Le catastrofi naturali in Italia (ago 2015)
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Le catastrofi naturali in Italia (ago 2015)
ISSN 2283-5873 Scienze e Ricerche SR SUPPLEMENTO AL N. 10, 1° AGOSTO 2015 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA a cura di Roberto Scandone Scienze SRe Ricerche LA TUA RIVISTA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA OGNI QUINDICI GIORNI A CASA TUA CON TANTI SUPPLEMENTI E NUMERI MONOGRAFICI Abbonamento annuo in formato elettronico (24 numeri + supplementi e numeri monografici): 42,00 euro * * 29,00 euro per gli autori (offerta valida fino al 31 dicembre 2015) www.scienze-ricerche.it Le Catastrofi Naturali in Italia Indice ROBERTO SCANDONE, LISETTA GIACOMELLI Catastrofi naturali: Previsione e Prevenzione pag. 5 ROBERTO SCANDONE, LISETTA GIACOMELLI Terremoti e Catastrofi sismiche in Italia pag. 12 GIOVANNI MENDUNI Le catastrofi idrogeologiche in Italia pag. 21 FRANCESCO M. GUADAGNO E PAOLA REVELLINO Le Frane: tra difficoltà interpretative e modifiche dell’ambiente antropizzato e del clima pag. 25 RAFFAELLO CIONI, ROBERTO SANTACROCE La pericolosità vulcanica pag. 39 VINCENZO ARTALE E ALESSANDRO DELL’AQUILA Evoluzione del clima della regione mediterranea suppl. al n. 10, 1° agosto 2015 pag. 53 3 SUPPL. AL N. 10, 1° AGOSTO 2015 ISSN 2283-5873 Scienze e Ricerche suppl. al n. 10, 1° agosto 2015 Dal 1° agosto 2015 Scienze e Ricerche esce con periodicità bimensile (24 numeri l’anno + supplementi e numeri monografici) Gli articoli pubblicati su Scienze e Ricerche sono disponibili anche online sul sito www.scienze-ricerche.it, in modalità open access, cioè a libera lettura, a meno che l’autore non ritenga di inibire tale possibilità. 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Come mento delle funzioni essenziali della società stessa’. affermò il sismologo Charles Richter, non sono i terremoti Negli ultimi decenni, che uccidono le persone, gli eventi naturali con bensì gli edifici mentre effetti disastrosi sembracadono. Dietro questa no diventati sempre più semplice considerazione frequenti e per spiegarne si cela la verità di fondo la ragione si invocano le del problema: non sono più svariate motivazioni. gli eventi che causano il Il principale imputato è disastro, ma la loro interazione con l’ambiente l’inquinamento prodotto antropizzato. Fenomeni dalle attività umane, le che sembrano avvenicui ripercussioni princire per la prima volta in pali sarebbero il riscaluna determinata area, damento globale, il buco in realtà si sono sempre dell’ozono e molte altre verificati, ma non hanno conseguenze. Senza volerne negare l’esistenza e avuto gravi conseguenze l’entità, l’impatto dell’ine pertanto sono passati quinamento da solo non inosservati. Ad esempio, basta a descrivere una molte alluvioni, anche realtà che è molto comrecenti, hanno interessato plessa: le cause che innele aree pianeggianti che si scano i disastri possono formano lungo i meandri essere anche molte altre, dei fiumi e che sono state così come molteplici inopportunamente occupate da attività industriasono le tipologie degli li, quando non da quareventi capaci di causare tieri residenziali. I fiumi gravi danni. Se da una hanno sempre seguito le parte terremoti ed eruzio- Fig. 1 – Veduta aerea della città di Roma attraversata dal Tevere 5 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Fig. 1b La piena del Tevere del 1915 nella zona della basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma. L’area è visibile al centro della figura precedente nell’ansa del Tevere Da sempre, la possibilità di sviluppo dell’attività umana è legata al clima e alla struttura fisica del luogo, condizioni da cui dipendono la facilità o meno di procurarsi il cibo e la possibilità di evitare gli eventi naturali più violenti. La storia e l’evoluzione degli insediamenti urbani seguono la capacità dei popoli nel valutare queste caratteristiche e, eventualmente, nel superare le fasi più severe derivanti da una errata conoscenza del territorio. I numerosi resti di città abbandonate indicano posti dove gli esseri umani hanno sottovalutato i rischi, a favore dei possibili vantaggi offerti dalla natura del luogo. Le tante Pompei disseminate in varie parti d’Italia sono testimonianza di come la memoria umana cancelli rapidamente eventi traumatici, lontani nel tempo anche solo di qualche generazione. Il panorama delle città e dei borghi d’Italia, a partire dalla preistoria e fino al ‘900, è il risultato del continuo compromesso fra natura e uomo, dove le risorse derivanti dalla terra, dai commerci e dalle guerre, si sono bilanciate con la fragilità dei luoghi e l’ostilità di altri uomini. A partire dal ‘900, la crescita della popolazione, associata allo sviluppo della scienza e della medicina, ha progressivamente annullato il faticoso equilibrio che si era realizzato in migliaia di anni. In particolare, con il secondo dopoguerra, il panorama del nostro paese ha subito una duplice trasformazione: da una parte l’abbandono dell’agricoltura e la crescita della società industriale ha portato ad una urbanizzazione di massa, dall’altra il trasporto indiviFig. 2 – Differenti fonti di inquinamento: automobili, tracce di aerei a altezze atmosferiche e fumi prodotti dall’inceneritore della città di Brescia, che pure rappresenta una possibile soluzione per duale ha causato una espansione macroscopica lo smaltimento dei rifiuti e il contenimento nella produzione gas tossici delle aree costruite. La speculazione finanziaria stesse leggi e quando il meandro diventa troppo pronunciato viene scavalcato dal corso d’acqua al primo aumento di portata. Gli interventi di contenimento della corrente fluviale hanno spesso creato false sicurezze e consentito a amministrazioni poco consapevoli l’utilizzo di aree che possono essere invase dall’acqua in qualsiasi momento nel corso di precipitazioni anche non eccezionali. Con la stessa superficialità, la valutazione dell’inquinamento atmosferico non tiene mai nel dovuto conto il contributo del traffico aereo, capace di portare direttamente in quota quantità di scarichi dannosi pari a quelle di centinaia di autostrade. Mentre si fanno timidamente strada le prospettive per ridurre le emissioni dei motori a terra, nulla ostacola il vertiginoso incremento dei voli aerei, la cui frequenza non sempre corrisponde a vere esigenze di trasporto e non sempre produce l’auspicata emancipazione culturale. 