
Se la matrice si raffredda le larve penetrano sempre di più al suo interno. Il periodo
larvale consta di 3 stadi. Il corpo della larva conta 13 segmenti ed è di forma conica.
L'apparato boccale è privo di particolarità, 2 artigli all'interno della bocca sono
collegati con la struttura simil-scheletrica della larva; nella parte terminale si notano 2
aperture-sfilatoi, collegate con il sistema respiratorio. La cuticola abbastanza
resistente, dapprima bianca, in seguito ingiallisce e, in prossimità della pupazione,
diviene più scura a motivo delle riserve di grasso che vanno accumulandosi.
204
I Giovedì di Scrittura Fresca
Si udì solo il tintinnio dei calici, si intuirono sorrisi e circostanze, Federico guardava
il Boss come un Joe Pesci asfittico saltato fuori dall'acquario.
Ma le prospektive apparivano decisamente buone, sempre più reclami, sempre più
clienti. Fatturato a palla.
Mentre tutte le cifre facevano cassa suonando nei cervelli della Direzione 300°, in
fondo alla prospettiva verso Staten Island qualcosa di grosso volava ronzando come
un muratore sardo di notte quando le adenoidi e il vino la fanno da padrone.
Il torace della mosca, molto possente, ben predisposto alla locomozione per la
presenza di masse muscolari (circa il 10% del peso totale). Le ali battono
velocemente con 2-300 battiti al secondo e permettono un discreto volo, nell'ordine di
7-10 Km all'ora. In genere preferiscono l'appoggio su superfici ruvide, anche se
possono camminare su superfici lisce, grazie alla pelosità degli arti. Non si
allontanano oltre i 2-3 Km dalla fonte del nutrimento: il loro volo veloce e strano, con
angolature impossibili e virate è al di fuori di ogni legge aerodinamica.
Il coleottero gigante, in fondo alla visuale, si posò maestoso sulla testa invecchiata di
Miss Liberty. Il gesto fu privo del rumore naturale che accompagna solitamente la
pietra quando si spezza di netto come un tramezzino ingiallito in un bar di periferia.
Il coleottero vide il cespo d'insalata, appetitoso, a due centimetri appena dal proprio
trombone gastricolfattivo eccitato.
Fu veramente un niente farne morso veloce e poi un boccone e ripartire scarburando
altrove.
I cibi solidi vengono leccati, predigeriti col vomito salivare e quindi assorbiti. Il
vomito, che esercita un forte richiamo sulle altre mosche, rivelato dai puntolini neri
che le mosche lasciano al loro passaggio. Le mosche sono grandi contaminatrici
dell'ambiente attraverso il vomito, il rigurgito e le feci, piuttosto liquide, che
emettono ogni 5 minuti.
Intanto, per le strade le piazze delle città di tutto il mondo, una folla di straccioni
privi di senno si contendevano a dentate le poche risorse che il mondo ancora
seminava dall'alto, neanche fosse qualche minchia di Hansel e Gretel dopo il diluvio.
Per tenersi su in nervi, tutta la folla di labbra composte, parallelamente, faceva
AMEN a voce alta.
E davvero non c'era un cazzo d'altro.
* Paul Auster, Il Paese delle Ultime Cose
205
I Giovedì di Scrittura Fresca
LABIRINTI
scritto da: Dolphy
Angosce della mente
le tue paure nascoste
in angoli di strade
Il rifiuto si fa ossessione
e nulla può chi segue
La mano accompagna
il cammino del corpo
La parola indica
il cammino dell’anima
Sdoppiati per sempre
persi
in labirinti inestricabili
LABIRINTI
scritto da: GruppoMistoAttak
Sono mantelli neri
i labirinti che
il tuo piccolo cuore
a tratti espone
(e più spesso
nasconde)
Rantoli spersi
nel turbinio del vento
che tutto trascina
Volti lignei
d’una vita fessa
(Nei ricordi sbiaditi
ritroverò i tuoi occhi
lucidi di pianto
e sbiancherò nel pallore
che ti ricamerà il viso)
206
I Giovedì di Scrittura Fresca
DALLA MACEDONIA CON GELATO
scritto da: Nicola Martini
dalla Macedonia con gelato
e dall'embrione pure
che lesto s'è mangiato il mio,
pistacchio crema,
quest'ode
che l'ode pure il sordo e il tordo,
è labirintica giovedisticamente
poetando.
Il tordo è belga e si noma Poirot,
nel labirinto che poi
la costellazione di Arianna appare,
è meglio se qui di astri non si evoca,
lune ite lune sekkate
l'une e l'altre.
Dedalò dedalò questo bimbo a chi lo dò,
sto in un gorviglio
o belin la zozza
e oggi è sabato.
207
I Giovedì di Scrittura Fresca
CIAO CICCIOLA…
scritto da: Pasquino
ENTRATA:
- Ciao Cicciola, come va?
- Mmmm…
- Che vuol dire mmmm…?
- Niente!
- Dai, dimmi che c’hai..
- Ti ho detto niente!
- Se fosse niente mi parleresti
- E non mi va di parlare. Va bene!?
- E perché non ti va di parlare?
- Uffa! Mi stai rompendo le palle!
Percorso A= Mi incazzo
Percorso B= Sto calmo
B)
- Per favore, mi dici cosa è successo?
-…lo sai benissimo!
- ?!?!....so benissimo cosa?
- Adesso cade dalle nuvole! L’ipocrita!
- Giuro che non so di cosa parli…ho detto o fatto qualcosa di male?
- Perché? Fa differenza se DICI o FAI una cosa che mi fa male?
- Bhè… no…
- E allora??
- Allora cosa?
- Allora perché continui a dire stronzate e a far finta di non sapere?
- Ma…
Percorso C= Continuo ad affermare la mia buona fede ripetendo che non so a cosa
si riferisce = Non ne esco
Percorso D= Me ne vado sbattendo la porta = Muso e casini per un mese
Percorso H= Cerco di farla parlare senza sbilanciarmi
Percorso L= Le metto le mani al collo
208
I Giovedì di Scrittura Fresca
Percorso M= Cedo rovinosamente
H)
- Senti Cicciola, …non mi sembra di aver fatto nulla, oggi o ieri o una settimana fa,
che ti possa aver fatto del male…
- Non ti sembra o non l’hai fatto?
- Non l’ho fatto
- Come volevasi dimostrare!
- Dimostrare cosa?
- Secondo te, due persone che dicono di amarsi, che vivono insieme , dovrebbero o
no spontaneamente sviluppare una reciproca sensibilità, una particolare attenzione
all’altro, un interesse a capire e a difenderne le fragilità?
- Certo!
- Bene. Questa è la dimostrazione che sei un mostro egoista e insensibile!!
-…
- Maschilista di merda!
Percorso H= Vicolo cieco Torno indietro
- Se ti ho fatto del male ti chiedo scusa, credimi, sicuramente non me ne sono reso
conto…
- SE… dice. Insisti! Tu fai o dici una cosa che mi fa terribilmente male e neanche te
ne rendi conto?? Ma che cazzo di rapporto è questo??
- Ma dimmi almeno cosa ho fatto…
- Lascia perdere. A questo punto, non è tanto importante QUELLO che hai fatto,
anche se rimane gravissimo, ma è il COME: un rullo compressore che non distingue
una formica da un elefante. E questo non posso né VOGLIO sopportarlo!
Percorso N= Reagisco
N)
- Io posso anche aver fatto INCONSAPEVOLMENTE qualcosa che ti ha fatto male,
ma se sono INCONSAPEVOLE di quello che ho fatto, gradirei essere illuminato da
te sul fatto!
- A cosa serve che te lo dica adesso??
Le cose sono DUE: o quello che hai fatto l’hai fatto INCOSAPEVOMENTE, come
dici tu, quindi senza capire la gravità di cosa hai fatto e questo dimostra la tua
indifferenza nei miei confronti e quindi la tua incompatibilità e quindi la tua
inadeguatezza, o l’hai fatto CONSAPEVOLE della gravità del fatto e del dolore che
mi avresti procurato facendolo e allora è evidente che sei uno stronzo indegno e
infame come tanti altri e io quegli stronzi lì non li voglio in casa! Come vedi la
sostanza non cambia!!!
Cosa mi rispondi?
- Bhè… messa così non avresti torto… ma…
209
I Giovedì di Scrittura Fresca
- Ma?
-…
-…
Riparto dal via
- Ciao Cicciola, come va?
210
I Giovedì di Scrittura Fresca
FLY ON A WINDSHIELD *
* Genesis
scritto da: Massimo Botturi
È il sentore della mosca…
Parevasi gironzolare, in parassita suzione
del cerchio del bicchiere
traccia percepita perlopiù, col polpastrello
o in contro luce, adunchi
Di scatto
mi volto
arimo è un concetto sconosciuto al mondo animale
solo alle libellule
se la mia ignoranza non m’inganna
è consentito lo statico fermo immagine
Prodotto d’interessante ingegneria
ingranaggi silenziosi
e un alquanto vivace muovere, non c’è che dire
Fugge
meno veloce di quanto la sequenza dell’infinitesimo di secondo
riesca a immortalare
eppure
la tridimensionale misura dello spazio, lei, la mosca
frantuma, in giravolte, e cambi di rotta
in iperboli ed ellissi
È la negligenza della mosca
confondere lo stillicidio di mala guarnizione
per l’orifizio che origina la vita
e goccia a goccia, riuscirne a non berne solo
che la misera sua ombra, appiccicata al bianco del lavello
È la limatura della mosca
la decomposizione, sparita nelle fauci
come le infermiere spariscono
nel ventre acido degli ospedali
dove si lotta, e si scommette
e si baratta una fede troppo tarda
211
I Giovedì di Scrittura Fresca
con la quaterna dell’unica cartella concessa dal dottore
È la Royal Air Force che ha perso la formazione
il contatto su frequenze segrete
decifrate
è il gioco del cammino sul dorso della mano
sottile, come il miracolo dei piedi sopra l’acqua
È il ghigno esagerato del trine delle tende
zampe diamante vorrebbe, ora, lei, la mosca
triangoli imperfetti, incrinature
fratture, fori sbeccati
moschettoni e cime acciaio
per la parete in ghiaccio affacciata all’inverno complice
È il vorticoso calare su ogni distrazione
l’inutile sentinella ai piedi di Morfeo
nostro destino, soccombere al panzer micro grammo
La catapulta è già puntata
sull’orlo della bocca, inevitabile e ridicola mangiatoia
Si squarcia
come un velo trafitto con insolenza da un dito spiritoso
l’ipnosi di lady notte, funziona, puntuale
catarsi delle debolezza
del limitato impero dei sensi umani
trionfo delle pere cotte
delle tare sulla stadera
Newton non ha capito nulla
meglio lasciare le mele sopra gli alberi
ed aspettare che il tempo faccia il suo corso comatoso
Geometrici strumenti d’analisi, bavosi
perlustrano, ora, lo sporco
depositato fin dove glicerina
non riesce a convincersi salvatrice di regole d’igiene
di profilassi minima
È la sopravvivenza della mosca
l’azzardo gioco
di cercare merda, e di trovarla, ovunque
212
I Giovedì di Scrittura Fresca
ovunque profumi asiatici
si curino di somigliarci favola
gli oggetti
i posti
il soffice cuscino
Viviamo sopra cumuli di immondizia rosa
scriviamoci il destino, amici miei
mosconi
la lancetta delle ore ha rotto il quadrante bianco
minuti e fragili “minuti”
aspettano ore, inutilmente
la mosca è ferma
sul parabrezza .
213
I Giovedì di Scrittura Fresca
LA VOCE
scritto da: Oltremare
La voce fu catapultata fuori dal petto della donna a velocità supersonica.
Un grido, ovviamente. Che adesso avrebbe dovuto fare il suo dovere. Arrivare alle
orecchie dell’uomo, penetrarle e compiere un lungo viaggio per arrivare al cospetto
del cervello. Avvertirlo che stava succedendo qualcosa di orribile e convincerlo a
mobilitare l’uomo il più presto possibile.
In due parole, farsi sentire. Questo lo sapeva, la voce. Ma non sapeva bene cosa
avrebbe trovato una volta superato il padiglione dell’entrata. Nessuno glielo aveva
detto.
Così, dopo il volo fulmineo e un atterraggio di fortuna su un grande spiazzo
semicircolare, fu raccolta, spinta attraverso il padiglione e convogliata in un canale
dove qualcuno aveva passato la cera. Sola e titubante si guardò intorno, finché scorse
qualcuno molto interessante in fondo al canale. Era Eustachio, noto t(r)ombeur des
femmes.
La voce si aggiustò i capelli, improvvisò un sorriso e lo raggiunse. Lui, che era uno di
poche parole, la avvinghiò e la fece sua su un letto sottile e molleggiato. Insieme
vibrarono e vibrarono, fino a raggiungere l’acme e l’applauso di una catena di tre
ossicini, uno comunista e due ancora indecisi. Ma l’estasi, sebbene profonda, durò
poco. Gli ossicini erano lì apposta per separare i due amanti e ricordare alla voce che
il viaggio era appena iniziato. Martello, incudine e staffa condussero Eustachio e la
sua bella nel vestibolo, dove si rivestirono e un po’ tristi si salutarono.
La voce fu lasciata sola all’entrata di un labirinto. Davanti a lei, tre canali
semicircolari e un condotto a forma di chiocciola.
E adesso? Come avrebbe fatto a raggiungere il cervello? Quale strada avrebbe dovuto
prendere? Decise di seguire il condotto a spirale e iniziò il cammino. Cammino si fa
per dire, perché all’interno del condotto dovette piuttosto nuotare in una strana linfa
maculata. Passò attraverso onde, ampolle, rampe e stazioni intermedie, finché, sfinita
e sporca scorse un tronco che delimitava l’uscita del labirinto. Lo abbracciò e si
fermò a riprendere fiato. Si accorse quasi subito però che il tronco altro non era che
una gamba dell’encefalo. Era arrivata da sua santità il cervello. Si arrampicò sul
troncogamba, si accomodò su un cuscino rosa con i ricami ad intarsio rossi e attese.
Non successe nulla. Allora si mosse, strattonando più volte il cuscino, finché il
cervello parlò.
- Che diavolo vuoi? - disse
- Come che diavolo voglio, sono un grido, non mi riconosci? - Ah, sì, un grido, giusto - E allora? - Allora che? - Fai qualcosa, manda un impulso, avvisa l’uomo! 214
I Giovedì di Scrittura Fresca
- Ehi, grido, rilassati, quest’uomo è sordo - Sordo? - Sì, sordo - Ma allora tutta la strada che ho fatto per arrivare fino qui è stata inutile! - Beh, sì, sei entrata nell’orecchio sbagliato - Ma c’era solo quello! - Mica è colpa mia! - E neanche mia! - Mi stai acciaccando le piume - Ah, scusa - Vorrai mica restare qui, vero? - E dove vuoi che vada? - Che ne so, vai dove vuoi, basta che ti togli da qui che ho da fare - Non so dove anda… La voce si interruppe, si alzò di scatto e senza salutare affrontò velocemente la
discesa del troncogamba. Si rituffò nel labirinto e passò per la seconda volta
attraverso onde, ampolle, rampe e stazioni intermedie. Nuotò nella linfa maculata del
condotto a forma di chiocciola, uscì dal labirinto, entrò nel vestibolo, si spogliò, fece
un inchino a Martello, incudine e staffa e raggiunse Eustachio sul letto sottile e
molleggiato. Il t(r)ombeur des femmes, che era uno di poche parole, l’avvinghiò e la
fece sua.
La donna dell’urlo agitò le mani nell’aria e scacciò il calabrone.
L’uomo sordo vide la scena e sorrise.
215
I Giovedì di Scrittura Fresca
A TROVAR L'(AS)SOLUZIONE…
scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo
Al goffo tentativo
di trovar l’(as)soluzione
m’addentrai per certe vie tinteggiate
dalle giovani stagioni
proseguii a passo lento
nel cammino a ritroso
volteggiando il passato
al presente
incontrai delle persone
giammai dimenticate:
“Ehilà Carmen come stai ?”
gridarono in coro
sono qui che sto cercando
una certa (as)soluzione
potete suggerirmi
da dove incominciare?
difficile da dirsi
- mi risposero tutti quanti questo è un labirinto
e chi entra gira in tondo
o gira al quadrato
non trova né l’uscita
né l’entrata
accidenti - replicai per le vie della memoria
ho perduto
soluzione e grazia !
216
I Giovedì di Scrittura Fresca
IL LABIRINTO
scritto da: Sally
Era stato svegliato all’improvviso e catapultato in quella stanza buia da una forza
decisamente più grande di lui; si era appoggiato alla parete cercando di regolarizzare
il respiro che inesorabilmente si era fatto frenetico. Doveva cercare di rimanere
lucido, ma l’unico pensiero che gli urlava nel cervello era l’allucinante realtà che lo
vedeva chiuso nel Labirinto.
Non poteva credere che questa volta fosse toccato a lui eppure ci stava dentro e
probabilmente non ne sarebbe più uscito. Nessuno ne era mai venuto fuori.
Sentiva di non essere solo, un’intuizione remota gli fece capire l’importanza di
andare, di muoversi prima di essere raggiunto. Non doveva assolutamente restare
indietro.
Cominciò ad avanzare, gli occhi ormai abituati alla semioscurità.
Passata la prima stanza si trovò a percorrere un corridoio notando ogni tanto aperture
che portavano a percorsi diversi.
Rallentò leggermente a vagliare le strade, ma, a parte le pendenze diverse, non c’era
assolutamente altro a differenziarle. Poteva solo agire d’istinto.
Imboccò una delle gallerie che saliva.
Non un’indicazione né una segnalazione, solo questo percorso che cambiava in
continuazione a seconda delle sue scelte. Decise di camminare quasi ad occhi chiusi
lasciandosi guidare dalla fantasia. Proseguì a lungo procedendo in un dedalo di
sentieri che a volte salivano, a volte scendevano.
Aveva perso il conto di quanti ne aveva imboccati, delle volte che aveva seguito la
strada incurvarsi a destra e delle altre che invece lo portavano verso sinistra.
Cominciava ad essere stanco sul serio, si sentiva pesante, ma sapeva che non poteva
ancora fermarsi, avvertiva altre presenze alitargli sul collo, decise anche loro ad
ottenere quello che voleva lui.
Non poteva permettersi di cedere adesso.
All’improvviso si accorse che l’ultimo percorso imboccato finiva con una parete a
bloccare il cammino. Si sentì morire, cosciente dell’impossibilità di tornare indietro a
cercare altre strade. Ci si appoggiò sfinito lottando contro la voglia di piangere. La
parete lo avvolse materna, asciugandogli le lacrime lo circondò; con stupore sentì il
bisogno di spingere, di farsi largo, di andare ancora avanti. La parete alla fine aveva
ceduto facendolo entrare in una stanza accogliente e richiudendosi subito alle sue
spalle.
In quel momento seppe che avrebbe potuto finalmente riposare, si stese rilassato e lì
rimase a lungo.
Molto a lungo.
Per mesi e mesi.
Nove, per la precisione.
“Signora, è un bel maschietto”
217
I Giovedì di Scrittura Fresca
LABIRINTI...
scritto da: Serenella
ingabbiata
nell’ordito
di piccoli baci muti
m’inoltro
come gazzella
nei labirinti scoscesi
del tuo silenzio
frammenti di albe
sul cuscino distratto
sguardi vagabondi
a illudere sogni
attendo la musica
col cuore appeso
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LA TORRE
scritto da: Ettore Bilbo
Nella mia vita, labirinto edificato sui pezzi di altri labirinti, c'era un grande punto di
riferimento. Svettava come un campanile entro le mura della città e rincuorava
scorgerlo spuntare oltre i tetti delle case. Ero vivo e questo mi bastava per continuare
ad esserlo. Poi successe che le mie orecchie iniziarono ad ingannarmi, che la luce del
sole ferisse i miei occhi stanchi. Ombre e voci dalla casa dei morti. L'olfatto si riempì
di putrefazione ed il tatto di rughe antiche come il profilo dei templi del passato.
Polvere e miasma, che spazzavano nel correre del vento tra gli antri dell'inferno e
questo mondo. D'un tratto vivevo nel buio, trasformato in una creatura senza
certezze, costretto a vagolare entro quei confini che mi erano familiari senza
riconoscerli più. Dimenticai di avere una casa ed abbandonai gli amici al loro destino.
L'amore si travestì di impronte, di lunghe e ossute dita disposte a percuotermi le
carni, di denti, aguzzi e insaziabili, bramosi di morsi come lo erano stati di baci.
Ed il campanile, la torre, il faro dei giorni passati si era spento come un fuoco senza
più calore. Infine dimenticai il mio nome. Mi spogliai dell'ultima parte di me stesso e
intrapresi un viaggio nuovo e diverso, senza meta, senza destino. E senza nome
rimasero gli oggetti e le persone, privati del diritto di essere se stessi oltre ogni
dubbio; il giallo, il verde e persino il grigio si mischiarono ed annullarono
dimenticandosi d'essere mai esistiti. E tra le mie mani vidi svanire tutte le certezze,
fino all'ultima...
Fin quando non ebbi il coraggio di aprire le fauci, volgendole in direzione dei miei
passi. Allora vidi un nuovo colore espandersi fino ad un eterno tramonto, lo sentii
stuzzicarmi le pelle, delicatamente viscido. Lo assaporai riscoprendone il gusto.
Fin quando non succhiai dalla fonte della vita la linfa rossa che disseta gli dei.
Allora ai miei piedi serpeggiò un fumo creatore e tutt'intorno si eressero mura
indistinte e sentieri di lamenti, la materia si ricostruì attorno ai polpastrelli, la luce
filtrò attraverso il buio fino a far scintillare i miei occhi.
Ero chino sul corpo di una giovane donna, un mantello a coprirmi le spalle, un ombra
fugace a nascondermi il viso. Inginocchiato sul suolo, che dirigeva i miei passi in un
lontano passato, tornarono i ricordi. Li afferrai col pensiero scoprendoli fragili e li
uccisi, come si strangola un bambino.
Alzai la testa e vidi, oltre il rosso del sangue, che la torre era tornata. Alta e arrogante
come non mai.
Non ero più vivo, avevo perso questa certezza, ma dalla sommità della torre strisciava
sottilmente un risorto destino: non ero neppure morto.
La mia vittima, esangue, roteò negli occhi le pupille e soltanto nell'ultimo sforzo fissò
lo sguardo su di me: era montato su lame di terrore, supplicava un perché.
Parlò prima di cessare di vivere: “cos'è questo labirinto in cui sto precipitando?”
“Soltanto una buona occasione per perdersi mia cara, soltanto questo”, risposi.
Ero felice.
Non sarei più stato solo.
219
I Giovedì di Scrittura Fresca
97 CM:LABIRINTI ITALIANI
scritto da: Fucsia
Salvatore oggi si è alzato presto. Deve accompagnare la mamma e la zia a votare.
