marzo 2013 - DEF[1] - Sustainability-Lab

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marzo 2013 - DEF[1] - Sustainability-Lab
Cooperativa
Editoriale Etica
Anno 13 numero 107.
Marzo 2013.
€ 4,00
Poste Italiane S.p.A.
Spedizione in abbonamento postale
D.L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 n° 46)
art. 1, comma 1, DCB Trento
Contiene I.R.
MATTEO FERRONI, WWW.ELAND.ORG
Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità
Energia sociale
Nuovi scenari energetici. E dalle rinnovabili una mano al Sud del mondo
Finanza > Se non si vendono automobili, è meglio scommettere sulla finanza
Economia solidale > Sos tessile: il made in Italy boccheggia. E scoppia l’allarme salute
| ANNO 12 N. 96 | FEBBRAIO 2012 | valori | 1 |
Internazionale > Occhi puntati sul Medioriente dopo le elezioni in Giordania
e Israele
| editoriale |
La via tracciata
è rinnovabile
di Mario Agostinelli
È
L’AUTORE
Mario Agostinelli
Chimico-fisico, è stato
ricercatore all’Enea, consigliere
regionale in Lombardia
e per sette anni segretario
generale della Cgil Lombardia.
Opera da anni nel Forum Sociale
Mondiale di Porto Alegre
ed è portavoce per il Contratto
mondiale per l’energia e il clima.
È tra i promotori del comitato
nazionale “No nucleare
Sì rinnovabili”, presidente
dell’associazione Energiafelice
(www.energifelice.it), membro
del comitato di redazione
di “Alternative per il Socialismo”.
Tra le sue pubblicazioni: “Tempo
e spazio nell’impresa post
fordista”; “Pianeta in prestito”,
“Le 35 ore” con Carla Ravaioli;
“Cercare il sole, dopo Fukushima”.
| 2 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
confortante constatare lo iato tra i capi del mondo che si ritrovano a Doha – e non
concludono nulla dalla conferenza di Rio de Janeiro del 1992 – e la pratica di continua
espansione dei sistemi di risparmio di energia, di riduzione degli sprechi, di mobilità
sostenibile, di ricorso a sistemi elettrici e termici alimentati dal sole, acquistati e gestiti
sempre più spesso in forme comunitarie. Ma, a distanza di vent’anni dal Brasile, svolta
epocale per una forma di trattato che teneva in considerazione la natura, le speranze
concretizzatesi allora risultano vanificate dal precipitare della crisi e dal prevalere – anche
culturale – dell’economia sulla politica.
Il punto cruciale di questa fase storica è che abbiamo ormai finito di trasformare la parte
inerte della natura e siamo giunti a “mettere a profitto” il vivente, cioè l’anima della natura
stessa. Quindi l’energia, fonte di vita e di progresso, consumata in eccesso e degradata
in calore e inquinamento, diventa di fatto causa di pericolo per la sopravvivenza
e di regresso per la civiltà. E l’inadeguatezza politica tende a concentrarsi sull’aspetto del
debito finanziario, elemento di classe, e non sul debito verso la natura, che proprio
la sopravvivenza della specie riguarda.
Mentre otto anni fa la candidatura di Al Gore alla presidenza americana aveva imposto
la risoluzione dei problemi del clima come tema principale, oggi Barack Obama sostiene
la ricerca sulle fonti fossili attraverso lo shale gas, per prolungare il primato mondiale degli
Usa e per un vantaggio nella competizione economica con Pechino. E il nostro governo
ha improvvisamente rilanciato la Sen (Strategia energetica nazionale), con un drastico
annullamento nella prospettiva delle rinnovabili e un affidamento completo alle
prospezioni per il petrolio e all’idea di fare dell’Italia il “magazzino” del gas. Si continua, cioè,
a investire su una dimensione dell’energia centralizzata, non territoriale, e finanziaria
(al comparto energetico si riferisce il 29% di tutti i prodotti derivati), invece di puntare
su un modello decentrato e su un’economia cooperativa delle fonti naturali. Senza contare
che non si può spendere, come stimato dalla Banca mondiale, il 6% del Pil planetario per
intervenire sulle conseguenze degli eventi climatici estremi e, contemporaneamente, avere
un welfare che si occupa delle pensioni e della salute pubblica.
Bisogna allora pensare a un “rallentamento”. Che porterebbe grandi quantità di lavoro.
E bisogna far prevalere l’energia diffusa (vento, sole, acqua, biomasse), non trasportata
attraverso opere enormi, per i cui investimenti le popolazioni povere non hanno
disponibilità, se non quella di venire colonizzate, cedendo le royalties dello sfruttamento
ad altri Paesi. E se la domanda è come si possa chiedere a India e Cina di rallentare la corsa
per abbracciare un modello “un po’ più lento”, io credo che la risposta stia in una transizione
decisa verso il 100% di fonti rinnovabili, non in una impraticabile coesistenza tra vecchio
e nuovo sistema. Perché se è vero che certe società in pieno sviluppo hanno tassi di povertà
assolutamente insostenibili, la fuoriuscita da questa povertà con il sistema fossile applicato
all’agricoltura, alla produzione e ai trasporti non può essere raggiunta. Anche per questo
la conversione potrebbe subire un’accelerazione. La svolta arriverà dopo il 2020. E, fino
ad allora, vivremo anni di autentica transizione, di fatto anni di impudenza dal punto
di vista della visione del futuro. 
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| globalvision |
Per uscire dalla crisi
Oltre il “dinamismo
resiliente” di Davos
a crisi, o almeno la sua fase più acuta, è ormai alle nostre spalle. Ma
non è finita: siamo alle prese con la sua coda, ossia con i suoi devastanti effetti sociali. Ma, soprattutto, il problema non risolto è come
ripartire. Una domanda a cui non ha saputo rispondere nemmeno il World
Economic Forum nel suo tradizionale incontro a Davos (fine gennaio 2013).
L
di Alberto Berrini
All’appuntamento, che ogni anno riunisce leader politici internazionali,
scienziati, banchieri e grandi imprenditori che tentano di contribuire a definire un’agenda globale, non si è andato oltre il suggerimento, già sostenuto ormai
da tempo dal Fondo monetario internazionale, di attenuare le politiche economiche di austerità: allungare i tempi del
risanamento dei conti pubblici, per dare più fiato alla crescita. Se quest’ultima
non si consolida ciò che stiamo vivendo
è solo una tregua della crisi. Una quiete
dopo la tempesta che prelude a una
nuova tempesta, magari di natura sociale, poiché la disoccupazione, creata
dalla crisi e che non si riesce a riassorbire, è un ulteriore elemento di impoverimento delle famiglie e di aumento delle
disuguaglianze.
Non a caso il titolo del Forum di Davos era “Dinamismo resiliente”. La resilienza è «la capacità di assorbire disequilibri eccezionali, ovvero di riportarsi
alle normali condizioni di funzionamento partendo da situazioni estremamente lontane dalla stabilità». Tale
concetto, che trova applicazione nei
più diversi campi scientifici (ingegneria, fisica, ecologia, psicologia), ha ovviamente attirato l’attenzione degli
economisti in quanto siamo appena
usciti dal più grande shock sistemico
ripristinare un equilibrio perfetto (che
peraltro non esiste), ma di imparare a
gestire un mondo in perenne disequilibrio.
In definitiva la resilienza non rimanda al laissez-faire, ma a politiche
economiche di intervento a vari livelli
sul sistema economico. In ambito sociale essa si conquista grazie a politiche
che investono nella riqualificazione dei
lavoratori licenziati, nelle reti di protezione sociale, nella ricerca scientifica e
nella scuola. Più in generale si tratta di
redistribuire ricchezza a partire, ma
non solo, dal carico fiscale, per favorire
i consumi. Ma non basta consumare di
più, bisogna investire di più. Un modello di sviluppo basato su finanza e debiti
ci ha portato al disastro. Solo un massiccio ritorno degli impieghi finanziari all’economia reale, anche per mano
pubblica, può garantirci crescita e occupazione. La qualità di tali investimenti
determinerà inoltre la sostenibilità ambientale del mondo che verrà.
Siamo al punto in cui le soluzioni
tecniche devono lasciare spazio a quelle politiche che implicano visioni nuove. L’idea keynesiana, da cui derivò il
New Deal, non è solo un’idea economica, ma prima di tutto un insieme di valori, una concezione della società.
È questo il “dinamismo” che serve. 
Solo un massiccio ritorno
degli impieghi finanziari
verso l’economia reale può
garantire crescita e lavoro
che abbia mai colpito l’economia mondiale dopo la crisi degli anni Trenta. I
grandi del mondo hanno affermato
che il sistema economico si è dimostrato “resiliente”, ossia ha retto l’urto della
crisi e non è imploso come nel ’29. Ma
quanto al dinamismo non c’è traccia,
come di ricette per la crescita.
Il punto è che resilienza e liberismo
non sono compatibili. Quest’ultimo
postula un sistema economico in grado di auto-regolarsi e quindi tendenzialmente volto all’equilibrio, solo occasionalmente interrotto per lo più da
shock esterni. Per gli studiosi (di qualunque disciplina accademica) che cercano di applicare il concetto di resilienza, al contrario, non si tratta di
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 5 |
MATTEO FERRONI, WWW.ELAND.ORG
| sommario |
marzo 2013
mensile
www.valori.it
anno 13 numero 107
Registro Stampa del Tribunale di Milano
n. 304 del 15.04.2005
editore
Società Cooperativa Editoriale Etica
Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano
promossa da Banca Etica
soci
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FairTrade Italia, Mag 2, Editrice Monti, Fiba Cisl Nazionale,
Cooperativa Sermis, Ecor, Cnca, Fiba Cisl Brianza,
Federazione Autonoma Bancari Italiani, Publistampa,
Federazione Trentina della Cooperazione, Rodrigo Vergara,
Circom soc. coop.,Donato Dall’Ava
consiglio di amministrazione
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direzione generale
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collegio dei sindaci
Giuseppe Chiacchio (presidente),
Danilo Guberti, Mario Caizzone
direttore editoriale
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direttore responsabile
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caporedattore
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Via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano
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Francesco Carcano, Matteo Cavallito, Corrado Fontana,
Emanuele Isonio, Michele Mancino, Mauro Meggiolaro,
Andrea Montella, Valentina Neri
grafica, impaginazione e stampa
Publistampa Arti grafiche
Via Dolomiti 36, Pergine Valsugana (Trento)
fotografie e illustrazioni
Q. Sakamaki (Contrasto); Andrew Biraj,
Stefano Rellandini, Bob Strong (Reuters);
archivio Greenpeace; www.eland.org
In lingua locale Foroba Yelen, “luce collettiva”,
di lampioni a led a energia solare, su un telaio
facile da assemblare con materiali di recupero
(vecchi telai di bici) e trasportabile dai
bambini. Sono già 56 queste lampade portatili
che rischiarano 12 villaggi del Mali,
per un progetto della Fondazione eLand
(www.eland.org), il supporto della Haus
der Kulturen der Welt e il concept e design
dell’architetto italiano Matteo Ferroni.
globalvision
fotonotizie
dossier Energia sociale
8
Energia pulita al servizio del sociale
Dalla teoria alla pratica. Il futuro del Sud del mondo è rinnovabile
Rinnovabili ben oltre le attese
Il nuovo ordine mondiale
Lampi sull’Eni
Dal nero al verde
È consentita la riproduzione totale o parziale
dei soli articoli purché venga citata la fonte.
Per le fotografie di cui, nonostante le ricerche eseguite,
non è stato possibile rintracciare gli aventi diritto,
l’Editore si dichiara pienamente disponibile
ad adempiere ai propri doveri.
chiusura
in stampa: 22 febbraio 2013
in posta: 27 febbraio 2013
Il Forest Stewardship Council® (FSC®) garantisce tra l’altro
che legno e derivati non provengano da foreste ad alto
valore di conservazione, dal taglio illegale o a raso e da aree
dove sono violati i diritti civili e le tradizioni locali.
Involucro in Mater-Bi®
27
Finanzieri a quattro ruote. La nuova frontiera dell’auto
Inchieste, perdite e derivati. Non solo Mps
Bersani, Vendola e Ingroia rispondono a Banca Etica
Non pensare, esegui! La crisi è colpa di lavoratori “stupidi”
28
32
34
35
investimentirinnovabili
economiasolidale
38
Tessile e moda. La filiera muore (e il made in Italy pure)
Vanità o sanità, questo è il dilemma
Quando l’etica fa capolino nel tessile
Confidi a rischio bolla. Allarme per le piccole imprese (e non solo)
Se lo Stato (francese) tende la mano alle Pmi
Una mobilità diversa in scena a Fa’ la cosa giusta!
40
44
46
48
50
52
socialinnovation
internazionale
55
Diritti in fumo
Giordania: il Paese a sovranità necessaria
Israele. L’ago del bilancio
Mauritania. Il Paese schiavo
56
61
63
64
equocommercio
altrevoci
bancor
resistenze
67
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73
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| fotonotizie |
Nucleare, Olkiluoto
può aspettare ancora
[Il cantiere per la costruzione dell’EPR di terza
generazione nella centrale finlandese di Olkiluoto,
220 chilometri a nord-est di Helsinki].
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REUTERS / BOB STRONG
Una Fukushima in Europa
costerebbe 430 miliardi di euro.
La cifra è stata calcolata dall’Irsn,
l’istituto pubblico per la sicurezza
nucleare francese, e si basa
sull’ipotesi di una catastrofe simile
a quella avvenuta nel marzo
del 2011 in Giappone. Ma, sottolinea
l’organismo, anche in caso
si verificasse un incidente meno
grave, il conto per il governo
di Parigi non sarebbe comunque
inferiore a 120 miliardi.
L’analisi dell’Irsn ha preso
in considerazione la fusione
ipotetica del nocciolo di un reattore
da 900 MWh, nonché i costi legati
alla contaminazione dell’ambiente,
quelli che sarebbe necessario
sostenere per i circa 100 mila
rifugiati che dovrebbero
abbandonare l’area del disastro
e quelli indiretti per l’economia
(dalle esportazioni agricole
al turismo). Nell’ipotesi meno grave,
quella che prevede un esborso
di 120 miliardi di euro,
si tratterebbe comunque di qualcosa
come il 6% del Pil transalpino.
Naturalmente l’allarme non viene
neppure preso in considerazione
dai colossi del settore, tanto che
la francese Areva lavora ancora
alacremente alla costruzione del
nuovo reattore della centrale
di Olkiluoto, in Finlandia.
Alacremente, ma anche molto
lentamente, visto che a febbraio
l’operatore elettrico finlandese Tvo
ha confermato l’ennesimo dilatarsi
dei tempi per il completamento
dei lavori nella centrale scandinava:
«Non riusciremo a partire prima
del 2016». E dire che la stessa Tvo,
la scorsa estate, aveva parlato
di 2014. D’altra parte, la previsione
iniziale era di completare l’opera
nel 2009. E ad un costo di 3,1
miliardi di euro inferiore rispetto
a quelli (finora!) spesi.
[A.BAR.]
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 9 |
| fotonotizie |
||
Sull’onda dell’emozione per
l’ennesima strage di bambini in una
scuola (27 morti a Newtown,
Connecticut, il 14 dicembre scorso)
qualcosa si è mosso in tema
di regolamentazione delle armi
da fuoco negli Usa. A cominciare dal
movimento civile che ha portato
in piazza le migliaia di donne di One
Million Moms 4 Gun Control (nella
foto), per arrivare al vertice della
nazione, con il giro di vite promesso
dal presidente Barack Obama.
Ma se la cittadinanza attiva non
molla, la volontà politica vacilla.
Il Congresso, che dovrebbe vietare
la vendita libera delle armi
d’assalto, starebbe infatti
esaminando contemporaneamente
un’esenzione dalle prossime misure
per oltre 2 mila modelli di armi
da fuoco, tra cui – ad esempio –
la Ruger calibro 0,223 Mini-14,
un fucile semi-automatico quasi
identico a una delle armi utilizzate
nella sparatoria più sanguinosa
della storia dell’Fbi: a fronte
del bando proposto per il modello
a calcio pieghevole – facilmente
occultabile e maneggevole, quindi –
si opporrebbe così l’esenzione
dal bando per un modello identico
ma a calcio fisso. E mentre a capo
della crociata “per difendere
i bambini americani” viene messo
simbolicamente il vicepresidente
Joe Biden, la proposta di legge
presentata a gennaio dal senatore
californiano Dianne Feinstein
vieterebbe sì la vendita al pubblico
di 157 tipi di arma da fuoco
progettati per uso militare,
e caricatori ad alta capacità (oltre
i 10 colpi), ma non inciderebbe
sui modelli da caccia e su quelli
per uso sportivo. L’America, in cui
ad oggi il governo non ha potere
per sottrarre legalmente armi
proprie ai suoi cittadini (oltre 100
milioni sui 315 complessivi, cioè
il maggior numero di sempre),
potrebbe insomma perdere
un’occasione d’oro.
onemillionmomsforguncontrol.org
[C.F.]
[Una manifestazione dopo la strage di Newtown del
14 dicembre scorso. Mamme, papà e bambini uniti in
una protesta contro le armi].
| 10 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
Q. SAKAMAKI / REDUX THE UNITED NAT / CONTRASTO
Usa, armi bandite
O quasi
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 11 |
| fotonotizie |
||
La moda poco attenta
alla sostenibilità
[Un blitz di Greenpeace durante la settimana della
moda a Milano. Una modella-climber sfila in
verticale su una torre del Castello sforzesco, per
chiedere alle griffe una moda non contaminata da
deforestazione e sostanze tossiche].
| 12 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
ARCHIVIO GREENPEACE
Se tutte le criticità attribuibili alla
filiera internazionale del tessile
si traducessero in capi d’accusa, per
i marchi della moda italiani sarebbe
un bel guaio. Economico, in primo
luogo. D’altra parte l’elenco delle
“magagne” fa impressione: processi
produttivi pericolosi per i lavoratori,
come la sabbiatura dei jeans;
sfruttamento della mano d’opera,
soprattutto in aree geografiche
a bassa tutela sindacale; rispetto
carente delle norme di sicurezza nei
luoghi di lavoro; opacità nella filiera
e nella salvaguardia del made
in Italy; abiti contenenti sostanze
tossiche con rischi potenziali per
la salute; immissione in atmosfera
e nelle acque di sostanze inquinanti;
deforestazione e consumo smodato
delle risorse naturali (su questo
numero Valori affronta tali temi,
a pag 40 e a pag. 56). Il mondo della
moda è chiamato, insomma,
a rendersi presentabile non solo
in vetrina, affrontato apertamente
da Greenpeace attraverso
la campagna “The Fashion Duel” con
due guanti di sfida lanciati a febbraio
scorso in una delle cattedrali delle
griffe: la settimana della moda
di Milano. Nell’occasione gli attivisti
hanno prima cosparso le zone
interessate dalla kermesse di graffiti
(ecocompatibili e temporanei) con
il messaggio della campagna e poi
scalato all’alba il Castello Sforzesco
con la sfilata verticale di una stilistaclimber (nella foto). L’iniziativa era
già partita qualche mese prima con
l’invio di un questionario a 15 case
d’alta moda con domande scomode
sul rapporto tra i loro processi
produttivi e l’ambiente, a cominciare
dalle politiche di acquisto della pelle
e della carta. Bollino nero per non
aver risposto a Chanel, Trussardi,
Dolce & Gabbana, Prada, Alberta
Ferretti, Hérmes. «In testa Valentino
Fashion Group, l’unico marchio
a impegnarsi per raggiungere
gli ambiziosi obiettivi Deforestazione
Zero e Scarichi Zero nelle proprie
produzioni». Altri (Ferragamo,
Armani, Luis Vuitton e Dior) hanno
mostrato trasparenza, ma si sono
impegnati solo in parte.
[C.F.]
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 13 |
MATTEO FERRONI
dossier
a cura di Paola Baiocchi, Andrea Barolini, Corrado Fontana
Il progetto dell’architetto italiano Matteo Ferroni
realizzato in Mali.
Lampioni portatili a led a energia solare
www.eland.org
Energia pulita al servizio del sociale > 16
Il futuro del Sud del mondo è rinnovabile > 18
Uno sviluppo ben oltre le attese > 20
ll nuovo ordine mondiale > 22
Dal nero al verde > 24
Energia
sociale
Le fonti rinnovabili possono
costituire un volano di sviluppo
eccezionale sia per il Terzo mondo
che per le economie avanzate.
È l’Unione europea a credere
di più all’energia pulita
| dossier | energia sociale |
ivere senza energia, oggi, significa essere privati di servizi essenziali. Significa essere tagliati fuori dal mondo. Significa vedere le speranze di risollevare la propria condizione economica ridotte al minimo. Secondo
il World Economic Outlook 2012 del Fondo monetario internazionale tale scenario è la quotidianità per un miliardo e 400 milioni di persone (vedi TABELLA 1 ).
V
FONTE: IPCC, RENEWABLE ENERGY SOURCES AND CLIMATE
CHANGE MITIGATION SPECIAL REPORT, 2012, SU DATI AIE
Qualcosa come il 20% della popolazione mondiale, la cui maggior parte vive
in aree rurali dell’Asia e dell’Africa subsahariana non raggiunte dalla rete elettrica nazionale. Per questa enorme fetta
di mondo le energie rinnovabili costituiscono molto più che una speranza: equivalgono alla differenza tra vivere e sopravvivere.
Come noto, infatti, i piccoli impianti
alimentati da energie pulite – dal fotovoltaico all’eolico, dall’idroelettrico alle biomasse – possono essere installati ovunque e fornire energia gratuita. Si possono
sfruttare l’energia solare o la forza del
vento per riscaldarsi o per cucinare, così
come per ottenere luce elettrica, o i biocarburanti per i trasporti. «In Africa, grazie al fotovoltaico si possono alimentare
impianti fondamentali come le pompe
Le fonti di energia rinnovabili
non sono solamente uno
strumento per combattere
il cambiamento climatico:
sono anche un’opportunità
eccezionale di sviluppo
sociale, soprattutto nei Paesi
più poveri del Pianeta
per l’estrazione di acqua dai pozzi», ricorda Gianni Silvestrini, direttore scientifico
del Kyoto Club.
Ma avere energia a disposizione significa anche poter raggiungere la rete internet o poter tentare di avviare microimprese. Non a caso un recente report
del Gruppo consultivo del segretario generale delle Nazioni Unite sull’energia e
sul cambiamento climatico (Agecc, 2010)
TABELLA 1 PERSONE SENZA ACCESSO ALL’ENERGIA ELETTRICA (IN MILIONI)
Regione
2009
% sul tot
2015
% sul tot
2030
% sul tot
Africa
587
42
636
45
654
57
Africa sub-sahariana
585
31
635
35
652
50
Asia (Paesi in via di sviluppo/emergenti)
799
78
725
81
545
88
Cina
8
99
5
100
0
100
India
404
66
389
70
293
80
Altri
387
65
331
72
252
82
31
93
25
95
10
98
Totale Paesi in via di sviluppo/emergenti
(incluso Medio Oriente)
1.438
73
1.404
75
1.213
81
Totale globale
1.441
79
1.406
81
1.213
85
America Latina
| 16 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
657
Africa sub-sahariana
653
Asia (Paesi in via di sviluppo/emergenti)
Rinnovabili vitali
per il Sud del mondo
1.937
Cina
423
India
855
Altri
659
America Latina
85
Totale Paesi in via di sviluppo/emergenti (incluso Medio Oriente)
Se, quindi, per i Paesi ricchi le ragioni
per incoraggiare il ricorso alle rinnovabili
sono essenzialmente legate alla necessità
di ridurre le emissioni di sostanze inquinanti (solare, geotermico, idroelettrico,
eolico e marino producono solo tra 4 e 46
grammi equivalenti di biossido di carbonio per kWh prodotto) e di garantirsi
maggiore sicurezza energetica (grazie anche alle reti efficienti come le smart grid),
per le nazioni povere i vantaggi sono anche superiori. Prendiamo le ricadute occupazionali. In tutto il mondo, secondo
uno studio dell’Unep (il programma ambientale dell’Onu), i posti di lavoro creati
grazie alle energie pulite erano pari a 2,3
milioni nel 2008. Nel solo 2006, il ministero dell’Ambiente della Germania indicò
in 236 mila i nuovi posti generati dal settore (due anni prima erano stati 161 mila),
mentre negli Usa il Center for American
Progress ha calcolato di recente che per
ogni miliardo investito nelle rinnovabili
ha sottolineato l’importanza di ottenere
un accesso universale alle moderne fonti di energia entro il 2030, definendolo
un obiettivo cruciale nell’ambito della
transizione verso un mondo sostenibile.
Il grado di accesso all’energia è considerato, infatti, un elemento cruciale per il
miglioramento dell’Indice di sviluppo
umano dell’Onu (Human Development
Index, Hdi), strumento utilizzato per misurare lo sviluppo di una popolazione
combinando i dati relativi all’aspettativa di vita, all’istruzione e ai redditi percepiti (vedi BOX ).
Per i governi, gli enti locali, le organizzazioni internazionali o le associazioni che
intendono adoperarsi per colmare quello
che è un vero e proprio energy divide, investire nelle fonti rinnovabili può costituire dunque un’opportunità eccezionale.
E anche un risparmio economico enorme:
costruire, ad esempio, un piccolo impianto fotovoltaico per fornire energia in un
villaggio di una regione remota costa certamente molto meno rispetto a raggiungerlo tramite i cavi elettrici tradizionali.
Tanto più che, in termini quantitativi, è
sufficiente un’erogazione relativamente
bassa di energia per garantire un livello di
vita accettabile. Secondo il rapporto Renewable Energy Sources and Climate
Change Mitigation, redatto dall’Intergovernamental Panel on Climate Change
(Ipcc), è sufficiente una quota pari a 42 GJ
(gigajoule) all’anno procapite (vedi TABELLA ):
meno di un terzo di quanto, secondo i dati della Banca Mondiale, si consuma mediamente in Italia.
Africa
2.679
la ricaduta occupazionale è pari a 33 mila
nuovi impieghi. Ma nei Paesi in via di sviluppo o emergenti esiste di fatto un effetto-moltiplicatore: costruire un impianto in un’area priva di energia non
solo crea in sé occupazione, ma consente
di aprire scuole, piccole attività, ambulatori. Che a loro volta garantiscono nuovo
lavoro e possono attirarne altro (ad esempio rendendo località sprovviste di servizi nuove mete turistiche).
Meno acqua e più salute
Le fonti rinnovabili, inoltre, presentano
un impatto idrico estremamente più basso rispetto a quelle tradizionali (eccezion
fatta per l’idroelettrico), il che costituisce
un vantaggio incalcolabile nei climi caldi e
secchi (a cominciare dai Paesi africani).
Ancora, dal punto di vista sanitario si potrebbe consentire ai 2,6 miliardi di persone
(vedi TABELLA 2 ) che nel mondo usano ancora oggi biomasse tradizionali per cucinare
L’IMPATTO SUL PIL DI UN AUMENTO DI 10 $
DEL PREZZO DEL BARILE DI PETROLIO PER I PAESI IMPORTATORI
Reddito procapite medio annuo (in $)
– con tutto ciò che questo comporta in termini di inquinamento dell’aria all’interno
delle case – di avere a disposizione un metodo efficiente e sano per nutrirsi. «Le
energie rinnovabili consentono inoltre di
alimentare frigoriferi per conservare i cibi,
così come medicinali e vaccini. Mentre l’uso di stufe efficienti garantisce aria salubre nelle abitazioni», aggiunge Silvestrini.
L’energia pulita, insomma, per i popoli più poveri della Terra può consentire
una vera e propria svolta. «Sono convinto
che nei prossimi anni si registreranno tassi di crescita molto elevati – conclude il dirigente del Kyoto Club – e ci saranno ricadute positive anche in Paesi come l’Italia,
che sarà in grado di esportare il know how
acquisito in termini di gestione e manutenzione». Una dinamica favorita anche
dal crollo dei prezzi degli impianti. E chissà che un domani non saranno i Paesi ricchi di sole e vento, i nuovi grandi esportatori di energia. 
ACCESSO ALL’ENERGIA VUOL DIRE SVILUPPO UMANO
Cambiamento del Pil (%)
1.0
0.8
< 300
-1,47
300 - 900
-0,76
0.4
900 - 9.000
-0,65
0.2
> 9.000
-0,44
0
Energia pulita contro la speculazione
La speculazione finanziaria costituisce uno dei fattori che maggiormente ha
esacerbato i problemi dei popoli più poveri della terra. Fenomeni deprecabili
si sono registrati perfino sui beni alimentari. E l’energia non fa eccezione, anzi:
il sistema produttivo globale, legato a filo doppio al mercato petrolifero,
è “strutturalmente” precario. Un’oscillazione di soli 10 dollari nel prezzo del barile
determina, infatti, effetti sensibili sul Pil dei Paesi di tutto il mondo (vedi TABELLA ).
Con un impatto particolarmente nefasto proprio per le economie che presentano
i redditi procapite medi più bassi. Al contrario, la diffusione delle energie
rinnovabili, aumentando la sicurezza energetica, diffondendo l’accesso dove oggi
non esiste, e migliorando l’efficienza delle reti, può garantire una forte stabilità
sui mercati internazionali.
0.6
200
400
600
800
1000
Uso di energia totale pro capite (GJ), 2007
Accesso all’energia vuol dire sviluppo umano
Lo Human Development Index (Hdi) – indicatore utilizzato dalle Nazioni Unite per
misurare lo sviluppo di una popolazione, combinando i dati relativi all’aspettativa
di vita, all’istruzione e ai redditi percepiti – presenta un rapporto di evidente
correlazione con il tasso di utilizzo dell’energia. È chiaro, infatti, come l’accesso
ad un minimo considerato vitale di energia (misurato in GigaJoule nella tabella)
sia fondamentale per raggiungere livelli accettabili di Hdi. Successivamente
la curva tende nettamente ad appiattirsi: segno che sistemi produttivi
eccessivamente energivori non favoriscono in alcun modo il miglioramento delle
condizioni di vita della popolazione.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 17 |
FONTE: WORLD BANK 2010; UNDP 2010
di Andrea Barolini
TABELLA 2 PERSONE COSTRETTE AD UTILIZZARE BIOMASSE TRADIZIONALI IN CUCINA [2009, in milioni di persone]
HDI, 2010
Energia pulita
al servizio del sociale
FONTE: IPCC, RENEWABLE ENERGY SOURCES AND CLIMATE
CHANGE MITIGATION. SPECIAL REPORT, 2012
| energia sociale |
FONTE: IPCC, RENEWABLE ENERGY SOURCES
AND CLIMATE CHANGE MITIGATION
SPECIAL REPORT, 2012
dossier
dossier
| energia sociale |
| dossier | energia sociale |
Dalla teoria alla pratica
Il futuro del Sud del mondo
è rinnovabile
di Andrea Barolini
attraverso la rete elettrica tradizionale,
nelle quali vive circa l’80% della popolazione. Grazie a questo ritmo, è già stato installato un milione di pannelli, e si conta di
raggiungere i cinque milioni entro la fine
del 2015: un risultato straordinario, raggiunto dove il business as usual, invece,
fallisce. Grameen Shakti offre una serie di
possibilità per finanziare un impianto
(con rateizzazioni possibili fino a 36 mesi,
ad un tasso massimo dell’8%).
Dal Bangladesh al Malawi…
Dal Bangladesh all’Africa fioriscono iniziative volte a favorire l’installazione
di impianti alimentati da energie rinnovabili. Una speranza, sociale
ed economica, per chi vive in aree non raggiunte dalla rete elettrica tradizionale
a Grameen Shakti è una renewable energy service company. Una
società, cioè, che si occupa di installare e gestire impianti alimentati da
L
fonti rinnovabili. In Europa ne esistono
ormai migliaia. La caratteristica peculiare della Grameen è che opera invece in
uno dei Paesi più poveri del mondo: il
Bangladesh. E i numeri dimostrano come i suoi servizi siano non soltanto un
volano di speranza (oltreché economico
e sociale), ma anche un successo imprenditoriale.
