Nichilismo, etica e filosofia della storia nel primo Lukács Nel 1912 il

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Nichilismo, etica e filosofia della storia nel primo Lukács Nel 1912 il
GIOVAMBATTISTA VACCARO
Nichilismo, etica e filosofia della storia nel primo Lukács
Nel 1912 il giovane filosofo ungherese György Lukács giunge a Heidelberg
insieme alla moglie e all’amico Ernst Bloch, conosciuto qualche tempo
prima nel circuito degli allievi di Simmel a Berlino. Lo accompagna una
discreta notorietà legata ad una storia del dramma moderno e ad un
volume di saggi di estetica e critica letteraria dal titolo L’anima e le forme,
oltre che a vari saggi minori. In questa opera Lukács aveva esibito uno
spiccato interesse per l’estetica, sullo sfondo del quale tuttavia egli aveva
cercato di dare una risposta alla concezione simmeliana del tragico
attraverso l’affermazione della priorità dell’etica1. A Heidelberg Lukács
stringerà amicizie importanti, come quelle con Weber e con Lask, e
troverà un ambiente cosmopolita, più vivace e dinamico di quello di
Berlino, con una nutrita ed attiva colonia di giovani studiosi russi che,
riuniti intorno a Fëdor Stepun, avevano già dato vita all’edizione russa
dell’organo dei neokantiani, la rivista Logos, e pubblicato un volume
collettivo in cui, rifacendosi alle correnti più originali della filosofia russa,
come gli slavofili e soprattutto Solovëv, si facevano promotori di un
misticismo dialettico aperto ad una speranza messianica nel rinnovamento
generale dell’umanità. Erano temi comuni sia a Bloch sia a certe tematiche
di Lukács, che si trovò così stretto tra questi filosofi, con cui egli era
entrato in contatto proprio attraverso la cerchia di Max Weber, e il suo
vecchio amico di Berlino, e subì l’influenza di entrambi2.
1 Su questi aspetti della produzione del primo Lukács cfr. il mio “Tra Simmel e
Heidegger. Ontologia e etica nel primo Lukács”, Fenomenologia e società XXVII (2004), pp.
23-38.
2 Su questo gruppo di intellettuali russi e sulla loro influenza su Lukács cfr. M.
COMETA, Postfazione a G. LUKÁCS, Dostoevskij, SE, Milano 2000, pp. 238 sgg., e A.
HOESCHEN, Das “Dostojewski”-Projekt. Lukács’ neokantisches Frühwerk in seinem
ideengeschichtlichen Kontext, Niemeyer, Tübingen 1999, pp. 250 sgg., che precisa è
consistita «in una prassi che si distingue per essere inaccessibile dal punto di vista della
filosofia della cultura nel senso della teoria dei valori neokantiana» (pp. 262-263). Per
quanto riguarda l’influenza di Bloch, lo stesso Lukács ne riconoscerà la portata nel suo
superamento del periodo saggistico e nel suo indirizzarsi verso la filosofia: cfr. G. LUKÁCS,
Bollettino Filosofico 27 (2011-2012): 161-177
ISBN 978-88-548-6064-3
ISSN 1593-7178-00027
DOI 10.4399/978885486064311
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A Heidelberg Lukács abbandona la forma del saggio, da lui teorizzata in
L’anima e le forme, e si impegna nell’elaborazione di un’estetica sistematica,
durante la quale egli prende coscienza delle aporie del neokantismo, ma
non abbandona la sua esigenza etica, poiché anzi , come è stato notato, la
riflessione estetica trova il suo sfondo proprio nel progetto di un’etica3.
Con l’inizio della prima guerra mondiale il progetto dell’estetica viene
abbandonato, e l’etica occupa tutto l’interesse di Lukács4. La cosa singolare
è che quest’opera di etica si costruisce ancora come un’opera di estetica, o
per lo meno di critica letteraria, cioè come un libro su Dostoevskij, a cui
Lukács comincia a lavorare nell’inverno del 1915 ed a cui attribuisce
appunto uno spessore che supera la semplice critica letteraria5. Di questo
lavoro, come è noto, resterà solo la parte introduttiva, che Lukács
pubblicherà nel 1916 nella Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine
Kunstwissenschaft col titolo Teoria del romanzo: l’avanzare della guerra aveva
rivelato l’insufficienza anche di questo progetto ed aveva imposto altre
urgenze, ed il progettato libro su Dostoevskij rimase come una prova di
Lukács con se stesso.
Ma perché un’opera di etica si doveva configurare proprio come una
monografia su Dostoevskij? Lukács stesso in tarda età propone una
risposta: in quegli anni egli si trovava ancora impegnato in un confronto
con la situazione ungherese e nella battaglia contro i residui dell’ideologia
feudale, «e la letteratura russa (soprattutto Tolstoj e Dostoevskij) appariva
Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, Intervista di I. Éörsi, Ed. Riuniti, Roma
1983, p. 205.
3 Cfr. L. BOELLA, Il giovane Lukács, De Donato, Bari 1977, pp. 49 sgg.
4 Lo stesso Lukács molti anni dopo ricorderà che «La società poneva con la guerra
problemi radicalmente nuovi» (Pensiero vissuto, cit., 207), e di conseguenza «centro
dell’interesse dall’estetica all’etica» (ivi, p. 210): «cominciai a interessarmi di problemi
etici e non attribuivo più nessuna importanza alle questioni estetiche» (ivi, p. 60), e questo
interesse «mi ha portato alla rivoluzione» (ivi, p. 66).
5 Lo comunica lo stesso Lukács a Paul Ernst in una lettera del 1915: «Adesso
finalmente mi sono messo sul mio nuovo lavoro: su Dostoevskij (l’Estetica per il momento
riposa). Conterrà però molto più che Dostoevskij: grosse parti della mia etica metafisica,
della filosofia della storia ecc.» (G. LUKÁCS, Epistolario 1902-1917, a cura di É. Karádi e É.