Stamattina a Catania c’è il sole e fa caldo, nei bar già alle 6,30 si agitano le tazzine di
caffè e le brioche effluivano quel caldo odore di lievito e zucchero che mobilitano le
mucose orbe da parecchie ore di astinenza. Salvatore si rade e accende la radio,
mentre il suo mach 3 Gillette scorre come negli spot pubblicitari più allettanti, lo
speaker di radio Etna commenta le future ore della giornata elettorale. Collegamenti
da Roma, da Milano, dai covi di Forza Italia e da quelli della Margherita. Alcuni
politici buttati giù dal letto a ore antelucane farfugliano pareri e frecciate miste a
ottenebramenti post notturni. La lega dichiara con severità che i siciliani sarebbero
ben felici di festeggiare l’entrata in vigore di una suggestiva Festa della Polenta con
data da definirsi a risultati ottenuti, il Polo confida in una responsabile presa di
coscienza della popolazione catanese allettata da: lavoro per tutti, giustizia per tutti,
abiti firmati per tutti e un nuovo ponte-bretella sullo stretto ( con date da stabilirsi)
per tutti. La margherita, forte delle sue recenti vittorie assume comportamenti di
ironica sicurezza psicologica e tiene interviste in garage artistici dove si proiettano
film di nicchia con collegamenti ai siti web più elitari. Intanto gruppi di cantautori
severi e coperti di stracci intonano musica live in un misto di etnic-ironic-globalpacifist-grunge-etico. Ecco sì l’etica è sbandierata e tutti si ritrovano buoni e bravi,
pagatori di tasse e provvedenti per tutte le problematiche dei diversamente-abili!
Salvatore sale le scalette della casa materna in via Gaspare Bivona e già sente un
odore di caffè misto a sugo misto a brillantina e sapone palmolive. La vecchia madre,
un donnone dai capelli sale e pepe in perenne lutto da 40 anni con sguardo severo,
attende sul pianerottolo. Per andare a votare si è svegliata alle 4,40 di mattina. E’
confortata dalla compagnia della zia Maria, una vecchietta stecchita, baffuta con neri
occhi arguti e con una dentiera traballante. Tutte e due stazionano impazienti davanti
alla porta ormai chiusa con una trentina di mandate del catenaccio. Alla vista di
Salvatore la madre allunga un’occhiata severissima verso la pavida zia e tutti e tre si
avviano a frettolosi passettini verso la scuola Giuseppe Garibaldi con i documenti in
mano. L’entrata è sorvegliata da agenti in uniforme che chiacchierano sotto un
bandierone tricolore che sventola sotto il soffio di un lieve venticello mattutino.
Salvatore, il donnone e la zietta assumono una postura grave, sospettosa e
referenziale al contempo.
Aula 7: sui banchi piccoli e stretti di formica verdognola stazionano, sonnolenti, il
presidente e gli addetti ai seggi elettorali, uno di loro neanche si accorge ( o finge di
non accorgersi) di un “w la fica” scritto sul lato di un banco e tutto sa di gomma , di
inchiostro e di ragazzo, quell’odore inconfondibile delle scuole. I tre si mettono in
fila indiana rispettando una gerarchia ideale del loro codice familiare: mamma
donnone, zia stecchino, Salvatore ben rasato e con acqua di colonia. Il presidente si
sveglia dal torpore e controlla i documenti, una giovane signora rossocrinita e attillata
220
I Giovedì di Scrittura Fresca
trascrive i dati, una ex professoressa con capelli blu-chachè assume un’aria distaccata
e altera, mentre un giovane in jeans e maglietta si arrotola i capelli. I tre elettori sono
invitati a entrare ciascuno nella propria urna segreta e siccome sono gli unici nella
stanza, il silenzio si propaga .
Ora sono soli, ognuno nella sua urna, ognuno con il suo bagaglio di incrostazioni
della più banale comunicazione elettorale , ognuno trepido per il da farsi e sul come
farsi. Aprono la scheda, anzi la srotolano e con orrore scoprono il foglio di carta: 97
cm! Il donnone perde la matita statale e con i gomiti regge i lembi del papiro
elettorale, di solito le lenzuola le piega con l’aiuto delle vicine e perde all’istante la
facoltà del perché si trova dentro a quel séparé di legno. La zietta potrebbe essere
incartata dentro alla scheda e una vertigine l’avvolge. Non trova più’ le pieghe
prestabilite, i nomi precipitano sulle pareti dell’urna, la carta è maneggiata a tal punto
da assumere la forma di una palla anzi di un pallone. L’ultima cosa a cui la vecchietta
pensa è a chi dare il voto. Salvatore pensa a uno scherzo della commissione del
seggio e dopo essersi dipinto un sorriso sardonico fa spuntare il nasone e un occhio
lucido dal pannello di legno e senza dire una parola assume un’aria interrogativa
come…” eddai che burloni che siete!”…. Il presidente aggrotta il ciglio unico e
sussurra roco “ non si distragga!”. Salvatore improvvisamente si sente le gambe
molli. I tre, vicini, ma terribilmente soli si sentono prigionieri di un labirinto. Come
Arianna vorrebbero un filo in aiuto, terrorizzati come sono dal mostro cartaceo.
Nessuno più’ pensa al bene del paese, tutti e tre vorrebbero piegare quel plico e
fuggire lontani, tutti e tre vorrebbero un sindaco che alle prossime elezioni gli
presenterà un foglietto con due nomi in grassetto corpo 18 e una scritta che dice:”
Metti una croce sull’uno o sull’altro! e poi piega in due!”
Le cartiere della zecca di stato hanno dato un giorno di riposo agli addetti, mentre i
fornitori di cellulosa a fine maggio andranno in crociera.
Ha vinto lo schieramento politico che aveva tra i suoi elettori quelli che alle
elementari sapevano fare meglio gli aeroplani di carta.
Origami per tutti!
221
I Giovedì di Scrittura Fresca
DIABOLICI DISEGNI
scritto da: Bobboti
I figli domandavano ai padri il perché di quell’arsura nella tanca crepata; le nuvole
sostavano, novembrine, sopra i piccoli branchi belanti di sete. Ma non pioveva.
Gli agnelli chiedevano latte alla pecora asciutta, il capraio raschiava anche le pietre.
E tutto era giallo: anche le facce dei bambini, gli ulivastri, le acque del mare.
E c’era odore di morte, in paese, con gli uccelli neri che modulavano versi stridenti,
nel cielo, per la fretta di mangiare.
Allora chiamarono Tia Badora, dal paese vicino, per fare la magia contro Brusore
Siccagno, il diavolo puzzolente della siccità.
Tia Badora, col corno di muflone e la sua piccola croce di legno di salice, giunse a
Berruìle all’alba di un giovedì.
Non parlò con nessuno, neppure con prete Basile che era il padrone di tutto - anime e
grano, balzelli e contadini -. Si sistemò nella piazza grande, sulla seggiola di sughero
fatta a mano, e per un giorno intero guardò verso i luoghi dell’aria che sembravano
più lontani. Col corno tracciava strani segni nel vuoto e diceva parole piccole, ferme:
“ru, aisè, trubà, su gò”. Interamente coperta dallo scialle, s’intravedevano solo le
ciglia serrate sugli occhi, faceva un po’ paura, come il bobboti nelle notti d’estate.
Dopo venti ore si alzò in piedi. Tenendola con la mano sinistra, mostrava la piccola
croce in tutte le direzioni, e sputava, rabbiosamente bestemmiando, mentre guardava
verso l’alto.
Subito un lampo di rosso segnò il cielo e si udì un muggito assordante che bucava le
orecchie.
Lei andò via, silenziosa come una lumaca, stanca e piena di tristezza, senza mai
voltarsi nel suo cammino.
E allora cominciò a piovere. Piovvero gocce benedette, di quelle che bagnano in
fretta. E molto.
Troppo.
Dopo un mese la dovettero richiamare per fare la fattura contro l’acqua cattiva.
Badora Manai arriva a Berruìle verso le otto di sera. Il cielo è nero come il tormento.
I vicoli intorno alla chiesa sono ruscelli che trascinano a valle sporcizia e preghiere.
Si sente solo il rumore dell’acqua, la litania di interminabili rosari, il pianto
sommesso di un bambino, l’invettiva di una donna che urla “io me ne vado”.
Badora non ascolta, tira dritta verso la piazza principale. Giunta sotto la quercia
secolare, raccoglie tredici sassi e un numero imprecisato di rametti dritti. Uno lo
stacca dall’albero. Con questo disegna per terra un cerchio. Dentro il cerchio dispone
le pietre e i legni, con cura, fino ad ottenere una strana geometria.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
_ __ _______ |
|____ ___ ___--_|__
|___| __ ___ __ |
|_ _|__ __+____ |
| _| _____|__ __ |
|___ ____ |__ __ |
|__|__|_ ____|__
Apre un piccolo sacchetto di iuta, che ha tenuto al riparo sotto lo scialle, e rovescia il
contenuto al centro del quadrato irregolare, in corrispondenza di una piccola croce.
Sei carramerda cominciano a zampettare. Ognuno ritrova la sua palla di sterco e
ognuno cerca la via d’uscita, facendo rotolare le piccole sfere fra gli ostacoli di quella
prigione. Badora guarda, immobile. E pronuncia ripetutamente una frase: “Essinde a
pizzu, de grodde su fizzu”. Passano molti minuti, prima che uno stercorario riesca a
trovare la direzione giusta.
In quel momento, Badora solleva la testa e guarda verso le nuvole. Improvvisamente
cessa di piovere. Rimette tutto nella sacca e, con passo deciso, prende la via del
ritorno verso il suo villaggio.
La mattina dopo, Bachis Barui, mentre all’alba si reca ai suoi campi per valutare i
danni dell’alluvione, scopre che don Basile si è impiccato. Quando vede il corpo del
canonico che penzola dal ramo più grosso della quercia grande, il contadino sorride al
sole che sta nascendo dietro Monte Pitzinnu. In quel preciso istante anche Badora
Manai sorride, guardando nella stessa direzione.
Nonostante l’ora, fa già caldo.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
ER LABBIRINTO
scritto da: Brizgraz
Giri e riggiri, senza direzzione,
rincori tutto er giorno 'na chimera,
e nun te renni conto, quann'è sera,
che t'è rimasta solo l'illusione
d'esse riuscito a annà da quarche parte...
La vita è un labbirinto e all'occasione
quanno er destino mescola le carte,
capischi che la strada che hai percorso,
nun era giusta e resti cor rimorso.
Ce vorebbe 'na guida premurosa,
che ce prenna la mano e piano piano
ciaccompagni all'uscita der pantano,
che ce faccia capì quarsiasi cosa,
persino ar buio quanno nun se vede...
'Sta luce guida tanto generosa,
quarcuno ce l'ha già: se chiama Fede!
Chi invece come me nun è convinto...
je tocca brancolà ner labbirinto.
224
I Giovedì di Scrittura Fresca
LABIRINTI BAMBINI
scritto da: Leone
Non ce l’ho neppure più tanto bene in testa il sogno della principessa Dorina, forse
neppure Dorina si chiamava e il suo nome era Maria o era solo una donna ma vestita
di giallo. Abitava in una casa grande, di questo sì sono sicuro, non alta come un
castello, larga piuttosto, con due torrette, una che si elevava dal corpo di stanze l'una
nell’altra a piano terra, l’altra che si protendeva, adagiandosi in larghezza, i lati
minori ad est e ad ovest, verso sud.
Viveva lì Dorina muovendosi tra scale e locali, apparendo improvvisamente ora dalle
vetrate colorate a nord, ora rientrando quasi furtivamente da una porta di ferro ad est,
ora la vedevo spalancare persiane a sud.
Ma erano attimi, pochi passi veloci e di nuovo in casa, era lì che passava il suo tempo
ad aspettare. Io non ricordo se lei sapeva chi o cosa stesse attendendo ma sono certo
che voleva qualcosa che fuori non trovava o forse non cercava.
Era tranquilla la principessa che cuciva, preparava il pranzo e la cena, leggeva e
ascoltava una musica, che lei solo sentiva perché sorrideva.
Però, poi, sull’uscio di una delle vetrate colorate di verde trovava un pupazzo vestito
di blu. Lo guardava, lo sollevava, lo rigirava, lo esaminava per bene. Mi piace,
decideva, lo prendeva, lo portava in una casa torre tutta per lui, lo metteva nella culla
che era stato il suo letto da piccolina e continuava a cucire, preparare pranzo e cena,
leggere, muoversi nella sua casa grande, sentire la musica della sua testa ed essere
felice finché quel bambolotto non incominciava a piangere. La principessa, che non
sapeva cosa fare, chiamava la regina la quale lo cambiava di vestito e colore, gli dava
da mangiare, cantava una ninna nanna e il pupazzo diventava una bambolina che
dormiva. La regina se n’andava, ma poi la bambola di notte si svegliava al buio e
allora gridava e la principessa, che strilli non poteva sentire, chiamava una damigella
e fuggiva nei labirinti sotto casa. Anche da lì, però, sentiva la sua bambolina piangere
e quindi scappava fuori nel buio e, siccome brillava come una lampadina, la sua luce
le indicava la strada. Continuava a camminare, correva lontano e arrivava alla
caverna di un drago verde e giallo con gli occhi rossi che la mangiava con la sua
bocca grande.
Ma il drago era cattivo e diceva “non te, non solo te” e succhiava anche la bambolina
che aveva la mia faccia.
225
I Giovedì di Scrittura Fresca
LABIRINTI
scritto da: -VaanAi confini
scorro
questo viaggio
tastoni, muro a muro, fra cuori
e pareti scolorite nel vivo
volo
da queste sinapsi di rebus
giunto, ad un arco di conquiste
che sembrano fallimenti
osservo i miei affetti
non prima
dell’esatta proporzione di tutti i solchi
che hanno fatto strada
al numero irrisolto dei miei volti in uno
e sono felice
se stasera dico di una cosa inutile la sua luce.
in questi labirinti risuona una canzone
è il mio sud che si muove quanto mi basta adesso.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
ER LABBIRINTO, FABBRÌ (indegna risposta)
scritto da: Doremì
Certo Fabbrì, che come l'hai dipinto
tale e quale a la vita ntorcinata
me casca propio a cecio er labbirinto
che l'uscita pe' mo' nun l'ho trovata.
La fede nun cellò, perciò me tocca
tenemme tutta questa confusione
annà de quà e dellà come n'allocca
ogni tanto cambianno direzzione
D'artra parte ogni tanto n'aioletta
uno la trova, siede e un po' rifiata
poi n'artra vorta na stradella stretta
e n'artra ancora, ma nun so' arivata.
Ma si ce penso, spero d'aggiramme
drento a sto labbirinto che è la vita
un ber pochetto ancora e de trovamme
più tardi che se po' verso l'uscita!
227
I Giovedì di Scrittura Fresca
TRA TUFI E PIETRE
scritto da: Quella
Nunziatina era stata la cognata zitella di mia nonna, quella che viveva fino all'ultimo
con i genitori e prima o poi, alla loro morte, veniva annessa alla nuova famiglia di
uno dei fratelli.
Così, nella grande casa della nonna, c'era la Stanza di Zia Nunziatina. Come le altre,
si apriva sull'androne di disimpegno al termine dello scalone di marmo. Anche
quando la presenza familiare di quella donna anziana, sottile, silenziosa, garbata e
nera dalla testa ai piedi non era più che il ricordo, ormai, della vecchiaia, la stanza
restava sempre, di estate in estate, quella di zia Nunziatina. Tra tutte, quella era la
stanza dalla pianta più regolare, in una casa fatta di anfratti, rientranze, aggetti e
dislivelli.
Là dormivo io nelle vacanze, in quella stanza monacale con le pareti imbiancate a
calce, il cassettone e il letto di noce e le mattonelle fresche di graniglia.
Ma le cose che più mi piacevano, a parte la solitudine di una stanza tutta per me da
non dividere con una sorella, in una casa senza genitori tra i piedi, erano i due armadi
a muro smaltati di bianco, uno dei quali adibito a contenitore di segreti, e la porta
finestra suddivisa in tre finestrelle più piccole, ognuna con ante proprie, la più bassa
delle quali era posta quasi a rasoterra e invitava a sgusciare sulla veranda aperta al
sole di cemento come in una casa delle bambole.
Nell'armadio dei segreti, sollevato a un metro da terra, gli scaffali all'interno
formavano complicati cunicoli dove il braccio si doveva avventurare alla cieca per
rinvenire i tesori celati. Lì, in quelle vacanze ''da sola'', ficcavo i fotoromanzi e le
sigarette, le mie ultime novità nella vita.
La controra troppo calda per qualunque attività da cristiani, quando tutto si fermava,
era il momento ideale per concedermi queste letture e immedesimarmi,
evidentemente, in quelle signorine bionde, rosse e permanentate, nei loro sguardi
sognanti, accigliati, ma più che altro tragici, imploranti quanto accusatori mentre
fissavano uomini anch'essi sofferenti nonostante quelle zazzere lucenti e voluminose
piallate a phon. A dispetto di tutte le loro incomprensioni, le corna, gli intrighi e i
contrasti, gli altalenanti umori si ricomponevano nell'ultima puntata in sorrisi
splendidi di amore eterno, i profili di lei e di lui stretti nelle camiciole aderenti di
terital dai colletti sproporzionatamente lunghi e appuntiti e nessun abbraccio
scompigliava mai quelle cofane perfette che si portavano in testa. Un giorno,
pensavo, anch'io mi sarei fatta una testa così e avrei avuto una vita degna di quella
testa.
In tal modo rinfrancata nello spirito e rifornita di quelle sigarette che nelle storie di
Grand Hotel producevano effetti fumé che muovevano l'atmosfera congelata dei
fotogrammi più intensi, passavo nella grande veranda aperta, inondata da una luce
abbacinante riverberata dalla gettata di cemento. Era impossibile stabilire una
geometria in quel labirinto di case tra le quali la veranda, esposta a sud, si incastrava.
228
I Giovedì di Scrittura Fresca
Su uno dei quattro lati, nascosta dal parapetto in muratura, correva una scala scoperta
che portava (ma da dove partiva?) a un'altra casa addossata al tetto di quella di mia
nonna. Sul muro perpendicolare al parapetto della scala si aprivano due finestre,
molto in alto però, ed era impossibile capire come si accedesse a queste case
incastrate una nell'altra. Le persone che animavano quelle scale invisibili e le finestre
lassù in alto avevano solo voci. Le vite nascoste, eppure pubbliche, mi regalavano
commedie radiofoniche in diretta all'aria aperta. Mia nonna parlava con loro, con le
voci, e le voci facevano altrettanto, senza mai vedersi, dirimpettaie anomale
scombinate dalle quote diverse, dal groviglio urbanistico e dai paraventi di tufo
generati nei secoli dei secoli.
Per sfuggire all'invadenza del sole e dei vicini, mio cugino aveva studiato un metodo
che restò infallibile fino a che non fui beccata da una dirimpettaia, spia di professione
al soldo di mia nonna. Bisognava cioè scavalcare il parapetto e buttarsi nel terrazzino
dei due Vecchi Morti che faceva angolo con la terrazza di mia nonna, sul lato che
dava sulla strada. Poiché l'anno prima questa coppia decrepita era passata a miglior
vita e nessuno si era curato di chiudere definitivamente le imposte, l'accesso al primo
piano della casa abbandonata era garantito a noi giovani fumatori minorenni in cerca
di pace colpevole e fresche mura, a patto che avessimo tentato il salto nell'ora in cui il
vicinato sempre all'erta si ritirava nel sonno pomeridiano e non fossimo volati giù
rompendoci il collo e tutto.
Avevano un sapore strano quelle sigarette, fumate in questa stanzetta avventurosa in
cui aleggiava l'odore della muffa e la paurosa ombra della morte, ché quei due
vecchietti, in vita, erano stati un po' il nostro spauracchio, quando, sbucando dalla
stanza sempre buia, ci parlavano dal loro terrazzino. Sicché le ultime tirate, che non
toccavano i polmoni per imperizia, erano velocissime stantuffate e il ritorno alla
veranda da quella specie di cripta rialzata, una vera e propria fuga in territorio sicuro.
Angelica, mi ripresentavo al cospetto di mia nonna che mi preparava la frisella per
merenda.
La cucina, a nord, era lunga e stretta e aveva anche lei il suo angolo di meraviglia. In
fondo, una finestra si affacciava su un budello, che mai, dalle strade esterne, dove era
facile perdersi, riuscii a rintracciare, tra le intricate maglie arabe su cui si dividevano
ma più spesso accavallavano le case di tufo bianco. In punta di piedi mi aggrappavo
alle grate di quel mondo che sembrava esistere solo attraverso questa finestra,
incomprensibilmente irraggiungibile da altri sbocchi, strettamente popolato da due
famiglie povere e piene di bambini di ogni età. Lì mi perdevo in quel teatrino di suoni
sgraziati e bellissimi, di risate, di urli e di pianti di neonati, di bambini scalzi sul
lastricato perfettamente lucido della grigia pietra di Trani. Il vicolo era come un
prolungamento aperto di casette di per sé minuscole e sovraffollate, pulito e vivace
come gli interni, privo di ogni diaframma con questi nelle funzioni e nell'intimità.
Il vicolo odorava di acqua e sapone di Marsiglia.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
230
I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Otto 02 Giugno 2005
Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati?
Hanno partecipato:
Ettore Bilbo
Quello che vede il sole
Alessandro Gabriele
Luna Indiana (un’estate del 90)
dareios
Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati?
rana fritta
Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati?
Nicola Martini
Potrà l’estate rimettere tutti i peccati del
Martini?
fucsia
Playboy
Dario Carta
Potrà l’estate rimettere tutti i nostri peccati?
Brizgraz
La cicala peccatrice
Doremi
Il tempo discontinuo
Punto Mosso
Coincidenze
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I Giovedì di Scrittura Fresca
QUELLO CHE VEDE IL SOLE
scritto da: Ettore Bilbo
Dopo aver definitivamente risolto il caso l’ispettore Giuliani si portò ai margini del
campo di mais. C’era una grossa quercia in mezzo al sentiero che li aveva condotti
fin lì, che nessuno evidentemente s’era sentito di tagliare. Un albero veramente
magnifico, disse al carabiniere che lo accompagnava, poi si accese una sigaretta e
guardò il fumo salire verso il cielo come una preghiera di redenzione, una preghiera
già macchiata del peccato originale.
Giuliani aveva seguito la pista, come ogni altra volta e come ogni altra volta aveva
sperato in un epilogo diverso, ma si rendeva conto che lavorando nella omicidi di
finali, come sperava di vederne, ne accadevano ben pochi. Il corpo di Maddalena era
stato trovato in mezzo al campo. Il rigor mortis aveva costretto il corpo in una posa
quasi fetale, con le ginocchia sotto il mento e le braccia conserte. Sembrava che il
cadavere avesse un gran freddo ed invece si era in luglio. Trentasei gradi e non un
filo di vento che lenisse la disperazione del caldo. Trentasei gocce di sudore che si
accatastavano sulla pelle in un peso opprimente, trentasei pugnalate che sventravano
la carne.