La compagnia installa attualmente
qualcosa come mille impianti al giorno,
concentrandosi nelle aree rurali: le più in
difficoltà e le più difficili da raggiungere
DESERTEC, GIOCO DI SPONDE
Desertec, e ancor di più il suo braccio operativo Desertec
industrial initiative (Dii GmbH), è un’associazione nata nel 2009
tra grandi aziende del settore dell’energia e alcuni soggetti
finanziari (Eon, Rwe, Deutsche Bank, First Solar, le italiane
Unicredit, Enel Green Power, Terna). Due gli obiettivi comuni
per 400 miliardi di euro di investimenti stimati: realizzare impianti
solari ed eolici in Nord Africa e Medioriente per coprire entro
il 2050 il 15% della domanda elettrica europea e una porzione
significativa di quella dei Paesi produttori. E ipotizzare una rete
d’interconnessione elettrica nella regione Europa, Medio Oriente
e Africa Settentrionale per scambiare energia. Dal 2009 a oggi
la parte diplomatico-finanziaria del programma si è mossa, seppur
con qualche seria battuta d’arresto: vedi nel 2012 l’uscita
di Siemens, che abbandona il settore fotovoltaico, e quella assai
meno chiara di Bosch, che in proposito non rilascia commenti;
nonché il rifiuto della Spagna di firmare un accordo sui diritti
d’interconnessione. Tema di scontro, pare, l’aumento di capacità
che passerebbe dall’elettrodotto sottomarino che la collega
al Marocco. Le attività sul campo sembrano iniziare solo ora.
In Egitto è in corso una gara sull’eolico e una seconda si è avviata
con due anni di misurazione preliminare del vento. In Marocco
a febbraio 2012 si è tenuta una gara per 150 MW eolici sul sito
di Taza ed è attivo un progetto per 160 MW di solare
termodinamico a Ouarzazate (previsti 500 MW nel 2020), mentre
altri 850 MW eolici sono stati messi a bando. Ci sono progetti
in stato avanzato sia in Tunisia che in Algeria e l’Arabia Saudita
starebbe lanciando un programma di sviluppo delle rinnovabili
(solare fotovoltaico, solare termodinamico ed eolico) da 25 GW.
| 18 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
Insomma, pur dopo l’ulteriore rallentamento dovuto alle
primavere arabe (per Egitto e Tunisia ce lo conferma Ingmar
Wilhelm, Responsabile Business Development di Enel Green
Power), la macchina sembra partita. Anche se la prospettiva
di Desertec si è fatta più cauta: l’idea della rete
d’interconnessione, e dell’importazione in Europa di energia
prodotta nel Sud del Mediterraneo, sembra lasciar posto
a una posizione secondo cui “l’energia rinnovabile
va consumata laddove viene prodotta”, complice una
sovrapproduzione europea attualmente non assorbita dal
nostro livello di sviluppo demografico, economico e sociale.
Viceversa, la potenziale efficacia di Desertec nel soddisfare
parte degli obiettivi del Vecchio Continente in tema di energia
pulita – si sottolinea da Greenpeace – viene strumentalmente
esaltata dal commissario per l’Energia Günther Oettinger
– tedesco come alcune industrie promotrici della Dii – per
depotenziare la recente direttiva sulle rinnovabili
(2009/28/CE). La posta in gioco è davvero notevole, del resto:
le 32 grandi compagnie riunite nell’Ome (Observatoire
Méditerranéen de l’Energie) ritengono che la domanda
di elettricità della sponda Sud crescerà in media del 4,6%
l’anno fino al 2030, per un totale di 1.385 miliardi di kWh.
SITOGRAFIA
OME (Observatoire Méditerranéen de
l’Energie), www.ome.org
Desertec industrial iniziative - Dii GmbH,
www.dii-eumena.com
Desertec Foundation, www.desertec.org
MedGrid, www.medgrid-psm.com
Quello del Bangladesh è solo uno dei “casi-scuola” nel mondo. Altri, ad esempio,
sono stati sviluppati in Malawi ed in
Etiopia, e portano la firma italiana dell’associazione per la cooperazione internazionale Coopi. «Nello Stato africano
abbiamo deciso di operare sull’isola di
Likoma e nell’area di Kasungu. In quest’ultima vivono 1.300 agricoltori, dei
quali solo il 3% ha accesso all’energia»,
racconta Paola Fava, responsabile delle
iniziative di Coopi in Malawi. Il progetto,
del valore complessivo di 680 mila euro,
è già in fase avanzata: «Ci aspettiamo
una serie di risultati nel prossimo futuro. Puntiamo in particolare alla riduzione del 40% dell’uso di legna per cucinare,
da parte di 9 mila persone, grazie alla distribuzione di stufe efficienti. Inoltre,
grazie ai pannelli solari, abbiamo installato un sistema di pompaggio di acqua
che parte da alcune dighe e alimenta una
serie di torri-cisterna, per consentire di
irrigare la zona e diversificare la produzione agricola». A mille famiglie, poi, sono stati distribuiti “solar kit” e biocarburanti per ottenere luce nelle case e per
consentire di avviare alcune piccole imprese: «Un internet caffè, un cinema, un
parrucchiere, un barbiere. E poi c’è la
promozione turistica – aggiunge Paola
Fava – nell’isola di Likoma, dove un’associazione oggi alimenta grazie a solare ed
eolico piccoli alberghi e bar». Infine, sono
state attrezzate tre scuole in aree rurali
(altre tre lo saranno quest’anno), dotate
anche di connessione a internet, dove
studiano tremila alunni: «Nella stagione
delle piogge, altrimenti, la luce naturale
non sarebbe stata sufficiente per proseguire le lezioni dopo le 15».
DIGHE, ALTO RENDIMENTO, PESSIMO IMPATTO
«La quantità di energia che produce una
SITI INTERNET
diga è enormemente maggiore rispetto
International Rivers, www.internationalrivers.org
alle altre rinnovabili: la potenza
Re:common, www.recommon.org
di un’installazione fotovoltaica si misura
Salini Costruttori, http://salinicostruisce.salini.it
in kilowatt, quella di una diga in centinaia
Stacca
la spina, www.staccalaspina.org
di migliaia di megawatt». Spiega Giulio
Conte, del Comitato scientifico
di Legambiente. Secondo uno studio dell’International Journal on Hydropower & Dams
del settembre scorso, il 70% del potenziale idroelettrico del mondo è in attesa di essere
sfruttato. Sarà per questo che, dopo un rallentamento a cavallo del 2000, negli ultimi
6-7 anni il settore ha ripreso trazione. Grazie all’India (oltre 4.800 grandi dighe
completate e più di 300 in costruzione), ma soprattutto alla Cina, oggi il più grande
costruttore e finanziatore di nuove dighe: banche e imprese cinesi sarebbero coinvolte
in 307 progetti in 74 diversi Paesi, soprattutto in Africa e Sud-Est asiatico, oltre che in
Cambogia, Sarawak e Malesia, Myanmar. Tra i terreni più fertili per il settore c’è proprio
l’Africa, con iniziative mastodontiche quali l’etiope Grand Renaissance Dam sul Nilo e,
sempre che si trovino i finanziatori, due nuovi sbarramenti sul fiume Congo, per
un progetto idroelettrico da 70 miliardi di dollari, con le dighe Inga III (4,5 MW) e Grand
Inga (39 MW). Intanto la Grand Renaissance Dam, che una volta completata risulterà
la più grande del Continente, sconta ostacoli nel reperimento delle risorse necessarie
(5 miliardi di dollari) e il rischio di una valutazione negativa da parte di una commissione
indipendente composta da delegati di Etiopia, Sudan ed Egitto. E in Patagonia continua
il calvario di Endesa (cui partecipa Enel) per realizzare 5 dighe su due fiumi cileni.
Contestazioni e impatti sociali e ambientali a parte, «le difficoltà del progetto
– spiega Luca Manes di Re:Common – deriverebbero soprattutto dall’impianto delle
linee di trasmissione dell’energia, che sono lunghissime e impattano su varie
regioni». Opere immani che producono problemi burocratici, soprusi, violenze,
attacchi alla biodiversità, sfollamenti forzati. E non sono poche le dighe che, a causa
dei cambiamenti climatici, perdono di redditività per una riduzione della portata
d’acqua dei fiumi, o che necessitano di ammodernare impianti dalla vita media assai
lunga, che raramente vengano smantellati (decommissioning).
C.F.
… all’Etiopia
Similmente in Etiopia si è operato in
aree di campagna, nelle quali solo lo
0,4% della popolazione ha accesso all’elettricità per uso privato. Un progetto
triennale prevede l’installazione di impianti in quattro scuole, quattro ospedali, quattro centri veterinari per gli allevatori; 12 mila persone, soprattutto
donne e bambini, potranno inoltre contare sui servizi di alcuni presidi sanitari. E saranno installati pozzi alimentati
da pannelli fotovoltaici, che coinvolgeranno 3 nuove cooperative agricole
composte da 56 membri. Educazione, lavoro, sanità, tutela dell’ambiente. In
una parola: futuro. Grazie alle energie
rinnovabili. 
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 19 |
dossier
| energia sociale |
| dossier | energia sociale |
Rinnovabili
ben oltre le attese
L’Irlanda si salva col green
Ma gli altri Paesi non investono
di Andrea Barolini
di Corrado Fontana
L’economia dell’isola, una delle più penalizzate dalla crisi
economica globale, si sta risollevando grazie ad una
manovra a base di carbon tax e di stili di vita sostenibili.
Così le emissioni di CO2 sono calate del 6,7% nel 2011
Gli scenari auspicati da Greenpeace
superati dalla realtà di uno sviluppo
impetuoso delle fonti di energia
pulita a livello globale. Merito
di Cina e India, ma non solo. Ne parla
Giuseppe Onufrio, che bacchetta
i macroscopici errori dell’Ocse
guardare la dinamica dei
tassi di crescita globali del
2011 per il solare è probabile che si arrivi a coprire gli obiettivi ipotizzati per il 2015», questa la prima sentenza soddisfatta di Giuseppe Onufrio,
direttore scientifico di Greenpeace, sul
presente dell’energia prodotta dal sole.
Ma la seconda, a proposito del vento, fa
trasparire una soddisfazione duplice: «Se
il mercato dell’eolico ha fatto meglio delle nostre “speranze”, ha completamente
sbaragliato le previsioni a breve termine
dell’Aie». Come dire che l’ottimismo degli
auspici di Greenpeace batte il pessimismo dei dati forniti dall’Agenzia internazionale dell’energia (Aie) dell’Ocse, perché
il tasso di sviluppo del settore eolico nel
mondo in questi anni ha battuto entrambi. E a noi – non capita spesso – fa piacere
cominciare dalle note liete.
«I nostri scenari non sono “previsioni”, ma valutano un percorso di fattibilità tecnica ed economica per arrivare al
2050 agli obiettivi di riduzione dell’80%
delle emissioni di gas serra (e contenimento entro 2 gradi dell’aumento della
temperatura, ndr). Avevamo pensato per
l’eolico a 156 GW (1 GW=1.000 MW, ndr)
nel 2010 mentre il mercato globale ne ha
«A
| 20 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
Giuseppe Onufrio,
direttore scientifico
di Greenpeace
sviluppati 197, cresciuti a 237 GW alla fine del 2011. Dunque scopriamo che, rispetto al nostro primo scenario del 2007
l’eolico ha fatto più di quello che avevamo sperato, spuntando nel 2010 41 GW
di potenza installata in più, e nel 2011
questo trend è continuato, sebbene rallentato nel 2012. Nonostante la crisi, il
tasso di crescita dell’eolico è tale che si
dovrebbero raggiungere tutti gli obiettivi che speravamo di raggiungere entro
il 2015. Ci sono alcune aree del mondo
che sono avanzate più velocemente di
quanto avremmo immaginato, in particolare la Cina».
Che portata ha l’errore dell’Aie?
Il World Energy Outlook dell’agenzia di
Parigi prevedeva, nel 2007, un livello
dell’eolico di 123,7 GW nel 2010. L’errore
di previsione – a tre anni! – è stato dunque del 40%. Ancora peggio per il solare
fotovoltaico: nel 2007 l’agenzia prevedeva 9,6 GW installati a livello globale
per il 2010. In realtà alla fine del 2010 la
potenza solare installata si avvicinava
ai 40 GW, un errore dunque del 75%. Lo
scenario di Greenpeace prevedeva quasi 30 GW di solare, dunque il mercato ha
superato di un terzo la linea di sviluppo
necessaria per raggiungere gli obiettivi
ambientali a lungo termine. Non solo.
L’India e la Cina hanno già raggiunto tali obiettivi e quest’ultima ha deciso di
raddoppiare il totale di potenza fotovoltaica installata entro il 2013, aumentandola di circa 10 GW, per arrivare nel
2015 a 40 GW. Si parla cioè di una potenza installata entro il 2020 che vale circa
il triplo degli scenari da noi ipotizzati
per la Cina.
Qual è il trend complessivo delle rinnovabili
nelle grandi aree di sviluppo?
Sia l’Unione Europea che la Cina sono
abbastanza in linea con gli scenari di base che avevamo delineato. Questo vale
anche per gli Stati Uniti, nonostante la
crisi e la guerra commerciale intrapresa
con la Cina per quanto riguarda i pannelli fotovoltaici (vedi http://www.va
lori.it/energia/fotovoltaico-cineseusa-dispongono-dazi-doganali4949.html). La crisi del 2012 ha segnato
certamente una battuta d’arresto sia in
Italia che a livello globale, generando
una riduzione degli investimenti. Ma le
Lo si ripete da anni, ma in pochi ci hanno creduto davvero:
investendo nelle energie rinnovabili si potrebbe uscire in modo
molto più veloce (e sostenibile) dalla crisi. Era l’idea originaria
di Barack Obama, che poi però – almeno per ora – non ha trovato
applicazione pratica. Chi invece è passato dalle parole ai fatti
è l’Irlanda. Il governo di Dublino, per far uscire dalla recessione
uno dei Paesi europei più colpiti dal terremoto immobiliare/
finanziario/economico degli ultimi anni, ha introdotto una serie
di provvedimenti con l’obiettivo di coniugare introiti fiscali,
conversione ecologica e rilancio produttivo. Così è stata imposta
una tassa sulle emissioni di anidride carbonica che colpisce
abitazioni, uffici, trasporti, imprese, industrie. Il principio è semplice:
più inquini, più paghi; più paghi, più sei incentivato a modificare
i tuoi comportamenti in senso ecologico.
Così i prezzi dei combustibili più nocivi per l’ambiente sono
aumentati tra il 5 ed il 10% e il Tesoro irlandese ha incassato, solo
da questa manovra, 1 miliardo e 400 milioni di euro nel 2012.
Nell’isola si è al contempo cominciato a investire sempre più
in tecnologie verdi e ad adottare consumi e stili di vita sostenibili,
tanto che il gruppo automobilistico Renault-Nissan ha firmato
un accordo con le autorità dell’isola per dare nuovo impulso
al mercato dei motori elettrici. E i primi risultati già si vedono:
da un lato, le emissioni di biossido di carbonio sono calate
del 6,7% nel 2011; dall’altro, il rapporto tra deficit e Pil dovrebbe,
secondo un’analisi dell’Economist, tornare sotto la soglia del 2%
(un miraggio per molti altri Paesi dell’Eurozona).
La chiave del successo, insomma, è fatta di lungimiranza
e investimenti, soprattutto in ricerca e sviluppo (R&D). Eppure
le cifre rivelate a gennaio da Bloomberg New Energy Finance
indicano come, lo scorso anno, in tutto il mondo gli investimenti
in energie pulite siano scesi dell’11%. E a trainare la discesa sono
stati soprattutto quattro Paesi: Usa, India, Spagna e Italia.
Le cifre totali parlano di 268,7 miliardi di dollari, contro i 302,3
politiche aggressive di Paesi come la
Germania, e ora anche il Giappone, oltre
al rilancio della Cina, fanno sperare si
tratti solo di un momento negativo. Peraltro il trend dei costi industriali per il
solare è ancora previsto in discesa nel-
miliardi del 2011. Negli Stati Uniti (che comunque mantengono
con 44,3 miliardi il secondo posto al mondo, dopo i 67,7 miliardi
della Cina) gli investimenti scendono del 33%. Similmente, sono
davvero clamorosi il crolli di Italia e Spagna: rispettivamente -51%,
a 14,7 miliardi, e -68%, a 3 miliardi. In India, si è scesi poi del 44%.
«Avevamo spiegato all’inizio dello scorso anno che il 2012
sarebbe stato difficile – ha osservato Michael Liebreich, numero
uno di Bloomberg New Energy Finance – ma questo non significa
che il settore sia in crisi. Nonostante i cali assistiamo, infatti,
a una decisa diffusione degli investimenti nel mondo:
dall’Australia al Sudafrica, dal Marocco all’Ucraina. E ancora Cile,
Etiopia, Corea del Sud, Kenya».
A preoccupare c’è, però, il fatto che, se si osservano
specificatamente gli investimenti in ricerca e sviluppo, già il 2011
aveva fatto segnare un calo del 16% rispetto all’anno precedente
(dopo un quinquennio di crescita, vedi GRAFICO a pag. 39). Una “stretta”
che ha toccato sia gli investimenti corporate che quelli pubblici
e che ha colpito tutte le tecnologie (se si eccettuano i fondi
governativi assegnati alla ricerca sull’idroelettrico). I Paesi che
hanno registrato i cali più sensibili degli investimenti (sia statali
che privati, vedi MAPPA a pag. 38) sono quelli asiatici (escluse Cina
e India), che hanno raggiunto un -40%. Medio Oriente
e Africa, Europa e India scendono invece tra il 16 e il 18%.
In controtendenza un unico Paese: il Brasile, che grazie ai contributi
governativi segna un dato complessivo lievemente positivo.
l’ordine del 5% per il 2013: ancora negli
anni ’90 si vaticinava che la soglia di 1
dollaro a watt per il fotovoltaico si sarebbe raggiunta con 100 GW installati
globalmente. In realtà la riduzione dei
costi a quel livello è stata raggiunta con
40 GW installati. Per quanto riguarda gli
aspetti negativi, senz’altro si deve parlare dell’efficienza energetica: tutte le macroregioni che abbiamo analizzato sono
al di sotto dei livelli che ci saremmo augurati si raggiungessero. 
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 21 |
dossier
| energia sociale |
| dossier | energia sociale |
Il nuovo ordine
mondiale
di Paola Baiocchi
L’estrazione di gas e petrolio dagli scisti è la nuova frontiera energetica degli Stati Uniti, che puntano ora all’autonomia.
Un cambiamento non di poco conto, che sposterà il baricentro dei loro interessi, anche militari, verso l’area del Pacifico
ono in fase di profondo cambiamento gli scenari mondiali dell’energia: con lo sfruttamento dello
shale gas, estratto dagli scisti con la contestata tecnica del fracking, gli Usa si avviano a superare la Russia nella produzione
di gas, secondo i dati dell’Agenzia internazionale dell’energia (o l’hanno già superata, secondo altri analisti), collocandosi tra
i primi produttori mondiali di gas naturale, con la previsione di diventarne esportatori, dopo aver avuto per anni il primato
di consumatori e importatori. Le stime
sulle riserve di shale gas fanno parlare di
una nuova frontiera, anche se il condizionale è d’obbligo: il solo Marcellus shale, localizzato sotto otto Stati della federazio-
S
| 22 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
Shale gas, carbone, petrolio.
Il mondo si divide le risorse
energetiche. Le rinnovabili
occupano ancora uno spazio
ridotto, ma l’interesse cresce
ne, potrebbe essere, con 14.000 miliardi di
metri cubi di gas previsti, il più grande giacimento mai scoperto, superiore perfino
al gigantesco North Field del Qatar.
Anche le estrazioni di petrolio negli
Stati Uniti sono tornate ai livelli del 1993,
grazie allo shale oil (o tight oil, il greggio
racchiuso nelle rocce argillose), così il
raggiungimento dell’autonomia energetica a partire dal 2030 è segnato nell’a-
genda politica degli Stati Uniti e già ora
fa da volano per il rilancio dell’economia,
anche attraverso reinternalizzazioni di
produzioni.
È il caso di GE Appliance, la divisione
di General Electric per gli elettrodomestici – dai tostapane ai frigoriferi – che, dopo
esser stati per anni manufatti in Cina, tornano negli States, sotto la spinta del maggior costo dei trasporti dovuto al prezzo
del barile e degli aumenti dei salari cinesi,
che fanno tornare convenienti gli operai
statunitensi. In un’ottica anche di guerra
commerciale verso il grande Paese asiatico, dalla bandiera sempre rossa.
Per Germano Dottori, docente alla
Luiss di Studi strategici e curatore dell’ultima edizione del rapporto di Nomisma Nomos e Khaos, l’autonomia energetica degli Usa accentuerà lo spostamento
già in corso dei loro interessi, anche militari, verso l’area del Pacifico: «Venendo
meno la necessità di assicurare la regolarità degli approvvigionamenti energetici,
Mediterraneo, Medio Oriente ed Africa
diventerebbero fatalmente teatri ancor
meno importanti nel calcolo geopolitico
americano».
zo, a quello del petrolio. Si sono così formati dei submercati del gas. Anche nei
contratti – continua Marco Frey – si afferma una nuova tendenza verso gli approvvigionamenti short term, piuttosto che sul
lungo periodo».
Gli alti costi dei metanodotti sono alla base dei contratti a lungo termine
take-or-pay (letteralmente “prendi o paga”) con i quali i fornitori si sono finora
garantiti la copertura delle spese per le
infrastrutture. Ma, di fronte a una riduzione dei consumi europei di gas, dovuta al perdurare della crisi, e alla sovrabbondanza nell’offerta di gas naturale,
diventano ora difficilmente giustificabili e molto onerosi per chi, come l’Italia,
ne ha in corso.
Gli esportatori si trovano così a vendere a prezzi spot scontati ai vari hub del
mercato europeo, traendo vantaggio dalla capacità di gasdotti rimasti inutilizzati per il calo della domanda entrando in
concorrenza diretta con i loro clienti tradizionali, come spiega Leonardo Maugeri,
ex funzionario Eni ora docente negli Stati Uniti, nel suo libro Con tutta l’energia
possibile.
Piccole ma dinamiche
Nel grande dinamismo energetico di questo inizio di millennio, le rinnovabili giocano un ruolo importante. L’Europa, nella prospettiva 2050, prevede forniranno
da un minimo del 40% a quote superiori di
energia. Riprende Marco Frey: «Dal punto
di vista degli stock complessivi la componente delle rinnovabili è ancora abbastanza limitata, ma cresce in modo consistente e superiore alle previsioni. A livello
Disaccoppiati
Marco Frey, direttore dell’Istituto di management della Scuola superiore Sant’Anna, ci spiega altre conseguenze dell’arrivo
sulla scena dello shale gas: «Ha creato per
la prima volta una sorta di disaccoppiamento nel mercato del gas, tradizionalmente associato anche in termini di prez-
Il giacimento Marcellus Shale è localizzato
per la maggior parte in Ohio, West Virginia,
Pennsylvania e New York. Piccole aree interessano
Maryland, Kentucky, Tennessee e Virginia
europeo tutto il nuovo installato negli ultimi tre-quattro anni vede la prevalenza
delle rinnovabili e la Cina vi investe più
del doppio degli Usa. Le rinnovabili poi,
avendo un accesso privilegiato al mercato, stanno mettendo in difficoltà anche le
dinamiche del prezzo a brevissimo termine per le fonti fossili».
Il rapporto World Energy Outlook
pubblicato dall’Aie (Agenzia internazionale dell’energia dell’Ocse) nel dicembre
scorso, prevede che le rinnovabili forniranno nel 2035 quasi 1/3 della generazione
elettrica mondiale, avvicinandosi al carbone, che si prevede sarà la prima fonte di
elettricità su scala globale. Mentre in area
Ocse il consumo di carbone diminuirà, da
India e Cina si attendono da ora al 2035,
secondo la Iea, circa i 3/4 della crescita di
domanda nell’area non Ocse.
Il numero dei Paesi che producono
energia per il proprio bisogno o per l’esportazione da rinnovabili e non fossili
sta aumentando: dalla Corea del Sud, al
Brasile, al Nord Africa che, con solare ed
eolico, sta entrando nella strategia di approvvigionamento dell’Europa del Sud.
Il mercato dell’energia, insomma, si
sta segmentando in diverse componenti,
ciascuna delle quali è in grado di influenzare le altre, in un’ottica che può essere quella dell’approvvigionamento diversificato.
Dopo il petrolio
Una strategia attuata anche dai Paesi del
Golfo, che stanno ora investendo in ricerca sulle rinnovabili, sull’efficienza energetica e sulla diversificazione delle fonti. Gli
Emirati Arabi Uniti, per esempio, ospitano
ad Abu Dhabi il World Future Energy
Summit, qualificato appuntamento annuale per la sostenibilità e le rinnovabili.
Masdar, la futuribile città a emissioni zero,
alimentata da solare ed eolico, che sta sorgendo vicino Abu Dhabi, è la sede del Masdar Institute of Science and Technology,
polo universitario realizzato con il Massachusetts Institute of Technology e dedicato allo studio e alla ricerca nel campo delle energie rinnovabili.
Per quanto possa sembrare strano
nel caso di grandi produttori di gas e petrolio, anche la costruzione di centrali
FILM
Promised Land
Usa 2012
regia di Gus Van Sant
interpreti Matt Damon,John Krasinski,
Frances McDormand, Hal Holbrook
Il film ha sollevato il dibattito
sull’argomento delle estrazioni
di petrolio e gas con la tecnica
della fratturazione.
LIBRI
Leonardo Maugeri
Con tutta l’energia possibile
Sperling & Kupfer, 2011
nucleari rientra nelle strategie per sostenere il consumo elettrico interno, liberando così parte del gas prodotto per
l’esportazione o per la redditizia reiniezione nei pozzi per aumentare l’estrazione di petrolio. È questo il caso, secondo Maugeri, dell’Iran e anche dell’Arabia
Saudita, che ha in corso faraonici investimenti.
A saltelli
Resta poi un’altra energia “rinnovabile”
ancora poco sfruttata: l’efficienza energetica. Secondo l’Aie si possono recuperare i 4/5 del potenziale di miglioramento dell’efficienza nel settore residenziale
e abitativo, e più della metà nell’industria. Miglioramenti che riguardano tutti l’innovazione di processo.
In questa corsa che tende il più possibile alla diversificazione delle fonti, l’Italia
più che correre saltella, e sembra incapace
di programmazione a lungo termine.
«Siamo in attesa di un piano energetico nazionale da 30 anni e le nostre scelte
sono molto frammentate» aggiunge Marco Frey «Auspichiamo, però, che da adesso in poi ci sia estrema chiarezza sulle opzioni di politica industriale nel campo
delle rinnovabili, ambito veramente strategico nel lungo periodo, ancor più per l’Italia, Paese fortemente dipendente dall’import di energia». 
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 23 |
| 24 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
5
44%
37%
30%
3%
10%
10
3%
20%
15
21%
30%
47%
Capacità energetica non utilizzata
oltre il margine considerato di sicurezza
(valutazione 2004)
47%
40%
51%
Stima della capacità energetica centrali
a carbone di cui è già prevista la dismissione
2%
25
20
50%
20%
35
30
Stima della capacità energetica delle
centrali a carbone mature per la dismissione
20%
40
2%
Perché parlare di Pasolini, e di un libro appena uscito su di lui con il provocatorio titolo
di Frocio e basta, in un dossier che si occupa di energia? È abbastanza inconsueto
in questo spazio del nostro giornale occuparsi di letteratura. E, infatti, scriviamo per
dovere civile e passione politica – e non solo per recensire il libro (bellissimo) di Carla
Benedetti e Giovanni Giovannetti – e per parlare di Petrolio. Petrolio è un romanzo sul
potere – in cui l’Eni viene definita, appunto, il topos del potere – al quale Pasolini stava
lavorando quando è stato ucciso nella notte tra l’1 e il 2 di novembre 1975.
Nella ricorrenza dei defunti, lo scrittore, poeta, regista, saggista viene massacrato
di botte e schiacciato fino alla morte da un’automobile in un parcheggio dell’idroscalo
di Ostia. Si prende tutta la responsabilità dell’omicidio il 17enne Pino Pelosi, spiegando
di aver agito per sfuggire a un tentativo di violenza da parte di Pasolini. Per quanto
la versione faccia acqua da tutte le parti, tanto che Pelosi nel 1979 viene condannato
per omicidio volontario in concorso con ignoti, un coro quasi unanime di giornalisti,
intellettuali e critici la sottoscrive.
Non così Carla Benedetti, docente di Letteratura italiana all’università di Pisa e coautrice
di Frocio e basta, che ha contribuito con la sua azione alla riapertura delle indagini
giudiziarie sulla morte di Pasolini e con la quale abbiamo parlato: «Nella prima indagine
non sono stati raccolti molti indizi, non sono stati sentiti testimoni, sono state trascurate
delle prove per coprire un’altra verità. Ora si sa che Pasolini era a quell’appuntamento
per un ricatto, per recuperare le pellicole del film Salò». Le pellicole, rubate in agosto a
Cinecittà, servono da esca e non verranno mai più ritrovate.
Nella ricostruzione fatta da Giovannetti in Frocio e basta, all’idroscalo quella notte
assieme a Pelosi c’erano almeno sette persone: i due fascistissimi fratelli catanesi Franco
e Pino Borsellino, c’era Jhonny lo zingaro pluriomicida ergastolano vicino alla destra
fascista, c’era forse Antonio Pinna legato agli ambienti della costituenda banda mafiosa
della Magliana. Uno scenario molto diverso da quello centrato sull’avventura sessuale
come confessato da Pelosi, che nel 2003 ritratta e dice di non essere lui il colpevole.
Un’operazione quindi per “chiudergli la bocca”, per far sparire un testimone, riprende
Carla Benedetti: «Mettendo in fila tutti gli elementi (la denuncia di Cefis come
mandante dell’uccisione di Enrico Mattei contenuta in Petrolio, il capitolo scomparso
“Lampi sull’Eni” in cui si parla ancora di Cefis e le molte altri morti collegate al delitto
Mattei) si capisce in che contesto viene ucciso Pasolini. Certo, molti dicono che il libro
Questo è Cefis uscito nel 1972 diceva le stesse cose su Cefis: ma quello è un libro
“clandestino” che è stato subito ritirato dalla circolazione. Vi immaginate se Pasolini
avesse pubblicato le stesse cose sul
Corriere, dove abitualmente scriveva?».
LIBRI
Ancora una volta dietro a un fatto oscuro
Carla Benedetti
della storia d’Italia c’è quel nodo fatto
Giovanni Giovannetti
di piduismo, mafia, affari, fascismo, con
Frocio e basta
i quali non abbiamo fatto i conti, ma
Sacra follia? Pasolini, Cefis,
Petrolio. Così muore un poeta
con i quali conviviamo. In quella “scienza
italianistica” in quel “misto” di cui parlava
Effigie edizioni, 2012
Pasolini, che conferisce potere al potere.
di Corrado Fontana
60%
45
1%
In Petrolio, che stava scrivendo quando è stato ucciso, Pasolini indica Cefis
come mandante dell’omicidio Mattei. Quasi tutta la critica italiana, invece,
riferisce il romanzo solo all’omosessualità dell’autore
RIPARTIZIONI SUL TOTALE DELLA FORNITURA DI ELETTRICITÀ DEGLI STATI UNITI
18%
di Paola Baiocchi
Dal nero
al verde
RIPARTIZIONE CENTRALI A CARBONE E CAPACITÀ ENERGETICA INUTILIZZATA
PER AREA GEOGRAFICA NEGLI USA
Gigawatts
Lampi sull’Eni
| dossier | energia sociale |
0%
2008
0
Sud-Est Atlantico centrale Ovest Nord-Ovest Nord-Est
e Centro Ovest
centrale
Florida
Texas
Pianure
del Sud
La capacità energetica non sfruttata è superiore a quella che verrebbe meno con la chiusura delle
centrali a carbone nella maggior parte delle regioni
vrebbe ridursi progressivamente, per
cessare solo col 2030.