Fekete, Ed. Riuniti, Roma 1984, p. 353). A. HOESCHEN, Das “Dostojewski”-Projekt, cit.,
preferisce infatti parlare di un Progetto Dostoevskij i cui due aspetti inscindibili sono
appunto questo libro sullo scrittore russo e l’Estetica, e che si sviluppa nell’ambito
dell’ontologia trascendentale che Emil Lask aveva cominciato a elaborare dal 1910 e della
rifondazione di una filosofia della cultura che essa implica.
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sempre come l’indirizzo che più mostrava la strada»6, poiché «sono stati
[…] Tolstoj e Dostoevskij a farci vede come nella letteratura si possa
condannare in blocco tutto un sistema»7. Ma accanto a questa spiegazione,
che è quella del Lukács marxista della tarda maturità, può essercene
un’altra che trova le sue radici nel contesto della cultura europea della
giovinezza di Lukács, una cultura verso la quale proprio nell’intervallo tra
L’anima e la forme e il trasferimento a Heidelberg Lukács non si era
mostrato molto tenero, e che anzi aveva accusato di «impoverimento
interno», di «solitudine completa»8, di «fondamentale menzogna» e
«dilettantismo di fronte alla vita»9, trasformata «in una successione
ininterrotta di stati d’animo in perenne mutamento», privata di ogni
continuità, «perché lo stato d’animo non tollera continuità né ripetizioni»,
privata di valori e di oggetti «ridotti ad occasioni adatte ad evocare stati
d’animo»10, e per questo soprattutto privata di quell’autentica attività
dell’anima che plasma la vita attraverso la forma.
Questa cultura è accusata da Lukács di estetismo, ma sotto questo
termine non si fa fatica a intravedere i caratteri generali del nichilismo, di
un atteggiamento la cui «unica manifestazione di vita consiste nell’aderire
agli attimi con pieno abbandono» ed in cui «per il fatto stesso che tutto
proviene sempre dall’interno, nulla potrà mai scaturire veramente
dall’interno»11. L’opera etica a cui Lukács attende a Heidelberg deve essere
dunque una resa dei conti col nichilismo che permea la cultura
contemporanea, che diventa tanto più urgente di fronte all’evento che
sancisce questo nichilismo, la guerra, ed al quale, come lo stesso Lukács
aveva potuto constatare attraverso l’atteggiamento tenuto verso di essa da
tanti suoi amici e maestri, a cominciare da Max Weber, questa cultura
aveva mostrato di non sapere, o di non volere, opporsi. Ma questa resa dei
conti deve passare attraverso «il sacro nome di Dostoevskij»12, dello
G. LUKÁCS, Pensiero vissuto, cit., p. 206: «La ‘rivoluzione’ tolstojana-dostoevskijana –
dice Lukács più avanti – costituisce la prospettiva utopica e quindi il metro morale» (ivi, p.
209).
7 Ivi, p. 52.
8 G. LUKÁCS, La cultura estetica, in G. LUKÁCS, Cultura estetica, Newton Compton,
Roma 1977, pp. 14-15.
9 Ivi, p. 16.
10 Ivi, p. 15.
11 Ivi, p. 16.
12 Ivi, p. 30.
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scrittore in cui il giovane Lukács trova l’esempio più luminoso della lotta
più tenace contro il nichilismo in cui è finita la cultura europea.
Il confronto con lo scrittore russo e con la questione del nichilismo che
si pone attraverso di esso diventa quindi cruciale per la maturazione del
giovane Lukács consentendo il precisarsi di quell’esigenza etica che si era
posta nell’analisi esistenziale da lui condotta in L’anima e le forme, e
soprattutto prospettando un più ampio orizzonte entro il quale spingerla ad
un livello superiore.
Del resto lo stesso Lukács aveva tempestivamente avvertito l’esigenza
di spingere oltre la sua etica. Se infatti in L’anima e le forme egli era
approdato ad una concezione dell’etica come forma che si impone alla vita
attraverso il lavoro borghese, la professione come luogo di un rapporto
interumano regolato dal dovere, cioè dalla dedizione a qualcosa di
indipendente ma reale, già nel 1911 aveva accusato questa etica di
distanziare gli uomini13 e le aveva contrapposto un’«etica della virtù»14,
incentrata sulla bontà, che appunto per Lukács «non è una categoria
dell’etica» ma anzi «è lo staccarsi dall’etica»15. La riflessione su Dostoevskij
porterà Lukács a precisare l’insufficienza dell’etica formale, kantiana, che
egli chiama prima etica, proprio mettendola a confronto col nichilismo, al
quale essa ha ceduto nella cultura europea, e ad indicare nell’etica della
virtù, nella seconda etica, la via d’uscita non solo dal formalismo, ma anche
dal nichilismo16. L’idea del vivere associato non basta più a Lukács, in suo
problema diventa ora la qualità di questo vivere.
13 Cfr. G. LUKÁCS, Sulla povertà di spirito, Cappelli, Bologna 1981, pp. 102-103: «la
maggior parte degli uomini vive senza la vita e non se ne accorge. La loro vita è solo
sociale, solo infraumana; questi […] possono accontentarsi dei loro doveri […] perché
ogni etica è formale: il dovere è postulato, forma – e quanto più è perfetta una forma […]
tanto più cade lontano da ogni immediatezza. La forma è un ponte che ci distanzia; ponte
in cui andiamo e veniamo, e arriviamo sempre in noi stessi, senza incontrarci mai».
14 Ivi, p. 113.
15 Ivi, pp. 104-105.
16 L’importanza della seconda etica nello sviluppo intellettuale e soprattutto politico di
Lukács è stata sottolineata dai suoi allievi della cosiddetta Scuola di Budapest, soprattutto
da F. FÉHER (Al bivio dell’anticapitalismo romantico, in F. FÉHER, Á. HELLER, G. MÁRKUS, A.
