Le catastrofi naturali in Italia (ago 2015)

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Le catastrofi naturali in Italia (ago 2015)
ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
SR
SUPPLEMENTO AL N. 10, 1° AGOSTO 2015
LE CATASTROFI
NATURALI
IN ITALIA
a cura di Roberto Scandone
Scienze SRe Ricerche
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Le Catastrofi Naturali
in Italia
Indice
ROBERTO SCANDONE, LISETTA GIACOMELLI
Catastrofi naturali: Previsione e Prevenzione
pag. 5
ROBERTO SCANDONE, LISETTA GIACOMELLI
Terremoti e Catastrofi sismiche in Italia
pag. 12
GIOVANNI MENDUNI
Le catastrofi idrogeologiche in Italia
pag. 21
FRANCESCO M. GUADAGNO E PAOLA REVELLINO
Le Frane: tra difficoltà interpretative e modifiche dell’ambiente
antropizzato e del clima
pag. 25
RAFFAELLO CIONI, ROBERTO SANTACROCE
La pericolosità vulcanica
pag. 39
VINCENZO ARTALE E ALESSANDRO DELL’AQUILA
Evoluzione del clima della regione mediterranea
suppl. al n. 10, 1° agosto 2015
pag. 53
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SUPPL. AL N. 10, 1° AGOSTO 2015
ISSN 2283-5873
Scienze e Ricerche
suppl. al n. 10, 1° agosto 2015
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Catastrofi naturali: Previsione e
Prevenzione
ROBERTO SCANDONE, LISETTA GIACOMELLI
Dipartimento di Matematica e Fisica, Università degli Studi Roma Tre
S
econdo la definizione delle Nazioni Unite, ni seguono tempi di ritorno geologici, misurati in termini
una catastrofe o disastro è ‘un evento concen- di centinaia, migliaia o milioni di anni, le mutazioni climatrato nel tempo e nello spazio, nel corso del tiche, influenzate principalmente da variabili astronomiche,
quale una comunità è sottoposta a un gra- seguono trend secolari che possono avere impatti anche nel
ve pericolo ed è soggetta a perdite dei suoi breve termine.
membri, o delle proprietà o dei beni, in misura tale che la
Tutti questi elementi concorrono a determinare le condistruttura sociale è sconvolta e risulta impossibile lo svolgi- zioni per un disastro, ma non ne sono responsabili. Come
mento delle funzioni essenziali della società stessa’.
affermò il sismologo Charles Richter, non sono i terremoti
Negli ultimi decenni,
che uccidono le persone,
gli eventi naturali con
bensì gli edifici mentre
effetti disastrosi sembracadono. Dietro questa
no diventati sempre più
semplice considerazione
frequenti e per spiegarne
si cela la verità di fondo
la ragione si invocano le
del problema: non sono
più svariate motivazioni.
gli eventi che causano il
Il principale imputato è
disastro, ma la loro interazione con l’ambiente
l’inquinamento prodotto
antropizzato. Fenomeni
dalle attività umane, le
che sembrano avvenicui ripercussioni princire per la prima volta in
pali sarebbero il riscaluna determinata area,
damento globale, il buco
in realtà si sono sempre
dell’ozono e molte altre
verificati, ma non hanno
conseguenze. Senza volerne negare l’esistenza e
avuto gravi conseguenze
l’entità, l’impatto dell’ine pertanto sono passati
quinamento da solo non
inosservati. Ad esempio,
basta a descrivere una
molte alluvioni, anche
realtà che è molto comrecenti, hanno interessato
plessa: le cause che innele aree pianeggianti che si
scano i disastri possono
formano lungo i meandri
essere anche molte altre,
dei fiumi e che sono state
così come molteplici
inopportunamente occupate da attività industriasono le tipologie degli
li, quando non da quareventi capaci di causare
tieri residenziali. I fiumi
gravi danni. Se da una
hanno sempre seguito le
parte terremoti ed eruzio- Fig. 1 – Veduta aerea della città di Roma attraversata dal Tevere
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Fig. 1b La piena del Tevere del 1915 nella zona della basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma. L’area è visibile al centro della figura
precedente nell’ansa del Tevere
Da sempre, la possibilità di sviluppo dell’attività umana
è legata al clima e alla struttura fisica del luogo, condizioni
da cui dipendono la facilità o meno di procurarsi il cibo e la
possibilità di evitare gli eventi naturali più violenti. La storia
e l’evoluzione degli insediamenti urbani seguono la capacità
dei popoli nel valutare queste caratteristiche e, eventualmente, nel superare le fasi più severe derivanti da una errata conoscenza del territorio. I numerosi resti di città abbandonate
indicano posti dove gli esseri umani hanno sottovalutato i
rischi, a favore dei possibili vantaggi offerti dalla natura del
luogo. Le tante Pompei disseminate in varie parti d’Italia
sono testimonianza di come la memoria umana cancelli rapidamente eventi traumatici, lontani nel tempo anche solo
di qualche generazione. Il panorama delle città e dei borghi
d’Italia, a partire dalla preistoria e fino al ‘900, è il risultato
del continuo compromesso fra natura e uomo, dove le risorse derivanti dalla terra, dai commerci e dalle guerre, si sono bilanciate con la fragilità dei
luoghi e l’ostilità di altri uomini.
A partire dal ‘900, la crescita della popolazione, associata allo sviluppo della scienza e
della medicina, ha progressivamente annullato il faticoso equilibrio che si era realizzato in
migliaia di anni. In particolare, con il secondo
dopoguerra, il panorama del nostro paese ha subito una duplice trasformazione: da una parte
l’abbandono dell’agricoltura e la crescita della
società industriale ha portato ad una urbanizzazione di massa, dall’altra il trasporto indiviFig. 2 – Differenti fonti di inquinamento: automobili, tracce di aerei a altezze atmosferiche e fumi
prodotti dall’inceneritore della città di Brescia, che pure rappresenta una possibile soluzione per
duale ha causato una espansione macroscopica
lo smaltimento dei rifiuti e il contenimento nella produzione gas tossici
delle aree costruite. La speculazione finanziaria
stesse leggi e quando il meandro diventa troppo pronunciato
viene scavalcato dal corso d’acqua al primo aumento di portata. Gli interventi di contenimento della corrente fluviale
hanno spesso creato false sicurezze e consentito a amministrazioni poco consapevoli l’utilizzo di aree che possono
essere invase dall’acqua in qualsiasi momento nel corso di
precipitazioni anche non eccezionali.
Con la stessa superficialità, la valutazione dell’inquinamento atmosferico non tiene mai nel dovuto conto il contributo del traffico aereo, capace di portare direttamente in
quota quantità di scarichi dannosi pari a quelle di centinaia
di autostrade. Mentre si fanno timidamente strada le prospettive per ridurre le emissioni dei motori a terra, nulla ostacola
il vertiginoso incremento dei voli aerei, la cui frequenza non
sempre corrisponde a vere esigenze di trasporto e non sempre produce l’auspicata emancipazione culturale.
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
ha ulteriormente favorito questo fenomeno di
crescita urbana che si è poi slegato dalla effettiva richiesta abitativa.
Questo processo, sviluppatosi in tempi rapidissimi, grazie anche al progresso delle tecniche edilizie e al dilagare delle fonti creditizie,
ha completamente alterato il paesaggio, senza
alcuna considerazione della fragilità e del difficile contesto geologico dell’Italia. La trasformazione sociale, da un sistema sostanzialmente
basato sull’agricoltura a una popolazione inurbata in città sempre più grandi, ha ulteriormente peggiorato il rapporto uomo-ambiente.
In breve tempo si è passati da un paese disseminato e controllato da agglomerati contadini
autosufficienti, i cui componenti provvedevano Fig. 3 – Lungo il versante sotto l’antica torre (sec. XIII) si intravvedono le case di Sperone, un
nel comune di Gioia dei Marsi, abbandonato dopo il terremoto della Marsica del 1915. La
anche alla conservazione quotidiana dell’am- paese
ricostruzione fatta poco più in alto è stata a sua volta abbandonata circa 30 anni fa
biente, a estese aeree urbane, talvolta prive dei
connotati di città vere e proprie. Una struttura
sociale divenuta sempre più fragile, si è affidata
totalmente alle amministrazioni, locali o statali, delegando del Friuli del 1976 (2 scosse di magnitudo 6.5). Il costo ecoloro ogni provvedimento basato sulla conoscenza della natu- nomico dei due terremoti (magnitudo circa 6), dell’Aquila
ra specifica e sulle possibilità di sfruttamento del territorio. del 2009 (10 miliardi di euro) e dell’Emilia del 2012 (13
In questo modo, mentre gran parte della popolazione restava miliardi di euro) è paragonabile a quello del Friuli, malgrado
nella completa ignoranza dei possibili danni cui poteva es- la magnitudo inferiore e l’inferiore numero di vittime.
Analogamente per quanto riguarda le frane e le alluvioni
sere esposta, le amministrazioni locali sono state, e in larga
parte continuano a essere, inadeguate ai nuovi compiti, per è andata aumentando nel tempo sia la perdita di vite umane,
la mancanza di strumenti culturali, economici e normativi, sia il costo economico dei danni. Nel cinquantennio tra il
indispensabili per la preservazione dell’ambiente e la pre- 1850 e il 1899 le vittime e dispersi per frana furono 614,
nella prima metà del ‘900 le vittime sono aumentate a 1207,
venzione dei rischi derivanti dalla sua profonda alterazione.
Lo sviluppo incontrollato dell’urbanizzazione in zone a mentre tra il 1950 e il 2008 in Italia ci sono state ben 4103
elevato rischio, purtroppo particolarmente estese lungo tutta vittime di eventi franosi (di cui 1917 per il solo Vajont) (La
la nostra penisola, ha esposto un numero sempre crescente Repubblica 6 Febbraio, 2014).
di persone alle conseguenze di
alluvioni, frane, terremoti e eruzioni. I disastri causati dal dissesto idrogeologico, frequenti in
Italia, non nascono da un’occasionale dimenticanza, o mancata
allerta, ma sono il risultato della trasformazione del paese che
non si è dotato di meccanismi di
salvaguardia atti a contrastare la
crescente ignoranza ambientale Fig. 4 - Uno dei casolari tipici della campagna romana, all’esterno del GRA, ormai circondato vaste aree
condominiali. Il raccordo anulare fino a pochi anni fa segnava il confine all’espansione della città di Roma
della propria popolazione.
Insieme al maggior numero
di persone e ai beni esposti al
rischio, i costi economici delle
catastrofi naturali sono andati
aumentando nel tempo. Fra il
1944 e il 1990, le spese dello
Stato in queste voci di spese
sono state pari a 74 miliardi di
euro di cui 34 per il terremoto
del 1980 in Basilicata-Irpinia
(magnitudo 6.9) e 11 per quello Fig. 5 – I lembi di campagna intorno a Roma mostrano un sistema abitativo rurale ormai in abbandono
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Fig 6 – La parete del monte Toc dopo il franamento avvenuto il 9 ottobre 1963 che causò la tracimazione della diga del Vajont e circa 2000 vittime. La costruzione
della diga sottovalutò le caratteristiche geologiche dei versanti e l’invaso venne riempito oltre i margini di sicurezza. A questo si aggiunge il mancato allarme e
l’evacuazione dei paesi a valle la sera prima della tragedia, ai primi cedimenti del pendio
Fig. 7 – Il Vesuvio domina l’antica Pompei e le recenti città sorte ai suoi piedi. Pompei e Ercolano furono sepolte dai prodotti di un’eruzione nel 79 d.C.
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
PREVENZIONE E PREVISIONE DELLE
CATASTROFI NATURALI
Di fronte a questo quadro poco confortante, è
naturale chiedersi cosa possa fare la scienza per
contribuire al miglioramento della situazione
e se sia possibile prevedere l’accadimento dei
fenomeni naturali in maniera tale da minimizzarne i danni. La risposta dipende soprattutto
dal tipo di evento naturale e dal suo sviluppo
nel tempo.
Previsione e prevenzione sono due approcci
diversi ai fenomeni naturali e alla loro intera- Fig. 8 – Il ponte sul torrente Re a Sonico, Valcamonica, provincia di Brescia, costruito dopo una
zione con l’ambiente. La previsione significa disastrosa esondazione del 2014. La dimensione dell’alveo, il cui percorso naturale è stato in
parte modificato nel punto di confluenza nel fiume Oglio, e la cementificazione del fondo, che si
essere capaci di identificare la dinamica di un trova a tratti anche oltre la spalla del ponte, sembrano opere inadeguate per un corso d’acqua a
forte regime torrentizio
fenomeno naturale e di conseguenza essere in
grado di individuare il momento in cui raggiungerà una fase critica e di quantificarne l’intensità. La pre- a livello nazionale. L’amministratore locale molto spesso,
venzione significa essere in grado di quantificare gli effetti per ragioni economiche, sociali e particolari, quali gli stretti
che un fenomeno naturale può avere sull’ambiente e, di con- rapporti con la cittadinanza nel caso di piccole comunità,
sembra incapace di far rispettare con rigore le norme di difeseguenza, individuare le azioni capaci di ridurne l’impatto.
I progressi maggiori si sono indirizzati verso la preven- sa ambientale per poi, al verificarsi di un evento disastroso,
zione. Ad esempio, nel nostro paese è ormai ben definito il ricorrere allo stato di calamità naturale per sanare situazioni
quadro delle zone suscettibili di essere colpite da terremoti pregresse, causate dall’incapacità della stessa o delle pasche possono provocare uno scuotimento del suolo con acce- sate amministrazioni. Si può ad esempio citare il caso delle
lerazioni superiori a un determinato valore e la distribuzione ormai ricorrenti e disastrose alluvioni in Liguria e in pargeografica delle zone in frana o soggette a possibili inonda- ticolare nella città di Genova, causate dall’esondazione di
zioni. Altrettanto conosciute sono le aree che possono essere torrenti noti per la loro impetuosità che attraversano zone
interessate da fenomeni eruttivi. Gli studi compiuti, a partire urbane, rese sempre più fragili dalla cementificazione e dal
dagli anni ‘70 del secolo scorso dalle Università italiane, dal restringimento degli alvei.
CNR e successivamente dall’Istituto Nazionale di
Geofisica e Vulcanologia, hanno
riempito un vuoto di conoscenza che il nostro
paese si portava
dietro dall’Unità d’Italia. Ciò
che è mancato è
il trasferimento
di queste conoscenze a livello
di autorità locale. In particolare
i Comuni, con
le dovute differenze, sembrano
marcare un ritardo nell’adeguarsi al progresso
delle conoscenze
scientifiche e normative formulate Fig 9 – Il cono del Vesuvio e il golfo di Napoli. Sullo sfondo Portici e l’area orientale di Napoli
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
e che cadano nel vuoto, specie
se a livello locale non sono operativi specifici piani di trasferimento dell’informazione agli
utenti finali. Mancata allerta e
falsa allerta sono due posizioni
estreme che le autorità possono
assumere e che spesso, se risultano a posteriori errate, danno
luogo a pesanti conseguenze,
Fig. 10 – Il paese di Rocca di Cambio, danneggiato dal terremoto del 2009 e in primo piano le abitazioni provvisorie,
umane e giudiziarie. Quando
ancora abitate al 2015
l’assunzione di responsabilità
non è precisamente definita, si
La stessa situazione di inadeguatezza si ripete anche per consente un rimpallo di competenze e il verificarsi di errori
quello che riguarda la previsione. La previsione di un feno- anche macroscopici che restano spesso impuniti.
l fenomeno naturale più temuto e che si è rivelato il più
meno naturale potenzialmente pericoloso implica la conoscenza fisica del fenomeno, dei meccanismi che lo generano pericoloso per l’uomo e per le strutture è il terremoto. I terremoti hanno un tempo di accadimento molto breve, anche se
e dei tempi propri di accadimento.
I fenomeni meteorologici, benché prevedibili su larga sca- si sospetta che il tempo di preparazione possa essere lungo
la, grazie allo sviluppo del monitoraggio attraverso i satelliti in funzione dell’energia liberata. In questo caso siamo del
e ai modelli computerizzati, hanno tuttavia ancora un grado tutto ignoranti dei fattori che possono far liberare istantanedi imprecisione a piccola scala. La dinamica dell’atmosfe- amente l’energia accumulata e non sappiamo nemmeno se
ra è governata da un numero molto elevato di fattori che esistano segnali che precedano questa liberazione su tempi
non permettono una descrizione in termini deterministici, sufficientemente lunghi da permettere un preavviso. Un caso
in quanto le piccole oscillazioni di fattori casuali possono che ha sollevato particolare attenzione è stato quello relativo
determinare lo sviluppo di condizioni del tutto differenti. il terremoto dell’Aquila del 2009 e allo sciame sismico che
A questo proposito bisogna ricordare che tutte le previsioni l’ha preceduto.
Va premesso che, a livello mondiale, non vi è alcun memeteorologiche hanno un grado d’indeterminazione statistitodo scientificamente attendibile che permetta di prevedere
ca che viene associato alla previsione.
Negli ultimi anni si sono moltiplicati da parte della Pro- l’accadimento di un terremoto. Tuttavia, il perdurare di uno
tezione Civile Nazionale gli allarmi per eventi critici me- sciame sismico, in un’area della quale si conosce la passata
teorologici. Si ha l’impressione che spesso questi allarmi storia sismica, dovrebbe allertare l’attenzione della comuniraggiungano una popolazione ormai abituata e demotivata tà scientifica e della Protezione Civile. Purtroppo in queste
situazioni non si conoscono mezze misure e molto
spesso si passa dalla totale
disattenzione alle scelte più
drastiche con evacuazioni
forzate “manu militari”. Le
testimonianze di molti dei
sopravvissuti del terremoto dell’Aquila contengono
indicazioni di come si sarebbe potuto intervenire per
limitare almeno in parte i
danni individuali. Tali norme, ben conosciute in altre
aree del mondo soggette a
rischio sismico, comprendono ad esempio un kit di
sopravvivenza (lampade,
pile, radio, medicine d’urgenza, documenti, etc) da
tenere in luogo sicuro o in
prossimità, il parcheggio
Fig 11 – Un condominio della città de L’Aquila, nel maggio 2015, con i danni del terremoto del 6 aprile 2009
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
dell’auto, dotata di pieno di combustibile, in aree lontane da
possibili crolli, la verifica puntuale di edifici critici (ospedali, prefetture, caserme, scuole). Altrettanto importante
è l’informazione scientificamente attendibile e la corretta
mediazione attraverso gli organi di stampa e televisione. In
questi casi è più efficace l’onesta ammissione d’ignoranza
scientifica su quanto potrebbe accadere che le generiche affermazioni di avere la situazione “sotto controllo”. Un atteggiamento corretto favorisce la presa di coscienza individuale
e l’adozione delle misure che ciascuno ritiene più opportune.
Per quanto riguarda le eruzioni, è diffusa la convinzione
che ciascuna di esse sia preceduta da una serie di fenomeni
come terremoti, deformazione del suolo, emissioni gassose e
altri ancora che crescono progressivamente e si intensificano
immediatamente prima dell’evento. In realtà, non sempre vi
sono fenomeni precursori e, anche quando si manifestano,
non sempre hanno un andamento progressivo e non sempre
sfociano in un’eruzione. D’altra parte è comunque vero che
le eruzioni hanno uno sviluppo temporale più lungo rispetto,
ad esempio, ad un terremoto, e spesso quelle più violente entrano nella fase critica con un certo ritardo rispetto all’inizio
del fenomeno. E’ questa la ragione per cui gli effetti delle
eruzioni, spesso catastrofici sul territorio, sono meno tragici
per quanto riguarda la perdita di vite umane rispetto a altri
fenomeni naturali come terremoti e alluvioni.
La prevenzione è l’unica arma che abbiamo per difenderci
dagli effetti dei fenomeni naturali, ma non deve essere pensata come un intervento calato dall’alto senza alcuna partecipazione individuale. Al contrario, è solo la conoscenza
di ciascun soggetto nei riguardi dell’ambiente in cui vive,
la vera prevenzione; in tal modo si possono operare scelte
consapevoli che ci possano porre al riparo da eventi anche
inaspettati.
Il compito della scuola e delle istituzioni che si occupano
di questi problemi sarebbe determinante nel promuovere una
consapevolezza che potrebbe rivelarsi decisiva di fronte a un
imminente pericolo. Purtroppo per molti scienziati, politici e
insegnanti, la divulgazione è un ramo del sapere che, invece
di essere considerato l’anello di congiunzione tra la ricerca e
la sua pratica applicazione, viene trattato come una disciplina minore, assegnata ai soggetti che vengono ritenuti, spesso
a torto, i meno capaci. Questo atteggiamento, insieme a un
diffuso clima di superficialità che non tiene in nessun conto
le esperienze del passato e ignora completamente le conseguenze future delle proprie azioni, è una responsabilità di
cui molti dovrebbero farsi carico.
Fig. 12 – Monte Nuovo, il cono vulcanico formatosi nel corso dell’eruzione più recente dei Campi Flegrei, avvenuta nel 1538. La vasta area circolare dei Campi Flegrei
è una caldera vulcanica, posta a Nord-Ovest di Napoli, disseminata da decine di crateri e con una densità abitativa tra le più alte al mondo
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Terremoti e Catastrofi sismiche
in Italia
ROBERTO SCANDONE, LISETTA GIACOMELLI
Dipartimento di Matematica e Fisica, Università degli Studi Roma Tre
A
lle 20.30 del 20 luglio 1883 avvenne
sull’isola di Ischia un terremoto che distrusse il paese di Casamicciola. Tra le rovine, trovarono la morte circa 2000 persone, mentre varie centinaia rimasero ferite.
Quasi tutti persero le loro case.
Sebbene fosse di modesta magnitudo (5.8), tanto che non
causò vittime nel vicino paese di Ischia Porto e fu scarsamen-
te avvertito a Napoli, si rivelò una vera catastrofe, la prima
di tipo sismico che il regno d’Italia si trovò a fronteggiare.
L’impressione suscitata dalla sciagura fu amplificata anche
dal fatto che a esserne colpita era una rinomata località termale, una tra le prime in Italia, già affollata di turisti che
provenivano da molte parti d’Italia e dall’estero. Fra le vittime illustri, si ricordano i genitori e la sorella del giovane
Benedetto Croce, a sua volta miracolosamente estratto vivo
Fig. 1 – Il paese di Casamicciola ai piedi del Monte Epomeo. Il sollevamento del blocco roccioso che forma l’Epomeo è la causa dei terremoti, nonché dell’attività
vulcanica più recente dell’isola e dei frequenti franamenti e cadute di blocchi lungo le pendici del rilievo. Le frane sono spesso innescate dagli stessi fenomeni
sismici. L’edificio grigio, visibile sul lungomare a destra dal centro della fotografia, è il rudere dello storico Pio Monte della Misericordia, uno stabilimento costruito
per consentire l’accesso alle costose cure termali ai meno ricchi. Sostituiva un analogo edificio eretto nei primi anni del 1600, quando le terme rappresentavano uno
dei pochi rimedi alle malattie, e distrutto dai terremoti del 1881 e 1883
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Fig. 2 – Il re, intervenuto sul luogo del disastro, interruppe l’operazione di
copertura delle rovine con uno strato di calce per scongiurare le epidemie. La
prosecuzione delle opere di recupero salvò ancora un centinaio di persone
Fig. 3 – Una delle tante lapidi a Casamicciola che ricordano il terremoto del 1883
dalle macerie.
Un gran numero di scienziati cercò di trovare una spiegazione all’accaduto e il governo appoggiò la costituzione di
un osservatorio geodinamico sull’isola per lo studio dei fenomeni terrestri endogeni. In primo luogo ci si rese conto che i
danni causati dal sisma dipendevano dal tipo di costruzione e
che questo era dovuto anche al fatto che il meridione d’Italia,
con l’unificazione, aveva perso le norme edilizie antisismiche, a suo tempo adottate dal Regno borbonico.
Tali circostanze furono di grande impulso, non solo al
tentativo di affrontare i danni provocati dallo scuotimento
del suolo con interventi di soccorso adeguati, ma anche alla
ricerca scientifica. Per la prima volta un’indagine tecnica
analizzò la risposta alle onde sismiche delle diverse tipologie abitative e del terreno su cui sorgevano gli edifici. Le
conseguenze del sisma risultarono diverse anche in località
molto vicine fra loro e addirittura su parti di un solo edificio
costruite in tempi differenti o sui lati opposti di una stessa
piazza. Lo scopo era individuare i luoghi e le tecniche edilizie più adatte per la ricostruzione, ovviando così alla perdita
delle normative antisismiche in uso sia nello Stato Pontificio
che nel Regno delle Due Sicilie. Il nuovo governo, formato
da funzionari di origine piemontese o provenienti da altre
zone del Nord raramente messe alla prova da simili calamità,
rapidamente emanò un nuovo regolamento per la costruzione degli edifici che si rifaceva a quello adottato dal governo borbonico dopo il terremoto delle Calabrie del 1783 e a
quello Pontificio successivo al terremoto di Norcia del 1859.
La scoperta di come le onde sismiche avessero differenti
velocità, si attenuassero o si amplificassero, a seconda della
densità del mezzo che attraversavano, fu il primo passo per
la classificazione delle aree in base alla pericolosità sismica.
Il governo borbonico, e quelli precedenti del Regno di
Napoli, avevano avuto modo di affinare una specifica esperienza in fatto di sismi, avendo dovuto affrontarne molti e di
disastrosi nel corso di centinaia di anni. In particolare, il vicereame di Napoli e lo stato pontificio erano stati afflitti forse
dalla peggiore sequenza sismica che si ricordi fra il 1600 e
l’inizio del 1700. Il lungo elenco si apre con un terremoto nel
Gargano, che nel 1627 causò oltre 4500 vittime; un altro di
elevata magnitudo colpì la Calabria centrale il 27 marzo del
1638, causando circa 9600 vittime. A questo seguì, nel 1659,
un altro, nella stessa area, che fece circa 2000 vittime.