In pensione, senza drammi
Carbone ancora protagonista nel mix
energetico globale. Ma il peggior
“nemico del clima” vacilla, grazie alla
competitività delle rinnovabili
e dello shale gas. L’epitaffio per
centinaia di impianti in un
rapporto americano indipendente
l carbone, idolo della rivoluzione industriale dell’800, resiste. Negli ultimi mesi, dopo anni di declino, il suo
consumo in Europa ha registrato una ripresa, apprezzata dalla Polonia, che ne è
grande produttore, e legata soprattutto
a questioni di prezzo. La sbornia di shale
gas americano ha, infatti, portato a un
crollo dei prezzi del gas sia negli Stati
Uniti, sia, in misura minore, a livello internazionale. Generando così due conseguenze: da un lato forse la “mazzata finale” per il nucleare, dall’altro – viste le
grosse difficoltà dell’industria estrattiva
carboniera a stelle e strisce – una spinta
delle esportazioni. Ed è quest’ultima la
cattiva notizia per il Pianeta, poiché il
carbone è la fonte energetica più impattante sul clima, e il suo impiego, secondo
gli scenari elaborati da Greenpeace, do-
I
A sperarci è senz’altro l’Union of Concerned Scientists, un gruppo di studiosi
indipendenti che a novembre scorso
pubblicava il rapporto Ripe for Retirement - The case for closing America’s costliest coal plants (Maturo per la pensione - L’opportunità di chiudere le centrali
a carbone più costose d’America): una
sorta di epitaffio per una buona fetta
del carbone americano. La relazione sostiene, infatti, che ben 353 centrali a carbone in attività (circa il 18% del totale)
non sarebbero più competitive economicamente rispetto agli impianti che
sfruttano le fonti di energia rinnovabili
(solare ed eolico) o il gas naturale. E tan-
Carbone
2009
2010
Gas naturale
2011
Eolico
2012*
La diminuzione del contributo del carbone al mix energetico nazionale rispetto alla crescita
del contributo offerto da fonti alternative meno inquinanti nel periodo 2008-agosto 2012
to meno una volta aggiornate in base ai
moderni standard di rispetto dei livelli
d’inquinamento.
Da qui l’invocata pensione per una
massa di attempati generatori – mediamente 45 anni di vita contro i 30 preventivati – che ancora oggi rappresentano collettivamente 59 GW, cioè il 6,3%
di tutta la potenza generata negli Usa.
Ma, e questo è peggio, centrali che per
circa il 70% non sarebbero dotate di apparecchiature per il controllo delle emissioni di tre dei quattro inquinanti più
nocivi (biossido di zolfo, biossido di azoto, mercurio). Chiuderle sarebbe perciò
un’opportunità per aprire il campo alle
rinnovabili, considerato che, oltre alle
famigerate 353 centrali, gli Stati Uniti
hanno già programmato l’onorata pensione per ulteriori impianti a carbone (e
sono altri 41 GW). Complessivamente si
avrebbe un risparmio di emissioni di
anidride carbonica pari a circa 410 tonnellate l’anno per il settore elettrico, ovvero il 16,4% dei livelli attuali. Rimpiazzare il contributo energetico fornito
finora da queste centrali non sarebbe
poi così difficile. Secondo gli studiosi
basterebbe sfruttare «una combinazione tra impianti a gas naturale sottoutilizzati, energia da fonti rinnovabili e
una riduzione dei consumi attuata implementando l’efficienza energetica nei
prossimi otto anni, grazie al previsto aggiornamento e all’applicazione di norme statali». 
SITOGRAFIA
www.ucsusa.org, Union of Concerned Scientists
CARBONE “PULITO”, CARBONE ASSETATO
L’utilizzo del carbone è ancora in crescita, particolarmente
in Cina. Con una duplice ricaduta ambientale negativa.
Rispetto all’inquinamento ambientale, infatti, non sembra
risolutivo puntare sul cosiddetto clean coal (“carbone pulito”),
un insieme di tecnologie per ridurre l’impatto ambientale della
combustione, migliorando l’efficienza energetica. «Che
le emissioni degli impianti moderni a carbone siano inferiori
è vero – precisa Giuseppe Onufrio di Greenpeace – ma,
se si confrontano le tecnologie di abbattimento degli inquinanti,
allo stato dell’arte il gas a ciclo combinato è decisamente
più efficace; per la CO2, le emissioni specifiche dei migliori
impianti a carbone sono doppie rispetto a quelle dei migliori
impianti a gas naturale».
Il secondo tasto dolente è invece quello del conflitto tra l’uso del
carbone e la disponibilità di acqua. Il rapporto Thirsty coal:
a water crysis exacerbated (Carbone assetato: una crisi idrica
esacerbata) analizza sul territorio cinese lo sviluppo mal
pianificato e massiccio dei centri carboniferi (miniere e centrali),
che non solo, drenano risorse idriche sotterranee, ma
le inquinano, acuendo la scarsità d’acqua nei periodi siccitosi
e mettendo a rischio gli ecosistemi. Lo studio stima che per ogni
tonnellata di carbone estratto vengano meno 2,54 metri cubi
di acque sotterranee, il pompaggio delle quali è preludio all’attività
estrattiva. E se è vero che la versione in cinese del rapporto è stata
scaricata dalla rete 9 milioni di volte, vuol dire che il dibattito
è aperto anche all’ombra della Grande muraglia.
C.F.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 25 |
FONTE: ENERGY INTERNATIONAL AGENCY (EIA)
| energia sociale |
FONTE: BLOOMBERG, BLOOMBERG NEW ENERGY FINANCE, IEA,
IMF, VARIOUS GOVERNMENT AGENCIES
dossier
| valorifiscali |
Tasse & elezioni
Il 75% proposto dalla Lega
è una secessione al 100%
L
di Alessandro Santoro
pensioni più alte e, addirittura, di fare
arrivare puntuali i treni (con un sinistro richiamo a slogan mussoliniani). A
lungo questa proposta è risultata incomprensibile nel suo fondamento e
nelle sue finalità. Diversi studi sul cosiddetto residuo fiscale, cioè sulla differenza tra, da un lato, il prelievo fiscale operato sui redditi delle imprese e
dei cittadini residenti in un determinato territorio e, dall’altro lato, le spese
complessivamente sostenute dall’insieme delle Pubbliche Amministrazioni (Stato, Enti locali, Enti previdenziali), dimostrano, infatti, che già adesso
una quota molto vicina, se non superiore al 75% delle entrate prelevate in
Lombardia viene “restituita” ai cittadini e alle imprese. È vero che i criteri di
ripartizione sono incerti e discutibili e
che, comunque, il residuo fiscale della
Lombardia è pur sempre positivo, ma
si tratta di un fenomeno del tutto ovvio in un Paese che vuole almeno provare a correggere in parte gli squilibri
territoriali. Se si escludono Valle d’Aosta e Trentino, infatti, la Lombardia ha
il livello del Pil pro capite (dove è inclusa l’economia sommersa) più elevato
del Paese, pari a circa il doppio di quello
medio del Sud e del Mezzogiorno.
Se la proposta leghista fosse stata
in qualche modo legata ad un tentati-
l’Italia. La proposta leghista chiede, sic
et simpliciter, di garantire che la Lombardia (e le altre Regioni d’Italia) gestiscano in autonomia il 75% del gettito
territoriale per svolgere poco più delle
funzioni attuali, con l’aggiunta, forse
dell’istruzione.
Nel contempo, lo Stato dovrebbe
utilizzare il residuo 25% per fare sostanzialmente tutte le cose che oggi
già fa, a beneficio dei lombardi e di tutti gli altri cittadini italiani, oltre che
pagare gli interessi passivi sul debito.
Il che è, numericamente, impossibile.
Nella più prudente delle interpretazioni possibili, allo Stato rimarrebbero, al netto degli interessi da pagare
sul debito, poco più di 52 miliardi di euro, con cui si riuscirebbe a finanziare
esclusivamente le funzioni difesa, sicurezza pubblica e giustizia e parte
della funzione amministrazione generale. Non un euro sarebbe disponibile
per la cosiddetta perequazione, cioè i
trasferimenti operati dallo Stato a favore delle Regioni povere. Questo significa togliere il senso stesso di un
Paese unito e privare queste Regioni
della possibilità di erogare i servizi
fondamentali.
Ecco perché è legittimo affermare
che siamo di fronte a una proposta secessionista sotto mentite spoglie. 
HTTP://LEGANORDMELEGNANO.BLOGSPOT.IT
a “proposta” leghista sul 75% è il migliore (o peggiore) esempio dell’uso del fisco come clava mediatica che ha caratterizzato anche questa campagna elettorale. I muri della Lombardia sono stati invasi da
megaposter in cui si affermava che trattenere il 75% delle imposte regionali “sul territorio” avrebbe consentito di dare più lavoro ai giovani, di pagare
La proposta leghista
è semplicemente inattuabile
in termini numerici
vo di rendere più efficiente la spesa
pubblica, magari ritornando criticamente sullo stesso disegno leghista di
federalismo fiscale così fragorosamente naufragato, avrebbe anche potuto essere utile. Ma, quando è stato
possibile leggere il programma leghista, si è capito che non era affatto così.
La proposta leghista non vuole comparare il contributo al beneficio che i
lombardi ottengono dall’esistenza del-
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 27 |
| auto&finanza |
finanzaetica
REUTERS / STEFANO RELLANDINI
Un gruppo di operai al lavoro su una nuova
auto Maserati, nella fabbrica di Torino,
il 30 gennaio scorso
Finanzieri
a quattro ruote
Leasing e finanziamento alla vendita.
Ma anche plusvalenze di Borsa
realizzate e da realizzare. Per i conti
del settore auto il comparto
finanziario è sempre più decisivo
La nuova frontiera
dell’auto
di Matteo Cavallito
ra saturazione, trend di segno
opposto, piani di investimento
energetico e grandi scalate, il
mercato dell’auto vive di destini contrastanti. Ma, pur caratterizzate da prospettive diverse, le grandi case automobilistiche sembrano aver trovato da
tempo un denominatore comune, scommettendo su un sempre più indispensabile fattore di crescita: il comparto finanziario. Le grandi case del settore?
Ormai sono «banche che vendono automobili» spiegava il sociologo Luciano
Gallino nel suo Finanzcapitalismo (Einaudi 2011) rimarcando la trasformazione dei grandi operatori come Fiat, GM,
Volkswagen, Ford e Peugeot. Non più
semplici costruttori, insomma, ma veri e
propri istituti finanziari che offrono
«un’amplissima gamma di piani di investimento» in un settore in cui «è il credi-
T
Inchieste, perdite e derivati. Non solo Mps > 32
Bersani, Vendola e Ingroia rispondono a Banca Etica > 34
La crisi è colpa di lavoratori “stupidi” > 35
| 28 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 29 |
| finanzaetica |
| finanzaetica |
to, non la vendita» a risultare fondamentale al traino della produzione stessa.
Certo, il contesto resta particolarmente
complicato e differenziato. Ma il ruolo
delle operazioni finanziarie sembra assumere in ogni caso un peso sempre maggiore a prescindere dal grado di successo
del core business.
Il futuro è nel financial service?
FONTI: BILANCI TRIMESTRALI BMW, GENERAL MOTORS, PEUGEOT-CITROEN (PSA),
VOLKSWAGEN, SETTEMBRE 2012. BILANCIO ANNUALE FORD, GENNAIO 2013.
BILANCIO ANNUALE FIAT, FEBBRAIO 2012.
Nello scorso mese di novembre, la General Motors ha raggiunto l’accordo per l’acquisto delle operazioni di finanziamento
nel settore auto della holding bancaria Ally Financial. Un’operazione da 4,2 miliardi
di dollari che permetterà alla casa automobilistica di espandere il proprio ramo
finanziario nei mercati più promettenti a
cominciare dal Sudamerica dove, ha ricordato Bloomberg, metà delle automobili vengono acquistate a credito. Ally non è
altro che l’ex Gmac (General Motors Acceptance Corporation), la divisione finanziamenti creata in passato dalla casa di
Detroit e successivamente ceduta nel
2006 alla società di private equity Cerberus Capital Management di New York.
Nei primi nove mesi del 2012, i ricavi complessivi di GM sono aumentati dello 0,6%.
Quelli della sola divisione finance sono
cresciuti del 29%. E il trend, dati alla mano
(vedi TABELLA ), non rappresenta certo un
fenomeno isolato.
Un anno fa Volkswagen annunciava
l’intenzione di espandere ulteriormente
la propria rete di finanziamento e leasing in Europa con l’obiettivo di coprire
in questo modo il 40% delle proprie ven-
PORSCHE, LA SPORTIVA CHE SORPASSA GLI HEDGE
La storia di una delle più clamorose speculazioni
borsistiche del decennio inizia nel settembre del 2008 quando
Porsche annuncia di essere salita al 35,14% delle quote
Volkswagen. Potrebbe essere l’inizio di una scalata, ma nessuno
nell’ambiente dei fondi hedge prende sul serio l’ipotesi. Ispirati
dalla recessione globale e dalla crisi del settore auto, i fondi ignorarono quindi
la strategia della casa automobilistica di Stoccarda (che implicherebbe un rialzo del
titolo VW), scegliendo al contrario di attaccare al ribasso il titolo dell’azienda
di Wolfsburg con il short selling. Il sistema funziona così: si paga una commissione
e si prendono in prestito titoli che non si possiedono per poi venderli e successivamente
riacquistarli sul mercato. Se, nel frattempo, il valore del titolo è sceso lo speculatore
realizza una plusvalenza. La bomba scoppia alla fine di ottobre, quando Porsche
comunica la propria posizione su VW: 42,6% delle azioni e opzioni di acquisto (a prezzo
prefissato) su un altro 31,5% delle quote. Tradotto: controlla di fatto il 74,1% delle azioni.
A beffare i fondi era stata una norma della legge tedesca che impone agli operatori
di comunicare la posizione azionaria ma non il portafoglio delle opzioni. Porsche,
insomma, aveva scalato VW ma nessuno se ne era accorto. Nel gergo dei mercati si parla
di corner, l’innesco di una maxi speculazione al rialzo. Con i 3/4 delle quote in mano
a Porsche e il 20,1% bloccato nelle casse del governo regionale della Bassa Sassonia
(storico azionista della casa automobilistica), i titoli liberi sul mercato sono appena
il 5,8%. Gli hedge, che per completare l’operazione short devono riacquistare le azioni
sulle quali si erano esposti (in termini tecnici devono “chiudere le posizioni”), si lanciano
alla disperata ricerca di azioni spingendo la domanda in orbita. Risultato? Il prezzo del
titolo sale alle stelle e Porsche guadagna miliardi ai danni degli stessi fondi. Cinque anni
dopo, VW ha acquisito Porsche.
M.C.
2012 (9 mesi)
2011 (9 mesi)
11,6%
14.582
12.640
15.4%
112.286
0,6%
1.432
1.016
29.0%
42.484
44.585
-4,7%
1.450
1.435
1.1%
144.226
116.279
24%
14.700
12.800
12.9%
offrire alla clientela prestiti a interessi
molto competitivi (3,9% annuo) ma anche, va da sé, estremamente redditizi. Nel
2011, ha ricordato il New York Times,
Volkswagen Financial Services ha realizzato profitti per 658 milioni, un risultato
migliore rispetto a quello ottenuto da
Commerzbank, il secondo istituto di credito della Germania. Alla rendita pura e
semplice, la casa di Wolfsburg ha fatto
comunque seguire gli investimenti. Operazioni a sostegno del business principale, ovviamente, ma anche strategie di diversificazione che hanno interessato le
energie alternative e la gestione stessa
dei servizi di mobilità (vedi BOX ). Scelte
che ad oggi la collocherebbero all’avanguardia di un settore in trasformazione.
-4.9%
Fiat-Chrysler,
il business è in Borsa
dite nel Continente (contro il 30% del
2011). Un mese più tardi, la sua divisione
finanziaria, la Volkswagen Financial Service, ha potuto accedere grazie alla sua licenza bancaria al maxi piano di alleggerimento quantitativo europeo ottenendo
dalla Bce un prestito da 2 miliardi all’1%
di interesse. Un assist clamoroso che ha
consentito alla casa automobilistica di
LA CRESCITA DEL CONTRIBUTO DEI SERVIZI FINANZIARI SUI RICAVI TOTALI
Ricavi totali
2012 (9 mesi)
2011 (9 mesi)
56.312
50.472
GM
112.949
PEUGEOT-CITROEN
VOLKSWAGEN
BMW
Variazione
2012 (12 mesi) 2011 (12 mesi)
FORD
136.300
134.300
2012 (12 mesi) 2011 (12 mesi)
1.5%
2011 (12 mesi) 2010 (12 mesi)
FIAT (esclusa CHRYSLER)
37.382
35.880
Ricavi financial services Crescita
7.700
8.100
2011 (12 mesi) 2010 (12 mesi)
4.0%
358
270
24.6%
Dati in milioni di euro per BMW, Peugeot-Citroen (PSA), Volkswagen e Fiat. Dati in milioni di dollari per GM e Ford.
| 30 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
Ma il nesso auto-finanza non è solo una
questione di leasing. Perché i servizi alla
vendita, per quanto importanti, non bastano a descrivere il peso del comparto
finanziario sul settore. Soprattutto di
fronte alle possibilità offerte dalla Borsa
sul fronte puramente (e magari anche legittimamente) speculativo. Cinque anni
fa la Porsche segnò il passo, rendendosi
protagonista di un memorabile gioco al
rialzo sul titolo VW (vedi BOX ), una perfetta applicazione della strategia corner
che beffò gli hedge funds e garantì alla
casa automobilistica profitti miliardari.
Oggi, in un contesto completamente
diverso, le luci della ribalta spettano invece alla Fiat e ai suoi sogni di plusvalenza sulla sorella americana: l’ex moribonda Chrysler. L’azienda di Detroit è uscita
dall’amministrazione controllata nel giugno del 2009. Diciotto mesi più tardi ha
chiuso i conti con una perdita di 652 milioni di dollari mentre nel 2011 è arrivato
finalmente un utile (il primo dopo 14 anni) sebbene di scarsa rilevanza: appena
183 milioni su un fatturato di 55 miliardi.
Il botto Chrysler lo ha fatto invece nel
2012 quando il dato è salito a quota 1,7 miliardi. Lo scorso mese di novembre, ha ricordato di recente il Wall Street Journal,
la banca elvetica Ubs ha valutato l’azienda di Detroit 9 miliardi di biglietti verdi.
A gennaio, l’analista di settore della Morningstar Richard Hilgert ha avanzato
una stima ancora più ottimistica: l’azienda, ha spiegato, potrebbe raggiungere sul
mercato un valore complessivo di 13,5
miliardi. Come a dire che la Fiat, per usare le parole di Hilgert, «sta acquistando le
azioni a un prezzo ancora basso».
Il concetto, insomma, è chiarissimo: il
vero business dell’operazione Fiat-Chrysler, prima ancora che nell’acquisizione
del mercato, si collocherebbe soprattutto
nella maxi plusvalenza azionaria del Lingotto. La Fiat controlla ad oggi il 58,5% delle quote Chrysler. Il restante 41,5 è tuttora
in mano allo United Auto Workers, il sindacato Usa che partecipa all’azienda attraverso il Veba, il fondo di previdenza sanitaria dei suoi lavoratori. Il Lingotto
punta alla fusione entro il 2014 dopo un’ulteriore scalata a Detroit attraverso l’acquisizione di un altro 16,6% delle azioni.
L’anno scorso da Torino è scattata
l’opzione sul 3,3% dei titoli con un’offerta
di 139,7 milioni di dollari che implicavano
una valutazione della compagnia pari a
4,2 miliardi. Veba ha risposto chiedendone 343, attribuendo all’azienda un valore
di oltre 10 miliardi. Successivamente Veba ha quindi chiesto a Chrysler di formulare una registration demand alla Sec sul
16,6% delle quote con l’obiettivo di formalizzare un prezzo adeguato. La definitiva conquista dell’azienda Usa da parte
di Torino ruota proprio attorno alla risposta dell’authority americana. «Di certo non sarà una partita facile – sottolinea
Francesco Garibaldo, sociologo industriale e membro del Comitato scientifico dell’Istituto di Ricerche Economiche e
Sociali dell’Emilia Romagna Ires Cgil –
anche se l’accordo resta probabile. Da un
lato c’è il sindacato Usa, ben consapevole
di come la Fiat abbia assoluta necessità
di risolvere la questione. Dall’altro ci sono i vincoli di Marchionne che, su mandato della proprietà, è costretto ad operare soltanto con i flussi di cassa che
l’azienda produce». Le ricadute sulle strategie italiane del Gruppo sono evidenti:
cassa integrazione, accantonamento della liquidità (oggi la sola Fiat ne avrebbe a
disposizione per oltre 11 miliardi di euro),
contrazione degli investimenti e crescita
dell’esposizione sul mercato del credito.
L’indebitamento netto (saldo debiti/crediti) della sola Fiat è passato dai 5,8 miliardi di fine 2011 agli 8,2 odierni. 
RINNOVABILI E CAR SHARING: IL FUTURO VOLKSWAGEN
Il leggendario sole di Chattanooga, Tennessee (sì, proprio quello
“che ti spacca in quattro”, come ricordava un mitico allenatore
di pallacanestro in un celebre spot tv degli anni ’80), potrà soddisfare
il 12,5% del fabbisogno energetico del locale impianto Volkswagen
(ma si sale al 100% nei periodi di non produzione), dove
si assemblano i modelli Passat dedicati al mercato a stelle e strisce. Lo ha riferito a
gennaio l’azienda cinese JA Solar Holdings, fornitrice dei 33.600 pannelli fotovoltaici
installati nell’impianto. La VW ha concentrato da tempo i suoi sforzi sul fronte
dell’efficienza energetica – come dimostra il caso del Totem, la macchina
di cogenerazione sviluppata nel 1975 alla Fiat e recuperata dalla VW dopo che
l’azienda torinese l’aveva rapidamente abbandonata (vedi “Report”, 29 ottobre
2006) – ma anche sulla diversificazione e sull’adeguamento alle nuove domande
di mobilità a cominciare dal car sharing, servizio già lanciato da Volkswagen alla fine
del 2011 nella città tedesca di Hannover dopo le iniziative analoghe di Daimler
e BMW. «Negli ultimi anni è diminuita la propensione dei giovani ad acquistare
l’automobile come primo investimento, come dimostra il calo del numero di nuove
patenti negli Stati Uniti – ricorda Francesco Garibaldo –. Viaggiare oggi richiede
un nuovo portafoglio di soluzioni, per questo, da semplici costruttori, le aziende
dovranno diventare sempre più fornitori di mobilità o comunque di servizi energetici
legati alla mobilità».
M.C.
VENDITE IN EUROPA. UN 2012 APOCALITTICO
Nel corso del 2012, ha riferito l’Associazione dei produttori europei (Acea), le immatricolazioni
di auto nel Vecchio continente sono calate del 7,8% attestandosi ai livelli più bassi dal 1995.
Nello stesso periodo, ha sottolineato Il Sole 24 Ore, le vendite di nuovi veicoli in Italia sono
state meno di 1,4 milioni di unità: il dato peggiore dal 1979. All’inizio di febbraio
l’amministratore delegato di Renault e Nissan Carlos Ghosn ha parlato di stagnazione
prolungata rinviando ogni possibile ripresa al lontano 2020. A passarsela peggio è la francese
Peugeot-Citroen (Psa) che a febbraio ha annunciato una svalutazione contabile di 4,13 miliardi,
cifra che ancora non tiene conto della perdita netta del 2012. Secondo quanto dichiarato dal
ministro del Bilancio Jerome Cahuzac, il governo francese, che nel mese di ottobre aveva
concesso garanzie per 7 miliardi a Banque Psa Finance, la finanziaria del gruppo, non esclude
l’ingresso dello Stato nel capitale dell’azienda.
M.C.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 31 |
| finanzaetica | scandali bancari |
| finanzaetica |
no così a pesare sui conti degli istituti
britannici.
Un’altra tegola per le banche UK, già
costrette ad accantonare 9 miliardi di
sterline per il rimborso della clientela cui
erano state cedute le contestate assicurazioni sui mutui.
Inchieste, perdite e derivati
Non solo Mps
di Matteo Cavallito
Aiuti pubblici
commesse completamente sbagliate, perdite, ristrutturazioni e
altre perdite. Mentre il titolo azionario precipitava, progressivamente e inesorabilmente, fino alla resa dei conti dei
bilanci in rosso, delle acrobazie finanziarie
e degli scandali. La storia recente del Monte dei Paschi sembra rievocare il caro vecchio monologo di Gordon Gekko, quello,
per intenderci, dell’illusione che diventava realtà e del denaro che non si creava,
ma si trasferiva “da un’intuizione a un’altra”. Peccato solo che questa volta non sia
un film e che i soldi in ballo siano tutti veri. Così come gli scandali.
S
Bufera MPS
A febbraio, l’ultimo CdA di Rocca Salimbeni ha certificato una perdita di 730
milioni, somma delle scommesse sbagliate sulle esotiche operazioni Alexandria (-273,5 milioni), Santorini (-305,2) e
Nota Italia (-151,7), ma la realtà, ovviamente, è più complicata. Al netto dei
guai giudiziari (impossibile per un mensile rendervene conto senza farsi superare dalla cronaca quotidiana), quella dei
derivati di Mps è una storia potenzialmente esplosiva e, di certo, già di per sé
devastante. Un esempio su tutti è il maxi
swap sul portafoglio dei titoli di Stato,
con il quale la banca ha tentato in passato di cautelarsi dal rischio di rialzo dei
tassi variabili. Siena lo ha sottoscritto
tra il 2009 e il 2010 con varie banche d’af| 32 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
fari – tra le quali spiccano Nomura (già
protagonista della ristrutturazione sui
“Cdo’s al quadrato” comprati da Dresdner)
e Deutsche Bank – trasformando le cedole fisse in interessi variabili calcolati
sull’Euribor. Risultato: i Btp renderebbero in media il 4,2%, ovvero 1 miliardo e
spiccioli all’anno di interessi, ma, grazie
ai derivati, Mps non incassa quasi niente. Nei primi tre trimestri del 2012 il portafoglio Btp della Rocca ha generato la
miseria di 65 milioni. Quella del Monte è
una storia particolare, tanto per gli eccezionali intrecci politici (parliamo pur
sempre di una banca sotto il pieno controllo di una fondazione a nomina partitica), quanto per l’eccezionale capacità
di raccogliere in sé l’eredità della stagione calda della finanza italiana (Antonveneta e il corollario della Popolare di Lodi
e dei furbetti nazionali). Ma i suoi guai finanziari non rappresentano certo un caso isolato. Anzi.
Da Francoforte a Londra
Per rendersene conto basta dare un’occhiata all’ultima trimestrale di Deutsche
Bank, l’istituto numero uno della Germania. I bilanci degli ultimi tre mesi del
2012 segnano una perdita netta di 2,2
miliardi, ma le incombenze contabili
non finiscono qui. DB, ha evidenziato di
recente la Reuters, è tuttora impegnata
in una sequela di cause legali: dalla bancarotta di Kirch Media Group (una storia che nei tribunali tedeschi si trascina
da almeno 10 anni) alle sospette irregolarità sul trading dei crediti di emissione
della CO2 fino alle accuse di manipolazione del tasso interbancario “londinese”, il Libor, operazione quest’ultima che
potrebbe aver alterato all’origine contratti derivati sui tassi per trilioni di euro. Nell’inchiesta sul Libor le banche
Ubs e Barclays hanno già patteggiato
multe da quasi 2 miliardi di dollari. DB,
nel frattempo, ha avviato un piano di ristrutturazione (leggasi licenziamenti)
con lo scopo di contribuire all’obiettivo
di taglio dei costi fissato in 4,5 miliardi
all’anno entro il 2015.
Ad agosto il New York Times ha rivelato l’esistenza di un’inchiesta promossa
dalle autorità Usa su DB per sospette
transazioni illegali con Iran, Siria, Sudan
e Corea del Nord (in inchieste analoghe
sono coinvolte anche Abn Amro, Credit
Suisse, Ing, Barclays e Lloyds). Lo scorso
dicembre, tre ex funzionari hanno accusato l’istituto di aver nascosto perdite da
12 miliardi, originate da una maxi posizione (130 miliardi) assunta sui contratti
di leveraged super senior trades. Strumenti derivati, ovviamente.
Ai guai della banca tedesca si affiancano tuttora quelli degli istituti britannici. Lo scorso 31 gennaio, secondo quanto
riferito dalla Financial Service Authority
britannica (Fsa), le quattro maggiori società finanziarie del Regno Unito – Royal
Bank of Scotland (Rbs), Barclays, Hsbc e
Lloyds – hanno dato il via libera ai risarcimenti per la clientela “beffata”, diciamo così, sui contratti derivati. Gli istituti, aveva affermato la Fsa, avevano
piazzato contratti finanziari particolarmente complessi a una clientela small
business senza informarli adeguatamente dei rischi, ha precisato la Fsa, in
circa 9 casi su dieci. Rbs, Barclays e Hsbc
hanno già accantonato 630 milioni di
sterline per il risarcimento che andran-
FONTI: “PIANI DI STABILIZZAZIONE FINANZIARIA”, MEDIOBANCA, RICERCHE E STUDI SPA (WWW.MBRES.IT),
OTTOBRE 2013 E NOSTRA SUCCESSIVA ELABORAZIONE. DATI IN MILIARDI DI EURO.
Conti in rosso, scandali giudiziari,
allarme crediti. Per le banche
del Vecchio Continente quello
attuale è un inverno gelido
Scandali e perdite assumono ovviamente un significato particolare alla luce dell’impegno dei governi nazionali per il salvataggio degli istituti. Rbs e Lloyds sono
state de facto nazionalizzate all’inizio
della crisi, Mps potrebbe andare incontro allo stesso destino in caso di mancata restituzione cash del prestito da 3,9
miliardi ottenuto tramite i Monti bond.
Ad oggi, ricordano gli ultimi dati di Mediobanca (vedi BOX ), i governi europei
hanno utilizzato in salvataggi vari 2,7 trilioni di euro dei contribuenti e sono tuttora esposti per oltre 1.100 miliardi. In
Italia, Monte dei Paschi a parte, il rischio
nazionalizzazione non è attualmente
contemplato per alcun istituto. Ma le
IL COSTO DEGLI INTERVENTI PUBBLICI IN EUROPA E NEGLI USA
Secondo gli ultimi dati disponibili (giugno 2012) del centro studi di Mediobanca,
dallo scoppio della crisi ad oggi gli Stati Uniti hanno sostenuto il settore finanziario
con un impiego di denaro pubblico pari a oltre 2.850 miliardi di dollari offrendo
prestiti, garanzie, ricapitalizzazioni e altri interventi a 1.400 istituti. Tra questi 446
hanno restituito i finanziamenti lasciando comunque il governo Usa esposto tuttora
per quasi 1.200 miliardi. In Europa, sempre secondo i dati di giugno, gli istituti
coinvolti sono stati 437 per un ammontare complessivo da parte dei governi pari
a quasi 2,7 trilioni di euro. L’esposizione rimanente superava a giugno i 1.100 miliardi.
In Italia il costo totale ammonta a 123 miliardi, quasi tutti (119) messi da parte
sottoforma di garanzie. Stati Uniti ed Europa hanno sostenuto insieme un costo
di circa 6,5 trilioni di dollari. Nel computo degli “aiuti” non rientrano gli oltre 1.000
miliardi di prestiti all’1% concessi dalla Bce l’anno scorso alle banche del Continente.
ti valgono ormai il 12,3% del totale dei
prestiti (vedi anche Valori n. 106, febbraio 2013). Tra il 2007 e il 2012, ricorda un
recente studio di Prometeia, le svalutazioni dei crediti sono cresciute del 215%
tra il 2007 e il 2012, mentre il tasso di copertura (gli accantonamenti per coprire
le potenziali perdite) si è ridotto secondo
Bankitalia al 37,7% rispetto al 49,4 misurato sei anni fa. 