RÁDNOTI, La Scuola di Budapest: sul giovane Lukács, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 157246) e da Á. HELLER (Al di là del dovere. L’etica paradigmatica del classicismo tedesco nell’opera
di György Lukács, ivi, pp. 59-75; Quando la vita si schianta sulla forma, ivi, pp. 1-45, e Sulla
povertà di spirito. Un dialogo del giovane Lukács, ivi, pp. 47-58). Va reso merito alla Scuola di
Budapest di aver richiamato l’attenzione su alcune opere minori del giovane Lukács
tradizionalmente trascurate dalla critica, come Sulla povertà di spirito, di cui si sottolinea
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Ma, anzitutto, in che senso la prima etica non regge la prova del
nichilismo? L’impianto di Teoria del romanzo ci mostra un Lukács che parte
da molto lontano, ed opera per mezzo di una strumentazione teorica in cui
si avverte la lezione dello Hegel della Fenomenologia dello spirito e in parte
anche di certi aspetti degli scritti teologici giovanili pubblicati da Nohl nel
1907. Lukács mette in campo infatti la categoria di totalità, intesa come
un’omogeneità in vigore prima ancora che le forme si applichino ad essa
come suo divenire cosciente e nella quale quindi sapere, virtù e felicità
coincidono17. La posizione dell’uomo in questa totalità è definita da un
rapporto con gli altri in cui il dovere è solo un problema pedagogico che ha
come referente le forme di questo rapporto, cioè le istituzioni, amore,
famiglia, stato. Questa definizione della totalità diventa lo strumento che
consente a Lukács di ricostruire la storia della cultura europea sulla base
della triade hegeliana quale si configura storicamente nella seconda parte
della Fenomenologia: l’immediatezza della totalità etica nel mondo greco, la
sua rottura nella pluralità degli individui del mondo moderno, l’aspirazione
alla sintesi di una comunità etica mediata in cui l’individuo sia in una libera
relazione con gli altri. Su questo sfondo si colloca sia l’emergenza del
nichilismo sia la crisi, ad essa connessa, della forme d’arte che Lukács sta
indagando fin dal Dramma moderno.
Questa totalità organica tipica del mondo greco appare quindi come
collettività, la sua forma storico-politica è la polis e la sua espressione
artistica è l’epos. Ma qui, come proprio l’epopea dimostra, l’individuo è
giustamente l’importante ruolo di cerniera tra la fase estetico-saggistica di L’anima e le forme
e lo sforzo di riflessione etica degli anni di Heidelberg nonché la funzione di incubatrice
della nuova concezione etica di Lukács. Va tuttavia notato anzitutto il disinteresse per il
lavoro su Dostoevskij da parte della Heller, che sembra invece piuttosto attratta
dall’incidenza della vicenda sentimentale di Lukács con Irma Seidler; in secondo luogo il
fatto che questi autori tendono a lasciare in ombra il confronto col nichilismo; infine una
riconduzione forse troppo diretta e immediata della seconda etica al comunismo, che
finisce con l’attribuire al giovane Lukács un’esigenza che nel ’15 sembra piuttosto ancora
mistico-espressionista, appunto, come dice Féher, solo un anticapitalismo romantico, e
che forse assume una coloritura decisamente e coscientemente comunista ancora solo in
Bloch. Sul periodo di Heidelberg cfr. R. ROCHLITZ, Le jeune Lukács: 1911-1916. Théorie de
la forme et philosophie de l’histoire, Payot, Paris 1983. Sull’evoluzione politica del giovane
Lukács cfr. M. LOWY, Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari: l’evoluzione politica di
Lukács, La salamandra, Milano 1978. Per una valutazione del lavoro intorno a Dostoevskij
in ordine all’evoluzione di Lukács dallo stile saggistico al pensiero dialettico cfr. E.
MATASSI, Il giovane Lukács. Saggio e sistema, Guida, Napoli 1979.
17 Cfr. G. LUKÁCS, Teoria del romanzo, Sugar, Milano 1962, p. 62.
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assente, o meglio è «conosciuto – definito sulla base dello spirito
oggettivo»18: «l’eroe dell’epopea – infatti – non è mai, a rigor di termini
un individuo. Fin dai tempi antichi, si è considerato carattere essenziale
dell’Epos che oggetto di questo non fosse un destino individuale, bensì il
destino di una collettività», poiché «la perfezione e la conclusione del
sistema di valori che determina il cosmo epico, dà luogo a un tutto troppo
organico perché in essa una parte possa a tal punto segregarsi in se stessa
[…] da divenire individualità», e per questo «la sequenza delle avventure,
in cui si allegorizza l’accadimento, ricava il proprio peso dall’importanza
che per essa hanno il bene e il male di un grande, organico complesso
vitale, di un popolo o di una stirpe»19.
In questo mondo spirituale «lo spirito assoluto si è risolto in quello
oggettivo; non vi è più alcun divario tra diritto e cerimonia […] nulla della
filosofia statale può divenire adiaforia: costrizione al voto» e c’è «unione di
organizzazione giuridica e politica»20, e corrispondenza di organizzazione
sociale e militare. Ma in questo mondo vige anche l’impossibilità di
compiere una vera azione e «l’impossibilità di realizzare il “conosci te
stesso” […] (perciò: importanza della filosofia dello stato, dello spirito
oggettivo per ogni filosofia “greca”)»21. Da questo punto di vista Lukács
può definire Socrate, «giacché qui interroga, non-greco»22. In pratica nel
mondo greco l’essenza è riferita alle istituzioni e non alla vita, e questo
marca per Lukács l’angustia di questo mondo. Questa centralità delle
istituzioni, o, per usare il termine hegeliano a cui Lukács fa ricorso, dello
spirito oggettivo, costituisce ciò che Lukács definisce con una espressione
di Ernst Bloch il geoviano. Lukács abbozza una ricostruzione storica delle
figure di questa nozione. Una di esse è il cristianesimo, che trasforma in
istituzione, soprattutto attraverso l’opera di San Paolo, il contenuto della
religione; un’altra è la filosofia tedesca, sia nella equivalenza hegeliana di
reale e razionale, sia nell’idea fichtiana della nazione.