Una drammatica sequenza sismica colpì nel 1688 l’area
del Sannio, causando circa 10000 vittime, ripetendosi nella stessa zona nel 1702. L’Irpinia-Basilicata fu colpita nel
1694 da un terremoto con magnitudo simile a quello avvenuto nel 1980, causando oltre 6000 vittime e replicando nel
1732 con un 6000 vittime.
Il terremoto peggiore avvenne nella Sicilia orientale nel
1693. La scossa principale, con una magnitudo di 7.4, stimata sulla base dei dati di danneggiamento (dati macrosismici), avvenne l’11 gennaio e fu preceduta il 9 dello stesso
mese da un’altra scossa di magnitudo stimata intorno a 6.
Quello dell’11 gennaio è considerato il maggiore terremoto
degli ultimi 1000 anni avvenuto sul territorio nazionale. L’area interessata da estesi danneggiamenti andava da Catania
a Siracusa con una stima, da parte degli autori dell’epoca,
di 54000 vittime. La città di Catania fu praticamente rasa al
suolo così come la Val di Noto dove fu registrata la maggiore intensità. Un maremoto particolarmente devastante nella
zona di Augusta accompagnò la scossa principale. L’intera
13
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Fig. 4 – S. Emidio, protettore dai terremoti. Fu
eletto patrono di Ascoli Piceno quando venne
risparmiata da un violento terremoto che aveva
colpito le Marche nel 1703. Molti altri centri
nelle Marche e in Abruzzo e oltre, soggetti
a eventi sismici, lo vollero come protettore.
Venerato in particolare a Bojano di Monteverde,
una borgata che raccolse gli abitanti scampati
al terremoto del Sannio del 1805. Fabriano
cominciò a venerarlo dopo il prolungato sisma
(circa 2 minuti) del 24 aprile 1741. Celebrato
a Avezzano con una processione annuale,
smise di esserne patrono dopo il disastroso
terremoto del 13 gennaio 1915. Chieti fu scossa
da un terremoto nella notte del 12 luglio 1805.
L’invocazione del Santo e una processione
risparmiò la città da una seconda scossa
avvenuta nella stessa notte.
Fig. 5 – Esempio di una casa a graticcio di epoca romana a Ercolano
Sicilia orientale soffrì gli effetti del terremoto per molti anni,
anche se i grandiosi lavori di ricostruzione iniziati negli anni
successivi favorirono la rinascita economica dell’area e la
formazione di un sistema urbanistico che diverrà famoso. Intere città furono ricostruite di sana pianta, in alcuni casi in
località diverse. Caltagirone, Militello, Catania, Noto, Modica, Palazzolo, Ragusa, Scicli furono ricostruite secondo un
progetto unificante studiato da architetti e urbanisti in quello
che verrà conosciuto come lo stile del barocco siciliano che
rappresenta l’apice dell’arte barocca in Europa.
Questo intenso periodo sismico si chiuse, purtroppo solo
provvisoriamente, con i terremoti in Umbria meridionale,
Lazio, e Abruzzo settentrionale, avvenuti il 14 gennaio del
1703, di magnitudo stimata 6.7, nel corso dei quali furono
distrutte Cittareale e Norcia, e quello del 2 febbraio dello
stesso anno che colpì l’Aquila con una violenza maggiore
di quello avvenuto 300 anni dopo, nel 2009. Il 3 novembre
1706, infine, un terremoto con magnitudo di 6.8 colpiva l’area della Maiella. In questo stesso periodo l’Italia settentrionale fu interessata da un solo terremoto di magnitudo 6.5, il
25 febbraio del 1695 nell’Asolano (zona del Piave).
I gravi danni causati dal terremoto del Gargano del 1627,
risentito fortemente anche nel Sannio, spinsero a cercare
nuovi sistemi di costruzione delle abitazioni che portarono
14
all’utilizzo di uno stile chiamato “costruzione baraccata alla
beneventana” (Ceniccola, 2014). La struttura era formata da
un’intelaiatura di legno, completata dal riempimento in muratura o legno, nell’intento di concatenare e rendere solidale
tutto l’edificio. Questo tipo di costruzione era già utilizzata
nel periodo romano e si trova spesso citata da Vitruvio, che
la ritenne però poco sicura in caso di incendio. Alcuni esempi si conservano a Pompei e a Ercolano nella cosiddetta Casa
a Graticcio. Non si sa quale sia stata la risposta di queste
costruzioni nel successivo terremoto del 1688, tuttavia viene riportato che le case costruite con intelaiature riempite di
mattoni, benché danneggiate, resistettero meglio alle scosse
(Boschi et al, 1995).
La stessa tecnica costruttiva antisismica fu riproposta dopo
i disastrosi terremoti delle Calabrie del 1783. La scossa più
violenta avvenne il 5 febbraio, con i maggiori effetti nella
zona dell’Aspromonte e di Gioa Tauro. Contemporaneamente un’onda di maremoto colpiva le coste da Gioa Tauro,
a Reggio, Messina e Scilla. Altre scosse, succedutesi il 6 e
7 febbraio, causarono estesi danneggiamenti fino a Scilla e
Messina, così come la scossa avvenuta il 1° marzo. La scossa
del 6 febbraio determinò anche il franamento in mare di una
estesa zona di costa in prossimità di Scilla. Il conseguente
maremoto spazzò la spiaggia antistante il paese, dove si era-
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
no rifugiati i sopravvissuti alla prima scossa e causò oltre
1300 vittime. Infine, il 28 marzo, una nuova scossa causava
danneggiamenti gravissimi a sud di Catanzaro. Le vittime
furono 29451 e, tenendo conto anche di quanti morirono di
stenti nel periodo successivo, il totale arriva a circa 35000
persone. Nel tentativo di reperire fondi per alleviare le condizioni di miseria della popolazione, si procedette all’esproprio
delle proprietà della Chiesa in Calabria. L’istituzione della
cosiddetta Cassa Sacra avrebbe dovuto procedere alla vendita dei beni ecclesiastici e ricavarne risorse per la ricostruzione. Malgrado lo sforzo del governo borbonico, i terremoti
generarono un periodo di profonda crisi sociale e l’emigrazione di una popolazione stremata verso le città.
La Calabria, già colpita nel 1638 e nel 1783, soffrirà ancora maggiormente per il terremoto di Reggio e Messina del
1908. Questo evento era stato preceduto da un altro di magnitudo meno elevata l’8 settembre 1905 nella zona di Cosenza, dove aveva provocato estesi danni e circa 500 vittime
e da uno successivo nella Calabria meridionale il 23 ottobre
1907, che aveva causato 167 morti prevalentemente nel paese di Ferruzzano, in provincia di Reggio Calabria. Come in
molti altri casi, i sopravvissuti di questo piccolo paese si costruirono un nucleo di ripari provvisori verso il mare, che col
tempo prese il nome di Località Baracche, l’attuale Borgo
Saccuti, trasformato con casette in muratura. Tutto il paese
verrà abbandonato per sempre dopo il terremoto della Locride dell’11 marzo 1978, mentre l’area a mare cominciava
a popolarsi di una distesa di villini di vacanza. La scossa del
28 dicembre 1908 devastò completamente Messina e Reggio
e il loro entroterra. Gli effetti della scossa furono risentiti in
maniera disastrosa fino all’Aspromonte a Nord, ai Monti Peloritani e al settore nord-orientale dell’Etna a sud. La stima
comunemente accettata delle vittime è intorno a 80000, di
cui circa 60000 a Messina. Si stima che circa 2000 persone
persero la vita per effetto di un maremoto che seguì di poco
la scossa principale.
L’entità della catastrofe sollevò grande clamore e spinse molti scienziati a raddoppiare gli sforzi nello studio dei
terremoti. Giuseppe Mercalli, famoso vulcanologo e sismologo, ideatore nel 1895 di una nuova scala per quantificare
gli effetti dei terremoti, accogliendo la proposta di un altro
sismologo, Adolfo Cancani, fu costretto ad aggiungere un
ulteriore grado, l’XI, per descrivere gli effetti del terremoto
di Messina. Successivamente, il sismologo Sieberg aggiunse
un altro grado a quella che da allora è la scala MCS (Mercalli, Cancani, Sieberg) utilizzata ancora oggi per quantificare
le conseguenza dei terremoti. Solo nel 1935, Charles Richter
pubblicò un lavoro che definiva una scala di magnitudo, basata su misure strumentali, per classificare i terremoti indipendentemente dai loro effetti. La scala Richter delle Magnitudo, e quelle da essa derivate, sono attualmente utilizzate
per avere un’idea delle dimensioni e dello spostamento che
avviene su una superficie di faglia e dell’energia liberata dalla scossa, indipendentemente dagli effetti che restano legati
alla tipologia del territorio antropizzato.
Con il terremoto del 1908 cominciano a prendere forma
le norme di costruzione antisismiche che saranno migliorate
con il progredire degli anni.
Fig. 6 – La distruzione del lungomare di Messina (La Palazzata) in una foto d’epoca
15
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Giuseppe Albano
Il sismologo Mario Baratta che aveva pubblicato, nel 1901,
il primo documentato catalogo dei terremoti italiani, scrisse,
in occasione del terremoto del 1908, “Ottima prova hanno
http://calcolostrutture.eu
dato anche
in questa occasione le case baraccate:
quelle con
il semplice terreno o sono rimaste illese, oppure hanno sofferto ben poco; quelle ad un piano superiore ebbero qualche
guasto.” Riprendendo le vecchie norme borboniche, il regio
decreto del 1909 stabiliva “ le norme tecniche e igieniche
obbligatorie per le riparazioni, ricostruzioni, e nuove costruzioni degli edifici pubblici e privati nei Comuni colpiti dal
Terremoto del 28 dicembre 1908 o da altri precedenti. I primi
articoli delle norme così riportavano:
Art. 1.
É vietato costruire edifici su terreni paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine fra terreni di natura od andamento diverso, o sopra
un suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia compatta; nel
quale ultimo caso é indispensabile preparare all’edificio uno o anche
più piani orizzontali d’appoggio, eseguendo gli scavi necessari.
Art. 2.
L’altezza dei nuovi edifici rappresentata dalla massima differenza di
livello fra la linea di gronda e il suolo circostante, in vicinanza immediata dell’edificio stesso, non può di regola superare i 10 metri.
I nuovi edifici, siano inferiormente cantinati o no, debbono essere co-
16
struiti a non più di due piani, dei quali il terreno, avente il pavimento
a livello del suolo, oppure sopraelevato sul medesimo non più di un
metro e mezzo.
L’altezza dei piani, misurata fra pavimento e pavimento, oppure fra il
pavimento e la linea di gronda, non può di regola superare i metri 5.
……
Art. 7.
Gli edifici debbono essere costruiti con sistemi tali da comprendere
Un’ossatura di membrature di legno, di ferro, di cemento armato, o di
muratura armata, capaci di resistere contemporaneamente a sollecitazioni di compressione, trazione e taglio.
Esse debbono formare un’armatura completa di per sé stante dalle
fondamenta al tetto, saldamente collegata con le strutture orizzontali
portanti (solai, terrazzi e tetti) e che contenga nelle sue riquadrature,
oppure racchiuda nelle sue maglie, il materiale formante parete, o vi
sia immersa.
Gli edifici debbono avere il loro centro di gravità più basso che sia
possibile.
Malgrado le buone intenzioni, buona parte del patrimonio
edilizio italiano era stato realizzato nei secoli precedenti e i
terremoti del secolo seguente continueranno ad arrecare danni e lutti.
Il nuovo secolo iniziato per il nostro paese così disastrosamente, si apprestava ad affrontare la grande tragedia in cui già
si erano precipitate le altri grandi nazioni europee nel 1914.
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
che per le costruzioni. Sfortunatamente le regioni possono
chiedere una variazione della categoria di appartenenza
di ciascun comune ed è per
questa ragione che il comune
de L’Aquila, già distrutto dal
sisma del 1703, si trovava in
zona 2 al momento del sisma
del 2009 e si trova ancora in
tale categoria.
In questa breve panoramica
dei maggiori terremoti degli
ultimi quattro secoli abbiamo
tralasciato di citare gli ultimi
disastrosi avvenuti dal 1915
in poi, in particolare il terremoto del Vulture del 1930,
Fig. 7 – L’unica casa rimasta in piedi ad Avezzano nel terremoto del 1915. L’edificio era di proprietà di Cesare Palazzi,
un costruttore che utilizzò i primi solai in cemento armato. Era rientrato dal Brasile nel 1910, dove era emigrato, per
quello del Friuli del 1976 e
lavorare ai canali di prosciugamento del Fucino.
quello dell’Irpinia-Basilicata
Poco prima dell’inizio delle ostilità, il 13 gennaio 1915, un del 1980 perché più freschi nella memoria recente. Abbianuovo disastro colpiva l’Italia centrale, nell’area della Mar- mo considerato solo quelli con gradi di intensità superiore
sica. Questo terremoto avvenne nella zona del Fucino, ma i a X-XI e con magnitudo stimate superiori a 6.5. Ve ne sono
suoi effetti furono risentiti su una vasta area lungo l’Appen- molti di più con magnitudo inferiori, ma con danneggiamennino centrale. Il paese di Avezzano fu completamente raso al ti ristretti su aree più limitate. Ad esempio, terremoti come
suolo. Il computo totale delle vittime fu di oltre 30000, oltre quello avvenuto a L’Aquila nel 2009 o in Emilia nel 2012
a innumerevoli feriti. Ancora una volta il terremoto colpiva o, più indietro, nella Valle del Belice del 1968, se ne contauna zona prossima a quelle già martoriate in precedenza. Gli no a decine nei secoli passati e interessano in gran parte la
aiuti furono ritardati dalla circostanza che quanti avrebbero Sicilia e la dorsale appenninica, fino al Friuli. L’unica area
potuto avvisare della catastrofe, sindaco, prefetto, parroco, che in Italia si può dire al riparo da terremoti disastrosi è
carabinieri, erano tutti sotto le macerie. A questo si aggiunse la Sardegna e relativamente meno interessata, o almeno con
il fatto che lo sforzo dell’esercito per portare sollievo alle frequenza molto più bassa, è l’area nord occidentale del pavittime fu interrotto dopo alcuni mesi per l’imminenza del ese, anche se si ricordano ad esempio il terremoto del 1222
conflitto mondiale. Serviranno molti anni perché la zona si che distrusse Brescia, causando oltre 10000 vittime e danneggiamenti estesi a Cremona e Bergamo.
risollevi dalla miseria in cui era caduta il 13 gennaio.
La mappa di pericolosità sismica realizzata nel 2004
Al sisma seguì puntuale il regio decreto del 29 aprile 1915,
che prescriveva le norme tecniche da osservare per le ripa- dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Fig. 8)
razione e ricostruzione, sulla falsariga del decreto del 1909.
mostra le zone in cui ci si può aspettare con una certa probaDal 1908, fino al 1974, in Italia i comuni sono stati clas- bilità accelerazioni (espresse in frazioni dell’accelerazione
sificati come sismici e sottoposti a norme restrittive per le di gravità di 9.8 m/s2) mostrate nella legenda. In pratica le
costruzioni solo dopo essere stati fortemente danneggiati dai zone a colore tendente al viola sono quelle dove ci si posterremoti. Solo dopo i terremoti del Friuli del 1976 e dell’Ir- sono aspettare le accelerazioni più elevare. Come si vede,
pinia- Basilicata del 1980, s’incomincia un lavoro di classi- rispecchiano abbastanza bene la geografia delle catastrofi
ficazione sismica dei comuni, con la prescrizione di norme che abbiamo ricapitolato nella prima parte di questo lavoro.
tecniche basate su accurati studi sismologici. Dopo il terre- Se confrontiamo questa carta con quella della classificazione
moto del 2002 in Puglia e Molise viene emanata l’Ordinanza sismica nazionale del 2015 (Fig. 9) notiamo strane dimendel Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 2003, ticanze, oltre a quella già ricordata de L’Aquila. Ancor più
che riclassifica l’intero territorio nazionale in quattro zone a grave appare quella che riguarda la classificazione sismica
di Catania e della Val di Noto, che furono distrutte dal terpericolosità decrescente.
remoto del 1693. E’, quanto meno strano, che l’area interesZona 1 - E’ la zona più pericolosa. Possono verificarsi fortissimi terremoti
sata dal maggiore terremoto conosciuto nella storia sismica
Zona 2 - In questa zona possono verificarsi forti terremoti
italiana sia classificata in zona 2 a differenza, ad esempio,
Zona 3 - In questa zona possono verificarsi forti terremoti ma rari
della Calabria interessata da terremoti altrettanto violenti.
Zona 4 - E’ la zona meno pericolosa. I terremoti sono rari
Probabilmente, per i legislatori locali, i terremoti dovrebbero
Infine, il Ministro delle Infrastrutture, emana il 14 gennaio seguire una specie di federalismo regionale.
2008 il Decreto Ministeriale che approva nuove norme tecniQuale può essere il futuro che ci aspetta? Secondo una
17
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
ISTITUTO NAZIONALE DI GEOFISICA E VULCANOLOGIA
Mappa di pericolosità sismica del territorio nazionale
(riferimento: Ordinanza PCM del 28 aprile 2006 n.3519, All.1b)
espressa in termini di accelerazione massima del suolo
con probabilità di eccedenza del 10% in 50 anni
riferita a suoli rigidi (Vs30> 800 m/s; cat.A, punto 3.2.1 del D.M. 14.09.2005)
< 0.025 g
0.025 - 0.050
0.050 - 0.075
0.075 - 0.100
0.100 - 0.125
0.125 - 0.150
0.150 - 0.175
0.175 - 0.200
0.200 - 0.225
0.225 - 0.250
0.250 - 0.275
0.275 - 0.300
Po
Sa
U
S
A F
P
Pa
Le sigle individuano isole
per le quali è necessaria
una valutazione ad hoc
Elaborazione: aprile 2004
Fig. 8 - Carta di pericolosità sismica (Fonte Ingv)
18
Pe
0
50 100 150 km
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
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Presidenza del Consiglio dei Ministri
Dipartimento della protezione civile
Ufficio rischio sismico e vulcanico
Classificazione sismica al 2015
Recepimento da parte delle Regioni e delle Province autonome dell'Ordinanza PCM 20 marzo 2003, n. 3274.
Atti di recepimento al 1° giugno 2014. Abruzzo: DGR 29/3/03, n. 438. Basilicata: DCR 19/11/03, n. 731. Calabria: DGR 10/2/04, n. 47. Campania: DGR 7/11/02, n. 5447.
Emilia Romagna: DGR 21/7/03, n. 1435. Friuli Venezia Giulia: DGR 6/5/10, n. 845. Lazio: DGR 22/5/09, n. 387. Liguria: DGR 19/11/10, n. 1362. Lombardia: DGR 11/7/14, n. X/2129
Marche: DGR 29/7/03, n. 1046. Molise: DGR 2/8/06, n. 1171. Piemonte: DGR 12/12/11, n. 4-3084. Puglia: DGR 2/3/04, n. 153. Sardegna: DGR 30/3/04, n. 15/31.
Sicilia: DGR 19/12/03, n. 408. Toscana: DGR 26/5/14, n. 878. Trentino Alto Adige: Bolzano, DGP 6/11/06, n. 4047; Trento, DGP 27/12/12, n. 2919. Umbria: DGR 18/9/12, n. 1111.
Veneto: DCR 3/12/03, n. 67. Valle d'Aosta: DGR 4/10/13 n. 1603
AUSTRIA
Zone sismiche
(livello di pericolosità)
SVIZZERA
1
1-2A
BOLZANO
!
2
2A
SLOVENIA
!
2A-2B
2B
TRIESTE
AOSTA
2A-3A-3B
!
MILANO
!
!
2B-3A
VENEZIA
3
CROAZIA
TORINO
3s
3A
!
3A-3B
BOSNIA
3B
ERZEGOVINA
3-4
BOLOGNA
!
!
GENOVA
4
MARE
LIGURE
!
ANCONA
FIRENZE
!
PERUGIA
!
!
L'AQUILA
!
MARE
ADRIATICO
ROMA
CAMPOBASSO
!
BARI
!
!
NAPOLI
POTENZA
!
MARE
TIRRENO
MARE
IONIO
CAGLIARI
CATANZARO
!
!
PALERMO
!
TUNISIA
ALGERIA
MALTA
0
100
kilometri
FB 2015 ..
Fig. 9 – Carta di Classificazione sismica del territorio nazionale (fonte Dipartimento Protezione Civile)
19
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
legge di natura, facile da ricordare, ciò che è avvenuto nel
passato si ripeterà anche nel futuro e il risultato dei terremoti
dipenderà dal grado con cui si sono ricordate e applicate le
regole costruttive. E’ difficile pensare che, in un paese in cui
cadono i viadotti appena inaugurati, le case costruite in fretta
prima dei molti condoni possano avere una sorte diversa.
BIBLIOGRAFIA
Baratta M.; 1901: I terremoti d’Italia, A. Forni Editore,
Rist. Anast. Bologna, 1979, 951 pp.
Baratta, M., 1910, La catastrofe sismica calabro messinese, Società geografica italiana, Roma.
Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio
20
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dal 461 a.C., al 1980, ING SGA
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Culturali XXX, Edizioni Arcadia Ricerche, Venezia, 669678
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Luongo G., Carlino S., Cubellis E., Delizia I., Obrizzo F.,
Casamicciola, Milleottocentottantatre, Bibliopolis, Napoli,
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Richter C., 1935, An instrumental earthquake magnitude
scale, Bull. Seism. Soc. of Am., January 1935, 1-31.
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Le catastrofi idrogeologiche in Italia
GIOVANNI MENDUNI
Politecnico di Milano DICA-SIA
L
INTRODUZIONE
a storia del nostro Paese è costellata di eventi
idrogeologici (Guzzetti et Al. 1994) che ne
punteggiano tristemente la cronaca nel corso del tempo, quasi fosse un fatto endemico,
connotato con la natura stessa del territorio e
per questo ineluttabile. Si tratta di una questione, è bene dirlo, caratterizzata da una intrinseca complessità e determinata
da una forte varietà tipologica delle minacce che si combina
in maniera non lineare con una ancor maggiore dispersione dei beni esposti al rischio. Peraltro se è acclarata la non
stazionarietà del clima (laddove questo costituisce la forzante principale), lo è in misura senz’altro maggiore quella dei
beni esposti sul territorio con trend crescenti che si ripercuotono direttamente sul rischio.
In queste brevi note faremo riferimento tanto al dissesto
geomorfologico di versante che, forse e in misura appena più
accentuata per affinità della materia al percorso personale di
chi scrive, ai fenomeni alluvionali. Il lavoro sarà articolato
in tre sezioni. La prima porrà qualche questione di metodo
e un inquadramento di carattere generale che descriverà la
situazione a livello nazionale, nelle sue caratteristiche principali. Nella successiva sezione si farà un rapido excursus
delle principali catastrofi e sulle azioni svolte per il contrasto
dei fenomeni di dissesto a partire dalla fase storica successiva alla seconda guerra mondiale. La materia, nel periodo
considerato, conserva un percorso ragionevolmente consequenziale e ben si presta a una descrizione cronologica fino
ai giorni attuali. La terza parte si riferirà delle azioni in atto
e, traendo le conclusioni dalle precedenti paragrafi, proporrà
alcune linee generali cui potrebbe informarsi l’azione nelle
prossime decadi.
Per una esclusiva questione di rapidità espositiva abbiamo descritto il contesto del dissesto geomorfologico e quello
delle alluvioni in maniera separata. In realtà, almeno in molte
parti del Paese, tali fenomeni a forzante climatica, sono for-
temente correlati, non solo a livello di sincronicità di accadimento, ma addirittura di interconnessione fenomenologica.
In generale il rischio naturale si configura come un processo
multihazard che non è generalmente corretto, salvo casi specifici, approcciare per comparti separati.
L’impatto del dissesto idrogeologico sulla struttura sociale
ed economica del territorio è notevole. Il rapporto ANCECRESME (2012), recentemente aggiornato, riporta un quadro sinottico desolante, pur nella ovvia incertezza di cui le
informazioni sono inevitabilmente affette. Si tratta di 12600
vittime in un secolo, quasi 300 negli ultimi 12 anni. A questo si aggiungono i danni materiali diretti che, in forza del
DL 94/2013, poi convertito con la L 115/2013, sono adesso
censiti e certificati da Commissari delegati in termini di fabbisogni per il ripristino. Il censimento è certamente approssimato per difetto perché la ricognizione è tuttora forzatamente
incompleta (visto anche il succedersi degli eventi) e, comunque, tiene conto dei soli danni riconducibili a stati di emergenza dichiarati con deliberazione del Consiglio dei ministri.
Eppure le cifre riportano già oltre 3,2 miliardi, 1,6 miliardi
l’anno che corrispondono a un decimo di punto di PIL.
Se la cifra è estrapolata parametricamente sulle emergenze non ancora censite a livello nazionale e su quelle affidate
alle gestioni regionali e degli enti locali, proiettandola anche
ai danni indiretti, si comprende che tale livello può crescere
rapidamente verso il livello di mezzo punto e anche oltre.
Tali danni non sono purtroppo ristorati a carico dell’Erario
se non in minima parte. Resta il fatto che vengono comunque
a gravare sul sistema Paese costituendo una sorta di peso aggiuntivo per i cittadini, soprattutto in questa facile di difficile
crisi. Diciamo subito che l’incertezza sulla effettiva dimensione del danno è ovviamente esiziale al fine della produzione delle politiche di contrasto dato che è comunque difficile
migliorare qualcosa di cui non si ha una concreta possibilità
di misura. Questo fatto è tuttora non abbastanza governato
a livello centrale e locale e collide in maniera decisa con lo
spirito della Direttiva comunitaria “Alluvioni” 2007/60CE.
21
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Tale atto, non a caso, reca in epigrafe “On the assessment
and management of flood risk” ponendo nella conoscenza
dei processi e della loro gestione, più che in una apodittica
“riduzione” del rischio, il focus dell’azione di mitigazione e
contrasto.
l’attività di censimento dei fenomeni franosi è stata storicamente concentrata prevalentemente nelle aree in cui sorgono
centri abitati o in quelle interessate dalle principali infrastrutture di comunicazione stradali e ferroviarie.