Dallo scandalo Libor alle
transazioni sospette con
l’Iran: la vicenda MPS
è solo la punta dell’iceberg
di una finanza malata
prospettive contabili delle banche, in generale, non sono affatto positive. Negli
istituti della penisola, i crediti deteriora-
GLI INTERVENTI DELLE BANCHE CENTRALI A SOSTEGNO DEL SISTEMA FINANZIARIO
Paese
Capitali
Garanzie
Altri interventi
Aiuti totali
Banche conivolte
Aiuti restituiti
Terminati
Ammontare netto
AUSTRIA
8,85
24,45
0,0
33,3
8
0,0
4,2
29,2
BELGIO
20,9
170,2
5,5
196,7
6
72,3
23,9
100,5
7,6
26,8
6,6
41,1
59
7,7
0,1
33,3
FRANCIA
25,3
102,7
0,5
128,5
8
64,0
14,4
50,1
GERMANIA
46,9
365,4
7,3
419,6
13
164,7
149,5
105,4
GRECIA
20,3
45,5
17,0
82,8
10
8,1
0,0
74,8
IRLANDA
31,5
190,2
0,0
221,7
6
4,0
86,4
131,3
ISLANDA
0,8
0,0
0,0
0,8
3
0,0
0,0
0,8
ITALIA
4,1
119,0
0,0
123,1
258
1,5
42,3
79,3
LUSSEMBURGO
2,8
7,2
0,2
10,1
4
3,0
0,4
6,7
30,1
94,1
8,3
132,5
14
48,7
36,4
47,3
4,0
10,2
0,4
14,6
9
0,0
8,2
6,4
DANIMARCA
OLANDA
PORTOGALLO
SPAGNA
23,5
0,4
13,0
36,9
27
0,4
0,0
36,5
SVIZZERA
47,9
0,0
0,0
47,9
1
42,9
0,0
5,0
REGNO UNITO
114,5
1007,8
84,1
1206,5
18
747,8
56,7
401,9
TOTALE EUROPA
389,2
2163,9
142,8
2696,0
437
1165,0
422,5
1108,5
(in dollari)
519,1
2886,0
190,5
3595,7
1553,8
563,5
1478,4
TOTALE USA*
562,7
1869,0
421,6
2853,3
1402
1678,8
446,0
1174,5
1081,8
4755,0
612,1
6449,0
1839
3232,6
1009,5
2652,9
TOT USA+EUROPA*
*Dati in miliardi di dollari Usa. **Nostra elaborazione al tasso di cambio del 14/2/2013: 1 euro = 1,3337 dollari.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 33 |
| finanzaetica | caro leader politico... |
| finanzaetica | lavoro |
Bersani, Vendola e Ingroia
rispondono a Banca Etica
di Elisabetta Tramonto
Non pensare, esegui!
La crisi è colpa
di lavoratori “stupidi”
di Elisabetta Tramonto
La petizione “Cambiare la finanza per cambiare l’Italia!”, lanciata da Banca
Etica, ha raccolto 10 mila firme. Ai 5 quesiti hanno risposto tre leader politici:
Pier Luigi Bersani (Pd), Nichi Vendola (Sel), Antonio Ingroia (Rivoluzione civile)
iecimila firme e le risposte di tre
leader politici: (in ordine di ricezione) Nichi Vendola di Sinistra
ecologia e libertà; Pier Luigi Bersani del
Partito Democratico e Antonio Ingroia di
Rivoluzione Civile. Un ottimo risultato
per la petizione lanciata a metà gennaio
da Banca Etica: “Cambiare la finanza per
cambiare l’Italia!”. Un appello rivolto ai
leader politici candidati a governare il nostro Paese (chi legge questo articolo saprà
chi è stato eletto, mentre scriviamo non lo
sappiamo ancora), perché la campagna
elettorale ha totalmente trascurato i temi
della finanza. «Il primo obiettivo – spiega
Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica –
è risvegliare l’attenzione sui temi della
finanza, che purtroppo è mancata nella
campagna elettorale e anche tra le persone comuni, che stanno a discutere sull’Imu, ma non si rendono conto che, se abbiamo l’Imu, è perché c’è stata, e c’è, una
crisi finanziaria alla quale non si sta mettendo mano».
D
I cinque quesiti ai politici
Cinque i temi su cui Banca Etica interroga i leader politici. Il primo riguarda la
Tassa sulle transazioni finanziarie, che,
nella versione introdotta nel nostro Paese, è stata edulcorata (Valori febbraio
2013). «Per come è stata applicata in Italia
– commenta Ugo Biggeri – non colpisce
l’high frequency trading (le transazioni finanziarie giornaliere ultra-veloci, ndr), né
i derivati». Quindi Banca Etica chiede ai
| 34 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
politici: «Intende migliorare l’attuale Tobin Tax?». «Va rafforzata e migliorata», risponde Nichi Vendola, che chiede una
tassa «efficace e incisiva, in grado di frenare la speculazione e di generare gettito
da destinare alle spese sociali, alla cooperazione internazionale e alla lotta contro
i cambiamenti climatici, e prima ancora
di dare un segnale forte della volontà politica di regolamentare i mercati finanziari». «Va estesa ai derivati e attuata attraverso la cooperazione rafforzata avviata
nell’Unione europea», aggiunge Pier Luigi Bersani. E per Antonio Ingroia, bisogna operare «affinché sia estesa a tutti i
mercati regolamentati del mondo, a partire da Ue (incluso il Regno Unito), Stati
Uniti e Giappone. E vanno proibite le
transazioni Otc (Over the Counter)».
Il secondo quesito riguarda i paradisi
fiscali. Per Nichi Vendola: «L’Italia dovrà
avere un ruolo da protagonista su scala
europea e internazionale per una decisa
lotta contro i paradisi fiscali, che comprenda l’introduzione di un accordo multilaterale e automatico per lo scambio di
informazioni tra Paesi in ambito fiscale e
non una serie di accordi bilaterali». «Oltre alla lotta contro i paradisi fiscali off
shore – aggiunge Ingroia – intendiamo
batterci per una riforma dei trattati Ue
tale da prevedere l’obbligo di aliquote fiscali uniformi per le imprese in tutti i
paesi dell’Unione».
Terzo tema l’azionariato popolare:
«Rivedrà la tassazione sui piccoli rispar-
mi per non penalizzare le esperienze di
democrazia economica e azionariato diffuso?», chiede Banca Etica. Affermativa
la risposta di Bersani, secondo cui bisogna «riequilibrare il prelievo a vantaggio
dell’azionariato diffuso».
Gli ultimi quesiti riguardano la separazione tra banche commerciali e banche
d’affari e il ruolo cruciale delle banche etiche e cooperative in risposta alla crisi.
«Chiederà una revisione degli accordi di
Basilea affinché non penalizzino le banche etiche e cooperative e non ostacolino
l’erogazione di credito a favore delle realtà
del Terzo settore?», chiede la banca. «Il modello verso cui dobbiamo andare – scrive
Vendola – è quello delle banche di piccole
dimensioni, fortemente radicate sul territorio, che siano uno strumento al servizio
dell’economia reale». E Bersani aggiunge:
«In questi anni di difficile accesso al credito le banche etiche e cooperative sono state un fondamentale canale di risorse per le
imprese e per le famiglie grazie alla loro
capillare presenza e conoscenza del territorio». «È giusto operare affinché il ruolo
del sistema delle banche etiche e cooperative sia riconosciuto. Bisogna però evitare
che dietro tale paravento si nascondano
gli interessi di banche [...] che di mutualistico non hanno nulla». 
Nota ai lettori: le risposte dei tre leader politici sono
arrivate mentre Valori stava andando in stampa.
Non abbiamo quindi potuto dedicare al tema uno
spazio adeguato. Potete trovare tutte le risposte sul
nostro sito internet www.valori.it. E commentarle!
Per firmare la petizione: www.change.org
Info: www.nonconimieisoldi.org, www.bancaetica.it
Uno studio condotto da un’università
di Londra punta il dito contro i metodi
attraverso i quali numerosi istituti
di credito inducono i propri
dipendenti a “non pensare
troppo”. Anestetizzando così
il senso critico dei lavoratori
a “stupidità” dei dipendenti delle
banche è una delle cause principali della crisi economico-finanziaria. Un’affermazione alquanto azzardata,
che potrebbe sembrare campata per aria,
oltre che offendere molti lavoratori. Meglio spiegarla bene. La conclusione è frutto di un recente studio condotto dal professor Andre Spicer della Cass Business
School della City University London, in
collaborazione con Mats Alvesson della
Lund University. Uno studio dal titolo
“Una teoria delle organizzazioni basata
sulla stupidità”, che prende in esame il
comportamento dei lavoratori e la cultura organizzativa all’interno di grandi
aziende, con un’attenzione particolare
per il mondo della finanza.
I ricercatori dell’università britannica
la chiamano “stupidità funzionale”, che
non ha nulla a che fare con il quoziente intellettivo dei lavoratori, quanto piuttosto
con l’uso che ne fanno. Ovvero, secondo lo
studio, molte aziende cercano di dissuadere i propri dipendenti dall’utilizzare appieno le loro facoltà intellettive e, quindi,
dal porre domande, fare obiezioni, avanzare dubbi. Un’anestetizzazione del senso
critico del lavoratori, funzionale agli scopi dell’azienda, che in questo modo non
L
mette in discussione il proprio comportamento. Una cultura ampiamente diffusa,
sostengono i ricercatori, nel mondo finanziario, nella city londinese e non solo,
che ha portato agli scandali a cui abbiamo
assistito negli ultimi anni.“Non pensare,
fallo e basta”, sembra essere la regola non
scritta valida nelle banche. Insomma eseguire i compiti assegnati senza pensarci a
fondo e senza porre domande scomode. Il
professor Spicer ha risposto alle domande di Valori.
Professor Spicer, quale ruolo ha giocato
la “stupidità” dei lavoratori delle banche
nella crisi finanziaria degli ultimi anni?
La “stupidità funzionale” è una delle
cause principali della crisi finanziaria.
Le banche sono composte da persone
molto intelligenti. Prima della crisi gli
istituti di credito cercavano dipendenti
tra i candidati con una laurea e un dottorato dalle più importanti università
nel mondo. Questi individui così intelligenti hanno rapidamente capito che,
per fare carriera, non avrebbero potuto
fare uso pienamente delle loro capacità
Andre Spicer,
Cass Business school
della City University
London
«Chi lavora in banca spesso
trascura i problemi che
incontra, nonostante ne sia
perfettamente al corrente»
intellettive, non avrebbero dovuto fare
troppe domande, cercare spiegazioni o
esercitare una voce critica (tutte attività che avevano imparato a usare). Chi
lavora in banca spesso trascura i problemi che incontra nonostante ne sia al
corrente. E questi problemi trascurati
si sommano gli uni agli altri e, nel tempo, hanno provocato l’enorme crisi finanziaria.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 35 |
| finanzaetica |
| finanzaetica |
ALTRO CHE STUPIDI! NON HANNO GLI STRUMENTI
«Non condividiamo affatto l’opinione del professor Spicer.
La colpa della crisi non è certo dei lavoratori,
ma dell’impostazione e della cultura delle banche, orientate alla
massimizzazione del profitto nel breve periodo». Commenta
così Mauro Bossola, segretario generale aggiunto della Fabi,
le conclusioni del professor Spicer. Era talmente in disaccordo
che non avrebbe voluto aggiungere altro. Fortunatamente
ha voluto spiegarsi meglio.
Perché ritiene infondata la tesi del professor Spicer?
I lavoratori delle banche non sono affatto stupidi, si pongono
domande, eccome! È l’organizational behaviour
(il comportamento da tenere nel contesto organizzativo, ndr),
che impone loro di non esercitare il proprio senso critico.
I lavoratori non hanno strumenti per far arrivare le loro opinioni
ai livelli decisionali. A furia di non poter esprimere la propria
opinione accumulano dei bei “mal di pancia”. Siamo una delle
categorie con il maggior numero di malattie professionali non
riconosciute.
Quindi se un dipendente deve svolgere un compito di cui
conosce la pericolosità non può fare nulla per evitarlo?
Se un dipendente si rifiuta di collocare un prodotto, non solo non
fa carriera, come sostiene il professor Spicer, ma rischia di perdere
Se invece avessero usato di più il loro senso
critico, alcuni “errori” avrebbero potuto
essere evitati? Una maggiore capacità critica avrebbe
certamente aiutato a evitare alcuni dei
maggiori problemi della crisi finanziaria.
Le organizzazioni che sono uscite dalla
crisi indenni sono, infatti, quelle che si sono interrogate a fondo riguardo il loro
modello di business. Per esempio le banche etiche e cooperative come Triodos
hanno visto il loro giro d’affari crescere significativamente durante la crisi. Questo
perché erano disponibili a sfruttare le capacità intellettuali dei loro soci e dipendenti per porsi domande difficili, trovare
risposte e agire sulla base di queste.
Le imprese dovrebbero creare spazi
per stimolare il senso critico e la riflessione dei dipendenti. Questo permetterebbe di avanzare preoccupazioni o riflessioni profonde o problemi riscontrati
nelle loro attività quotidiane. Fare questo significa che un’impresa è disponibile
ad accogliere le critiche al suo modo di fare affari. 
| 36 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
LA FINANZA NON APPREZZA IL SENSO CRITICO
il posto di lavoro. Non si tratta di “stupidità”,
ma di sopravvivenza in un ambiente ostile.
Hanno una qualche responsabilità
per la crisi finanziaria?
Il problema non sono i lavoratori bancari né la
loro stupidità (anche perché stupidi non lo
sono affatto). Il problema sono le banche che
ragionano con un’ottica di breve termine, tesa
Mauro Bossola,
segretario
alla massimizzazione del profitto, incuranti
generale aggiunto
verso le conseguenze sociali e obbligando i
di Fabi
lavoratori al collocamento di prodotti anche
rischiosi, per cercare di ottenere alti ritorni nel breve termine.
E voi, come sindacato, state facendo qualcosa per cambiare
la situazione?
Da sempre ci siamo opposti a questa situazione. Stiamo
lavorando per aumentare la componente fissa del salario
mensile, le banche vorrebbero invece aumentare la parte
variabile. Portiamo avanti una campagna chiamata sales versus
advises, vendite contro consigli, in cui sosteniamo che le
vendite di prodotti finanziari devono essere responsabili. Su una
cosa concordo con il professor Spicer: senza un cambiamento
culturale nelle banche c’è poco da fare!
«Al contrario, le domande sono funzionali
a migliorare le aziende: chi se le è poste, è uscito meglio
dalla crisi»
Ugo Biggeri,
presidente
di Banca Etica
«Sostenere che la colpa della crisi sia
di lavoratori resi “stupidi” dalle banche è una
conclusione forzata, ma l’idea di base
è corretta: il senso critico non è apprezzato
dalla finanza, un’industria molto specializzata
e verticistica». È questo il primo commento
alla ricerca del professor Spicer da parte
di Ugo Biggeri, presidente di Banca Etica.
Che ruolo hanno, quindi, avuto nella crisi i lavoratori
delle banche?
Nello studio è stata posta decisamente troppa enfasi sulla
responsabilità dei lavoratori. Ma non bisogna nascondere che
hanno un ruolo importante. Più che di stupidità parlerei però di altre
caratteristiche, ricercate e forzate dalle banche stesse: come
il seguire ordini senza farsi problemi, l’incentivo alla vendita
di prodotti non adatti alla clientela, la mancanza di passione,
il non farsi troppe domande. Ma, soprattutto, attribuirei la colpa
all’eccessiva automatizzazione e segmentazione dei processi.
Nelle banche ormai tutto, o quasi, è stato automatizzato: anche
la concessione di un fido viene decisa da una macchina. D’altro
canto si è ampliata la struttura dei controlli: una parte del personale
della banca deve controllare l’altra. Ma questo meccanismo
automatizzato e questo sistema di controlli evidentemente non
hanno funzionato. E la coscienza individuale non ha saputo
sopperire. Così sono stati presi rischi eccesivi. E poi c’è il problema
dell’eccessiva settorializzazione del lavoro, che fa si che ciascuno
veda solo una porzione di una procedura e non si renda conto
dell’entità complessiva. E il problema della standardizzazione,
che sostituisce criteri rigidi e prefissati alla capacità decisionale
e alla responsabilità delle singole persone. Molte operazioni sono
impostate dall’alto e non sono discutibili.
E i lavoratori spesso patiscono questa “impotenza” forzata…
Che nel mondo delle banche ci siano forti mal di pancia tra i
lavoratori non è una novità. Da diversi anni Banca Etica riceve una
quantità spropositata di curriculum da dipendenti di altri istituti,
stanchi di fare un lavoro che talvolta va contro i loro principi.
Il professor Spicer cita le banche etiche come modello
positivo. In Banca Etica viene lasciato spazio al senso
critico dei dipendenti?
I buoni risultati delle banche etiche dipendono da diversi fattori
di successo. I lavoratori sono solo uno di questi. Innanzitutto posso
dire che Banca Etica cerca di valorizzare le attitudini individuali
dei suoi dipendenti e di favorire strumenti di partecipazione dei
lavoratori nell’innovazione e nella costruzione del bilancio
preventivo economico e sociale. Tra i criteri valutati al momento
dell’assunzione c’è anche la conoscenza diretta da parte
del candidato del terzo settore, del sociale, non solo per motivi
di studio, ma anche per un’attenzione personale. E poi ogni
decisione presa dai vertici della banca viene comunicata
e spiegata a dipendenti, oltre che ai soci. Nessun’altra banca, credo,
invii ai dipendenti resoconti di quanto viene discusso nel Cda.
È chiaro che poi serve un equilibrio. Non tutte le modalità
di partecipazione sono positive. Se ogni decisione dovesse essere
messa in discussione, gestire una struttura delle dimensioni di una
banca sarebbe impossibile.
RESPONSABILITÀ SÌ, COLPA DELLA CRISI NO
«Dire che i lavoratori non hanno responsabilità in assoluto per
quanto accade all’interno delle banche significherebbe chiudere gli
occhi, ma affermare che il loro comportamento è la causa della crisi
finanziaria non sta né in cielo né in terra».
Dopo aver letto la tesi sostenuta dal professor Spicer, Paolo
Bellentani, sindacalista della Fiba-Cisl, ci tiene a fare dei distinguo.
Ritiene che i lavoratori avrebbero potuto fare di più per evitare
alcune pratiche “dannose” portate avanti dalle banche? Erano
consapevoli di quanto stava accadendo?
Sì, teoricamente avrebbero potuto fare di più, ma a rischio di
ripercussioni personali. Qualcuno può anche aver agito per interesse, chiudendo gli
occhi nonostante si rendesse conto che c’era qualcosa che non andava. Magari per far
carriera, come dice il professor Spicer. Ma questi casi sono davvero la minoranza.
La maggioranza dei lavoratori o si trovavano in ruoli in cui non potevano rendersi
conto di quanto accadeva, o, più spesso, se ne rendevano conto, ma non avevano
strumenti per reagire. Difficile dire a un capo-area “io questa robaccia non la vendo”
se si rischia, come “punizione”, di essere trasferiti a 50 km di distanza.
Paolo Bellentani,
sindacalista
Fiba-Cisl
Secondo lei, quindi, è vero che le banche
tendono ad attenuare la capacità critica
dei dipendenti?
Questo sì, le banche (non tutte, ovviamente,
è difficile che accada nelle Bcc o in alcune
banche popolari, perché hanno un sistema
di governance diffusa) tendono a creare
un sistema di rapporti interno che spinge
i lavoratori, o per paura o per interesse,
a non usare la loro capacità critica su certi
prodotti che vengono venduti.
A volte i lavoratori si fanno attrarre dalle
sirene dei sistemi incentivanti, che legano
porzioni consistenti dello stipendio
al raggiungimento di obiettivi di budget.
Questo ovviamente esaspera la ricerca
della “vendita a tutti i costi”, anche
a discapito della valutazione critica di ciò
che si sta facendo. Il tutto è favorito dalla
distribuzione di prodotti sofisticati,
corredati da prospetti informativi
complicati e non adeguati a una clientela
che avrebbe bisogno di prodotti
estremamente semplici, a scarsa
marginalità per le banche.
E i sindacati possono fare qualcosa per
evitare che ciò accada?
Certamente. Il professor Spicer tocca
un problema vero, ma dimostra di non
avere una grande conoscenza attuale del
mondo sindacale, che oggi ha strumenti,
negoziali, per ottenere buoni risultati.
Da anni stiamo portando avanti battaglie
contro i sistemi incentivanti che ledono
la dignità del lavoro: modelli che puntano
a risultati individuali e di breve termine,
che rovinano il clima di lavoro e sui quali
si innescano dinamiche pericolose.
In alcune banche si può portare a casa
il 30-40% del salario annuale come
premio, soprattutto per livelli dirigenziali
o titolari di filiale.
Nell’ultimo contratto, rinnovato da pochi
mesi, abbiamo normato la possibilità,
se azienda e sindacato sono d’accordo,
di inserire le somme erogate come
incentivi nelle trattative che prevedono
l’obbligo di un accordo sindacale.
Questo permetterebbe al sindacato
di vincolare le strategie incentivanti
a criteri di lungo periodo; alle aziende
e ai lavoratori di usufruire di sgravi
fiscali significativi.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 37 |
FONTE: BLOOMBERG, BLOOMBERG NEW ENERGY FINANCE, IEA, IMF, VARIOUS GOVERNMENT AGENCIES - ILLUSTRAZIONE BASE CARTINA: DAVIDE VIGANÒ
| investimenti in r&d |
2,3
2,3
| numeridellaterra |
STATI UNITI
-3%
-31%
2%
-16%
-35%
8%
EUROPA
AMERICA
0,08
2%
0,04
-19%
0,04
-1%
-30%
-18%
9%
-2%
CINA
INDIA
-16% -66% -40%
ASIA
B
| 38 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
-2%
4%
0,003
0,013
[senza India e Cina]
0,01
0,14
0%
7%
-16%
MEDIO ORIENTE
E AFRICA
2%
INVESTIMENTI IN RICERCA E SVILUPPO SULLE ENERGIE RINNOVABILI
INVESTIMENTI R&D PER TECNOLOGIE (2011)
12
15%
32%
10
10
-16%
7
7
8
3,5
8
8
4,0
3,0
2,5
%
Crescita 2011 rispetto al 2010
0,3 | -19%
0,3 | -26%
0,6 | -22%
0,5
0,1 | -12%
0,1 | -22%
0,2 | -18%
1,5
1,0
0,01 | -3%
0,1 | -13%
0,11 | -12%
5
4
3
3
4
4
3
3
2,0
2
0
2
Investimenti totali [2011, in miliardi di dollari]
2
2
2
3
Investimenti privati [2011, in miliardi di dollari]
Investimenti statali [2011, in miliardi di dollari]
5
5
5
5
5
6
4
1,5 | -6%
1,9 | -11%
26%
0,4 | -25%
3%
0,6 | -29%
0,6 | -16%
1,2 | -23%
12%
2,2 | -15%
1,9 | -17%
4,1 | -16%
4,5
-36%
0,0
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
Onde marine Geotermico Idroelettrico Biomasse
Eolico
Biocarburanti
Solare
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 39 |
FONTE: BLOOMBERG, BLOOMBERG NEW ENERGY FINANCE, IEA,
IMF, VARIOUS GOVERNMENT AGENCIES
BRASILE
5
S
0,1
e si considerano i valori degli investimenti in ricerca e sviluppo,
provenienti sia da fonti private
che pubbliche, in tutto il mondo, la fotografia che offre il 2011 è desolante. Rispetto all’anno precedente, il Brasile risulta
l’unico Paese – fra le macro-aree analizzate da Bloomberg New Energy Finance –
che presenta un saldo positivo. Un +2%
(dato in ogni caso non esaltante) arrivato
grazie agli investimenti governativi, che
hanno bilanciato il calo registrato sul
fronte dei capitali concessi dai privati. A
colpire particolarmente, in negativo, c’è
poi l’Asia: escludendo Cina e India il continente ha fatto segnare tra il 2010 e il 2011
un calo degli investimenti pubblici del
66%. Dato tra l’altro in controtendenza
rispetto a quelli, ad esempio, di Cina, Usa,
e Ue, che seppur di poco hanno visto crescere i capitali statali. 
0,04
[senza USA e Brasile]
0,1 | -20%
0,2 | 7%
0,3 | -4%
di Andrea Barolni
2%
0,13
-4%
0,1
0,03
0,3
0,4
1,0
1,0
1,2
1,3
1,3
1,3
1,6
1,6
Chi fa ricerca
sulle rinnovabili?
| made in italy a rischio/puntata 2 |
economiasolidale
Un impianto della Torcitura Padana,
un’azienda della prima fase della filiera del tessile,
in provincia di Pavia
Tessile
e moda
Tra i big dell’abbigliamento che
delocalizzano il più possibile, i costi
dell’energia in continuo aumento
ed etichettature lacunose,
uno dei fiori all’occhiello dell’Italia
nel mondo rischia di scomparire
La filiera muore
(e il made
L
in Italy pure)
di Emanuele Isonio
Vanità o sanità: questo è il dilemma> 44
Confidi a rischio bolla > 48
Quando lo Stato tende la mano alle Pmi > 51
Una nuova mobilità a Fa’ la cosa giusta > 52
| 40 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
imiti dimensionali, difficoltà a fare rete tra le imprese, costi fissi in
crescita inarrestabile, perdita di
competenze tecniche, burocrazia, difficoltà di accesso al credito, contraffazione, discutibili politiche commerciali dei
big del settore. È potenzialmente infinito l’insieme di motivi che stanno portando al collasso uno dei fiori all’occhiello
dell’Italia nel mondo. Chiariamo: i marchi che hanno fatto la fortuna della moda tricolore continueranno ad esistere.
Ma è concreto il rischio che, dietro di loro, la filiera italiana del tessile evapori.
Questa preoccupazione, più che dai
dati del settore, si desume dalle parole
dei tanti piccoli e medi imprenditori che
compongono i gradini della filiera. Dalla
torcitura alla filatura, fino alla tessitura
e alla nobilitazione, sono molti gli imprenditori che vedono nero. Un mix di
rabbia, rassegnazione e voglia di denunciare una situazione insostenibile: «Sono
tre anni che ricevo ordini di campionario
da una ditta marchigiana che lavora per
una nota griffe italiana», racconta un tes| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 41 |
FONTE: SMI SU ISTAT, SITA RICERCA; MOBIMPRESE, INDAGINI INTERNE; *ELAB. SMI SU STIME LIUC
| economiasolidale |
| economiasolidale |
Nelle due foto a lato: due impianti dell’azienda
Torcitura Padana di Pieve Porto Morone (PV)
L’INDUSTRIA ITALIANA DEL TESSILE-MODA: PRECONSUNTIVI 2012 [milioni di euro correnti]
Fatturato
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012*
54.408
55.947
54.718
46.312
49.660
52.768
50.446
1,5
2,8
-2,2
-15,4
7,2
6,3
-4,4
27.603
28.199
27.586
22.243
24.604
26.911
27.099
Var. %
Esportazioni
Var. %
Importazioni
4,3
2,2
-2,2
-19,4
10,6
9,4
0,7
17.484
17.949
17.669
15.856
18.566
20.342
18.857
Var. %
Saldo commerciale
12,5
2,7
-1,6
-10,3
17,1
9,6
-7,3
10.119
10.249
9.917
6.387
6.039
6.569
8.242
Var. %
Consumo apparente
-7,4
1,3
-3,2
-35,6
-5,4
8,8
25,5
29.517
30.331
29.552
26.593
28.807
29.670
26.688
Var. %
Aziende
Addetti (migliaia)
2,3
2,8
-2,6
-10,0
8,3
3,0
-10,0
59.750
58.056
56.610
54.493
53.086
51.873
50.576
-2,8
-2,5
-3,7
-2,6
-2,3
-2,3
-2,5
516,7
513,0
508,2
482,3
458,6
446,9
430,8
-1,6
-0,7
-0,9
-5,1
-4,9
-2,6
-3,6
Var. %
Indicatori strutturali (%)
Export/Fatturato
50,7
50,4
50,4
48,0
49,5
51,0
53,7
Propensione all’import (su Fatt.)
39,5
39,3
39,4
39,7
42,6
44,0
44,7
TREND CONSUMI INTERNI
115
110
105
100
95
90
1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010
Abbigliamento
I PRIMI PAESI CLIENTI DELLA MODA ITALIANA [gennaio-settembre 2011, milioni di euro e variazioni su stesso periodo 2010]
TESSILE
rank
paese
ABBIGLIAMENTO
mln euro
var.
paese
mln euro
var.
1 Germania
916,5
14,5% Francia
1.639,2
9,5%
2 Francia
641,0
9,9% Germania
1.251,4
15,0%
3 Romania
568,0
27,0% Svizzera
960,8
20,5%
4 Spagna
392,2
-5,3% Russia
883,6
19,0%
5 Tunisia
346,4
0,6% Spagna
827,4
4,8%
6 Hong Kong
327,7
4,8% Stati Uniti
784,3
11,9%
7 Regno Unito
294,2
11,4% Regno Unito
756,0
10,9%
8 Turchia
275,9
15,8% Hong Kong
615,5
38,3%
9 Stati Uniti
10 Cina
| 42 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
251,6
9,2% Giappone
533,0
13,4%
230,0
17,2% Paesi Bassi
409,0
12,5%
sitore, sotto anonimato. «Ha sempre ordinato solo il campionario senza fare alcun ordine di produzione. Mi è venuto il
sospetto che acquistassero il materiale di
campionario e poi facessero fare la produzione all’estero. E loro mi hanno risposto quasi stupiti: “Certo che facciamo così. È così che gira il mondo”».
«Vi racconto questa», dice un suo collega. «Mesi fa l’azienda X (noto marchio di
moda giovane, ndr) scelse un nostro tessuto e ci ordinò le pezze di campionario.
Al momento della spedizione ci informò
che dovevano essere fatturate a un confezionista portoghese. Risultato: l’ordine
di produzione non ci è mai arrivato. Il confezionista non ci ha mai pagato la campionatura (2.400 euro). L’azienda X se ne è
lavata le mani, dicendo che dovevamo vedercela con i portoghesi».
«Una volta il mio lavoro mi piaceva», ci
racconta un altro produttore. «Costruire
nuovi tessuti, cercare fibre interessanti,
finissaggi particolari. Ora sono disgustato
da questo schifo che mi si ripropone tutti i
giorni. Tutti parlano della scorrettezza dei
cinesi. Ma i più vergognosi siamo noi italiani con questi comportamenti scorretti».
«Forse sono uno zombie senza saperlo», ci dice invece Simona Pesaro, da
vent’anni nel settore, titolare della Torcitura Padana, azienda con sede vicino a Pavia. «Il settore è stravolto rispetto a quando ho iniziato e ha già perso interi pezzi di
filiera. Ha chiuso gran parte delle aziende
della fase di filatura».
tessile rimasta. Le altre sono tutte morte».
I freddi numeri faticano a fotografare
queste realtà: dal 2006 al 2012 il fatturato
globale del settore è diminuito dell’8%, le
esportazioni, come le importazioni sono
sostanzialmente stabili (rispettivamente 2% e +7%), con l’estero che però incide sempre più sui ricavi delle aziende (i consumi
interni sono infatti scesi del 10%).
E allora per capire meglio il trend bisogna considerare il numero di addetti e
di aziende della filiera, le due voci che
hanno subito la maggiore contrazione:
meno 17% ciascuna. «Temo che queste diminuzioni siano irrecuperabili», osserva
Aurora Magni, docente di Tecnologie e
management per il settore tessile e moda
all’università Carlo Cattaneo di Milano.
«I dati globali appaiono migliori di quello
che sono perché drogati dai guadagni
enormi delle imprese finali. I principali
marchi sono riusciti a farsi sopravvalutare indipendentemente dalla qualità dei
loro prodotti». Concorda Simona Pesaro:
«Ci sono studi che dimostrano come un
jeans di alta gamma, venduto a 300 euro
in negozio veniva pagato dall’azienda 11
euro ai terzisti di Prato. Eppure gli ordini
sono stati spostati all’estero perché quel
prezzo era comunque troppo alto». Tesi
respinta da Di Natale di Smi: «Ormai è difficile vendere prodotti a prezzi alti solo
perché c’è un logo cucito sopra. I consumatori sono cambiati, anche all’estero».