6 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE ha ulteriormente favorito questo fenomeno di crescita urbana che si è poi slegato dalla effettiva richiesta abitativa. Questo processo, sviluppatosi in tempi rapidissimi, grazie anche al progresso delle tecniche edilizie e al dilagare delle fonti creditizie, ha completamente alterato il paesaggio, senza alcuna considerazione della fragilità e del difficile contesto geologico dell’Italia. La trasformazione sociale, da un sistema sostanzialmente basato sull’agricoltura a una popolazione inurbata in città sempre più grandi, ha ulteriormente peggiorato il rapporto uomo-ambiente. In breve tempo si è passati da un paese disseminato e controllato da agglomerati contadini autosufficienti, i cui componenti provvedevano Fig. 3 – Lungo il versante sotto l’antica torre (sec. XIII) si intravvedono le case di Sperone, un nel comune di Gioia dei Marsi, abbandonato dopo il terremoto della Marsica del 1915. La anche alla conservazione quotidiana dell’am- paese ricostruzione fatta poco più in alto è stata a sua volta abbandonata circa 30 anni fa biente, a estese aeree urbane, talvolta prive dei connotati di città vere e proprie. Una struttura sociale divenuta sempre più fragile, si è affidata totalmente alle amministrazioni, locali o statali, delegando del Friuli del 1976 (2 scosse di magnitudo 6.5). Il costo ecoloro ogni provvedimento basato sulla conoscenza della natu- nomico dei due terremoti (magnitudo circa 6), dell’Aquila ra specifica e sulle possibilità di sfruttamento del territorio. del 2009 (10 miliardi di euro) e dell’Emilia del 2012 (13 In questo modo, mentre gran parte della popolazione restava miliardi di euro) è paragonabile a quello del Friuli, malgrado nella completa ignoranza dei possibili danni cui poteva es- la magnitudo inferiore e l’inferiore numero di vittime. Analogamente per quanto riguarda le frane e le alluvioni sere esposta, le amministrazioni locali sono state, e in larga parte continuano a essere, inadeguate ai nuovi compiti, per è andata aumentando nel tempo sia la perdita di vite umane, la mancanza di strumenti culturali, economici e normativi, sia il costo economico dei danni. Nel cinquantennio tra il indispensabili per la preservazione dell’ambiente e la pre- 1850 e il 1899 le vittime e dispersi per frana furono 614, nella prima metà del ‘900 le vittime sono aumentate a 1207, venzione dei rischi derivanti dalla sua profonda alterazione. Lo sviluppo incontrollato dell’urbanizzazione in zone a mentre tra il 1950 e il 2008 in Italia ci sono state ben 4103 elevato rischio, purtroppo particolarmente estese lungo tutta vittime di eventi franosi (di cui 1917 per il solo Vajont) (La la nostra penisola, ha esposto un numero sempre crescente Repubblica 6 Febbraio, 2014). di persone alle conseguenze di alluvioni, frane, terremoti e eruzioni. I disastri causati dal dissesto idrogeologico, frequenti in Italia, non nascono da un’occasionale dimenticanza, o mancata allerta, ma sono il risultato della trasformazione del paese che non si è dotato di meccanismi di salvaguardia atti a contrastare la crescente ignoranza ambientale Fig. 4 - Uno dei casolari tipici della campagna romana, all’esterno del GRA, ormai circondato vaste aree condominiali. Il raccordo anulare fino a pochi anni fa segnava il confine all’espansione della città di Roma della propria popolazione. Insieme al maggior numero di persone e ai beni esposti al rischio, i costi economici delle catastrofi naturali sono andati aumentando nel tempo. Fra il 1944 e il 1990, le spese dello Stato in queste voci di spese sono state pari a 74 miliardi di euro di cui 34 per il terremoto del 1980 in Basilicata-Irpinia (magnitudo 6.9) e 11 per quello Fig. 5 – I lembi di campagna intorno a Roma mostrano un sistema abitativo rurale ormai in abbandono 7 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Fig 6 – La parete del monte Toc dopo il franamento avvenuto il 9 ottobre 1963 che causò la tracimazione della diga del Vajont e circa 2000 vittime. La costruzione della diga sottovalutò le caratteristiche geologiche dei versanti e l’invaso venne riempito oltre i margini di sicurezza. A questo si aggiunge il mancato allarme e l’evacuazione dei paesi a valle la sera prima della tragedia, ai primi cedimenti del pendio Fig. 7 – Il Vesuvio domina l’antica Pompei e le recenti città sorte ai suoi piedi. Pompei e Ercolano furono sepolte dai prodotti di un’eruzione nel 79 d.C. 8 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE PREVENZIONE E PREVISIONE DELLE CATASTROFI NATURALI Di fronte a questo quadro poco confortante, è naturale chiedersi cosa possa fare la scienza per contribuire al miglioramento della situazione e se sia possibile prevedere l’accadimento dei fenomeni naturali in maniera tale da minimizzarne i danni. La risposta dipende soprattutto dal tipo di evento naturale e dal suo sviluppo nel tempo. Previsione e prevenzione sono due approcci diversi ai fenomeni naturali e alla loro intera- Fig. 8 – Il ponte sul torrente Re a Sonico, Valcamonica, provincia di Brescia, costruito dopo una zione con l’ambiente. La previsione significa disastrosa esondazione del 2014. La dimensione dell’alveo, il cui percorso naturale è stato in parte modificato nel punto di confluenza nel fiume Oglio, e la cementificazione del fondo, che si essere capaci di identificare la dinamica di un trova a tratti anche oltre la spalla del ponte, sembrano opere inadeguate per un corso d’acqua a forte regime torrentizio fenomeno naturale e di conseguenza essere in grado di individuare il momento in cui raggiungerà una fase critica e di quantificarne l’intensità. La pre- a livello nazionale. L’amministratore locale molto spesso, venzione significa essere in grado di quantificare gli effetti per ragioni economiche, sociali e particolari, quali gli stretti che un fenomeno naturale può avere sull’ambiente e, di con- rapporti con la cittadinanza nel caso di piccole comunità, sembra incapace di far rispettare con rigore le norme di difeseguenza, individuare le azioni capaci di ridurne l’impatto. I progressi maggiori si sono indirizzati verso la preven- sa ambientale per poi, al verificarsi di un evento disastroso, zione. Ad esempio, nel nostro paese è ormai ben definito il ricorrere allo stato di calamità naturale per sanare situazioni quadro delle zone suscettibili di essere colpite da terremoti pregresse, causate dall’incapacità della stessa o delle pasche possono provocare uno scuotimento del suolo con acce- sate amministrazioni. Si può ad esempio citare il caso delle lerazioni superiori a un determinato valore e la distribuzione ormai ricorrenti e disastrose alluvioni in Liguria e in pargeografica delle zone in frana o soggette a possibili inonda- ticolare nella città di Genova, causate dall’esondazione di zioni. Altrettanto conosciute sono le aree che possono essere torrenti noti per la loro impetuosità che attraversano zone interessate da fenomeni eruttivi. Gli studi compiuti, a partire urbane, rese sempre più fragili dalla cementificazione e dal dagli anni ‘70 del secolo scorso dalle Università italiane, dal restringimento degli alvei. CNR e successivamente dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, hanno riempito un vuoto di conoscenza che il nostro paese si portava dietro dall’Unità d’Italia. Ciò che è mancato è il