IL CONTESTO DEL DISSESTO DA ALLUVIONE
IL CONTESTO DEL DISSESTO GEOMORFOLOGICO DI
VERSANTE IN ITALIA
L’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia fornito dal
Progetto IFFI (Trigila et Al. 2007), realizzato da ISPRA, dalle Regioni e dalle Province Autonome, fornisce un quadro
ragionevolmente dettagliato e aggiornato sulla distribuzione
dei fenomeni franosi sul territorio italiano. L’Inventario è
nei fatti la banca dati sulle frane più completa esistente in
Italia, sia per il dettaglio della cartografia, portata alla scala
1:10.000, che per il numero di parametri disponibili. L’adozione di una metodologia standardizzata di lavoro ha permesso di ottenere dati confrontabili tra loro a scala nazionale
che forniscono dunque un quadro sostanzialmente unitario.
Diciamo subito che l’inventario presenta la situazione di
528.903 fenomeni franosi censiti che interessano un’area di
22.176 km2, pari al 7,3% del territorio nazionale (ISPRA,
2015). La percentuale rispetto alla superficie complessiva
dei versanti, a livello nazionale, è dell’ordine del 10%. I dati
sono aggiornati al 2014 per le Regioni Piemonte, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Basilicata, Sicilia e per la Provincia Autonoma di Bolzano. Per
le restanti Regioni i dati restano aggiornati al 2007, quando
è uscito un corposo ed esaustivo rapporto (ISPRA 2007). Il
sito dedicato al Progetto consente di consultare, interrogare
e stampare la cartografia dei dissesti e di visualizzare foto,
documenti e filmati.
Uno dei parametri più significativi, per stimare l’impatto
del dissesto geomorfologico a scala regionale è il cosiddetto
“indice di franosità montano-collinare” cui si è appena fatto
indirettamente cenno e che rappresenta il rapporto tra l’area
in frana (in generale da fotointerpretazione) e la superficie
della frazione di territorio con caratteristiche montane e collinari della unità geografica o amministrativa considerata. Il
dato esprime evidentemente l’incidenza dell’area in dissesto
sul territorio potenzialmente interessato da fenomeni franosi.
Le Regioni che presentano l’indice più elevato sono la
Lombardia, con un indice di franosità di poco inferiore al
30%, l’Emilia Romagna (23,2%), le Marche (21,2%), la Valle d’Aosta (16%) e il Piemonte con il 15%.
I dati, seppur eclatanti, sono approssimati per difetto e distorti dal fatto che le frane sono spesso censite laddove possono creare danni e non sono pochi i dissesti che sfuggono
alla statistica. Questo crosstalk tra pericolosità ed esposizione è tipico nella catalogazione del rischio naturale ma si trova particolarmente accentuato nel dissesto geomorfologico
di versante, essendo l’esposizione al danno del territorio di
pianura soggetto alle alluvioni, più accentuata rispetto alla
collina e alla montagna. ISPRA, nell’Inventario, segnala criticità nei dati delle Regioni Basilicata, Calabria e Sicilia dove
22
L’occorrere delle alluvioni costituisce anch’esso una dolorosa costante nella storia italiana. Le caratteristiche della
pericolosità e dei beni esposti, hanno avuto nel tempo varie
vicissitudini, dipendenti dalle dinamiche dei contesti territoriali locali. Non è temerario tuttavia sostenere che il rischio
complessivamente non è diminuito nel corso della storia e
anzi, in numerosi casi, è decisamente aumentato. Ci sono
contesti urbani, come ad esempio Firenze, dove sussistono
dettagliate testimonianze di eventi di diversa intensità a partire addirittura dal 1100. Questo, nel caso specifico ha consentito di ricostruire i gli effetti di decine e decine di alluvioni, l’ultima delle quali risale al 1992 per passare da quella del
1966 che costò ben quaranta vittime. Il caso è paradigmatico,
ma tutt’altro che raro e c’è da chiedersi come mai le comunità, innanzi a una tale catena ininterrotta di disastri, vittime
e danni ingentissimi, non abbia mai optato per una qualche
forma di delocalizzazione nel corso della storia.
La risposta sta nel fatto che la presenza del fiume ha costituito una risorsa certa e continua, soprattutto in termini di
energia e trasporti, così significativa da vincere le conseguenze, gravi ma incerte e discontinue delle alluvioni. Si tratta di
esempi ante litteram di “comunità resilienti” che, ove colpite
dalla calamità, risorgono e si fortificano viepiù grazie alle
propria coesa struttura sociale ed economica. Vi sono anche
esempi contrari. Ad esempio quello della spaventosa alluvione del Polesine del 14 novembre 1951. L’evento interessò
quasi per intero il territorio della provincia di Rovigo e parte
di quella di Venezia. Le vittime furono 84 e oltre 180.000
persone che persero più o meno definitivamente le loro case
dando luogo a una diaspora di proporzioni epocali. Nei fatti si perse una comunità intera, dispersa come una nebulosa
tanto in Italia che attraverso l’emigrazione verso l’estero.
La conoscenza della pericolosità e, in qualche misura, del
rischio nasce nel nostro paese con il DL 180/98, emanato
immediatamente a valle dell’evento di Sarno. Il 5 maggio
1998a seguito delle piogge abbattutesi nelle giornate precedenti, si innescarono improvvisamente decine e decine di,
devastanti, colate rapide di fango. I 150 movimenti franosi
che si succedettero nell’arco di 10 ore, andarono ad interessare contemporaneamente una vasta area nei comuni di
Sarno, Siano, Bracigliano e quindici tra le province di Salerno e Avellino. Ulteriori movimenti si verificarono ancora in
diversi comuni delle province di Napoli, Caserta, Avellino e
Salerno. Fu una catastrofe di proporzioni davvero inenarrabili. Si contarono 160 vittime, danni gravissimi alle strutture
ed alle infrastrutture, nonché modifiche sostanziali addirittura alla stessa morfologia del territorio.
Il decreto venne ad avviare una consistente filiera di provvedimenti normativi che, seppur con alterne vicende, anda-
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
rono a dotare l’Italia di “Piani per l’assetto idrogeologico”
(PAI) basati sulla perimetrazione delle aree a pericolosità e
rischio. Tale informazione, predisposta a cura delle Autorità
di bacino e delle regioni e di conseguenza soggetta a un forte grado di eterogeneità metodologica, è stata recentemente
riordinata a seguito della emanazione della Direttiva europea e dei relativi provvedimenti di recepimento. ISPRA, in
tal senso, ha recentemente rilasciato il mosaico delle aree a
pericolosità di alluvione sui tre scenari (pericolosità scarsa,
media e elevata) in accordo con la Direttiva.
Superficie
[km2]
Rispetto
alla pianura
Rispetto al territorio nazionale
31493,8
45,0%
10,5%
24357,9
34,8%
8,1%
12185,9
17,4%
4,0%
Tabella 1. Estensione delle aree a pericolosità idraulica per le diverse classi
L’Italia, come è noto, ha una estensione delle pianure di
circa 70.000 km2 che non arriva al 25% della superficie complessiva del territorio. In tale numero, se vogliamo, è contenuta la sintesi del rapporto stretto tra il nostro paese e le
catastrofi idrogeologiche. Dai dati della Tabella 1 si osserva
come oltre il 17% di tali aree pianeggianti, è soggetto a pericolosità di alluvione molto elevata, riferita cioè a tempi di
ritorno di decine di anni. Tale percentuale aumenta sensibilmente quando si considerano le classi di pericolosità media
(34%) e scarsa (45%) riferita, quest’ultima, allo scenario catastrofico. Tali dati possono essere incrociati con quelli demografici prodotti da ISTAT dai quali si vede che i cittadini
residenti nelle aree a pericolosità elevata sono poco meno di
due milioni che triplicano considerando quelle a pericolosità
media.
Si tratta di numeri rilevanti purtroppo confermati dalla
cronaca. Conviene tuttavia subito rimarcare che non sussiste
ad oggi in Italia, nonostante numerose iniziative un sistema
organico, aggiornato e certificato a livello nazionale per il la
documentazione cronologica di tali eventi. Il progetto AVI,
con il censimento delle Aree vulnerate italiane, appare non
risulta ad oggi aggiornato. Ciò, oltre alle difficoltà dovute
alla frammentazione delle informazioni, sono ascrivibili
anche a una frequente indeterminatezza dei contorni degli
eventi stessi. Se si escludono i fenomeni che danno luogo alla
dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, per i quali
sussiste una documentazione istruttoria dettagliata, le notizie
dei dissesti si sbriciolano in una pluralità di definizioni cui
è difficile venire a capo, seppure i nuovi strumenti di analisi semantica sembrano assai promettenti. In ogni caso, vista
anche la natura fisica del nostro Paese, gli elementi causali
del danno da forzante meteorologica, sono spesso plurimi e
mescolano diversi elementi per quali inondazione, ristagno,
colata detritica, frana e altro ancora, per cui è difficile una
catalogazione ne senso tradizionale del termine.
Se gli eventi maggiori tendono più spesso ad essere connotati con chiarezza, ricordiamo che l’Italia e, in particolare
le zone costiere, sono soggette a violente tempeste mediterranee straordinariamente concentrate nello spazio e, sovente,
anche nel tempo. Questi fenomeni pur determinando spesso
danni e anche perdite di vite umane, sono talvolta registrati
come “minori” anche se, complessivamente, sono responsabili di una quota parte non trascurabile del danno complessivo.
L’AZIONE DI MITIGAZIONE, LINEE E TENDENZE
Il nostro Paese ha sviluppato nel tempo diverse linee di
azione per la mitigazione del rischio idrogeologico intese soprattutto come riduzione della pericolosità. Le politiche di
gestione del rischio, intese come tutela dei beni non negoziabili e riduzione del danno, stanno avviandosi di recente, sulla
scorta della emanazione della Direttiva europea del 2007.
Il rischio è sostanzialmente dettato dalla contemporanea
presenza di una minaccia e di un bene esposto. La sua gestione ha sostanzialmente tre leve a disposizione. La prima
è quella la probabilità di accadimento dell’evento calamitoso, ad esempio della tracimazione delle opere di difesa fluviali. Questa probabilità può essere ridotta, quantomeno per
quanto attiene alle grandi piene, soprattutto ricorrendo agli
interventi strutturali quali, ad esempio, le casse di espansione, scolmatori, adeguamenti arginali. È bene ricordare che le
opere strutturali, per quanto sacrosante, lasciano comunque
un rischio residuo anche dettato da esigenze di sostenibilità
economica, sociale e ambientale. In ogni caso non sono in
grado di intercettare tutte le diverse tipologie di evento che
vengono a cimentare il territorio e talvolta soffrono di carenze di funzionamento dovuti alla combinazione non lineare di
diversi fattori causali. In definitiva non si può immaginare
che le opere, da sole, possano costituire un sistema di difesa
in grado di coprire l’intero spettro di eventualità determinate dalla forzante climatica, lasciando un esiguo margine di
rischio confinato soltanto ad eventi rarissimi, estremi degli
estremi. Quest’ultima osservazione, apparentemente ovvia,
è invece difficile da percepire e mettere a fuoco, sia da parte
dell’opinione pubblica e dei portatori di interessi, che dello
stesso decisore politico, ambedue affascinati dall’ipotesi di
una soluzione esclusivamente tecnologica in grado di assicurare la “messa in sicurezza” e la definitiva eradicazione
dei problema.
Esiste poi un ulteriore opzione di riduzione della pericolosità affidata alla manutenzione del territorio e alla conduzione agricola delle colture, soprattutto nei territori collinari.
Tale azione può dare effetti molto rilevanti è intrinsecamente
virtuosa e trova pure, nella modellazione idrologica, un valido supporto in grado di indirizzarne correttamente le modalità e predirne quantitativamente gli effetti. Trova tuttavia
inspiegabili resistenze di tipo culturale sulle quali il pensiero
ambientalista si è scontrato e si scontra tuttora con alterne
vicende.
La seconda tipologia di azione riguarda diminuzione del
valore esposto è altresì il dominio della pianificazione territoriale, specialmente attraverso la regolazione urbanistica. Si
23
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
tratta una di attività assolutamente fondamentale e di ampio
respiro, ma che offre generosi frutti sul medio periodo, anche
per la necessità di concertazione e mediazione con i cittadini
e i portatori di interessi. A partire dagli anni ’90, si è più volte
parlato, in alcuni casi disinvoltamente, di delocalizzazione
di edifici esposti in aree pericolose. Queste azioni, per lo più
determinate da motivazioni di assoluto buon senso, rivelano
sovente grandi complessità prime quelle di tipo giuridico,
che ne rendono l’attuazione estremamente difficile.
Il corretto governo del territorio ha trovato un valido alleato nelle norme dei PAI che, per la prima volta a partire dalla
seconda metà degli anni 2000, hanno posto specifici vincoli
sulle aree pericolose, basati su analisi tecniche coerenti, seppur portate a diversi livelli di approfondimento.
La terza leva per la gestione del rischio, viene ad agire sulla vulnerabilità, e cioè sul tasso di perdita atteso di un bene
esposto, in presenza di un evento calamitoso assegnato. Lo
stesso bene, in presenza del medesimo evento, può difatti
registrare livelli di danno molto diversi, a seconda di come
è difeso alla scala locale. Si tratta di una linea di azione di
straordinarie potenzialità che si estrinseca, a sua volta, su due
diverse scale temporali.
La prima è quella del cosiddetto “tempo differito”, lontano
dall’emergenza e agisce attraverso modalità quali la comunicazione di buone norme di comportamento in caso di evento,
la produzione di una regolamentazione edilizia che riduca la
vulnerabilità degli edifici, la definizione di procedure da attuare in caso di allerta, ad esempio la chiusura al traffico dei
sottopassi stradali. Azioni apparentemente minori, a fronte
del potenziale distruttivo della calamità. Eppure in grado di
salvare le vite e ridurre consistentemente l’impatto sul danno
economico.
La seconda linea di riduzione della vulnerabilità è quella
della catena cosiddetta del “tempo reale” che vede i sistemi
di previsione, allertamento, gestione e contrasto dell’evento
in atto. Si tratta di un irrinunciabile pilastro del sistema di
prevenzione che ha visto imponenti sviluppi nelle ultime decadi e che, su ciascuna delle componenti appena rammentate,
può effettivamente fare la differenza.
È confermato dai fatti che non esistano soluzioni univoche o preconfezionate. Non ci sono azioni miracolose che,
apportate alla scala nazionale, anche nella più che ipotetica
eventualità di disporre della piena volontà politica e di tutti
i finanziamenti necessari, possano risolvere integralmente il
problema, o anche riportarlo a termini fisiologici.
Si tratta di una battaglia da combattere ogni giorno, in
maniera sussidiaria, dalla scala del Governo nazionale, alle
istituzioni locali, fino alla realtà di ogni singolo cittadino.
Questioni come la consapevolezza dei rischi, la coesione sociale, la disponibilità a seguire le regole ed attivare le risorse
della comunità quando è necessario, possono essere ricomprese come si è prima cennato, sotto il nome di “resilienza”.
È l’attitudine di un gruppo sociale a difendersi dalle calamità e sopportarne l’impatto senza soccombere quando queste
accadono. La sua presenza non è un dono, o una eventualità
casuale ma una istanza da costruire giorno per giorno con
24
saggezza e lungimiranza, in una azione generale e di lungo
periodo. La comunità resiliente saprà trasmettere ai propri
rappresentanti politici le giuste scale di priorità, anche per la
realizzazione delle opere, riconoscerà i valori della solidarietà e del volontariato come fondanti, reagirà con fiducia e
tempestività agli stati di allerta, preparandosi nel modo corretto a reagire all’evento.
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e qualche idea per cambiare le cose, ISBN 9788867556168
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Le Frane: tra difficoltà interpretative
e modifiche dell’ambiente antropizzato
e del clima
FRANCESCO M. GUADAGNO E PAOLA REVELLINO
Dipartimento di Scienze e Tecnologie, Università degli Studi del Sannio
L
ASPETTI INTRODUTTIVI
e frane costituiscono uno dei processi morfogenetici più rilevanti, non solo per la loro
intrinseca pericolosità, ma anche per la loro
incidenza nelle modifiche delle forme del rilievo terrestre. Esse si esplicano attraverso il
distacco ed il movimento di masse lungo i versanti, con differenti meccanismi e velocità, che si depositano poi a quote
più basse.
In genere, i fenomeni franosi sono preceduti da periodi
in cui si sviluppano azioni degradative che possono indurre
variazioni nell’equilibrio dei corpi. Il fattore tempo diviene quindi centrale nelle definizioni circa i possibili scenari
dell’evoluzione dei versanti. In questo processo fisico degradativo che coinvolge la superficie terrestre, la gravità è la
forza principalmente coinvolta nell’attivazione dei fenomeni, anche se occasionalmente possono divenire determinati
le sollecitazioni indotte di sismi o le forze di filtrazione di
acque di circolazione sotterranea.
Come in altre nazioni, anche in Italia è percezione diffusa
che si stia verificando un incremento della frequenza e della
magnitudo delle frane che inducono impatti sempre più significativi in termini di perdita di vite umane e danni infrastrutturali (Tab. 1, Salvati al., 2010).
Tabella 1 - Eventi di frana che hanno prodotto morti, feriti e/o dispersi
in Italia per differenti periodi (dati da Salvati et al., 2010)
Frane
1850–1899
1900–1949
1950–2008
N° Totale di eventi
162
509
2204
Morti
614
1119
4077
-
8
26
49
406
2019
2185
11 026
177 376
Dispersi
Feriti
Evacuati e senza tetto
La tendenza all’incremento degli eventi è generalmente
associata alla sempre più estesa antropizzazione del territorio, ma anche agli effetti dei cosiddetti cambiamenti climatici ed, in particolare, a mutazioni del regime delle piogge.
In effetti proprio l’Italia, per la sue peculiari caratteristiche geologiche e morfologiche, è una della aree a più elevata
pericolosità da frana e, quindi, a più elevato rischio. Nella
nostra nazione sono infatti avvenuti eventi paradigmatici che
costituiscono case histories di rilevanza internazionale quali,
ad esempio, quelli relativi alla tragedia del Vajont (Ghirotti
e Semenza, 2000), ancora oggi oggetto di studi ed approfondimenti per definirne gli aspetti genetici ed i meccanismi
di propagazione (cfr. Atti de International Conference Vajont 1963-2013) o quelli che hanno colpito l’area sarnese nel
1998 (Guadagno et al., 2005).
In Italia, le attività del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, del CNR-IRPI e dei Servizi Geologici regionali
consentono di disporre di cataloghi storici che raccolgono
informazioni su eventi di frana e sull’impatto che tali fenomeni hanno avuto sulla popolazione (ad es. Amanti et al.,
2001; Guzzetti & Tonelli, 2004). Le informazioni contenute
in questi database sono anche state di ausilio per la realizzazione di mappe di pericolosità da frana (ad es. Caniani et al.,
2007; Mancini et al., 2010).
Le attuali conoscenze (si veda ad esempio il Progetto IFFIInventario dei Fenomeni Franosi in Italia; APAT, 2007)
evidenziano che circa il 10 % del territorio italiano è stato
classificato a rischio elevato (Reichenbach et al., 1998), ma
in molte aree appenniniche circa l’80% della superficie è stata coinvolta o può essere coinvolta in eventi franosi (Revellino et al., 2010).
In effetti la diffusa e pervasiva presenza dei fenomeni di
frana è ben documentata dalla figura 1, ove è riportato l’indice di franosità, che esprime l’incidenza della franosità sul
territorio come rapporto tra le are instabili e quelle stabili.
25
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Figura 1 - Indice di franosità sul territorio nazionale (Fonte ISPRA)
Queste condizioni di elevata suscettibilità, e quindi di rischio, hanno determinato numerosi eventi di frana (Tab. 1)
che hanno causato migliaia di vittime colpendo circa 800
comuni.
Le caratteristiche genetiche degli eventi di frana, legate a
specifiche e locali condizioni predisponenti, inducono una
diversa complessità di approccio rispetto ad altri rischi naturali, quali ad esempio quello vulcanico o sismico, sia per la
definizione delle aree potenzialmente coinvolgibili sia per la
gestione dei rischi associati. Infatti, le definite caratteristiche
genetiche ed areali, nel caso della pericolosità vulcanica, e
la oramai raggiunta definizione normativa di carte di pericolosità sismica, basate sulle ricostruzioni degli eventi del
passato e su studi geologico-strutturali di dettaglio, rendono
oggi certamente meno problematica la definizione di possibili indirizzi gestionali per la mitigazione dei rischi.
Diversamente, nella definizione del rischio da frana, così
26
come anche in quello alluvionale, sono presenti riferimenti meno certi. Se è
vero, infatti, che all’indomani dei già citati eventi
franosi in Campania del
1998 si è dato finalmente
corso in Italia alla stesura
di cartografie di rischio da
frana e di alluvionamento
(PAI), la natura puntuale delle frane, nelle loro
diverse caratteristiche di
movimentazione
delle
masse, rende complessa
la definizione della probabilità di accadimento
a livello areale. A dimostrazione di ciò, alcune
statistiche recenti (Fausto
Guzzetti, comunicazione personale) rendono
esplicite queste difficoltà,
riportando, ad esempio,
come una buona percentuale di vittime sono state
coinvolte in eventi di frana avvenuti al di fuori di
aree classificate a rischio.
Proprio i convergenti
effetti dell’uso del suolo e della variazione del
regime delle piogge rendono non completamente adeguati, o addirittura
inadeguati, molti studi
di previsione delle frane,
compresi i Piani di Assetto Idrogeologico (PAI)
redatti in Italia negli ultimi decenni. Ciò, unitamente anche
ai progressi scientifici prodotti sui modelli di evoluzione,
alla possibilità di acquisire dati attraverso il monitoraggio in
continuo, al miglioramento degli algoritmi per le analisi di
stabilità e di simulazione cinematica disponibili, evidenzia
la necessità di riesaminare l’intero quadro delle procedure di
valutazione del rischio da frana in Italia.
ASPETTI TERMINOLOGICI E CLASSIFICATIVI
Le frane sono fenomeni naturali complessi, sebbene intuitivamente semplici nella loro esplicazione. Alcuni aspetti
terminologici e classificativi necessitano di essere preliminarmente chiariti al fine di poter comprendere appieno tali
processi evolutivi che coinvolgono l’interfaccia superficie
terrestre-atmosfera. Essi, come tutti gli interfaccia tra mezzi
a comportamento diverso, possono essere caratterizzati da
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
instabilità.
La parola Frana derivata dal latino Frangere ed indica
“il movimento di una massa di roccia sciolta o lapidea o di
detrito lungo un pendio” (Cruden 1991). Una definizione
più completa e descrittiva fu data da Coates del 1977, che
evidenzia che per frana, in inglese landslide, si intende un
“movimento controllato dalla gravità, superficiale o profondo, con velocità da lenta a rapida, ma non lentissima, che
coinvolge i materiali costituente una massa, una porzione o
un intero versante”.
Questa definizione evidenzia come le frane costituiscano
un insieme di fenomeni ove le condizioni locali, in termini di
assetti geologico-strutturali, geomorfologici ed idrogeologici, il comportamento dei materiali geologici, sono alla base
di differenziate modalità esplicative.
Essendo fenomeni geneticamente e fisicamente complessi,
a differenza di altre discipline per le quali sono d’uso robuste
classificazioni tassonomiche, per le frane sussistono difficoltà classificative, anche indotte dalla non ripetitività dell’evento. L’adozione di parametri discriminanti diviene quindi
fondamentale per la definizione di criteri classificativi. Tra
questi sono considerati di riferimento il tipo di movimento e
di materiali mobilizzati, l’assetto geostrutturale del versante, la velocità di spostamento oltre che le cause e i meccanismi d’innesco.
Le figure 2 e 3 mostrano la classifica più frequentemente
utilizzata prodotta da Varnes nel 1978 e successivamente rivisitata da Cruden e Varnes nel 1996.
Figura 2- La classifica dei Movimenti di Versante di Varnes (1978)
Figura 3 – Classifica delle instabilità di versante di Varnes (1978) tradotta da Carrara et al. (1986).
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Figura 4 - Classifica delle velocità degli eventi di frana (Cruden e Varnes, 1996)
Come si po’ verificare, i meccanismi di distacco e movimentazione prevedono principalmente il crollo, il ribaltamento, lo scorrimento, ed il flusso, processi fisici che hanno
caratteristiche esplicative assolutamente differenziate, caratterizzate peraltro da velocità di movimento anche profondamente diverse. Gli stessi meccanismi fisici, coinvolgendo sia
masse rocciose sia rocce sciolte, possono essere caratterizzati da condizioni cinematiche e deformative anche molto diversificate. Le caratteristiche dimensionali non sono invece
considerate un fattore di discriminazione, sebbene abbiano
specifica importanza nelle definizione degli impatti.
Proprio la velocità di movimento, unitamente alle volumetrie in gioco, è alla base della valutazione degli effetti
sull’uomo e sulle infrastrutture. Come si può osservare nella
figura 4, le velocità di spostamento possono variare dai pochi
centimetri per anno a diverse decine di metri al secondo. A
fenomeni molto lenti si contrappongono fenomenologie a carattere di flusso valanghivo che possono raggiungere velocità
ben superiori a quelle della caduta dei gravi. Velocità superiori ai 3 m/s sono ritenute limite per la vita umana. In effetti
per alcuni eventi sono state definite velocità pari o superiori
ai 20 m/s come nel caso del Vajont (20-25 m/s) o di Sarno
(15-20 m/s).