I fatturati tengono
Ma le aziende spariscono
A mettere tutti d’accordo sono le preoccupazioni per i costi aziendali. A partire
dal prezzo dell’energia. «Abbiamo costi
doppi rispetto alla media Ue eppure crescono. Io ho le stesse bollette di anni fa,
con le macchine ferme per molto più
tempo», dichiara Simona Pesaro. I dati
dell’Autorità per l’Energia confermano:
Racconti assurdi, visto che, come ricorda
Gianfranco Di Natale, direttore generale
di Sistema moda Italia (Smi), l’associazione
più rappresentativa della filiera del tessile-moda, «l’Italia da sola fa il 25% del fatturato di tutta Europa ed è l’unica filiera del
Energia alle stelle
Etichette paradossali
negli ultimi otto anni il costo dell’elettricità è salito del 46%. Un balzello insostenibile per un settore già in ginocchio.
A peggiorare la situazione, le norme
(europee) sull’etichettatura. Per nulla rigorose, secondo le piccole imprese del settore. Tanto da non rendere obbligatorio indicare la provenienza del prodotto. E da
permettere di definire “made in Italy” abiti realizzati con tessuti esteri e che in Italia
subiscono solo “l’ultimo passaggio sostanziale”. Cosa vuol dire? «È made in Italy un
tessuto intrecciato in Italia con fibre estere. O una camicia cucita e confezionata nel
nostro Paese partendo da pezzi tagliati altrove», spiega l’avvocato Filippo Laviani di
Sistema Moda Italia. Da tempo le imprese
della filiera chiedono una normativa più
rigida. E, in attesa del sogno di avere un’etichetta che certifichi il vero Made in Italy
al 100%, i piccoli del settore (che, pure nell’emergenza, non riescono a unirsi per fare
massa critica) propongono di poter definire “italiani” solo i prodotti per i quali due
delle quattro fasi principali (filatura, tessitura, finissaggio e confezionamento) siano
realizzate in Italia. Scettici i vertici di Smi:
«Non è un’etichetta a rendere più competitiva un’impresa», commenta Di Natale.
«L’attuale normativa esiste da trent’anni.
E fare un prodotto totalmente italiano
avrebbe costi fuori mercato».
Si attendono sviluppi (con i Paesi del
Nord Europa che frenano eventuali nuove regole comunitarie). E, nel frattempo,
si continua a chiamare made in Italy un
abito confezionato con filati e tessuti cinesi, confezionato in Italia e riesportato.
Vogliamo indovinare a chi conviene una
simile triangolazione? 
IL MADE IN ITALY CERCATELO IN SVIZZERA
Volete visitare i centri di produzione dei maggiori marchi della moda italiana?
Munitevi di passaporto e andate in Svizzera. Può sembrare un paradosso. Sicuramente
è triste. Ma è una realtà che da qualche anno sta crescendo a dismisura. Il primo
ad aprire l’emigrazione del fashion è stato il gruppo Zegna (Paolo, nipote dello storico
Ermenegildo, è presidente dell’azienda oltre che vicepresidente di Confindustria, con
delega all’internazionalizzazione), che nel 1976 aprì un sito di produzione a Mendrisio
nel Canton Ticino. Negli ultimi anni più o meno la stessa scelta l’hanno effettuata
in tanti. Basta fare la ventina di chilometri dell’autostrada tra Chiasso e il Gottardo per
rendersene conto. L’elenco pare una sfilata di moda: Armani, Guess, Gucci, Prada,
Versace. Alcuni, come l’americana VF proprietaria del marchio The North Face, lo fanno
per sfruttare l’esenzione fiscale sugli utili che molti Comuni garantiscono per dieci anni
se la metà degli assunti è residente in loco. Altri preferiscono avere le mani libere sulle
assunzioni, “accontentandosi” degli altri vantaggi: «In Ticino ti stendono tappeti rossi
per costruire magazzini, centri logistici e siti produttivi» commenta Aurora Magni,
docente della Liuc di Milano. «Non ci sono lungaggini burocratiche, il lavoro è più
flessibile, l’energia costa meno». Stefano Rizzi, direttore della divisione Economia
del Ticino spiega: «Le esenzioni fiscali restano l’eccezione. Noi riusciamo ad attrarre
queste aziende con le condizioni generali favorevoli. Tasse basse, pubblica
amministrazione efficiente, servizi di qualità, personale qualificato nel campo della
moda, della gestione e della logistica». E poi la ciliegina sulla torta: la Svizzera è infatti
una zona franca nel cuore della Ue per le merci extracomunitarie. Un gruppo può quindi
farsi produrre vestiti, scarpe, borse in Estremo Oriente, farli entrare in Svizzera evitando
tasse e dogane e smistarli poi in tutte le boutique del mondo. Profitti alle stelle per
i grandi gruppi. De profundis per le filiere locali.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 43 |
| economiasolidale |
| economiasolidale |
Vanità o sanità:
questo è il dilemma
di Emanuele Isonio
L’associazione Tessile e Salute:
il 7% dei ricoveri dermatologici
è causato dalle sostanze chimiche
presenti negli abiti. Greenpeace
denuncia l’uso di composti che
danneggiano il sistema ormonale.
Ma per ora i regolamenti europei
vincolano solo chi produce nella Ue
a chimica pare ormai insinuata
stabilmente nei nostri guardaroba. E voler seguire le mode in fatto
di abbigliamento rischia di rivelarsi un
pericolo per la nostra salute. A meno di
non rassegnarsi a convivere con alchifenoli, ftalati, clorobenzeni e composti vari.
L
La chimica e i grandi marchi
L’ultima denuncia, in ordine di tempo, arriva da Greenpeace, nel rapporto Toxic
Threads. I tecnici dell’associazione hanno
acquistato in giro per il mondo 141 capi
d’abbigliamento realizzati da venti tra i
marchi di moda più diffusi (per l’Italia: Benetton, Armani e Diesel).
L’indagine ha rivelato che quattro capi erano contaminati da livelli elevati di
ftalati tossici e altri due presentavano
tracce di un’ammina cancerogena, derivante dai coloranti. L’aspetto più preoccupante è però un altro: tutte le marche
oggetto dello studio, in uno o più articoli
(100% nei capi Only e Vancl, 88% per Calvin Klein, il 67% per Tommy Hilfiger, 56%
per Giorgio Armani, 33% per gli altri due
italiani), facevano uso dei cosiddetti Npe
La chimica nell’armadio
I risultati di alcune delle aziende esaminate dall’associazione ambientalista
(composti nonilfenoloetossilati), sostanze
tensioattive usate per favorire l’eliminazione dello sporco e la bagnabilità dei tessuti. Il loro impatto diretto sull’uomo non
è stato ancora evidenziato con certezza ed
è oggetto di studio da parte della commissione Ecotossicità della Ue. Ma i danni indiretti sono già ben documentati: è la stessa Unione europea a denunciare pericoli
significativi per terreno, ambiente acquatico e organismi più complessi.
«Il rischio principale – spiegano i tecnici di Greenpeace – è quello di un avvelenamento secondario, dovuto all’accumulo
tramite la catena alimentare». In pratica,
queste sostanze, sia durante le fasi di produzione, sia durante i lavaggi in lavatrice
finiscono nei fiumi e nei mari, andando a
contaminare la fauna marina, per tornare
a noi mentre mangiamo. Interferendo così con l’attività ormonale. Con conseguenze negative sullo sviluppo sessuale, sulla
fertilità e sul Dna dei linfociti umani.
I paradossi del Reach
Ma quelle prese in esame da Greenpeace
sono solo tre delle decine di sostanze pericolose usate nell’abbigliamento. Informazioni ancora più preoccupanti arrivano dall’associazione Tessile e Salute, che
da anni raccoglie dati, in collaborazione
con una decina di ospedali in giro per l’Italia, sull’impatto delle sostanze chimiche
sul corpo umano. «Il legame tra moda e
salute è innegabile», commenta Mauro
Rossetti, direttore dell’associazione. «Il 78% delle patologie dermatologiche che a
BIOPOLIMERI, TESSUTI TECNICI E RICICLATI: CHI SI SALVA DALLA CRISI
Tre sprazzi di luce tra i nuvoloni che dominano sul tessile
italiano. Tessili tecnici, biopolimeri e tessili riciclati: dal panorama
negativo per il settore in Italia, si salva chi ha scommesso
su questi tre settori. Interessanti anche per la possibilità di crearci
attorno un nuovo tipo di filiera.
Il tessile tecnico riunisce prodotti destinati ai settori più disparati:
ingegneria edile, costruzioni, ospedali, industria automobilistica,
imballaggi, sport. «Il problema più grande di queste produzioni
– spiega Aurora Magni, docente alla Liuc di Milano – è la dipendenza
dalla congiuntura di comparti che non puoi governare. Se il mondo
dell’auto va male, la recessione si scaglia anche su chi produce fibre
per quel settore». Ma intanto i numeri sono promettenti.
Il mercato mondiale è di 133 miliardi di dollari. Da battere
c’è la concorrenza asiatica, che detiene il 45% del mercato.
Altrettanto interessante è lo sviluppo dei biopolimeri, provenienti
dal recupero degli scarti in agricoltura. Un vantaggio triplice,
in questo caso: aprirebbe nuove strade per il mondo del tessile,
livello nazionale hanno richiesto un ricovero sono connesse con le sostanze chimiche rilasciate da abiti e calzature. E i casi sono in aumento». In più: in un terzo dei
casi analizzati, i vestiti non hanno superato il test del Ph. E i laboratori che hanno
analizzato a campione calzature provenienti da Paesi extraeuropei hanno trovato nel 50% dei casi presenza di cromo
esavalente, sostanza altamente cancerogena (ricordate Erin Brockovich?).
Un’emergenza anche economica, resa
più acuta dall’aumento dei capi d’importazione. «Non tutto ciò che viene importato
è pericoloso – precisa Rossetti – ma i prodotti extra Ue hanno spesso minori con-
darebbe nuovo valore a terreni abbandonati e ridurrebbe gli scarti
di altre industrie: «Si potrebbe costruire una filiera integrata
all’insegna dell’innovazione e della sostenibilità. Forse l’unico
modo per resistere sui mercati mondiali» osserva Magni.
C’è poi il caso dei tessuti riciclati, derivanti dal filato degli abiti
usati. «Nel caso delle fibre sintetiche il riciclo può potenzialmente
durare in eterno. E si stanno sviluppando sistemi molto
interessanti. Come ad esempio fibre ottenute dalle reti da pesca
abbandonate sui fondali marini». Un fenomeno in crescita. Anche
grazie allo star system. A Hollywood molti hanno sposato questa
causa. Fra tutti, un’italiana: la produttrice cinematografica Livia
Giuggioli moglie dell’attore premio Oscar, Colin Firth. Il suo sogno
si chiama Green Carpet Challenge. Lei stessa lo spiega così:
«ho proposto ad alcuni stilisti di realizzare per ogni appuntamento
da tappeto rosso, almeno un vestito per una star ideato e prodotto
secondo le linee guida dell’Eco-Age. L’obiettivo finale è spingere
la Ue a introdurre leggi sulla provenienza dei tessuti».
Em.Is.
trolli». Colpa anche delle normative europee che pongono vincoli per le imprese comunitarie, ma, paradossalmente, permettono di vendere in Europa capi trattati
con sostanze chimiche vietate. Il regolamento in questione è il Reach, nato con
l’intento di proteggere la salute dei cittadini e di stimolare l’innovazione dell’industria chimica europea. «Però nulla impone
a chi produce altrove. Per cui, per come è
scritto attualmente, prevede requisiti talmente ampi che si può importare qualsiasi cosa». Un doppio danno: «I consumatori
non sono tutelati. E la nostra filiera, l’unica ancora in piedi in Europa, rischia di essere ulteriormente penalizzata».
Dall’impasse si potrebbe uscire varando dopo anni di richieste un osservatorio
per il tessile che possa monitorare ciò che
circola sul mercato, innalzare i requisiti di
legge e proporre integrazioni al regolamento Reach. Obiettivo finale: «chiarire
– spiega Rossetti – che se una sostanza
non si può usare in Europa, non può esserci nemmeno nei capi importati». Intento nobile, che incontra l’entusiasmo dei
piccoli produttori della filiera del tessile, i
più penalizzati dalla concorrenza estera.
Ma che potrebbe rimanere utopia. Da abbattere c’è il muro di gomma dei grandi
gruppi del fashion tricolore. Che delocalizzano in nome del profitto. 
Capi positivi ai test: 100%
Capi positivi ai test: 88%
Capi positivi ai test: 83%
Capi positivi ai test: 78%
Capi positivi ai test: 67%
Capi positivi ai test: 64%
Capi positivi ai test: 60%
Capi positivi ai test: 56%
Capi positivi ai test: 33%
Capi positivi ai test: 33%
Le due aziende sono ai vertici
della classifica del rapporto
Greenpeace. In tutti i loro capi
(4 su 4 per ciascuno dei due
marchi) sono stati rilevati
nonilfenoli etossilati (Npe).
Secondo posto in classifica per
l’azienda newyorkese, celebre
per le sue campagne
pubblicitarie in bianco e nero.
Fra i suoi vestiti però il nero
prevale sul bianco: 7 su 8
contenevano Npe, composti
tossici che alterano il sistema
ormonale umano.
I vestiti dell’azienda danese con
sede in Germania si collocano
ai primi posti della classifica con
5 capi positivi sui 6 analizzati.
A una sua t-shirt prodotta
e acquistata in Messico
va il “premio” per i più alti livelli
di Npe rilevati (45mila mg/kg).
7 articoli su 9 contaminati.
È il risultato del marchio
californiano. In tutti i casi,
compresi una t-shirt
e un impermeabile per bambini,
presenza di nonilfenoli
etossilati.
Il prezzo di solito piuttosto
elevato dei suoi prodotti non
mette al riparo dalla presenza
di sostanze tossiche. 6 su 9
presentavano Npe. E due capi
realizzati in Bangladesh e
Filippine contenevano anche dosi
importanti di ftalati, Dehp e Dinp.
Anche sette degli 11 capi presi
in esame dello storico marchio
di jeans statunitense sono
caduti nella rete di Greenpeace.
Tutti contenevano tracce di Npe.
Fra i sei abiti contenenti tracce
di Npe del marchio spagnolo,
la palma per le dosi maggiori
va a una giacca per bambini,
prodotta in Cina. Gli altri
provenivano da India,
Bangladesh, Vietnam e Pakistan.
Cinque dei nove capi analizzati
presentavano Npe. E in un caso
(una t-shirt di Emporio Armani
prodotta in Turchia) sono stati
rilevati alti livelli di ftalati tossici,
Dehp e Bbp, che possono
danneggiare fertilità e feti.
La percentuale di capi
“contaminati” da Npe è più
bassa di molte altre aziende
(3 su 9), ma i prodotti
in questione erano un giubbotto
e due t-shirt per bambini. In uno
dei tre casi erano presenti
anche tracce di ftalati tossici.
Un jeans da uomo prodotto
in Marocco e due t-shirt
prodotte in Cina. Sono i tre
prodotti dell’azienda italiana
fondata dal padovano Renzo
Rosso, che presentavano
nonilfenoli etossilati.
| 44 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 45 |
| economiasolidale |
| economiasolidale |
Quando l’etica
fa capolino nel tessile
di Valentina Neri
Una carrellata di storie di chi ha scelto di puntare sulla sostenibilità nell’industria del tessile e della moda.
Storie a lieto fine, anzi che segnano un lieto inizio
UNA RETE PER IL TESSILE SOSTENIBILE
Un network di specialisti (docenti
universitari, manager, giornalisti,
imprenditori) che mettono in comune
le proprie competenze ed esperienze per
promuovere la sostenibilità nell’industria
tessile e della moda. Si può descrivere
così, in poche parole, il progetto
di Sustainability-Lab, che trova forma
in una piattaforma digitale (www.sustainability-lab.net)
progettata da Blumine, che ormai conta più di 500 utenti
registrati.
Abbiamo incontrato Sustainability-Lab e la sua cofondatrice,
la professoressa Aurora Magni, a Milano Unica, il Salone italiano
del tessile che si è tenuto a febbraio. Una manifestazione
in cui la sostenibilità ha avuto un suo spazio: tra i tanti
espositori che affollavano i padiglioni, Sustainability-Lab ne ha
infatti selezionati alcuni che si distinguono nelle pratiche etiche
e solidali, nella tutela degli animali, nella tracciabilità della
filiera, nella gestione dei rifiuti, dell’acqua, delle emissioni
e altro ancora. E tutti – ci tiene a precisare Aurora Magni –
fanno ben più di quello che è loro richiesto dalla legge.
È il caso di Canepa (www.canepa.it, nella foto), un’azienda
familiare fondata nel Comasco nel 1966, che negli anni si è fatta
strada fino a gestire tre brand di prodotto e quasi un migliaio
di dipendenti. Nel suo campo, vale a dire la produzione di sciarpe,
scialli e capi in fibre pregiate, i problemi in termini di impatto
ambientale si toccano con mano. Fibre come il cashmere, infatti,
sono molto sottili e tendono a rompersi. Ciò significa che di solito
hanno bisogno di un sostegno chimico nella lavorazione che
ha un pesante impatto a livello di consumo idrico, dispendio
energetico e dispersione di acque di scarico inquinate.
La campagna di Canepa, non per niente, ha preso il nome
di Savethewater. La prima soluzione trovata è l’imbozzimatura,
un particolare procedimento di rinforzo della tessitura che
ha portato a una riduzione dell’80% degli inquinanti e un -40%
nel dispendio di acqua ed energia. Il passo successivo invece
si chiama Kitotex ed è un sistema di preparazione alla tessitura
| 46 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
dei filati che sfrutta il kitosano, un materiale ampiamente
disponibile, economico e biodegradabile. In questi mesi siamo
nel pieno degli studi e dei test di laboratorio, portati avanti nel
centro di ricerca pugliese di Canepa, in collaborazione con il Cnr
e grazie al sostegno della Regione. A settembre probabilmente
arriveranno i prodotti sviluppati con il nuovo brevetto.
Ma, quando si parla di sostenibilità in un settore composito
come quello dell’abbigliamento, bisogna prendere in esame
anche i più piccoli particolari. Lo dimostra la storia della
Lanfranchi, un’azienda dalla storia più che centenaria che
si dedica alle cerniere lampo. Per tutelare l’ambiente
la Lanfranchi è intervenuta sul ciclo di produzione, con
un innovativo impianto di galvanica (un procedimento a cui
viene sottoposto il metallo, ndr) che ha raddoppiato la capacità
produttiva tagliando di circa un terzo il consumo idrico e l’acqua
scaricata nelle fognature. Quando si lavora il metallo inoltre
bisogna fare i conti con lo sfrido, vale a dire con tutti quei piccoli
frammenti che ci si trova necessariamente a scartare e che
arrivano a rappresentare addirittura il 30-40% del totale ma
non possono essere usati a loro volta per fabbricare le zip,
perché non soddisfano determinati criteri di qualità.
La Lanfranchi allora si è accordata con i fornitori per recuperare
tutto questo metallo, ricondizionarlo e usarlo per altri prodotti.
«La normativa di oggi verosimilmente è destinata a diventare
più esigente fra tre o quattro anni – spiega il direttore
commerciale Alessandro Bordegari – quindi, per restare
competitivi, è indispensabile proiettarsi al futuro. La cosa
interessante è che un processo come questo, se ben studiato,
non è un costo extra ma, al contrario, ottimizza le risorse».
LA SOSTENIBILITÀ CONQUISTA L’ALTA MODA
Nell’universo del tessile sostenibile c’è
un’esperienza che ha varcato le soglie dei
templi dell’alta moda, senza dimenticare
le sue origini. Parliamo di Cangiari, “cambiare”
in calabrese (www.cangiari.it). Promossa
da Goel (www.goel.coop), consorzio che
riunisce numerose cooperative della Locride
e della piana di Gioia Tauro, la griffe usa
materiali biologici e affida la tessitura a donne della Locride che
hanno recuperato la tradizione del telaio a mano. «Si sono
rivolte alle anziane magistre che erano in grado di programmare
i duemila fili del telaio calabrese», racconta Vincenzo Linarello,
fondatore di Goel. «È una complessa procedura matematica
che le magistre, spesso analfabete, ricordavano attraverso delle
cantilene. Le socie della cooperativa hanno registrato decine
di nenie e le hanno trasposte su una matrice ricreando i primi
modelli basati sull’antica tradizione grecanica e bizantina».
Il problema è che per un metro di stoffa ci vogliono da tre a sei
ore di lavoro. La scelta di posizionarsi nella moda di fascia alta
LA MODA GREEN CHE AFFRONTA LA CRISI
Produrre capi d’abbigliamento ambientalmente sostenibile
non è facile: i costi lievitano e la concorrenza è spietata.
Ma c’è chi ha accettato la sfida. E sono esperienze per tutti
i gusti. A partire dai jeans. Quelli di Ecogeco (www.ecogeco.it)
sono in cotone bio, tinto con indaco vegetale e lavati solo con
acqua e pietra pomice. Se invece si cerca un gilet o una borsa
in feltro c’è Gaia di Lana (www.gaiadilana.com): l’unica
materia prima ammessa è la lana biologica che proviene dai
piccoli allevamenti familiari della provincia di Biella. Baci
di Trama (www.baciditrama.it), invece, propone capi
in canapa, cotone bio, fibra di bambù o lana organica.
Ma questa strada ha un costo. Non lo nega Vania Silvestri,
fondatrice di Kyo Cashmere (www.kyocashmere.it), azienda
padovana che usa solo cotone bio e lana di yak, un animale
alternativo alla più blasonata capra da cashmere, oggetto
di un pesante sfruttamento. Le tinture sono tutte Gots (marchio
internazionale del tessile bio) e per il lavaggio si è scelto
un processo che riduce al minimo il consumo di acqua e non
riversa il solvente in falda. Una scelta, che tuttavia, spiega,
«non è valorizzata nei circuiti di marketing della moda».
è perciò obbligata se si vuole garantire alle
lavoratrici una remunerazione in linea con
gli standard e le tutele sindacali del nostro
Paese. Ecco perché i capi di Cangiari,
raffinati e di ottima fattura, si trovano solo
nelle boutique più prestigiose. Ma, verrebbe
da chiedersi, sono i luoghi più adatti per
proporre un contenuto etico? «In Italia
– spiega Linarello – il pubblico capisce il nostro messaggio
e lo considera un valore aggiunto. I canali commerciali, tuttavia,
non sembrano ancora pronti a valorizzarne l’aspetto etico».
Aver messo in connessione due mondi distanti come l’alta
moda e la cooperazione sociale, comunque, ha i suoi vantaggi.
Innanzitutto quello di dare lustro all’immagine della Calabria.
E, non da ultimo, quello di intercettare un pubblico che spesso,
spiega Linarello, «afferisce a un mondo di responsabilità
politiche ed economiche di alto livello». Potenzialmente,
un valido alleato nell’azione di contrasto alle mafie portata
avanti da questo e altri progetti di Goel.
TESSERE LA TRAMA
DI UNA SECONDA CHANCE
A Milano, nelle sezioni
femminili delle carceri
di San Vittore e Bollate,
da vent’anni la coop
Alice gestisce
laboratori che
producono abiti
di scena per il Teatro
alla Scala e il Regio di Parma, ma anche le toghe per
i magistrati milanesi e una linea di abiti da sposa, oltre alle
collezioni in vendita nella boutique nel centro di Milano.
Un’esperienza che ha fatto da apripista per la cooperativa
Opera in Fiore che, oltre alla coltivazione di fiori e piante
all’interno del carcere milanese di Opera, dallo scorso anno
ha preso la guida di “Borseggi” (www.borseggi.it), un piccolo
laboratorio in cui detenuti ed ex detenuti producono borse
in stoffa e seta dai temi floreali. All’altro capo d’Italia, invece,
un gruppo di detenuti della casa circondariale di Enna grazie
alla cooperativa FiloDritto (www.filodritto.com) ha scelto
di recuperare la lavorazione tradizionale del feltro. La lana,
cardata e lavorata a mano con acqua e sapone di Marsiglia,
viene colorata con tinte naturali. E alle lane autoctone
si aggiungono cashmere e cammello. Il risultato? Coppole,
coperte, giacche, sciarpe, e tessuti per arredo, che fanno
il giro dello Stivale grazie a Libera e altri soggetti che hanno
“adottato” l’esperienza per farla uscire dai confini dell’isola.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 47 |
| economiasolidale | l’italia che produce |
| economiasolidale |
| 48 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
2011
15
20%
16%
Imprese artigiane
12
8,7
15,8%
11,9
Imprese garantite dai Confidi
Imprese artigiane
media: 10,9%
10,9
Imprese garantite dai Confidi
media: 6,3%
3
0
Nord
Centro
Sud
Nord
Centro
Sud
2005
2006
2007
2008
2009
4,6
6,0%
4%
4,2
6,1%
6,8%
6,3
6
8%
0%
5,7
9,4%
7,4
9
11,7%
6,9
12%
4,8
2010
15,7
2009
17,5 20,3
20,1
18,2
19,7
2008
SOFFERENZE IL TREND DEL TASSO LORDO
6,3
33,5
30,0
25,6
20,7
23,0
2007
17,7
2006
17,7
10
14,8
15
18,2
20
21,8
25
16,6
30
14,3
15,0
14.772
14.401
Nord
Centro
Sud
Media
13,7
11.475
9.605
9.105
8.494
9.098
7.521
6.526
1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011
35
16,4
15,0
15,8
0
4.409
2.500
3.715
5.000
5.973
7.500
8.098
10.000
10.850
12.500
13.284
15.000
CHI SOFFRE DI PIÙ [dati aggiornati al 31 dicembre 2011]
3,6
GARANZIE DEI CONFIDI ARTIGIANI AL CENTRO È BOOM [valori percentuali]
FINANZIAMENTI GARANTITI +490% IN 15 ANNI
3.025
FONTE: L. NAFISSI, RELAZIONE RICERCA ANNUALE SUL SISTEMA DEI CONFIDI ARTIGIANI
«Per la prima volta – ammette Fabio Petri,
presidente di Fedart Fidi, la più grande federazione delle strutture di garanzia in
Europa, durante la presentazione del rapporto 2012 sullo stato dei Confidi dell’artigianato – il nostro sistema avverte su di sé
i segnali della situazione di difficoltà ge-
efficienza la dinamica dei rapporti con le
banche e gli enti locali. E ne potrebbe beneficiare il tessuto imprenditoriale locale».
Idea interessante, ma forse estrema.
«Un solo Confidi per regione rischia di
creare più problemi che vantaggi, soprattutto in termini di riduzione della
concorrenza», osserva Nafissi. «Non c’è
dubbio – commenta però Petri – che le
fusioni vadano incentivate sui territori
dove i Confidi hanno dimensioni ancora
troppo contenute rispetto alle esigenze
delle aziende». 
per agevolare il credito alle imprese ma, di
fatto, diventato un ulteriore aiuto per le
banche. «L’attività sociale dei Confidi – osserva Messina – merita di essere valorizzata. E le proposte di Fedart sono valide».
Al tempo stesso, la Banca d’Italia invita
il sistema dei consorzi a una riorganizzazione: «In linea teorica – osserva Corrado
Baldinelli, fino a dicembre capo del Servizio di supervisione degli intermediari specializzati di Via Nazionale – non pare irrealistico immaginare la presenza di un solo
Confidi per regione. Ne guadagnerebbe in
6,7
Il rischio di una reazione a catena
«La situazione – aggiunge Leonardo Nafissi, direttore di Fedart Fidi – è preoccupante anche perché alcuni istituti bancari
scaricano sui Confidi i crediti più rischiosi
mentre stanno evitando l’intermediazione se rappresenta un ostacolo alle loro politiche commerciali». Quindi: per i casi rischiosi sfruttano i Confidi, per gli altri e
quando possono pensare di spuntare condizioni migliori (ad esempio con le microimprese che non hanno poteri contrattuali) si muovono autonomamente.
Correre ai ripari prima che sia troppo
tardi non salverebbe solo la tradizione dei
Confidi, ma non priverebbe il sistema di
uno strumento che ha dimostrato di funzionare e di assicurare vantaggi a tutto il
mondo del credito. Una funzione pubblica
che i vertici dei vari consorzi chiedono
venga tutelata. A partire dalla possibilità
di accesso al Fondo centrale di garanzia,
uno strumento pubblico attivo dal 2000
3,7
P
Un alleato per il sistema bancario
FONTE: L. NAFISSI, RELAZIONE RICERCA ANNUALE SUL SISTEMA DEI CONFIDI ARTIGIANI
nerale. Se gli effetti della crisi dovessero ribaltarsi sulle nostre strutture si produrrebbero conseguenze dirompenti sulle imprese di minori dimensioni per le quali la
garanzia mutualistica è fondamentale per
l’accesso al credito». In pratica una reazione a catena che potrebbe dare il colpo di
grazia al sistema delle piccole e medie imprese (pmi) già provato dalla recessione.
«Ormai i Confidi sono cruciali per il
credito alle imprese e negli ultimi 3-4 anni
hanno toccato livelli di esposizione enormi e il loro patrimonio non è più sufficiente a coprire altri prestiti», concorda Alessandro Messina, economista e capo
dell’ufficio Relazioni con le imprese di Federcasse. In effetti i 610 Confidi censiti dall’ultimo rapporto Bankitalia hanno eroga-
arlare di rischio default, almeno
per il momento, è forse eccessivo.
Ma, se prevenire è meglio che curare, la situazione dei Confidi è una di
quelle da tenere sotto controllo per evitare di dover poi raccontare l’ennesima bolla dell’attuale tempesta finanziaria. L’apprensione ormai serpeggia, nemmeno
tanto velata, tra gli addetti ai lavori.
to garanzie per 24 miliardi. «Se dovesse
esplodere questa bolla sarebbe un nuovo
problema in una situazione già delicata».
Ma quanto è grave la salute dei Confidi? Per capirlo, basta dare un’occhiata allo
stato dei consorzi degli artigiani. I più
grandi fra quelli italiani e con i dati più aggiornati. I finanziamenti garantiti da Fedart sono cresciuti in modo esponenziale:
dai 3 miliardi del 1996 ai 9 del 2005 fino ai
14,8 del 2011. 330 mila operazioni finanziarie in essere per un importo medio di 45
mila euro. Una crescita del 53% negli ultimi cinque anni e del 490% in 15 anni. La dotazione patrimoniale dei Confidi è però rimasta sostanzialmente stabile rispetto
all’anno precedente: 875 milioni.
C’è infine un altro fattore da considerare: il tasso delle sofferenze. Elemento essenziale per prevedere il futuro. E le notizie non sono buone. Perché la percentuale
dei finanziamenti non rimborsati ha raggiunto a metà 2012 quota 6,9%. Appena
due anni e mezzo prima era al 4,2%. Un daFONTE: FONTE: RICERCA ANNUALE FEDART FIDI 16° EDIZIONE – 2012 - WWW.FEDARTFIDI.IT
La loro esposizione è quintuplicata in 15 anni e ha raggiunto il livello
di guardia: 24 miliardi di euro. I prestiti in sofferenza aumentano.
Ma la dotazione patrimoniale è ferma. Un problema non solo per il tessuto
imprenditoriale ma per l’intero settore del credito
È una bella storia quella dei Confidi, nati per agevolare le imprese nell’accesso al
credito a breve, medio e lungo termine. Le loro origini affondano nel secondo dopoguerra
e nelle tradizioni degli strumenti mutualistici: le prime cooperative di garanzia vengono
costituite nel 1956 per aiutare le piccole imprese a ottenere prestiti. Il sistema
è piuttosto semplice: le imprese associate versano una quota per poter entrare nel
circuito. Quando hanno bisogno di un prestito, il Confidi funge da garante con la banca
e l’impresa gli verserà un tasso per tale servizio. Il suo patrimonio dipende dalle quote
versate dalle aziende e da contributi pubblici. In pochi anni hanno visto la luce i Confidi
degli artigiani, poi del commercio, dell’industria e, in misura minore, dell’agricoltura.
Ma il loro ruolo non è utile solo per i piccoli imprenditori. Anche il sistema bancario
ne trae vantaggio: se per le banche assegnare un rating alla rischiosità di un’azienda
(e decidere quindi se erogare un finanziamento) significa applicare semplici modelli
statistici, i Confidi usano parametri qualitativi, spesso grazie alla conoscenza diretta
delle realtà aziendale. Le banche quindi hanno una migliore valutazione del merito
creditizio, una riduzione del rischio finanziario e un reperimento di clienti già selezionati.