Uno sconfinato spazio davanti agli occhi ed un orizzonte fluttuante, che mischiava i
pochi movimenti delle foglie alla distorsione ottica dell’aria calda che saliva, ed in
mezzo a quel mare, con le sue onde immaginarie, un cadavere a porre la parola fine
su quella storia cominciata tre giorni prima…
La famiglia Benvenuti era tornata in città da poco, per via d’una promozione sul
lavoro d’Ernesto Benvenuti, il padre di Maddalena; questo era stato detto a Giuliani
prima di presentarsi alla residenza in via Ortica. Del resto venne a conoscenza sul
posto, interrogando i familiari. La sua presenza era richiesta per prassi anche se non
si trattava ancora di un caso di omicidio. Precauzione diceva sempre il suo capo.
Maddalena era scomparsa da due giorni, nessuna notizia, nessuna richiesta di riscatto.
Stando alle parole del padre e della madre la ragazza si sentiva bene a casa, era a suo
agio nella città che non vedeva da quindici anni ma che, comunque, conosceva per
averci passato l’infanzia. Nessun nemico e nemmeno tanti amici, solo una coetanea
conosciuta il mese prima in università, dove aveva appena ripreso le lezioni dopo il
trasferimento. Il fratello di Maddalena, più piccolo, stava svolgendo il servizio
militare e di lì a pochi giorni, se non ci fossero state notizie, gli avrebbero concesso
un congedo temporaneo per raggiungere la famiglia.
Giuliani si fece dire il nome e l’indirizzo dell’amica.
Si recò in Via De Amicis immediatamente, al numero ventisei dove alloggiava
Alessandra Bellocchio, l’amica di Maddalena. L’appartamento era il classico buco da
studente. Vi albergavano in tre; tre ragazze tutte di ventisei anni. Alessandra ed Elena
erano studentesse. Marta lavorava, invece, già da un anno.
232
I Giovedì di Scrittura Fresca
Tutte e tre conoscevano Maddalena sebbene l’amicizia più intima fosse con
Alessandra. La ragazza visitava il loro appartamento molto spesso e la sera uscivano
assieme, per lo più frequentando bar serali e discopub. Maddalena aveva introdotto
nel gruppo l’abitudine di fare l’aperitivo ed erano riuscite a trovare un locale poco
distante dove si poteva mangiare qualcosa di caldo mentre si beveva un cocktail od
una birra gelata. A prima vista il loro sembrava essere un gruppo di quattro ragazze
normali, senza nessun problema fuori dell’ordinario. Era per l’appunto in quel locale
che le tre ragazze avevano visto Maddalena l’ultima volta: al Mohito bar.
Il proprietario del Mohito era un uomo sulla cinquantina, vestito alla moda, con uno
stile decisamente più giovanile della sua età. Giuliani ebbe l’impressione che volesse
apparire simpatico a tutti i costi. Inconvenienti della divisa. Gli domandò se
conosceva Maddalena Benvenuti e l’uomo rispose subito di sì, che era una delle
ragazze più carine che frequentavano il posto, che veniva spesso in compagnia di tre
amiche. Si ricordava bene dell’ultima volta che l’aveva vista perché era solo tre
giorni addietro e le ragazze avevano bevuto un po’ troppo. S’erano messe a ballare
sui tavoli, raccontò il proprietario, e non c’era verso di farle smettere di ridere.
L’uomo disse anche di non aver cercato di fermarle più di tanto perché non era una
serata molto movimentata e poi, quattro ragazze giovani e belle come loro, erano una
delizia da vedere. Senza malizia, precisò subito, sono un uomo di cinquantatré anni,
sposato e con due figli, ma le cose belle le so ancora riconoscere. Poi l’uomo si lasciò
andare in un ampio sorriso cercando di conquistare Giuliani. Forse anche un po’
imbarazzato per paura d’essere frainteso. L’ispettore si concesse solo una smorfia.
Il secondo giorno d’indagini iniziò com’era finito il primo, senza nessun indizio
particolare, solo altre testimonianze di quanto Maddalena fosse una ragazza simpatica
e benvoluta, e del fatto che non avesse né motivo di fuggire, né amicizie “pericolose”.
Giuliani cominciava a preoccuparsi: questa mancanza d’indizi aveva di per sé un
valore importante. Lo conduceva verso una strada che non avrebbe voluto percorrere,
soprattutto per i genitori della ragazza. Si decise comunque a diramare una fotografia
di Maddalena verso gli ispettorati delle città limitrofe, fece seguire la fotografia dalla
didascalia: ragazza scomparsa.
Fu solo nel pomeriggio di quel giorno che arrivò la notizia. Una ragazza senza vita
era stata ritrovata in un burrone, poco distante dalla città, sembrava corrispondere
all’identikit di Maddalena. Giuliani si precipitò sul posto.
Sul fondo della scarpata si intravedeva un bozzolo giallo, un telone sotto al quale
stava il cadavere. Così lo aveva coperto la scientifica, nell’attesa del medico legale,
mentre compiva il proprio lavoro cercando di leggere segni improbabili sul terreno
circostante. Il corpo era stato gettato dalla cima ed era poi rotolato fino a valle.
Giuliani fu costretto a compiere un ampio giro per raggiungere il resto della squadra,
perché lungo il declivio principale erano stati messi dei pali a proteggere le eventuali
prove.
Il padre di Maddalena arrivò frenando appena in tempo con la propria BMW grigia.
Piangeva ed urlava chiedendo di poter vedere la figlia. Giuliani si domandò chi lo
233
I Giovedì di Scrittura Fresca
avesse avvertito prima ancora che la ragazza fosse identificata da lui. Imprecò contro
quell’assurda mancanza di tatto e si lanciò sull’uomo, incontrandolo a mezza discesa
per bloccarlo col proprio corpo. Gli disse di aspettare e Benvenuti accettò a capo
chino, esausto dopo la forte emozione.
Arrivò anche il medico legale e Giuliani lo accompagnò fino al corpo. Un ultimo
rivolo di sangue si insinuava da sotto il telo e zigzagava attraverso piccoli sassi,
morendo poi disseccato tra la terra arsa dal sole. Il corpo era stato gettato poco dopo
la morte quindi, forse ancor prima dell’ultimo respiro.
Scostò il telo. Il padre della ragazza, non ebbe la forza di aspettare un’inutile
responso e si avvicinò inosservato con la morte negli occhi, ma le parole che gli
uscirono di bocca sorpresero anche lui. Non era lei, disse, non era lei, anche se le
somigliava.
Veronica, una ragazza alta e bruna, vita snella, un tatuaggio sull’avambraccio destro
simile ad un bracciale e degli occhi marroni dai contorni languidi, guardava di
traverso Giuliani dalla fotografia appoggiata sul piano del tavolo. Era uno scatto
dell’estate precedente; mostrava la ragazza con una mano tra i capelli ed il viso di tre
quarti rivolto verso l’obiettivo.
Giuliani decise che la pausa di silenzio poteva concludersi lì. Distolse lo sguardo
dalla fotografia, sulla quale erano incollati anche gli sguardi dei due genitori, e
domandò subito se la figlia avesse conosciuto qualcuno negli ultimi giorni, qualcuno
di nuovo, o di strano. Gli risposero che no, nulla era cambiato delle solite abitudini
della ragazza.
L’ispettore aspettò che il pianto sugli occhi della madre si asciugasse, anche se
sapeva che lacrime di quel genere avrebbero lasciato una macchia indelebile sulla
pelle. Si disse d’essere abituato ormai, ma l’ombra di un sottile senso di colpa lo
percosse dentro lo sterno. Il cinismo non lo aveva mai aiutato in realtà, e per quanto
dovesse apparire freddo e lucido, vi era una sorta di dolore personale a guidarlo.
Giuliani estrasse dalla tasca una busta di plastica sigillata. Era trasparente e ne mostrò
il contenuto ai due che aveva di fronte. Si trattava di un biglietto scritto a macchina il
cui testo recitava: “Nella gola tagliata degli inferi si nasconde, quando ancora il
sangue bagna la barba della terra. L’occhio lucente di Dio è l’unico a poter vedere lo
scempio. Nella casa del signore la santissima trinità avrà giudizio”.
Il padre di Veronica lesse ad alta voce, come già aveva fatto quello di Maddalena,
con il medesimo risultato: il testo non aveva alcun senso alle sue orecchie. L’uomo
domandò cosa fosse e Giuliani rispose che era stato trovato addosso alla figlia. La
madre riprese a piangere, mentre il padre diede voce al pensiero comune.
Un pazzo dunque, disse reprimendo un singhiozzo carico di tensione. Giuliani rispose
che era probabile, a questo punto. Raccontò loro la storia di Maddalena, potevano
esserci delle affinità tra i due casi. Il biglietto suonava come una poesia od un enigma
ed, in effetti, l’ispettore credeva che la gola tagliata fosse il burrone nel quale era
stata trovata Veronica. Evitò d’aggiungere che anch’essa aveva la gola aperta da una
lama.
234
I Giovedì di Scrittura Fresca
Quando uscì dalla casa la luna era già alta. Piena di luce gialla. Gravida di cattivo
presagio pensò l’ispettore, riferendosi però alla sua mente. Scacciò i pensieri e cercò
di ragionare. Se l’assassino di Maddalena aveva lasciato un indizio, quella specie
d’indovinello, allora era davvero probabile che si trattasse di un omicida seriale.
Veronica era troppo somigliante a Maddalena per essere un caso: lo stesso colore di
capelli, la stessa corporatura, la stessa età. Era scomparsa pressappoco lo stesso
giorno di Maddalena anche se i genitori non avevano dato peso alla sua assenza; era
una ragazza vivace avevano detto, spesso si dileguava qualche giorno in compagnia
di amici. Amava viaggiare e capitava che lasciasse solo un biglietto, o neppure
quello, tornando dopo pochi giorni piena di regali per i genitori. Lavorava come
Copyrighter in un’agenzia pubblicitaria ed economicamente non aveva problemi.
Ancora una volta nessun indizio tangibile cui aggrapparsi. Veronica non conosceva
Maddalena, avevano amici differenti, ed oltre alla somiglianza Giuliani non riusciva a
trovare punti di contatto. Gli servivano luoghi o persone invece, dei nodi, delle
congiunture che spiegassero come il possibile assassino le avesse unite nei suoi
disegni.
La mattina del terzo giorno, l’ispettore si svegliò di buon mattino. Solo l’occhio
lucente di Dio poteva vedere. Il sole! Solo dall’alto si poteva vedere lo scempio. Solo
da lassù, da quel cielo terso dell’estate torrida. Ma quale fosse la barba della terra
neppure la notte aveva saputo dirglielo.
Telefonò in centrale, chiedendo ad un elicottero di sorvolare la zona. Poi si recò
nuovamente dai genitori di Maddalena. Il signor Benvenuti lo accolse fingendosi di
buon umore. Il fatto che la ragazza nel burrone non fosse la figlia lo aveva sollevato,
cercava di convincersi che era un buon segno, ma rimaneva conscio del fatto che
portava le indagini in una direzione scabrosa. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie e
cantare una nenia. Come da piccolo. Giuliani chiese di poter salire nella stanza della
ragazza anche se già i suoi colleghi vi erano stati senza trovarvi nulla di utile. Aveva
bisogno di conoscere Maddalena più a fondo, arrivare dove neppure i genitori
sarebbero potuti giungere.
La stanza era abbastanza grande, arredata in maniera semplice senza un eccessivo
gusto. Non diceva molto della ragazza, in effetti. Niente disegni alle pareti, né poster.
Solo la stampa di un quadro di Magritte. Sul letto mancavano i classici pupazzetti.
Maddalena a detta dei genitori era una ragazza seriosa e non amava certe abitudini
fanciullesche. Passò ai cassetti. Quelli del comodino rivelarono soltanto oggetti d’uso
quotidiano, nell’armadio invece vestiario estivo: gonne, magliette, abiti da sera non
particolarmente eleganti ma di buon gusto. Giuliani guardò sotto il letto. Nulla,
neppure la polvere, perché la madre continuava a fare le pulizie nella stanza ogni
giorno. Cercò di immaginare dove una ragazza come Maddalena potesse tenere i
propri segreti, sperando che non fosse una di quelle poche persone tanto furbe da
tenerli soltanto nella propria testa. Chiese dove fossero i vestiti invernali ed i genitori
lo portarono in uno sgabuzzino nel sottotetto. Là, dentro due armadi incassati nel
muro, stavano maglioni e giacche accatastati a sandwich assieme a tonnellate di
prodotti anti tarme. L’ispettore provò a frugare con le mani oltre quel muro di lana.
235
I Giovedì di Scrittura Fresca
Tastò a lungo la parete posteriore del primo armadio e poi del secondo, fin quando
sul volto non gli si dipinse un aria svagata, piena di mal simulata eccitazione. Aveva
trovato qualcosa.
Quando si mise in contatto con l’elicottero già sapeva dove farlo dirigere, quello che
non sapeva era cosa avrebbero trovato in quel luogo i suoi uomini. Ma prima doveva
andare da un'altra parte.
Entrò nel Mohito bar a passo spedito. Franco era il nome del proprietario e Giuliani si
sorprese ad urlarlo con forza. L’uomo sopraggiunse spaventato spuntando da dietro il
bancone. Chi sono? Chiese l’ispettore senza neppure salutare.
Franco lo guardò con aria interrogativa. Cosa c’entrava quella fotografia che gli
veniva mostrata? Dove l’aveva trovata Giuliani?
L’immagine ritraeva Maddalena e Veronica assieme, sorridenti, sedute ad un tavolo
del Mohito. Con loro una terza donna: una suora. Anche Franco riconobbe Veronica.
Disse che frequentava il locale solo poche volte e che si ricordava bene la sera in cui
quella foto venne scattata, l’aveva fatto lui stesso. Maddalena era venuta da sola e
così anche Veronica immaginava. No, le due ragazze non si conoscevano. Aveva
fatto da catalizzatore suor Maria che s’era messa a suonare la chitarra. Fuori pioveva
ed entrambe le ragazze non sembravano di buon umore, così la musica di Suor Maria
le aveva attirate allo stesso tavolo.
Giuliani chiese dove fosse Suor Maria, se sapeva come rintracciarla. Il proprietario
del bar sembrò allarmato ma disse lo stesso che, ovviamente, sapeva dove trovarla;
non sono molte le suore che frequentano certi locali, tranne quando sono le sorelle del
proprietario.
La madre superiora non sembrava incline ad aiutarlo. Era restia a rispondere alle sue
domande. Solo quando Giuliani divenne rude e la spaventò questa acconsentì a dirgli
dove potesse trovarsi suor Maria. Quella era l’ora della preghiera: nella cappella per
cui. Giuliani corse verso il corridoio centrale del convento, la superiora aveva detto di
andare sempre dritto fino in fondo e poi entrare nella porta a destra.
Correva senza saperne il perché, sentiva dentro di sé che non aveva più tempo, che
qualcosa stava per chiudersi alle sue spalle inesorabilmente. Un cerchio aperto chissà
quando di cui nemmeno conosceva il contenuto, lui aveva solo viaggiato attorno al
perimetro sfiorando verità che si celavano troppo profonde per venire scorte. Solo più
tempo, solo ancora un po’ di tempo per capire, per non lasciarsi sfuggire anche questa
volta la verità sotto al naso. Solo per avere qualcosa da raccontare ai genitori di
quelle due ragazze e non lasciarli semplicemente nella disperazione. Un motivo,
questo stava cercando, un motivo qualunque per comprendere tanta violenza.
Suor Maria non era nella cappella. Tutte le sorelle si erano alzate assieme, di scatto,
all’entrare dell’ispettore e parlottavano tra loro incuriosite come tante stupide galline,
pensò Giuliani, Parlate voleva urlare, dov’è Maria, dov’è? Eppure sembrò che non
una si fosse accorta della mancanza della donna, sembrarono stupite della loro stessa
poca accortezza.
La cappella ad una sola navata era lunga una decina di metri, con una fila centrale di
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I Giovedì di Scrittura Fresca
panche e l’abside sul fondo. Il santissimo non era esposto naturalmente, stava ben
chiuso dentro al tabernacolo che lo proteggeva dal sole di quell’estate sempre più
rovente. I raggi si riflettevano sulle rifiniture in oro dell’altare e accecavano Giuliani
che guardava in quella direzione, quasi chiedendo conforto.
Il sole, certo. Lo scempio si vede solo dall’alto. Solo dal cielo si può vedere tutta la
verità, quando sulla terra noi navighiamo come poveri ciechi. Giuliani chiese alla
suora più vicina quale fosse il luogo più alto del convento. Il campanile, gli venne
risposto dalla suora, che indicò una porticina sul lato della cappella. L’ispettore corse
ancora, e dietro a lui tre carabinieri giunti con una volante dalla centrale. Gli scalini
salivano ripidi entro i confini angusti della tromba delle scale. Poi lo spazio si
rimpicciolì ulteriormente e rimase solo una scala a chiocciola di pietra che si
avvolgeva attorno ad un pilastro portante. Infine giunse sulla sommità e varcò una
porta se possibile ancor più piccola di quella dalla quale era entrato. Ebbe appena il
tempo di vedere una saetta nera dietro alla campana sfiorare il cielo. Poi un urlo. Poi
un tonfo. Poi silenzio, solo l’affanno dei carabinieri rimasti indietro, sulle scale.
Giuliani stava guardando il corpo di Suor Maria accasciato al suolo. Dal campanile,
quando aveva guardato di sotto, gli era sembrato soltanto un punticino nero affogato
nel verde. Si rese conto che non aveva trovato quello che andava cercando. Se suor
Maria si era uccisa questo significava, con tutta probabilità, che il cerchio si era
effettivamente chiuso senza che lui potesse afferrarne il senso. Ma ora aveva tempo…
anche se tutto il tempo del mondo non sarebbe bastato ai signori Benvenuti né ai
Rossetti, i genitori di Veronica.
Guardò, mentre lo stringeva fra le mani, il raccoglitore che aveva trovato
nell’armadio. Era pieno di fotografie che ritraevano Maddalena fin dall’infanzia. Dal
bordo spuntava ancora la foglia che segnava la pagina in cui aveva trovato la
fotografia che la ritraeva con veronica e suor Maria. Era tutta rinsecchita ma si
distinguevano ancora i filamenti che compongono la barba della pannocchia del mais.
Quando arrivò la telefonata dall’elicottero, Giuliani rispose parlando a monosillabi,
sì, sì, mm, va bene. Molto di più dicevano i suoi occhi che s’andavano arrendendo a
quanto già sapeva.
Chiuse la chiamata dicendo che stava arrivando.
C’era ancora una storia che univa quelle tre donne, tutta da scoprire, eppure il caso
era risolto, nella camera della suora il carabiniere aveva trovato vestiti sporchi di
sangue ed una piena confessione. Ho ucciso Maddalena e Veronica, firmato, punto.
Quanto bastava. Ma a chi? Non alla sua colpevole innocenza di uomo.
Non fece in tempo a sentire il carabiniere rimasto sul campanile, Giuliani era già
risalito in macchina. Era un giovane appuntato dai capelli rasati, con un velo di peletti
sopra le labbra a fingere dei baffi che ancora non c’erano. Disse: “Signor ispettore, ho
trovato, è tutto quassù, tutto. La spiegazione!”.
Ma la sua voce si perse nell’immensità del cielo e nel calore dell’aria.
237
I Giovedì di Scrittura Fresca
LUNA INDIANA (un'estate del 90)
scritto da: Alessandro Gabriele
Guardo il Baba naufrago alla fine della sua passeggiata mattutina, un vecchio
bellissimo che cammina tutto storto come sulle fiamme di una probabile artrosi. Ha
l’aspetto sorridente di uno scampato a una teoria infinita di disastri materiali, vestiti
stracciati tenuti su da una corda grezza di fibra di cocco, due dita mancanti alla mano
sinistra e una specie di buco profondo rimarginato a lato dell’ombelico. Qualcuno gli
ha strappato le viscere chissà quando. Eppure ha due occhi come soli tropicali che
scaldano ancora molto dopo che il tuo sguardo si è perso dietro l’India sfuggente a
lato.
Se ne sta in piedi tra le palme e la spiaggia, con le mani sui fianchi e il barbone
bianco che svolazza leggermente. Lo vedo girare lentamente su se stesso, spingere lo
sguardo verso l’orizzonte, considerare prospettive, respirare venti, formulare pensieri
ignoti, forse definitivi, chissà se giusti e maturi, privi di rimpianti, così pare, che senta
questo sollievo, lui spiaggiato ora tranquillo ai piedi della sua esistenza, io sfuggito
alla mia estate che odio, se la penso così squarciata brevemente nel corpo di una
madre lavoro necessaria come una spada nel braccio che non sente più. Aggiungo,
Baba, amore per il ciclo di questa vita che ci manda in giro come palline da
ammaestrare nel gran gioco dell'infinito.
Mi osservo scrivere fintopoeticamente di una realtà che mi scavalca come una rampa
per traffico superveloce, buona solo per sentirne il rumore fastidioso di gas espulso,
l’attrito di ciò che sogni e non si trova, si trova, il peccato semplice di rintracciarla in
te, la Visione, l’imprecisione delle forme degli uomini. Di questo scrivi come un
invasato, senza meta e senza costrutto, in braccio a Goa facile e avvolgente, in mezzo
all’India putrida alla tua vita di transito senza un centro, spessa come un fantasma,
semplice come un amore platonico e irrisolto, puttana dello Spirito con slanci eroici e
verità definitive.
Controllo il popolo degli amici abbandonati tra i tavolini sotto la tettoia di foglie
secche, di ritorno dal bagno per bere nel Sun’n’Moon cullati dal drum’n’bass che
agita in alto le grandi palme piegate al suolo.
Qualcuno si dà il cambio sulle amache distese quasi a riva. Cerco Herbert dagli occhi
azzurri vivacissimi e folli, medico etilico impressionante e lucidissimo, la sua bella
moglie tibetana, una villetta e discografia Pure Seventies, Reiki e Chakras, due figli
pienotti, i più grassi dell’India, tranquilli e fortunati. Chi ha trovato casa e chi come
me si accontenta di accamparsi lungo il percorso compiuto, o su quello che verrà, se
verrà, tra amori sempre più rari e difficili da decifrare.
Arriva il vento improvviso fortissimo che fa volare i bicchieri, un’altra scarica di
pioggia. Il monsone si prende tutto, attenzione, cartacce, libri, i resti della mia
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I Giovedì di Scrittura Fresca
passione breve e secca per Marina, la pelle che fa male, vestiti da lavare, mutande da
asciugare, mezzanotti da rispettare, cani randagi di Palolem da accudire.
L’ho presa in agosto pieno da un palazzo di Testaccio, stava spaurita e dignitosa a
passarsi una mezza estate deludente, qualcuno l’aveva lasciata sul più bello. Le ho
organizzato venti giorni che non s’aspettava, l’addio che non sapeva, sotto un
monsone che siamo tutti ubriachi alle sette di sera.
Kathrina mi legge le carte, mezzoinglese mezzotedesco, Katrina la scansano dal
Sun’n’moon, è pazza dicono, ha occhi di una Durga sassone abituata all’omicidio
rituale, qualcuno traduce il gesto che fa avvicinandosi alla mia testa: dice che ho
come un’antenna di luce che mi esce dal cervello, che è pericoloso, che capto senza
filtro il dolore dell’universo, mica cazzi.