Proprio per tenere in considerazione le possibili modalità
esplicative degli eventi, ancora recentemente (Hungr et al
2001, Hungr e al. 2014) sono stati sviluppati approfondimenti per meglio caratterizzare alcuni aspetti cinematici. In
tabella 2 è riportata una classificazione degli eventi di frana
Tabella 2 - Classifica degli eventi di frana (da Varnes, 1978; Hutchinson, 1988; Cruden & Varnes, 1996; Hungr et al., 2001; Hungr et al., 2014;
modificate)
CROLLI
FALLS
Crollo di roccia (detrito, terra) –
Rock/Debris/Earth Fall
Crollo di roccia (detrito) - Rock (Debris) Fall
RIBALTAMENTI
TOPPLES
Ribaltamento di roccia (detrito o
terra) Rock/Debris/Earth topple
Ribaltamento di roccia (detrito o terra) - Rock/Debris/Earth topple
Ribaltamento flessurale - Rock Flexural Topple
Scorrimento traslativo di roccia in blocco, di blocchi o di cunei Wedge) Rock Slide
Scorrimento di roccia – Rock Slides
Scorrimento rotazionale di roccia - Rotational Rock Slide(Slump)
Scorrimento composito o rototraslativo di roccia - Compound
SCORRIMENTI
SLIDES
Translational (or
Rock Slide
Collasso di roccia - Rock Collapse
Scorrimento di detrito o terra – Soil
Slides
Scorrimento traslativo di detrito – Debris (Gravel, Talus, Sand) Slide
Scorrimento rotazionale di terra - Clay (Earth , Debris) Slump (Rotational)
Scorrimento composito o rototraslativo di terra – Compound Clay/Debris Slide
Flusso di sabbia/ghiaia/detrito/limo asciutta - Dry Sand (Gravel, Debris, Silt) Flow
Scivolamento per colata in sabbia/limo/detrito/roccia alterata - Sand (Silt, Debris, Weak
Rock) Flow Slide
FLUSSI
FLOWS
Flussi in materiali fini, granulari
o rocciosi – Flows in fine-grained,
granular or rock material
Colata di argille sensitive - Clay Flow Slide
Colata di terra – Earth Flow
Colata di detrito - Debris Flow
Colata di fango - Mud Flow
Valanga di detrito - Debris Avalanche
Valanga di roccia - Rock Avalanche
ESPANSIONI LATERALI
LATERAL SPREADS
COMPESSI
COMPLEX
28
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
scaturente dall’insieme delle
definizioni oggi esistenti.
Quanto emerge in modo evidente è la numerosità dei tipi di
frana (circa 20) differenziabili
per caratteristiche genetiche,
esplicative o per i materiali
coinvolti. Da ciò scaturiscono difficoltà interpretative che
rendono spesso soggettive le
attribuzioni tipologiche, in fase
sia ricognitiva post-evento sia
predittiva che forse è quella di
maggiore interesse per la sicurezza delle popolazioni.
A titolo di esempio è stato
già richiamato il caso di Sarno.
L’ancora oggi attuale rilevanza del caso, anche internazionale, è tale che nei successivi
15 anni diversi ambiti e centri
di ricerca hanno prodotto oltre
Figura 5 - Versante instabile a seguito delle modifiche geometriche indotte dal taglio
200 articoli scientifici su riviste
internazionali. In effetti il confronto delle attribuzioni tipologiche (Guadagno et al., 2011) una falesia costiera o ad una ripa fluviale, non è un elemento
dimostra come i diversi autori abbiano attribuito gli stessi morfologico stabile nel tempo.
Terzaghi (1950) definì quali cause le modifiche nelle confenomeni a ben 8 tipologie differenziate. Ciò, da una parte,
evidenzia la non stretta univocità dei criteri classificativi e, dizioni di stabilità dei corpi, sia esse interne sia esterne, indall’altra, le difficoltà interpretative basate su elementi rico- tendendo le variazioni indotte dagli agenti esogeni sul materiale costituente il pendio, nel primo caso, e sugli assetti
struttivi.
Le difficoltà nel determinare in specifici casi una tipolo- morfologici ed idrogeologici nel secondo.
Le cause esterne, cioè quelle che non comportano variaziogia di fenomeno franoso diviene poi ancor più significativa quando si debbono definire gli scenari di frana in chiave ni nelle caratteristiche del materiale, inducono generalmente
predittiva, riconoscendo quindi una possibile futura modalità un aumento degli sforzi di taglio; diversamente, le cause inesplicativa e definendo uno scenario di rischio. Il riconosci- terne inducono modifiche del materiale stesso che determimento della suscettibilità a franare di un determinato versan- nano un decremento delle resistenze dei materiali cosicché
te è spesso basato solo su osservazioni, per cui l’esperienza una certa massa di terreno non è più stabile a parità di altre
condizioni. Le cause esterne possono essere per esempio le
dell’operatore diviene centrale.
Ancor più di altri rischi naturali, lo studio degli accadi- modifiche morfologiche e geometriche del versante indotte
menti del passato e la lettura del paesaggio geologico, costi- sia da un’evoluzione naturale per erosione al piede causata
tuiscono la base della ricostruzione dell’evoluzione dei ver- da un fiume, sia da un taglio di pendio connesso alla costrusanti nel tempo e forniscono chiavi di lettura fondamentali zione di una strada o una casa.
E’ quindi da evidenziare che tutti i materiali, sia essi natuper definire gli scenari di rischio. Per questi ultimi altra fondamentale conoscenza, e criterio discriminante, è costituita rali che antropici, sono soggetti ad alterazioni e decadimento
delle proprietà. Conseguentemente i possibili cambiamenti
dalle cause d’innesco delle instabilità.
Vengono definite generalmente cause predisponenti spe- nel tempo delle proprietà fisico-meccaniche dei terreni e delcifici assetti geologico-strutturali, geologico-tecnici e mor- le rocce nonché degli stessi ammassi, possono determinare
fologici che favoriscono quelle condizioni, quali la libertà significative riduzioni di resistenza che conducono alla incinematica, per lo sviluppo dei fenomeni. Innescanti sono stabilità dopo un certo tempo, sebbene apparentemente posinvece quelle cause che attivano nell’immediatezza gli stes- sa sembrare che nulla sia mutato. Se i comportamenti nel
si. In effetti gli eventi franosi sono nella gran parte dei casi tempo dei materiali costituenti le strutture ingegneristiche
innescati da eventi meteorologici caratterizzati da specifiche sono sufficientemente conosciuti e riconoscibili, quelli dei
caratteristiche in termini di intensità e durata o da eventi si- materiali geologici sono spesso misconosciuti o parzialmente stimabili. Tali evoluzioni sono particolarmente sensibili
smici.
E’ però da sottolineare che, nel suo insieme costitutivo, un negli ammassi rocciosi argillosi ove le stesse caratteristiche
versante, montuoso o collinare o ancora corrispondente ad minero-petrografiche favoriscono anche accelerate variazio29
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
ni dello stato fisico e, quindi, dei
comportamenti dei materiali.
Si è già detto come le modifiche
geometriche lungo un versante possano essere causa predisponente
degli eventi di frana. La figura 5 ne
fornisce un esempio didascalico.
Da ciò ne consegue la necessità che ogni variazione sul versante vada attentamente valutata in
quanto può indurre significative
variazione nella stabilità delle masse nonché nella circolazione idrica
lungo il versante. Il già più volte richiamato caso di Sarno diviene a riguardo esemplare. I movimenti iniziali, classificabili quali “Valanghe
di detriti”, sono stati favoriti dalla
Figura 6 - Ricorrenza dell’assetto morfologico individuato nelle aree di innesco degli eventi di Sarno, Quindici,
Siano e Bracigliano del 1998: A) Meccanismo d’innesco in corrispondenza di una scarpata naturale; B)
presenza di una fitta rete di percorMeccanismi d’innesco in corrispondenza di un taglio antropico; C) Meccanismo d’innesco in seguito a crollo
(da Guadagno e Revellino, 2005, modificata).
si di risalita dei versanti a supporto
delle attività agricolo-forestali. La
figura 6 evidenzia le percentuali degli assetti ricorrenti nelle circa 170 zone apicali d’innesco FENOMENI DI FRANA IN ITALIA
degli eventi di frana.
Nei paragrafi precedenti si è detto dell’elevata frequenza
La preponderanza delle instabilità associate alla presenza di tagli nelle coltri superficiali di natura piroclastica evi- spaziale e temporale degli eventi di frana in Italia, anche indenzia come di fatto gli eventi possano essere definiti quali dotta dagli assetti geostrutturali e morfologici. Per illustrare
antropogenetici. In questo caso, masse di alcuni metri cubi un quadro delle complessità, nel seguito sono raccolte una
hanno coinvolto ed attivato migliaia di metri cubi di mate- serie di immagini di eventi (fig. 7- 21) che hanno, in diverse
riali presenti lungo i versanti e i fossi incidenti con un tipico epoche, colpito varie località e che richiamano le differenti
tipologie e la pervasività della problematica.
effetto a valanga.
Figura 7 - La frana del Vajont del 9 ottobre 1963 in una foto di Edoardo Semenza (foto da Masè et al., 2004). Classificabile come uno scorrimento di roccia (rock
slide), la frana collassò dal Monte Toc all’interno dell’invaso artificiale prodotto dalla costruzione di una diga lungo la valle del torrente Vajont generando un’onda
d’acqua che si elevò al di sopra del corpo diga inondando alcuni abitati a valle provocando la morte di circa 2000 persone (Semenza e Ghirotti, 2000).
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Figura 8 – Frana della Val Pola (Alpi Centrali) del 28 luglio 1987 (foto da Crosta et al., 2004). Classificabile come valanga di roccia
(rock avalanche), la frana provocò la perdita di 27 vite umane (Govi, 1989).
Figura 9 – Una delle frane prodotte a seguito del terremoto del 5-6 febbraio 1783 in Calabria e che ha sbarrato il corso della
Fiumara Boscaino, dando luogo al lago di Cumi (da Cotecchia et al., 1969)
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
sempre maggiore richiesta di metodi previsionali.
Per quanto è stato in precedenza illustrato, predire una frana, nelle sue modalità di esplicazione cinematiche nonché
Non vi è dubbio che il rischio da frana ha un impatto cre- temporali, non è cosa semplice. I modelli predittivi necesscente sulla società italiana. Recenti evidenze dimostrano sitano del riconoscimento del processo geologico alla base
come in Italia, sussista il più elevato numero di morti per fra- della instabilità, spesso non facilmente definibile a priori.
na in Europa e, dopo il Giappone, tra i più elevati rischii da Ciò diviene ancora più complesso quando da un livello di
frana nel mondo. Di conseguenza vi è una crescente richiesta analisi locale si passa ad un livello areale.
di sicurezza, di cui anche i recenti piani di intervento goE’ proprio per queste ragioni che si preferisce definire nelvernativo ne costituiscono una evidenza (www.italiasicura. le cartografie tematiche le aree suscettibili ad essere coingoverno.it), che comunque determinano la necessità di una volte da eventi di frana, nelle varie tipologie. La previsione
temporale è di fatto connessa, tranne in alcuni
specifici casi, alla probabilità di accadimento di
eventi scatenanti che, come in precedenza ricordato sono quelli piovosi o forti sismi.
Allo stato attuale è possibile affermare che
in Italia si ha una buona conoscenza delle aree
suscettibili. Il lavoro svolto nell’ambito delle attività delle Autorità di Bacino, consente
di disporre di cartografie di pericolosità, che,
sebbene in modo non omogeneo per il territorio nazionale, forniscono una quadro esaustivo della franosità in ogni Regione. E’ però da
evidenziare che queste cartografie hanno uno
scopo preminente pianificatorio e, quindi, sostanzialmente sono vincolistiche nei riguardi
delle attività costruttive.
Se diversamente consideriamo la vita umana,
quale bene da salvaguardare prioritariamente
attraverso azioni di mitigazione ma anche il
Figura 10 – Scorrimenti e flussi a cinematica veloce innescati a seguito del terremoto di
costruito, ed in particolare quello relativo alle
Casamicciola che colpì l’isola d’Ischia il 28 luglio 1883 (da Cubellis e Luongo, 1998).
infrastrutture, alle life-lines o ai centri abitati,
si ritiene che solo in alcuni casi sussistano le
necessarie definizioni di dettaglio dei rischi.
Questi si determinano, in particolare, nelle aree
che possono essere coinvolte da quegli eventi
di frana a cosiddetta “cinematica veloce” che,
quindi, si esplicano con velocità dei metri secondo.
Proprio sulla base del complesso delle definizioni contenute nei Piani di bacino nonché dei
continui miglioramenti delle conoscenze disponibili, appare oggi necessario procedere ad
una analisi ragionata e di dettaglio per porre in
evidenza situazioni di gravità, locali o areali, su
cui sono necessarie attività di mitigazione, sia
esse con interventi fisici sia esse attraverso piani gestionali. I continui accadimenti di eventi
luttuosi pone in luce come le attuali cartografie, non specificamente indirizzate alla salvaFigura 11 - Rappresentazione cartografica della colata di terra denominata “Santo Ianni” (San
Giorgio la Molara, Benevento), relativa all’area di canale e accumulo, a cura dell’Ing. Marchese a
guardia della vita umana, costituiscano solo
seguito del terremoto del 1805 (Archivio di Stato di Napoli). In occasione del sisma, il piede della
delle documentazioni di riferimento generale.
frana occupò l’alveo del Fiume Tammaro inducendo un temporaneo parziale sbarramento del
fiume stesso. Nella planimetria tecnica, probabilmente una delle prime al mondo, sono indicati
In effetti sarebbe necessario che ogni regione
gli effetti al suolo prodotti, in termini di spostamento dei manufatti, nonché le dimensioni del
corpo di frana. Sulla base delle misure dell’epoca, le parti relative all’area di canale ed al cumulo
e comune disponga della conoscenza di quelle
risultavano avere una lunghezza totale di circa 3545 m (1922 passi) e una larghezza massima
aree ove, il determinarsi di fenomeni veloci e
di circa 1470 m (800 passi), e presentavano, al loro interno, numerose fessure longitudinali e
trasversali al versante (da Guadagno et al., 2006).
distruttivi possa incidere sulle popolazioni sia
PROBLEMATICITÀ NELLA GESTIONE DEL RISCHIO
DA FRANA IN ITALIA
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Figura 12 – Mappa dell’area interessata dalla grande frana di Ancona del 13 dicembre 1982. Il movimento, di cui ci sono notizie già dai tempi dei Romani, ha avuto il
suo momento più disastroso nel 1982 quando durante la sua movimentazione distrusse circa 300 edifici, danneggiando la ferrovia e la strada costiera per un tratto
di circa 2,5 km (Cotecchia, 2006)
in modo diretto sia coinvolgendo infrastrutture vitali. La co- http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/piani_di_emernoscenza di situazioni di particolare rischio consentirebbe genza_comuna.wp;jsessionid=B122F758DAC692C281DB
anche di definire quelle che sono le priorità per la mitigazio- FFF2CC42E573).
Senza efficienti piani di protezione civile, viene di fatto
ne da attuare attraverso interventi di prevenzione e quindi,
per meglio utilizzare le risorse disponibili.
In effetti la conoscenza delle aree di particolare rischio, dovrebbe essere contenuta anche in
quelli che sono i cosiddetti “Piani di Protezione
Civile”. Recenti avvenimenti emergenziali evidenziano che una delle problematiche associate
nella gestione dei rischi di frana sia quella relativa ai “Piani Comunali di Protezione Civile”.
Se questi fossero opportunamente realizzati ed
attuati anche negli aspetti comunicativi, tenendo
in considerazione quanto prima indicato, costituirebbero un effettivo contributo alla mitigazione
dei rischi, in quanto fornirebbero essenziali elementi di conoscenza.
Purtroppo oggi i piani sono spesso assenti
o non calibrati alle reali situazioni di rischio e
quindi carenti o, ancora, inattuati, come anche le Figura 13 –Scorrimento rotazionale del 25 dicembre 1976 che ha interessato la Valle dei Templi
cronache riportano (a riguardo consultare il sito ad Agrigento (da Cotecchia et al., 1995).
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Figura 14 – Le catastrofiche colate e valanghe detritiche avvenute a Sarno-Episcopio (Campania) il 5-6 maggio 1998. Negli stessi giorni, l’intera dorsale di Pizzo
d’Alvano è stata interessata da eventi di frana analoghi ed a risultare colpiti sono stati altre a Sarno, anche i centri abitati di Quindici, Siano e Bracigliano con circa
160 morti in totale (Del Prete et al.,1998, Guadagno e Revellino, 2005).
Figura 15 – Arre di distacco dei flussi che hanno interessato il versante a monte di Giampilieri (Messina) in 1° ottobre 2009 (foto G. Scarascia Mugnozza).
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Scenari di forti terremoti in aree appenniniche suscettibili
meno anche il possibile ruolo attivo degli amministratori e,
soprattutto, della popolazione in quanto non sarà presente ad eventi di frana ma oggi fortemente antropizzate rispetto al
la necessaria consapevolezza dei rischi del territorio in cui passato, evidenziano la possibilità di significative forti incisi vive. La comunicazione di norme comportamentali sia in denze ed amplificazione delle possibili conseguenze.
fase di emergenza sia in “tempo di pace” può essere quindi
CONCLUSIONI
determinante per indurre comportamenti adeguati.
Ciò anche perché, nell’ambito del rischio da frana, che
La crescente urbanizzazione del territorio Italia, ma anche
come visto è pervasivamente presente in molte regioni italiane, non è attuabile l’opzione zero-rischio. Diversamente il progressivo abbandono di attività agricole e forestali, posdeve essere definito un rischio accettabile per la comunità di sono indurre un significativo incremento della suscettività a
franare del territorio collinare e montuoso italiano, già fragicui però la stessa dovrà essere consapevole.
La consapevolezza di vivere in territori difficili deve esser le per assetti geologici. Le modifiche del regime delle piogquindi una delle basi per evitare che l’antropizzazione del ge, ha incrementato in molte aree, la frequenza di fenomeni
territorio, che spesso avviene in modo illegale, possa indurre di frana anche con conseguenze particolarmente gravi sia per
incrementi della suscettibilità e, quindi, della pericolosità. In le popolazioni che per le infrastrutture.
effetti, la pericolosità da frana dei territori, a differenza di altri rischi naturali (sismico e vulcanico), può essere significativamente incrementata
dagli interventi lungo i versanti che non tengano
in considerazione il generale fragile assetto, ed i
comportamenti delle masse.
Variazioni morfo-topografiche come quelle
illustrate, variazioni nell’assetto idrogeologico e degli scorrimenti delle acque in superficie
possono essere quindi determinanti per indurre
quelle condizioni di suscettibilità su versanti che naturalmente potevano essere definibili
quali stabili.
Un ulteriore importante problematicità è quella relativa all’impatto dei cambiamenti climatici. Variazioni in intensità delle precipitazioni,
incremento della frequenza degli eventi estremi,
possono essere fattori determinanti nell’innesco
di eventi anche in aree che nel recente passato
non sono state coinvolte in situazioni di frana.
Ciò determina la necessita di valutazioni degli
scenari di rischio alla luce della attesa estremizzazione degli eventi meteorologici.
In ultimo, e come più volte accennato, gli
16 – Scarpata principale dello scorrimento rotazionale che interessa l’abitato di Pisticci
eventi di frana possono costituire un importante Figura
(Italia meridionale): A) 1984; B) 1978
effetto associato alle azioni sismiche di forti terremoti. E’ questo un capitolo di particolare significatività. Come evidenziato anche attraverso
il terremoto delle Calabrie del 1783 ma anche
come ben documentato per altri sismi, terremoti
ad elevata magnitudo possono attivare o riattivare, in areale più o meno esteso, instabilità di
versante in modo anche diffuso. E’ questo un
tema di particolare significato ed, in molti casi,
di difficile definizione preventiva. Certe sono le
possibili conseguenze, come il terremoto del Sichuan del 2008 o quello recentissimo del Nepal
dimostrano. Oltre i danni diretti, possono determinarsi importanti ricadute sulle infrastrutture
lineari, quali strade e ferrovie, fondamentali per Figura 17 – Scorrimento roto-traslativo evolvente a flusso (Maierato, Vibo Valentia) del febbraio
2010 (foto http://www.irpi.cnr.it/progetti/iano-maierato-3862/)
apporto dei soccorsi.
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Figura 18 – La frana di Craco (Basilicata; Del Prete M. e Petley D.J., 1982): resti del muro ad archi costruito nel 1888 (foto da Bentivenga et al., 2004).
Figura 19 - Immagine obliqua da elicottero della frana di Montaguto (Avellino) del 27 aprile 2006. In primo piano l’area di alimentazione, sullo sfondo l’area di canale
e di accumulo. L’evento franoso ha una lunghezza di circa 3000 m. Nel corso degli ultimi 7 anni, la frana di Montaguto ha visto due importanti riattivazione: 1)
nell’aprile del 2006, quando il materiali mobilitati verso valle hanno coinvolto la SS 90 delle Puglie e danneggiato alcuni edifici; 2) nel marzo del 2010, in cui un’altra
riattivazione ha raggiunto i binari della linea ferroviaria Benevento-Foggia”, a valle della SS 90. (Foto F. Guadagno)
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
E’ quindi necessaria una politica di prevenzione, che oltre
a prevedere misure fisiche di controllo delle instabilità, in
primis per quelle situazioni che sono di rischio per la vita
umana, consenta una diffusione della consapevolezza della
pericolosità di molti territori. La consapevolezza dei rischi
basata su scenari, purtroppo per molte aree non ancora disponibili, è quindi elemento fondamentale che dovrebbe guidare gli amministratori ed i tecnici verso analisi di priorità
d’intervento e pianificazioni corrette, e le popolazioni verso
comportamenti compatibili con una realtà geologica fragile.
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Figura 21 – Vista frontale del Monte de la Saxe (Courmayeur) ove sono riportate la frana attiva di Bois du Plan Cereux e la frana quiescente di Bois du Point Pailler
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LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
La pericolosità vulcanica
RAFFAELLO CIONI1, ROBERTO SANTACROCE2
1 Dipartimento Scienze della Terra, Università degli Studi di Firenze
2 Dipartimento Scienze della Terra, Università di Pisa
U
na delle caratteristiche principali dell’attività vulcanica è certamente rappresentata
dal largo spettro di possibili fattori di pericolosità ad essa connessi. In poche parole,
la maggior parte degli eventi pericolosi
naturali di carattere geologico (dai rischi specificatamente
legati ai diversi processi vulcanici, fino a quelli relativi all’attività sismica, a frane, tsunami, rilascio improvviso di gas,
etc.) sono compresi nel novero delle tipologie di rischio legate ad attività vulcanica. Se questo rende complessa da un
lato la stima della pericolosità vulcanica, per lo stesso motivo
la finalizzazione degli studi di vulcanologia classica a questo
obiettivo rappresenta un elemento fortemente stimolante per
la maggior parte dei vulcanologi. Parlare di rischio vulcanico relativamente alla situazione italiana è poi senza dubbio
una impresa ardua, sia a causa dell’elevato numero di vulcani
attivi presenti sul territorio italiano, che della estrema variabilità in termini di stili eruttivi, e quindi di rischi connessi,
che essi mostrano. Nondimeno, le buone conoscenze di base
disponibili per le diverse aree vulcaniche, frutto di anni di
studio da parte soprattutto della comunità vulcanologica italiana, permettono di tracciare un quadro abbastanza esaustivo
della situazione attuale.
Scopo di questo articolo è quello di fare un breve riassunto della evoluzione geologica delle principali aree vulcaniche italiane, indicandone anche le principali fenomenologie
eruttive attese ed i pericoli ad esse connesse. Tali fattori di
pericolo saranno poi descritti in generale, indicandone le
modalità di definizione e di mappatura generalmente in uso,
indicando alcuni esempi di applicazione ai vulcani italiani.
I VULCANI ATTIVI ITALIANI
L’assetto attuale dell’area mediterranea è essenzialmente
il risultato della subduzione della placca africana sotto quella
eurasiatica, un processo caratterizzato da interazioni relativamente complesse tra processi orogenici e diffusa tettonica
distensiva. Questo assetto, e la sua evoluzione attuale, sono
responsabili delle intense attività sismica e vulcanica che
caratterizzano l’intera area. Il Mediterraneo Occidentale, in
particolare, è costituito da una serie di bacini marini formatisi
a partire dall’Oligocene, progressivamente più giovani progredendo verso sudest, e caratterizzati da considerevoli assottigliamenti della litosfera continentale (Fossa di Valencia,
mari di Alboran, Ligure e Tirreno Settentrionale) fino alla sua
lacerazione e all’inizio di fenomeni di espansione (Bacino
Provenzale e Tirreno Meridionale). La formazione di questi
bacini è stata coeva con il corrugamento delle diverse catene
montuose circostanti: la cordigliera Rif-Betica, le Magrebidi dell’Africa Settentrionale e della Sicilia, gli Appennini, le
Alpi, le Dinaridi e le Ellenidi.
L’area italiana in particolare, al centro di questo complesso puzzle, è stata sempre il luogo preferenziale di una forte
attività vulcanica. Attualmente, possono essere definite attivi
diversi settori, corrispondenti a situazioni geodinamiche diverse, e dei più importanti dei quali parleremo più in dettaglio nel seguito:
- l’area campana, comprendente la Piana Campana ed il
corrispondente offshore, con tre centri vulcanici principali:
- i Campi Flegrei, la cui ultima eruzione è avvenuta nel
1538 dC, formando il cono del Monte Nuovo;
- il Somma-Vesuvio, inattivo soltanto dal 1944;
- l’isola di Ischia, la cui ultima attività, nel 1302 dC, si è
concentrata nel piccolo centro eruttivo di Monte Arso.
Una importante peculiarità, in termini di rischi conseguenti, di tutta l’area campana è la sua altissima densità abitativa, che unitamente alle tipologie eruttive che
nel passato hanno caratterizzato i tre diversi vulcani,
fanno di quest’area una tra quelle esposte a più alto
rischio vulcanico al mondo.
- l’arco eoliano e la sua estensione nella piana abissale tirrenica. Fanno parte di questo numerosi centri ed isole vulcaniche, tra le quali:
- Stromboli, con la sua attività persistente, almeno negli
ultimi 2 millenni;
39
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
- Lipari, con almeno una eruzione nel periodo storico
dal Monte Pilato, nella sua parte nord-orientale;
- Vulcano, la cui ultima eruzione si prolungò a partire
dal 1888 fino al 1890.