Da quando in Europa è entrato in vigore l’accordo di Basilea 2, i Confidi hanno assunto
un ruolo essenziale per classificare correttamente i clienti e il loro merito creditizio.
A Basilea 2, ha fatto seguito la decisione di Bankitalia di obbligare i consorzi più grandi
(con volumi di attività finanziaria superiore a 75 milioni di euro) a entrare nell’elenco
degli intermediari finanziari, vigilati dalla stessa banca centrale.
6,7
di Emanuele Isonio
UNA STORIA DI CREDITO E MUTUALITÀ
3,7
Confidi a rischio bolla
Allarme per le piccole
imprese (e non solo)
2010
2011
Giugno 2012
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 49 |
FONTE: L. NAFISSI, RELAZIONE RICERCA ANNUALE SUL SISTEMA DEI CONFIDI ARTIGIANI
to non molto diverso rispetto a quello del
totale dei Confidi italiani in cui il rapporto
tra crediti deteriorati e garanzie è al 6,3%
(era al 4,7% nel 2010). E poco importa che,
nello stesso periodo, le sofferenze del resto delle imprese artigiane avesse fatto segnare tassi doppi (dal 7,4 del 2009 all’11,6%
di giugno scorso): «La dotazione patrimoniale costante, unita a una crescita dei volumi garantiti e delle sofferenze, determina un complessivo indebolimento del
sistema, che necessita sempre più di interventi di capitalizzazione» osserva Petri.
| economiasolidale |
Se lo Stato (francese)
tende la mano alle Pmi
Attenzione
alle imprese innovatrici
di Andrea Barolini
Da otto anni in Francia è stato introdotto un istituto, Oséo, che si occupa unicamente di sostenere le piccole e medie
imprese. Al 30 giugno dello scorso anno, le erogazioni complessive erano già arrivate a 31,3 miliardi di euro
n Italia, secondo l’Istat, operano più di
63,5 imprese ogni mille abitanti: un
valore stabile nel tempo e tra i più elevati d’Europa. La grandissima maggioranza di tali realtà è costituita da aziende di
piccole e medie dimensioni. E tra queste,
in particolare, le realtà “micro” – con meno
di 10 addetti – sono più di 4,2 milioni, rappresentano il 95% del totale e occupano il
47% della forza lavoro complessiva del
Paese, pari a 17 milioni di persone. Un altro
20% (circa 3,5 milioni) lavora nelle imprese considerate di piccole dimensioni (da 10
a 49 addetti) e il 12,2 % (oltre 2,1 milioni) in
quelle di taglia media (da 50 a 249 addetti). Soltanto 3.707 imprese (lo 0,08%) impiegano 250 addetti e più (assorbendo,
tuttavia, il 21% dell’occupazione complessiva, ovvero circa 3,5 milioni di lavoratori). È del tutto evidente, perciò, che le Pmi
costituiscono la spina dorsale dell’econo-
I
Oséo propone una vasta
serie di strumenti finanziari
per sostenere le imprese,
con particolare attenzione
alle realtà innovatrici
mia italiana. Eppure lo Stato spesso non è
al loro fianco: in molti casi il supporto ai
piccoli imprenditori – sia in termini di
aiuto in periodo di difficoltà, sia in termini di investimenti – è lasciato ad iniziative temporanee, locali e insufficienti. Al
contrario, altri Paesi hanno optato per soluzioni più durature, che hanno dato prova di funzionare anche in tempo di crisi.
Un modello
di finanziamento anticiclico
In Francia, ad esempio, opera dal 2005
un’impresa pubblica, Oséo, che si occupa
proprio di finanziare le Pmi, con l’obiettivo di creare occupazione e crescita economica. Presente in modo capillare sul
territorio transalpino (mille addetti in 37
direzioni regionali), la struttura rivendica un ruolo prettamente anticiclico: lo
scopo è quello di far affluire finanziamenti alle imprese soprattutto in periodi di crisi, quando le banche chiudono i
rubinetti e il giro d’affari si contrae.
Oséo interviene tramite sovvenzioni,
prestiti, anticipi e fornendo garanzie bancarie. O, ancora, tramite un “Contratto di
sviluppo partecipativo”, che consiste nell’erogazione di un finanziamento – fino a
un massimo di 3 milioni di euro, in funzione della singola situazione dell’impresa –
per l’acquisto di beni mobiliari o immobiliari, per operare ristrutturazioni, per avviare programmi di formazione, per assumere nuovo personale o per sviluppare
OSÉO SI TRASFORMA IN BANCA PUBBLICA
PER GLI INVESTIMENTI
Lo scorso 17 ottobre, il governo francese ha deciso di creare una Banca pubblica
per gli investimenti (Bpi), che ingloberà Oséo, il Fondo strategico di investimenti
e la Cassa depositi e prestiti (il presidente di quest’ultima, Jean Pierre Jouyet, sarà
il numero uno del nuovo istituto). In tal modo il presidente Hollande punta a seguire
le orme del modello tedesco di banca pubblica, la Kfw, guardato con attenzione
anche in Italia.
L’obiettivo ultimo della manovra è di creare un supporto stabile ed efficace per
le piccole e medie imprese, non solo in termini di finanziamenti per l’avvio di nuove
attività, bensì anche per quanto riguarda gli investimenti necessari per il successivo
sviluppo di tali realtà. Per raggiungere tali risultati, la Bpi sarà dotata di 42 miliardi
di euro: 20 miliardi destinati ai prestiti, 10 per le garanzie, 10 per investimenti propri.
Il sito web di Oséo
| 50 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
l’azienda all’estero. Solo tramite tale strumento sono stati concessi, nei primi sei
mesi del 2012, 330,6 milioni di euro alle Pmi
francesi (su un totale di 2,18 miliardi di euro di nuove erogazioni).
Per avere un’idea di quanto le Pmi francesi siano state, fino ad oggi, appoggiate
ad Oséo basti considerare che le erogazioni complessive, a vario titolo, sono arrivate a toccare, il 30 giugno del 2012, i 31,3 miliardi di euro. Grazie a tali capitali, lo Stato
francese – rivendicava Oséo nel rapporto
Plan de Relance – aveva evitato già nel
mese di ottobre del 2009 (dunque in piena
crisi) il fallimento di 2.725 imprese e il ridimensionamento in termini occupazionali
di 1.558 di esse (complessivamente le imprese aiutate in un anno di piena crisi erano state 5.297, che davano lavoro ad oltre
88 mila persone, vedi TABELLA ).
Alla struttura pubblica, poi, è chiesta
un’attenzione particolare per le imprese
innovatrici. Si tratta delle cosiddette Cei
(Création d’entreprises innovantes): a
8.215 di esse Oséo ha concesso 10.330 garanzie bancarie. Si tratta soprattutto di
L’IMPATTO DI OSÉO IN TEMPO DI CRISI (2009)
Motivo dell’intervento
Imprese coinvolte
Forza lavoro impiegata
Rischio di fallimento
2.725
34.455
Rischio di contrazione occupazionale
1.558
37.820
Altro
1.014
15949
Totale
5.297
88.224
ORIGINE DEL SOSTEGNO PUBBLICO PER LE PMI INNOVATRICI IN FRANCIA
Osèo
Enti locali
CIR (Credito per la ricerca)
Sgravi fiscali per i giovani
Incubatore d’imprese
Concorso nazionale di aiuto alla creazione
di imprese innovatrici (MESR)
Commissione europea
Polo di competitività
Altro
0%
10%
20%
imprese che occupano tra i 10 e 199 dipendenti, attive in particolare nel settore industriale (agroalimentare escluso).
Per loro l’istituto costituisce il principale
punto di riferimento in termini di finanziamenti pubblici (vedi GRAFICO ): a beneficiarne sono state soprattutto imprese
30%
40%
50%
60%
70%
80%
90%
100%
impegnate nel campo delle biotecnologie
(con una media di 1,2 milioni di euro ciascuna), dell’elettronica (531 mila euro),
dell’ingegneria chimica (552 mila euro) e
della multimedialità (465 mila euro). Anche così si costruisce il futuro di un’economia. 
FONTE: OSÉO, PLAN DE RELANCE,
OTTOBRE 2009
| economiasolidale | sostegno pubblico |
| economiasolidale | buone pratiche |
| economiasolidale |
Una mobilità diversa
in scena
a Fa’ la cosa giusta!
CI SIAMO ANCHE NOI!
Valori sarà presente
a “Fa’ la cosa giusta!”
allo stand di Banca Etica
Padiglione 4, SP06
falacosagiusta.terre.it
di Valentina Neri
Legambiente lancia un nuovo allarme: in alcune città italiane la qualità dell’aria
è fuori dai limiti Ue un giorno su tre. Il tema del trasporto sostenibile
è al centro dell’edizione di quest’anno della kermesse milanese (15-17 marzo)
l 2013 è stato dichiarato dall’Ue “Anno dell’aria”. Ma non sono solo le autorità comunitarie a ribadire che
l’attenzione alla qualità di ciò che respiriamo deve diventare una priorità. A dirlo sono i dati. Li ha raccolti Legambiente
nel rapporto Mal’aria di città pubblicato
a metà gennaio. E non fanno ben sperare. La legge prevede che ogni anno si possa sforare per al massimo 35 giorni la media di 50 microgrammi/metro cubo di
pm10: ma in 52 città, sulle 95 monitorate,
nel 2012 tale bonus è stato abbondantemente superato. Fino ai casi limite di
Alessandria, Frosinone, Cremona e Torino in cui per un giorno su tre si è respirato veleno. Non va meglio se si considera il pm2,5, meno conosciuto, ma ancora
I
più pericoloso. Oltre la metà delle città
studiate da Legambiente ha sforato i li-
miti previsti e il poco invidiabile primato
è ancora appannaggio dei capoluoghi
della pianura padana (Torino, Padova,
Lecco, Milano e Brescia).
Conviene tenere a mente queste cifre
mentre si varcano le soglie di Fa’ la cosa
giusta! che a Milano, dal 15 al 17 marzo, fe-
UNA VETRINA PER I PROGETTI DEI GAS
I Gruppi di acquisto solidale non possono mancare a un appuntamento come
“Fa’ la cosa giusta!”, un’occasione preziosa per conoscere le altre realtà del nord Italia.
La rete milanese Intergas sarà presente con tre progetti molto diversi. Il primo
ha al centro il pesce: i gasisti da anni sostengono i pescatori del Tirreno e ora, con
l’iniziativa “La casa dei pesci”, contribuiscono alla posa di 150 dissuasori contro la
pesca illegale a strascico nel tratto di mare antistante il Parco naturale della Maremma.
Ma nel frattempo sono impegnati anche a pubblicare su www.gasmilano.org una
mappatura delle aziende che sono interessate a lavorare coi Gas e hanno le carte
in regola con i loro valori fondamentali. Ma si parlerà anche di energia: il progetto
Coenergia prevede di partecipare, diventando soci della cooperativa Retenergie,
al finanziamento di piccoli impianti a energia pulita, con un occhio di riguardo per quelli
che coinvolgono realtà legate al mondo dell’economia solidale.
Dieci anni per cambiare gli stili di vita
sostenibili Miriam Giovanzana, direttore
di Terre di mezzo che organizza il salone.
di Valentina Neri
Da quando è nata la manifestazione, il numero di visitatori
è cresciuto enormemente. E, soprattutto, non si tratta più
solamente di “addetti ai lavori”
«Dieci anni fa parlare di stili di vita sostenibili, km zero o acqua
pubblica sembrava impossibile perché erano temi per addetti ai
lavori. Abbiamo intuito che il mondo cambiava: emergevano
produttori sostenibili e consumatori consapevoli. “Fa’ la cosa
giusta!” è diventata una piazza per farli incontrare». Racconta
così l’esordio della fiera del consumo critico e degli stili di vita
| 52 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
Miriam Giovanzana,
direttore di Terre
di mezzo
C’è stata un’evoluzione della fiera?
La crescita numerica degli espositori
è stata accompagnata da un ampliamento
degli spazi espositivi e da un’evoluzione
della stessa fiera. All’inizio era organizzata
negli ex spazi industriali di via Tortona.
Spostandoci nel 2007, a Fieramilanocity,
siamo entrati nel tempio dell’economia
di mercato per portare un’altra idea
steggia il traguardo della decima edizione
mettendo al centro proprio la mobilità
sostenibile. Un tema sul quale le amministrazioni italiane sono ancora troppo
poco attive. Se il nostro – ricorda Legambiente – resta infatti il Paese Ue a più alta
densità di automobili, in certi casi è perché non si può fare altrimenti: il trasporto
pubblico è «messo sotto pressione dai tagli e incapace di attrarre passeggeri: un cittadino compie in media appena 83 viaggi
l’anno su bus, tram e metro». Ma le auto
costano: «Il traffico veicolare – si legge nel
rapporto – assorbe l’1% del Pil in inefficienza e il 2% per i costi dell’incidentalità.
Gli investimenti in nuove strade, spesso
controproducenti, incontrano difficoltà
finanziarie, sociali ed ambientali crescenti. Le spese per il possesso di un’automobile sono circa un terzo del reddito medio famigliare». Per tutto ciò, è urgente trovare
un modo diverso per muoverci.
A Fa’ la cosa giusta! un centinaio di
produttori esporranno moto, bici e auto
elettriche, che si potranno testare nel circuito interno o su strada. Il Politecnico di
Milano ha scelto la fiera per presentare
Bike+ e Chainless bike, la cui carica viene
rigenerata dalla pedalata umana. Mentre
lo Ied (Istituto europeo di design) mostrerà i dieci migliori progetti per realizzare ciclocargo creati all’interno del suo
corso di Product Design. Non mancheranno poi servizi per i milanesi che vorranno “fare la cosa giusta” fino in fondo,
arrivando a Fieramilanocity in bici. 
IL DESIGN E L’ARTIGIANO SOTTO CASA SI INCONTRANO ONLINE
Per un giovane designer trovare l’idea creativa spesso è l’ultimo dei problemi.
Il difficile arriva dopo: quando deve cercare un’azienda disposta, in un periodo
di crisi, a investire su di lui per garantire un’adeguata distribuzione alle sue opere.
Andrea Cattabriga e Sebastiano Longaretti hanno trovato una possibile soluzione
nella più semplice e familiare delle tradizioni: quella della bottega artigiana sotto
casa. Lo dimostra Slowd, la loro startup, che mette le potenzialità del web al servizio
della filiera corta. Il designer espone i propri prodotti su Slowd.it. Il cliente sceglie
un’opera e la fa fabbricare non da un lontano colosso industriale, con tutte
le conseguenze in termini di impatto economico e ambientale del trasporto,
ma dal negozio artigiano più vicino a casa sua.
Dietro a quest’idea lineare, che cerca di ricreare il principio della fabbrica diffusa,
c’è un lungo processo ancora work in progress. La piattaforma sarà on-line tra aprile
e giugno. Per ora, Andrea e Sebastiano stanno incontrando i designer (ormai
un’ottantina) e le imprese artigiane che li hanno contattati. I particolari da mettere
a punto sono tanti. Innanzitutto la giusta remunerazione per i designer: «In Italia
– spiega Andrea – su quel 5% di designer che hanno la fortuna e la bravura
di commercializzare il proprio prodotto quelli che vivono di royalties si contano sulle
dita di una mano. Ogni prodotto venduto tramite Slowd, invece, prevede un 10%
di royalties per il designer». Vale a dire da due a cinque volte la media di mercato.
E le aziende artigiane? Quelle che costruiranno il prototipo di un’opera saranno
premiate con una piccola percentuale su tutti i pezzi che saranno realizzati
di lì in avanti: «Così si riconosce una co-autorialità all’artigiano, che dà una mano
non da poco», spiega Andrea. In seguito, quando verranno contattate da un loro
concittadino interessato a un prodotto, glielo costruiranno ad hoc. «In questo modo
– continua Andrea – vorremmo ridare linfa a tanti piccoli artigiani che disporranno
di una vetrina web con un ampio catalogo».
Slowd – ci tiene a precisare Andrea – non è un sito di e-commerce, ma un tentativo
di ripensare radicalmente la produzione: «Troppo spesso nel mondo del design
si spendono capitali in marketing e copertine patinate per mantenere i prodotti
nel segmento del lusso, facendoli arrivare a pochi. Il nostro obiettivo invece è quello
di riportare la manifattura in mano a chi la sa fare e focalizzare l’intero sistema sul
territorio, riscoprendo l’abitudine dei nostri padri e dei nostri nonni di far fabbricare
il mobile al falegname di fiducia».
V.N.
di economia, legata non alla competizione, ma alla solidarietà
e alla crescita comune.
Ed è cambiato anche il pubblico?
All’inizio abbiamo fatto presa su chi era già vicino al commercio
equo e al consumo critico, ma i confini si sono allargati fino alle
67 mila persone del 2012, coinvolgendo un pubblico sempre
più vario. La campagna sull’acqua come bene pubblico è stata
il culmine di questa sensibilità.
Si incontrano ostacoli a trasmettere al pubblico
stili di vita alternativi?
In questo decennio abbiamo dimostrato che un altro tipo
di economia esiste, è rilevante e migliora la qualità della vita: non
si tratta solo di mercati di nicchia. Un esempio è il biologico, che dieci
anni fa era per pochi salutisti e ora coinvolge vaste parti della
popolazione e regge alla crisi. È stata un’evoluzione: abbiamo iniziato
da pochi settori di largo consumo come agricoltura e turismo
per arrivare a quelli sofisticati come la casa e il vestire. Quest’anno
la sezione speciale è la mobilità sostenibile: è un tema poco intuitivo,
a volte contraddittorio, ma diventa la sezione principale proprio
perché la sensibilità e la consapevolezza si sono ampliate.
Che cosa vi aspettate da questa edizione?
Possiamo guardarci indietro e dirci che di strada ne abbiamo
fatta. Una novità di quest’anno è l’area del business to business:
già in passato le aziende non hanno incontrato solo i consumatori
singoli, ma anche i Gas. Allo stesso modo ora, ad esempio,
i produttori agricoli potranno dialogare con ristoratori, negozi
di alimentari, mense. Un’occasione preziosa in tempi di crisi.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 53 |
| socialinnovation |
Inclusione sociale
Molto più
di un’auto elettrica
difficile prevedere come le tradizionali città del ventesimo secolo, dominate dalle auto, possano sopravvivere alla rapida urbanizzazione,
ai prezzi del petrolio sempre più elevati, alle severe normative antiinquinamento atmosferico. La città del futuro dovrà funzionare in modo più
efficiente, a basse emissioni, migliorando il trasporto di massa. A Bilbao si sono chiesti come realizzare tutto ciò
È
utilizzando le infrastrutture esistenti.
Hiriko, che in basco significa “urbana”,
è una city-car biposto che si “ripiega”
su se stessa e si parcheggia come una
bicicletta. Risolve così i problemi di parcheggio e, grazie al suo motore elettrico,
non inquina. Con una sola carica il veicolo può percorrere più di 120 chilometri. È provvista di quattro ruote motrici
indipendenti e controllate separatamente, che consentono anche di ruotare sul proprio asse o di muoversi lateralmente. La sospensione centrale fa
scorrere l’abitacolo verso l’alto permettendo il parcheggio “in verticale”.
Ma non è tutto: è un progetto europeo di “innovazione sociale” che coniuga rispetto dell’ambiente, creazione di
posti di lavoro e attenzione alle categorie sociali svantaggiate, frutto di
una collaborazione tra il Mit di Boston
e Denokinn, il centro basco per l’innovazione. Il prototipo, ispirato da uno
schizzo di Frank Gehry, architetto del
Guggenheim Museum, è stato presentato dal presidente della Commissione
europea, Manuel Barroso, nel gennaio
2012 a Bruxelles. Nell’ultimo anno sono
stati messi in produzione venti esemplari oggetto di test a Bruxelles, Malmo,
Barcellona, San Francisco, Hong Kong e
Quito, mentre sono in corso trattative
Un progetto d’innovazione
sociale: rispetto per
l’ambiente e posti di lavoro
a Parigi, Londra, Amsterdam, Ginevra,
Boston, Dubai, Abu Dhabi. Nel 2013
Hiriko arriverà a Berlino. Deutsche
Bahn, la società che gestisce la rete ferroviaria in Germania, ha annunciato
un programma pilota di car-sharing
con l’acquisto delle city-car basche.
Il quartier generale di Denokinn, il
Social Innovation Park di Bilbao, fornirà la formula alle città che decideranno di adottare Hiriko e che potranno replicare il modello di Bilbao e realizzare
un sito locale per l’assemblaggio della
city-car, creando così nuovi posti di lavoro. «L’innovazione sociale è la nostra
capacità di creare il futuro che desideriamo. È fatta di solidarietà e di responsabilità», ha detto Barroso.
I Paesi Baschi sono stati un buon
esempio di trasformazione sociale, eco-
di Andrea Vecci
nomica e industriale negli ultimi 25 anni. La crisi dei comparti siderurgico e
cantieristico degli anni ’80 ha interessato intensamente la zona, ma una tradizione sociale profonda ha creato le condizioni per una nuova economia. Oggi, il
tasso di rischio povertà nei Paesi Baschi
si attesta al 9,5%, il secondo più basso in
Europa dopo la Svezia.
Il Social Innovation Park di Bilbao
ospita imprese sociali consolidate e progetti di innovazione emergenti che mirano a creare una nuova “Social Silicon
Valley”. Consente alle organizzazioni del
terzo settore, agli enti di beneficenza, alle Fondazioni e alle Ong di incontrare le
imprese produttive e di sviluppare nuove società miste. Hiriko è un esperimento di social innovation integrato poiché
ha visto la luce grazie alla partecipazione attiva nell’elaborazione di nuovi piani di mobilità, nuovi sistemi di rifornimento, nuovi metodi di produzione e
assemblaggio, nuovi criteri di inclusione lavorativa. Da non confondere con il
design collettivo e partecipato: la responsabilità del terzo settore a partecipare, in modo più o meno istituzionalizzato, ai processi di sviluppo economico
risponde ad un bisogno identitario di
una comunità, capace di tradurre in un
prodotto come Hiriko i concetti di inclusione, riscatto e coesione. 
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 55 |
| moda mortale |
internazionale
REUTERS / ANDREW BIRAJ
Si cerca se c’è qualcosa da salvare, dopo l’incendio
nella manifattura Smart Fashions di Dhaka,
Bangladesh, il 26 gennaio 2013.
Il fuoco ha ucciso almeno sei dipendenti e ha ferito
10 vigili del fuoco e volontari, a soli due mesi
dal più grave incendio mai registrato nel Paese,
che ha ucciso 124 lavoratori
Diritti
Incendi frequenti devastano
le fabbriche tessili del Bangladesh,
e non solo, uccidendo centinaia
di lavoratori. Un prezzo messo
in conto dalle multinazionali
della moda per un sistema
che si avvantaggia economicamente
dall’assenza di tutele
in fumo
di Corrado Fontana
Q
Giordania: il Paese a sovranità necessaria > 61
Israele. L’ago del bilancio > 63
Mauritania. Il Paese schiavo > 64
| 56 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
uasi trecento morti. Questo è il
terribile bilancio di vittime del
rogo che a settembre scorso ha
ucciso la maggior parte dei lavoratori
della Ali Enterprises, una fabbrica tessile
di Karachi, in Pakistan. Forse la tragedia
più grave di tutti i tempi per il settore, ma
che si può definire un caso sporadico,
seppure non casuale, per il Paese. Un caso che si aggiunge però ai tanti altri incidenti simili – troppo simili – registrati soprattutto in Bangladesh, dove l’incendio
con il maggior numero di morti è costato
la vita a 124 lavoratori della Tazreen Fashions (vedi FOTO a pag. 58), alla periferia
della capitale Dhaka, la notte del 24 novembre 2012, ma che segue una serie di
eventi del genere. La tragedia della Ali
Enterprises ha attirato l’attenzione deimedia globali e ha portato centinaia di
persone in piazza per richiedere migliori
condizioni di lavoro. Ma le cause di questi drammi paiono insite nei meccanismi
che mettono la filiera del tessile interna| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 57 |
La filiera del tessile è una
lente sulla globalizzazione,
in cui le multinazionali
– anche se si avvalgono dei
buyers – non ignorano dove
collocano gli ordini
GLOSSARIO
Secondo quel che scrive Treviso Glocal, società
consortile partecipata dalla Camera di Commercio
di Treviso, esistono due diverse tipologie di zone
franche. “Zone franche classiche”, caratterizzate
essenzialmente dall’esonero dei diritti di dogana e,
a volte, da quello delle imposte indirette (qui si trovano
le zone franche commerciali e quelle industriali
d’esportazione, i porti franchi, i magazzini franchi);
e “Zone franche d’eccezione”, dove possono offrirsi
agevolazioni fiscali anche su imposte dirette e tributi
locali, vantaggi finanziari e amministrativi per
le imprese, altri incentivi di natura economica e sociale
(di queste fanno parte le zone economiche speciali,
le zone d’impresa e l’insieme delle zone
di riconversione economica). Ma per dare un’idea dei
vantaggi imprenditoriali concreti che offrono queste
aree leggiamo un documento dell’Istituto italiano per
il commercio estero (Ice) del 2009: «Ci sono
attualmente 36 Zone franche attive o in via di
realizzazione o proposte negli Emirati Arabi Uniti, che
offrono agli investitori i seguenti incentivi:
• Proprietà straniera del 100%
• Nessuna imposta sulle società per 15 anni;
rinnovabile per ulteriori 15 anni
• Libertà di rimpatriare il capitale e il reddito
• Nessuna imposta sul reddito personale
• Completa esenzione dai dazi doganali
• Nessuna restrizione valutaria
• Nessuna lungaggine burocratica
• Nessun problema di assunzione
• Comunicazione moderna ed efficiente
• Infrastruttura all’avanguardia
• Energia abbondante
• Ambiente lavorativo attraente».
| 58 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
| internazionale |
zionale al servizio dei grandi marchi della moda e dei vari intermediari.
Abiti a misura di profitto
«In tutti i Paesi dove sono avvenuti gli
incendi – ci dice Deborah Lucchetti, portavoce di Abiti Puliti, organizzazione italiana che fa parte della coalizione Clean
Clothes Campaign – si assiste a uno
smantellamento delle istituzioni pubbliche di controllo sulle multinazionali e
sulle imprese, o in favore di sistemi privatizzati o senza alcun rimpiazzo: in
Pakistan il governo ha cancellato l’ispettorato del lavoro e sta finanziando le certificazioni commerciali. Tale processo
ha portato, tramite il Registro Italiano
Navale Group (Rina), società di ispezione
accreditata dal Saas (Social Accountability Accreditation Services), a certificare
SA8000 la Ali Enterprises».
Un caso particolare che ben rappresenta, però, i meccanismi del mercato
globale, concepito, strutturato e nutrito
per l’esportazione, incentivato in virtù
della libertà di movimento dei capitali,
sempre a caccia di condizioni di vantaggio, soprattutto fiscale. Uno dei fattori
strategici in questo ambito è, infatti,
quello di poter installare gli stabilimenti
produttivi nelle zone franche per l’esportazione (foreign o free trade zones):
migliaia di aree geografiche perfettamente legali e ben definite sul Pianeta,
DIETRO LA VETRINA: I BUYERS
La filiera del tessile è una lente di ingrandimento sulla globalizzazione.
Il capitalismo si riorganizza in network, che producono diversi anelli nella filiera:
tra il produttore (chi fabbrica il pezzo) e il committente (il marchio) c’è di mezzo
spesso un agente intermediario, i cosiddetti buyers, vere e proprie agenzie o aziende
che lucrano e svolgono il servizio di allocazione degli ordini per i marchi internazionali.
Li&Fung è il più grande intermediario del mondo, gestisce intere catene di fornitura
per numerosi marchi internazionali, tra cui Reebok e Nike, Abercrombie & Fitch,
Marks & Spencer, Wal-Mart, Metro. Molte aziende del settore sono “solo” traders
(in Italia una griffe nota come Piazza Italia, ad esempio): comprano sui mercati
internazionali e spesso non hanno rapporti diretti con il produttore proprio perché
sono piuttosto piccole; tuttavia fanno ingenti fatturati e si avvalgono dei servizi
di questi intermediari, che controllano in parte il mercato della produzione. Aziende
molto grandi come Zara o Wal-Mart hanno invece anche rapporti diretti con
le fabbriche che realizzano i loro capi d’abbigliamento, commissionando ordini che
possono rappresentare anche il 70 o l’80% della produzione di un fornitore, e perciò
esercitando su di esso un ampio controllo e una maggiore responsabilità.
Le multinazionali, anche quando si avvalgono dei buyers, non possono tuttavia
ignorare completamente dove vanno a collocare i propri ordini.
C.F.
JOHANNES HOGEBRINK
| internazionale |
delimitate e orientate dagli investimenti
esteri; luoghi dove si pagano pochissime
tasse e le infrastrutture sono quasi gratis. Ma non solo.
Queste aree sono tanto più appetibili se insediate dove c’è abbondanza di
manodopera a basso costo, dove le norme sulla sicurezza e sui diritti dei lavoratori sono assenti o molto deboli e poco
vincolanti, dove i sindacati non possono
entrare o sono ostacolati alla radice.
Sembra il ritratto del Bangladesh, nella
cui zona franca la portavoce di Abiti Puliti è entrata, sebbene le fosse impedito,
per trovare i militari a sorvegliare le aree
di produzione manifatturiera.
Trappola per topi
Luoghi chiusi e a volte militarizzati, insomma, dove i diritti evaporano all’interno di un sistema che non si accolla i
costi sociali, ma pretende vantaggi fiscali. Anche di questo sistema è figlia la
La strage ininterrotta
Ecco alcuni dei principali incidenti registrati dalla Clean Clothes Campaign nelle fabbriche tessili del Bangladesh
a partire dal 2005.
11 APRILE 2005,
crollo della fabbrica Spectrum
64 morti, almeno 74 feriti, tra cui
diversi lavoratori che hanno subito
invalidità permanenti
Buyers della fabbrica: Inditex (Spagna),
Carrefour, Solo Invest, Cmt Windfield
(Francia), Cotton Group (Belgio),
KarstadtQuelle, New Yorker, Bluhmod
(Germania), Scapino (Paesi Bassi),
New Wave Group (Svezia).
Dettagli dell’incidente: la fabbrica era
costruita in una zona paludosa a rischio
alluvionale a circa 30 km a Nord-Est
di Dhaka. I funzionari della fabbrica
hanno dichiarato che c’erano circa 184
lavoratori nell’edificio per il turno
di notte, ma secondo alcuni dipendenti
la cifra deve essere ricondotta ad almeno
400 persone.
23 FEBBRAIO 2006,
incendio alla KTS Textile
Industries di Chittagong
61 morti, circa 100 feriti
Buyers della fabbrica: Uni Hosiery,
Mermain International, Att Enterprise,
Vida Enterprise, Leslee Scott Inc,
Ambiance, Andrew Scott.
Dettagli dell’incidente: un incendio,
causato da un corto circuito, è scoppiato
quando nell’edificio c’erano 400-500
persone. Tra le vittime anche tre ragazze
di 12, 13 e 14 anni. Al divampare delle
fiamme alcune uscite erano bloccate per
evitare i furti e la fuga dei lavoratori,
e non vi sarebbe stata alcuna
attrezzatura di sicurezza antincendio
nell’edificio.
25 FEBBRAIO 2010,
incendio alla Garib and Garib
21 morti, circa 50 feriti
Buyers della fabbrica: H&M, Otto, Teddy
(brand Terranova), El Corte Ingles, Ulla
Popken, Taha Group (marchio LC Waikiki),
Provera and Mark’s Work Wearhouse.
Dettagli dell’incidente: il fuoco,
apparentemente causato da un corto
circuito, si è sviluppato al primo dei sette
piani dell’edificio e si è propagato
rapidamente per la presenza massiccia
di materiali infiammabili. Gran parte
delle vittime sono morte per il denso
fumo che non ha potuto defluire a causa
della scarsa ventilazione dei locali.
La fabbrica aveva già subito un incendio
l’anno prima, con un morto, e ne subirà
un terzo ad aprile 2010, senza vittime.