Nell’analisi del geoviano Lukács fa poi rientrare anche figure
insospettabili, come Tolstoj, che fa dell’istituzione del matrimonio
qualcosa di naturale, o Kant, per l’equivalenza di buona volontà e volontà
libera, al punto da rilevare che «l’etica kantiano-fichtiana va paragonata
G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 37.
G. LUKÁCS, Teoria del romanzo, cit., pp. 102-103.
20 G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 68.
21 Ivi, p. 37.
22 Ibidem.
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nella sua struttura logica con la prova ontologica di Dio»23, poiché ha come
presupposto la divina sostanzialità del diritto. Ma il richiamo a Kant rivela
come l’etica formale del dovere si esaurisce entro i confini dello stato, del
diritto, in pratica del geoviano, poiché essa, caratterizzata dalla veridicità,
dalla fedeltà, dal dovere come vissuto, è l’etica in cui il dovere si configura
come rapporto con l’istituzione e come ottemperanza della sua norma.
Ora, sulla base di quanto detto finora, cioè del destino a cui va incontro
l’individuo di fronte al geoviano, Lukács accusa questa etica di produrre un
«effetto non autentico»24 che la rende banale e suscita una lotta dell’anima
contro la convenzione. Perché? La risposta a questa domanda diventa
cruciale, perché apre alla questione del nichilismo25.
Hegelianamente, il mondo della polis e dell’epopea, il mondo della
collettività, si esaurisce a causa della sua angustia: gli dei diventano muti, il
mondo delle azioni si scinde dagli uomini e l’interiorità si separa
dall’avventura: sorge il mondo che Hegel aveva chiamato l’universo dei
molti dispersi26, il mondo borghese degli individui qualitativamente distinti
l’uno dall’altro. In questo mondo l’individuo si trova in una «solitudine
metafisica»27, in una «insanabile […], tragica solitudine» che «non è
soltanto l’ebbrezza dell’anima preda del fato, fattasi canto: è anche il
tormento della cultura condannata alla solitudine, che agogna alla
conoscenza», nel quale consiste il nuovo problema tragico, il problema del
soggetto che «non riuscirà mai ad afferrare che non è prescritto che sotto
lo stesso mantello vitale coabiti la stessa essenzialità», che «sa di
un’eguaglianza di tutti coloro che si son trovati e non riesce a capire che
questa loro nozione non rampolla da questo mondo» 28.
Questa solitudine si basa infatti su una scissione tra un’essenza che
rivendica la sua trascendenza, superiorità e indipendenza rispetto al mero
ente, la sua estensione oltre l’esistenza, e la vita, che invece esclude la
fissazione di una tale separatezza, che «rifiuta la determinazione, in essa, di
un punto focale e non tollera che una della sue cellule si attribuisca signoria
Ivi, p. 39.
Ivi, p. 37.
25 Lo stesso Lukács dà un’indicazione in tal senso quando nel frammento 102, dopo
aver accennato alla lotta contro la convenzione come problema interno alla prima etica,
inserisce tra parentesi l’appunto: «Inserire qui il nichilismo» (Ivi, pp. 59-60).
26 Cfr. G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia, Firenze 1967,
vol. IV, p. 202.
27 G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 15.
28 G. LUKÁCS, Teoria del romanzo, cit., pp. 74-75.
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sul complesso», non tollera «un soggetto […] separato da ogni e qualsiasi
vita […] portatore della sintesi trascendentale»29, che, attraverso
l’umorismo, aspira a «una sostanzialità più genuina di quella che potrebbe
offrirgli la vita» e quindi «fa a pezzi tutte le forme e frontiere della fragile
totalità della vita allo scopo di pervenire […] all’Io dominatore del
mondo»30 di cartesiana memoria. Per questo Io il dovere diventa ora
insufficiente, poiché rappresenta appunto la forma della sua separatezza, il
rifugio dell’essenza fuggita dalla terra, e per questo è inautentico: «il
dovere uccide la vita» e il suo eroe «sarà sempre e soltanto un’ombra
dell’uomo vivente nella realtà storica […] , e il mondo che gli è offerto
come esperienza e avventura, null’altro che uno stemperato abbozzo del
reale»31. La critica della prima etica indica in Lukács una revisione del
giudizio sull’etica della professione da lui espresso in L’anima e le forme,
come emerge da altri indizi che affioreranno più avanti.
Il tragico della modernità consiste dunque per Lukács nella scissione
indicata dalla crisi del concetto classico di dovere, tra idea e vita, per cui
«in generale non si può dire che si viva. Per lo più si esiste soltanto»32, di
una esistenza che si sviluppa al livello minimo della vitalità, quello che
Lukács vede rappresentato nei romanzi di Dostoevskij da personaggi come
Rogožin o Dmitri Karamazov, che vivono un’esistenza vuota, ripiegata su
se stessa e priva di modelli o ideali. Oltre questo livello di vitalità Lukács
individua quello rappresentato dai nichilisti puri, come Raskolnikov o Ivan
Karamazov, e oltre ancora quello su cui vivono Myškin e Alëša, e ad essi fa
corrispondere tre livelli di ateismo, cioè di nichilismo. È soprattutto il
secondo livello a rivestire un’importanza strategica in questa articolazione
dell’analisi di Lukács, ed è di nuovo il versante estetico di essa, il
concretizzarsi del problema etico nella forma dell’arte tipico di questa fase
della riflessione lukácsiana, a dimostrarlo.
Il contrasto di reale e ideale si traduce infatti per Lukács nel degrado
del rapporto tra arte e vita, per cui «l’antico parallelismo tra la struttura
trascendentale nel soggetto raffigurante e le forme prodotte nel mondo
esteriorizzato, è infranto, e […] gli ultimi fondamenti della raffigurazione
non hanno più una patria»33, e la tragedia e l’epica si sono trasformate nei
Ivi, p. 86.
Ivi, p. 85.