Particolarità di questa area vulcanica è la forte vocazione turistica, che fa oscillare di almeno un ordine di
grandezza il numero dei residenti nella aree più prossime agli apparati vulcanici, con conseguente variazione
del rischio atteso nei diversi periodi dell’anno.
- Il monte Etna, il più grande vulcano subaereo europeo, in
attività pressoché persistente, e per il quale la presenza di una
elevato numero di centri abitati sulle sue pendici unita alla
grande vocazione turistica, possono rappresentare elementi
di incremento del rischio anche in presenza di attività di per
sé non di elevata pericolosità.
Oltre a queste, deve essere considerata attiva anche tutta
l’area del Canale di Sicilia, dove sporadiche eruzioni sottomarine sono avvenute nel 1831 (Ferdinandea/Graham), nel
1891 (offshore di Pantelleria) e (forse) nel 1911. Inoltre, soprattutto in base alla presenza di una importante attività esalativa di CO2 e di una frequente attività sismica, è attualmente
considerata potenzialmente attiva anche l’area dei Colli Albani, immediatamente a sud di Roma.
L’area campana
I vulcani della Campania sono da mettere in relazione a
sistemi di faglie verticali e subverticali con due andamenti principali, Nordovest-Sudest, “Appenninico”, e NordestSudovest, “Antiappenninico”, generati dall’apertura, iniziata nel Miocene, della Piana Abissale del Tirreno e dalla
rotazione antioraria della penisola italiana. In Campania una
tale situazione ha portato alla formazione di una depressione strutturale allungata in direzione NO-SE che, colmata da
depositi sedimentari e vulcanici plio-quaternari, costituisce
oggi la Piana Campana. Sul margine tirrenico della piana, in
prossimità delle terminazioni settentrionale e meridionale, si
sono create e persistono le condizioni idonee alla risalita di
magma e alla formazione di vulcani.
I Campi Flegrei
I Campi Flegrei costituiscono un’ampia struttura calderica
risorgente formatasi in conseguenza delle due maggiori eruzioni verificatesi in Italia nel corso del Quaternario: l’Ignimbrite Campana (“IC”) e il Tufo Giallo Napoletano (“TGN”)
rispettivamente avvenute circa 39 e 15 ka fa. Tradizionalmente la storia eruttiva dei campi Flegrei è divisa in tre “Periodi”:
I Periodo Flegreo: l’inizio dell’attività risale a non meno
di 50-60 ka, età delle rocce vulcaniche più antiche affioranti. Almeno 11 eruzioni esplosive e 5 effusive sono avvenute
prima dell’eruzione dell’IC. Nel corso dell’eruzione dell’IC
(39 ka) furono emessi circa 200 km3 di magma trachitico,
prevalentemente sotto forma di colate piroclastiche, e il con40
seguente collasso strutturale portò alla formazione di una caldera di almeno 150 km2. L’eruzione ebbe certamente un impatto tremendo sul territorio, tanto che alcuni studiosi hanno
suggerito un possibile rapporto con la transizione culturale
da Paleolitico Medio a Paleolitico Superiore, con il rapido
affermarsi dell’Homo Sapiens moderno sui Neanderthal.
II Periodo Flegreo: tra 39 e 15 ka anni un’intensa attività
vulcanica si sviluppò nell’interno, parzialmente sommerso,
della caldera, dove sono stati identificati una decina di edifici
vulcanici. Circa 15.000 anni fa avvenne l’eruzione del TGN,
nel corso della quale furono emessi, prevalentemente come
colate piroclastiche, 40 km3 di magma. Anche in questo caso
l’eruzione fu accompagnata da un collasso calderico (oltre 50
km2), all’interno della caldera dell’IC.
III Periodo Flegreo: negli ultimi 15 ka anni sono avvenute non meno di 61 eruzioni da bocche diverse, spesso monogeniche, tutte all’interno della caldera e concentrate in
tre “Epoche”, periodi di intensa attività separati da lunghe
quiescenze. Si è trattato per lo più di eruzioni esplosive, di
magnitudo molto variabile e generalmente caratterizzate
dall’alternarsi di fasi magmatiche e freatomagmatiche. Nel
corso di ciascuna Epoca il tempo intercorso tra due successive eruzioni è stato in media di soli 60 anni. Delle 37 eruzioni esplosive riconosciute nella Prima Epoca, tra 12 e 9,5 ka,
solo una, quella cosiddetta delle “Pomici Principali” (10,3
ka), ha avuto magnitudo rilevante. La Seconda Epoca (8,68,2 ka) generò 6 eruzioni, tutte esplosive e di magnitudo modesta. Nella Terza Epoca (4,8-3,8 ka) si sono verificate una
ventina di eruzioni, quattro delle quali effusive. Il solo evento di magnitudo elevata può essere considerato l’eruzione di
Agnano Monte Spina, avvenuto 4.100 anni fa. I primi due
periodi di quiescenza sono durati 1.000 e 3.500 anni rispettivamente, mentre l’ultimo, iniziato circa 3.800 anni or sono, è
stato interrotto nel 1538 dall’eruzione esplosiva, di moderata
intensità, che portò alla formazione del Monte Nuovo, finora
l’ultima dei Campi Flegrei.
La struttura calderica ha esercitato un forte controllo sul
vulcanismo dei Campi Flegrei. La posizione dei centri eruttivi e l’alternarsi di periodi di attività e di quiescenza durante il
III Periodo sono stati condizionati dal collasso della caldera
del TGN e dal successivo sollevamento della sua porzione
centrale, tuttora in corso. Durante la I e la II Epoca il magma,
risalito lungo le fratture bordiere della caldera del TGN, eruttò attraverso apparati per lo più monogenici che oggi formano una corona circolare discontinua che ripete quasi perfettamente la geometria della caldera TGN. Tra la II e la III Epoca
la parte centrale della caldera (blocco de “La Starza”), che a
più riprese aveva alternato periodi di emersione con episodi
di subsidenza ed ingresso di acque marine, emerse definitivamente. Il sollevamento complessivo è stato di circa 90 m.
Durante la III Epoca il magma è stato capace di raggiungere
la superficie quasi esclusivamente lungo le fratture aperte nel
blocco in sollevamento. Numerose crisi di sollevamento e
abbassamento del suolo (bradisismo) si sono succedute fino
al periodo attuale, accompagnate da importanti variazioni sia
dell’attività esalativa che di quella sismica. Tale situazione di
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Fig. 1 Elaborazione 3D dell’area dei Campi Flegrei (a cura del Laboratorio di Geomatica e Cartografia dell’INGV; http://ipf.ov.ingv.it)
unrest è tuttora in corso.
La caratteristiche della caldera e la sua storia eruttiva suggeriscono chiaramente che una delle principali variabili in
gioco in una eventuale ripresa futura dell’attività eruttiva ai
Campi Flegrei è sicuramente rappresentata dalla posizione
della bocca eruttiva. Tutta l’attività passata, ed in particolare
quella ormai ben studiata relativa agli ultimi 15 ka, è stata
caratterizzata da un continuo spostamento dei centri eruttivi da una eruzione all’altra, con la formazione di numerosi
centri monogenetici o di centri complessi nei quali l’attività
si è concentrata principalmente lungo fratture, lungo le quali si è spostata nel tempo la bocca eruttiva. In questo caso
diventa così di primaria importanza definire la pericolosità
vulcanica tenendo conto non solo delle variabili relative alla
tipologia eruttiva di un possibile evento futuro (in termini di
intensità, possibile scenario eruttivo, volume di magma eruttabile, etc.), ma anche appunto della probabilità di apertura di
una bocca nelle varie aree all’interno della caldera. Una forte
schematizzazione delle tipologie eruttive flegree è stata proposta negli anni passati, con tre tipologie di eventi possibili di
riferimento corrispondenti ad eruzioni esplosive di intensità
e volume crescente, oltre ad una caratterizzata da messa in
posto di colate viscose o duomi. In ciascuno di questi eventi “di riferimento” le principali (da un punto di vista della
pericolosità) tipologie di attività eruttiva sono rappresentate
sia dalla caduta di lapilli e ceneri, che dallo scorrimento di
flussi piroclastici. La principale differenza tra i vari eventi
risiede nella sostanziale differenza dell’areale interessato dai
fenomeni eruttivi.
Isola d’Ischia
Le isole d’Ischia e di Procida rappresentano le porzioni
emerse di un grande sistema vulcanico che si estende su una
superficie di circa 600 km2 tra Capo Miseno e i rilievi vulcanici sommersi presenti in off shore fino a quasi quaranta
chilometri a Ovest di Ischia. L’area comprende apparati di
dimensioni assai variabili, da modesti rilievi, probabilmente
monogenici, ad ampie caldere legate a grandi eruzioni esplosive. Molti dei depositi affioranti sono il risultato di eruzioni
esplosive di centri sottomarini.
Ischia è quasi esclusivamente costituita da rocce vulcaniche sia effusive (duomi e colate di lava viscosa) che esplosive (depositi piroclastici e relativi rimaneggiamenti). Le rocce
più antiche hanno un’età superiore ai 150 ka e costituiscono i resti di un edificio vulcanico nel settore sud-orientale
dell’isola. Tra 150 e 170 ka, l’attività è caratterizzata dalla
formazione di duomi lavici e moderata attività esplosiva di
cui rimangono scarsi depositi piroclastici trachitici. Dopo un
periodo di quiescenza di quasi 20.000 anni, ed una fase intorno a 100 ka di forte attività esplosiva, l’attività rimane molto
ridotta fino a circa 73 ka. I depositi piroclastici emessi tra 73
ka e 56 ka sono il risultato di almeno dieci eruzioni esplosive
41
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
di magnitudo elevata, tra cui alcune eruzioni pliniane a cui si
deve l’inizio della formazione della caldera di Ischia, che si
concluderà con l’emissione del Tufo Verde dell’Epomeo (56
ka). A partire da questa eruzione l’attività dell’isola è stata caratterizzata dall’alternarsi di periodi di risorgenza della
parte centrale della caldera (che negli ultimi 30000 anni si è
sollevata fino a raggiungere gli attuali 789 m slm), intensa
attività e quiescenza. La storia vulcanologica dell’isola successiva all’eruzione del Tufo Verde dell’Epomeo viene tradizionalmente divisa in tre periodi di attività; intorno a 10 ka
(inizio del III Periodo) il vulcanismo si concentrò nella porzione orientale di Ischia ove si erano generate faglie normali
in risposta al regime di stress distensivo indotto dalla risorgenza dell’Epomeo. Più tardi, circa 6.000 anni fa, l’attività
vulcanica si estese anche all’angolo nordoccidentale dell’isola, al di fuori dell’area in sollevamento. Dopo una fase di
sostanziale quiescenza (tra 5,5 e 2,9 ka) l’attività riprese vigorosa (35 diverse eruzioni riconosciute) fino al 1.302 d.C.,
anno dell’ultima eruzione a Ischia. Le eruzioni furono ora
effusive e ora esplosive, e produssero colate di lava e depositi
piroclastici da caduta e da flusso di composizione prevalentemente trachitica. Gli edifici vulcanici sono duomi lavici, coni
di pomici, coni di scorie e coni di tufo.
In risposta all’intensa attività deformativa, l’isola è stata
inoltre interessata numerosi episodi di frane e collassi gravitativi, alcuni dei quali responsabili dell’innesco di importanti
eventi di tsunami. Questa tipologia di attività, insieme alla
possibilità di eruzioni di piccola-media intensità caratterizzate da dinamiche sia esplosive (caduta di ceneri, minori flussi piroclastici) sia effusive, rappresentano allo stato attuale
le più probabili fonti di pericolosità vulcanica legata ad una
eventuale riattivazione.
Somma-Vesuvio
Il complesso vulcanico Somma – Vesuvio è costituito da
un vulcano più vecchio squarciato da una caldera sommitale,
il Monte Somma, e da un cono più recente, il Vesuvio (Gran
Cono), cresciuto all’interno della caldera dopo l’eruzione “di
Pompei” del 79 d.C. La stratigrafia di pozzi profondi mostra
che i prodotti più antichi del Somma-Vesuvio coprono i depositi dell’Ignimbrite Campana e, di conseguenza, sono più
recenti di 39 ka. Il volume totale di prodotti emessi nell’arco dell’esistenza del vulcano può essere grossolanamente
stimato a 100-150 km3. Nel corso della sua storia eruttiva
il Somma-Vesuvio è stato caratterizzato da una grande variabilità sia dello stile eruttivo che della composizione dei
prodotti emessi. Fino ad oggi i dati disponibili hanno permesso una ricostruzione abbastanza affidabile della storia del
vulcano soltanto per gli ultimi 22.000 anni. In questo lasso di
tempo sono stati riconosciuti i depositi di una quarantina di
eruzioni esplosive che, nel periodo successivo all’eruzione
del 79 d.C., si sono interstratificate con colate laviche e con i
depositi di alcune delle principali eruzioni Flegree. Gli eventi principali sono rappresentati da quattro eruzioni pliniane:
“Pomici di Base” (età radiocarbonio calibrata di. 22 ka BP),
“Pomici di Mercato” (9,0 ka BP), “Pomici di Avellino” (4,4
42
ka BP) e “Pomici di Pompei” del 79 d.C.. I depositi di queste
eruzioni (soprattutto i livelli pomicei di caduta) costituiscono
marker stratigrafici molto evidenti che permettono di dividere l’attività del vulcano in quattro diversi periodi.
I prodotti dell’attività che formò lo stratovulcano più vecchio sono esposti lungo la parete interna della caldera e sono
costituiti da una successione di lave e di depositi di scorie,
più o meno saldate, riferibili a un’attività prevalentemente
effusiva e stromboliana. Lungo la parete del Somma e, più
in generale, in posizione prossimale rispetto al vulcano, non
sono stati finora riconosciuti depositi piroclastici riferibili a
eruzioni esplosive di ragguardevoli magnitudo più antichi
delle Pomici di Base. Tuttavia, tra queste ultime e l’Ignimbrite Campana, in aree mediali e distali, sono intercalati diversi
depositi piroclastici di questo tipo: mentre alcuni sono certamente riferibili all’attività dei Campi Flegrei, la provenienza
di altri, in particolare le “Pomici di Codola” (33.000 anni), le
“Pomici di Schiava” (36.000 anni) e le scorie dell’”Eruzione
di Taurano” dovrebbero essere vesuviane.
La Caldera del Somma è una struttura polifasata formatasi
a seguito di collassi correlati alle 4 eruzioni principali degli
ultimi 22.000 anni. Queste eruzioni principali furono di solito precedute da umportanti periodi di quiescienza, di durata
variabile da circa 8.000 anni (prima delle eruzioni delle Pomici di Mercato) ad alcuni secoli (prima della eruzione del
79dC). L’attività degli ultimi 2 millenni è caratterizzata da
una forte variabilità di stili eruttivi, con almeno due eruzioni di intensità medio-alta (gli eventi subpliniani del 472 del
1631 dC) a cui si sono alternate fasi di attività meno intensa sebbene molto frequente, con eruzioni di varia natura, da
stromboliane violente, ad eventi prolungati caratterizzati da
emissione di cenere, ad attività effusiva. L’inizio della costruzione dell’attuale cono del Vesuvio può essere correlato
a questo periodo di attività. In particolare, a partire dal 1639
l’attività è stata praticamente ininterrotta (a condotto aperto),
con eruzioni laviche ed esplosive che si sono susseguite, separate da brevi periodi di quiescenza la cui durata massima è
stata di sette anni. L’ultima eruzione, nel 1944, ha chiuso di
fatto il periodo di attività a condotto aperto.
Sulla base delle molte informazioni esistenti sulla storia
passata del vulcano, è possibile raggruppare in alcune categorie le diverse tipologie eruttive. In particolare, l’attività esplosiva è stata caratterizzata da eventi con intensità e
stile eruttivo largamente variabile, sia in termini di energia
e massa rilasciate, che in termini di dinamiche eruttive coinvolte in ciascun tipo di evento. Si passa quindi, per quello
che riguarda l’attività esplosiva, da eruzioni caratterizzate da
deboli emissioni di scorie associate a colate laviche, ad eruzioni di media intensità e durata complessiva relativamente
lunga (da giorni a settimane) con la formazione di colonne
alte qualche chilometro di lapilli e ceneri i cui prodotti possono raggiungere spessori di decine di centimetri nelle aree
prossimali al vulcano, fino ad eruzioni pliniane e subpliniane,
caratterizzate sia da ricaduta di prodotti da colonne eruttive di altezza anche superiore ai 10-15 km, sia dalla forma-
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Fig. 2 L’isola di Stromboli. A sinistra: immagine registrata da un «Wide Angle Optoelectronic Stereo Scanner» (WAOSS) durante un volo-test il 16 Luglio 1996 (il
Nord verso l’alto); © Martin Scheele. A destra: Stromboli da NE in una foto dall’aereo di Bernhard Edmaier (http://www.swisseduc.ch)
zione di flussi piroclastici che possono percorrere le pendici
dell’intero vulcano fino a distanze di almeno una decina di
chilometri. Tali eruzioni sono ovviamente le più pericolose,
ed è proprio sulla base dei caratteri di alcune di queste (le
eruzioni subpliniane) che è stato scelto dalla protezione civile
nazionale l’evento di riferimento per la costruzione dei piani
di emergenza nel caso di una riattivazione futura, a brevemedio termine, del vulcano.
Non dovrebbe essere trascurata infine la possibilità di una
ripresa eruttiva di tipo prevalentemente effusivo, il cui impatto potrebbe essere elevato soprattutto in termini di danni economici, a causa della elevatissima urbanizzazione dell’area
che potrebbe essere interessata da eventuali colate laviche.
Arco Eoliano
L’arcipelago delle Eolie è una complessa struttura lunga
più di 200 km costituita da vulcani-strato più o meno complessi che formano sette isole principali e diversi rilievi sottomarini che estendono l’arco a Ovest (Eolo, Enarete e Sisifo) e
a Nordest (Lametini e Alcione) intorno al bacino del Marsili
Il vulcanismo è compreso tra 400 ka e il presente, ma potrebbe estendersi fino a più di un milione di anni fa. L’arco
delle Eolie può essere diviso in tre settori, ciascuno con peculiari caratteristiche magmatiche, vulcaniche e strutturali:
1. Il settore occidentale comprende le isole di Alicudi, Filicudi e Salina nel quale il vulcanismo si è sviluppato tra 400
e 13 ka lungo un sistema di faglie a direzione Ovest-Est. Le
rocce vulcaniche hanno composizione tipicamente calco-alcalina, con predominanza di termini mafici e intermedi.
2. Il settore centrale, che comprende le isole di Lipari e
Vulcano, sviluppatesi in corrispondenza di un sistema di faglie che taglia l’angolo nordoccidentale della Sicilia e si prolunga fino a Malta, costituendo il margine occidentale di una
possibile microplacca ionica. I prodotti affioranti hanno un’età inferiore a 200 ka e le loro composizioni sono eterogenee,
con prodotti da mafici a riolitici riferibili alle associazioni
calco-alcaline, shoshonitiche e potassiche.
3. Il settore orientale, che comprende Panarea e Stromboli, si è sviluppato su faglie a prevalente direzione Nordest
– Sudovest; anche in questo settore i prodotti affioranti, con
composizioni da mafiche a evolute ad affinità calco-alcalina,
shoshonitica e potassica, non hanno età superiore a 200 ka.
Stromboli
Stromboli, l’isola più settentrionale dell’arcipelago eoliano, dista circa 60 km dalla costa calabra. La parte emersa
dell’isola ha una superficie di 12,2 km2 e un volume di 3,8
km3, mentre il volume totale del complesso vulcanico, al di
sopra della profondità di circa 2000 metri, è di quasi 200 km3.
L’evoluzione morfostrutturale di Stromboli è stata dunque
dominata da collassi calderici e cedimenti gravitativi di interi settori dell’edificio. La ricorrenza di collassi dello stesso
settore dell’isola è spiegabile per la concomitanza di tre fattori: 1. l’edificio vulcanico raggiunge periodicamente massa
e pendenze critiche che lo portano a condizioni di instabilità
gravitazionale; 2. la tettonica regionale condiziona lo sviluppo di zone di debolezza morfostrutturale (sistemi di dicchi e
fratture) lungo direzioni NE-SO con conseguente dilatazione
e spostamento verso l’esterno del fianco del vulcano; 3. la
forte immersione del fondo del Tirreno dal quale si innalza
Stromboli rende il fianco nordoccidentale dell’isola più “propenso all’instabilità” di quello sudorientale.
La caratteristica strutturale principale di Stromboli è l’ampia depressione a ferro di cavallo, la Sciara del Fuoco che
occupa buona parte del fianco nordoccidentale dell’isola, e
al cui interno, alla quota di circa 700 metri, si trovano i crateri attivi. Il neck di Strombolicchio, con una età di circa 200
ka, testimonia l’attività più antica affiorante nell’area emer43
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
sa. Tutte le altre rocce di Stromboli hanno meno di 100.000
anni e sono il risultato di una complessa storia eruttiva riconducibile a quattro periodi: Paleostromboli (tra 100 e 35
ka), Vancori (tra 26 e 13 ka), Neostromboli (tra 13 e 6 ka) e
Stromboli Recente.
Le lave del ciclo dei Vancori costituiscono la vetta dell’attuale vulcano (924 m s.l.m.). Leggermente al di sotto della
cima dei Vancori, si è formato il cono di Neostromboli, la cui
attività ha prodotto lave ad affinità ultrapotassica che oggi
affiorano ai lati della Sciara del Fuoco. A partire da circa
6.000 anni fa, dopo un grande collasso che ha interessato il
fianco occidentale del vulcano formando la Sciara del Fuoco, è iniziata l’attività dello Stromboli Recente; una serie di
dicchi affioranti nei depositi del Neostromboli segnalano le
linee di debolezza strutturale lungo le quali il magma è andato ad infiltrarsi. L’attività attuale, iniziata circa 2000 anni fa,
è caratterizzata dalla persistenza di piccole esplosioni stromboliane che lanciano in aria, ad intervalli più o meno regolari
da minuti ad ore, grossi brandelli di magma associati ad una
scarsa quantità di cenere. Episodi di maggiore intensità (parossismi) e colate laviche incanalate lungo la Sciara del Fuoco, si intercalano con frequenza generalmente pluriannuale
all’interno dell’attività persistente.
La massima pericolosità legata all’attività del vulcano appare senza dubbio legata alla possibilità di innesco di tsunami
a seguito di frane di importanti settori della Sciara del Fuoco.
Gli eventi più recenti sono stati in genere associati ad attività
lavica lungo il fianco della Sciara, o a seguito di esplosioni
parossistiche. Non è da trascurare comunque, data l’elevata frequentazione turistica del vulcano, il rischio legato ad
esplosioni improvvise che possono lanciare grossi blocchi
nell’intorno dell’area craterica e lungo le pendici superiori
del vulcano.
Lipari
Il complesso vulcanico di Lipari fu costruito, almeno nella
sua parte emersa, tra circa 270 ka anni e il Medioevo attraverso la sovrapposizione di colate e duomi di lava e di depositi
piroclastici di caduta e di flusso prodotti da eruzioni di magnitudo media e modesta, sovente caratterizzate da una forte
componente idromagmatica. La storia eruttiva dell’isola è
descritta da nove “Epoche” di attività interrotte da periodi di
quiescenza, da fasi vulcano-tettoniche importanti e da episodi di terrazzamento marino nel corso dell’ultimo interglaciale
(Forni et al., 2013). Diversi edifici vulcanici, tra loro sovrapposti in maniera più o meno complessa, furono attivi nel corso delle diverse Epoche, controllati nella loro distribuzione
da una tettonica regionale a direzioni prevalenti NNO-SSE e
N-S. La più recente fase eruttiva ha formato il cono di pomici
di Monte Pilato, sovrastato da una colata ossidianacea.
Vulcano
La più meridionale dell’arcipelago eoliano, l’isola forma
un sistema vulcanico complesso comprendente l’edificio
del Vulcano Primordiale, sviluppatosi tra 120 e 100 ka fa,
tagliato da una caldera sommitale (Caldera del Piano) a cui
44
segue, sul fianco nord dell’isola, la subsidenza polifasata, a
seguito di collassi vulcano-tettonici, della Caldera della Fossa. Negli ultimi 15 ka l’attività si concentra quindi in questo
settore, con la emissione di prodotti shoshonitici e latitici che
riempiono parzialmente la depressione, In questo periodo, le
principali fratture e bocche eruttive si allineano in direzione
Nord-Sud, coincidendo con la direzione dei centri della contemporanea attività di Lipari. Da circa 6000 anni fa inizia la
costruzione del cono de La Fossa, al centro della omonima
caldera, con prodotti che variano da latitici a riolitici, con
minori shoshoniti. L’ultima eruzione dell’isola, proprio dal
cono de La Fossa, è avvenuta nel periodo 1888-1890, e fu
ben descritta da Giuseppe Mercalli; questo tipo di eruzione, con ripetute esplosioni di blocchi e ceneri con frequenza
ed intensità variabile, rappresenta il prototipo delle eruzioni
cosiddette Vulcaniane, prendendo proprio il nome dall’isola
stessa. A partire dal 1890, il cono de La Fossa è stato interessato da una forte attività esalativa, con numerosi periodi
di crisi, anche recenti, durante i quali sono state osservate
importanti variazioni sia nella estensione areale del campo
fumarolico, che nella temperatura, nel flusso e nella composizione chimica dei gas rilasciati. Anomalie nella sismicità
locale di bassa profondità hanno spesso accompagnato queste crisi.
Pochi eventi eruttivi nella storia passata de La Fossa hanno avuto intensità media; tra questi alcune eruzioni di tipo
subpliniano ed una eruzione caratterizzata dal coinvolgimento del sistema geotermico, che ha prodotto flussi piroclastici
che si sono estesi fino a tutta la caldera de La Fossa. Correnti
piroclastiche nella stessa area (e quindi estese all’attuale abitato di Vulcano Porto) si sono avute anche in corrispondenza
di alcuni eventi minori, data la estrema prossimità del cono.