3 DICEMBRE 2011,
incendio alla Eurotex
(Continental)
2 morti, 64 feriti
Buyers della fabbrica: Tommy Hilfiger
(di proprietà della società statunitense
Pvh Corp.), Zara (di proprietà della
Società spagnola Inditex), Gap (US),
Kappahl (Svezia), C&A (Belgio) e Groupe
Dynamite Boutique Inc (Canada) direttamente o tramite subappalto.
Dettagli dell’incidente: Jesmin Akter,
20 anni, aiutante, e Taslima Akter, 22 anni,
operaia, sono calpestate a morte dalla folla
in fuga per il panico provocato
dall’esplosione della caldaia al secondo
piano dello stabilimento. Pare che quel
giorno alcuni lavoratori avessero segnalato
tempestivamente un’anomalia nel
funzionamento della caldaia. Le porte
tagliafuoco in fondo alle scale erano chiuse,
contribuendo al sovraffollamento sulle
rampe di una scalinata che poi ha ceduto.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 59 |
| internazionale |
| internazionale | osservatorio medioriente/giordania |
Donne al lavoro in una
fabbrica tessile
di Dhaka, capitale
del Bangladesh.
A pag. 58 la fabbrica
di Tazreen Fashions,
sempre a Dhaka, dove
il 24 novembre scorso
124 lavoratori sono
morti in un incendio
www.abitipuliti.org
www.cleanclothes.org
ABITI PULITI
CONTRO ABITI SPORCHI
La Clean Clothes Campaign
ha 30 anni di storia
di lobbying e di advocacy
(attività di pressione e tutela)
per i lavoratori del tessile
ed è sostenuta da una coalizione di 250
organizzazioni partner in tutto il mondo,
presenti in 17 Paesi europei con coalizioni
nazionali (quella italiana è Abiti Puliti).
L’elemento fondamentale di questa
campagna è aver messo a punto un sistema
di rilevazione dei problemi che parte dal
basso e risulta tanto più efficace per
informare sui casi meno eclatanti di abusi
e incidenti, grazie a una relazione diretta
con i soggetti interessati che si trovano sul
posto. Sul Bangladesh ha un osservatorio
permanente attivo dal 2005, cioè da quando
è scoppiata la prima grande tragedia in una
fabbrica tessile (Spectrum), con 64 vittime
e 74 feriti. La Clean Clothes Campaign ha
come target di influenza il mercato europeo
delle grandi griffe, ma rispetto ai casi più
complessi e di portata globale, che
interessano marchi come Wal-Mart
o il mercato americano, lavora in sinergia
con altre organizzazioni analoghe, come
le statunitensi Wrc (Workers Rights
Consortium) e Ilrf (International Labor Rights
Forum) o la canadese Maquila Solidarity
Network.
C.F.
| 60 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
piaga degli incendi nelle fabbriche bengalesi. Che dura da anni in una delle nazioni più povere del mondo eppure, in
questo momento, vera potenza nel campo del ready made garment, cioè del confezionamento di prodotti di abbigliamento, contrassegnato da uno sviluppo
furioso: 5 mila le società e 3 milioni i lavoratori stimati. Un Paese con un’altissima densità di popolazione (circa 150 milioni di abitanti), ma senza un’industria
“verticale” dove siano presenti tutti i settori strategici, diversamente da Cina e India, dove la
filiera del tessile va invece dal
campo di cotone al prodotto finito, con il segmento manifatturiero della trasformazione collegato a quello agricolo.
In Bangladesh no, c’è solo il confezionamento e migliaia di macchine da
cucire per un lavoro come quello che si
faceva nell’Ottocento in Europa, che ha
reso il Paese secondo esportatore mondiale di abbigliamento (nel 2011 circa
17 miliardi di dollari di merce, corrispondenti all’80% delle esportazioni
complessive della nazione).
Su questa industria si regge perciò
l’economia dello Stato. E sui lavoratori,
precari poverissimi e flessibili, specialmente giovani donne, chiusi dentro i luo-
di Paola Baiocchi
ghi di lavoro, magari con le sbarre alle finestre e le vie di fuga ostruite da pile di
vestiti confezionati, circondate da materiali altamente infiammabili.
«Le fabbriche tessili bengalesi sono
luoghi infernali – specifica Deborah Lucchetti – grandi palazzi da 7-8 piani che
sembrano più che altro delle trappole per
topi. La costruzione verticale in un’azienda produttiva è altamente pericoloso,
tanto più in edifici costruiti senza nessun
tipo di attenzione preventiva agli incendi: qui è normale che tali eventi si verifichino, non si può certo parlare di incidenti! C’è un’industria senza scrupoli, con
proprietari che lavorano per il mercato
internazionale, e che trattano i lavoratori come bestie». 
JOHANNES HOGEBRINK
SITOGRAFIA
Giordania: il Paese
a sovranità necessaria
Collocato nell’area mondiale che più di ogni altra ha subito modifiche
negli ultimi due anni, il Regno Hashemita mantiene a prezzo di ingenti aiuti
internazionali la sua stabilità. Restando alleato importante sia dei Paesi
Arabi, che degli Stati Uniti e dell’Europa
l 23 gennaio si sono svolte le elezioni
in Giordania. Nel Regno Hashemita si
è votato per rinnovare il Parlamento,
quando si erano appena chiuse le urne
per le legislative nel vicino Israele (vedi
ARTICOLO a pag. 63). Ma chi ha voluto sapere
qualcosa sul nuovo Parlamento giordano
ha dovuto cercare in internet o sui media
stranieri. Strano, però, non trovare interessante la tornata elettorale nel piccolo
regno che si incunea tra Siria, Iraq, Arabia
Saudita, Egitto, Israele e i territori occupati della Cisgiordania. Al di là della collocazione della Giordania nella zona del
mondo che più di ogni altra ha subito modifiche nel corso degli ultimi due anni,
erano le loro prime votazioni dopo gli avvenimenti nordafricani che vanno sotto il
nome di “primavere arabe” e presentavano anche una singolare serie di coincidenze con la situazione italiana: in primo luogo perché anticipate.
I
Re Abdallah II le aveva convocate a
ottobre, dopo tre rimpasti di governo in
tempi ravvicinati, in risposta alle manifestazioni di piazza contro il taglio dei sussidi per i carburanti. Più un’operazione
“cosmetica” che di reale ascolto del Paese,
secondo il principale partito d’opposizione, il Fronte di azione islamico, braccio politico della Fratellanza musulmana, che
aveva invitato al boicottaggio perché il
meccanismo elettorale garantirebbe un
sostegno blindato alla monarchia, grazie
ai membri del Senato, scelti direttamente
dal re, e al maggiore peso dato alle zone
rurali rispetto alle città, dove sarebbero
maggioritari i simpatizzanti del movimento e i giordani di origine palestinese.
Presentata
una lista “Saddam Hussein”
Sorprendentemente coincidente con la situazione italiana era, poi, l’abbondanza dei
simboli presentati alla registrazione: 61 il
numero dei diversi partiti e liste, che si sono aggiunti ai 30 già esistenti. Con un totale di 1.522 candidati: 824 (tra questi 88 donne) in lizza per 27 posti sui 150 della Camera
bassa. Gli altri 698 (196 donne) si sono presentati, invece, per i restanti 123 posti assegnati su base locale. Tra le liste presentate
quella intitolata al defunto leader iracheno, Saddam Hussein, ha dovuto cambiare
intestazione perché la Commissione elettorale ha vietato l’uso di nomi di persone o
di regioni, per evitare lo sviluppo di faziosità locali o tribali. O più probabilmente
per evitare frizioni con Iraq e Kuwait.
Secondo gli osservatori internazionali le operazioni di scrutinio si sono
svolte in modo regolare e, secondo la
Commissione elettorale indipendente
appena istituita, ha votato il 56,69% degli aventi diritto, un milione e 228 mila
persone su quasi quattro milioni.
Le elezioni hanno sostanzialmente
confermato re Abdallah II, anche se sono
entrati in Parlamento 18 deputati legati
alla Fratellanza, una decina di islamici
moderati e alcuni candidati di sinistra
del movimento panarabo.
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 61 |
A doppio filo con le istituzioni
finanziarie globali
Il mantenimento della stabilità in Giordania è tutt’altro che garantito, stretta
com’è tra il suo ingombrante vicino
Israele e il conflitto siriano, che ha rovesciato sul suo territorio almeno 163 mila
profughi, secondo le stime Onu di gennaio. E costa al piccolo regno una grande
attività relazionale in cui gioca un ruolo
importante anche la bella regina Rania.
Vessillo del cosmopolitismo arabo e del
rinnovamento nei costumi (ha anche un
canale Youtube ufficiale www.youtube
.com/user/QueenRania), Rania è una palestinese nata in Kuwait, che ha studiato
all’Università americana del Cairo e ha
lavorato nella sede giordana della Apple,
prima di essere uno dei membri fondatore del World Economic Forum che ogni
anno si riunisce a Davos.
L’alto costo sociale ed economico della
stabilità in Giordania viene mantenuto
dagli aiuti internazionali, richiesti dallo
stesso sovrano soprattutto ai vicini Paesi
del Golfo, che hanno garantito un sostegno decisivo alle finanze pubbliche. Nel
2011 Riad ha concesso aiuti per 1 miliardo
di euro circa e il Consiglio di Cooperazione
del Golfo ha messo a disposizione 2,5 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni.
Anche il Fondo monetario internazionale ha previsto un prestito di 2 miliardi
| internazionale | elezioni/israele |
IL PAESE IN CIFRE
Nome: Regno Hashemita di Giordania
Forma di governo: monarchia costituzionale
Indipendenza: 25 maggio 1946, dall’amministrazione britannica
su mandato della Società delle nazioni
Costituzione: 8 gennaio 1952
Capitale: Amman
Difesa e giustizia: il sistema giudiziario si basa sulla legge
coranica, con influenze del diritto europeo continentale.
È in vigore la pena di morte
Popolazione: 6.508.887 (stima luglio 2012)
Mortalità infantile: 15,83 morti/1.000 nati
Speranza di vita: (anni) 80,18 totale; 78,82 maschi;
81,61 femmine (stima 2012)
Età media: (anni) 22,4 totale; 22 maschi; 22,7 femmine
Tasso di disoccupazione: medio 11,4 (marzo 2012);
femmine 18%; maschi 10%
Gruppi etnici: arabi 98%; circassi 1%; armeni 1%
Religione: musulmana sunnita 92%; cristiani 6% (per la maggioranza greco-ortodossi, ma anche
cattolici, ortodossi siriani, copti, armeni apostolici e protestanti), 2% sciiti e drusi
Unità monetaria: dinaro giordano
Pil: 27.527 mln Usa $
Pil/ab: 4.500 Usa $ (2010)
di dollari, in cambio di riforme economiche che difficilmente potranno essere
realizzate senza presentare un conto “lacrime e sangue” alla popolazione, visto
che alla non facile situazione si sono aggiunte anche le valutazioni al ribasso delle agenzie di rating, la riduzione del gas
proveniente dall’Egitto, e il fatto che una
delle risorse più importanti della Giordania, il turismo, è sofferente per il vicino
conflitto siriano e l’instabilità regionale.
Potrebbe, invece, arrivare una boccata di ossigeno da nuovi investimenti esteri attirati dalla scoperta di significativi
giacimenti di uranio e da importanti depositi di argille bituminose (oil shale), che
aggiungerebbero un appeal energetico alla Giordania, finora povera di materie prime se si escludono fosfati e potassio.
Sempre che non diventino la goccia
che fa traboccare il delicato vaso giordano. 
UNA GRANDE STORIA PER UN PICCOLO PAESE
Situata nella Mezzaluna fertile, culla dell’umanità, la Giordania
ha un territorio formato in gran parte da deserti e ampi
altopiani. Jerah, Karak, Madaba sono importanti siti
archeologici e l’antica città di Petra è considerata una delle
sette meraviglie del mondo da visitare.
Dopo la dissoluzione dell’impero Ottomano il territorio è stato
amministrato dai britannici, su mandato della Società delle
nazioni. Il Paese ha ottenuto l’indipendenza nel 1946, con il nome
di Transgiordania, e ha assunto il nome di Giordania dopo
l’annessione della Cisgiordania nel 1949. La Cisgiordania è stata
poi occupata nel 1967 da Israele e dal 1988 la Giordania
ha rinunciato a ogni legame amministrativo. Nel 1994 re Hussein
ha firmato un trattato con l’allora premier israeliano Rabin per
la demarcazione dei confini e la spartizione delle risorse idriche
dello Nahr al-Yarmuk e del Giordano. A partire dal 1989 sono state
istituite le elezioni ed è stata avviata una graduale liberalizzazione
politica, che ha visto la legalizzazione dei partiti nel 1992.
| 62 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
Re Abdallah II è succeduto al padre Hussein alla sua morte,
nel 1999; da allora la Giordania ha aderito al World Trade
Organization nel 2000 e alla European Free Trade Organization
nel 2001. Nel 2003 la Giordania ha fatto parte della coalizione
raccolta attorno agli Usa per l’offensiva contro l’Iraq di Saddam
Hussein, accogliendo poi migliaia di profughi iracheni.
A partire dal gennaio 2011, a seguito dei disordini in Tunisia
e in Egitto, si sono susseguite le manifestazioni di piazza
ad Amman e nelle principali città della Giordania, per ottenere
riforme politiche e contrastare l’aumento dei prezzi,
la disoccupazione, la povertà e la corruzione dilagante.
In risposta re Abdallah ha sostituito il primo ministro e formato
due Commissioni: una per la riforma elettorale e una per
le riforme costituzionali, poi approvate nel settembre del 2011.
È stata istituita anche una Commissione elettorale indipendente,
operativa nelle elezioni di gennaio. Ma per l’opposizione le riforme
non sono sufficienti per limitare l’autorità del re.
Pa.Bai.
FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE SU DATI CIA – THE WORLD FACTBOOK 2012, ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI, OCSE
| internazionale |
L’ago
del
bilancio
di Paola Baiocchi
L’avanzamento dell’estrema destra
è stato più contenuto del previsto:
nel rinnovo del Parlamento israeliano
vince di misura l’alleanza Likud-Yisrael
Beiteinu, riconfermando Netanyhau.
A sorpresa il secondo è Yesh Atid,
un partito fondato appena un anno
fa da un noto personaggio televisivo
on nove mesi di anticipo rispetto
alla scadenza naturale di ottobre, il 22 gennaio si sono svolte le
elezioni per il rinnovo della Knesset, il
Parlamento israeliano.
Il primo ministro Benjamin Netanyhau
le aveva convocate giocando in contropiede, di fronte alla difficoltà a far approvare un bilancio molto criticato dall’opinione pubblica, perché colmo di pesanti
tagli. Le previsioni lo davano vincente e
così è stato, anche se di poco: l’alleanza
tra Likud e Yisrael Beitenu (in ebraico
“Israele, casa nostra”) guidata dal premier uscente, è il primo partito con 31 seggi. La vera sorpresa uscita dalle elezioni,
invece, è stata il partito Yesh Atid (“C’è un
futuro”), costruito in un anno da Yair Lapid, che ha conquistato dal nulla 19 seggi,
diventando la seconda componente e l’ago della bilancia negli equilibri tra partiti
di destra e confessionali ebrei e quelli di
centrosinistra e arabi.
Yesh Atid si presenta come un partito centrista moderato, che nei temi della
campagna elettorale ha puntato sia all’eliminazione dei privilegi di cui godono
gli ultraortodossi della destra religiosa, a
partire dall’esenzione al servizio milita-
C
re. Sia alla necessità della ripresa delle
trattative con i palestinesi, per raggiungere l’obiettivo dei “due popoli, due Stati”. Ma con Israele che conserva tutte le
colonie in Cisgiordania.
Il “fattore Banderas”
Yesh Atid ha letteralmente vampirizzato Kadima: il partito centrista, fondato
dopo aver lasciato il Likud nel 2005 da
Ariel Sharon, ha perso 24 parlamentari
su 26. Il partito fondato da Lapid ha raccolto consensi dalla classe media, che lo
ha votato con la logica “è il meno peggio”
e perché ha promesso il miglioramento
del sistema educativo, più sicurezza e la
soluzione del problema abitativo con la
costruzione di nuove case. Nulla di nuovo per la politica israeliana, quindi, ma
Yesh Atid è un fenomeno che anche a noi
italiani ricorda qualcosa di già vissuto: è
un partito immagine, costruito attorno
alla figura del suo inventore Yair Lapid,
49 anni, amico dei banchieri che contano
e figlio della scrittrice Shulamit Lapid e
di Tommy Lapid, giornalista molto conosciuto e ministro della Giustizia nel 2003.
Oltre ai genitori famosi, gli osservatori dicono che ha giocato a suo vantaggio
anche il “fattore Banderas” – nel senso
dell’attore molto apprezzato dal pubblico
femminile – che già era stato invocato per
Alexis Tsipras, rappresentante della coalizione greca Syriza. Ma ha contribuito
molto anche la sua grande familiarità
con le telecamere, perché Yair Lapid ha
lavorato in televisione sia come attore in
commediole romantiche (si trovano in
internet e sono parecchio ridicole), sia come giornalista e conduttore di trasmissioni molto popolari, a conclusione di
una carriera cominciata come corrispondente militare per il settimanale dell’esercito israeliano “Ba-Mahaneh” (“Nell’accampamento”).
La valvola della pressione
La lista di estrema destra di Naftali Bennett non ha ottenuto l’exploit atteso, ma
ha sottratto voti alla coalizione LikudYisrael Beitenu. Nel nuovo governo formato da Netanyahu, la lista centrista di
Lapid potrebbe ora svolgere la funzione
della valvola nella pentola a pressione,
così come è già accaduto con Kadima: dopo aver ottenuto qualche rivendicazione
contenuta nel suo programma elettorale, potrebbe dare il suo appoggio all’approvazione del bilancio zeppo di quei tagli che vanno sotto il nome di austerità.
Agendo così più da “ago del bilancio” che
della bilancia. E intanto potrebbe lasciar
passare la costruzione dei nuovi insediamenti a Gerusalemme Est, annunciati da
Israele dopo il riconoscimento Onu alla
Palestina di Stato osservatore.
A conclusione della tornata elettorale, Israele ha lanciato un attacco con dodici caccia contro il centro ricerche di
Jamraya, alla periferia della capitale siriana. Mentre, nell’accettare l’incarico per
la formazione del nuovo governo, Netanyahu ha ribadito la necessità di impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari.
Con queste premesse, i tempi della moderazione sembrano molto lontani. 
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 63 |
| internazionale |
Mauritania
Il Paese schiavo
di Valentina Picco
Dichiarata illegale nel 2007, la schiavitù esiste ancora nello Stato
africano. Anche se molti giovani non hanno provato cosa vuol dire, vivono
ancora in una condizione di marginalizzazione a causa della loro discendenza
ivere significa innanzitutto conoscere che la vita è un diritto,
non un dovere verso qualcun altro. Esistono persone che nel 2013 non
conoscono questa verità. Esistono persone nel mondo che ogni mattina si alzano e pensano di dover giustificare la pro-
V
pria esistenza annullando il proprio io
nell’io di qualcuno che si definisce – e che
essi stessi definiscono – un padrone.
In Mauritania ancora oggi la schiavitù è il diritto di usare e abusare dei servizi di una persona, che non può disporre liberamente della propria volontà.
Allo sfruttamento economico si aggiunge una mentalità di esclusione e disprezzo che permette il protrarsi di relazioni
di completo assoggettamento.
Lo schiavo è un essere privato della
sua persona, viene considerato come un
bene ed è incluso nel patrimonio del padrone, allo stesso modo di un bene mobile o immobile. Questa aberrante situazione perdura ancora oggi a causa del
particolare tipo di organizzazione sociale del Paese, basato sul sistema delle caste. Il fenomeno è trasversale alle diverse etnie che lo popolano e si concretizza
in un insieme di norme, istituzioni sociali, pratiche culturali che permettono l’instaurarsi di relazioni sociali complementari, interdipendenti e, allo stesso tempo,
subordinate tra le varie caste. Ognuna
ha una funzione ben determinata, un
rango sociale e delle prerogative definite
dalla tradizione. Il sistema si basa sulla
fornitura di prestazioni e contro-prestazioni. Ciascun individuo nasce in una casta che ne determina lo statuto e il prestigio sociale rimanendo una frontiera
insuperabile.
Libero chi paga
In Mauritania la schiavitù è stata dichiarata illegale nel 2007, grazie all’approva-
CASTE E TRADIZIONI NATE DAL SINCRETISMO CULTURALE
La società mauritana è una realtà complessa, caratterizzata
da una popolazione divisa in due componenti etnico-sociali
distinte: quella negro-africana e quella arabo-berbera.
I gruppi etnici negro-africani, Wolof, Sonninké e Poular, hanno
abitato da soli in Mauritania dalla preistoria fino all’arrivo
dei berberi nel terzo secolo avanti Cristo. Strettamente
imparentati con le altre etnie dell’Africa Occidentale, queste
tribù sono ancora oggi composte soprattutto da popolazioni
sedentarie, per la maggioranza agricoltori che abitano
la parte meridionale del Paese, più fertile e accogliente.
Imparentata con le popolazioni del Maghreb e del vicino
Oriente, la comunità Maura Bidhaan (bianca) è nata invece
dall’incontro tra gli autoctoni berberi dell’Africa del Nord
e una parte di popolazione araba proveniente dalla penisola
arabica nel decimo secolo dopo Cristo. I Mauri occupano
la parte settentrionale del Paese e discendono dai nomadi
del deserto. La loro ricchezza attuale affonda le radici nello
sfruttamento della schiavitù a cui hanno assoggettato per
secoli le popolazioni negro-africane utilizzate soprattutto
| 64 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
zione di una legge nazionale arrivata
duecento anni dopo l’abolizione della
stessa da parte degli imperi coloniali e
quasi sessant’anni dopo la Dichiarazione
universale dei diritti dell’Uomo. Incredibile, ma vero.
Prima di questo momento, la pratica
della schiavitù era stata messa in discussione solo nel 1981 quando, sotto la spinta
di violente manifestazioni di piazza, l’allora Comitato militare, presieduto dal luogotenente colonnello Mohamed Khouna
Ould Haidalla, fu costretto a promulgare
una prima legge, in seguito alla consultazione con le cariche religiose del Paese.
Gli Oulema decretarono quindi una
fatwa che prevedeva l’annullamento dello stato di schiavo in cambio di un indennizzo in favore del padrone. Questa legge
fu naturalmente accolta più come un affronto che come un cambio di paradigma, una legittimazione della pratica piuttosto che un suo ripudio: essa prevedeva,
infatti, che lo schiavo (per statuto privo
di qualunque risorsa economica) rimborsasse il suo padrone per il danno economico che procurava nel venir meno alla
sua prestazione di manodopera.
per l’allevamento di cammelli e ovini, ed è oggi alimentata dal
controllo delle risorse petrolifere del Paese e da una salda
supremazia politica.
I rapporti storici tra Mauri e Neri e la domanda di schiavi hanno
prodotto nel tempo nuove configurazioni sociali e ricomposizioni
etniche. La lenta assimilazione dei neo-arrivati, confinati al fondo
della stratificazione sociale, è all’origine della più popolosa etnia
mauritana: gli Haratine (“servitori”, nella lingua hassanya,
il dialetto arabo della Mauritania), caratterizzati
dall’appartenenza razziale negro-africana ma anche
dall’appartenenza linguistico-culturale arabo-berbera.
La storia delle comunità etnico-culturali della Mauritania,
sia quelle sedentarie che quelle nomadi, è un alternarsi di aspri
conflitti e di momenti di grandi riconciliazioni che hanno
influenzato fortemente tutte le culture. Il sistema delle caste,
alcune tradizioni architetturali, alimentari, di abbigliamento
e musicali del Paese sono, infatti, frutto di un forte sincretismo
culturale. Anche la religione musulmana, praticata inizialmente
dai Mauri, è presto stata adottata da tutte le tribù nere.
V.P.
Schiavitù di fatto
Oggi la popolazione mauritana è composta da una grande maggioranza di
giovani che non hanno provato direttamente sulla loro pelle la schiavitù pura,
ma che vivono comunque una condizione di forte marginalizzazione e sono oggetto di disprezzo e pregiudizi a causa
della loro discendenza. Ci sono però ancora molti schiavi mauritani, soprattutto nelle campagne, che ignorano ancora
oggi che la schiavitù sia stata abolita.
Lo schiavismo è una pratica concreta,
silenziosa, massiva e pervasiva. Le persone che la subiscono vivono uno stato di
alienazione costante – ideologica, economica e politica – che fino a ieri ha impedito alla società civile di organizzarsi per
combatterla. La garanzia di un’effettiva
protezione dei diritti umani di un popolo
nasce, infatti, dalla consapevolezza che il
popolo assume nell’aderire e nel partecipare alle decisioni che lo concernono, favorendo i processi di pace e di coesione
sociale.
IL PAESE IN CIFRE
Nome: Mauritania
Forma di governo: repubblica
Capitale: Nouakchott
Unità monetaria: ouguiya
Popolazione: 3.365.675 (stima 2010)
Mortalità infantile: 74 morti/1.000 nati
Speranza di vita: (anni) maschi 55,3;
femmine 59,3 (2010)
Gruppi etnici: Mauri 81,5%; Wolof 6,8%;
Toucouleur 5,3%; Serahuli 2,8%; Fulbe 1,1%;
altri 2,5%
Religione: musulmani sunniti 99,3%; cristiani
0,3%; altri 2,5%
Pil: 3.799 mlm $ Usa
Pil/ab: 1.195 $ Usa
Indice di sviluppo umano: 0,433 (136° posto)
La situazione sta finalmente cambiando: la società civile, guidata da movimenti come El Hor (“libertà” in hassanya)
e da organizzazioni non governative locali come Sos ésclaves, da anni resiste ai tentativi di oscuramento politico e mediatico
messi in atto dall’élite maura e diffonde
nel Paese una forte spinta verso il cambiamento, aiutata dalle mutate condizioni storiche e politiche della regione saheliana di cui fa parte la Mauritania.
Un ostacolo allo sviluppo
Il perpetrarsi di una mentalità schiavista non è solo un costante attentato ai
diritti umani fondamentali (come il diritto alla dignità personale, al lavoro, alla sicurezza, alla protezione familiare, all’uguaglianza), ma è anche un freno reale
allo sviluppo del Paese e al suo ingresso
sulla scena mondiale. I rapporti feudali e
FONTE: NOSTRA ELABORAZIONE SU DATI CIA – THE WORLD FACTBOOK 2012, ISTITUTO GEOGRAFICO DE AGOSTINI
| internazionale | africa tra vecchio e nuovo |
CONQUISTARE LA LIBERTÀ
Il primo Paese del mondo a conquistare
l’indipendenza dalle colonie europee
e ad abolire la schiavitù sul suo territorio
è stata Haiti. Grazie alla vittoria sulle
truppe napoleoniche del generale
Leclerc, è diventata, nel gennaio 1804,
il primo Stato indipendente con
popolazione nera del mondo.
Il primo Paese europeo a proibire
la tratta degli schiavi è stata invece
l’Inghilterra, il 25 marzo 1807, quando
il Parlamento ha approvato lo Slave
Trade Act, che è entrato in vigore il primo
gennaio 1808. Una legge decisiva per
innescare un processo che ha portato,
nel giro di dieci anni, all’abolizione
a livello formale/istituzionale della
schiavitù nelle altre potenze coloniali:
Francia, Spagna, Portogallo.
Antica colonia francese, la Mauritania
ottiene l’indipendenza il 28 novembre
1960, ma sotto l’effetto dell’euforia
della nuova condizione, “dimentica”
di affrontare il problema della
stratificazione sociale regolata dal
sistema di caste che la caratterizza
e che è ancora oggi giustificazione
del perdurare della pratica della
schiavitù.
V.P.
semi feudali a cui si àncora il sistema
schiavista sono un ostacolo allo sviluppo di un’economia di mercato libera, alla
quale ormai aspirano differenti forze sociali nuove del Paese, nelle campagne e
nelle città: in particolare la classe di uomini d’affari e quella dei proprietari di
imprese, attirate da settori di produzione sempre più interessanti, come l’ idroagricolo nella valle del Senegal, ma male
accolte dal contesto sociale inadeguato
all’innesto di un capitalismo nazionale.
Forse la Mauritania non potrà prescindere da un momento di frattura e di
rivendicazione da parte di coloro che hanno subito per secoli. La speranza, però, è
che la legittima rabbia possa essere convertita in azioni propositive, in una nuova spinta alla negoziazione e al riconoscimento dell’importanza dei diritti umani
per la libertà di ciascuno. 
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 65 |
| equocommercio |
Un sostegno ai produttori
Fairtrade
e i cambiamenti climatici
iamo abituati a pensare ai cambiamenti climatici sopraffatti dalle immagini dei telegiornali sugli uragani che devastano i territori oltreoceano o sulle carestie che colpiscono i già martoriati popoli dell’Africa subsahariana. Ma le conseguenze del climate change sono anche attorno a noi:
negli inverni miti e nelle estati torride che devastano le nostre campagne;
S
a cura di Fairtrade Italia
nell’innalzamento dei prezzi delle materie prime alimentari sul mercato internazionale, che si ripercuote sulle
nostre tasche. Gli effetti dei cambiamenti climatici sono vissuti dagli agricoltori e dai consumatori di tutto il
mondo, ma in particolare nelle zone
più povere, meno “attrezzate” ad attutirne le conseguenze.
Il quarto Rapporto di valutazione
(Fourth Assessment Report) dell’Ipcc
(International Panel on Climate Change) ha sottolineato che «le condizioni
climatiche stanno diventando sempre
più estreme». Da un lato l’aumento
delle temperature, la diminuzione delle precipitazioni alle latitudini subtropicali, la riduzione delle riserve
d’acqua, la desertificazione, gli incendi
spontanei. E, dall’altro, l’aumento del
livello dei mari e delle precipitazioni
alle altitudini maggiori, inondazioni,
cambiamenti nelle dinamiche di esondazione dei fiumi. Secondo le proiezioni il numero di catastrofi naturali triplicherà entro il 2030.
Per il Global Humanitarian Forum circa 325 milioni di persone sono
colpite dagli effetti dei cambiamenti
climatici ogni anno. E questo numero
è destinato a raddoppiare entro i
prossimi vent’anni. E i più esposti sono i Paesi in via di sviluppo.
mento climatico. La Fao ha stimato
che oltre un miliardo di persone ha
sofferto la fame nel 2009 (la maggior
parte di queste vive nei paesi in via
di sviluppo) contro i 923 milioni del
2008. Si pensa che il cambiamento climatico da solo sia stato la causa della fame e malnutrizione di 45 milioni
di persone.
Cosciente delle difficoltà vissute
dai propri produttori, Fairtrade International, l’organizzazione che stabilisce gli standard per i prodotti certificati Fairtrade, ha elaborato un
programma dedicato al supporto ai
produttori che fornisce servizi generici e sviluppa progetti regionali specifici per prodotto, sostenendo gli agricoltori in questa nuova sfida. «Nei
nostri villaggi stiamo vivendo in prima persona gli effetti del cambiamento climatico», racconta Chief Adam
Tampuri, produttore e presidente di
Fairtrade Africa. «Stiamo vedendo strani insetti che non abbiamo mai visto
prima. Abbiamo usato parte del Fairtrade Premium per avviare alcuni progetti di adattamento, come l’acquisizione di piante resistenti alla siccità e
la ristrutturazione dei tetti delle nostre case per affrontare le piogge torrenziali». (Per maggiori informazioni:
www.fairtradeitalia.it)
Il climate change colpisce
soprattutto il Sud del
mondo. I contadini pagano
enormi conseguenze
economiche. Un aiuto
dall’ente certificatore
Ovunque nel mondo si stanno verificando ingenti perdite economiche:
si stima che fino al 2007 siano stati
persi 125 miliardi di dollari. Un altro
studio finanziato dall’agenzia tedesca
per la cooperazione internazionale
(Giz) mostra che, a livello globale, i
contadini perderanno nei prossimi 15
anni fino al 90% dei loro introiti pur
avendo beneficiato meno di tutti dello sviluppo industriale e della crescita
economica che ha causato il cambia-
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 67 |
| LASTNEWS |
altrevoci
BIG PHARMA
SCOMMETTE SULL’AFRICA
SVIZZERA, TRE “ISOLE SOLARI”
NEL LAGO DI NEUCHÂTEL
HTTP://EN.WIKIPEDIA.ORG
Finora l’industria farmaceutica in Africa è stata attiva quasi solo per contrastare il dilagare di malaria o Hiv.