31 Ivi, p. 79.
32 G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 26.
33 G. LUKÁCS, Teoria del romanzo, cit., p. 69.
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due generi che esprimono la solitudine metafisica vista sopra: il dramma
non tragico e il romanzo. Quest’ultimo in particolare «è l’epopea del
mondo abbandonato dagli dei»34, il suo sentimento è quello di una virilità
matura che si trova in una condizione di frattura tra interiorità e avventura,
in cui «l’uomo […] può trovare il senso e la sostanza nella propria anima,
che in nessun luogo trova una patria» e «il mondo, sciolto dal suo
paradossale ancoramento nel mondo dell’al di là, sarà dato preda della
propria immanente mancanza di significato»35, per acquisire invece senso
dalla trascendenza del soggetto ad esso estraneo nella propria solitudine. La
contrapposizione di interiorità eretta a sostanza e mondo destituito di
senso qualificano il romanzo come il genere letterario nichilistico per
eccellenza, come «l’epopea di un’epoca, per la quale la totalità estensiva
della vita non è più data sensibilmente, per la quale l’immanenza vitale del
senso si è fatta problematica, e che tuttavia ha l’anelito alla totalità»36.
Ma poiché la discrepanza tra idea e realtà è espressa nel suo massimo
grado dall’idea di tempo, che appunto il romanzo introduce nella forma
della durata bergsoniana scissa dall’essenza di cui si va alla ricerca, «quasi si
potrebbe dire che l’intera azione del romanzo si riduca a null’altro che a
una lotta contro la potenza del tempo»37, nella quale «la soggettività non è
in grado di non perdere terreno nei confronti del fluire costante,
monotono del tempo», dal quale essa scivola fuori sperimentando così «la
più profonda e la più avvilente incapacità di avveramento della soggettività
stessa»38. Un appunto in cui Lukács connette “professione e durée” ci
indica che il tempo del romanzo è ancora il tempo dell’etica borghese e
delle istituzioni, il tempo della prima etica39. Ma lo scenario di questa etica
ora è quello della contrapposizione tra un mondo che viene avvertito come
Ivi, p. 130.
Ivi, p. 150.
36 Ivi, p. 89. «Il romanzo – dice altrove Lukács – è la forma dell’avventura, del valore
proprio dell’interiorità; il suo contenuto è la storia dell’anima, che qui imprende ad
autoconoscersi, che delle avventure va in cerca, per trovare, in esse verificandosi, la
propria essenzialità» (ivi, p. 132).
37 Ivi, p. 176.
38 Ivi, p. 174.
39 G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 16. È il frammento 94, dedicato a Romanzo e epos, che
si apre appunto con la domanda: «Che il romanzo nasca dall’isolamento?» (p. 15), e annota
più avanti: «Epos: natura; romanzo: società» (p. 16). Ma cfr. anche il frammento 21 (p.
19), dove Lukács sottolinea che nel romanzo «si produce un mondo della durée e delle
istituzioni oggettive», e ricorda come Dostoevskij non abbia mai dato forma a un
matrimonio, cioè a un’istituzione.
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contingente e incompiuto, diverso dalle categorie che fondano l’interiorità
del soggetto, e un individuo problematico in movimento verso
l’autocoscienza che si rapporta a quel mondo nella forma della
rassegnazione.
Questa articolazione del romanzo, questa sua forma e questa sua
conclusione, si ritrovano nei tre tipi di romanzo individuati da Lukács. Il
primo è il romanzo d’avventura, come evoluzione della concezione per cui
l’occupazione, la professione è il veicolo dell’azione per un soggetto che
avverte la centralità dell’azione ma ha come referente un mondo in cui la
separazione di realtà e ideale si porta dietro quella di azione e
contemplazione. Da questa scissione scaturisce poi il secondo tipo di
romanzo, che Lukács vede come tipico dell’arte della modernità: il
romanzo della disillusione. Questa Stimmung nasce dalla predeterminazione
del fallimento dell’azione da parte di un soggetto che enfatizza il suo dover
essere e la sua interiorità e si riduce ad un atteggiamento più contemplativo
che attivo, e rappresenta agli occhi di Lukács già un «programma
dell’ateismo»40, un modello d’arte nichilistico che esibisce una lotta contro
la convenzione.
Ma il pieno dispiegamento del nichilismo è trovato da Lukács nel tipo di
romanzo di cui Dostoevskij è maestro: il romanzo criminale. In esso è in
atto un “delitto necessario”, di cui Raskolnikov fornisce forse il modello
più compiuto, che, essendo rappresentato al di fuori di ogni tentazione di
ricostruzione psicologica, ma al contrario alla luce dell’interiorizzazione di
intricati nessi causali e dell’assunzione dei sentimenti come semplici dati di
fatto, elementi dell’azione, affida quest’ultima all’esperimento che il
soggetto compie su se stesso per conoscersi e la colloca in «una sfera del
destino»41, dove «il criminale […] si sente tale»42 e il problema morale si
pone come il problema della realtà. Ma ciò su cui Dostoevskij insiste
maggiormente è che questa azione, proprio per il suo carattere destinale, si
configura come quell’azione eroica di cui il soggetto della modernità era
andato in cerca inutilmente, come un’azione capace di «andare fino in
fondo (far saltare le istituzioni)»43, di produrre uno «sfondamento della
realtà»44, «un superamento dello spirito oggettivo»45.
Ivi, p. 16.
Ivi, pp. 18-19.