trasferimento di queste conoscenze a livello di autorità locale. In particolare i Comuni, con le dovute differenze, sembrano marcare un ritardo nell’adeguarsi al progresso delle conoscenze scientifiche e normative formulate Fig 9 – Il cono del Vesuvio e il golfo di Napoli. Sullo sfondo Portici e l’area orientale di Napoli 9 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA e che cadano nel vuoto, specie se a livello locale non sono operativi specifici piani di trasferimento dell’informazione agli utenti finali. Mancata allerta e falsa allerta sono due posizioni estreme che le autorità possono assumere e che spesso, se risultano a posteriori errate, danno luogo a pesanti conseguenze, Fig. 10 – Il paese di Rocca di Cambio, danneggiato dal terremoto del 2009 e in primo piano le abitazioni provvisorie, umane e giudiziarie. Quando ancora abitate al 2015 l’assunzione di responsabilità non è precisamente definita, si La stessa situazione di inadeguatezza si ripete anche per consente un rimpallo di competenze e il verificarsi di errori quello che riguarda la previsione. La previsione di un feno- anche macroscopici che restano spesso impuniti. l fenomeno naturale più temuto e che si è rivelato il più meno naturale potenzialmente pericoloso implica la conoscenza fisica del fenomeno, dei meccanismi che lo generano pericoloso per l’uomo e per le strutture è il terremoto. I terremoti hanno un tempo di accadimento molto breve, anche se e dei tempi propri di accadimento. I fenomeni meteorologici, benché prevedibili su larga sca- si sospetta che il tempo di preparazione possa essere lungo la, grazie allo sviluppo del monitoraggio attraverso i satelliti in funzione dell’energia liberata. In questo caso siamo del e ai modelli computerizzati, hanno tuttavia ancora un grado tutto ignoranti dei fattori che possono far liberare istantanedi imprecisione a piccola scala. La dinamica dell’atmosfe- amente l’energia accumulata e non sappiamo nemmeno se ra è governata da un numero molto elevato di fattori che esistano segnali che precedano questa liberazione su tempi non permettono una descrizione in termini deterministici, sufficientemente lunghi da permettere un preavviso. Un caso in quanto le piccole oscillazioni di fattori casuali possono che ha sollevato particolare attenzione è stato quello relativo determinare lo sviluppo di condizioni del tutto differenti. il terremoto dell’Aquila del 2009 e allo sciame sismico che A questo proposito bisogna ricordare che tutte le previsioni l’ha preceduto. Va premesso che, a livello mondiale, non vi è alcun memeteorologiche hanno un grado d’indeterminazione statistitodo scientificamente attendibile che permetta di prevedere ca che viene associato alla previsione. Negli ultimi anni si sono moltiplicati da parte della Pro- l’accadimento di un terremoto. Tuttavia, il perdurare di uno tezione Civile Nazionale gli allarmi per eventi critici me- sciame sismico, in un’area della quale si conosce la passata teorologici. Si ha l’impressione che spesso questi allarmi storia sismica, dovrebbe allertare l’attenzione della comuniraggiungano una popolazione ormai abituata e demotivata tà scientifica e della Protezione Civile. Purtroppo in queste situazioni non si conoscono mezze misure e molto spesso si passa dalla totale disattenzione alle scelte più drastiche con evacuazioni forzate “manu militari”. Le testimonianze di molti dei sopravvissuti del terremoto dell’Aquila contengono indicazioni di come si sarebbe potuto intervenire per limitare almeno in parte i danni individuali. Tali norme, ben conosciute in altre aree del mondo soggette a rischio sismico, comprendono ad esempio un kit di sopravvivenza (lampade, pile, radio, medicine d’urgenza, documenti, etc) da tenere in luogo sicuro o in prossimità, il parcheggio Fig 11 – Un condominio della città de L’Aquila, nel maggio 2015, con i danni del terremoto del 6 aprile 2009 10 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE dell’auto, dotata di pieno di combustibile, in aree lontane da possibili crolli, la verifica puntuale di edifici critici (ospedali, prefetture, caserme, scuole). Altrettanto importante è l’informazione scientificamente attendibile e la corretta mediazione attraverso gli organi di stampa e televisione. In questi casi è più efficace l’onesta ammissione d’ignoranza scientifica su quanto potrebbe accadere che le generiche affermazioni di avere la situazione “sotto controllo”. Un atteggiamento corretto favorisce la presa di coscienza individuale e l’adozione delle misure che ciascuno ritiene più opportune. Per quanto riguarda le eruzioni, è diffusa la convinzione che ciascuna di esse sia preceduta da una serie di fenomeni come terremoti, deformazione del suolo, emissioni gassose e altri ancora che crescono progressivamente e si intensificano immediatamente prima dell’evento. In realtà, non sempre vi sono fenomeni precursori e, anche quando si manifestano, non sempre hanno un andamento progressivo e non sempre sfociano in un’eruzione. D’altra parte è comunque vero che le eruzioni hanno uno sviluppo temporale più lungo rispetto, ad esempio, ad un terremoto, e spesso quelle più violente entrano nella fase critica con un certo ritardo rispetto all’inizio del fenomeno. E’ questa la ragione per cui gli effetti delle eruzioni, spesso catastrofici sul territorio, sono meno tragici per quanto riguarda la perdita di vite umane rispetto a altri fenomeni naturali come terremoti e alluvioni. La prevenzione è l’unica arma che abbiamo per difenderci dagli effetti dei fenomeni naturali, ma non deve essere pensata come un intervento calato dall’alto senza alcuna partecipazione individuale. Al contrario, è solo la conoscenza di ciascun soggetto nei riguardi dell’ambiente in cui vive, la vera prevenzione; in tal modo si possono operare scelte consapevoli che ci possano porre al riparo da eventi anche inaspettati. Il compito della scuola e delle istituzioni che si occupano di questi problemi sarebbe determinante nel promuovere una consapevolezza che potrebbe rivelarsi decisiva di fronte a un imminente pericolo. Purtroppo per molti scienziati, politici e insegnanti, la divulgazione è un ramo del sapere che, invece di essere considerato l’anello di congiunzione tra la ricerca e la sua pratica applicazione, viene trattato come una disciplina minore, assegnata ai soggetti che vengono ritenuti, spesso a torto, i meno capaci. Questo atteggiamento, insieme a un diffuso clima di superficialità che non tiene in nessun conto le esperienze del passato e ignora completamente le conseguenze future delle proprie azioni, è una responsabilità di cui molti dovrebbero farsi carico. Fig. 12 – Monte Nuovo, il cono vulcanico formatosi nel corso dell’eruzione più recente dei Campi Flegrei, avvenuta nel 1538. La vasta area circolare dei Campi Flegrei è una caldera vulcanica, posta a Nord-Ovest di Napoli, disseminata da decine di