I possibili scenari eruttivi in caso di ripresa dell’attività vulcanica dovrebbero considerare questa eventualità, insieme
anche alla stima della pericolosità legata al lancio di blocchi
con traiettorie balistiche, e l’eventualità di importanti destabilizzazioni del fianco nordest del cono, interessato da una
estesa fratturazione e da alterazione per l’intensa attività fumarolica.
ETNA
Il vulcano è posizionato nella Sicilia centro-orientale, sul
fronte dell’orogene Magrebide; durante il tardo Quaternario,
alle strutture compressive dell’orogene si sovraimposero
strutture distensive, probabilmente legate al forte arretramento del fronte nella sua parte calabra, e che attualmente
formano una importante zona tettonicamente attiva, caratterizzata appunto da vulcanismo ed intensa sismicità. Questa
tettonica distensiva ha fortemente controllato l’evoluzione
spazio-temporale del magmatismo etneo.
L’Etna è il più grande vulcano attivo subaereo in Europa,
raggiungendo una altezza di quasi 3330 metri a partire da una
base circa ellittica di 38x47 km. Il vulcano ha una struttura
composita, formata da una serie di stratovulcani alcuni dei
quali tagliati da una caldera sommitale, e da innumerevoli
piccoli apparati per lo più monogenetici. L’attuale edificio,
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Fig. 3 Eruzione all’Etna (http://www.aivulc.it)
risultante dalla coalescenza di questi diversi apparati, presenta una vasta depressione a ferro di cavallo aperta verso il Mar
Ionio (Valle del Bove), formatasi a seguito di un importante
collasso gravitativo del fianco est del vulcano, e nella quale
si incanalano numerose delle frequenti colate laviche dell’attività attuale. L’attività nell’area etnea inizia intorno a 500 ka
fa, con eruzioni sottomarine a chimismo tholeitico all’interno
del cosiddetto Golfo pre-Etneo; intorno a circa 300 ka l’attività diventa subaerea, prima caratterizzata ancora da vulcanismo fissurale, quindi con la costruzione dell’attuale edificio.
I magmi alcalino-sodici che caratterizzano l’attuale attività
del vulcano iniziano intorno a 220 ka fa. La sequenza alcalina
etnea è divisa in quattro sistemi vulcanici principali: i Centri
alcalini Antichi (da 220 a 100 ka fa), il Trifoglietto (100-60
ka), l’Ellittico (60-15 ka), probabilmente il maggiore degli
apparati che formano l’edificio attuale, ed il Mongibello Recente (da 15 ka fa). L’asse eruttivo dei principali apparati
dell’edificio ha subito un generale spostamento verso ovest
nel tempo. Il record eruttivo degli ultimi 15 ka mostra un
ampio range di stili eruttivi, con alcuni episodi di larga scala (eventi Pliniani e subpliniani) che sono stati riconosciuti
nel record stratigrafico Olocenico. Negli ultimi 1000 anni,
l’attività è stata dominata da eruzioni stromboliane di media
intensità, spesso accompagnate da voluminose emissioni laviche. L’attività eruttiva attuale si manifesta tramite eruzioni
dai diversi crateri attivi presenti nell’area sommitale, legate
a risalita di magmi attraverso una zona di condotti centrali, e
attraverso numerose eruzioni laterali, alimentate da fratture
radiali originatesi dall’area dei condotti centrali. Meno di frequente, alcune eruzioni laterali, chiamate eccentriche, sono
innescate da intrusioni di magma provenienti direttamente
dai serbatoi profondi, senza l’interessamento dei condotti
centrali.
L’attività vulcanica passata chiaramente mostra che gli
eventi a più elevato rischio potrebbero essere correlati alla
apertura di bocche eruttive a bassa quota sulle pendici del vulcano, dove maggiore è la presenza di aree abitate. Un evento
di questo tipo, avvenuto nel 1669, culminò con la formazione
di un cono piroclastico nei pressi dell’abitato di Nicolosi (a
circa 800 m di quota) e con l’emissione di una colata lavica
che in circa 4 mesi raggiunse la città di Catania, a 17 km di
distanza, formando un delta lavico che fece avanzare la linea
di costa di alcune centinaia di metri. Allo stesso modo, anche
colate laviche provenienti dalle aree sommitali possono, se
alimentate da un flusso e per un tempo sufficiente, minacciare le aree abitate, come nel caso dell’abitato di Zafferana
Etnea durante l’eruzione del 1991-93. Ovviamente non sono
da trascurare anche gli improvvisi eventi di fontana di lava,
simili a quelli che si sono succeduti con alta frequenza negli
ultimi anni, con formazione di colonne eruttive spesso caratterizzate da un elevato contenuto in cenere, che dispersa dai
venti in quota può dare problemi al traffico aereo e terrestre.
Nondimeno, la forte frequentazione turistica dell’area sommitale del vulcano può rappresentare un fattore di incremento
del rischio anche legato alla attività di minore energia. Infine,
specie nel caso dell’Etna, la sismicità vulcano-tettonica si è
rivelata un ulteriore fattore di rischio, data la bassa profondità
e la magnitudo non trascurabile che la caratterizzano.
LA PERICOLOSITÀ VULCANICA
La eruzioni vulcaniche possono generare danni di gravità
molto diversa in funzione non solo della magnitudo complessiva dell’eruzione (la massa di materiale eruttato) o della sua
intensità globale (il tasso eruttivo), ma soprattutto a causa
della grande variabilità dei processi ad esse connessi. La si45
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tuazione italiana in particolare, come discusso in precedenza,
mostra peculiarità importanti e soprattutto una ampia variabilità di situazioni possibili che devono essere di volta in volta
tenute in opportuna considerazione.
Nella stima della pericolosità vulcanica di un’area non è
sufficiente quindi valutare la probabilità di accadimento di
un’eruzione, ma devono sempre essere tenute in considerazione le diverse modalità in cui può manifestarsi la dinamica
eruttiva A complicare il tutto, le diverse dinamiche eruttive
possono essere esse stesse correlate a diverse tipologie di possibile danno, e singoli parametri o soglie di riferimento devono essere definite per ciascuno di questi. A titolo di esempio,
nel caso di un’eruzione caratterizzata da ricaduta di materiale
piroclastico, dovremmo considerare le diverse tipologie di
impatto che questo tipo di attività può avere sull’ambiente
e sulle aree antropizzate, definendo quindi soglie di rischio
per possibili effetti sulle costruzioni, che saranno diverse da
soglie di rischio per la valutazione dell’impatto ambientale
sulle falde idriche, o dei possibili effetti su infrastrutture e
servizi (strade, traffico aereo, etc.). Per questo motivo, la definizione della pericolosità vulcanica di un’area non può essere trattata in modo analogo alla pericolosità sismica dove,
semplificando, il fenomeno primario di riferimento è lo scuotimento del suolo. La pericolosità vulcanica di una determinata area entro un determinato intervallo temporale è quindi
rappresentata dalla somma di diverse pericolosità “parziali”,
ciascuna ottenuta attraverso il prodotto di tre diversi valori di
probabilità concernenti: (i) il verificarsi dell’eruzione, (ii) il
verificarsi nel corso dell’eruzione del fenomeno considerato
nella sua variabile intensità, (iii) il verificarsi del fenomeno
considerato nell’area considerata.
I fenomeni vulcanici pericolosi
Come detto sopra, la complessità nella valutazione della
pericolosità vulcanica di un’area risiede in gran parte anche
nella estrema variabilità di fenomeni potenzialmente pericolosi associati alle diverse dinamiche eruttive. Questi fenomeni sono passati in rassegna sinteticamente di seguito.
Caduta di materiale piroclastico - Un’eruzione esplosiva immette nell’atmosfera frammenti di roccia solida e di
magma fuso insieme a gas vulcanici con portate variabili tra
103 kg/sec nelle singole esplosioni stromboliane, fino a oltre 109 kg/sec nelle grandi eruzioni pliniane. I frammenti più
grossi (bombe e blocchi) di norma ricadono lungo traiettorie
balistiche a distanze non superiori ai 2-3 km dalla bocca. I
frammenti di taglia inferiore a qualche centimetro (ceneri e
lapilli) vengono trascinati verso l’alto dai gas, formando imponenti colonne eruttive che possono in molti casi penetrare
nella stratosfera (superando quindi altezze dell’ordine di 1015 km) e che sono poi disperse dai venti presenti alle varie
quote. Il risultato finale di questo processo è la deposizione
di estese coltri di materiale piroclastico incoerente, a granulometria e spessore variabile con la distanza dal centro eruttivo.
I pericoli associati a questo tipo di eruzioni possono essere
46
distinti in due grandi gruppi: quelli correlati alla presenza (ed
eventuale permanenza) di cenere in atmosfera, che crea grosse problematiche al traffico aereo, e quelli legati all’accumulo di particelle al suolo, che variano dai problemi correlati
alla stabilità degli edifici sotto il carico del materiale accumulato, a quelli relativi al danneggiamento di infrastrutture e
life lines (linee elettriche, comunicazioni) e all’eventuale inquinamento, sia chimico che fisico, di falde acquifere, bacini
idrici o coltivazioni. La dispersione di cenere nell’atmosfera
può inoltre ridurre o azzerare la visibilità creando problemi
anche al traffico terrestre; pochi centimetri di copertura sul
manto stradale possono provocare problemi seri al traffico.
Nelle aree interessate da un’importante copertura di cenere,
i problemi possono protrarsi anche per tempi lunghi rispetto
all’eruzione a seguito di processi risospensione della cenere
fine respirabile (PM10 e minore) da parte di eventi atmosferici o a causa del traffico terrestre.
I principali parametri fisici utili a definire la pericolosità
e il relativo impatto possono quindi essere considerati lo
spessore, il peso per unità di volume del deposito (variabile
in funzioni anche di parametri ambientali quali umidità), e
la granulometria dei prodotti. I fluidi magmatici condensati
sulla superficie esterna delle particelle durante la loro permanenza nella colonna eruttiva, che possono essere facilmente
rilasciati al suolo tramite l’azione delle acque piovane, rappresentano per contro il maggior fattore chimico di rischio
associato a questo tipo di attività.
La valutazione della pericolosità relativa alla ricaduta di
piroclastiti è basata in genere sulla relazione tra gli spessori
(o il carico esercitato) dei depositi e la loro dispersione, ottenuta con modelli fisico-matematici per il trasporto, la diffusione e la ricaduta delle particelle che tengono conto del
regime regionale dei venti. Con tali modelli, introducendo
opportune semplificazioni e generalizzazioni, è infatti possibile eseguire numeri molto elevati di simulazioni numeriche.
Il risultato dei modelli dovrebbe essere sempre comparato,
laddove possibile, con le mappe di dispersione per i diversi eventi passati del vulcano in studio, in modo da valutare
eventuali possibili incongruenze. Inoltre, l’applicazione corretta di questi modelli prevede che i dati di input per il modello siano direttamente derivati da studi di base sui depositi
dell’attività eruttiva del vulcano in studio.
Un esempio della sinergia possibile tra stime di pericolosità derivate dall’applicazione di modelli numerici e dati
derivanti dalla ricostruzione vulcanologica di eventi passati
è stato proposto ad esempio per il Vesuvio. In questo caso,
i dati di dispersione di 24 eventi esplosivi passati di taglia
medio-grande (da stromboliani violenti a subpliniani) sono
stati ricalcolati come carico a terra (kg/m2) su una maglia regolare di 1 km di lato nell’areale intorno al vulcano, fino a
distanze di circa 50 km. In questo modo, è stato possibile calcolare la frequenza storica di superamento di una certa soglia
di carico (100, 200, 300, 400 kg/m2), ciascuna corrispondente
a determinate probabilità di impatto sugli edifici, in ciascun
punto della maglia. Questo ha permesso di tracciare curve di
isofrequenza (in sostanza la percentuale di eruzioni) di supe-
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Fig. 4 Carta di pericolosità da caduta di piroclasti per eruzioni di media intensità (da stromboliane violente a subpliniane) al Vesuvio. A destra, una mappa di
frequenza storica, a sinistra il risultato della simulazione numerica per eventi della stessa taglia. I numeri sulle curve indicano i valori della probabilità (o frequenza)
di superamento della soglia di 300kg/m2 (modificato da Cioni et alii, Journal of Geophysical Research, 2003).
ramento della soglia di carico prescelta in ciascun punto della
griglia. Questi dati sono stati poi confrontati con quelli derivanti dal calcolo della dispersione teorica di particelle, durante un’eruzione esplosiva di taglia simile a quelle considerate
per costruire la mappa di frequenza storica, reiterata per circa
160.000 volte utilizzando casualmente i profili dei venti in
quota campionati da un database comprendente circa 14 anni
di misure dirette. Il confronto tra i risultati ottenuti con i due
metodi appare interessante. In generale, i risultati ottenuti
dall’analisi della dispersione dei depositi delle eruzioni passate (isofrequenze) sembrano fornire valori più affidabili per
le aree prossimali (fino a distanze di circa 10 km dal cratere
attuale), per le quali il modello risente maggiormente delle
assunzioni fatte circa la distribuzione delle particelle lungo
la colonna eruttiva, mentre le simulazioni forniscono valori
di probabilità più robusti per la dispersione oltre tali distanze, per le quali i dati di terreno sono via via più sporadici e
soprattutto a causa del limitato numero di eruzioni studiate in
confronto al numero altissimo di simulazioni. Questo permette infatti di tener conto maggiormente dell’effetto della variabilità nella direzione e intensità del vento, fattore principale
nel determinare l’areale di dispersione del materiale emesso
durante una singola eruzione. Come in ogni caso di corretta
applicazione dei metodi di simulazione numerica, comunque,
è importante tener conto come questi debbano essere sempre
“nutriti” con i dati derivanti dallo studio di eruzioni passate
del medesimo vulcano, in modo che i parametri di partenza
di tali simulazioni siano il più possibile vicini a quelli attesi
nel caso di una futura eruzione.
Le simulazioni numeriche, d’altra parte, sono uno strumento irrinunciabile anche per quanto riguarda la stima a breve
termine della pericolosità legata a dispersione di cenere in
vulcani in attività persistente, come ad esempio l’Etna. La
frequente improvvisa ripresa dell’attività, con formazione di
fontane di lava alte fino a diverse centinaia di metri, spesso
associate a dense nubi di cenere disperse dai venti in quota
(generalmente tra cinque e ottomila metri) può provocare importanti disagi al traffico aereo, che devono essere ovviamente segnalati in tempo reale. Per questo motivo, l’Osservatorio
Etneo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di
Catania si è dotato di un sistema automatico attraverso il quale, quotidianamente, vengono reiterate simulazioni (con più
modelli numerici) relative ad eventuali eruzioni di cenere, la
dispersione delle quali viene simulata in funzione della previsione giornaliera della variazione ogni tre ore dell’andamento
dei venti alle diverse quote. Il risultato di tali simulazioni viene trasmesso in automatico ai centri funzionali della protezione civile ed a quelli preposti al controllo del traffico aereo,
permettendo così di prevenire possibili problemi nel caso di
reale ripresa dell’attività.
Correnti piroclastiche – Il collasso di una colonna eruttiva, o in alcuni casi esplosioni laterali di duomi, portano alla
generazione di nubi di gas e particelle ad elevata temperatura
che scorrono orizzontalmente al suolo con velocità iniziali
che possono raggiungere i 300 m/s. Le colate piroclastiche
s.s., ad elevata concentrazione di particelle, tendono in genere a scorrere sui fondovalle, lasciando depositi anche imponenti. I flussi a bassa concentrazione di particelle seguono
invece percorsi scarsamente condizionati dalla morfologia e
lasciano depositi di spessore talora quasi irrilevante. La rimobilizzazione da parte delle acque meteoriche dei depositi
lasciati dalle colate piroclastiche induce la formazione di lahar per tempi anche lunghi dopo l’eruzione. Lahar possono
anche essere generati direttamente dai flussi piroclastici che
erodono, fondono e si mischiano con ghiaccio e neve.
L’impatto di tali correnti sull’ambiente è spesso devastante, e varia in funzione delle caratteristiche fisiche della
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
corrente (concentrazione, velocità, temperatura) e di come
queste variano con la distanza o la topografia. Aree entro alcuni chilometri (fino a 10 ed oltre, in funzione della scala
del fenomeno) possono essere fortemente impattate e d in
alcuni casi subire una distruzione pressoché completa. Gli
esseri viventi sono estremamente vulnerabili a queste nubi,
poiché anche in caso di basse temperature e velocità, la concentrazione di particelle nelle parti inferiori della nube stessa
mantiene sempre valori vicino se non superiori al limite di
respirabilità. D’altro canto, l’elevata pericolosità di tali nubi
per l’ambiente e per le aree urbanizzate deriva soprattutto,
oltre che dalle elevate temperature (sopra i 200° e fino a 700°
C) che possono innescare incendi sia alla vegetazione che
nelle case, anche dalla spinta orizzontale (pressione dinamica, sostanzialmente una misura dell’energia cinetica) che
esse esercitano per l’elevata velocità e concentrazione delle
porzioni basali. Tale spinta supera in molti casi la resistenza
a sollecitazioni orizzontali per la quale sono progettati generalmente gli edifici. Anche nel caso di deboli sollecitazioni
orizzontali (ad es. a distanze di diversi chilometri dal punto di
emissione) l’effetto delle correnti piroclastiche sugli edifici
può essere notevole, soprattutto per il cedimento delle strutture verticali più vulnerabili, quali porte e finestre, piuttosto
che dell’intera struttura. L’invasione da parte della miscela
di gas caldi e particelle di parti di un edificio a seguito dello
sfondamento delle strutture protettive delle sue aperture può
provocare incendi e l’eventuale soffocamento degli abitanti.
Le zone pericolose in relazione allo scorrimento di correnti piroclastiche hanno estensione molto diversa nei diversi
vulcani a causa dall’ampia variabilità con cui questi eventi
possono presentarsi. La loro definizione all’interno di mappe di pericolosità è stata proposta in alcuni casi, sulla base
dell’estensione delle aree coperte dai depositi dei flussi piroclastici di epoca storica o di altri intervalli temporali (Merapi, Mayon, St.Helens), della possibile ubicazione della bocca
eruttiva, o in funzione della taglia e frequenza dei flussi piroclastici passati. Modelli numerici via via più complessi, 2D
o 3D, sono stati predisposti per definire le aree di possibile
invasione di flussi piroclastici; tali modelli in alcuni casi possono dare informazioni circa i diversi parametri che determinano la pericolosità di questi eventi, tipo pressione dinamica,
temperatura, velocità e concentrazione.
I modelli numerici più semplici, tuttora molto usati a causa
della loro facilità di uso e velocità di calcolo, sono quelli basati sul “cono di energia”, cioè sul rapporto medio tra altezza
del collasso e percorso del flusso, strettamente correlato alla
topografia (nel modello, vengono considerate potenzialmente
invadibili quelle aree la cui topografia giace al di sotto del
cono di energia). Nonostante esistano ad oggi codici di calcolo di elevata complessità, capaci di descrivere le variazioni
puntuali dei principali parametri di flusso sia nello spazio 3D
che ne tempo, ogni simulazione necessita di tempi di calcolo
lunghi, che non ne permettono la reiterazione sui numeri elevati (migliaia di eventi) necessari per la definizione probabilistica delle aree di invasione. Proprio per questo, negli ultimi
anni è stato ripreso lo sviluppo di codici semplificati 2D che
48
migliorano le performances date dai metodi basati sul cono
di energia, mantenendone al tempo stesso la facilità di uso e
rapidità di calcolo.
Nella stesura di mappe della pericolosità connessa allo
scorrimento di flussi piroclastici sono stati spesso usati ambedue gli approcci già discussi nel caso della caduta piroclastica, confrontando i risultati dell’applicazione di modelli
numerici con i dati derivanti dalla riscostruzione vulcanologica di eventi passati. Infatti, poiché lo scorrimento di un
flusso piroclastico è in genere fortemente condizionato dalla
topografia preesistente, se da un lato le mappe di pericolosità basate sui risultati di simulazioni numeriche presentano la
peculiarità di poter utilizzare dati topografici reali, dall’altro
l’utilizzo di mappe di frequenza “storica” di invasione delle
diverse aree nell’intorno di un apparato vulcanico permettono di tener di conto della forte variabilità naturale che caratterizza questo fenomeno, derivante sia dalle caratteristiche
fisiche del flusso, che dai principali parametri eruttivi che
possono caratterizzare le diverse eruzioni di uno stesso vulcano, sia della variabilità della posizione della bocca eruttiva
nei vari eventi passati. La definizione della cosiddetta “Area
Rossa” vesuviana, cioè l’area da evacuare nell’imminenza di
una eruzione al Vesuvio a causa dei rischi connessi al possibile scorrimento di colate piroclastiche, è appunto basata sui
dati derivanti dalla delimitazione dei depositi di flusso piroclastico delle eruzioni di tipo subpliniano dell’attività passata
(di caratteristiche simili al massimo evento atteso in caso di
una riattivazione a breve-medio termine).
Colate di lava - Le colate laviche raramente rappresentano una minaccia diretta per la vita umana e, anche su forti
pendii, superano molto raramente la velocità di un uomo che
corre. Nei testi di vulcanologia, è riportato un solo caso in
cui nel marzo del 1977 una colata eccezionalmente veloce
(15 km/ora) invase un villaggio in prossimità del vulcano
Nyiragongo (Zaire), uccidendo circa 70 persone. Molto più
spesso, le colate laviche non coprono più di poche decine
di metri per ora. La velocità di una colata lavica è diretta
funzione di diversi fattori tra i quali la viscosità del magma
(dipendente essenzialmente dalla composizione chimica del
magma stesso), la pendenza del terreno, la portata eruttiva, la
velocità di raffreddamento, collegata a sua volta sia al tasso
di emissione che alla capacità del magma di creare durante
lo scorrimento strutture quali canali, croste superficiali solide e tunnel che la isolano efficientemente dal contatto con
l’atmosfera. Mentre per altri fenomeni pericolosi (quali ad
es. la ricaduta di materiale piroclastico) l’impatto è fortemente funzione dell’entità del fenomeno (ad es. lo spessore
di materiale caduto al suolo in una certa area), le colate di
lava distruggono tutto quanto incontrano sul loro cammino,
innescando anche fenomeni pericolosi secondari e terziari,
quali incendi, modifiche del paesaggio e dell’idrografia, prolungata sterilizzazione del territorio. Questo semplifica in
parte la definizione della pericolosità legata a questo tipo di
fenomeno, in quanto diviene di fondamentale importanza definire in particolare il percorso di una futura colata, piuttosto
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Fig. 5 L’eruzione del Vesuvio del 1631, in una stampa dell’epoca. Sono chiaramente visibili i flussi piroclastici.
che altri parametri quali ad esempio il suo spessore finale in
un certo punto. Piccole esplosioni, con effetti locali, possono
essere correlate all’instabilità del fronte di una colata lavica
ad alta viscosità in lento avanzamento, che può generare piccoli flussi piroclastici che si distaccano improvvisamente e ad
alta velocità dalla colata stessa aumentando l’area soggetta a
rischio. Esplosioni di varia intensità accompagnano anche il
contatto delle colate laviche con acqua. In caso di invasione
di aree fortemente vegetate, possono infine verificarsi esplosioni di sacche di metano generatosi a seguito della combustione della vegetazione sepolta dalla lava.
La valutazione della pericolosità da invasione lavica è in
genere affrontata tramite l’ausilio di metodi di modellazione
numerica di vario tipo, da metodi che utilizzano esclusivamente la topografia per determinare su base probabilistica i
possibili percorsi seguiti da una colata lavica, fino a modelli
più complessi che tengono conto anche delle proprietà fisiche
della lava e della loro variazione lungo il percorso a seguito
del suo progressivo raffreddamento. Un dato di fondamentale
importanza nella definizione di mappe di pericolosità deriva
dall’accurata analisi storica e geologica delle possibili aree di
apertura di una bocca eruttiva, che permette di definire la probabilità di apertura di una bocca eruttiva in una determinata
area, fortemente correlata a fattori geologici e strutturali. Non
di meno, l’analisi della distribuzione e delle caratteristiche
delle colate laviche passate può dare importanti informazioni sulle modalità di scorrimento e sulle proprietà fisiche che
hanno caratterizzato le eruzioni passate. Tali informazioni
sono la base per una corretta applicazione dei modelli numerici, e per la stesura di mappe di pericolosità affidabili. Mappe
di pericolosità relative allo scorrimento di colate laviche sono
ad esempio attualmente disponibili per l’Etna, che in Italia
rappresenta certamente il vulcano maggiormente interessato
da questa tipologia eruttiva. Tali mappe, costruite utilizzando
diversi modelli numerici, tengono conto della distribuzione
spaziale della molteplicità di fratture e bocche eruttive che
hanno interessato l’intera attività del vulcano e della loro relativa frequenza di attivazione, della morfologia attuale (con
una precisione del modello digitale di riferimento del terreno
fino a pochi metri), oltre che dei diversi possibili scenari eruttivi in termini di durata e probabilità di accadimento. Queste
mappe dovrebbero essere utilizzate sia nella pianificazione a
livello territoriale che per la preparazione dei piani di gestione nel caso di eruzioni future.
Data la lenta progressione di una colata lavica e l’attività
eruttiva spesso prolungata nel tempo, mappe di pericolosità vengono di solito costruite anche ad evento in corso, per
simulare la possibile evoluzione del percorso seguito dalla
colata, ed in questo modo pianificare i possibili interventi di
mitigazione del rischio, quali interventi volti alla deviazione
della colata o al generale rallentamento della sua avanzata.
Interventi di questo tipo sono stati messi in opera, spesso con
successo, nelle principali eruzioni dell’Etna a partire dal pioneristico tentativo compiuto nel 1983.