Con Marina. Farò spegnere il piccolo fuoco di cenere. Non ce la faremo a diventare
nemmeno amici, per questo viaggio, sento la lunga marea del suo dolore che mi
sfiora inutilmente le dita dei piedi. E l’India in mezzo che ci separa, il patimento
vuoto per i derelitti, l’orrore per la merda e piedi nudi che si fermano inutilmente
sulla sporcizia del tempio di Laxmi a Hampi.
Penso a mio fratello che ce l’ha fatta a passarmi il testimone prima di scendere da
questo viaggio, a cartoline estatiche di passaggio da Calangute vent’anni fa, al sorriso
leggero di Marco in qualche vecchia posa di album. Marco non ce l’ha fatta, l’India
che gli ha dato una mano a riempirsi le vene di sogni corrosivi e il cuore di oblio.
Scatto tutte le fotografie che posso per allungare il giorno. Il giorno più lungo di un
viaggio che non mi basta più. La solitudine, infine, come potrò dirlo a Marina, tutte le
moltitudini di solitudini che allagano il Subcontinente indiano tra Cape Comorin in
Keraka a sud, fino alle creste dell’Himalaya che chiudono il nord. La solitudine di
Terzani in cerca di una morte di pace giusta, quella di Cesare, Baba torinese
trapiantato tra le rovine di Hampi nello stato del Maharastra, la lunga teoria dei suoi
capelli che trascinano la terra al suolo, senza misteri, con un accento di
circonvallazione che strappa il sorriso, solo sperduto nelle pianure centrali, senza
seguaci. La mia che ho pazientemente atteso, che mi ha generosamente avvolto
cinque anni fa e tre anni fa e oggi ancora, scavata tra il deserto del Thar e le
spaventose maree di Kovalam fin dentro i deliri prospettici del Kailasa Temple tra le
colline di Ellora. Tutto il dolore che oggi fa sorridere: in definitiva, l’unico tesoro di
saggezza strappato a questa vita.
Me ne vado a fine estate, vergognandomi un po’, con un amore struggente che mi
riempie, un amore donatomi gli ultimi giorni, quando già t’assale il blues del rientro,
qualcosa ti dice che tra una settimana precisa sarai di nuovo carne del tuo macello,
dei loro mercati, impossibile da spiegare, che ti sembra il peccato ultimo, quello più
denso che li racchiude tutti, i tuoi. Marina fa sorridere al confronto.
Mi ubriaco per questo e passo l’ultima notte a voltarmi nella sete di un letto che è una
fossa tra noi. Mi sono innamorato di Ratna, una piccola bambina di otto anni, una
piccola regina vagabonda, questo dice il mio poeta segaiolo. Metà del viaggio l’ho
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I Giovedì di Scrittura Fresca
fatto attraverso i suoi occhi, con la sua voce, dentro il piccolo grugnito di gioia che
avevamo incontrandoci per strada, piccolo verso rimasto alle sue infanzie già
trascorse che tuttavia rifiutavano evidentemente di perdersi.
La mattina che siamo partiti pensavo che non sarei riuscito a dirle addio e lei deve
averlo sentito, non son riuscito più a trovarla, dicevano che fosse andata a giocare
lontano, i suoi saltelli di piccola pazzia e l’ignoranza del futuro, desolato come l’arida
piana del Karnataka da cui venivano i suoi poverissimi.
Ora sei sola nel vicolo notturno di Hampi a sgranare il rosario dei giorni che
mancano. E botte certo non ne prenderai più, piccola mia, perché io tornerò a
prenderti, io, bambino di mezz’età che confonde il giorno con la notte, il seme del
dolore con l’albero del frutto maturo. Io bambino, quel giorno mi esiste già da sempre
nel novero delle favole bruciate, quelle che non aiutano ad addormentarsi, che invece
di scacciare i demoni li nutrono e li moltiplicano.
E in questo terribile rimando di specchi che maledice la mia notte di sete, c’è una sola
uscita dove ti vedo percorrere il suolo polveroso del marciapiede, truccata da Durga e
da Kali, con una collana di teste che spargono sangue sul vestito giallo e cento
braccia per illudere chi, sdraiato su di te, va a cercare la piccola morte tra le pieghe
poco costose della tua carne.
Ratna, io sono lontano e sono la stessa cosa, come te giudiziosa e disperata e libera e
priva di domani, come il tuo amore semplice e la malinconia.
E cosa importa che sia finito anche questo viaggio. Cosa importa che faremo domani,
i sogni che si perdono, quelli che vanno via di testa.
Sono andato giù da solo l’ultima mattina a Delhi per il viale congestionato tra la Jama
Mashid e il Forte Rosso, come cinque anni fa. Ho visto lo stesso troncone umano
elemosinare con rabbia sull’ingresso della moschea, gli stessi lebbrosi agitare
moncherini e cantilenare misteriosi Mantra sospesi tra inferno e paradiso, lo stesso
vecchio esporre una notte di tenebra al posto delle palle degli occhi.
Ricordo un bagno di notte per accompagnare Ganesh tra le viscere dell’Oceano
Indiano. C’era la luna altissima e intoccabile, la luna che sorge sulla spiaggia di notte,
la più intima e segreta. E sono sceso dal bus scassato, affollato di odori, con gli occhi
semichiusi in cerca di un Chay bollente. La luna che si arrampica sulle mura rosa di
Jaisalmer al tramonto, il disco perfetto che risuona di percussioni acquatiche, la luna
che mi accompagna intorno al lago di Udaipur, perfettamente riflessa in milioni di
pieghe liquide e fin dentro quest'ultimo respiro stasera. La luna è testimone ed è il
viaggio stesso.
Ganesh, mio dio infantile e un po’ pasticcione, signore della fortuna e del buon
commercio, accompagnami verso casa. Non ho più voglia di scrivere, di sognare, di
dormire. Vengo da te, con le moltitudini dei tuoi fratelli dispersi tra i fumi d’incenso
e la musica assordante, partiti come me a settembre di ritorno dalle spiagge
dell’India.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI
PECCATI?
scritto da: Dareios
(sonetto caudato in terza rima)
Chiedete, amici, se potrà l'estate
Rimettere i peccati d'una vita?
Rispondo a modo mio, dico: guardate,
Secondo la dottrina stabilita,
Le colpe solo vengono lavate
Se almeno un poco l'anima è contrita.
E io, sapete... io non sono un frate:
Colgo tutti i piaceri cui m'invitano,
Non mi rimorde affatto il coltivarne,
Si tratti dell'accidia, della gola
O, quando gira bene, della carne...
Non abbiam altro che una vita sola!
E per quanto riguarda il Padre Eterno,
Penso ci sia uno sbaglio di parola:
Gli inquisitori hanno capito "inferno",
Ma credo, anche irredento, di scamparne:
Dopo l'estate, Iddio intendeva "inverno".
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I Giovedì di Scrittura Fresca
POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI
PECCATI?
scritto da: Rana Fritta
a me, e al mio amico Guido
La ricordo abbastanza bene, iniziò il 10 luglio e sarebbe finita il 5 settembre. La mia
estate apriva le sue parentesi allorché partivo per il campeggio e le chiudeva al
ritorno. Tutto ciò che rimaneva fuori era semplicemente un periodo afoso fatto di
semplici tentativi di evadere dalla mortale nenia dei grilli.
La ricordo abbastanza bene quell’estate perché l’amico Sandro riuscì a rimetterci un
esame. Io ero come lui novella matricola all’università e entrambi, abbagliati dalla
forte luce degli studi finalmente autogestibili, rimettemmo a quella stagione un anno
di vita di studi.
Era appena finita la stagione calcistica e la Roma ci rimise la Coppa dei Campioni,
perché Sebino non rimise al centro e qualche tifoso deluso, ingozzatosi di gloria
preventivata, andò al bagno a rimettere le sue speranze.
Come ogni anno, ma quella volta fu una chiavedivolta, si partiva per il campeggio.
Luogo di regole non scritte. Centro sociale delle mie speranze. Zona franca per
l’approccio terapeutico della mia timidezza che mi avrebbe portato ad essere il
giullare di tutti, ma mai nei pensieri di nessuno, meglio di nessuna, in particolare.
Portai con me un’energia incredibile, un amore giovane per la vita, un marsupio di
speranze timidissime, una chitarra da boy scout e un giro di do. Che se hai la musica
nel cuore, con un giro di do ci puoi cantare qualsiasi cosa.
A mezzanotte, il menù estivo prevedeva spiaggia e stelle gratis con illuminazione
cannabis e karaoke di cazzate. Il giro di do suonava alla grande e ogni tanto sbluesava
in tempi più larghi. Anche le zanzare mi volevano bene. Qualcuno camminava
sull’acqua perché si sentiva un dio.
Durante il giorno c’era troppo sole per i miei gusti di spiagge annuvolate, avevo un
fisico che suggeriva sempre una t-shirt. Ero brillante con le fanciulle. Tutte mi
adoravano, ma ovviamente scopavano con chiunque altro.
Misi su un gruppo di giocherelloni, suonatori e cantastorie, Le rane fritte.
Dominammo la scena con idee geniali che ancora nutrono la luce dei nostri ricordi.
Giocammo a calcio con l’entusiasmo di chi si gioca ogni volta una finale dentro uno
stadio di persone che hanno soprattutto voglia di divertirsi e con la consapevolezza
pur competitiva che, vaffanculo, alla fine l’importante è partecipare.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
In quaranta giorni feci di tutto e cioè non feci niente, ma il mio entusiasmo era tale
che non percepivo più se mi stavo divertendo alla follia o se mi stavo annoiando ed
ero semplicemente folle.
Ma qualcosa non andava. Avevo un blues da suonare e quello, cazzo!, non potevo
farlo solo con un giro di do. “Devi trovare altri accordi” mi disse qualcuno.
“D’accordo!” replicai io e intonai “Campèggio di così si muore…”.
La città mi aveva lasciato andare con delle raccomandazioni precise “Divertiti ma
fallo sapendo di vivere una menzogna…”.
Quell’estate ebbe pietà della mia innocenza e mi rimise i miei peccati di
ingenuitudine, poi tornò a spiegarmi, l’estate successiva, che la mia ricerca di ciò che
era stato era futile e vana, che nulla si ripete.
Io prendevo le cartoline dei miei ricordi dell’anno prima e le mettevo in controluce
per confrontarle con ciò che avevo sotto i piedi in quei momenti.
Anche la mia chitarra perdeva il suo smalto. Avevo anche altri accordi nelle dita ma
la magia non era più la stessa, a corte c’erano altri giullari, più bravi, più seri, più
divertenti, più colorati o più cupi. Il mio blues era l’omaggio che gli altri mi facevano
ascoltandolo e io ero felice solo tre minuti… campèggio di così si muore… cantavo e
sorridevo, gli altri pure, poi mi auguravano la buonanotte.
Quell’estate fu la prima a rimettere i miei peccati. Mi donò emozioni energiche ma al
tempo stesso calibrò il parametro di riferimento di ogni mia felicità marginale. Ogni
anno affidava ai miei ricordi l’ennesima effimera consolazione.
L’estate significava per me essenzialmente due cose. L’amicizia e la scoperta mai
definitiva dell’altro sesso, sicché la meraviglia non finì mai di abitare la mia bocca.
Avrei voluto amare fisicamente, perché sarebbe stata la prima volta, ogni amica, farla
mia, toccarla e sorridere con lei nell’intimità più vergognosa. Ma sapevo che ogni
volta mi sarei innamorato e così mi fermavo a ragionare per almeno sette anni e
lasciavo andare sguardi consenzienti, labbra lucide e timide, desideri e sogni di
passione. E quel ricordo mi sta scavando ancora le tempie echeggiando nel mio
teschio come in un tempio sconsacrato, facendosi beffe del mio candore.
Quell’estate rimise anche quel mio peccato. E mi lasciò nella convinzione che sarei
stato in grado di supplire ai miei gesti paralizzati con le parole, soprattutto quelle
scritte col senno di poi, poi dissennato. E le estati successive mi dettarono lettere
lunghissime.
Lusingai molte fanciulle e forse fui anche poeta romantico oltre che ispirato, ma se
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I Giovedì di Scrittura Fresca
ero sincero con loro, non lo ero con me stesso, perché non ebbi mai neppure una volta
il coraggio di scrivere “Sappilo, cara, che sarei voluto entrare nelle tue grazie,
sdraiato su di te sulla sabbia fresca, sotto curiose stelle tenute al guinzaglio dalla luna
che le ha portate fuori a pisciare”. Non ho mai capito dove finiva il romanticismo e
dove poteva essere il confine della mia cerebrale passione. Non ho mai osato. Non ho
mai portato un po’ d’acqua nel vaso di una qualsiasi orchidea. Mai tentata una
puntata. Son sempre rimasto con quella fiche in mano, senza mai scegliere rosso o
nero. E la roulette girava per altri che puntavano vincendo sui miei numeri.
Quell’estate ha rimesso i miei peccati ogni volta che mi ha chiamato a crescere
almeno un po’, allorché mi ha dato il primo gettone stringendomi il pugno con la sua
mano affabile. Mi diceva “Fanne buon uso!”. Io invece ne ho fatto solo tesoro.
Ogni tanto oggi apro la mano e provo a giocarla quella fiche, ma il croupier mi
rimprovera “Ma fammi il piacere, sono passati quindici anni, quelle puntate sono
memoria antica, quella roulette ha smesso di girare e probabilmente è gettata in una
discarica che i topi ci fanno girare le loro merdine tonde. Quella tua è una mancia di
una vecchia notte di una degna estate, un invito alla vita, da consumarsi
preferibilmente entro… guarda sul retro, bimbo, che la data è scaduta...”.
Io la conservo quella fiche. Ci punto su i miei ricordi e poi faccio girare la ruota delle
mie stagioni felici con i suoi quindici numeri, qualsiasi numero esca vinco comunque
e l’uomo al tavolo congratulandosi annoiato mi restituisce ogni volta la fiche e mi
dice “Les jeux sont faits, rien ne va plus…”.
Stringo forte quella fiche come fosse la medaglietta di un reduce. Avevo diciotto anni
quando fui arruolato. Ho combattuto per dieci anni contro le regole della vita “da
grandi”, ho resistito alla naturale mia crescita, ho sparato cazzate contro i nemici che
mi volevano serio sotto la loro bandiera. Ho studiato più del dovuto per non laurearmi
presto e perdermi nel labirinto del “presto ché è tardi se vogliamo arrivare in
anticipo”. Ma la guerra era di anno in anno sempre più feroce e ogni volta contavo
numerose vittime tra i miei amici e la spiaggia era sempre più vuota, rimanevamo in
pochi a combattere. Ovunque chitarre abbandonate e echi di blues portati dal vento da
chissadove o chissaquando. Alla fine, mi sono arreso anch’io, io non sono un eroe,
sono stato fatto prigioniero dalle cose della vita, non prima di essere ferito a morte.
Quell’estate, lei sì, è tornata a trovarmi, anche d’inverno. Mi ha portato i suoi conforti
reliquiosi “Te li rimetto io, i tuoi debiti, mio fiero custode di gioie giovanili. Io ti
perdono, ché tu il sole ce lo avevi dentro e io di quello mi nutrivo”.
Poi sono morto.
Solo allora quell’estate mi ha frugato piangendo nelle tasche, ha preso la mia fiche e
l’ha puntata tutta sulla mia anima, poi ha imbracciato la mia chitarra e seduta su un
244
I Giovedì di Scrittura Fresca
gommone in riva a onde balbuzienti ha cantato il mio blues.
La roulette sta ancora girando.
E io sono qui, non chiedetemi dove, con le dita incrociate.
245
I Giovedì di Scrittura Fresca
POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I PECCATI
DEL MARTINI?
scritto da: Nicola Martini
Potrà rimettere, mettendosi due dita in gola e vomitando, di conseguenza, fino al 15
settembre.
I peccati del Martini son venali, che lui è genovese. C'è il refuso, ma lì per lì non lo
trovo.
Ad ogni buon conto, siccome è imprenditore, non vorrebbe rimetterci, quindi l'estate,
per quanto lo riguarda, può anche andare a dare di stomaco in un'altra contrada e
presso altra famiglia.
Rimetto adesso il testo alla vostra gentile attenzione. Quello che mi sta seduto davanti
si scosti sennò lo prendo in pieno. Qui i sacchetti non usano.
PLAYBOY
scritto da: Fucsia
Col cappotto sulla spiaggia.
Dentro un astro che infuoca,
un cappello sbilenco incastrato nei pensieri
calze di lana a grattare la pelle
e guanti e scarpe gravi
dove la gomma nera appoggia sulla rena
davanti al mare.
Fermo, trasfigurato
tra gelati squagliati e imprudenti totali protezioni.
Stai.
Per perdonarti quelle cento notti al freddo
quando la neve incorniciava i vetri
e tu nudo acciuffavi la vita per i capelli
e annusavi l’odore di ogni bocca
Ogni volta era rinascita sopra una morte altrui.
246
I Giovedì di Scrittura Fresca
POTRÀ L'ESTATE RIMETTERE TUTTI I NOSTRI
PECCATI?
scritto da: Dario Carta
Lo vedi nel vibrare
del fiato terreno
Il muovere lento della luce
dice
che costa fatica sentirsi leggeri
E chiami il vento
a sorreggere irrigazioni di pelle
a sdebitarti della siccità
Quasi che le sere senza ombra
non possano cristallizzare
- emozionate Finestre spalancate sulle lenzuola
spiate dalla luna
Ma se anche fossi inverno
non vorrei davvero evitare l’estate
della mia stessa acqua
Sarei sempre io
con i miei peccati a fluire
Solo mi vedresti diverso
solo mi sentiresti
vita
nella tua sete
247
I Giovedì di Scrittura Fresca
LA CICALA PECCATRICE
scritto da: Brizgraz
Stornella la cicala ar solleone
e se la gode spenzieratamente,
chè dell'inverno nun ricorda gnente
e canta a squarciagola la canzone!
Se passa la formica previdente
spignendo la mollica cor fiatone,
la pija in giro, ride e all'occasione
se je risponne, quella nun ce sente.
D'artronne la cicala cià 'sto vizzio
e quest'estate invece da capillo
e mettese de impegno e de giudizzio,
S'è fatta giurà amore sempiterno
da quer frescone fracico der grillo
che la mantiene quanno viè l'inverno!
Un grazie a Trilussa per lo spunto e la sponda per la poesiola. Lo sviluppo però è
mio...
248
I Giovedì di Scrittura Fresca
IL TEMPO DISCONTINUO
scritto da: Doremì
A sei, sette anni, il tempo è discontinuo. Perché un futuro atteso è come un quadro
lontano, da cui ci separa un fossato che ci appare insuperabile. Si può solo credere,
per pura fede, che quel momento arriverà. Ma è contrario all’esperienza, perché il
tempo non passa mai e sei mesi, come sei giorni ed anche sei ore, a volte sono un
tempo infinito, impercorribile.
E allora Anna si dice, mentre, in un giorno d’inverno si annoia dietro il vetro della
sua camera di Roma, primo pomeriggio, adulti a riposare e bambini zitti: eppure ci
sarà una prossima estate a San Remo ed io sarò di nuovo nel giardino della villa dei
nonni, sentirò l’odore delle tuberose lungo la strada del Solaro e il cigolio del
cancello dei Verruggio, di fronte al nostro, la mattina presto, e salirò nella soffitta a
giocare coi pupi siciliani a grandezza naturale abbandonati in un angolo e a odorare la
carta dei libri vecchi vecchi, quelli che erano per bambini quando erano bambini i
grandi, e verrà il momento che sentirò l’odore delle alghe, sulla spiaggia… No, ecco,
non è esattamente così. Anna deve immaginare un momento preciso: ad esempio
l’arrivo a San Remo, con la nonna, la sua sorellina e la cameriera, piene di bagagli
per una villeggiatura che durerà tre o quattro mesi – una vita - e poi il tassì, che alla
curva stretta del Solaro dovrà fare marcia indietro per riuscire a girare e questo vuol
dire che ci sono quasi, e presto – ma anche ora il tempo è discontinuo e qui gli ultimi
minuti si dilatano in una bolla immobile - comparirà la villa tutta coperta di
buganvillee e la zia Teresa col fazzoletto in testa e Mino Franco e Floriana,
calzoncini e canottiera e piedi nudi, che avranno appena finito di irrigare i campi
sotto la villa, ad aspettarle sulla strada sorridenti e festosi.
No, neanche questo, bisogna immaginare qualcosa di più preciso, quasi una
fotografia, per poter avere un riferimento : ad esempio lei e Floriana che fanno il giro
della strada Solaro subito dopo il tramonto, per andare comprare il latte alla stalla,
vicino al campo ippico, e, ancora più a fuoco: proprio il momento in cui, alla prima
curva, sotto di loro si apre il panorama delle terrazze coltivate a tuberose e giù in
fondo quel mare /cielo dolce, senza più orizzonte e piccole vele bianche a solcarlo e
Anna si affaccia al parapetto
perché questo Anna, sei o sette anni, lo fa sempre e sente uno struggimento e non lo
sa definire.
- Che bello neh! - fa la Floriana, che ha sei anni più di lei, ma se la porta sempre
dietro in questa commissione quotidiana. E intanto scorrono lontane, sulle terrazze,
figure di ragazzi e uomini a torso nudo, abbronzato, e i pantaloni arrotolati, che
tornano dai campi con fasci di fiori dai gambi lunghi sulle spalle e quando Gino
Verruggio le incrocerà, proprio in quel punto sulla strada, lasciando quel ‘Boona’
249
I Giovedì di Scrittura Fresca
strascicato di saluto, il profumo dei fiori sarà così forte che Anna ne sarà stordita.
In quel preciso momento, si dice Anna , in quel preciso momento dovrò ricordarmi di
ora, di me che sono qui alla finestra della mia stanza di Roma a chiedermi come mai
potrà passare tutto il tempo necessario perché quel momento arrivi. E stabilisce una
posizione precisa nella sua stanza, magari prende un quaderno in mano, perché la
fotografia sia più nitida, e legge: classe seconda elementare. Mi dovrò ricordare,
allora, di me che leggo le parole classe seconda elementare su una copertina azzurra.
E così Anna si dà degli appuntamenti col tempo, tratti di un tempo discontinuo,
sperando di afferrarne il mistero.
Perché la sua fede vacilla e forse il tempo non passerà e quel momento non arriverà
mai.