crateri e con una densità abitativa tra le più alte al mondo 11 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Terremoti e Catastrofi sismiche in Italia ROBERTO SCANDONE, LISETTA GIACOMELLI Dipartimento di Matematica e Fisica, Università degli Studi Roma Tre A lle 20.30 del 20 luglio 1883 avvenne sull’isola di Ischia un terremoto che distrusse il paese di Casamicciola. Tra le rovine, trovarono la morte circa 2000 persone, mentre varie centinaia rimasero ferite. Quasi tutti persero le loro case. Sebbene fosse di modesta magnitudo (5.8), tanto che non causò vittime nel vicino paese di Ischia Porto e fu scarsamen- te avvertito a Napoli, si rivelò una vera catastrofe, la prima di tipo sismico che il regno d’Italia si trovò a fronteggiare. L’impressione suscitata dalla sciagura fu amplificata anche dal fatto che a esserne colpita era una rinomata località termale, una tra le prime in Italia, già affollata di turisti che provenivano da molte parti d’Italia e dall’estero. Fra le vittime illustri, si ricordano i genitori e la sorella del giovane Benedetto Croce, a sua volta miracolosamente estratto vivo Fig. 1 – Il paese di Casamicciola ai piedi del Monte Epomeo. Il sollevamento del blocco roccioso che forma l’Epomeo è la causa dei terremoti, nonché dell’attività vulcanica più recente dell’isola e dei frequenti franamenti e cadute di blocchi lungo le pendici del rilievo. Le frane sono spesso innescate dagli stessi fenomeni sismici. L’edificio grigio, visibile sul lungomare a destra dal centro della fotografia, è il rudere dello storico Pio Monte della Misericordia, uno stabilimento costruito per consentire l’accesso alle costose cure termali ai meno ricchi. Sostituiva un analogo edificio eretto nei primi anni del 1600, quando le terme rappresentavano uno dei pochi rimedi alle malattie, e distrutto dai terremoti del 1881 e 1883 12 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Fig. 2 – Il re, intervenuto sul luogo del disastro, interruppe l’operazione di copertura delle rovine con uno strato di calce per scongiurare le epidemie. La prosecuzione delle opere di recupero salvò ancora un centinaio di persone Fig. 3 – Una delle tante lapidi a Casamicciola che ricordano il terremoto del 1883 dalle macerie. Un gran numero di scienziati cercò di trovare una spiegazione all’accaduto e il governo appoggiò la costituzione di un osservatorio geodinamico sull’isola per lo studio dei fenomeni terrestri endogeni. In primo luogo ci si rese conto che i danni causati dal sisma dipendevano dal tipo di costruzione e che questo era dovuto anche al fatto che il meridione d’Italia, con l’unificazione, aveva perso le norme edilizie antisismiche, a suo tempo adottate dal Regno borbonico. Tali circostanze furono di grande impulso, non solo al tentativo di affrontare i danni provocati dallo scuotimento del suolo con interventi di soccorso adeguati, ma anche alla ricerca scientifica. Per la prima volta un’indagine tecnica analizzò la risposta alle onde sismiche delle diverse tipologie abitative e del terreno su cui sorgevano gli edifici. Le conseguenze del sisma risultarono diverse anche in località molto vicine fra loro e addirittura su parti di un solo edificio costruite in tempi differenti o sui lati opposti di una stessa piazza. Lo scopo era individuare i luoghi e le tecniche edilizie più adatte per la ricostruzione, ovviando così alla perdita delle normative antisismiche in uso sia nello Stato Pontificio che nel Regno delle Due Sicilie. Il nuovo governo, formato da funzionari di origine piemontese o provenienti da altre zone del Nord raramente messe alla prova da simili calamità, rapidamente emanò un nuovo regolamento per la costruzione degli edifici che si rifaceva a quello adottato dal governo borbonico dopo il terremoto delle Calabrie del 1783 e a quello Pontificio successivo al terremoto di Norcia del 1859. La scoperta di come le onde sismiche avessero differenti velocità, si attenuassero o si amplificassero, a seconda della densità del mezzo che attraversavano, fu il primo passo per la classificazione delle aree in base alla pericolosità sismica. Il governo borbonico, e quelli precedenti del Regno di Napoli, avevano avuto modo di affinare una specifica esperienza in fatto di sismi, avendo dovuto affrontarne molti e di disastrosi nel corso di centinaia di anni. In particolare, il vicereame di Napoli e lo stato pontificio erano stati afflitti forse dalla peggiore sequenza sismica che si ricordi fra il 1600 e l’inizio del 1700. Il lungo elenco si apre con un terremoto nel Gargano, che nel 1627 causò oltre 4500 vittime; un altro di elevata magnitudo colpì la Calabria centrale il 27 marzo del 1638, causando circa 9600 vittime. A questo seguì, nel 1659, un altro, nella stessa area, che fece circa 2000 vittime. Una drammatica sequenza sismica colpì nel 1688 l’area del Sannio, causando circa 10000 vittime, ripetendosi nella stessa zona nel 1702. L’Irpinia-Basilicata fu colpita nel 1694 da un terremoto con magnitudo simile a quello avvenuto nel 1980, causando oltre 6000 vittime e replicando nel 1732 con un 6000 vittime. Il terremoto peggiore avvenne nella Sicilia orientale nel 1693. La scossa principale, con una magnitudo di 7.4, stimata sulla base dei dati di danneggiamento (dati macrosismici), avvenne l’11 gennaio e fu preceduta il 9 dello stesso mese da un’altra scossa di magnitudo stimata intorno a 6. Quello dell’11 gennaio è considerato il maggiore terremoto degli ultimi 1000 anni avvenuto sul territorio nazionale. L’area interessata da estesi danneggiamenti andava da Catania a Siracusa con una stima, da parte degli autori dell’epoca, di 54000 vittime. La città di Catania fu praticamente rasa al suolo così come la Val di Noto dove fu registrata la maggiore intensità. Un maremoto particolarmente devastante nella zona di Augusta accompagnò la scossa principale. L’intera 13 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Fig. 4 – S. Emidio, protettore dai terremoti. Fu eletto patrono di Ascoli Piceno quando venne risparmiata da un violento terremoto che aveva colpito le Marche nel 1703. Molti altri centri nelle Marche e in Abruzzo e oltre, soggetti a eventi sismici, lo vollero come protettore. Venerato in particolare a Bojano di Monteverde, una borgata che raccolse gli abitanti scampati al terremoto del Sannio del 1805. Fabriano cominciò a venerarlo dopo il prolungato sisma (circa 2 minuti) del 24 aprile 1741. Celebrato a Avezzano con una processione annuale, smise di esserne patrono dopo il disastroso terremoto del 13 gennaio 1915. Chieti fu scossa da un terremoto nella notte del 12 luglio 1805. L’invocazione del Santo e una processione risparmiò la città da una seconda scossa avvenuta nella stessa notte. Fig. 5 – Esempio di una casa a graticcio di epoca romana a Ercolano Sicilia orientale soffrì gli effetti del terremoto per molti anni, anche se i grandiosi lavori di