Frane vulcaniche – Le frane innescate dall’attività vulcanica o comunque a essa connesse possono essere molto diverse sia per tipo e dinamica che per dimensioni, potendo
raggiungere volumi superiori ai 100 km3 nel caso di grandi
collassi strutturali. In genere la destabilizzazione gravitativa
di un versante o di un intero settore di un edificio vulcanico
inizia come valanga di roccia o come frana di scivolamento,
che si disintegra nel corso del movimento in frammenti di
taglia variabilissima. Se nella frana vengono coinvolte grandi
quantità di acqua (dall’interessamento di falde acquifere o di
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SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Fig. 6 Risultato della simulazione numerica di una eruzione subpliniana al Vesuvio. I colori mostrano la distribuzione della concentrazione delle particelle nella nube
(piu’ scuro, concentrazioni maggiori) dopo 750 secondi dal collasso della colonna eruttiva (da Neri et alii, Geophysical Research Letters, 2007).
corpi d’acqua superficiali, quali ad esempio laghi craterici),
e sedimento fine, la massa di detrito può trasformarsi rapidamente in una colata di fango (“lahar”), capace di scorrere
a valle per decine di chilometri. Sui vulcani le frane sono
un fenomeno comune dovuto non solo alle rapide variazioni
morfologiche legate ai processi di erosione, accumulo, espulsione correlati ai diversi eventi eruttivi, ma anche al fatto che
essi sono strutturalmente indeboliti dai diversi processi che
in continuazione li modificano (terremoti, deformazioni del
suolo, processi termometamorfici, idrotermali e fumarolici legati alla ripetuta ascesa e alla stagnazione del magma,
sovraccarico indotto dall’accumulo in superficie dei prodotti
eruttati, fattori climatici). In queste condizioni sono diversi
i fattori che possono innescare una frana che può arrivare
a interessare settori interi del cono vulcanico: intrusioni di
magma, esplosioni, terremoti, forti piogge. Rimuovendo una
parte significativa dell’edificio vulcanico, le grandi frane inducono improvvisi abbassamenti della pressione agente sul
sistema magmatico-idrotermale, causandone in numerosi
casi la sua decompressione esplosiva, e dando così luogo ad
eruzioni anche di elevata intensità, caratterizzate da esplosioni direzionali con conseguente generazione di flussi piroclastici estremamente energetici (blast). Anche se il primo
esempio riconosciuto e studiato di questo tipo è stata l’eruzione del Monte St.Helens (Washington, USA) del Maggio
1980, da allora si è visto come il fenomeno sia tutt’altro che
50
raro. Una grande frana può seppellire il fondovalle sotto
centinaia di metri di roccia e detrito, formando un paesaggio caotico, caratterizzato dalla presenza di decine di piccoli
rilievi (“hummocks”), può sbarrare corsi d’acqua e formare
laghi effimeri da cui possono trarre origine successivamente
devastanti lahar. Lo studio di dettaglio delle caratteristiche
strutturali di un apparato vulcanico, ed il riconoscimento di
eventuali depositi o morfologie correlabili ad eventi di frana occorsi durante la sua storia eruttiva, sono gli elementi
fondamentali per valutare la probabilità di un eventuale franamento catastrofico di intere porzioni dell’edificio. Modelli
numerici ad elementi finiti sono stati utilizzati in alcuni casi
per valutare tale eventualità. Mappe di pericolosità che per
questo tipo di fenomeno possono essere costruite tenendo in
conto l’intera area eventualmente coinvolta in una frana, e
la topografia della zona di possibile accumulo. La massima
distanza percorribile è spesso valutata utilizzando leggi empiriche che mettono in relazione volume, altezza massima di
distacco e areale di invasione per eventi passati.
Un rischio direttamente connesso a questo tipo di eventi,
ed in particolare da tenere in forte considerazione ad uno dei
principali vulcani attivi italiani quali lo Stromboli, è quello
legato all’innesco di possibili tsunami a seguito di frane, sia
subaeree che sottomarine, di importanti porzioni del versante
della Sciara del Fuoco. Eventi di questo tipo, fortunamente
di entità ridotta, sono avvenuti almeno 5-6 volte negli ultimi
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
100 anni, l’ultima delle quali nel dicembre 2002. La pericolosità di tali eventi è legata all’altezza massima raggiunta dall’onda, e quindi alla massima distanza di penetrazione
lungo la costa, oltre che alla possibile propagazione dell’onda di tsunami fino ad interessare le coste delle isole limitrofe
e della Calabria. Tali fattori sono fondamentalmente funzione della massa della frana; al tempo stesso, la conformazione
dell’isola, e soprattutto la sua forte vocazione turistica, fanno
sì che anche in caso di frane di dimensioni minori, il rischio
possa essere elevatissimo in funzione del periodo dell’anno
(ad esempio nella stagione estiva). La simulazione numerica
della propagazione di un’onda di tsunami, e del suo possibile
impatto in funzione della conformazione delle coste su cui
tale onda può abbattersi, sono uno dei metodi principali per la
costruzione di mappe di pericolosità. Anche in questo caso,
una attenta analisi dei fenomeni occorsi in eruzioni passate,
ed in particolare delle aree di costa invase dall’onda stessa,
può fornire utili elementi per la pianificazione dell’emergenza e di misure di mitigazione del rischio.
Colate di fango (lahars e debris flows) - “Lahar” è una
parola indonesiana che descrive una miscela di acqua e frammenti di roccia che fluisce lungo i fianchi di una montagna
e che, nella letteratura internazionale, ha assunto un significato ampio includendo praticamente ogni tipo di flusso
composto da acqua e fango (flusso fluviale diluito, colata di
detrito, flusso iperconcentrato, ecc.) che trasporta materiale
solido di natura vulcanica. Si tratta di flussi in cui il fango
(una sospensione di acqua e materiale fine, al di sotto dei 60
microns di diametro) è, dal punto di vista dinamico anche se
non volumetrico (ne basta un decimo del volume totale), la
componente dominante che permette il trasporto delle particelle. Nei flussi più eterogenei (colate di detrito) il fango ha
un doppio ruolo: di supporto per i frammenti grossolani e di
smorzamento degli attriti; in tal modo la competenza della
colata è tale che possono essere trasportati blocchi di 1 m di
diametro anche per velocità di soli 50 cm/sec. Le dimensioni
dei lahar e la loro velocità possono variare entro limiti molto
ampi: i lahar più grandi possono avere ampiezza di centinaia
di metri, spessore di decine di metri e velocità di decine di
km/ora. Nella parte superiore dei lahar ad alta concentrazione
di sedimento (colate di detrito) tutti i punti si muovono alla
stessa velocità: si forma perciò una sorta di livello centrale
in cui non esiste stress tangenziale (plug) che si muove indeformato, quasi galleggiante, sui livelli sottostanti caratterizzati da un forte gradiente verticale di velocità. Man mano
che la velocità del flusso diminuisce (ad es. per diminuzione
dell’angolo di pendio), lo spessore di questa zona centrale del
flusso “rigida” cresce, annullando progressivamente la zona
basale fino a giungere ad interessare l’intero spessore del
flusso. A questo punto la colata si blocca depositando tutto
il materiale trasportato “in massa”. Una importante caratteristica di questi flussi fangosi, che ne aumenta n modo significativo la pericolosità, è la capacità di erodere ed inglobare
nel flusso, durante il suo scorrimento, sia sedimenti che ulteriori quantità di acqua esterna. Questa caratteristica (bulking)
mantiene alta la mobilità e la capacità di trasporto del flusso.
Lahars possono essere innescati in vario modo:
– per il coinvolgimento diretto, durante l’eruzione, di ingenti quantità di acqua, come nel caso di eruzioni attraverso
laghi, coperture nevose o ghiacciai o per la presenza di forti
piogge che cadono immediatamente dopo o durante un’eruzione, mescolandosi efficientemente con il materiale appena
deposto.soprattutto in presenza di estese coltri di cenere;
- per la rimobilizzazione di sedimenti vulcanici sciolti durante piogge torrentizie o per lo scorrimento rapido di acque
di fusione dei ghiacciai durante periodi di quiete eruttiva;
- per il collasso di versanti instabili, in particolare se costituiti da rocce alterate ricche in minerali argillosi e impregnati
di acqua.
Nel caso di attività in aree glaciate, si osserva la generazione di lahar catastrofici anche a seguito di eruzioni modeste,
dove assumono massima importanza sia l’estensione dell’area innevata che l’effetto di mescolamento meccanico tra
frammenti caldi e ghiaccio. La semplice copertura di prodotti
piroclastici caldi su neve o ghiaccio, o il lento scorrimento di
una colata lavica, non sono in genere sufficienti ad innescare
importanti effetti di fusione del ghiaccio. Al contrario, durante eruzioni subglaciali (tipiche ad es. dei vulcani islandesi),
l’anomalia termica legata alla emissione di prodotti vulcanici
al di sotto di una spessa coltre glaciale può dare origine a
grosse quantità di acqua di fusione che vanno ad alimentare
veri e propri alluvionamenti, noti con il nome di jokulhlaup.
La definizione delle zone esposte a pericolo di scorrimento
di colate di fango, analogamente agli altri fenomeni vulcanici, in genere è basata sia sul record storico e stratigrafico che
sui risultati derivanti dall’applicazione di modelli numerici.
Dato il forte condizionamento morfologico allo scorrimento
delle colate di fango, tali modelli numerici sono sempre associati a Modelli Digitali del Terreno di elevata precisione.
Sono attualmente disponibili numerosi modelli numerici che
simulano lo scorrimento di questi flussi, molti dei quali di
libero accesso ed utilizzo, da modelli che sulla base di leggi
empiriche definiscono le aree di invasione, fino a modelli in
cui queste vengono stimate tenendo in considerazione le principali leggi fisiche e reologiche che dominano il processo.
Alcuni di questi modelli possono essere utilizzati anche per
la simulazione dello scorrimento di flussi piroclastici granulari, in cui la turbolenza è soppressa. Diversamente da quanto
si verifica per le correnti piroclastiche diluite, che spesso ricoprono anche gli alti topografici, lo scorrimento delle colate
di fango tipicamente è confinato alle valli e ristretto a pochi
metri al di sopra del fondo valle.
Altri rischi - Mentre i fattori di rischio sopra discussi son
principalmente correlati a dinamiche eruttive ed in particolare ai prodotti ad esse associati, altri fattori di rischio sono
associati alle eruzioni vulcaniche. Tra questi, non può essere
trascurata la possibilità di eventi improvvisi di rilascio di gas,
sia magmatico (attraverso campi di fumarole, rilascio diffuso dal suolo, o esplosione improvvisa di sacche di gas accumulatesi in corpi magmatici molto superficiali), che di vapor
51
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
d’acqua, a seguito della rapida messa in pressione di sistemi
acquiferi geotermali dovuta la loro riscaldamento per trasferimento di calore da sacche magmatiche nelle loro vicinanze.
Tolta l’acqua, che rappresenta di gran lunga la fase volatile
principale disciolta in un magma, i gas magmatici più abbondanti sono rappresentati da CO2, specie dello zolfo, ed in
minor misura da Cloro, Fluoro, ossido di carbonio e idrogeno. Poiché la CO2 ha una bassa solubilità nei magmi a bassa
profondità (per pressioni minori di circa 2 kbar, corrispondenti a circa 8-10 km di profondità) la presenza di serbatoi
magmatici al di sotto di un’area vulcanica implica il rilascio
continuo di questa specie, che si accumula nei corpi acquiferi subsuperficiali e subisce spesso un rilascio per diffusione
attraverso il suolo. Il continuo rilascio fa sì che questo gas,
più pesante dell’aria, tenda a fluire e concentrarsi nelle zone
morfologicamente depresse, raggiungendo concentrazioni
tossiche per gli esseri viventi.
Il rilascio continuo alla base di laghi craterici può causare
la progressiva saturazione in gas delle acque del lago, specie
quando questi sono caratterizzati da una forte stratificazione
che impedisce scambi sostanziali tra acque profonde e superficiali. A causa della pressione maggiore, le acque profonde
contengono in soluzione molta più CO2 delle acque superficiali. Il raggiungimento della sovrasaturazione permette il
rilascio di bolle di gas, che rendono instabile la stratificazione
del lago, invertendo improvvisamente le masse d’acqua e innescando la liberazione improvvisa di enormi quantità di gas.
Ulteriori fattori di rischio possono essere legati all’attività
sismica praticamente sempre associata all’attività magmatica. A causa della bassa profondità cui generalmente si concentra l’attività sismica in queste aree, ed alla magnitudo mai
troppo elevata di questa, le possibili aree a rischio rimangono
confinate entro pochi chilometri dall’area vulcanica. Numerosi studi hanno tuttavia dimostrato che la possibilità di avere, durante una crisi eruttiva, un numero molto alto di eventi
di bassa magnitudo può in parte degradare le caratteristiche
meccaniche degli edifici, provocando una progressiva variazione della loro vulnerabilità.
LA STIMA DELLA PERICOLOSITÀ VULCANICA
Il comportamento generalmente ripetitivo dei vulcani ad
alta frequenza eruttiva, caratterizzati da condizioni di condotto aperto (es. Kilauea, Sakurajima, Piton de la Fournaise,
Etna, etc.), permette in genere stime attendibili della frequenza delle eruzioni e dei principali fenomeni ad esse associate. Diversamente, in caso di vulcani quiescenti o comunque
a bassa frequenza eruttiva, la probabilità di accadimento di
un’eruzione è molto difficile da valutare così come la sua
magnitudo e la sequenza di fenomeni eruttivi. In ogni caso,
un importante strumento alla base della valutazione della
pericolosità associata ad un singolo evento eruttivo consiste
nella stesura di uno scenario di riferimento. In particolare,
nel caso di vulcani a bassa frequenza eruttiva, la pericolosità
può essere valutata nell’assunzione del futuro verificarsi di
uno scenario predeterminato (il più grande, il più frequen52
te, il più pericoloso, ecc.), ricavato dalla storia eruttiva del
vulcano considerato. Analogamente a quanto in uso per i
terremoti, un utile concetto è in alcuni casi quello di Evento Massimo Atteso (EMA), definito come il più energetico
(o meglio quello capace di generare il danno maggiore) tra
tutti i possibili eventi attesi entro un certo intervallo di tempo. Questo concetto si può applicare specialmente a quei
vulcani la cui attività ha mostrato andamenti ricorrenti e/o
chiaramente definiti. L’affidabilità dell’EMA dipende quindi
dalla qualità delle conoscenze di base acquisite sulla storia e
sulle modalità di funzionamento del vulcano. La definizione
di un EMA è particolarmente utile per la valutazione della
pericolosità di quei fenomeni la cui possibile distribuzione
sul territorio può essere soddisfacentemente riprodotta attraverso la reiterazione di simulazioni numeriche in accordo
con poche importanti variabili vincolanti (per es. la caduta di
piroclastiti in accordo con il campo dei venti, l’altezza della
colonna eruttiva, e la popolazione granulometrica). I risultati
delle simulazioni numeriche possono poi essere confrontati
con i dati disponibili sull’attività passata. L’uso dei dati delle
simulazioni numeriche piuttosto che quelli storici o geologici
ha come risultato prodotti finali “filosoficamente” differenti:
una distribuzione probabilistica del fenomeno simulato e una
frequenza storica del fenomeno registrato.
La zonazione della pericolosità vulcanica può essere fatta
tramite la stesura di mappe di pericolosità per i diversi eventi
attesi, selezionando valori di soglia il superamento dei quali
determina condizioni di impatto ritenute non accettabili. Tali
mappe sono di grande utilità per prevedere le aree con probabilità crescente di essere impattate da un determinato evento,
e per mettere in atto politiche di pianificazione territoriale
mirate alla mitigazione ed alla riduzione drastica del rischio.
La pianificazione di un’eventuale emergenza vulcanica passa
invece, oltre che per l’utilizzo di tali mappe, anche per la
definizione dei diversi scenari eruttivi attesi, in cui vengano specificate in dettaglio le dinamiche all’interno di ogni
evento eruttivo possibile, l’impatto atteso di tali dinamiche,
scalato rispetto all’intensità dell’evento, la scala temporale
lungo la quale si svolge l’intera eruzione e lungo la quale si
esplicano le diverse dinamiche eruttive comprese nello scenario e le loro relazioni reciproche.
Visto il continuo incremento delle conoscenze, e soprattutto a causa dell’elevata dinamicità che caratterizza la vita
di un’area vulcanica, la progressiva implementazione ed il
continuo aggiornamento delle mappe di pericolosità e degli
scenari attesi ai singoli vulcani dovrebbe essere una pratica
comunemente adottata dalle autorità preposte, in modo da
garantire ai cittadini un adeguato grado di sicurezza e preparazione nel caso di ripresa dell’attività in una delle molte aree
vulcaniche italiane.
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Evoluzione del clima nella regione
mediterranea
VINCENZO ARTALE E ALESSANDRO DELL’AQUILA
ENEA, CR Casaccia, Roma
SISTEMA CLIMATICO TERRESTRE, RUOLO
È
DELL’OCEANO E DEL MEDITERRANEO
noto come il sistema climatico terrestre sia
costituito, oltre che dal sole che fornisce
l’energia, dall’atmosfera, dall’oceano, dalla
criosfera (i ghiacci) e dalla biosfera (il mondo vivente). Il clima terrestre è determinato
dagli scambi termodinamici interni e dal trasporto di acqua
all’interno di questi settori. L’atmosfera e l’oceano sono i
principali responsabili del trasporto e della distribuzione del
calore sulla terra. Si stima che il trasporto di calore dalle regioni tropicali verso i poli si distribuisca in parti uguali tra
l’oceano e l’atmosfera. Per esempio nel oceano Atlantico
il calore immagazzinato negli strati superficiali delle zone
tropicali è trasportato verso nord attraverso grandi correnti
oceaniche (e.g. la Corrente del Golfo), il cui principale effetto è di mitigare il clima dell’Europa Occidentale. Queste
correnti durante il loro percorso verso nord non cessano mai
d’interagire con l’atmosfera, attraverso scambi di massa e di
calore. In media l’atmosfera fornisce all’oceano il 43% della
sua energia interna, il resto proviene direttamente dal sole
(35%) e dagli scambi con i continenti (22%). Il calore assorbito dall’oceano è acquisito e ridistribuito orizzontalmente
e verticalmente all’interno delle masse d’acque oceaniche e
infine restituito all’atmosfera. I tempi di risposta del sistema
oceanico sono circa due ordini di grandezza maggiori, molto
più lenti, di quelli atmosferici. La corrente del Golfo, sempre
attraverso misure sperimentali, purtroppo eseguite in modo
sistematico solo negli ultimi cinquanta anni, ha mostrato una
notevole variabilità dal 1950 in poi, parte di questa variabilità si può spiegare con la variabilità e l’avvezione dei “gyres”
(vortici oceanici) subtropicali. Alcuni suggeriscono che questa variabilità può essere associata alla variabilità climatica
in generale, ma da sola non spiega tutto, per esempio non ci
spiega perché la corrente del Golfo si sta indebolendo. Si sa
che il Nord Atlantico riceve energia termica equivalente a
circa un Pwatt (1015 watt), ossia un milione di un milione di
volte l’energia che normalmente usiamo in casa, equivalente
a fornire energia a centinaia di mondi industrializzati, attraverso la Corrente del Golfo e la Corrente Nord Atlantica.
Questa enorme quantità di calore non è trasportata solo dalle
correnti indotte dallo stress del vento sulla superficie marina,
ma soprattutto dalle correnti indotte dalla cosiddetta circolazione termoalina, la quale s’instaura in virtù delle differenze
di temperatura e salinità (e quindi di densità) tra le diverse
masse oceaniche. Spesso tutti i complessi processi connessi
con la circolazione termoalina sono semplificati rappresentandoli come un gigantesco moto circolare verticale, indicato
appunto come “nastro trasportatore oceanico”, in cui le acque calde superficiali di origine tropicale che raggiungono la
parte più settentrionale del Nord Atlantico, dove a causa della perdita di calore superficiale e della conseguente maggiore concentrazione di sale, affondano trasformandosi in una
corrente profonda e fredda in direzione opposta (verso sud).
E’ importante considerare che l’intensità della circolazione
termoalina, e proporzionalmente anche la quantità di calore
trasportato, dipende da piccole differenze di densità, le quali dipendono a loro volta da un delicato equilibrio nel Nord
Atlantico tra raffreddamento alle alte latitudini e l’apporto
d’acqua dolce (meno densa) dovuta a pioggia, neve e fiumi.
Un maggior apporto d’acqua dolce riduce l’intensità della
circolazione termoalina ma non in modo lineare (Rahmstorf,
1995). Infatti, all’inizio il meccanismo convettivo continua
a essere attivo e la circolazione relativa continua a rimuovere l’acqua meno salata superficiale e a sostituirla con quella
più salata proveniente da sud. Tuttavia questo meccanismo
ha dei punti critici (tipping point), sorpassati i quali la circolazione termoalina incomincia a oscillare tra diversi stati
d’equilibrio, tra cui è compreso quello compatibile con un
suo eventuale blocco (Lenton et al., 2008). Il riscaldamento superficiale, che si sta osservando negli ultimi venti anni
53
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
causando lo scioglimento dei ghiacci, non solo quelli marini
del polo nord, ma anche terrestri in particolare quelli della
Groelandia, hanno un effetto simile. Dalle osservazioni tratte
da un lavoro del 2005 di Bryden su Nature, si può costatare
che il trasporto di calore nel Europa settentrionale (Corrente
del Golfo) si sia ridotto quasi del 30 %, ipotesi riconfermata
anche da una pubblicazione più recente di Rahmstorf et al.
(2015). Ossia è aumentata la re-circolazione verso sud, in
pratica le zone tropicali e sub-tropicali stanno accumulando calore e sale. Se la circolazione termoalina si bloccasse
completamente, nelle aree del Nord Atlantico la temperatura si abbasserebbe di più di dieci gradi. Cosa che, infatti, è
già successo nel passato, come si può costatare dalle analisi
sui sedimenti oceanici e dalle carote di ghiaccio in Groenlandia (Broecker, 1997) dalle quali si è evidenziato che la
circolazione termoalina si è interrotta bruscamente diverse
volte a causa di flussi anomali d’acqua dolce provocando
dei lunghi periodi freddi, in Europa Nord Occidentale, per
centinaia d’anni (Heinrich events). L’ultimo di questi eventi
è accaduto circa 12000 anni fa. Lo studio di questi eventi,
pur non dando nessuna indicazione certa sul clima futuro,
è importante perché ci dà la consapevolezza che eventi catastrofici nella circolazione oceanica con fortissimi impatti
sulla variabilità climatica globale possono avvenire indipendentemente da fattori antropici, ossia possono essere considerati come delle instabilità insite al sistema accoppiato
oceano-atmosfera. Tuttavia il riscaldamento globale, dovuto
per esempio ai gas–serra, può contribuire ad aumentare sia
la temperatura superficiale dell’oceano che la piovosità alle
alte latitudini ed entrambi i fattori danno un contributo negativo sulla densità superficiale riducendo così il motore della
circolazione termoalina, come sembra che stia avvenendo
dalle misure sperimentali analizzate da Bryden (2005). Dal
rapporto dell’IPCC del 2007 si può evincere che raddoppiando il contenuto attuale di CO2, con associato un aumento di
temperatura maggiore di due gradi centigradi, la circolazione
termoalina si blocca completamente (Bindoff et al., 2007).
1.1. Il Mediterraneo, un laboratorio climatico a scala
ridotta.
Il Mar Mediterraneo, nonostante abbia dimensioni trascurabili in confronto ai grandi oceani, è invece un’area geografica in cui avviene, a scala più piccola, una varietà di processi
e interazioni atmosfera-oceano tipiche dei grandi oceani. E’
una regione densamente popolata e risulta particolarmente
sensibile e vulnerabile ai cambiamenti climatici, tanto da essere definita come uno dei più rilevanti ‘hot-spots’ (Giorgi,
2006b) in termini d’impatti socio-economici. La caratteristica principale del Mediterraneo riguarda il suo ciclo idrologico, in sostanza consuma per evaporazione più acqua di quella
che riceve dalla pioggia e dai fiumi, in media il deficit è di
circa un metro l’anno, e quindi il generoso Atlantico tramite
lo stretto di Gibilterra ci fornisce continuamente ciò di cui il
bacino oceanico ha bisogno.
Questo è l’elemento chiave per comprendere la circolazione del Mediterraneo e la formazione e trasformazione delle
54
sue acque. L’acqua atlantica (AW) che entra nel Mediterraneo forma uno strato d’acqua superficiale variabile sia nello
spessore (100-200 metri) sia nei valori di temperatura e salinità (all’origine circa 36 grammi di sale su un litro d’acqua,
si indica con 36 psu o semplicemente 36), un valore apparentemente piccolo, ma il cui ruolo è cruciale nella circolazione oceanica. Questa acqua perde galleggiabilità lungo il suo
percorso, ossia perde acqua per evaporazione, ma non il sale
(il sale non evapora!), che a questo punto assolve lo stesso
ruolo dei pesi per i sommozzatori: più sale rimane in gioco
in superficie, più a fondo va l’acqua. Questa acqua continua
poi il suo percorso lasciandosi la costa sulla destra (a causa della forza di Coriolis). Nella parte orientale del bacino,
vicino all’isola di Rodi, in virtù degli intensi venti Etesiani,
si forma un’acqua intermedia, detta acqua levantina (LIW),
con caratteristiche saline molto elevate (a questo punto l’acqua ha acquistato quasi tre grammi in più per chilo, quasi il
massimo possibile nel Mediterraneo!) e con una temperatura
relativamente elevata (circa 14.5 gradi centigradi). Quest’acqua è il ramo di ritorno dell’acqua atlantica, il funzionamento è simile a quello delle scale mobili: quando lo scalino ha
finito di trasportarvi in cima, sparisce e ricompare all’inizio
della scala, pronto a rifare la stessa fatica. Allo stesso modo
il flusso dell’acqua levantina, propagandosi principalmente
in modo antiorario (ciclonico), a una profondità tra i 200800 metri, dopo intense variazioni di temperatura e salinità
dovute al mescolamento con altre acque incontrate lungo il
suo cammino, finalmente arriva nel oceano Atlantico, dopo
circa 20 anni. Ora manca ancora un pezzo importante per
completare la storia del Mediterraneo, manca un fondamentale elemento caratteristico della conveyor belt mediterranea
(la scala mobile oceanica!): la produzione d’acqua profonda
(DW), che costituisce un importante indicatore climatico.