Puntualmente arriva l’estate e con l’estate San Remo, in uno scorrere a scatti del
tempo, segmentato in frazioni sempre più brevi. Anna entra nel salone della villa e
sente subito l’odore di muffa e cera della casa vecchia e le si allarga il cuore, poi
guarda il mandarino cinese appeso al muro, proprio nell’ingresso, che le fa tanta
paura perché ha gli occhi che ti seguono ovunque tu vada, e poi arriva la zia Teresa
con la torta di zucchine preparata come sempre per il giorno dell’arrivo e presto tutto
diventa dolcemente quotidiano anche l’odore del DDT spruzzato la sera con la
macchinetta nelle stanze da letto, e Anna dimentica il suo appuntamento col tempo e
con l’istante di Roma, perché dovrebbe guardare a ritroso. E non fa ammenda per
aver mancato di fede. La sabbia sotto ai piedi e l’odore forte del mare, il pane e
pomodoro e basilico, ‘pane e pumata’ dopo il bagno, i pomeriggi pigri in giardino,
mentre i grandi riposano, a giocare e leccarsi il sale dalla pelle, che odora di sole e di
buono e poi giù nei campi a seguire in mezzo alle zolle allagate Floriana che regge la
manica ai fratelli, le merende di pane e fichi. E alla sera, prima di cena, proprio
all’imbrunire, Floriana va a chiamare Anna per andare a comprare il latte.
La passeggiata più bella, l’aria dolce e il mare che ti aspetta ad ogni curva. Ed ecco
Anna che si affaccia al muretto e Floriana dice : - Che bello neh? - e si incantano a
guardare il celeste delicato e piatto su cui scendono i fianchi delle colline. E teorie di
uomini e ragazzi a torso nudo e abbronzati scorrono sulle terrazze coltivate a tuberose
tornando a casa con fasci di fiori dai lunghi gambi sulle spalle.
- Boona - saluta Gino Verruggio e il profumo è così intenso che Anna ne è stordita.
Poi riprendono il cammino e scherzano e chiacchierano ed Anna ha dimenticato
l’appuntamento con la Anna dell’altro tempo, quell’altra lei di Roma, immobile alla
finestra con quel quaderno in mano con su scritto Seconda Elementare.
E’ estate. E l’estate è dolce e sa perdonare.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
COINCIDENZE
scritto da: Punto Mosso
Potrà l'estate rimettere tutti i nostri peccati?
Le strofe, allineate a sinistra, sono il testo di una canzone dei Múm, presa dal loro
ultimo albo:
"Summer make good"
L'ho pagato un occhio della testa, l'ho visto al collo di tutti i passeggeri della
metropolitana, ho sentito dire che la fabbrica che lo ha prodotto ha implementato
questa scatoletta con un macello di funzioni in più rispetto a quelle accessibili con i
bottoni che ci sono sopra per questioni di marketing.
Ma ora ce l'ho anch'io, questa collana di altri tempi, con fili di colore alla moda e
auricolari dalla forma facilmente riconoscibile e quindi accettabili senza pensieri.
Si connette direttamente al cervello e lo stimola con onde di pressione di lieve entità.
Lievi, onde di piccolo ordine, senza peso, come leggere sono le canzoni che ho
scelto.
Will The Summer Make Good For All Of Our Sins
Potrà l'estate rimettere tutti i nostri peccati?
Please don't cry for hammer in your teeth
We'll spoil the pretty snow that lies beneath
Who go cry for hammer in her teeth
We'll spoil her pretty face at least she feels real
No-go cry for hammer in your teeth
We'll spoil the pretty snow that never feels real
Per favore non piangere per il martello nei tuoi denti
noi ritorceremo la neve bella che sta sotto
Colei che grida per il martello nei suoi denti
noi ritorceremo il suo viso bello almeno che si senta viva
Non serve piangere per il martello nei tuoi denti
noi ritorceremo la neve bella che non sembra mai vera
Prima fermata, questo convoglio comincia a riempirsi di gente, menomale che un
posto c'è sempre, ed è questo il vantaggio di abitare un po' fuori, tranquilli, sempre,
sia sopra sia sotto, sia a casa sia quando si va in centro.
251
I Giovedì di Scrittura Fresca
E così sempre, da ormai 4 anni a questa parte, da quando ho accettato a occhi chiusi,
o per meglio dire bendati di un paraocchi molto stretto, questo contratto in questa
anonima città, lasciando tutto, tutto ciò che ora è scordato, appassito, dimenticato,
memoria persa nelle illuse speranze.
Seduti, tutti ormai seduti, e come tutte le mattine debbo farmi queste quattro stazioni
in piedi, poco più che cinque minuti, ma vorrei per una volta farli da seduto.
Chi in un libro, chi con la testa guidata da fili a pensieri normali ai suoi gusti, chi
guarda fuori per guardarsi dentro, chi guarda dentro per sentirsi osservato a sua volta.
Non è certo il periodo della giornata che attiva di più le mie conversazioni interiori,
diciamo che lo sfrutto solo se un pensiero mi perseguita già dalla mattina prestissimo,
allora con un quarto di occhio guardo il percorso e con il resto delle attività celebrali
faccio finta di tirare su un punto della situazione.
Cosa mangio oggi a pranzo? Come al solito andrò nella mensa comune e prenderò
qualcosa di cui mi lamenterò in silenzio pensando: "Se me lo fossi cucinato io..." per
poi rientrare a casa la sera e mangiare una scatoletta di tonno, e, se è la serata buona,
anche un po' di verdura in scatola.
Breathe, you breathe
Believe you me tonight
Breath in, breath out
Make good, make float
Bleed you me
ú nótt
Respira, respira tu
Credi in me tu questa notte
inspira, espira
redimi, solleva
sanguinami
ú nótt
Lasciate che mi presenti, se voi siete gli interessati, io sono la persona che soddisferà
i vostri bisogni, altrimenti per tutti gli altri sono alcune righe a libero complemento di
tutto ciò che sta sopra o sotto, prima e dopo.
Una metropolitana e due persone, sono sullo stesso vagone? Il ciò vorrebbe dire: lo
stesso treno, alla stessa ora, nella stessa città, lasciatemi dire subito che siccome non
ci interessano queste due povere anime, la probabilità di una loro vicinanza non si
sacrifica a costruzioni di scena.
Ebbene no, per ora non ci servono queste due vite, ma sono uscite dal sacco, e forse
riuscirò a non doverle buttare, se la scopa e la paletta verranno usate bene e se non c'è
troppa sporcizia per terra li rivedremo perché riusati.
Mi viene giusto ora un'idea...
Ma no, alla prossima volta, lasciamo le cose come stanno, anzi interessiamoci di due
252
I Giovedì di Scrittura Fresca
attimi di tempo differenti, due luoghi diversi, ma anche loro coincidenze.
Please don't cry for hammer in your teeth
We'll spoil the pretty snow that lies beneath
And summer will make good for all of our sins
if we only wish it hard enough
Per favore non piangere per il martello nei tuoi denti
noi ritorceremo la neve bella che sta sotto
E l'estate redimererà tutti i nostri peccati
se solo noi lo desideriamo forte a sufficienza
Giulia dormiva ancora nel suo letto, e sentiva rumori, i rumori della mattina, o
perlomeno quello che lei presumeva fosse mattina, e in ogni caso, nulla le poteva
dare indizi che quelli fossero esattamente i rumori della mattina di una mattina in
quella casa che aveva visto per la prima volta circa 10 ore prima.
Dario, vestito di poco, entra con tutta la delicatezza di un ladro, spinge l'anta della
porta della camera, che cigola con quel rumore ben conosciuto. L'unica cosa che
riesce a fare è bestemmiare in silenzio contro un dio, "ma quale dio", aggiunge
mentalmente. Non poteva far meglio il poverino, ci ha sempre provato, a lui dava
fastidio dover svegliare il suo normale compare di stanza alle 3 o 4 di notte,quando,
dopo aver visto su internet non si sa quale cavolata, -e vi giuro che anche se sono
onnisciente sui fatti, questa è una di quelle cose che dimentico e poi ignoro- rientrava
in quella sua stanza doppia, e che oggi era una fantastica singola per una coppia.
Ma quella mattina era una mattina diversa, nuova, una mattina di regali, dove le cose
terrene non dovevano prendere nessuna influenza dalla materialità delle cose.
Breathe, you breathe
who go who cry
believe you me
to night/múm night
Breathe in, breathe out
make good, make float
bleed you me
ú nótt
Respira, respira tu
Chi va, chi piange
Credi in me tu
questa notte
inspira, espira
redimi, solleva
sanguinami
ú nótt
253
I Giovedì di Scrittura Fresca
Shé cry, who closes eyes and hopes not to come back
Il pianto di Shé, che chiude gli occhi e spera di non tornare.
Diciamo che spiegarvi anche quello che passa ora per la testa di Dario è un po'
difficile, magari vi riporto pari pari il suo monologo.
Eccovelo
Non la amo, ma non riesco a capire da dove arriva questa mancanza, forse dal fatto
che mi preservo per Giulia, Giulia che mi ha rimosso, forse dal fatto che non riesco a
baciarla, se si fosse concessa al primo momento, avrei detto cosa? Sacrificarsi a soli
abbracci, per chi?
Devo dirglielo, devo baciarla, a costo di capire dopo che era tutto dettato da una
voglia, anche se fosse, non sarebbe giusto consumare questa voglia? E provare dei
sentimenti non sarebbe sbagliato, anzi ci farebbe sentire in vita, cosa che non succede
così spesso.
Se fa affidamento sulla mia scarsa passione, si ricrederà, martedì non mi muoverò
anzi non la seguirò se non ci scambiamo un segno di affetto un po' più grande di un
bacio. Non posso andare avanti così, non ha senso, non la amo e perché dovrei
proprio perdere così il mio tempo? Aspettare... no nemmeno, tollerare quasi, ma io
sono fatto di carne e anche lei, perché darci regole? perché vivere per uno stupido
futuro, viviamo il presente, che già è difficile così.
In definitiva, io vedo tutto ciò a termine, non prevedo nulla con lei oltre il primo
giugno, questo è solo una vacanza, un modo per evitare di restare soli, perché lei non
la pensa uguale? Penso che con il suo comportamento lei è consapevole di queste
cose, basta, devo farla cedere, devo baciarla, devo farla mia, devo farla urlare di
piacere, e le piacerà, più di quanto lei possa credere, più di quanto lei possa mai aver
avuto esperienza.
Devo proporle la cosa come normale, mi sta facendo mito del rapporto sessuale, cosa
che sono convinto non essere vera, miticizzandola si rovinano i rapporti che vivono
questo aspetto pregiudiziando i momenti relegandolo a attimi troppo incercabili,
prendere un caffè e fare un po' di sesso.
Voglio sfruttare lei per esercitare la mia passione, io non la voglio, o per lo meno,
non 24/7 come succedeva con Giulia, ma a volte, vorrei proprio averla, mia, come la
natura ci chiede di accontentarci tra di noi.
E mi chiederete del resto, e mi chiederete di darvi un lieto fine, o se si vuole scendere
a compromessi una semplice fine, e non queste scene interrotte e non legate, beh, non
chiedetele a me, io vi ho dato qualche attimo di persone immaginarie e ho rubato il
vostro tempo.
Questo è un peccato.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero Nove 16 Giugno 2005
VIRUS
Hanno partecipato
Dareios
Virus
Vittorio Fioravanti
Portatrice del virus
CYB Roberto
Mater dolorosa (tutti figli di buone donne)
Sally
Virus
Massimo Botturi
La lunga degenza
Franco Zadra
Virus
Carmen M.R. Di Lorenzo
Il malaffare
En y gma
La malattia
Dolphy
Virus
Ettore Bilbo
Mi chiamavano il quarto cavaliere dell’apocalisse
Serenella
HIVirus
Vaan
Virus.anni settanta
Brizgraz
Er virus
Ermione
Ma lo sapete cosa è un virus?
Rana Fritta
V.I.R.U.S.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VIRUS
scritto da: Dareios
Non ho neanche avuto bisogno di cellule staminali embrionali, né dei soldi di
Telethon, né dei fondi riservati agli amici degli amici di Milly “the Bitch” Moratti.
Ce l'ho fatta tutto da solo. L'opera della mia vita è compiuta. L'elusivo HDV, lo
Human Deficiency Virus, è stato finalmente identificato. Le conseguenze
dell'infezione sono sotto gli occhi di tutti: baldi leader dell'opposizione trasformati in
piacioni stracotti che nemmeno ricordano da che parte dovrebbero stare e srutellano
fesseria su fesseria; scienziati che dovrebbero perorare i progressi della ricerca e
mandano avanti uno che dovrebbe stare dentro, doktor Antinori, che auspica la
soluzione finale per quelli che lui chiama "mongoloidi" e, se qualcuno aveva dubbi
sulla capacità di autocontrollo dei genetisti, glieli toglie; comitati di donne per il sì
che mandano a parlare in televisione una che, tanto per mandare ai milioni di elettori
in ascolto un messaggio chiaro, comincia a dire che voterà tre sì e un no; e via così,
continuando a farci il male che pensavamo indotto dal nostro congenito masochismo,
e che invece era causato dal virus che sono riuscito a isolare. Di materiale da cui
partire ce n'era in abbondanza: io ho cominciato con un frullato di citazioni miste
Pannella - Capezzone - Cappato (graziosa quella che equiparava i seguaci del sì ai
dissidenti sovietici degli anni settanta, tanto per restare in tema), il tutto in un brodo
di coltura a base di margherite e altri Fioroni veterodemocristiani, un pizzico di
cicoria, del precipitato di opportunismo sondaggistico, e, ciliegina sulla torta, un bel
"vado a votare ma non vi dico come".
Così mi è rimasto in provetta l'HDV. È un retrovirus, nel senso che questo disastro ci
fa fare un bel passo indietro verso i tempi vagheggiati dal doktor Ratzinger. Inoltre, è
estremamente contagioso: si trasmette coi canali tradizionali e ora anche in digitale
terrestre.
Devo mettermi a spron battuto a produrre il vaccino. Non sarà facile e Il Tempo
stringe. Stasera ho sentito al telegiornale che è imminente la scissione di uno dei
partiti dell'Unione... ce la farò prima delle prossime elezioni?
257
I Giovedì di Scrittura Fresca
PORTATRICE DEL VIRUS
scritto da: Vittorio Fioravanti
Non c'era stato null'altro
che un tenero appuntamento
dopo anni d'opposti cammini
una chiamata annunciando
il mio ritorno inatteso
per incontrarci di nuovo
sui passi irrequieti d'allora
lungo le calli a Venezia
per rivederci e parlarci
nello stesso caffè discreto
in quell'ora tutta nostra
gli occhi e le mani insieme
per un'ultima volta ancora
Era cambiata nel volto
ma aveva serbato lo sguardo
e l'iride d'acquamarina
tra i rossi capelli raccolti
ch'io ricordavo disciolti
nella brezza selvaggia
l'onde infrante e le dune
d'una spiaggia del Lido
Diverso ero anch'io
grande e pesante
di stagioni trascorse fuggendo
d'evasioni e di ripartenze
marcate a fuoco sul viso
ma entrambi lo sapevamo
accogliendoci tra le braccia
taciti con un sorriso
L'affiorare di certe memorie
nella marea di reminiscenze
il suo viso sommerso
nelle immagini e le trasparenze
delle mie parole suadenti
lette fra le tazzine e le spire
del fumo di due sigarette
258
I Giovedì di Scrittura Fresca
Stava di spalle
nel riquadro della finestra
come se stesse guardando fuori
tra i riflessi nel cielo oltre il vetro
ed era invece chiusa nel buio
dentro se stessa
Portatrice m'aveva detto
ed io glielo stavo accettando
in silenzio senza voler sapere
Così salimmo le scale
penetrammo la stanza
ci accostammo sul letto
seminudi come la prima volta
a luci spente dietro le gelosie
prigionieri liberi di farlo
E mentre lungo il canale
reso fluido condotto d'alghe
scorreva muta la stessa
identica gondola
e s'udiva rauco il richiamo
del gabbiano d'allora
una stilla passava umida e viva
attraverso le nostre vene
259
I Giovedì di Scrittura Fresca
MATER DOLOROSA - (tutti figli di buone donne)
scritto da: CYB Roberto
Da giorni, ormai, ho smarrito la cognizione del concetto di ciclo sonno-veglia.
Mi aggiro frenetico tra i banchi di un improvvisato laboratorio e armeggio con
vetrini, microscopi e reagenti, consultando libri d’ogni genere, con un orecchio
rivolto alle ultime notizie della radio sempre più frammentarie.
Una luce fredda di neon tremolante mi affossa in stato depressivo tendendomi come
una corda di violino nel raggiungimento di una qualsiasi verità.
Simulo prove di vaccini al computer e piango lacrime d’impotenza e sgomento per
una realtà che ha travalicato ogni immaginazione, consapevole di essere uno degli
ultimi scampati.
Com’è cominciato tutto questo?
Ho riunito ricerche internautiche, ritagli d’autorevoli riviste scientifiche e pettegoli
articoletti di tabloids pruriginosi raccolti fin dall’inizio.
Ogni ipotesi appare possibile.
Nei primi tempi, qualcuno, come il giovane affermato dottor Kao di Shangai, ventilò
la possibilità di una radiazione sconosciuta proveniente dal passaggio di una cometa.
Ripercorro la sua teoria con un sorriso amaro e un brivido.
Mi sovvengono vecchi films dell’orrore con morti viventi risvegliati da casuali
asteroidi di passaggio.
Ma ora sono sopraffatto dall’inquietudine nel sapere che il povero dottor Kao, pochi
giorni fa, è stato rinvenuto chino su un microscopio atomico nel suo laboratorio con
un coltello cinese da cucina, una piccola mannaia, conficcato tra le scapole.
Qualche ultimo luminare virologo europeo attualmente ipotizza di cause genetiche, di
spermatozoi promiscui, in utero, saldati tra loro in una reazione incontrollata che
potrebbe avere liberato il micidiale virus nella donna ospitante, ma rimane sempre un
enigma la conoscenza del meccanismo di trasmissione contagiosa.
Unica e sola certezza è che l’inizio di questa calamità è scaturito e si evolve tuttora
nell’ambito di soggetti femminili.
Alcune riviste scandalistiche, colte al volo ghiotte possibilità, si sono spinte, sul filo
della querela, ad individuare qualche portatrice sana che abbia avuto la funzione di
untore.
Le più famose attrici e donne di spettacolo, recentemente madri, sono state
perfidamente additate ad una gogna mediatica come fonti della pandemia mortale.
Un’icona del cinema francese, bellissima e di recente mamma, è stata, in effetti,
immortalata inequivocabilmente da un paparazzo battagliero di una di queste riviste
di quart’ordine.
Appare trasfigurata, con la pelle ingrigita e tirata e con uno sguardo folle da invasata.
Il servizio fotografico è agghiacciante.
La donna è stata ripresa con un teleobiettivo mentre getta il suo neonato,
orrendamente sbranato, dentro un cassonetto, ed è chiaramente distinguibile una sua
260
I Giovedì di Scrittura Fresca
espressione catatonica che atterrisce, ben lontana dal fascino intrigante di poche
settimane fa.
E’ certo tuttavia, di là del sensazionalismo, che il virus si è diffuso in maniera
capillare in tutto il pianeta con una velocità sorprendente.
Continua a mietere vittime, seppure di conseguenza e non direttamente: ogni donna
affetta dal virus, contagiata o portatrice sana, appare inspiegabilmente in ottima
salute, seppure aggressiva fuori d’ogni controllo.
E’ curioso, allora, analizzare lo svilupparsi della piaga apocalittica e la tipologia delle
vittime indirette.
I più esposti sono stati fin da subito i neonati.
E’ stata un’ecatombe.
Poi, progressivamente, l’età delle vittime è andata crescendo, spopolando il pianeta:
ed ora non sopravvivono che persone di una certa età, come me, vecchie o quasi,
nascoste come topi di fogna nell’illusione di scampare ad un destino segnato.
Sì: è un destino segnato.
Si sa solamente che quasi tutti, ad uno ad uno, alla fine, sono individuati e rimangono
vittime del tremendo virus.
Tutti figli.
Vittime di madri.
Le loro.
Madri infette trasfigurate in lineamenti di streghe orride che, impazzite, vagano senza
sosta alla ricerca della loro prole per sopprimerla, in preda ad un incontrollabile
‘raptus’ d’inaudita violenza.
Si ha notizia anche dello sviluppo del virus presso suore missionarie, assai
compenetrate nel ruolo di madri putative di piccoli orfani abbandonati appena nati.
Intere missioni africane o brasiliane si sono trasformate in mattatoi.
Il virus sconosciuto colpisce dunque le mamme, i vecchi angeli della casa, le care
nostre donne sante dai capelli argentati, le eroine d’esistenze grame intessute di
sacrifici e rinunce per amore di una famiglia e di tanto desiderati figli.
Oggi, per colpa di questa pandemia, non più.
Annusano l’aria, le madri d’ogni età infette d’oggi, come predatori insaziabili con i
denti scoperti, a captare ferormoni filiali anche distanti e mimetizzati, e braccano i
frutti del loro ventre senza remore e con feroce determinazione, a sopprimere
l’essenza della loro femminilità matriarcale.
Ho trovato un rifugio precario con la disperazione dell’istinto di conservazione: sono
chiuso in una cantina di un mio collega ricercatore già ucciso qualche settimana fa
dalla sua anziana mamma.
Ho sprangato la porta dall’interno dopo avere fatto incetta di provviste e d’acqua.
Ho attrezzato il locale in maniera da ricavarne un laboratorio di fortuna per cercare di
scoprire qualcosa che mi salvi da un’anziana arzilla vecchietta artritica che mi ha già
sospirato le sue intenzioni minacciosamente per telefono.
Spero di salvare anche il mondo intero che ormai è popolato quasi esclusivamente da
donne assassine che si uccidono anche tra loro, madri contro figlie, in un continuo
elevare l’età di sopravvivenza.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Non riesco a dare alcuna spiegazione razionale a tutto questo: tutto è, almeno finora,
da scoprire.
Sono travolto, invece, da molti ricordi e associazioni d’idee: Erode, Medea, Madre
Coraggio, confusi tutti in accavallarsi di sensazioni e nausea.
E poi canzoni e luoghi comuni…
Son tutte belle le mamme del mondo…
Mamma, solo per te la mia canzone vola…
Ogni scarrafone è bell’a mamma soja…
Di mamma ce n’è una sola…
Bella, dolce cara mammina, la più bella del mondo…
Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio andar…
Mamma, tu compri soltanto balocchi per te…
I figli so’ piezze ‘e core…
Qualcuno, però, sta già raspando alla porta…
L’avvenire sarà degli orfani…
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VIRUS
scritto da: Sally
Cominciò in sordina, come tutte le cose veramente gravi.
I primi casi sporadici non destarono preoccupazioni.
Improvvisamente qualcuno cominciava a ridere. Avete presente quelle risate
irrefrenabili, che partono dallo stomaco e prorompono in gola facendo lacrimare?
Cominciò così e la gente non ci fece nemmeno caso.
Qualche bambino tornava a casa raccontando ai genitori che, senza motivo, il loro
serissimo professore di latino si era interrotto a metà di un’interrogazione scoppiando
a ridere senza riuscire a smettere; era rimasto lì, piegato in due sulla cattedra e rideva,
rideva, facendo quasi fatica a prendere fiato. Aveva dovuto abbandonare la lezione di
corsa, uscendo dall’aula senza smettere di ridere.
Qualche signore rientrava a casa e raccontava alla moglie che, senza nessun motivo
apparente, il pedante capoufficio aveva cominciato a ridere in mezzo ad una
noiosissima riunione di lavoro ed aveva continuato a farlo fino a che non era dovuto
tornare di corsa a casa.