ricostruzione iniziati negli anni successivi favorirono la rinascita economica dell’area e la formazione di un sistema urbanistico che diverrà famoso. Intere città furono ricostruite di sana pianta, in alcuni casi in località diverse. Caltagirone, Militello, Catania, Noto, Modica, Palazzolo, Ragusa, Scicli furono ricostruite secondo un progetto unificante studiato da architetti e urbanisti in quello che verrà conosciuto come lo stile del barocco siciliano che rappresenta l’apice dell’arte barocca in Europa. Questo intenso periodo sismico si chiuse, purtroppo solo provvisoriamente, con i terremoti in Umbria meridionale, Lazio, e Abruzzo settentrionale, avvenuti il 14 gennaio del 1703, di magnitudo stimata 6.7, nel corso dei quali furono distrutte Cittareale e Norcia, e quello del 2 febbraio dello stesso anno che colpì l’Aquila con una violenza maggiore di quello avvenuto 300 anni dopo, nel 2009. Il 3 novembre 1706, infine, un terremoto con magnitudo di 6.8 colpiva l’area della Maiella. In questo stesso periodo l’Italia settentrionale fu interessata da un solo terremoto di magnitudo 6.5, il 25 febbraio del 1695 nell’Asolano (zona del Piave). I gravi danni causati dal terremoto del Gargano del 1627, risentito fortemente anche nel Sannio, spinsero a cercare nuovi sistemi di costruzione delle abitazioni che portarono 14 all’utilizzo di uno stile chiamato “costruzione baraccata alla beneventana” (Ceniccola, 2014). La struttura era formata da un’intelaiatura di legno, completata dal riempimento in muratura o legno, nell’intento di concatenare e rendere solidale tutto l’edificio. Questo tipo di costruzione era già utilizzata nel periodo romano e si trova spesso citata da Vitruvio, che la ritenne però poco sicura in caso di incendio. Alcuni esempi si conservano a Pompei e a Ercolano nella cosiddetta Casa a Graticcio. Non si sa quale sia stata la risposta di queste costruzioni nel successivo terremoto del 1688, tuttavia viene riportato che le case costruite con intelaiature riempite di mattoni, benché danneggiate, resistettero meglio alle scosse (Boschi et al, 1995). La stessa tecnica costruttiva antisismica fu riproposta dopo i disastrosi terremoti delle Calabrie del 1783. La scossa più violenta avvenne il 5 febbraio, con i maggiori effetti nella zona dell’Aspromonte e di Gioa Tauro. Contemporaneamente un’onda di maremoto colpiva le coste da Gioa Tauro, a Reggio, Messina e Scilla. Altre scosse, succedutesi il 6 e 7 febbraio, causarono estesi danneggiamenti fino a Scilla e Messina, così come la scossa avvenuta il 1° marzo. La scossa del 6 febbraio determinò anche il franamento in mare di una estesa zona di costa in prossimità di Scilla. Il conseguente maremoto spazzò la spiaggia antistante il paese, dove si era- LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE no rifugiati i sopravvissuti alla prima scossa e causò oltre 1300 vittime. Infine, il 28 marzo, una nuova scossa causava danneggiamenti gravissimi a sud di Catanzaro. Le vittime furono 29451 e, tenendo conto anche di quanti morirono di stenti nel periodo successivo, il totale arriva a circa 35000 persone. Nel tentativo di reperire fondi per alleviare le condizioni di miseria della popolazione, si procedette all’esproprio delle proprietà della Chiesa in Calabria. L’istituzione della cosiddetta Cassa Sacra avrebbe dovuto procedere alla vendita dei beni ecclesiastici e ricavarne risorse per la ricostruzione. Malgrado lo sforzo del governo borbonico, i terremoti generarono un periodo di profonda crisi sociale e l’emigrazione di una popolazione stremata verso le città. La Calabria, già colpita nel 1638 e nel 1783, soffrirà ancora maggiormente per il terremoto di Reggio e Messina del 1908. Questo evento era stato preceduto da un altro di magnitudo meno elevata l’8 settembre 1905 nella zona di Cosenza, dove aveva provocato estesi danni e circa 500 vittime e da uno successivo nella Calabria meridionale il 23 ottobre 1907, che aveva causato 167 morti prevalentemente nel paese di Ferruzzano, in provincia di Reggio Calabria. Come in molti altri casi, i sopravvissuti di questo piccolo paese si costruirono un nucleo di ripari provvisori verso il mare, che col tempo prese il nome di Località Baracche, l’attuale Borgo Saccuti, trasformato con casette in muratura. Tutto il paese verrà abbandonato per sempre dopo il terremoto della Locride dell’11 marzo 1978, mentre l’area a mare cominciava a popolarsi di una distesa di villini di vacanza. La scossa del 28 dicembre 1908 devastò completamente Messina e Reggio e il loro entroterra. Gli effetti della scossa furono risentiti in maniera disastrosa fino all’Aspromonte a Nord, ai Monti Peloritani e al settore nord-orientale dell’Etna a sud. La stima comunemente accettata delle vittime è intorno a 80000, di cui circa 60000 a Messina. Si stima che circa 2000 persone persero la vita per effetto di un maremoto che seguì di poco la scossa principale. L’entità della catastrofe sollevò grande clamore e spinse molti scienziati a raddoppiare gli sforzi nello studio dei terremoti. Giuseppe Mercalli, famoso vulcanologo e sismologo, ideatore nel 1895 di una nuova scala per quantificare gli effetti dei terremoti, accogliendo la proposta di un altro sismologo, Adolfo Cancani, fu costretto ad aggiungere un ulteriore grado, l’XI, per descrivere gli effetti del terremoto di Messina. Successivamente, il sismologo Sieberg aggiunse un altro grado a quella che da allora è la scala MCS (Mercalli, Cancani, Sieberg) utilizzata ancora oggi per quantificare le conseguenza dei terremoti. Solo nel 1935, Charles Richter pubblicò un lavoro che definiva una scala di magnitudo, basata su misure strumentali, per classificare i terremoti indipendentemente dai loro effetti. La scala Richter delle Magnitudo, e quelle da essa derivate, sono attualmente utilizzate per avere un’idea delle dimensioni e dello spostamento che avviene su una superficie di faglia e dell’energia liberata dalla scossa, indipendentemente dagli effetti che restano legati alla tipologia del territorio antropizzato. Con il terremoto del 1908 cominciano a prendere forma le norme di costruzione antisismiche che saranno migliorate con il progredire degli anni. Fig. 6 – La distruzione del lungomare di Messina (La Palazzata) in una foto d’epoca 15 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Giuseppe Albano Il sismologo Mario Baratta che aveva pubblicato, nel 1901, il primo documentato catalogo dei terremoti italiani, scrisse, in occasione del terremoto del 1908, “Ottima prova hanno http://calcolostrutture.eu dato anche in questa occasione le case baraccate: quelle con il semplice terreno o sono rimaste illese, oppure hanno sofferto ben poco; quelle ad un piano superiore ebbero qualche guasto.” Riprendendo le vecchie norme borboniche, il regio decreto del 1909 stabiliva “ le norme tecniche e igieniche obbligatorie per le riparazioni, ricostruzioni, e