42 Ivi, p. 61.
43 Ivi, p. 18.
44 Ivi, p. 20.
40
41
Nichilismo, etica e filosofia della storia nel primo Lukács
171
Il soggetto del romanzo criminale è definito da Lukács con un altro
termine assunto da Ernst Bloch: luciferino, il soggetto ribelle al Dio che sta
in alto che si assume l’inevitabilità del peccato in un mondo in cui la prima
etica è entrata in crisi e attraverso la dannazione della propria anima
annuncia all’umanità la speranza in un futuro migliore. Tale è Ivan
Karamazov, ma non è un caso che nel terzo livello di nichilismo Lukács
colloca il terrorista russo Kalaev, in cui il sacrificio morale trapassa nella
lotta politica e la illumina. In questa figura è il presupposto dello scritto di
Lukács su Tattica e etica46, e la misura del percorso da lui compiuto, alla
luce della lezione di Dostoevskij, dalle vaghe esigenze di Sulla povertà di
spirito all’impegno politico concreto. Ma questo per Lukács non è l’unico
sbocco del luciferino e del nichilismo che esso rappresenta nella sua rivolta
contro le istituzioni: esso apre infatti anche al terzo livello della vitalità, di
cui il terzo nichilismo, quello del sacrificio rappresentato da Kalaev,
costituisce uno dei due versanti, e come tale esso è preliminare alla
seconda etica47, a quell’etica superiore rappresentata appunto da altre
forme di sacrificio come Myškin, o Sonja, o Alëša. La spiritualità del
terrorista e quella dell’apostolo laico trovano il loro terreno comune
secondo Lukács nello spirito russo.
Solo questo spirito infatti ha prodotto un nichilismo capace di avere una
potente carica etica che si rivolga contro lo stesso luciferino e lo superi, un
nichilismo autentico: «non vi è un ateismo europeo, solo uno russo»48. Se
infatti il primo, di cui Lukács indica il maggior rappresentante in
Nietzsche, e il modello russo nel Bazarov di Turgenev, si presenta come un
problema personale e morale, come una domanda su come si può morire
senza Dio, come una convinzione che non distingue in sostanza, si
potrebbe aggiungere esistenzialmente, chi la segue da ogni altro e non
coinvolge le conseguenze etiche della miscredenza, per i russi, per
Dostoevskij, il nichilismo è un’esperienza vissuta che riguarda la possibilità
di vivere senza Dio, non è il chiarimento di un errore, come in Feuerbach,
ma è l’esperienza della morte di Dio in forza della quale è realmente
successo qualcosa, non è un problema di scelte ideali, ma è direttamente
Ivi, p. 40.
Cfr. G. LUKÁCS, Tattica e etica, in G. LUKÁCS, Scritti politici giovanili 1919-1928,
Laterza, Bari 1972, pp. 10-11.
47 Nel frammento 88 Lukács appunta tra l’altro: «Nel libro: il capitolo sull’ateismo
prima della seconda etica» (G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 13).
48 Ivi, p. 31.
45
46
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Giovambattista Vaccaro
connesso al problema della realtà. Per questo Lukács è colpito dal fatto che
in Dostoevskij gli atei non parlano mai di Dio e sono vicini a Dio al punto
che lo scrittore mette in bocca all’ateo Kirillov lo stesso apprezzamento
positivo dell’universo pronunciato dal santo starec Zosima.
Ma di fronte a Dostoevskij anche “il nichilismo buddista di Tolstoj”
appare a Lukács “europeo”49 e non russo. In Tolstoj infatti le idee appaiono
irrilevanti rispetto alla natura, e si ripresenta, ad es. in Anna Karenina,
quella lotta contro le convenzioni destinata a produrre il romanzo della
disillusione e il disprezzo del dialogo, mentre la posizione di Dostoevskij
appare a Lukács del tutto opposta: aperta al dialogo perché estranea alla
lotta contro la convenzione e per questo anche lontana dal romanzo della
disillusione50, ma anche al romanzo d’avventura, poiché «nell’anima si
trova l’avventura»51. Dunque quella seconda etica che nel romanticismo
tedesco era affiorata come idea, quindi nella frivolezza dell’ironia, e che in
Tolstoj si presenta, inautenticamente, come sentimento, si presenta in
Dostoevskij come la vera vita, come la vita da eroe a cui il soggetto della
modernità anela. Ma in cosa consiste questa seconda etica?
In diversi luoghi degli appunti per il volume su Dostoevskij Lukács
indica la vera vita, la vita da eroe, nello sforzo dell’anima di porsi come
sostanza52. La delucidazione della modalità di questo sforzo costituisce
dunque l’asse della definizione di un’etica autentica per un’esistenza
autentica. Il passaggio a questa etica, e quindi all’anima come sostanza,
Lukács lo trova esemplificato in Kierkegaard e nella sua «sospensione
teleologica dell’etico: sempre una sospensione del dovere della veridicità
(della rivelazione, dell’universalità)», cioè delle istituzioni della prima
etica, «che conduce alla solitudine, alla taciturnità»53, e, appunto, nello
spirito russo, dove questa sospensione e questo isolamento possono
spingersi, come si è visto, fino al crimine. Del resto questo isolamento, che
inaugura l’epoca che Fichte ha chiamato della compiuta peccaminosità,
appare a Lukács come necessario in quanto momento di passaggio, e come
Ivi, p. 16.
Lukács insiste su questo in molti frammenti: cfr. ad es. i frammenti 95 (ivi, p. 16),
22 e 23 (ivi, p. 19), 27 e 28 (ivi, p. 59). Per una critica a Tolstoj cfr. ivi, p. 21, e nel
frammento 19 aveva accusato Tolstoj e Turgenev di essere “non autentici” (ivi, p. 18).
51 Ivi, p. 15.
52 Cfr. ivi, pp. 29 e 59.
53 Ivi, p. 66. La figura kierkegaardiana a cui Lukács pensa è certamente l’Abramo di S.
KIERKEGAARD, Timore e tremore, in S. KIERKEGGARD, Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni,
Firenze 1972, pp. 48-100.