Qualche signora, la sera, raccontava al marito che il conducente dell’autobus ad un
certo punto aveva interrotto la corsa del bus strapieno ed atteso per ore e si era
piegato in due sul volante colto da un’inarrestabile risata che non era riuscito a
calmare.
Cominciò cosi e la gente non ci fece nemmeno caso.
A parte i poveretti che avevano cominciato a ridere, chiaramente.
Quelli sì che ci stavano facendo caso. L’impulso improvviso di ridere si era
impossessato della loro volontà e non li aveva più mollati. Cercavano di opporsi con
tutte le loro forze; si sforzavano a pensare alle cose più tristi, ai lutti di famiglia, c’era
anche chi si era piazzato davanti ai telegiornali con la speranza d’intristirsi come
sempre.
Niente da fare.
Ridevano, ridevano senza smettere e dopo qualche giorno cominciarono a morire. Il
cuore cedeva di schianto dopo tutto quel ridere, il fiato mancava ed i polmoni non
facevano in tempo a riempirsi sufficientemente d’aria.
A quel punto la gente cominciò a farci caso.
I contagiati aumentarono a vista d’occhio, scoppiavano a ridere, si sganasciavano per
qualche giorno e poi crollavano stecchiti.
Presto ci fu il panico.
Gli scienziati non si raccapezzavano. Nessuno capiva come poteva accadere, non vi
era nessun criterio, nessun sintomo; nulla che facesse presagire l’imminente disastro.
Nel giro di un mese tutta la nazione risuonava di risate disperate, i disgraziati
ridevano sapendo che di lì a poco sarebbero morti. E morivano davvero.
Tutti diffidavano di tutti non conoscendo i veri motivi di questa strana storia. Molti
giravano con guanti e mascherine, salvo poi doversele strappare di corsa dal viso per
cominciare a ridere.
263
I Giovedì di Scrittura Fresca
Gli ospedali risuonavano di risate, le caserme grondavano di risate, i ministeri
colavano di risate.
Gli spettacoli televisivi cominciarono a scarseggiare visto che quasi tutti i
presentatori e le veline avevano cominciato a ridere, così i giornalisti.
I processi furono interrotti, non era possibile condannare una persona ridendogli in
faccia.
Lentamente la risata contagiò praticamente tutto il paese.
A parte qualcuno.
Una persona lì, un’altra da un’altra parte, ancora una più a nord e qualcuna più a sud.
Pochissime persone a cui il virus non faceva nessun effetto. Poche persone che
furono subito individuate, sottratte alla ridanciana rabbia della gente ancora viva e
studiate dagli scienziati.
La cosa si rivelò subito molto difficile, primo perché gli scienziati venivano
contagiati e quindi dovevano essere sostituiti di continuo e poi perché le analisi non
riportavano nessun dato anomalo.
I pochi non contagiati erano perfettamente identici a quelli a cui il virus della risata
pazza toglieva la vita.
Nessuno si raccapezzava.
I non contagiati erano molto seri e, bisogna dire, anche molto calmi. Intorno a loro la
gente rideva disperandosi.
Ormai il paese si era ridotto al fantasma di se stesso: tutto era fermo, nulla più
funzionava; i negozi erano chiusi e così anche i cinema, le banche, i musei. Non c’era
più un governo, gli ultimi rappresentanti si sganasciavano in Parlamento
maledicendosi ed incolpandosi a vicenda. Le scuole erano chiuse. I cimiteri
traboccavano. Non c’erano più rappresentanti dell’ordine, ma d’altra parte non
c’erano neanche reati, ché commetterne ridendo non è che sia così facile.
Le poche persone non contagiate si guardarono negli occhi e si divisero i compiti in
maniera equa e giusta: abolirono la proprietà privata, evitarono leggi e non crearono
nessun tipo di autorità; formarono un’unione di bisogni e interessi per tutti: una
completa libertà dentro una completa solidarietà.
L’ultimo scienziato che ancora li studiava, ormai già in preda alle risate li guardò uno
per uno ed urlò:
“Ecco cosa avete in comune voi, siete anarchici!” e con un’ultima e, questa volta,
vera risata morì anche lui.
A questo punto in cielo si addensarono velocemente alcune nuvole che, roteando più
volte su se stesse, formarono il volto di un uomo: fronte alta, stempiata, capelli ricci
sulle spalle, un bel barbone folto e scuro, guance paffute e due grandi occhiaie *.
Il vecchio guardò in basso e disse:
“Eppure l’avevamo detto che sarebbe stata una risata che li avrebbe sepolti!”
Mentre le nuvole si dissolvevano i sopravvissuti si guardarono negli occhi e, per la
prima volta, proruppero in una risata.
Breve però, ché per ricostruire il paese bisognava rimboccarsi le maniche.
* No, non era dio, ma Bakunin!
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LUNGA DEGENZA
scritto da: Massimo Botturi
Questo tripudio
di folli margherite
dice soltanto
che non sei più con noi,
e allunga l’ombra, verso quel bere
più generoso a sera, del prato dei vicini
pulito e profumato
come la nuca d’un bimbo
immacolata
appena fuori bottega del barbiere
tutto ti prendi ora
figlia terrena, diseredata ai tagli
e scalci
e già sconfini, tu pianta ossuta
che trascurata,
torni felina
in un balzo verde caccia
come quell’edera
determinata e milite
nella poltiglia dell’accecante bianco
riflesso tinto del muro soleggiato
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VIRUS
scritto da: Franco Zadra
Versavo in condizioni precarie e
Inutilmente mi provai a chiedere
Riconoscenti gesti in risposta
Umilmente implorando
Solidarietà negate.
IL MALAFFARE
scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo
Che il padre
sbagliasse i conti
era chiaro
per questo il figlio
fu un malaffare
e finì tra i virus
delle puttane.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
LA MALATTIA
scritto da: En_y_gma
Esiste un Virus che sta contagiando milioni di persone.
E’ un Virus subdolo che si manifesta solo a giochi fatti.
I sintomi sono:
Lo stereotipo, la noia, la ripetizione, la sciocchezza, la
stoltezza, la banalità, il pressapochismo.
Che sono dolori insopportabili per i perfezionisti.
Secondo loro questa malattia ci ucciderà se si aggiungono volgarità e ignoranza.
Sembra una strada senza uscita.
E` una minaccia in tempo reale.
In effetti, ognuno ha i suoi interessi, molti sono concentrati a far in modo di non
perdere quel che hanno, né i privilegi guadagnati.
E' il potere della seduzione del potere.
Il mistero velato, l'onniscienza del sentimento, della semplicità,
della fantasia, della femminilità.
Qualcuno pensa che basti prenderlo in prestito e via... sei subito qualcuno... “ed una
vita come vuoi che sia...”
Cosa possiamo fare per combattere questo virus?
Forse “superare l'uomo” come esorta Nietzsche.
Si vive e rivive e si cambia e si diviene, l'importante è essere sempre importanti.
Ma la cura è una sola: essere noi stessi e credere di esserlo fino in fondo.
Ma non è facile.
L'uomo è già superato, purtroppo andiamo verso il basso da un pezzo.
E molti si illudono perché credono di essere qualcuno come quelli che "vogliono che
siamo".
Eh si, siamo animali no? Senza sentimento, sensibilità... e limiti.
Ma ho ancora fiducia, perché quella cura esiste.
Le cosa facili non sono mai interessanti.
Chi eravamo prima che il diluvio seppellisse le montagne e
costruissimo la famosa barca?
Nessuno, in realtà siamo tutti dei, ma solo di noi stessi.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VIRUS (Qualcosa è successo)
scritto da: Dolphy
Il passaparola risuonò come un tam-tam. L’appuntamento era per le 12,00 al solito
bar, mancava però qualcuno. Apparentemente nulla sembrava cambiato ma quegli
sguardi che interrogavano, quei visi tirati e quell’aria preoccupata che si leggeva nei
loro occhi, testimoniavano che qualcosa era successo.
Nella stanza 107, l’ossigeno ribolliva nella grossa bottiglia di vetro. L’aria espulsa
dai polmoni creava allegre bolle festose. Bruno, seduto in poltrona accanto al letto,
cercava di concentrarsi su quel cinque verticale che iniziava con O e finiva con O, di
otto lettere, ma inutilmente. Era stato ricoverato la settimana prima senza un
apparente motivo. Faceva fatica a respirare, si sentiva stanco, era bianco come un
cencio. Dopo una tac e i dovuti accertamenti gli furono riscontrate bolle di aria nei
polmoni.
In un momento di maggiore stress fisico, un virus congenito si era manifestato
improvvisamente e lo aveva mandato in tilt.
Ecco lì gli amici, seduti al tavolino di un bar, in silenzio, a guardarsi negli occhi
consci di quella situazione più grande di loro. Quella cosa, presente e viva non era
relegata tra le mura di un ospedale ma aleggiava nelle loro teste, era tra loro.
Quella cosa era il vero virus. Partiva dalle viscere e lentamente risaliva verso lo
stomaco e su su fino al cervello. S’insinuava tra le lenzuola mentre gli occhi si
chiudevano o li assaliva all’improvviso, in macchina mentre tornavano a casa.
Quella cosa.
Si chiedevano a chi sarebbe toccato domani. Percepivano un senso di sollievo all’idea
che per quanto li riguardasse tutto fosse sotto controllo, ma quel tarlo, quel tarlo
continuava a rosicchiare. A chi sarebbe toccato dopo?
Avevano dei sensi di colpa al pensiero che l’altro fosse lì, su un letto a boccheggiare
come un pesce fuori dall’acqua mentre loro pensavano al prossimo viaggio.
Sicuramente quel viaggio lo avrebbero rimandato e nell’attesa che qualcuno iniziasse
il discorso si guardavano gli uni con gli altri, in una sorta di imbarazzo collettivo.
Alla fine qualcuno parlò. Si certo, dissero le solite cose che si dicono in questi casi e
si sentirono consolati all’idea di sentirsi vicini e condividere le stesse preoccupazioni.
Ma ormai lo sapevano. Erano stati contagiati tutti da un virus più forte e imbattibile,
un virus che nessuna medicina avrebbe potuto curare perché si era ormai radicato in
loro. Il virus della paura.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
MI CHIAMAVANO IL QUARTO CAVALIERE
DELL'APOCALISSE
scritto da: Ettore Bilbo
I miei guai sono pervicaci. Ogni volta provo a convincermi che non ci sono ma loro, i
guai, emergono dal fondo del bugliolo belli gonfi e maleodoranti. Vita cacca.
Per tentare di risolverli una volta sono andato dall’estetista, tale Maria Giovanna
Gambettini. Una rossa, dai capelli ariosi ed unghie in perfetto stile pantera, che mi
fumerei con piacere. Purtroppo la bella non è del parere.
Maria Giovanna che in paese chiamano la fumosa, per via del suo carattere tendente
al burbero, ma anche per altri e vari motivi, gestisce il negozio d’estetista sulla strada
principale del paese. Si tratta di una strada importante e n’è riprova il fatto che gli
altri balconi ad affacciarsi sulla via sono quelli del comune, della scuola elementare,
del dentista e per finire della baldracca Carmela.
Carmela ed il sindaco si contendono la fascia di primo cittadino in paese, lui per
questioni ufficiali e lei per motivazioni decisamente ufficiose, ma non meno valenti,
anzi, credetemi.
Fatto sta che andai da Maria Giovanna pieno di belle speranze, ben vestito e
preparato sulle tecniche più innovative di questa scienza moderna, che tanto si
avvicina ad un'arte, pronto a disquisire sul taglio migliore, sulla lacca più ecologica e
sui prodotti più innovativi. La felina mi accolse con una risata di scherno, per
cominciare, e poi continuò con la scopa in mano, ma non le do torto che nella fioca
luce del salone rischiavo di spaventarle i clienti.
Perché, ebbene sì lo dico, il mio problema è di esser brutto. Ma non brutto che con
due passate di vernice e tre d’orgoglio tutto passa, proprio brutto che se mi vede il
prete si segna e poi corre in sagrestia a rincuorarsi sulle pagine di Play Boy.
Quando a tredici anni c’ho provato con Carmela - apro e chiudo parentesi per far
notare la perfidia della natura, tale da consegnarmi un corpo disgraziato con una fame
precoce -, questa non ne ha voluto sapere neppure previo consistente pagamento
rateale. Avesse acconsentito starei pagando adesso le ultime rate. Mi disse invece che
non ne valeva la pena di tentare, che ad esser brutti come me si è peggio della
malattia.
“Tienlo bene stretto il tuo cosino”, mi disse “ che il tuo seme non ha da spargersi in
giro. Tu sei peggio dell’AIDS!”.
Siccome a tredici anni la mia ignoranza era somma, l’AIDS nemmeno sapevo se era
buono da mangiare, fu per questo che non mi diedi per vinto. Ma, l’ho detto, i miei
guai sono duri a morire.
Era tempo, quello, di ghiaccioli al bar del Ciccio, poche lire per slurpare come porci.
Presi l’abitudine di offrire ghiaccioli ad ogni compagna di classe la cui rettitudine
morale assomigliasse ad un cerchio. C’erano Anna, cuore di panna, Mariella, gusto
cannella e Iolanda, detta la Iola fino alla gola. Tre amabili divoratrici di dolci che
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I Giovedì di Scrittura Fresca
presero in simpatia il mio piccolo portafogli peloso. Sì peloso, che volete, mia madre
ha un gusto tutto suo per i regali, basta guardarmi per capire che razza di senso
estetico abbia. Ma io sono il suo cucciolo d’oro, capite, e giusto fossi fatto tutto d’oro
qualcuna mi piglierebbe.
Tornando ai gelati, quella fu un’estate calda, Anna mi dissanguava di cornetti,
Mariella mi spellava con i coni e Iolanda scorticava il poco che restava di me con i
ghiaccioli. Eppure, ogni volta che seduti sulla panchina del sagrato a mangiarci i
gelati, io allungavo furtivo la mano libera verso le anche giovincelle delle mie tre
parche, queste non esitavano a tagliarmi il filo, anzi m’avrebbero tagliato altro a loro
dire, ma la mia somma ignoranza si moltiplicava in ingenuità per cui non desistetti
neppure dopo tale prova.
Diventando più grandicello ho cominciato a subodorare la fregatura. I miei coetanei
sfoggiavano capelli fluenti e ben pettinati, io andavo in giro con una massa
schiumosa e posticcia di un biondo pipì. I miei compagni correvano per le vie
mostrando i muscoli in crescita alle ragazzine, io zoppicavo sul marciapiede e
chiedevo aiuto alle vecchiette per attraversare la strada. Loro che gioivano del bel
tempo e del sole perché potevano fare i pic-nik, io che a stento mi rendevo conto di
che giorno era. Tanto tutti uguali mi parevano.
Io e loro. Me ne stavo seduto per terra sotto casa di Carmela - ogni mese rilanciavo
con la mia offerta rateale -, quando ci pensai: c’era un muro a dividermi dal resto del
mondo. Io, la malattia, il virus, non dovevo perforare la parete cellulare ed infettarli,
non avevo diritto neppure di pensarci, figurarsi a riprodurmi.
Mi misi a studiare sodo: come fanno i virus ad inchiappettare la gente? Mi dissi che
se ce la fa un organismo che neppure è del tutto vivo, potevo farcela pure io. Dovevo
farcela.
Sognavo di tanti piccoli girini brutti e informi come me che scorrazzavano liberi per
le vie uterine di qualche donzella, ci passavo le ore su questo pensiero, ma nel
frattempo sprecavo cartucce chiudendomi in bagno.
Continuai a studiare, perché un modo doveva pur esserci e se non lo trovavo allora
significava che dovevo cercare più a fondo. Finite le superiori ho iniziato l’università,
finita l’università mi sono fatto un dottorato e dopo il dottorato un master negli Stati
Uniti.
Laggiù negli States era ben diverso dal mio paesello, per un attimo credetti di
potercela davvero fare. Di baldracche ne servono per accontentare tutta quella gente,
mi dissi, ed una pietosa per me l’avrei pur trovata, no? Ed invece non la trovai,
l’avrete capito, altrimenti non sarei qui a raccontarvi questa storia.
Così continuai a passare il mio tempo chiuso in stanza a studiare, mi ero addirittura
stufato di affacciarmi alla finestre per sbavare alle cow-girl di passaggio, ho imparato
che quelle guardano solo i cavalli da monta.
In fine che dirvi, io che volevo infettare il mondo di me fui infettato dal mondo. Una
mattina mi svegliai ed era successo: ero diventato intelligente. Decisi che dovevo
subito chiamare mia madre per informarla, ma ebbi paura che non prendesse bene la
notizia. Da noi al paesello non eravamo abituati a queste cose. In fondo già ero
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I Giovedì di Scrittura Fresca
brutto, pure intelligente era davvero troppo. Fu per questo che non tornai in Italia e
rimasi a studiare in quella università lontana. Ho studiato e studiato ancora, fino a
stasera che mi ritrovo qui.
Per cui bella gente, guardatemi, mi vedete per bene che sono vecchio ed il
pagliericcio tendente all’urina dei miei capelli è diventato bianco latte scaduto, ed il
gracilotto muscolame cadente s’è trasformato in rotoli lardosi altrettanto cadenti e
anche di più.
Ma ora che ho studiato tanto da trovare la cura al male del secolo e mi ringraziate con
il Nobel, ora che pendete dalle mie labbra nonostante le assurdità che biascico, dico:
ora c’è in sala qualche baldracca che voglia farsi un Nobel o davvero ho studiato tutti
questi anni per niente?
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I Giovedì di Scrittura Fresca
HIVirus
scritto da: Serenella
la mano sapiente
correva sui seni
slegava incertezze
rotolava sui fianchi
ghermiva piaceri
giocattolo vuoto
piccola bimba
senza orizzonti
appesa alle ali
di un cielo muto
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I Giovedì di Scrittura Fresca
VIRUS . ANNI SETTANTA
scritto da: -Vaannon è mai stato sufficiente
sapere, quando arriva il primo raggio
dietro l’ombra enorme
di questi conglomerati di calcestruzzo
proiezione decadente dentro la mia stanza.
chissà se una tromba d’aria
e quale aria mai investe intera la palude gremita
dove nessuno smuove
il miracolo, che hanno chiamato architettonica
tutto soggetto a poche variazioni
di gemmazione spontanea in disuso sole.
nemmeno una piazza degna di una stagione
in queste gabbie cilindriche fatte polifemi
gendarmi per quattro fisarmoniche
s’un palco, mezzovuoto, che attende i corpi
e il corpo unico di parrocchia mamma
con la banda esaltata in processione
a benedire un traffico di bestemmie
nel dormitorio quartiere
diffuso virus peninsulare
e un popolo di fantasmi pallidi
ammalati di grigiore, in periferie mammouth
trascina il suo futuro in errore
un uomo solo che ripara seduto alle braccia
la sua guancia e mi guarda
nel mio impotere che l’osservo
cliccare il vuoto, per saperne di più
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I Giovedì di Scrittura Fresca
ER VIRUS
scritto da: Brizgraz
Piagno da l’artro ieri e sopra l’occhi
me c’è venuto come un gran rossore
me manca er fiato, sto cor batticore
e me fa male solo si me tocchi.
So’ annato pure a dijelo ar dottore,
che m’ha scucito più de du’ bajocchi:
“la corpa –dice- è delli strettococchi
de un virus spriggionato a Singapore!”
Sarà così però me pare strano
che tutto sto fastidio e sto dolore
sia corpa de un animaletto nano!
Li sintomi so’ quelli dell’Amore
e io che ciò sperato tanto, invano…
ciò solamente un artro raffreddore!
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I Giovedì di Scrittura Fresca
MA LO SAPETE COSA È UN VIRUS
scritto da: Ermione
Ma lo sapete cosa è un virus?
Un ammasso subdolo di proteine, dice la Biologia. Una cosa, forse, neanche un
essere, perché non c'è esistenza propria quando si vive alle spalle degli altri.
Questo dice la Biologia, che quando non sa dare una definizione alla vita e alla morte,
almeno, dà un significato alla “non vita”.
Che cos’è un virus? Un capside stupendo -una scatola, per farla breve- di mirabolante
armonia geometrica, con l’eleganza delle cupole del seicento e la grazia leggiadra
degli arabeschi orientali con all’interno nascosto un filo magico di DNA.
Con questo patrimonio, che si porta dietro ovunque o quasi, come la chiocciola fa con
il suo guscio, il virus gira il mondo e si espande secondo la voglia, secondo il terreno
che trova, senza scopo o pena.
Senza fatica alcuna, ché la fatica la fa chi lo ospita e gli mette a servizio tutto quello
che possiede: energia, trasporti ed industrie specializzate.
Così, bellamente a suo agio, il virus fuoriesce da ogni orizzonte teleologico ed agisce
come è programmato, secondo il suo piccolo fardello di DNA .
L’unica memoria che possiede è questa, e la trasmette uguale ai suoi figli - una
nidiata di dimensioni considerevoli- e per ognuno di loro viene spontaneo affermare:”
sei proprio il ritratto di tuo padre”, perché gli rassomigliano in tutto e per tutto.
Talvolta capita che il virus si affezioni a qualche luogo e vi si annidi, subdolamente e
all’insaputa dell’ospite - l'ignara cellula- nascosto nel nucleo confortevole, in ozio
perfetto, tra un codone ed un introne, come se dormisse tra cuscini di seta.
Ma quando vuole fa i bagagli, DNA in spalla, e senza salutare nessuno parte e naviga
pigramente verso nuovi lidi più graditi.
A volte ruba, non per cattiveria o per necessità, ma per puro caso, o distrazione.
Così qualche frammento dell’ospite gli rimane attaccato, a fare la fortuna o la
sfortuna delle successive generazioni, che con l’innovazione sbadatamente ottenuta,
interrompono l’uguaglianza gemellare dei precedenti parti e quindi del precedenti
successi di colonizzazione e proliferazione.
Così agisce la selezione naturale, cui l’uomo non è più sottoposto, secondo quanto
dice e crede la Biologia.
E’ triste la vita di un virus, vilipeso per azioni di cui non ha neanche consapevolezza,
perché la sua, povero tapino, è solo “volontà di vita” di filosofica memoria e di pura
innocenza, ché il peccato non arriva là dove non c’è il calcolo.
Dopo un giorno intero di crudele commemorazione, in cui l’imputato non ha potuto
difendersi, mi piace lasciarne quest'ultimo ritratto: aggrappato con infamia e senza
gloria, alla sottana della vita di un altro.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
V.I.R.U.S.
scritto da: Rana Fritta
Phil imbracciava annoiato il fucile, con le dita tiptappava silenziosamente il metallo
della canna, era cacciatore convinto almeno quanto essere umano dubbioso,
camminava tra gli alberi fingendo interesse per ogni potenziale obiettivo da fuoco,
ma in realtà girava in cerca dei suoi pensieri, calpestava il suo umore, spezzava foglie
di vario tipo che arricchivano la sua insalata di problemi. Ne aveva di problemi in
effetti, ma quella mattina era cacciatore e pensava di potersene fregare. Prima di tutto
sparare, prima di tutto uccidere, soprattutto evitare di morire.