nuove costruzioni degli edifici pubblici e privati nei Comuni colpiti dal Terremoto del 28 dicembre 1908 o da altri precedenti. I primi articoli delle norme così riportavano: Art. 1. É vietato costruire edifici su terreni paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine fra terreni di natura od andamento diverso, o sopra un suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia compatta; nel quale ultimo caso é indispensabile preparare all’edificio uno o anche più piani orizzontali d’appoggio, eseguendo gli scavi necessari. Art. 2. L’altezza dei nuovi edifici rappresentata dalla massima differenza di livello fra la linea di gronda e il suolo circostante, in vicinanza immediata dell’edificio stesso, non può di regola superare i 10 metri. I nuovi edifici, siano inferiormente cantinati o no, debbono essere co- 16 struiti a non più di due piani, dei quali il terreno, avente il pavimento a livello del suolo, oppure sopraelevato sul medesimo non più di un metro e mezzo. L’altezza dei piani, misurata fra pavimento e pavimento, oppure fra il pavimento e la linea di gronda, non può di regola superare i metri 5. …… Art. 7. Gli edifici debbono essere costruiti con sistemi tali da comprendere Un’ossatura di membrature di legno, di ferro, di cemento armato, o di muratura armata, capaci di resistere contemporaneamente a sollecitazioni di compressione, trazione e taglio. Esse debbono formare un’armatura completa di per sé stante dalle fondamenta al tetto, saldamente collegata con le strutture orizzontali portanti (solai, terrazzi e tetti) e che contenga nelle sue riquadrature, oppure racchiuda nelle sue maglie, il materiale formante parete, o vi sia immersa. Gli edifici debbono avere il loro centro di gravità più basso che sia possibile. Malgrado le buone intenzioni, buona parte del patrimonio edilizio italiano era stato realizzato nei secoli precedenti e i terremoti del secolo seguente continueranno ad arrecare danni e lutti. Il nuovo secolo iniziato per il nostro paese così disastrosamente, si apprestava ad affrontare la grande tragedia in cui già si erano precipitate le altri grandi nazioni europee nel 1914. LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE che per le costruzioni. Sfortunatamente le regioni possono chiedere una variazione della categoria di appartenenza di ciascun comune ed è per questa ragione che il comune de L’Aquila, già distrutto dal sisma del 1703, si trovava in zona 2 al momento del sisma del 2009 e si trova ancora in tale categoria. In questa breve panoramica dei maggiori terremoti degli ultimi quattro secoli abbiamo tralasciato di citare gli ultimi disastrosi avvenuti dal 1915 in poi, in particolare il terremoto del Vulture del 1930, Fig. 7 – L’unica casa rimasta in piedi ad Avezzano nel terremoto del 1915. L’edificio era di proprietà di Cesare Palazzi, un costruttore che utilizzò i primi solai in cemento armato. Era rientrato dal Brasile nel 1910, dove era emigrato, per quello del Friuli del 1976 e lavorare ai canali di prosciugamento del Fucino. quello dell’Irpinia-Basilicata Poco prima dell’inizio delle ostilità, il 13 gennaio 1915, un del 1980 perché più freschi nella memoria recente. Abbianuovo disastro colpiva l’Italia centrale, nell’area della Mar- mo considerato solo quelli con gradi di intensità superiore sica. Questo terremoto avvenne nella zona del Fucino, ma i a X-XI e con magnitudo stimate superiori a 6.5. Ve ne sono suoi effetti furono risentiti su una vasta area lungo l’Appen- molti di più con magnitudo inferiori, ma con danneggiamennino centrale. Il paese di Avezzano fu completamente raso al ti ristretti su aree più limitate. Ad esempio, terremoti come suolo. Il computo totale delle vittime fu di oltre 30000, oltre quello avvenuto a L’Aquila nel 2009 o in Emilia nel 2012 a innumerevoli feriti. Ancora una volta il terremoto colpiva o, più indietro, nella Valle del Belice del 1968, se ne contauna zona prossima a quelle già martoriate in precedenza. Gli no a decine nei secoli passati e interessano in gran parte la aiuti furono ritardati dalla circostanza che quanti avrebbero Sicilia e la dorsale appenninica, fino al Friuli. L’unica area potuto avvisare della catastrofe, sindaco, prefetto, parroco, che in Italia si può dire al riparo da terremoti disastrosi è carabinieri, erano tutti sotto le macerie. A questo si aggiunse la Sardegna e relativamente meno interessata, o almeno con il fatto che lo sforzo dell’esercito per portare sollievo alle frequenza molto più bassa, è l’area nord occidentale del pavittime fu interrotto dopo alcuni mesi per l’imminenza del ese, anche se si ricordano ad esempio il terremoto del 1222 conflitto mondiale. Serviranno molti anni perché la zona si che distrusse Brescia, causando oltre 10000 vittime e danneggiamenti estesi a Cremona e Bergamo. risollevi dalla miseria in cui era caduta il 13 gennaio. La mappa di pericolosità sismica realizzata nel 2004 Al sisma seguì puntuale il regio decreto del 29 aprile 1915, che prescriveva le norme tecniche da osservare per le ripa- dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Fig. 8) razione e ricostruzione, sulla falsariga del decreto del 1909. mostra le zone in cui ci si può aspettare con una certa probaDal 1908, fino al 1974, in Italia i comuni sono stati clas- bilità accelerazioni (espresse in frazioni dell’accelerazione sificati come sismici e sottoposti a norme restrittive per le di gravità di 9.8 m/s2) mostrate nella legenda. In pratica le costruzioni solo dopo essere stati fortemente danneggiati dai zone a colore tendente al viola sono quelle dove ci si posterremoti. Solo dopo i terremoti del Friuli del 1976 e dell’Ir- sono aspettare le accelerazioni più elevare. Come si vede, pinia- Basilicata del 1980, s’incomincia un lavoro di classi- rispecchiano abbastanza bene la geografia delle catastrofi ficazione sismica dei comuni, con la prescrizione di norme che abbiamo ricapitolato nella prima parte di questo lavoro. tecniche basate su accurati studi sismologici. Dopo il terre- Se confrontiamo questa carta con quella della classificazione moto del 2002 in Puglia e Molise viene emanata l’Ordinanza sismica nazionale del 2015 (Fig. 9) notiamo strane dimendel Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 2003, ticanze, oltre a quella già ricordata de L’Aquila. Ancor più che riclassifica l’intero territorio nazionale in quattro zone a grave appare quella che riguarda la classificazione sismica di Catania e della Val di Noto, che furono distrutte dal terpericolosità decrescente. remoto del 1693. E’, quanto meno strano, che l’area interesZona 1 - E’ la zona più pericolosa. Possono verificarsi fortissimi terremoti sata dal maggiore terremoto conosciuto nella storia sismica Zona 2 - In questa zona possono verificarsi forti terremoti italiana sia classificata in zona 2 a differenza, ad esempio, Zona 3 - In questa zona possono verificarsi forti terremoti ma rari della Calabria interessata da terremoti altrettanto violenti. Zona 4 - E’ la zona meno pericolosa. I terremoti sono rari Probabilmente, per i legislatori locali, i terremoti dovrebbero Infine, il Ministro delle Infrastrutture, emana il 14 gennaio seguire una specie di federalismo regionale. 