Questo tipo d’acqua si forma principalmente nel Golfo del
Leone, nel Nord e Sud Adriatico, nella regione Nord-Est
del bacino Levantino e nel Mar Egeo. Formazioni d’acque
dense avvengono durante intensi fenomeni evaporativi, in
cui l’oceano cede all’atmosfera notevoli quantità di calore
(superando anche i 103 Watt/m2) a causa dei venti freddi e
secchi che perturbano la superficie marina (e.g. Maestrale,
Etesiani e Bora), lasciando a disposizione tantissimo sale in
poco tempo (3-4 giorni), tanto da rendere così instabile l’acqua superficiale da inabissarsi improvvisamente, ventilando
l’intera colonna d’acqua e ossigenandola in modo da garantire così la sopravvivenza dell’intero sistema bio-geo-chimico
marino. Una caratteristica interessante di questi fenomeni
consiste nella loro limitata dimensione spaziale e temporale
a fronte dell’enorme impatto sull’intera circolazione generale e le limitate aree oceaniche in cui si osservano. Un simile
ruolo lo gioca la regione sub-polare del Labrador nella circolazione del Nord Atlantico. Quando questi processi si interrompono il mare muore, per mancanza di ossigeno e questi
eventi sono già accaduti decine di volte nell’ultimo milione
di anni.
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
2. I CAMBIAMENTI CLIMATICI OSSERVATI
DALL’INIZIO DELL’ERA INDUSTRIALE A OGGI
In Figura 1 mostriamo l’andamento della temperatura superficiale osservata nel Mar Mediterraneo dal 1854 a oggi
ottenuta dall’analisi di dati in situ. Dal confronto tra l’andamento globale della temperatura, ottenuta quindi dalla media
di tutti i dati disponibili, e quella regionale (riguardanti solo
il sottoinsieme riguardante il Mar Mediterraneo), si evince,
nel primo caso, un aumento continuo della temperatura media con sovrapposte delle deboli oscillazioni. In particolare la
prima fase di aumento della temperatura (1910-1935) sarebbe dovuta a un aumento della costante solare e alla diminuzione dell’attività vulcanica mentre la seconda fase, a partire
dal 1970-1975, non sarebbe giustificata se non inserendo nel
bilancio termico il riscaldamento dovuto all’accumulo di gas
serra, almeno secondo i risultati di simulazioni numeriche.
Invece nel caso del Mar Mediterraneo, le oscillazioni multidecennali sono molte grandi: l’andamento della temperatura
sembra essere dato dalla sovrapposizione di un’oscillazione
la cui ampiezza delle anomalie di temperatura sono pari a
0.3-0.6°C e con un periodo temporale di circa 60-70 anni,
tuttavia è molto evidente, a partire dall’inizio del XX secolo
(minimo del 1910), una tendenza al riscaldamento con un
aumento della temperatura di quasi 1.0°C e con una accelerazione al riscaldamento negli ultimi vent’anni (Marullo et al.,
2011). In particolare, dopo l’ultimo minimo di temperatura
della metà degli anni ’70, la temperatura è aumentata con un
tasso pari a 0.026±0.005°C/anno. Infine, il raffreddamento
della SST del Mediterraneo osservato tra il 1965 e il 1975
appare associato a una fase di aumento dell’indice NAO, in
altre parole NAO e SST sono anticorrelati.
Figura 1: Confronto tra la serie storica (1854-2010) della temperatura superficiale marina (SST) globale (a) e quella mediterranea (b) . In quella globale SST si nota
un aumento della SST di 0.4-0.5 °C in 35 anni (1910-1942), un andamento costante (1942-1979) e un aumento di 0.4-0.5 °C in 35 anni (1980-2008); nel Mediterraneo
è invece molto evidente l’oscillazione multi decennale (AMO), che maschera parzialmente il trend positivo.
55
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Dal 1985 sono stati resi disponibili dati satellitari che permettono una misura sinottica, ad alta risoluzione spaziale e
temporale, del campo di temperatura della superficie marina
(Marullo et al., 2007). Le temperature medie annuali dal 1985
al 2006 mostrano un tasso di crescita di 0.037±0.007°C/anno,
quindi con valori maggiori di quelli osservati in situ, sovrapposto a intense oscillazioni interannuali cui si distinguono in
particolare quelle associate agli anni freddi 1992-1993 e il
massimo assoluto di temperatura registrato nel 2003, il quale
ha tutte le caratteristiche per essere considerato un anno anomalo con ondate di calore nel periodo estivo (eventi climatici
estremi), mai osservate in precedenza.
Se dall’analisi regionale passiamo a un’analisi ancora più
di dettaglio, ossia a scala locale, notiamo che la distribuzione
spaziale di questi andamenti, a fronte di un tasso di crescita
positivo in tutto il bacino, presenta caratteristiche locali piuttosto pronunciate, con valori per esempio molto più elevati
nel mar Adriatico e nel bacino Levantino, dove a sud e ovest
di Creta si avvicina al valore di 0.1°C/anno. La tendenza al
riscaldamento è molto più pronunciata nei mesi estivi che
contribuiscono in larga misura all’andamento positivo che
si osserva in tutto il bacino su base annuale. In particolare
si nota che, nei mesi da maggio a luglio, con massimo in
giugno, il tasso di crescita positivo è assai marcato anche
nel Mediterraneo centrale al contrario di quanto si osserva
su base annuale, perché in questa zona sono i tassi positivi
estivi che sono bilanciati da tassi di crescita negativi durante
i mesi invernali. Quindi si sta osservando la tendenza all’aumento dell’ampiezza del ciclo stagionale; ovvero della tendenza ad avere inverni con picchi anomali di freddo ed estati
con maggiori possibilità di avere ondate anomale di calore,
come quella del 2003. Un’inversione di questa tendenza è
stata comunque osservata durante l’inverno (2006-2007) nel
corso del quale le temperature superficiali del Mediterraneo
sono state costantemente superiori alla media degli ultimi 22
anni.
Le medie di bacino non sono rappresentative della fenomenologia che avviene nei sottobacini; inoltre appare evidente una volta di più come alla presenza di una così alta
variabilità temporale possa essere fuorviante e difficoltoso
estrapolare tendenze future calcolate su pochi anni, soprat-
Figura 2: Anomalie (rispetto media climatologica di tutto il periodo) di temperature superficiali per i punti di terra della regione euro-mediterranea (LON: 10W40E; LAT: 30N-48N, all’interno del rettangolo nero riportato in alto a destra) per le quattro stagioni da diversi datasets di osservazioni e simulazioni regionali per il
periodo 1961-2000. Per ogni stagione viene applicata una media mobile di 5 anni. Vedere il testo per maggiori dettagli
56
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
tutto considerando che l’avvento dei satelliti con la relativa
abbondanza di dati avviene nel decennio degli anni ’90 che è
stato caratterizzato da notevoli cambiamenti nella circolazione del Mar Mediterraneo con conseguenti influenze sul campo di temperatura superficiale. Ancora una volta si conferma
la necessità di trovare altri elementi oggettivi per irrobustire l’analisi dei cambiamenti climatici, come per esempio la
modellistica climatica. Le proiezioni climatiche prodotte dai
modelli numerici permettono di valutare la possibile ampiezza dei cambiamenti dell’equilibrio climatico e i suoi possibili
impatti nella regione Euro-mediterranea. In particolare, per
quanto riguarda il clima della regione mediterranea, per la
sua complessa orografia e per la rilevante presenza di processo climatici a scala medio piccola, viene fatto un grande uso
di simulazioni regionali ad alta risoluzione.
I Modelli Climatici Regionali (MCR) producono scenari
climatici ad alta risoluzione (20 km e oltre) per una data regione usando come forzanti a scala più grande Modelli Climatici Globali (MCG) meno risolti (risoluzione tra i 100 e i
200 km), che forniscono le condizioni al bordo. I MCR migliorano sensibilmente la qualità delle proiezioni climatiche
rispetto ai modelli globali MCG soprattutto in una regione ad
orografia complessa (Artale et al 2010) e in prossimità della
regione costiera (Feser et al., 2011).
Un certo numero di MCR sono stati sviluppati nel corso
degli ultimi decenni, con l’obiettivo generale di produrre informazioni a scala locale per gli studi di valutazione di impatto e adattamento alle fluttuazioni climatiche (Giorgi 2006). Il
principale vantaggio che si ha nell’uso di MCR rispetto ai
MCG è l’ottimizzazione delle risorse di calcolo rispetto alla
possibilità di incrementare la risoluzione spaziale e quindi
di migliorare la descrizione dell’interazione fra la dinamica
atmosferica e la superficie, sia dal punto di vista delle interazioni aria-mare che dal punto di vista dell’interazione con la
topografia e della descrizione degli effetti dell’uso del suolo.
La loro capacità di riprodurre la variabilità climatica osservata viene usualmente valutata analizzando le simulazioni
di controllo ottenute utilizzando come condizioni al bordo
dei data-sets climatici globali, le reanalisi (ECMWF, 2004)
. Tali prodotti sono ottenuti a loro volta eseguendo delle simulazioni climatiche globali in cui sono assimilati ad ogni
passo temporale le osservazioni disponibili (satelliti, stazioni
Figura 3: Come in figura 2 ma per le anomalie delle precipitazioni.
57
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
meteorologiche, palloni sonda, boe,…).
Nel progetto di ricerca europeo CLIM-RUN (www.
climrun.eu) le proiezioni climatiche sulla regione Euro Mediterranea prodotte durante il precedente progetto ENSEMBLES (van der Linden and Mitchell, 2009) sono stati analizzate in termini dei cambiamenti attesi per le variabili meteo
climatiche più rilevanti, unitamente ad una analisi preliminare dell‘abilità dei modelli nel riprodurre il clima osservato.
Nella tabella 1 sono riportate le simulazioni climatiche
volte a riprodurre il clima presente prese in considerazione.
In Figura 2 sono riportati la serie temporale delle anomalie
(rispetto alla media climatologica di tutto il periodo) di temperature superficiali per i punti di terra della regione EuroMediterranea (LON: 10W- 40E; LAT: 30N-48N,) all’interno
del rettangolo nero riportato in alto a destra. La linea nera
spessa è ricavata dall’archivio di osservazioni prodotte dal
CRU (Harris et al 2013), la linea nera tratteggiata è l’archivio di reanalisi globale ERA-40 (Uppala et al., 2005) che è
utilizzato a sua volta come condizioni al bordo per le simulazioni regionali di valutazioni di ENSEMBLES (linee solide
colorate). La riga magenta spessa è la media dell’insieme dei
modelli (vedi tabella 1), l’area grigia, che corrisponde a una
deviazione standard, corrisponde all’ampiezza della distribu-
ENSEMBLES Model name
1
C4IRCA3
2
CNRM-RM4.5
3
CHMI-ALADIN
4
DMI-HIRHAM5
5
ETHZ-CLM
6
ICTP-RegCM3
7
INMRCA3
8
KNMI-RACMO2
9
METNOHIRHAM
10
METO-HC HadRM3Q16
11
METO-HC HadRM3Q3
12
METO-HC HadRM3Q0
13
MPI-M-REMO
14
SMHIRCA
15
UCLM-PROMES
Tabella 1 Simulazioni regionali di controllo forzate dalla reanalisi globale ERA-40
per il periodo 1961-2000 (http://ensemblesrt3.dmi.dk/).
zione delle simulazioni regionali. Ad ogni serie temporale è
stata applicata una media mobile di 5 anni per evidenziare i
segnali a scala di tempo più lunghe della semplice variabilità inter-annuale. La serie temporale ottenuta dalla reanalisi
ERA40 segue sempre molto da vicino l’andamento delle osservazioni, cosa non inaspettata poiché i dati di temperatura
Figura 4: Proiezioni climatiche future per le regione Euro-Mediterranea. Sono riportate le anomalie di temperature superficiale per il periodo 2021-2050 rispetto al
periodo 1971-2000, così come vengono riprodotte considerando la media delle proiezioni climatiche future ENSEMBLES (tabella2) .
58
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
CRU sono assimilati direttamente nel sistema di reanalisi.
Sono presenti dei segnali a scala decadale, verosimilmente
legati ad oscillazioni climatiche (AMO, NAO) che interessano il nord Atlantico (Mariotti e Dell’Aquila 2012). Gli anni
70 sono caratterizzati da una significativa anomalia negativa
di più di 0.5°C in Autunno. Nella stagione estiva, dopo una
prima fase di trend negativo fino alla metà degli anni 70, un
robusto trend positivo si può mettere in evidenza. I modelli
climatici regionali tendono in generale ad amplificare il trend
negativo, arrivando ad avere per la metà degli ani 70 un bias
negativo di 0.3 °C, ed a sottostimare il trend positivo soprattutto a fine anni 90. Nelle altre stagioni l’andamento temporale delle temperature è riprodotto in modo sufficientemente
accurato dai modelli, seppur con una sistematica sottostima
delle temperature di più di 0.2°C nell’ultima parte del periodo in tutte le stagioni.
Per quanto riguarda invece le precipitazioni (Figura 3) ,
le differenze tra osservazioni e reanalisi sono ben maggiori,
soprattutto negli anni 70 e negli autunni degli anni 90. Le
precipitazioni non sono assimilate nei sistemi di reanalisi e
sono un prodotto previsionale (ovvero ottenuto dalle equazioni prognostiche del modello) e quindi tali discordanze non
sono del tutto inattese. In particolare la reanalisi ERA40 è caratterizzata da una ben nota anomalia positiva di umidità negli anni 70 (Mariotti and Dell’Aquila 2012) che produce un
sistematica sovrastima delle precipitazioni in tutte le stagioni
ad eccezione parzialmente dell’inverno. In quest’ultima stagione sono presenti alcuni periodi caratterizzati da evidenti
anomalie di precipitazioni, come nel caso dei primi anni 90.
3. PROIEZIONI CLIMATICHE IN EUROPA PER I
PROSSIMI DECENNI
In seguito alla valutazione delle performance delle simulazioni regionali prodotte nel progetto ENSEMBLES nel
riprodurre le principali caratteristiche del clima presente,
riportiamo ora alcuni dei principali risultati che si possono
evidenziare analizzando le proiezioni climatiche per il XXI
secolo riportate in tabella 2.
In Figura 4 riportiamo le proiezioni per la temperatura superficiale nel periodo 2021-2050 rispetto al clima presente
1971-2000, mediate sulle simulazioni ENSEMBLES riportate in tabella 2. Tutte le simulazioni mostrano un evidente
incremento delle temperature per la metà del XXI secolo,
che durante la stagione estiva potrebbe raggiungere i 2 gradi
lungo le coste mediterranee. Un rilevante gradiente meridionale (più di un grado di differenza) può essere identificato
tra l’Europa centro settentrionale e quella meridionale. In inverno invece l’incremento maggiore è previsto sull’Europa
orientale.
Per quanto riguarda le precipitazioni, le simulazioni mostrano proiezioni meno concordi, come mostrato in Figura
5. Notare che le regioni puntinate rappresentano le aree dove
almeno i 2/3 delle simulazioni concordano con il segno del
cambiamento. Un evidente gradiente meridionale nelle tendenze delle precipitazioni è presente in tutte le stagioni, con
Tabella 2: In tabella sono riportate le combinazioni MCG/MCR estratte
dall’archivio del progetto ENSEMBLES (http://ensembles-eu.metoffice.com)
per sviluppare nell’ambito del progetto europeo FP7 CLIM-RUN, prodotti
climatici basati sulle proiezioni climatiche numeriche. Lo scenario socioeconomico ipotizzato è lo SRES A1B.
una diminuzione delle precipitazioni nelle regioni mediterranee ed un aumento nel centro-nord Europa. In particolare in
tutta l’Italia centro meridionale le proiezioni riportano una
decisa riduzione delle piogge, mentre per il nord dell’Italia le
simulazioni non concordano sul segno del possibile cambiamento, al di fuori della primavera quando una diminuzione
della precipitazione stagionale è ben visibile a sud delle Alpi.
In uno scenario di riscaldamento (Figura 4), la potenziale
riduzione delle piogge medie nella regione Mediterranea è
per lo più attribuita a uno spostamento verso nord dei disturbi sinottici provenienti dall’Atlantico, in grado di generare
condizioni atmosferiche più stabili durante la maggior parte
dell’anno, soprattutto in estate (Giorgi and Lionello, 2008).
L’interesse nei confronti della variabilità climatica e delle
sue mutazioni su scala locale, negli ultimi anni, si è allargato
ben oltre la comunità scientifica, per coinvolgere in maniera
sempre più diretta le amministrazioni locali.
Tali comunità non sono interessate unicamente ai cambiamenti delle medie stagionali ma anche alla statistica degli
eventi estremi. Tali eventi e, come nel caso delle precipitazioni intense, generano gravi ripercussioni sulle infrastrutture, sui trasporti e sulla sicurezza dei cittadini. Attraverso
l’attività di ricerca e lo sviluppo di proiezioni climatiche su
scala territoriale è possibile contribuire alla pianificazione di
interventi preventivi, superando la logica dell’emergenza.
A puro titolo esemplificativo riportiamo in Figura 6 i
cambiamenti previsti dalle simulazioni ENSEMBLES nella
frequenza de eventi intensi di precipitazioni giornaliere nel
Golfo Ligure (e in particolare sulla vulnerabile regione delle
Cinque Terre) per il periodo 2041-2050 rispetto a quelli del
periodo 1971-1980.
59
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
Gli eventi intensi riportati nel grafico sono i giorni in cui
le precipitazioni giornaliere sono superiori a un certo valore,
scelta in questo caso come il 95 percentile rispetto al ciclo
stagionale di riferimento nel clima presente (1971-1980). Le
barre colorate rappresentano i cambiamenti nella frequenza di eventi intensi sulla regione ligure in ogni simulazione
regionale per ogni stagione. Il quadro che emerge dalle simulazioni mostra un aumento di eventi in inverno, mentre
gran parte delle proiezioni evidenzia una diminuzione di tali
eventi in primavera e in autunno. In estate la maggioranza
dei modelli prevede un leggero incremento di tali fenomeni.
Questa varietà d’informazione climatica è facilmente riproducibile in altre zone della Penisola caratterizzate da un’elevata vulnerabilità rispetto agli eventi estremi.
4. CONCLUSIONI
Nei capitoli sopra abbiamo citato numerosi studi che, attraverso l’analisi di dati raccolti in situ o da dati calcolati
attraverso modelli numerici, mostrano nell’area europea e
mediterranea un graduale aumento della variabilità climatica, particolarmente accentuata negli ultimi decenni. Abbiamo analizzato come la temperatura delle acque superficiali,
intermedie (la famosa acqua levantina, LIW, di cui sopra)
e profonde stiano subendo notevoli modificazioni. Tale aumento della temperatura è accompagnato da un contemporaneo aumento della salinità: più l’acqua è calda maggiore è
la sua capacità di diluire il sale! Pensate quando vi preparate
l’acqua per cuocere gli spaghetti! Il quadro generale che ne
consegue è molto complesso e non sempre lineare, vedi l’apparente blocco della crescita della temperatura nell’ultimo
decennio. A tale riguardo si citano ad esempio due lavori
molto recenti, in cui Chen et al. (2014), ha mostrato che l’oceano Atlantico ha accumulato calore nelle acque intermedie
invece che in superficie, invece l’oceano Pacifico si è effettivamente raffreddato negli ultimi dieci anni, ma buona parte
del calore accumulato si è spostato nell’oceano Indiano, che
sta mostrando invece un rilevante aumento di calore (SangKi Lee et al., 2015). Questo avviene soprattutto a causa di
una diversa distribuzione dello stress del vento e della differenza di pressione tra l’oceano Pacifico e l’oceano Indiano
che innesca un aumento del trasporto di massa e calore attraverso gli Stretti Indonesiani. Perché lo iato nel riscaldamento globale è successo e quanto tempo durerà sono misteri.
Tuttavia, gli scienziati sanno che l’oceano ha recentemente
contribuito a tamponare quello che altrimenti sarebbe stato
una forte accelerazione del riscaldamento della superficie,
che comunque continua a essere osservata a livello globale.
Figura 5: Come in figura 4 ma per le precipitazioni. Le regioni puntinate evidenziano dove almeno i 2/3 delle simulazioni prese in esame concordano sul segno del
cambiamento previsto
60
LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE
Figura 6: Istogrammi delle variazioni climatiche percentuali (periodo 2041-2050 confrontato con il 1971-1980) per il numero di eventi intensi di precipitazione
giornaliera sul Nord Adriatico nelle simulazioni climatiche regionali prodotte nel progetto ENSEMBLES. Gli eventi intensi sono definiti come i giorni in cui le
precipitazioni giornaliere sono superiori ad una certa soglia, scelta in questo caso come il 95 percentile del ciclo stagionale di riferimento nel clima presente (19711980). Le barre colorate rappresentano la percentuale di cambiamenti nella frequenza di eventi intensi sulla regione ligure delle Cinque Terre in ogni simulazione
regionale (riportate a lato con le corrispondenti simulazioni globali che le guidano a grande scala) per ogni stagione. Le linee sottile grigie corrispondono al numero
di eventi intensi riprodotti dai modelli nel clima presente.
Così come il riscaldamento dell’atmosfera continua a mostrare che il pianeta sta subendo uno squilibrio radiativo.
Come già accennato sopra nel corso del XX secolo, le acque intermedie e profonde del Mediterraneo hanno subito un
riscaldamento e aumento della salinità non sempre lineare,
che può essere diviso in tre diverse fasi temporali: l’iniziale
tasso di crescita osservato nei primi anni del secolo subisce
un incremento intorno al 1960 passando da circa pochi centesimi di grado centigrado nei precedenti 40 anni a quasi un
decimo di grado nei successivi venti-trenta anni, per arrivare
agli ultimi dieci in cui si stanno osservando trend di due–tre
decimi di grado. Parallelamente, il tasso di crescita di T e S
per le acque intermedie è comparabile e leggermente superiore. Dopo il 1990 tali tassi di crescita si sono osservati in
particolare nelle acque profonde nel Mar Tirreno e nel Mar
Ligure mostrano un aumento della temperatura e della salinità pari a qualche centesimo di grado per anno.
Molti autori hanno individuato in questi andamenti di temperatura e salinità un primo effetto del riscaldamento dovuto
ai gas serra; infatti, è stato calcolato che l’osservato aumento
della quantità di calore ricevuta dal Mediterraneo dal 1940 a
1995 è compatibile con le stime dell’effetto radiativo dovuto
all’effetto serra nello stesso periodo. Altri autori preferiscono vedere in questi andamenti di temperatura e salinità un effetto ‘locale’ della naturale variabilità interannuale del clima.
In particolare dal 1960 alla fine degli anni 1980 si è osservata
una notevole riduzione delle precipitazioni, che possono aver
contribuito a un aumento di salinità del bacino mediterra-
neo. In questo scenario, l’aumento di temperatura al fondo
sarebbe spiegato anche dal fatto che l’aumento dell’attività
convettiva, coinvolgendo più acqua intermedia (calda e salata), avrebbe contribuito a trasportare più calore al fondo del
Mediterraneo occidentale. Probabilmente non esiste un’unica causa e l’aumento di calore ricevuto dal Mediterraneo
a causa dell’aumento dei gas serra ha agito su questo sottofondo di graduale aumento della salinità anche causato dalla
costruzione, tra il 1960 ed il 1990, di numerose dighe lungo
i fiumi affluenti nel Mediterraneo che ha diminuito considerevolmente l’afflusso d’acqua dolce fluviale (Rohling, E.J. e
H. L. Bryden; 1992; Mariotti et al., 2002).
Tutto questo si ripercuote, al di sopra dell’oceano, in un
innalzamento della temperatura dell’aria lungo le coste del
Mediterraneo, soprattutto nel periodo estivo ed in secondo
luogo in quello primaverile. Questo riscaldamento è particolarmente evidente dalla seconda metà degli anni ’70 ma
non si ripercuote direttamente sulle piogge per le quali non è
stato osservato alcun trend ma più che altro un’alternarsi di
periodi più o meno piovosi.
Per quanto riguarda invece le proiezioni climatiche future
tutti le simulazioni regionali ad alta risoluzione prodotte nel
recente progetto di ricerca Europeo FP6 ENSEMBLES concordano su un possibile aumento di temperatura superficiale
nei prossimi 20-30 anni di circa 2 gradi nel periodo estivo,
accompagnato da una marcata diminuzione delle piogge lungo tutte le coste mediterranee che si contrappone ad un significativo aumento delle precipitazioni nel centro-nord Europa.
Questo avrà anche dei possibili effetti locali sulla stagiona61
SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA
lità delle precipitazioni intense in aree particolarmente vulnerabili come il Golfo Ligure dove le proiezioni climatiche
descrivono un possibile spostamento del picco delle precipitazioni intense dal periodo autunnale a quello invernale.
C’è però da sottolineare come tali proiezioni siano state
ottenute con modelli che non considerano in modo dettagliato l’interazione tra l’atmosfera e l’oceano che come abbiamo
visto gioca un ruolo fondamentale nel determinare le condizioni climatiche dell’area mediterranea. Per tale ragione
sono state recentemente prodotte delle nuove simulazioni
climatiche ad alta risoluzione per la regione Euro-Mediterranea in cui tali effetti di accoppiamento aria-mare possono
essere adeguatamente descritti. Tali simulazioni sono state
concepite nell’ambito dell’iniziativa internazionale MedCordex (www.medcordex.eu) i cui principali risultati verranno pubblicati nella letteratura scientifica internazionale
nei prossimi mesi.
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1 copia 13,00 euro (7,00 euro in formato elettronico)
ELISABETTA STRICKLAND Essere
donna e fare scienza in Italia: un’impresa difficile DAVIDE BARBA E MARIANGELA
e ricerca: “fare” genere nell’ambito scientifico ALESSANDRA MAZZEO Tertium non datur
DANIELA GRIGNOLI Donne in ricerca ROSA MARIA FANELLI, ANGELA DI NOCERA La presenza delle donne nel settore
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