Mark dal suo canto era entusiasta di quella gita fatta senza svegliare il sole, vestito
come alle prove militari e con la possibilità di mirare e sparare. A un cerbietto, una
cervacca, una volpestifera, un cinghiacciolo, un’aquilaica reale, un falcoraggioso, un
lepredatore, uno squonk, un pendragone, un galagone pezzato, un ornitorincoglionito,
una lumaserati, un colibriaco, un dainonsparare e chissà cos’altro…
Erano partiti presto per quella battuta di caccia, battuta seria, si sperava di ridere, ma
l’intenzione di uccidere era impegnativa. La macchina era rimasta parcheggiata sul
suo cuscino d’aria e ologrammata a sembiante zero per antifurtarsi e per non rovinare
l’ambiente circostante col suo colore acrilico e innaturale. Gli animali non potrebbero
capire e si intrerrogherebbero, e interrogarsi significa farsi domande, elaborare,
pensare, diventare umani e quindi magari iniziare a camminare e poi imbracciare
un’arma e decidere forse anche di andare a caccia. Di uomini? Inammissibile,
impensabile, non auspicabile, per lo meno disdicevole. Non era certo questione di
buco nell’ozono, ma ormai la teoria evolutiva era di gran lunga soppiantata dalla
prassi evolutiva e bastava che un comportamento venisse mediamente accettato dal
mondo animale o giudicato tout court conveniente perché giustificasse nell’arco di 48
ore evoluzioni che in secoli precedenti sarebbero state giudicate fuori da ogni
concezione o grazia di dio. E l’uomo ancora non si accettava animale come un altro.
Qualcuno nei secoli evidentemente l’aveva lasciato fare, concedendogli una
pericolosa assuefazione alla preponderanza, alla prepotenza, alla presupponenza.
Ovviamente ogni essere umano preferiva essere inconsapevole piuttosto che
rassegnato. E sparava e uccideva in omaggio ad antico sport (“La caccia è uno
sport…!” aveva sempre ripetuto senza corollare alcun dubbio Mark) ma anche e
soprattutto ora per evitare che qualcuno o qualcosa decidesse di chiedergli di farsi da
parte. Del resto, gli animali commestibili erano rimasti pochi e pochi erano i
cacciatori che avevano ancora fame. Dai tempi del grande Kevin e dei lupiagnoni non
si sentiva più una storia di saggezza. I bufalieni erano quasi estinti. E da allora anche
il saggio Costernauta balla coi cupi.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
L’umanità viveva la grande menzogna. Da una parte del globo si moriva di fame,
dall’altra si entrava in clinica per dimagrire, in mezzo scatolette scortanti cibo che si
sarebbero esaurite solo quando ziodio avesse deciso di aggiungere un posto a tavola
per qualche razza aliena.
“Cavolo pensi, Phil?”
“Be’, pensavo al fatto che se incontro un squonk… sì, insomma… ho paura della
maledizione del Trick of the tail…”.
“Il colpo di coda?”.
“Già, si dice sia una leggenda ma io una volta l’ho visto uno squonk. E’ feroce e sai
perché? Perché è bello e grazioso e sembra innocuo, ma ha una coda lunghissima, ti
frusta e ti inietta milioni di spore nel sangue, ti dona il suo… seme…”.
“Seme…?”.
“Sì! Seme, anche se alcuni ricercatori lo chiamavano virus…”.
“E che ti fa il seme?”.
“Be’, ammesso sia vero… ha un potere particolare… se riesce a guardarti negli occhi
prima di colpirti, trasmette ad ogni singola spora istruzioni di interazione assoluta e di
conseguenza, come per effetto di nanoistruzioni marginali a livello di ogni singola
molecola, si prende il tuo corpo e ti dona il suo…”.
“Ma che stupidaggine! Scusa, sai quante molecole ci sono in un corpo umano…?”.
“Certo che lo so, ma le spore sono attive, nel senso che ognuna fornisce istruzioni di
comunicazione coatta, come se impartisse una sorta di catena comunicativa
ineluttabile, che annulla la volontà del corpo ospitante. V.I.R.U.S., Variabile Invasiva
Reagente Unicellulare Seriale, per il resto, vuoi la magia, vuoi la dinamica biologica
incomprensibile, be’, si prende la tua anima se preferisci che te lo dica con parole
più… poetiche!”. Intanto col fucile scasava la vegetazione che era più fitta, gli anfibi
camminavano meno spediti, l’ansia era percezione non indifferente, il racconto
suggeriva ponderazione anche nei passi).
“E poi?”.
“E poi cerca di imitarti, ma in realtà ti clona lo spirito, perché lo squonk gioca…”.
“Gioca?”.
“Sì, gioca, non ha coscienza di averti infettato, non si rende conto di ciò che fa, si
vede come riflesso in uno specchio ma si conforma alle istruzioni comportamentali
del corpo che lo ospita e francamente non so se succede lo stesso all’anima del
poveraccio che finisce nello squonk… del resto, non ne sono certo perché altrimenti
chi avesse avuto l’esperienza e fosse tornato alla casa madre avrebbe potuto
raccontare le sue “sensazioni” ma pare che nessuno poi ricordi nulla, si ritrova
inebetito e cerca di capire cosa ha fatto in quegli istanti…”.
“E poi?”.
“Ti ho detto tutto quello che ho sentito dire, favole metropolitane comprese, non
saprei dirti altro… ah sì, si dice che l’effetto duri cinque minuti a meno che…”.
“A meno che?”.
“A meno che nei cinque minuti non succeda qualcosa che impedisca allo squonk di
riprendersi il suo corpo e di restituire quello in prestito...".
277
I Giovedì di Scrittura Fresca
“Ma che insulsaggini…” affermò Mark con eloquio monotono, scalciando un sasso e
un’evidente ansia insieme.
“Attento! Un pettirozzo…”.
Uno sparo violentò il silenzio quasi sacro del posto. Mark sventrò un albero e fece
volare una nuvola di piume disintegrando il pennuto in una poltiglia nuvolante di
sangue, terrore e piume. Cento metri più avanti, voli affannati lasciavano tracce di
disperazione nell’aria.
“Ma porc…” disse Mark, ricaricando il suo bazooka a spanne mozze, accendendosi
una sigaretta.
“Sei un idiota! Hai un fucile con munizioni per ippopotesi da tre tonnellate e ci spari
a pettirozzi da mezzo kilo! Sei il solito bastardo…”.
“Uah uah…”. Clang, il ferro che celava il siluro pronto a obbedire e a colpire il
prossimo obiettivo, qualunque esso fosse. “Ma che ti frega…? Dài, su, stavo solo
riscaldando i muscoli, un po’ come un atleta che scioglie le gambe sui nastri di
partenza”.
“Sì, uguale, solo che la pistola ce l’ha lo starter e spara in aria! E non disintegra un
polletto imbrattandomi, porca miseria, la giacca nuova, di sangue e merda! Il povero
pennutile non ha sofferto, questo è sicuro, ma prima di morire ha avuto il tempo di
cacarsi sotto…! E questa cosa mi sembra molto triste. Per la mia giacca e per una
morale che sento ci sta sfuggendo…”.
“Ah ah… sì, come no, la morale… lo vedo infatti il tuo fucile… fino a poco fa
pensavo fosse solo un bastone per la tua vecchiaia… ma fammi il piacere, amico
mio… cos’è, stamani lo hai caricato a cavolate… come si chiamano, morali…?”
“Tu mi preoccupi, non so, ma ho l’impressione che sei più animale di tanti altri…
chissà magari un giorno metto la tua capoccia come trofeo sul mio ologramma di
caminetto…” abbozzò un sorriso perché si rese conto che l’amico non poteva
comprendere il suo sfogo e che non poteva chiedergli dopo tanti anni di cambiare.
Sentiva di essere fuori contesto, sapeva che quella mattina non sarebbe voluto andare
a caccia, non per una questione di morale o di etica o di teoria comportamentale
evolutiva, ma semplicemente perché si rendeva conto di quanta pochezza ci fosse nei
gesti umani. Aveva piena coscienza che certi strumenti erano macchine strepitose e
perfette per realizzare urlando intenzioni sublimi, in un senso o in un altro. Laddove
l’uomo non arriva, ci arrivano certi strumenti, incapaci di pensare e semplicemente di
eseguire. E se questo è un meccanismo alchemico apprezzabile, per esempio, in
campo musicale, diventa un meccanismo ferale allorché l’uomo affida ad un grilletto
la sua intenzione e la sua coscienza…
“Sai, Mark, pensavo… ti è mai successo di mirare e di sparare ma nella stessa
frazione di secondo decidere di non farlo, ma ormai è troppo tardi, hai visto l’occhio
del dainonsparare e ti rendi conto di non poterci fare nulla, perché tu, omino
presuntuoso, hai affidato a un’arma la realizzazione di una tua intenzione?”.
“Che? Ferma ferma… non ci sto capendo niente…” Mark intanto fischiettava,
lucidando la canna del fucile, verificandone ossessivamente ogni due o tre minuti la
perfezione.
278
I Giovedì di Scrittura Fresca
“Dài, lo so che non sei stupido, voglio dire, tu hai un’intenzione, ma decidi
improvvisamente di cambiare idea… quando premi un grilletto, lo fai in un istante
talmente breve che non ti lascia neanche il beneficio del dubbio, ormai non puoi
cambiare idea, hai passato il testimone e il tuo strumento è perfetto, obbedisce e
finisce il suo compito. Non lo trovi terribile?”.
“Uah uah uah… amico mio, lo sai che ti voglio bene, e accetto anche le tue seghe
mentali! Piuttosto…” ora Mark ostentava spavalderia e intendeva con ciò
differenziarsi dal lume sempre più perplesso dell’amico “dammi un tuo squonk che
gli faccio una foto!” prese la mira col bazooka e mirò in più punti minacciandoli tutti.
Phil lasciò cadere il suo discorso poetico “Non scherzare, Mark, non scherzare su
queste cose, un colpo di coda di squonk lancia spore in un raggio di dieci metri, se
non lo becchi prima della frustata, be’, il virus si trasmetterà a qualsiasi cosa organica
vivente nel raggio di slancio della coda… Uno squonk di trenta cm ha una coda di un
metro buono, sottilissima, la porta come nascosta arrotolata, ma se terrorizzato la tira
fuori e colpisce rincoglionendo l’ambiente che lo ha disturbato e noi umani per lui
siamo ambiente di disturbo…”.
“Ma va' là, Phil, ora esageri…” Mark accarezzò il bazooka come ostentando
un’evidente dichiarazione di fiducia “dammi il tuo porcelato d’india o squonk o come
càspita si chiama e stasera ti lascio cantare Supper’s ready prima delle sette!”.
“Povero illuso… Lo squonk si dice sia imprendibile e ammirabile, per diversi motivi
che dovresti sperare di non verificare. Non hai mai letto i “Nursery crimes” di... be’,
non ricordo l’autore…”.
“Cosa?”.
“Vabbè, un libro giallo… E’ la storia di una nutrice che incrocia lo sguardo con uno
squonk e che per un qualche motivo in una trance di cinque minuti fa fuori un’intera
classe di bimbi, ti evito i particolari… Ovviamente, il libro parlava poi dello squonk
con dovizia di particolari e, ti ripeto, si dice non fossero solo invenzioni letterarie…”.
“Non so cosa ti preoccupi, oggi, Phil, ma sta’ tranquillo, non temere ho mira
infallibile e il tuo animaletto te lo porti a casa attaccato allo specchietto… e lo metti
sul caminetto al posto della mia capoccia... ihihih…”.
Phil mise un piede sulla coda di un volpetarda, e lo scoppio lo fece saltare. Mark
sorrise.
“Hai calpestato una merda di fungo esplodente… uah uah… funghetto velenoso con
la coda! Dài, su, cerchiamo di prendere almeno un’uccellodola nella sua polentana…
almeno stasera mangiamo qualcosa…”.
“Ma piantala! Non vedi che non ci sono animali in giro…? Ed è strano, arriva l’alba,
e al mattino anche gli orsonnambuli si svegliano… eppure niente…”.
“Be’, te ne do atto, hai detto un mucchio di idiozie apocazzalittiche, ma in effetti hai
ragione in questo caso…” e si accese un'altra sigaretta, sbuffando fumo stressato.
I due si fermarono e si misero seduti su un grosso sasso, lasciando i fucili su un
braccio. In quel preciso istante, un rumore di passi brevi attirò la loro attenzione, Phil
si girò, fece in tempo ad avvertire Mark che si gettò sul suo bazooka quasi scusandosi
con lo stesso per averlo abbandonato anche un solo attimo… avevano di fronte…
“Cosa è questo coso?” disse Mark sorprendosi a tal punto da lasciare il suo fucile
279
I Giovedì di Scrittura Fresca
a(m)mirare il terreno.
“Oddio, non ci posso credere, uno squonk… lo vedi il pelo bianco con le striature
rovere, li vedi gli occhi rosa e le orecchie flaccide?”.
“Sì, li vedo, ma che cavolo significa?”.
“Niente di buono! È spaventato e ora… ci sfida a duello… se provi a premere il
grilletto lui se ne accorge e ci frusta infettandoci… ora abbiamo due soluzioni… o ci
allontaniamo e almeno uno si salva… o proviamo…” Phil provò a spiegare, ma
inutilmente, Mark aveva il dito sul grilletto, lo squonk cambiò angolatura al pelo,
sgranò gli occhi, tirò fuori la coda e frustò l’aria facendo vibrare sottilmente il colpo,
e poi ancora un altro per tornare a seminare laddove avesse mancato. Le spore
colpirono prima Mark e poi Phil, quest’ultimo però stava guardando un
orsoltraggioso nano che sullo sfondo cercava salmerende in un ruscello inquinato,
Mark stava guardando negli occhi lo squonk invece. L’animale fece lo scambio, si
prese il suo corpo e gli donò il suo. In campo lungo l’orsetto fuggì rinunciando al
pasto e sollevando pozzanghere di acqua stagnante, ci fu uno scoppio, Mark urlò. Poi
urlò di nuovo ma stavolta non era più lui. Lo squonk ora aveva le mani di Mark, le
sue intenzioni e soprattutto il suo fucile. Phil capì tutto e gridò
“Noooooooooooooooooo”. Mark tentò di scappare inciampando nella sua nuova coda
e indossando goffamente il suo nuovo corpo, lo squonk si divertiva, riceveva
istruzioni semplici e dirette dalle memorie sinapsiche del corpo di Mark, prese la
mira e sparò. Colpì lo squonk ad una gamba. Mark provò un dolore atroce e del tutto
nuovo. Il suo avversario prese di nuovo la mira, aveva intento giocoso a dire il vero,
neanche sportivo, e sparò al cuore. Lo squonk con gli occhi di Mark sgranò gli occhi
cercando di scrutare tra le nuvole amaranto l’assurdità della situazione, tra le stesse
riuscì a capire in un certo qual modo i dubbi dell’amico Phil, proprio Phil invece in
quel momento non palesò dubbi, puntò l’arma su Mark e uccise lo squonk che stava
giocando. Quindi si avvicinò all’animaletto ferito a morte e ebbe modo di verificare
che con la morte l’effetto virale di scambio diventava definitivo. Vide gli occhi
dell’amico nell’animale e sentì dall’altra parte l’uomo posseduto parlare.
“Incredibile, amico mio, per una volta ho provato la sensazione di chi o cosa viene
cacciato, come te la descrivo? Non sono in grado… posso solo dirti che ho avuto
tanta paura, che ne ho e che però ho la strana consapevolezza che morire è l’unica
cosa che mi rimette in pace con la coscienza. Come faceva quella canzone… la
ricordi? The carpet crawlers mi pare...”. Mark iniziò a cantare. “We got to get in to
get out... we got to get in to get out…” poi smise e tornò all’amico “Mi spiace, Phil,
hai dovuto spararmi, tu che non eri neanche troppo convinto della caccia…
Tranquillizzati, del resto che se ne sarebbe fatto lo squonk del mio corpo, avrebbe
tentato uno scambio con te e avrebbe continuato a giocare... Un fottuto colpo di
coda... Un virus bastardissimo... Non cercare di vendicarmi... E’ un gioco che prende
in prestito le istruzioni dalla scatola umana che ogni volta apre... Mi ha sparato
cercando di capire cosa divertisse me, uomo, cacciatore... Divertente, no...?” e smise
di dire, per sempre, fissando le nuvole fuxia, sorridendo però.
280
I Giovedì di Scrittura Fresca
Lo squonk fece altrettanto riprendendosi e restituendo l’anima per consegnarle ai
rispettivi giudici definitivi. Phil si mise l’amico in spalla e cominciò a vagare nella
boscaglia cantando anche lui una canzone, “I know what I like and I like what I
know...”. Ma non tornò più a casa. Leggenda vuole che forse abbia incrociato anche
lui lo sguardo dello squonk prima che questi morisse e che ora vaghi senza mèta
spinto dalla voglia di non capire le assurdità delle cose divertenti degli uomini.
“...arrivo a comprendere quindi che le spore dello squonk non sono elementi
vettoriali di alcun virus, ma al contrario l’antidoto a ben altro V.I.R.U.S. [Variante
Ingenita Recrudescente Umanoide Staminale] che gli uomini sintetizzano al
momento della nascita e che li porterà – con probabilità statistica non irrilevante in stati embrionali successivi a generare violenza nella convinzione di "giocare"
sportivamente...”
in Nursery Crimes di Gabry Peter Hell – 2004, Ed. Selling my land by playground
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I Giovedì di Scrittura Fresca
282
I Giovedì di Scrittura Fresca
Numero dieci 30 Giugno 2005
Quando gli uomini ci provavano come si deve
Hanno partecipato
Brizgraz
Li penzieri der giovane Spartaco
Talesien
Sesso selvaggio
Franco Zadra
Quando gli uomini potranno vedere lo Zed alla luce
del sole?
Dareios
Quando Shakespeare ci provava con la Dark Lady
(traduzione del sonetto 135)
Vittorio Fioravanti
283
Pelle morbida
I Giovedì di Scrittura Fresca
LI PENZIERI DER GIOVANE SPARTACO
scritto da: Brizgraz
“E daje Ervì ... e levete ‘sta vestaja, che te faccio vedè io ... artro che bambola de
gomma ... e girete così ... ammazza quanto sei bona ... famme toccà ... preparete che
mò ariva Spartaco tuo ... m’hai messo in subbujo da quanno t’ho visto la camicetta
sbottonata ... e dì la verità che pur’io te piacio ... tu m’hai provocato e io mò te
distuggo ... io me te magno ... ecchissenefrega de quer cojone de Rolando ...”
Nooooo!!!!
Oddio che stavo a sognà ....
Che ore sò, famme vedè ... le due!
Meno male che hanno sonato alla porta prima quanno stavo a casa de Ervira... sennò
chissà come annava a finì... certo che ce semo annati proprio vicini ... e mò quanno
me riaddormo? Sò ancora tutto eccitato ... certo che ‘sti Biuti Senter fanno li
miracoli! Ervira s’è trasformata, è diventata ‘na bomba sexy ... eppoi io la conosco da
quindici anni è pure ‘no spasso ... ma come avrà fatto Rolando a pijassela una così!
Certo che sur più bello, quanno prorpio che se stava a indurì la situazzione e che te
l’avevo sdrajata sur talamo... sona er campanello e quello stronzo de Oronzo, er
professore der piano de sopra, me viè a rovinà er piattino!!!
“Scusi ho finito i pennarelli – dice- che ciavrebbe qualcosa per scrivere che sò
rimasto co’ na dimostrazzione a metà?”
Ma vatteneamorìaffanculo Orò ... te e tutti li pennarelli Carioca che t’aritrovi!
Mejo così, però!
‘Ste cose bisogna falle a mente fredda ... se s’eravamo fatti trasportà da la passione ...
mo’ Rolando era cornuto e io, er suo migliore amico ero er corpevole! Nun ce vojo
pensà!
Però Ervira mia ... come te dovrò guardà domani?
Come te potrò più venì vicino senza provà er brivido de la lussuria che ce se stava pe’
pijà?
Come potrò incrocià lo sguardo tuo senza lanciatte un segnale de complicità e de
intesa?
Come potrò parlà serenamente co Rolando senza ripensà a quello che c’è stato tra de
noi?
Nun posso ... l’amicizzia pe me è sempre stata sacra ... ce dovemo sacrificà Ervì ...
dovemo tenesse dentro tutto ... è stato solo ‘n’attimo ... io t’amerò in segreto ... pe
sempre!
No tanto nun ce riesco più a dormì! Mo’ me metto a preparà le convocazzioni de
l’Assemblea der condominio. In fonno so’ ancora Amministratore! Dici bene, dici ...
ma come faccio che ciò solo Ervira in mente ... je devo spiegà ... je devo scrive ‘na
poesia, lei capirà! Domani matina jela darò…
284
I Giovedì di Scrittura Fresca
DRINNN ... DRINN ...
“Arivo, arivo ...”
“Ciao Ervira…”
“ah ... Spartaco ... ciao ... che me voi parlà pe ieri sera? ... Io nun me sò pentita de
gnente ... e quanno che lo voressimo rifà tu me trovi pronta ... anzi entra che Rolando
nun c’è ...”
“Ervira bella ... pure a me me s’è smosso quarcosa drentro ... me piaci e m’è piaciuto
lasciamme annà ieri sera ... però ... però ...”
“Però che ... a Spartaco ... tra me e Rolando ormai nun c’è più gnente ... nun lo amo
più ... mò penso solo a te ... viè drentro Amministratore mio ... che te faccio la partita
doppia eppoi er bilancio lo fai ... a consuntivo!!!”
“Nun fà così Ervì che si nun la smetti te sarto addosso sur pianerottolo ... se dovemo
controllà ... tiè, questa è la convocazzione de l’Assemblea ...”
“E sti cazzi ... io nun la vojo l’Assemblea ... a me me basta er Presidente ... daje entra
dentro che te lo metto a verbale!”
“ Leggila Ervì e capirai ... ciao!”
“Nun te ne annà, resta ... se n’è annato ... ma perchè insisteva tanto co sta busta? Io
nun ce sò mai annata alle Assemblee ... famme vedè ...dunque ... e che d’è ... un
bijettino!”
A ERVIRA, VITA MIA
Ervì tu lo sai che nun ce sò fa co le parole, ma da ieri sera me tormento e ripenso a
noi ogni momento ... però c’è Rolando e tu lo sai che semo amici da sempre! Per
adesso accetta ‘sta poesia ... certo nun sò Ghepardi ... però ciò er sentimento!
In questo granne mare de perzone
ce stà ‘na donna che m’ha innammorato,
che m’ha stordito, m’ha rinvortolato
e che me fa rinasce la passione!
Però l’Amore spesso è travajato,
e quarche vorta è solo ‘n’illusione
che te fà crede che quell’emozzione,
sia sempre pura e che nun sia peccato.
Vorei gridallo ar Monno e nun lo dico,
perchè l’impone la cavalleria:
“Amo la moje der più caro amico!”