2008 il Decreto Ministeriale che approva nuove norme tecniQuale può essere il futuro che ci aspetta? Secondo una 17 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA ISTITUTO NAZIONALE DI GEOFISICA E VULCANOLOGIA Mappa di pericolosità sismica del territorio nazionale (riferimento: Ordinanza PCM del 28 aprile 2006 n.3519, All.1b) espressa in termini di accelerazione massima del suolo con probabilità di eccedenza del 10% in 50 anni riferita a suoli rigidi (Vs30> 800 m/s; cat.A, punto 3.2.1 del D.M. 14.09.2005) < 0.025 g 0.025 - 0.050 0.050 - 0.075 0.075 - 0.100 0.100 - 0.125 0.125 - 0.150 0.150 - 0.175 0.175 - 0.200 0.200 - 0.225 0.225 - 0.250 0.250 - 0.275 0.275 - 0.300 Po Sa U S A F P Pa Le sigle individuano isole per le quali è necessaria una valutazione ad hoc Elaborazione: aprile 2004 Fig. 8 - Carta di pericolosità sismica (Fonte Ingv) 18 Pe 0 50 100 150 km LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE < Double-click to enter map title > Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della protezione civile Ufficio rischio sismico e vulcanico Classificazione sismica al 2015 Recepimento da parte delle Regioni e delle Province autonome dell'Ordinanza PCM 20 marzo 2003, n. 3274. Atti di recepimento al 1° giugno 2014. Abruzzo: DGR 29/3/03, n. 438. Basilicata: DCR 19/11/03, n. 731. Calabria: DGR 10/2/04, n. 47. Campania: DGR 7/11/02, n. 5447. Emilia Romagna: DGR 21/7/03, n. 1435. Friuli Venezia Giulia: DGR 6/5/10, n. 845. Lazio: DGR 22/5/09, n. 387. Liguria: DGR 19/11/10, n. 1362. Lombardia: DGR 11/7/14, n. X/2129 Marche: DGR 29/7/03, n. 1046. Molise: DGR 2/8/06, n. 1171. Piemonte: DGR 12/12/11, n. 4-3084. Puglia: DGR 2/3/04, n. 153. Sardegna: DGR 30/3/04, n. 15/31. Sicilia: DGR 19/12/03, n. 408. Toscana: DGR 26/5/14, n. 878. Trentino Alto Adige: Bolzano, DGP 6/11/06, n. 4047; Trento, DGP 27/12/12, n. 2919. Umbria: DGR 18/9/12, n. 1111. Veneto: DCR 3/12/03, n. 67. Valle d'Aosta: DGR 4/10/13 n. 1603 AUSTRIA Zone sismiche (livello di pericolosità) SVIZZERA 1 1-2A BOLZANO ! 2 2A SLOVENIA ! 2A-2B 2B TRIESTE AOSTA 2A-3A-3B ! MILANO ! ! 2B-3A VENEZIA 3 CROAZIA TORINO 3s 3A ! 3A-3B BOSNIA 3B ERZEGOVINA 3-4 BOLOGNA ! ! GENOVA 4 MARE LIGURE ! ANCONA FIRENZE ! PERUGIA ! ! L'AQUILA ! MARE ADRIATICO ROMA CAMPOBASSO ! BARI ! ! NAPOLI POTENZA ! MARE TIRRENO MARE IONIO CAGLIARI CATANZARO ! ! PALERMO ! TUNISIA ALGERIA MALTA 0 100 kilometri FB 2015 .. Fig. 9 – Carta di Classificazione sismica del territorio nazionale (fonte Dipartimento Protezione Civile) 19 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA legge di natura, facile da ricordare, ciò che è avvenuto nel passato si ripeterà anche nel futuro e il risultato dei terremoti dipenderà dal grado con cui si sono ricordate e applicate le regole costruttive. E’ difficile pensare che, in un paese in cui cadono i viadotti appena inaugurati, le case costruite in fretta prima dei molti condoni possano avere una sorte diversa. BIBLIOGRAFIA Baratta M.; 1901: I terremoti d’Italia, A. Forni Editore, Rist. Anast. Bologna, 1979, 951 pp. Baratta, M., 1910, La catastrofe sismica calabro messinese, Società geografica italiana, Roma. Boschi E., Ferrari G., Gasperini P., Guidoboni E., Smriglio 20 G., Valensise G., 1995, Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C., al 1980, ING SGA Ceniccola G., 2014, Sostenibilità delle strutture intelaiate. La muratura baraccata alla ‘Beneventana. Scienza e Beni Culturali XXX, Edizioni Arcadia Ricerche, Venezia, 669678 Mercalli G.; 1883: Vulcani e fenomeni vulcanici in Italia, Ristampa anastatica Forni, Bologna Luongo G., Carlino S., Cubellis E., Delizia I., Obrizzo F., Casamicciola, Milleottocentottantatre, Bibliopolis, Napoli, 2011, 282 pp. Richter C., 1935, An instrumental earthquake magnitude scale, Bull. Seism. Soc. of Am., January 1935, 1-31. LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Le catastrofi idrogeologiche in Italia GIOVANNI MENDUNI Politecnico di Milano DICA-SIA L INTRODUZIONE a storia del nostro Paese è costellata di eventi idrogeologici (Guzzetti et Al. 1994) che ne punteggiano tristemente la cronaca nel corso del tempo, quasi fosse un fatto endemico, connotato con la natura stessa del territorio e per questo ineluttabile. Si tratta di una questione, è bene dirlo, caratterizzata da una intrinseca complessità e determinata da una forte varietà tipologica delle minacce che si combina in maniera non lineare con una ancor maggiore dispersione dei beni esposti al rischio. Peraltro se è acclarata la non stazionarietà del clima (laddove questo costituisce la forzante principale), lo è in misura senz’altro maggiore quella dei beni esposti sul territorio con trend crescenti che si ripercuotono direttamente sul rischio. In queste brevi note faremo riferimento tanto al dissesto geomorfologico di versante che, forse e in misura appena più accentuata per affinità della materia al percorso personale di chi scrive, ai fenomeni alluvionali. Il lavoro sarà articolato in tre sezioni. La prima porrà qualche questione di metodo e un inquadramento di carattere generale che descriverà la situazione a livello nazionale, nelle sue caratteristiche principali. Nella successiva sezione si farà un rapido excursus delle principali catastrofi e sulle azioni svolte per il contrasto dei fenomeni di dissesto a partire dalla fase storica successiva alla seconda guerra mondiale. La materia, nel periodo considerato, conserva un percorso ragionevolmente consequenziale e ben si presta a una descrizione cronologica fino ai giorni attuali. La terza parte si riferirà delle azioni in atto e, traendo le conclusioni dalle precedenti paragrafi, proporrà alcune linee generali cui potrebbe informarsi l’azione nelle prossime decadi. Per una esclusiva questione di rapidità espositiva abbiamo descritto il contesto del dissesto geomorfologico e quello delle alluvioni in maniera separata. In realtà, almeno in molte parti del Paese, tali fenomeni a forzante climatica, sono for- temente correlati, non solo a livello di sincronicità di accadimento, ma addirittura di interconnessione fenomenologica. In generale il rischio naturale si configura come un processo multihazard che non è generalmente corretto, salvo casi specifici, approcciare per comparti separati. L’impatto del dissesto idrogeologico sulla struttura sociale ed economica del territorio è notevole. Il rapporto ANCECRESME (2012), recentemente aggiornato, riporta un quadro sinottico desolante, pur nella ovvia incertezza di cui le informazioni sono inevitabilmente affette. Si tratta di 12600 vittime in un secolo, quasi 300 negli ultimi 