49
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Nichilismo, etica e filosofia della storia nel primo Lukács
173
tale segna il tempo di Dostoevskij. Di fronte ad esso è improponibile il
modello del romanticismo tedesco, che vuole risolvere la seconda etica
nello stato, poiché anzi quest’ultimo dal punto di vista della seconda etica è
un non-essente-malvagio, come per il pensiero indiano e per Tolstoj, o il
sacrificio dell’anima, come per i rivoluzionari, o infine una realtà superata
ma essente, come appunto in Dostoevskij, che vede in esso il pericolo della
Bisanzio realizzata. E, analogamente, nella seconda etica «la giustizia non
compare»54, ma, come insegna il Discorso della montagna, è sostituita
dalla bontà, nella quale prende corpo la «nostalgia di un perdono
universale»55 che fa cadere il velo attraverso cui il mondo empirico ci
appare come il caos del solipsismo etico e costituisce l’ostacolo al
problema della redenzione che la sostanza dell’anima, o la seconda etica,
pone come problema della vita.
Alla luce di questa premessa allora l’azione eroica immediata, con la
quale in Dostoevskij coincide un pensiero che ormai non si identifica più
con la contemplazione, si configura come quell’atteggiamento tipicamente
russo per cui «il ritrovarsi dell’anima è il trovare gli altri»56, e di fronte a
cui i personaggi di Dostoevskij che cercano la solitudine, come Ivan
Karamazov o Versilov, non sono russi. La seconda etica, o la sostanzialità
dell’anima, o la stessa fede in Dio, consistono allora in questo
ritrovamento degli altri che passa attraverso la consapevolezza che «ognuno
di noi è colpevole per tutti e per tutto nel mondo […] e non solo per via di
un’universale colpa mondana, ma ogni singolo per tutti gli uomini della
terra»57, come Dmitri Karamazov che accetta la pena per il parricidio che
non ha commesso per scontare la colpa della sofferenza dei bambini.
Questo è il senso dell’apostolato laico proposto da Zosima ad Alëša a da
Tichon a Stavrogin, o assunto da Myškin: «il monaco e il saggio (indiano)
non sono nostre forme di vita»58.
Questo trovare gli altri costituisce una “democrazia etica” basata
sull’amore e sul rispetto nella quale ha luogo l’«eliminazione dei motivi
geoviani»59 e prende corpo invece una «volontaria comunità»60, di cui
G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 77.
Ivi, p. 29.
56 Ivi, p. 25.
57 Ivi, p. 24.
58 Ivi, p. 29.
59 Ivi, p. 75.
60 Ivi, p. 47.
54
55
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Giovambattista Vaccaro
Lukács trova i modelli negli eretici medievali, come Wycliffe o,
soprattutto Franck e gli anabattisti, e nella quale è finalmente divenuta
possibile la «conciliazione dell’individuo problematico, guidato dal vissuto
ideale, con la realtà concreta, sociale»61, poiché essa «presuppone […] una
comprensione e una possibilità di collaborazione in rapporto a ciò che, tra
gli uomini, è considerato l’essenziale», e poiché essa «non è né il
radicamento ingenuo e spontaneo nei nessi sociali, con la conseguente
naturale solidarietà della mutua appartenenza (come accadeva nelle antiche
epopee), e neppure una mistica esperienza di comunione, la quale si lasci
alle spalle, dimenticandosene, l’isolata individualità», ma piuttosto «un
mutuo affinarsi e adattarsi di personalità» il cui contenuto «è un ideale di
libertà umana, la quale comprenda in sé e asseveri tutte le immagini della
vita consociata»62.
Ora al centro della seconda etica compare il genere umano che vive
concretamente in ciascun individuo, e lo stato diventa forma del genere,
cessando di essere istituzione coercitiva e realizzando un vero
«nominalismo delle istituzioni di contro allo spirito oggettivo»63 inteso «a
realizzare il minimo etico» in cui le istituzioni «hanno solo un puro valore
di sprone»64; ora il dovere si presenta come «dovere dell’amore»65 che
allontana dalla contemplazione e tenta «di superare l’eroico-luciferino sul
cammino verso la comunità»66; ora, infine, l’anima si raggiunge come
sostanza, oltre la scomparsa dell’anima individuale tipica del misticismo
indiano, ma anche oltre l’affermazione di essa nella sua solitudine di fronte
a Dio che caratterizza il mondo spirituale tedesco e che lo risospinge verso
una sterile nostalgia per la polis greca che costituisce la tragedia della
Germania. Dalla Russia invece Lukács vede giungere il messaggio
dell’affermazione della propria anima «nella comunità delle altre anime
voluta e creata da Dio»67, che Lukács denomina con un altro termine
ripreso da Bloch: paraclito.
Se dunque il luciferino, con la sua rivolta, col suo nichilismo, col suo
individualismo, era stato il passaggio necessario alla seconda etica, la
G. LUKÁCS, Teoria del romanzo, cit., p. 189.
Ivi, p. 191.
63 G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 53.
64 Ivi, p. 39.
65 Ivi, p. 73.
66 Ivi, p. 64.
67 Ibidem.
61
62
Nichilismo, etica e filosofia della storia nel primo Lukács
175
comunità fraterna paraclitea la realizza in pieno superando il luciferino e il
nichilismo. Ma se questo superamento fallisce, se falliscono Alëša e
Myškin, allora siamo condannati o a ricadere nel geoviano o a ripiegare
sulla rassegnazione di Lutero o di Franck, per il quale il mondo non può
fare a meno di un papa68. Su questo sfondo si colloca la problematicità della
rivoluzione, che in queste pagine di Lukács si spinge fino alla critica di
Marx, e che consiste nel rischio permanente dell’intellettualismo, del
cedimento della sostanza, della ricaduta della seconda etica nella prima nel
momento in cui le realizzazioni rivoluzionarie arrestano la lotta contro il
geoviano, le tappe di essa sono altrettanti ostacoli all’avvento del paraclito,
altrettante restaurazioni del geoviano, mentre su tutto stende la sua ombra
il problema della violenza rivoluzionaria, del crimine che fa perdere la
propria anima ma che è necessario come azione che si compie in nome
dell’amore per gli altri, e che per questo conferisce al sacrificio
rivoluzionario una doppia valenza. In fondo anche la rivoluzione, con la sua
duplice natura di trascendenza etica e di azione politica, è una sospensione
etica dell’etica, e per questo secondo Lukács non può essere giudicata dal
punto di vista real-politico69.