285
I Giovedì di Scrittura Fresca
E ‘r fiore profumato che m’attira,
come nient’artro ne la vita mia ...
risponne ar nome de Cecconi Ervira!
CHISS
X X X (icchese, icchese, icchese) ... Spartaco tuo
“...Com’è romantico! Rolando a me nun m’ha mai scritto manco la lista de la spesa!
... ”
286
I Giovedì di Scrittura Fresca
SESSO PRIMITIVO (fantascienza)
scritto da: Talesien
Jack Bobbit si avvicinò alla sua segretaria.
-Ti va di farlo?- disse senza preamboli. Jessica alzò gli occhi blu dal monitor per
fissare Jack
-Finisco di inserire un paio di comandi e possiamo...farlo- disse la frase in un modo
così sexy che Jack sentì un brivido salirgli dal fondo della spina dorsale.
Lavoravano entrambi per la "Minerva Mineraria" una società che estraeva ferro e
cadmio dagli asteroidi della "fascia". Era un lavoro noioso e ripetitivo; un modo
come un altro per passare il tempo. Jessica armeggiò con la testa e le mani dando
degli impulsi particolari alla sua computer-scrivania e si dichiarò disponibile a fare
sesso con Jack. A lui Jessica piaceva parecchio: aveva un corpo da dea e i capelli
lunghi e verdi che mandavano ogni trenta secondi flash fucsia.
Jack pensò a sua moglie Andrea. Ripensò a quando tre anni prima l'aveva conosciuta
su "Luna Due" ad un torneo di squash a gravità zero. Era nato subito un buon feeling
tra loro. Avevano anche scoperto di essere nati nella stessa vasca di incubazione e ciò
li aveva uniti ancor di più, come se un destino li avesse predestinati già dal
concepimento. E adesso? Era ancora molto innamorato di lei, ma ultimamente la
trovava molto cambiata, presa da chissà quale occupazione o pensieri in cui lui non
aveva la minima parte. E non avevano rapporti sessuali da almeno due mesi.
Jack prese la cuffia e l'applicò con una leggera pressione sulla testa. I sensori gli
aderirono perfettamente alle tempie. Jessica fece la stessa cosa. Poi ci fu il contatto e
fecero sesso. Raggiunsero l'orgasmo quasi in contemporanea e quella volta a Jack
parve la migliore scopata che avesse mai fatto con la sua segretaria.
Andrea era già a casa quando Jack arrivò. Abitavano in un appartamento standard del
101° livello di una stazione abitativa di circa un milione di abitanti alla periferia di
Nuova Roma. Appena entrato il cane robot classe Fido che avevano acquistato da
poco, gli saltò addosso per salutarlo. Jack gli tirò un calcio mandandolo ruzzoloni sul
pavimento.
Andrea stava leggendo seduta sulla sua poltrona preferita.
-Ciao- gli disse distrattamente.
-Ciao- disse lui -cosa stai leggendo di bello?-Vieni- Andrea lo invitò a sedersi accanto a lei
-Ti vedo rilassato: o ai preso una pillola verde, o hai fatto l'amore con Jessica- gli
disse dopo averlo guardato mentre si sedeva.
-La seconda - rispose Jack – Tu invece riesci a fare a meno di tutto a quanto pareLei gli porse il foglio-libro e lui cominciò a leggere, dapprima distrattamente poi
sempre più con attenzione. Si trattava del libro “Ritorno al primitivo”del famoso
cibernetico Otto Pan. Jack ricordava di aver letto che lo scienziato si era ritirato dalla
professione da diversi anni. Nel libro asseriva che gli uomini sarebbero dovuti
ritornare alla natura, ritrovare la propria istintualità perduta e abbandonare la vita
287
I Giovedì di Scrittura Fresca
moderna artificiale e piena di finzione.
-Ma leggi questa robaccia? Mi chiedo come hai fatto a procurartelo. Sinceramente
sono molto preoccupato per te Andrea e vorrei aiutarti ad uscire fuori da queste tue
fissazioni-Se vuoi aiutarmi allora...- Andrea fece una pausa -sto andando a trovare Otto Pan.
Vuoi venire con me?Dieci minuti dopo si trovavano su un aereo taxi diretti verso il centro di Nuova Roma
dov'era l'abitazione del cibernetico. L'appartamento era ingombro di ogni genere di
oggetto a cui Jack non poté dare nome tanto erano strani e alieni. Lo scienziato era
molto gentile e molto vecchio, più vecchio di chiunque altro uomo avessero visto
prima. Jack e Andrea si sedettero su un piccolo divano sfasciato che doveva
sicuramente essere un relitto del XX secolo. Pan preparò un the per i suoi ospiti e
cominciò a discutere delle sue teorie. Disse che ormai era giunto il momento che
l'umanità compisse quello che sembrava un passo indietro e ritornasse alle origini.
Spiegò come l'uomo era entrato in un vicolo cieco e non riuscisse più a venirne fuori:
ormai era diventato schiavo delle sue macchine, non era più padrone nemmeno del
suo corpo.
-L'uomo considera il suo corpo come una delle sue macchine- disse Otto Pan -e lo
tratta alla stessa stregua. Se un pezzo si guasta o diventa inutilizzabile lo sostituisce
con un altro. Se l'organismo si ammala lo guarisce usando meccanismi che possono
essere utilizzati anche per macchine fatte d'acciaio. E così l'uomo sta cercando di
vincere anche la morte. Una macchina infatti non muore...Ma il corpo non è una
macchina. Esso pensa, reagisce alle emozioni, è una struttura vivente
straordinariamente complessa e interconnessa...Jack non era affatto d'accordo con il vecchio scienziato ed elogiò i grandi successi
che l'uomo moderno era riuscito a realizzare. -E poi non si dimentichi che anche lei
ha contribuito a circondare l'uomo di macchine sempre più sofisticate.Il vecchio guardò intensamente Jack poi disse: -Ora non più. Il mio scopo è diventato
esattamente l'opposto di quello di un tempo. Da dieci anni non faccio più cure per
rimanere giovane. Non mi importa di raggiungere i 130 anni. Voglio vivere il tempo
che mi resta per far si che l'uomo ritorni umano. E non mi rimane molto. Un tumore
mi sta lentamente consumando. Per questo ho urgenza.Pan prese la mano di Andrea tra le sue e la guardò negli occhi come un vecchio padre
guarda sua figlia prima di lasciarla per un viaggio senza ritorno.
-Ho un regalo per te- le disse.
Fece un cenno e dalla stanza vicina apparve un uomo giovane completamente nudo e
in piena erezione.
-Questo è Ector, la mia ultima creazione. E' il mio regalo per te. Anzi per voi dueJack era schifato da ciò che vedeva. Un uomo, anzi un androide, che non aveva
nemmeno un indumento addosso e col pene eretto era ora vicino a sua moglie la
quale sembrava guardarlo con un misto di concupiscenza e orgoglio.
-Questo ammasso di ferraglia sarebbe il nostro regalo? Proprio lei che predica contro
le macchine!- sbottò Jack -Lo copra per favore. Anzi lo faccia tornare da dove è
venuto. Vecchio pazzo! Di un regalo così né io né Andrea sappiamo che farci!288
I Giovedì di Scrittura Fresca
-Si calmi Jack- disse Pan sorridendo.- Ector è una macchina utile. E' la perfetta
riproduzione di un uomo com'era cento anni fa.-Il dottor Pan già mi aveva accennato...- intervenne Andrea toccando Jack come per
calmarlo, ma lui si era già alzato e stava per andarsene rosso in viso per la rabbia e la
vergogna.
-Non vada via Jack. Non fugga ancora da se stesso- disse il vecchio scienziato.
Jack era arrivato alla porta, si girò, guardò sua moglie. Non aveva mai provato
un'umiliazione simile. Aprì l'uscio e se ne andò.
Jack vagò per i livelli di strutture abitative sconosciute per gran parte della notte
rischiando di essere “resettato” dalla polizia. Si sentiva male, ma quando si trovò di
fronte al distributore automatico di Serenov, la pillola verde della felicità, non prese
nulla e continuò a camminare senza meta.
-E' solo un vecchio pazzo malato e pericoloso. Ed è riuscito anche a far impazzire
mia moglie!- diceva tra sé. Immaginò Andrea mentre l'androide la possedeva con
quel pene artificiale e quasi vomitò. Quello non era fare l'amore, era depravazione.
Per i rapporti c'erano le cuffie, quello era sesso pulito, regolare. In fondo era stato
scientificamente provato che il sesso era un fatto puramente mentale, non c'era affatto
bisogno di quello “biologico”. Ma l'angoscia lo divorava. Doveva prendere una
pillola al più presto. Ma di distributori nemmeno l'ombra.
Ma dov'era? E come se fosse uscito da un sogno si rese conto di essersi perso. Si
guardò intorno e vide centinaia di porte di cubicoli che si aprivano lungo il corridoio.
Ricordava vagamente di aver preso un paio di ascensori e di essere sceso di diversi
piani. Cercò inutilmente sui muri il numero che indicasse il livello. Continuò a
camminare sperando di incontrare qualcuno o di imbattersi in un distributore di
pillole. Dopo dieci minuti di cammino arrivò ad un incrocio. Girò a destra perché gli
era parso di vedere la sagoma di un distributore in lontananza. Da un cubicolo sbucò
una bambina che poteva avere pressappoco dieci anni.
-Ciao- le disse subito Jack -mi chiamo Jack....mi sono perso...potresti aiutarmi per
favore?Ma la bambina, prima che potesse finire la frase, era corsa subito via infilandosi di
nuovo nel cubicolo da dove era uscita. La porta d'acciaio si chiuse davanti a Jack con
un leggero scatto.
Solo, di nuovo.
Nessuno si perdeva a Nuova Roma, tutti aveva il loro posto assegnato, tutti sapevano
chi erano, cosa dovevano fare. Non erano ammessi i confusi. E intanto l'ansia di Jack
cresceva. Pensò di bussare alla porta, ma poi si rese conto che la polizia era già stata
avvisata e che fra non molto sarebbe arrivata per “rimetterlo sulla giusta strada” come
recitava lo spot alla videotv. Forse era giusto così. Non avrebbe dovuto far altro che
aspettare che lo prendessero e al resto avrebbero pensato loro. Sarebbe ritornato come
prima. Gli avrebbe raccontato di Otto Pan, di sua moglie Andrea e loro avrebbero
provveduto a farli tornare normali, di nuovo essere ragionevoli. Forse. Forse era
giusto. Ma era quel “forse” che non gli suonava, che gli martellava il cervello.
Senti i cigolii delle ruote di gomma delle macchine elettriche della polizia provenire
289
I Giovedì di Scrittura Fresca
dal corridoio da dove Jack era venuto. Si mise a correre più veloce che poteva nella
direzione opposta. Imboccò un corridoio alla sua sinistra e, proprio all'angolo vide un
distributore di Serenov. Si fermò e, ansimando, s'appoggiò sulla scatola di metallo.
Aveva la fessura per la carta di credito e una lastra di vetro proteggeva le pillole verdi
all'interno. Jack prese la sua carta di credito e fece per inserirla, ma il martellamento
nella sua testa lo distraeva. Pensò alla sua impotenza. E non era solo un'impotenza
fisica. Lui non era niente. Non era mai stato niente. Niente.
Fu allora che l'angoscia si tramutò in rabbia. Vide un asta metallica che serviva a
sorreggere uno schermo pubblicitario 3d proprio accanto al distributore. Con una
forza che mai avrebbe immaginato di avere, divelse l'asta facendo cadere a terra e
fracassare in un boato lo schermo. Con quell'arma improvvisata cominciò a colpire il
distributore distruggendo la lastra e mandando le pillole a sparpagliarsi per il
pavimento. Intanto la polizia era arrivata e due agenti erano già smontati dall'auto.
Non ci misero molto a far si che tutto ritornasse come prima.
Jack Bobbit si avvicinò alla sua segretaria.
-Ti va di farlo?- disse senza preamboli. Jessica alzò gli occhi blu dal monitor per
fissare Jack
-Finisco di inserire un paio di comandi e possiamo...farlo- disse la frase in un modo
così sexy che Jack sentì un brivido salirgli dal fondo della spina dorsale. Prese la
cuffia e l'applicò con una leggera pressione sulla testa.
290
I Giovedì di Scrittura Fresca
QUANDO GLI UOMINI POTRANNO VEDERE LO ZED
ALLA LUCE DEL SOLE?
scritto da: Franco Zadra
...non sono che il redattore di questi (mi pare 57) testi diversi raccolti digitando
"Quando gli uomini" in Google. Per quanto riguardano le sgrammaticature e i refusi
ho deliberamente scelto di non correggere nulla. Ho poi compilato il tutto in ordine
alfabetico crescente. E' una sorta di fast-letteratura che può avere degli esiti
accettabili (l'unica che mi posso permettere di questi tempi!)
Quando gli uomini amavano, la Madre Terra amava.
Quando gli uomini arano i campi, volteggiano in aria sopra di loro, gridando.
Quando gli uomini armarono la clava e... con le donne fecero din-don.
Quando gli uomini arrivarono sulla collina, in paese arrivò Alvin con un cesto di
funghi accompagnato da Bill il Boscaiolo.
Quando gli uomini avevano soltanto le mani e l'intelligenza, e inventarono le città.
Quando gli uomini avranno capito che l’infelicità che attribuiscono a Dio e al cielo
viene da loro stessi.
Quando gli uomini avranno imparato a scegliere il bene al posto del male.
Quando gli uomini avranno raggiunto il numero delle stelle.
Quando gli uomini cominciano ad accorgersi quanto sia duro.
Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra.
Quando gli uomini cominciarono a vivere in città.
Quando gli uomini continueranno a morire.
Quando gli uomini correranno più veloci, salteranno più in alto e per loro tutto sarà
possibile.
Quando gli uomini del "Moretto" sono saliti a bordo della "Raven".
Quando gli uomini del commando raggiunsero la piazza.
Quando gli uomini di quelle città tentarono di usare violenza ai nostri messaggeri.
Quando gli uomini diventano rifiuti.
Quando gli uomini diventano virtuosi in vecchiaia, semplicemente sacrificano a Dio
gli avanzi del diavolo.
Quando gli uomini e le donne avessero terminato il mondo che nasceva.
Quando gli uomini e le donne veri dicono “è ora di sognare” è come se dicessero “è
ora di lottare”.
Quando gli uomini erano blu.
Quando gli uomini fanno "boh" c'è un matrimonio.
Quando gli uomini fossero contenti a vivere del loro, e non volessono cercare di
comandare altrui.
Quando gli uomini fronteggiarono l’estinzione.
Quando gli uomini giunsero sul posto, fissarono quella forma gigantesca e furono
colti da un grande spavento.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Quando gli uomini giunsero vicino al cespuglio, Nicomede fece un gran salto fino
sulla spalla dell'uomo che teneva il sacco.
Quando gli uomini hanno cercato di dare.
Quando gli uomini imparano ad amare.
Quando gli uomini inventarono il pudore.
Quando gli uomini invitavano i loro amici maschi, a bere ea festeggiare nella loro
casa, alle loro mogli e figlie non era permesso partecipare.
Quando gli uomini lavorano.
Quando gli uomini mi guardano hanno paura di me, ma mi desiderano anche.
Quando gli uomini ne hanno verificato il bene per la collettività.
Quando gli uomini non riterranno più utile per se stessi riconoscere il diritto degli
animali a non soffrire.
Quando gli uomini non riusciranno più a sostenere le proprie ragioni sempre più
violente.
Quando gli uomini oltre ad essere privati della libertá sono anche male trattati,
vengono in disperazione.
Quando gli uomini parlano, soltanto la metà sinistra del cervello è attiva.
Quando gli uomini potevano seguire e amare gli Dei che più piacevano loro.
Quando gli uomini ricoprono loro il volto di sperma.
Quando gli uomini saranno tutti fratelli, quando tutti gli uomini potranno vivere del
loro lavoro.
Quando gli uomini si accinsero a ripartire.
Quando gli uomini si accordano fra di loro per sottomettersi a qualche uomo o a
qualche assemblea di uomini.
Quando gli uomini si arrampicano sui camion.
Quando gli uomini si chiedono perché sono al mondo.
Quando gli uomini si nutriranno del balsamo che ho detto, i loro intestini non
mancheranno di accorciarsi di parecchie spanne.
Quando gli uomini si riuniscono le loro teste si restringono.
Quando gli uomini si spostano.
Quando gli uomini siano giudici nella propria causa.
Quando gli uomini smetteranno di avvelenare il fiume.
Quando gli uomini sono andati ai loro medici che chiedono l'aiuto per i problemi
erectile, si sono detti a che non ci fosse trattamento.
Quando gli uomini sono coscritti solo in virtù del loro sesso questo viene chiamato
potere.
Quando gli uomini ti chiamano.
Quando gli uomini tornarono dal fronte e le donne che li avevano.
Quando gli uomini usano il falsetto, sopprimono tutte le armoniche, ottenendo una
brutta voce composta da soli toni alti.
Quando gli uomini vi odieranno e Quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e
respingeranno il vostro nome come scellerato.
Quando gli uomini vivono in modo tale da creare parecchia energia negativa.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
QUANDO SHAKESPEARE CI PROVAVA CON LA
DARK LADY.*
* Traduzione del sonetto 135
scritto da: Dareios
Han tutte i loro belli, e tu il tuo Billy
Poi l’altro Billy, e poi billi in eccesso.
Io son di più, per quanto io t’assilli
Per esser membro ammesso nel consesso.
Sei di vedute ampie, spalancate,
Mi accetteresti il fallo nel tuo vallo?
Le virtù d’altri vengono apprezzate
E sulla mia non brillerà il tuo avallo?
L’oceano abbonda d’acque eppure accoglie
Nel suo bacino piogge a suo piacere:
Così anche tu, che hai colto molte voglie,
Fallo con me e allargati il carniere.
Non rifiutare grazie ai tuoi pupilli,
Ma abbraccia tutti, e me, che anch’io son Billy.
Un testo va giudicato per ciò che è, non per gli obbiettivi che l’autore si prefissava.
Tuttavia, per completezza, vi dico che il mio scopo era quello di conservare la
metrica, per quanto possibile il significato con le ambiguità, i doppi sensi e gli
ammiccamenti del testo originale, e un po’ le allitterazioni e i giochi fonetici,
correndo il rischio di arrivare lontano da tutti i bersagli.
Vi allego il testo originale, qualche nota mia, e un paio di link. Non mi resta che dire:
Beh, io ci ho provato...
Whoever hath her wish, thou hast thy Will,
And Will to boot, and will in overplus.
More than enough am I, who vex thee still
To thy sweet will making addition thus.
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I Giovedì di Scrittura Fresca
Wilt thou, whose will is large, and spacious,
Not once vouchsafe to hide my will in thine?
Shall will in others seem right gracious,
And in my will no fair acceptance shine?
The sea, all water, yet receives rain still
And in abundance addeth to his store;
So thou, being rich in will add to thy will
One will of mine to make thy large will more.
Let no unkind no fair beseechers kill;
Think all but one, and me in that one Will.
Note:
Questo sonetto appartiene a quelli dedicati da Shakespeare alla misteriosa Dark Lady,
sulla cui identificazione sono stati inutilmente versati fiumi e fiumi di inchiostro (e un
buon numero di reciproche scomuniche accademiche.) A me piace pensare che fosse
la veneziana Emilia Bassano, poetessa, musicista, moglie infedele del musicista
Alphonse Lanier (detto William?), e raffinata amatrice provvista di chiome nerissime
che mandavano in visibilio i biondastri d’Albione.
La parola su cui si gioca tuttto è will, che compare in media una volta per verso
(compresa l'occorrenza della forma coniugata wilt), e che in inglese elisabettiano vuol
dire volere, volontà, benevolenza, desiderio, arrapamento, pene, vagina, oltre ad
essere il diminutivo di William, il nome del poeta e (secondo la mia interpretazione)
quello del marito della donna (il tuo Billy) e di un altro suo amante (l'altro Billy,
forse il lovely boy che compare in altri sonetti di questo ciclo.) Nella trascrizione del
testo originale ho scrittto Will maiuscolo dove mi sembrava preponderante il
significato di nome proprio, ma è un’operazione arbitraria, perché in tutti i casi tutti i
significati sono compresenti e ammiccano l’uno all’altro.
Il mio gusto è stato, più che tentare una traduzione in partenza impossibile, quello di
studiare in profondità un testo così disperatamente pieno di doppi sensi, che pongono
problemi insolubili quasi ad ogni parola. Dato che non ci sono abbastanza documenti,
non si giungerà mai a conclusioni certe (il senso del viaggio sta nell’andare, non
nell’arrivare,) quindi non ha senso che vi annoi con altri dettagli, se non due brevi
spunti.
Un punto di partenza per l’approfondimento del testo originale è
http://www.shakespeares-sonnets.com/135comm.htm, anche se le interpretazioni
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I Giovedì di Scrittura Fresca
preferite in quella pagina sono diverse da quelle alla base della mia traduzione. Poi,
provate a googlare Lanier Bassano Rowse. Poi…
Un ultimo cenno: non ho trovato su internet commenti che mettessero in luce
l’aspetto recitativo dell’originale, quindi ne faccio qui un esempio tra i tanti: al verso
5 whose will is large può significare sia la cui fica è larga, sia la cui benevolenza è
grande; il declamatore deve qui fare una sapiente pausa, e poi aggiungere and
spacious che disambigua il tutto e rende il significato sessuale predominante, se non
l'unico possibile. Una recitazione abile può salvare qualunque testo, spero anche la
mia traduzione...
Dedicata a Giuseppe Gioacchino Belli, che non era Billy, ma quasi...
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I Giovedì di Scrittura Fresca
PELLE MORBIDA
scritto da: Vittorio Fioravanti
“Tutto ciò mi mette una nostalgia terribile di quando ancora gli uomini ci provavano
come si deve invece di star lì ad aspettare che gliela spalmino in faccia per paura di
un rifiuto.”
MAMBO
***
Color camoscio
striata di bruno
la coscia vellutata
che m'apri alla mano
L'odore che emano vinto
dal tuo urgente profumo
sospinto dalla corrente
tra parole ed abbracci
nelle mie nari accese
desiderio che affiora
come spuma nei calici
fra la gente che hai intorno
Non siamo soli ma osiamo
senza guardarci in viso
appena un'intesa
di ciglia nere e la piega
socchiusa delle tue labbra
l'accenno ad un mio sorriso
fra le spalle e le schiene
di chi brinda ignaro
Pelle morbida di sconosciuta
tra le mie dita audaci
penetranti carezze spinte
baci sfiorati nel buio
d'un obliquo
spiovente riquadro
ignorando suono di nomi
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I Giovedì di Scrittura Fresca
di ruoli di veti e legami
tralasciando ogni appiglio
senza un passato tra noi
né un giorno dopo
carpire entrambi il momento
che sfugge senza ritorno
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I Giovedì di Scrittura Fresca
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I Giovedì di Scrittura Fresca
UN GRAZIE A TUTTI I PARTECIPANTI
Arrivederci alla prossima edizione…
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