Ma i colossi del farmaco iniziano a guardare con interesse al mercato africano, che nei prossimi anni
potrebbe giocare un ruolo strategico. Cresce, infatti, la quota di popolazione che vive in città e può
permettersi cure anche costose. E le società europee non stanno a guardare: è il caso di Sanofi, pronta
ad aprire il terzo stabilimento in Algeria. Stando all’Ims, entro il 2016 la spesa farmaceutica in Africa
raggiungerà i 30 miliardi di dollari, con un tasso di crescita annuo del 10,6%, secondo solo all’Asia.
Entro il 2020 il volume del mercato sarà quasi raddoppiato, raggiungendo i 45 miliardi. E sarà incentrato
sulla cura di cardiopatie, tumori, diabete e disturbi ai polmoni, che secondo la Banca mondiale entro il 2030
rappresenteranno il 46% dei decessi nell’Africa subsahariana, contro il 28% del 2008. Big Pharma dunque
punterà sull’Africa quando assisterà al rallentamento delle attuali economie emergenti.
Ma il Continente resta spaccato in due: da un lato le grandi città in cui vive una classe media sempre più
numerosa, dall’altro le aree rurali più povere in cui i servizi sanitari ancora scarseggiano. E le multinazionali
avranno a che vedere con vuoti normativi, corruzione e carenza di infrastrutture. Senza contare
la concorrenza dei medicinali a basso costo importati dall’India o dalla Cina.
[V.N.]
IL TRATTATO DI MINAMATA
METTE AL BANDO IL MERCURIO
I NUOVI CAPITALISTI
DI PYONGYANG
Si chiama Convenzione di Minamata il primo trattato
Onu vincolante sulla riduzione dell’uso e delle emissioni
di mercurio. Approvato a Ginevra il 19 gennaio scorso
da 147 nazioni, verrà ratificato a ottobre proprio nella
cittadina giapponese che ne porta il nome, ma che
è soprattutto conosciuta per la malattia di Minamata,
la complessa sindrome neurologica causata
da intossicazione acuta da mercurio, che porta alla
morte nel giro di poche settimane e può essere
trasmessa al feto durante la gravidanza.
La malattia ha avuto questo nome nel 1956, quando
la scienza ha stabilito la correlazione tra le morti
e le malformazioni e lo sversamento da parte della fabbrica
Chisso nel fiume, e quindi nella Baia di Minamata, delle
acque reflue della lavorazione dell’acetaldeide, che avevano
provocato l’inquinamento da metilmercurio. Quest’ultimo
si forma in ambienti aquatici, dove entra nella catena
alimentare e viene “biomagnificato”: ad ogni passaggio
della piramide alimentare dal basso verso l’alto,
la concentrazione nell’organismo cresce. Frutto di un lungo
percorso di negoziati, la Convenzione affronta i diversi
temi dall’estrazione del metallo fino allo stoccaggio
e alla messa in sicurezza dei rifiuti. E tratta anche della
tutela delle popolazioni a rischio. Le principali fonti
industriali di metilmercurio sono legate al trattamento
dei rifiuti e alla combustione di carbone.
[PA.BAI.]
Ambizioso membro del club nucleare e ultimo baluardo
dello stalinismo, la Corea del Nord rappresenta tuttora
un esempio unico di immutabilità sociale. Ma anche
nel cuore della società più isolata e repressa del mondo
potrebbero aprirsi spiragli di cambiamento. Grazie
all’iniziativa privata. In principio, ha raccontato a
febbraio l’Economist, era il mercato nero, rischiosissima
attività avviata negli anni ’90 per contrastare la carestia
che affliggeva il Paese. Ma chi vent’anni fa si limitava
a smerciare generi di prima necessità sembra operare
oggi a un livello molto più elevato. Sono i nuovi ricchi
del Paese, specializzati nell’esportare illegalmente
materie prime in Cina per introdurre beni di consumo
in Corea. Per qualche tempo il regime li ha perseguitati,
ma la corruzione ha tenuto lontano le sanzioni e oggi
è la stessa economia del Paese a non poter più fare
a meno di loro. «L’industria funziona così male
– ha sottolineato il settimanale – che i grandi edifici
di Pyongyang non possono essere costruiti senza
le forniture offerte da questi stessi trafficanti».
Insomma, non saremo ancora nella Cina di Deng
Xiaoping, il padre del transizione al mercato, ma forse
anche all’ombra di Kim Jong-un qualcosa sembra
muoversi.
[M.CAV.]
| 68 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
Due società svizzere, la Viteos e la Nolaris, costruiranno tre isole artificiali nel lago di Neuchâtel,
completamente ricoperte di pannelli solari che – grazie ad un investimento di 80 milioni di euro –
consentiranno di produrre più di 80 milioni di kWh in dieci anni. Ma non si tratta solo di un modo
per sfruttare l’energia pulita. Quello di Neuchâtel sarà un vero e proprio laboratorio: «Potremo
testare gli effetti dell’umidità, dell’erosione del vento, delle onde, nonché di neve e gelo su questo
tipo di impianti», ha spiegato al magazine Enerzine Philippe Burr, direttore tecnico di Viteos.
Le piattaforme avranno un diametro di 25 metri, e faranno galleggiare sull’acqua 300 celle
fotovoltaiche, che seguiranno il sole nel cielo, grazie a un sistema che permette alle isole di girare
per 220°. Le strutture, inoltre, saranno prodotte in PVC: saranno così leggere, minimizzando
l’impatto ecologico in termini di trasporto e di successivo riciclaggio.
Non si tratta dell’unica novità nel campo della ricerca. L’istituto di Microtecnica della Scuola
politecnica di Losanna, utilizzando l’1% della materia prima necessaria per la costruzione
dei pannelli oggi più diffusi, ha costruito celle che garantiscono un rendimento del 10,7%.
I ricercatori svizzeri hanno così battuto il record, fissato nel 1998 dalla giapponese Kaneka Corp.
[A.BAR.]
PER LE IMPRESE SOSTENIBILI
C’È L’UFFICIO DI SCOLLOCAMENTO
Le conseguenze della crisi sul mondo imprenditoriale
italiano sono molto concrete: in questi anni abbiamo
imparato a conoscerle bene. Se le difficoltà continuano
a farsi sentire, ripensare radicalmente alla propria
attività può essere una strada obbligata, ma anche
un’opportunità da cogliere. Proprio a chi vuole cambiare
si rivolge l’Ufficio di Scollocamento, lanciato ormai
un anno fa dall’associazione Paea, che inaugura
un nuovo filone dedicato agli imprenditori. Il primo
incontro si terrà dal 5 al 7 aprile al PeR, il Parco
dell’energia rinnovabile in provincia di Terni. Si parlerà
di come reinventare nel segno della sostenibilità
la propria impresa, adeguandola alla crescente
sensibilità per l’ambiente e riconvertendola alla
produzione di prodotti più utili, sani, rispettosi
del territorio e delle persone. E mettendo da parte
quell’idea di business fine a se stesso che è sfociata
nella crisi che stiamo vivendo. Per informazioni,
http://scollocamento.ilcambiamento.it/imprenditori/
[V.N.]
SE GLI OPERATORI DI BORSA
SI AMMALANO DI SCOMMESSE
TTF, BRUXELLES PRESENTA
IL TESTO DELLA DIRETTIVA
CINA, IL GOVERNO PUNTA SU
POCHI COLOSSI INDUSTRIALI
Tra una previsione sull’andamento di un indice
e una valutazione sui titoli del debito spagnolo, i trader
finanziari scandiscono la loro giornata in una perenne
scommessa con il mercato. Ma l’eccessiva abitudine
al rischio può trovare sfogo per qualcuno di loro in una
dimensione parallela e densa di analogie: il gioco
d’azzardo. «Se una sera vi doveste recare presso
un incontro della Gamblers Anonymous, potreste trovare
un banchiere della City che scoppia in lacrime per tutto
il denaro che ha appena perso», ha raccontato
al Financial Times un trader 29enne capace di perdere
200 mila sterline giocando a Blackjack on-line.
Il fenomeno è inquietante, ma ancora largamente
sommerso. «All’incirca solo l’1% dei trader con problemi
del genere si fa avanti», sostiene uno di loro.
Particolarmente deleteria l’abitudine allo spread betting ,
le scommesse finanziarie offerte dalle agenzie ad hoc,
in cui si punta sull’andamento dei mercati come fossero
corse di cavalli o partite di calcio. Le operazioni sono
virtuali (non si acquistano titoli o prodotti finanziari),
ma i soldi sono veri. Al pari delle perdite. Lo spread
betting è formalmente proibito ai dipendenti di molte
banche. Ma le regole, spiega uno scommettitore,
«sono incredibilmente facili da aggirare».
[M.CAV.]
Lo scorso 14 febbraio è stata presentata a Bruxelles
la direttiva europea con la quale la Commissione chiede
l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie
(Ttf). Destinatari, gli 11 Paesi che hanno aderito alla
cooperazione rafforzata. L’organismo esecutivo
comunitario sottolinea in particolare – e a chiare lettere –
gli obiettivi della misura: far partecipare in modo giusto
il mondo della finanza ai costi della crisi, ed evitare
la frammentazione dei mercati interni nelle transazioni
finanziarie. Quanto alle modalità attraverso le quali la tassa
dovrà essere applicata, la Commissione propone regole
che la campagna ZeroZeroCinque – che da anni si batte per
l’introduzione dell’imposta – ha accolto con soddisfazione.
In particolare, si richiama all’utilizzo di un “principio
di emissione” dei titoli oggetti di tassazione, che aggiunto
al “principio di residenza” di chi effettua la transizione,
evita il rischio di fuga di capitali e l’inefficacia
di un’applicazione della norma applicata ad un ristretto
numero di Stati. In sostanza, un titolo emesso in Germania
dovrebbe essere tassato anche se la sua compravendita
fosse effettuata al di fuori degli 11 Paesi che applicano la Ttf.
Inoltre la proposta europea prevede una base imponibile
molto ampia, con poche esenzioni: include, ad esempio,
a differenza di quanto stabilito in Italia, l’applicazione
della tassa anche ai fondi pensione: elemento che
permetterà una stabilizzazione nel lungo periodo,
scongiurando attività speculative sul breve termine.
[A.BAR.]
I settori strategici per l’economia nazionale devono essere
dominati da pochi, solidi gruppi industriali. È questa
la visione del ministero cinese dell’Industria e
dell’Informazione tecnologica, che ha ribadito l’invito
a operare fusioni, acquisizioni e alleanze strategiche
all’interno di una dozzina di settori ritenuti fondamentali
per la tenuta della seconda economia del mondo. Nel 2012
l’industria cinese ha registrato un valore aggiunto pari
al 10% e per l’anno appena iniziato è stato fissato
un target analogo che, rispetto alla media del gigante
asiatico, risulta piuttosto prudente. A detta dell’esecutivo,
le imprese faticano proprio perché troppo frammentate
e quindi poco specializzate ed esposte al problema della
sovrapproduzione. Secondo i piani di Pechino, dunque,
entro il 2013 i dieci maggiori player siderurgici dovranno
arrivare a gestire il 60% della produzione di acciaio.
Una quota che, nell’alluminio e nell’automotive , dovrà
salire fino al 90%. Nelle tecnologie dell’informazione
invece si auspica che il fatturato di 5/8 imprese cinesi
superi i 100 miliardi di yuan. Il governo di Pechino,
su questa scia, ha dettato obiettivi anche per le terre rare,
l’agricoltura, la cantieristica navale, il cemento
e l’industria farmaceutica. Ma gli analisti interpellati dal
China Daily sono scettici, visto che per ora questi ripetuti
appelli sono rimasti pressoché inascoltati.
[V.N.]
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 69 |
| ECONOMIAEFINANZA |
| TERRAFUTURA |
a cura di Corrado Fontana e Michele Mancino | per segnalazioni scrivete a [email protected]
LE BANCHE
NON DICONO LA VERITÀ
Pascal Canfin
Quello che le banche
non dicono
Castelvecchi, 2013
CUCINA E CULTURA
NEL NOME DI BASAGLIA
«Ci siamo fatti prendere in giro». Se lo dice un ministro francese, nonché giornalista economico
e vicepresidente della commissione speciale sulla crisi finanziaria, uno che ha negoziato in Europa
le leggi sui fondi speculativi, sui prodotti derivati, sui bonus dei trader e sulle agenzie di rating ,
forse c’è da credergli. Pascal Canfin identifica in questo sentimento generalizzato il malessere
serpeggiante nella società di fronte ai discorsi delle banche che, dopo la crisi del 2008, hanno
scaricato le loro responsabilità sui risparmiatori e i contribuenti. Argomenti scanditi a suon
di grandi campagne mediatiche che Canfin, ministro delegato allo Sviluppo francese, sente
da quando era deputato europeo, e che smonta sistematicamente in questo libro. L’autore conduce
il lettore negli ambienti europei dove si negoziano le leggi che dovrebbero disciplinare la finanza,
svelando la realtà sull’attività di lobby esercitate dalle banche. Canfin in questo pamphlet
non si limita solo alla critica, ma propone delle riforme credibili affinché la politica riprenda
il controllo della finanza.
LA DEMOCRAZIA
HA BISOGNO DELLA CULTURA
IL POTERE NERO
DELL’ENERGIA
IL QUINTO
ELEMENTO
Se c’è una cosa che viene sacrificata ai tempi della crisi
economica è la cultura. La falce della revisione della
spesa in molti Paesi si abbatte sui corsi umanistici
e artistici in favore dell’istruzione tecnico-scientifica
e delle abilità pratiche. Il risultato è l’impoverimento
degli strumenti per capire un mondo sempre più
complesso, con una ricaduta pesante sull’innovazione
che richiede intelligenze flessibili, creative, capaci
di aprirsi al nuovo, mentre l’istruzione ripiega su poche
nozioni stereotipate. Non c’è alcuna contrapposizione
tra cultura classica e scientifica, ma la necessità
di mantenere l’accesso a una conoscenza che nutra
la libertà di pensiero e di parola, l’autonomia del giudizio,
la forza dell’immaginazione, come altrettante
precondizioni per una umanità matura e responsabile.
«L’istruzione volta esclusivamente al tornaconto
del mercato globale esalta la scarsa capacità
di ragionamento, il provincialismo, la fretta, l’inerzia,
l’egoismo e la povertà di spirito, producendo un’ottusa
grettezza e una docilità che minacciano la vita stessa
della democrazia e che di sicuro impediscono
la creazione di una degna cultura mondiale».
Il giornalista Andrea Fontana autoproduce questo
libro-inchiesta che mette il dito nella piaga
di un comparto energetico dominato da colossi
industriali non sempre paladini della trasparenza.
E l’autore punta il dito contro Enel Green Power che, scrive,
«rappresenta soltanto la faccia pulita di un’azienda che
vuole fare utili giocando sporco e sfruttando il carbone».
Ne esce un testo che chiama in causa la strategia
energetica nazionale, proposta dall’ormai ex ministro
Corrado Passera, e mette in dubbio la sostenibilità
ambientale, tecnologica ed economica dell’impianto
di una politica che punta sullo sfruttamento delle fonti
fossili. Da un lato l’autore esercita la critica delle
compagnie italiane dell’energia attraverso un’analisi
documentale, denunciandone i comportamenti
“interessati” a condizionare il mercato perché poco cambi;
dall’altro propone visioni alternative, conducendoci lungo
un dialogo con esperti del mondo scientifico
e ambientalista, oltreché con rappresentanti delle realtà
della green economy che diffondono il “verbo” delle
rinnovabili. Ma c’è di più. Perché alla fine sono alcuni
rappresentanti di partito a dover esprimere la loro proposta
per una futura strategia energetica.
Acqua, Aria, Terra e Fuoco. Sui quattro elementi
fondamentali (più uno) si struttura un libro che illumina
il lato oscuro della cosiddetta green economy , intesa
in senso ampio, come il quadro in cui si afferma una
relazione – soprattutto predatoria – tra attività umana
e amministrazione delle ricchezze naturali. Individuato nel
capitalismo un “nemico addirittura della vita”, gli autori
puntano a svelarne innanzitutto l’attacco ai beni comuni
(«prima li saccheggia, poi, quando li ha trasformati
in risorse scarse, se ne impossessa per farne oggetto
di mercato»). E poi puntano il dito sulle multinazionali che
«si presentano col volto pulito della green economy ,
compromettono la nostra vita e costruiscono un mondo
sempre più a misura dei ricchi». Salute e scellerata
degradazione ambientale, speculazione e povertà, guerre e
diritti negati, energia pulita e condotte criminali percorrono
da protagonisti questo libro, fitto di dati, di colpevoli
e di vittime. Alla collettività è attribuita l’unica possibilità
di porsi come estremo e consapevole baluardo, come quinto
elemento della serie, quello dei Movimenti. Che riuniscono
gli individui e resistono attraverso i comportamenti
(economia solidale, transition town , eco villaggi) o con
la lotta (Argentina, Brasile, Cile), laddove occorre impedire
la sottrazione del futuro in corso o proporne uno diverso.
Martha Nussbaum
Non per profitto
Il Mulino, 2013
| 70 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
a cura di Valentina Neri | per segnalazioni scrivete a [email protected]
Andrea Fontana
Enel Black Power. Chi tocca muore!
Perché vogliono fermare la corsa alle energie
rinnovabili in Italia
2013, autoprodotto, ordinabile sul sito
www.solarimpulse.it
Alberto Zoratti - Monica Di Sisto
I SIGNORI DELLA GREEN ECONOMY - Neocapitalismo
tinto di verde e movimenti glocali di resistenza
EMI, 2013
Quando anni fa gli operatori della struttura di Neuropsichiatria dell’Asl 2 di Torino hanno
organizzato i primi corsi di cucina per alcuni pazienti, forse non si aspettavano un risultato
così concreto: si chiama Caffè Basaglia ed è uno spazio di 400 m2 a Torino, affiliato al circuito
Arci, che comprende ristorante e bar e ospita concerti, mostre, cene etniche e presentazioni
di libri. A girare fra i tavoli per raccogliere le ordinazioni, oppure in cucina alle prese con
pietanze e stoviglie, sono 12 persone con problemi psichiatrici. Persone che, grazie a questa
prima esperienza lavorativa, possono trovare la loro strada: «Un ragazzo che lavorava da noi
ha ricominciato a studiare», racconta orgoglioso Maurizio, pensionato che lavora al Caffè
quasi a tempo pieno. «Una signora che ci aiutava a lavare i piatti, invece, ora fa la cuoca in un
ristorante». Dal 2006 la struttura ha potuto contare su numerose donazioni: «A quel punto
non potevamo più tirarci indietro – racconta Maurizio – perché avevamo la responsabilità sia
nei confronti dei pazienti, sia di chi aveva messo a disposizione qualche risparmio per noi».
www.caffebasaglia.org
PRANZI ANTIMAFIA A IMPATTO ZERO
PER I RAGAZZI DI BASIGLIO
ALBA, SI BRINDA
AL REINSERIMENTO LAVORATIVO
A GENOVA SI IMPARA
IL RIUSO CREATIVO
La pausa pranzo degli alunni della scuola di Basiglio,
in provincia di Milano, è molto particolare. Perché
è la prima in Italia “green” al 100%. L’edificio che ospita
la mensa risale agli anni Ottanta e l’anno scorso, quando
bisognava rinnovare l’appalto per la sua gestione,
versava in quelle che il sindaco Marco Flavio Cirillo
definisce senza mezzi termini come «condizioni
fatiscenti». Il cambiamento è stato radicale. Se prima
si consumavano circa 154 mila kWh annui di energia, ora
i consumi sono stati dimezzati grazie all’illuminazione
a led e a nuovi serramenti per limitare le dispersioni.
E tutta l’energia necessaria è fornita dai pannelli
fotovoltaici sul tetto, mentre al riscaldamento provvede
un impianto geotermico. Un intervento che non è costato
un euro alle casse del Comune perché la spesa, pari
a 1 milione e 239 mila euro, è stata a carico della ditta
Gemeaz Elior che si è aggiudicata l’appalto.
L’amministrazione, anzi, ogni anno risparmierà 16 mila
euro di bollette oltre a evitare di immettere
nell’atmosfera 40 mila kg di CO2. Il menu dei ragazzi,
inoltre, prevede prodotti di filiera corta provenienti dalla
zona del Parco Sud («Abbiamo anche “adottato” una
varietà di patata coltivata nel Cremonese che rischiava
di scomparire», racconta il sindaco), prodotti biologici
certificati, Doc e Igp. Periodicamente è previsto anche
il menu antimafia, in collaborazione con Libera Terra.
“Vale la pena” di aprire gli occhi sulle carceri italiane,
offrendo ai detenuti nuove occasioni di crescita. La frase
casca a pennello perché proprio “Valelapena” è il nome
del rosso da tavola ricavato dalle uve coltivate
nell’Ecovigneto che ha una sede molto particolare:
la Casa circondariale di Alba, in provincia di Cuneo.
Una quindicina di detenuti sono impegnati da gennaio
a luglio nei corsi gestiti dalla Fondazione Casa di Carità,
che spaziano dalla teoria spiegata in aula all’attività
pratica nell’orto e nel vigneto. Da luglio a ottobre, quattro
o cinque di loro si occupano della raccolta. A produrre
e imbottigliare il vino è l’Istituto agrario Umberto I,
la Scuola enologica di Alba. Il vigneto è attivo ormai
da tre anni, grazie alla collaborazione fra gli enti locali,
il ministero della Giustizia e i soggetti del Terzo settore
che operano sul territorio. «I numeri sono ancora piccoli,
ma l’esperienza è molto positiva – spiega Elena Saglietti
del consorzio Cis Compagnia di iniziative sociali, che
da anni gestisce diversi progetti interni al carcere –
e speriamo di allargare gli orizzonti». E una valida vetrina
è il mercato “Vale la pena”, organizzato ad Alba a ottobre
da due anni per promuovere le specialità agroalimentari
provenienti dalle carceri lombarde, piemontesi e venete.
«Lavoravo nel sociale e mi trovavo spesso a riadattare
abiti da rivendere: erano capi di buona qualità,
ma magari il modello era passato di moda e bisognava
fare qualche piccola modifica». Il racconto è di Sara.
Poco per volta, con l’amica Monica, entrambe
autodidatte, fondano Riciclabò Design, il laboratorio
in cui danno nuova vita a camicie, cravatte e pantaloni
usati, ricreando abiti artigianali, in gran parte pezzi unici.
Sara e Monica hanno girato il Nord Italia fra “So critical
so fashion”, il Vintage festival di Padova e tanti eventi
legati al mondo del fai da te. Quando sono nella loro
Genova, si dedicano ad arredare il loro laboratorio,
sempre con elementi riciclati, e a insegnare cucito
e riuso creativo. «La cosa più interessante è entrare
a contatto con il proprio pubblico – racconta Sara –
che va cercato e “preso per la gola” con creazioni belle
e originali. Certo, la crisi c’è, ma noi dobbiamo
intercettare quella fascia di clienti che ha qualche euro
in più a disposizione e preferisce spenderlo
in un prodotto ecocompatibile più che in un capo
di una grande griffe».
http://riciclabo.jimdo.com
| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 71 |
| bancor |
Una storia tutta italiana
Mps, vittima di armi
di distruzione di massa
è molto di “italiano” nella storia recente del Monte dei Paschi. C’è
l’imprevidenza, e la grossolanità anche, che spinse a comprare,
strapagandola, Banca Antonveneta, il pezzo forse meno pregiato
dello spezzatino Abn, già al centro di Bancopoli e delle attenzioni dei “furbetti
del quartierino”. C’è l’insensatezza con la quale si è tentato di rimediare a
C’
dal cuore della City Luca Martino
un’operazione chiaramente sconveniente con una serie di altre operazioni finanziarie altrettanto rischiose, puntando sulle maglie larghe della contabilità e
sulla fragilità dei meccanismi di controllo. C’è la temerarietà con la quale si tentò
di raggirare i giapponesi di Nomura e i
tedeschi di Deutsche Bank dopo essere
stati circuiti dagli spagnoli del Santander. E c’è, non da ultimo, l’immoralità della condotta fraudolenta con la quale la
cosiddetta “banda del 5%” pare aver gonfiato i prezzi di quelle operazioni per mero arricchimento personale. Ma c’è anche, e soprattutto, molto di quello che,
più o meno ovunque nel mondo, è diventato oggi il sistema finanziario: un
calderone dove è difficile distinguere
tra incompetenza e corruzione, incapacità e malcostume, vittime e carnefici.
Vicende analoghe a quella di Mps
sono, infatti, avvenute anche negli Stati
Uniti, i primi a subire gli effetti sistemici di una gestione avventata del denaro
e della “lettera” finanziaria, magnificati
regolarmente dai rapporti quasi sempre poco trasparenti tra piccole banche
regionali, grandi banche d’affari e istituzioni statali o para-statali. E anche in
molti Paesi europei, compresa la Germania, dove alla crisi del mercato interbancario che ha colpito i giganti del credito si è aggiunta la crisi di liquidità
che gli organismi di controllo che del rispetto delle regole avrebbero dovuto fare un principio cardine del loro operato.
Da questo punto di vista c’è di che rimanere sbalorditi nel rileggere gli atti
della Consob, del ministero del Tesoro,
della Banca d’Italia, della Bce, del Cebs
(l’autorità di supervisione europea), che
negli ultimi anni hanno tutti ritenuto di
non dover muovere altre critiche alla dirigenza del gruppo senese se non specifici rilievi formali, del tutto marginali e
irrilevanti, e che nulla hanno di fatto eccepito di sostanziale circa la governance
aziendale e le pratiche finanziarie e contabili di Rocca Salimbeni.
Complicità? Incompetenza? In attesa che la giustizia faccia il suo corso,
a chi aspirasse a rinnovare il sistema
bancario, a partire evidentemente dagli strumenti di vigilanza, suggerirei la
rilettura non già di un prontuario di
tecnica bancaria o di qualche manuale
di compliance, ma del bilancio del 2002
della Berkshire Hathaway, la holding
di Warren Buffett, nel quale l’oracolo di
Omaha definì, spiegandone nel dettaglio le ragioni, gli strumenti derivati
come «un’arma di distruzione di massa
dai rischi potenzialmente letali sia per
le controparti coinvolte che per l’intero sistema economico». 
Il caso della banca senese
non è altro che lo specchio
della crisi smisurata del
sistema finanziario globale
delle Landesbank, gestite anch’esse da
enti regionali o fondazioni di diritto
pubblico.
Il caso “italianissimo” dell’Mps è solo
l’ultimo esempio di quella che altro non
è che una crisi smisurata del sistema finanziario globale, legata, da un lato, a
fattori squisitamente tecnici – tra questi l’inadeguatezza delle poste contabili
e degli indici regolamentari ai fini di
una rappresentazione fedele ed efficace delle dinamiche del conto economico, il sempre irrisolto conflitto di interessi all’interno delle unità di business
delle banche e la dimostrata fragilità
dell’attuale modello operativo dei mercati secondari – e, dall’altro, a ragioni etiche che non hanno risparmiato nean-
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| ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 | valori | 73 |
| resistenze |
Donne e uomini, imprese che si indignano, protestano, resistono alla crisi
abbonamenti2013
C’è crisi
Boom dei giornali
di strada
Su Carta
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All Inclusive
ra
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per te!
Abbonamento annuale o biennale in tre formati diversi + il DVD Valori Collection
Ordinario su carta
cs, il gruppo del Corriere della Sera, taglia ottocento posti di lavoro. A rischio chiusura perle dell’editoria come Astra, Yacht
& Sail, Novella 2000, Visto. In Germania chiude il Financial
Times Deutschland, mentre Rupert Murdoch annuncia su twitter che
toglierà le tette dalla terza pagina di The Sun. È la fine di un’epoca. Con
l’onnipresenza di internet la carta stampata soffre. Tagli a destra, a
manca, a nord e a sud. Ma c’è una nicchia coriacea che resiste. Una riserva indiana editoriale che con la crisi non solo non patisce, ma si
rafforza. È il mondo dei giornali di strada, venduti (e in parte scritti)
dai poveri, dai senza dimora, gente che in crisi ci si trova come condizione di vita, che conosce le coltellate del freddo e i morsi della fame.
Se n’è accorto perfino l’Economist qualche settimana fa: «Anche il
caos economico può portare a nuovi business», scrive il settimanale
inglese, bibbia del pensiero liberale. «È nato un nuovo giornale di strada in Grecia (Schedia) e ci sarà anche un festival che radunerà i 120
street papers più importanti al mondo, distribuiti da 28 mila venditori». «La Germania ha 19 testate, con una tiratura di 4 milioni di copie
all’anno». I giornali parlano di emarginazione, danno voce ai senza dimora, spesso informano anche sugli eventi della città in cui vengono
venduti e nella maggior parte dei casi sono collegati a progetti sociali coordinati da organizzazioni di assistenza volontarie, religiose, pubbliche. Ai venditori – che si mettono in tasca una parte del prezzo finale – vengono offerte le cure di base, un letto e un percorso di
reinserimento nel mondo del lavoro. Il giornale è solo l’inizio, la parte
visibile di una lunga catena di aiuto e auto-aiuto. «Stranemente – osserva l’Economist, che ha analizzato il fenomeno – gli street papers
stanno andando meno bene nei Paesi nei quali sono partiti». Street
News, nato a New York nel 1989, ha chiuso nel 2007. Big Issue in Gran
Bretagna vendeva 250 mila copie nel 2001, oggi solo 100 mila. «Con la
crisi si è meno altruisti», suggerisce il settimanale inglese. Ma anche
la concorrenza di internet fa la sua parte. Per fronteggiarla, a Manchester e Chicago è partito un progetto pilota per la prima versione
digitale di Big Issue. I senza dimora saranno formati come “giornalisti
online” e potranno scrivere dagli internet point e dalle biblioteche. I
testi saranno accessibili scannerizzando un codice a barre impresso
su una cartolina, venduta per strada. Il futuro degli street papers è appena cominciato. 
R
| 74 | valori | ANNO 13 N. 107 | MARZO 2013 |
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Nato a Milano nel 1994 e sostenuto dalla Caritas Ambrosiana è oggi
distribuito a Torino, Napoli, Genova, Catania, Como, Firenze, Palermo,
Rimini, Salerno, Verona e Vicenza. La diffusione su scala nazionale del
progetto Scarp è stata resa possibile da un progetto finanziato con fondi
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Ho già provveduto al pagamento tramite (allegare copia della ricevuta di pagamento)
 bollettino postale
 bonifico bancario
 modello RID
 carta di credito
COME EFFETTUARE IL VERSAMENTO
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 on line con carta di credito - modulo RID info su www.valori.it, sezione “Abbonati” (scelta obbligata per l’abbonamento Web Reader)
 con bonifico bancario, sul C/C EU IBAN: IT29 Z 05018 01600 000000108836 della Banca Popolare Etica, intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (**)
 con bollettino postale, sul C/C 28027324 intestato a: Società Cooperativa Editoriale Etica, via Napo Torriani, 29 - 20124 Milano (** è consigliato l’invio del tagliando per i nuovi abbonati)
Nelle causali inserire sempre nome, cognome, indirizzo e recapito e-mail del destinatario, specificando la tipologia scelta (es. “Abb. annuale cartaceo”, “Abb. biennale Web Reader”, ecc…)
Se sei un nuovo abbonato per una corretta e rapida attivazione, dopo aver effettuato il pagamento con bonifico o ccp della quota corrispondente all’opzione
scelta, ti chiediamo la cortesia di inviare il tagliando compilato a mezzo fax (02 67479116) o tramite posta elettronica ([email protected]).
In caso di rinnovo è necessario l’invio del tagliando solo per comunicare modifiche anagrafiche.
Per ulteriori informazioni contattate la segreteria al n. 02 67199099 dal lunedì al venerdì dalle 9.30 alle 17.30 oppure scrivete a [email protected]