Ma se con la seconda etica ci troviamo di fronte ad un’etica comunitaria
e non più individualistica, restano da chiarire i tipi della solidarietà
interumana. Lukács ne indica tre: quello dell’Oriente, per cui l’io e il tu
sono un’illusione; la fratellanza astratta dell’Europa, in cui «l’altro è il mio
“concittadino”, il mio “compagno”, il mio “compatriota”»; e quella,
concreta, della Russia, in cui effettivamente «l’altro è mio fratello», e
«quando trovo me stesso, in quanto trovo me stesso, trovo l’altro»70. La
comunità che così si forma, e che a Lukács appare “utopica”, è appunto la
bontà, perché è fatta di soggetti «del tutto estranei (perché contano ancora
sulle anime isolate) ma nei rari e pochi momenti autentici vicinissimi»71. Su
questo sfondo si capisce l’importanza che Lukács attribuisce al dialogo, che
era al centro delle sue preoccupazioni già in Sulla povertà di spirito72, come
68 Cfr. ibidem. La fonte di Lukács qui è W. DILTHEY, L’analisi dell’uomo e l’intuizione
della natura. Dal Rinascimento al secolo XVIII, La Nuova Italia, Firenze 1974, vol. I, p. 115.
69 Cfr. G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., pp. 56-57.
70 Ivi, p. 81.
71 Ibidem, e più avanti Lukács ribadisce: «relazione con l’“amore” (tra gli uomini) e
Dio».
72 A. HOESCHEN, Das “Dostojewski”-Projekt, cit., pp. 11 sgg., ha indicato il primo
documento di quella che egli chiama il Progetto “Dostoevskij” proprio in questo scritto,
che ruota intorno al tema che ispira l’intero Progetto: la possibilità del dialogo come
176
Giovambattista Vaccaro
modalità dell’uscita dall’isolamento, dell’andata verso l’altro, della
comprensione reciproca. Chi, come Tolstoj, disprezza il dialogo, disprezza
l’interumano, di cui esso è condizione e realtà. Così la seconda etica può
essere davvero definita come «la prassi sociale dell’uomo concreto che è
interessato solo alla concretezza dell’altro», e «la sua forma ideale […] è la
“comprensione qualitativa delle persone”», che «rimane teoreticamente
indisponibile, dunque mistica […], cioè “nuda di senso e di valore”»73.
Ma se il problema di Lukács resta quello della forma d’arte che esprime
una determinata etica, il ritorno di una comunità ad un livello più alto e
complesso, l’avvento di una nuova polis, russa e non greca, si esprimerà in
una nuova epica74 che prenderà corpo in una scrittura non drammatica,
poiché il dramma cerca gli eroi e in esso si è eroi, ma non si vive da eroi. Il
modello di questa scrittura è ritrovato da Lukács naturalmente in
Dostoevskij, cioè in un autore a cui è estraneo il contrasto tra ideale e reale
e quindi la disillusione, e del quale perciò Lukács può affermare
paradossalmente che non ha mai scritto romanzi75, che si è collocato oltre
l’epoca della compiuta peccaminosità per alludere alla possibilità di un
nuovo mondo. In Dostoevskij, in sostanza, Lukács trova la conferma del
fatto che non si fa arte per l’arte, come vuole la cultura estetica del
nichilismo contemporaneo, ma, al contrario, «il problema estetico in
questione è […], nei suoi fondamenti ultimi, un problema etico […], è
«possibilità dell’accesso ermeneutico all’altro» (p. 13), di una «comprensione qualitativa
delle persone» (p. 3) opposta alla vita abituale e intesa non come accordo su contenuti
teoretici di pensiero, bensì compenetrazione delle anime attraverso il riconoscimento di
ciò che è voluto ed è sentito, secondo un modello che Lukács riprenderebbe da Simmel
(cfr. G. SIMMEL, I problemi della filosofia della storia, trad. it. Casale Monferrato, Marietti,
1982, pp. 29 sgg.). Hoeschen insiste molto sulla presenza di Simmel all’interno del
Progetto “Dostoevskij”, al punto di ritrovare lo stesso tema del ritorno dell’anima a se
stessa nello scritto Concetto e tragedia della cultura (cfr. G. SIMMEL, La moda e altri saggi di
cultura filosofica, Longanesi, Milano 1985, pp. 189-212), e da ricollocare il problema
centrale del Progetto “Dostoevskij” all’interno della problematica simmeliana della
tragedia della cultura come autoalienazione, pur precisando la differenza nel concetto di
cultura tra Simmel e Lukács, che consiste nel fatto che «mentre Simmel fissa la dialettica di
autosviluppo e autoprivazione che sta alla base dell’individualità, tutta l’attenzione di
Lukács si rivolge ad una sorta di aporetica dell’intersoggettività» (A. HOESCHEN, Das
“Dostojewski”-Projekt, cit., p. 22).
73 Ivi, p. 268.
74 Cfr. G. LUKÁCS, Dostoevskij, cit., p. 13, dove, nel frammento 87, Lukács annota:
«La seconda etica come apriori formale dell’epica».
75 Cfr. G. LUKÁCS, Teoria del romanzo, cit., p. 217.
Nichilismo, etica e filosofia della storia nel primo Lukács
177
tutt’uno col problema etico dell’utopia; il problema di stabilire fino a che
punto può essere giustificata, in senso etico, la possibilità di pensare un
mondo migliore»76. La soluzione di questo problema incarna ora per
Lukács il terzo momento della filosofia hegeliana della storia, il suo
compimento. E sarà il compito della rivoluzione.
Abstract
The paper aims to show, in the production of the early Lukács, the plot
and the value to considerations of nihilism, ethics, and compared to these,
the philosophy of history. Through the interpretations of the greatest
scholars and critics, to acknowledge the proximity and at the same time,
the originality of the thinker in question in relation to the work of Hegel.
76
Ivi, p. 166.