12 anni. A questo si aggiungono i danni materiali diretti che, in forza del DL 94/2013, poi convertito con la L 115/2013, sono adesso censiti e certificati da Commissari delegati in termini di fabbisogni per il ripristino. Il censimento è certamente approssimato per difetto perché la ricognizione è tuttora forzatamente incompleta (visto anche il succedersi degli eventi) e, comunque, tiene conto dei soli danni riconducibili a stati di emergenza dichiarati con deliberazione del Consiglio dei ministri. Eppure le cifre riportano già oltre 3,2 miliardi, 1,6 miliardi l’anno che corrispondono a un decimo di punto di PIL. Se la cifra è estrapolata parametricamente sulle emergenze non ancora censite a livello nazionale e su quelle affidate alle gestioni regionali e degli enti locali, proiettandola anche ai danni indiretti, si comprende che tale livello può crescere rapidamente verso il livello di mezzo punto e anche oltre. Tali danni non sono purtroppo ristorati a carico dell’Erario se non in minima parte. Resta il fatto che vengono comunque a gravare sul sistema Paese costituendo una sorta di peso aggiuntivo per i cittadini, soprattutto in questa facile di difficile crisi. Diciamo subito che l’incertezza sulla effettiva dimensione del danno è ovviamente esiziale al fine della produzione delle politiche di contrasto dato che è comunque difficile migliorare qualcosa di cui non si ha una concreta possibilità di misura. Questo fatto è tuttora non abbastanza governato a livello centrale e locale e collide in maniera decisa con lo spirito della Direttiva comunitaria “Alluvioni” 2007/60CE. 21 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Tale atto, non a caso, reca in epigrafe “On the assessment and management of flood risk” ponendo nella conoscenza dei processi e della loro gestione, più che in una apodittica “riduzione” del rischio, il focus dell’azione di mitigazione e contrasto. l’attività di censimento dei fenomeni franosi è stata storicamente concentrata prevalentemente nelle aree in cui sorgono centri abitati o in quelle interessate dalle principali infrastrutture di comunicazione stradali e ferroviarie. IL CONTESTO DEL DISSESTO DA ALLUVIONE IL CONTESTO DEL DISSESTO GEOMORFOLOGICO DI VERSANTE IN ITALIA L’Inventario dei Fenomeni Franosi in Italia fornito dal Progetto IFFI (Trigila et Al. 2007), realizzato da ISPRA, dalle Regioni e dalle Province Autonome, fornisce un quadro ragionevolmente dettagliato e aggiornato sulla distribuzione dei fenomeni franosi sul territorio italiano. L’Inventario è nei fatti la banca dati sulle frane più completa esistente in Italia, sia per il dettaglio della cartografia, portata alla scala 1:10.000, che per il numero di parametri disponibili. L’adozione di una metodologia standardizzata di lavoro ha permesso di ottenere dati confrontabili tra loro a scala nazionale che forniscono dunque un quadro sostanzialmente unitario. Diciamo subito che l’inventario presenta la situazione di 528.903 fenomeni franosi censiti che interessano un’area di 22.176 km2, pari al 7,3% del territorio nazionale (ISPRA, 2015). La percentuale rispetto alla superficie complessiva dei versanti, a livello nazionale, è dell’ordine del 10%. I dati sono aggiornati al 2014 per le Regioni Piemonte, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Basilicata, Sicilia e per la Provincia Autonoma di Bolzano. Per le restanti Regioni i dati restano aggiornati al 2007, quando è uscito un corposo ed esaustivo rapporto (ISPRA 2007). Il sito dedicato al Progetto consente di consultare, interrogare e stampare la cartografia dei dissesti e di visualizzare foto, documenti e filmati. Uno dei parametri più significativi, per stimare l’impatto del dissesto geomorfologico a scala regionale è il cosiddetto “indice di franosità montano-collinare” cui si è appena fatto indirettamente cenno e che rappresenta il rapporto tra l’area in frana (in generale da fotointerpretazione) e la superficie della frazione di territorio con caratteristiche montane e collinari della unità geografica o amministrativa considerata. Il dato esprime evidentemente l’incidenza dell’area in dissesto sul territorio potenzialmente interessato da fenomeni franosi. Le Regioni che presentano l’indice più elevato sono la Lombardia, con un indice di franosità di poco inferiore al 30%, l’Emilia Romagna (23,2%), le Marche (21,2%), la Valle d’Aosta (16%) e il Piemonte con il 15%. I dati, seppur eclatanti, sono approssimati per difetto e distorti dal fatto che le frane sono spesso censite laddove possono creare danni e non sono pochi i dissesti che sfuggono alla statistica. Questo crosstalk tra pericolosità ed esposizione è tipico nella catalogazione del rischio naturale ma si trova particolarmente accentuato nel dissesto geomorfologico di versante, essendo l’esposizione al danno del territorio di pianura soggetto alle alluvioni, più accentuata rispetto alla collina e alla montagna. ISPRA, nell’Inventario, segnala criticità nei dati delle Regioni Basilicata, Calabria e Sicilia dove 22 L’occorrere delle alluvioni costituisce anch’esso una dolorosa costante nella storia italiana. Le caratteristiche della pericolosità e dei beni esposti, hanno avuto nel tempo varie vicissitudini, dipendenti dalle dinamiche dei contesti territoriali locali. Non è temerario tuttavia sostenere che il rischio complessivamente non è diminuito nel corso della storia e anzi, in numerosi casi, è decisamente aumentato. Ci sono contesti urbani, come ad esempio Firenze, dove sussistono dettagliate testimonianze di eventi di diversa intensità a partire addirittura dal 1100. Questo, nel caso specifico ha consentito di ricostruire i gli effetti di decine e decine di alluvioni, l’ultima delle quali risale al 1992 per passare da quella del 1966 che costò ben quaranta vittime. Il caso è paradigmatico, ma tutt’altro che raro e c’è da chiedersi come mai le comunità, innanzi a una tale catena ininterrotta di disastri, vittime e danni ingentissimi, non abbia mai optato per una qualche forma di delocalizzazione nel corso della storia. La risposta sta nel fatto che la presenza del fiume ha costituito una risorsa certa e continua, soprattutto in termini di energia e trasporti, così significativa da vincere le conseguenze, gravi ma incerte e discontinue delle alluvioni. Si tratta di esempi ante litteram di “comunità resilienti” che, ove colpite dalla calamità, risorgono e si fortificano viepiù grazie alle propria coesa struttura sociale ed economica. Vi sono anche esempi contrari. Ad esempio quello della spaventosa alluvione del Polesine del 14 novembre 1951. L’evento interessò quasi per intero il territorio della provincia di Rovigo e parte di quella di Venezia. Le vittime furono 84 e oltre 180.000 persone che persero più o meno definitivamente le loro case dando luogo a una diaspora di proporzioni epocali. Nei fatti si perse una comunità intera, dispersa come una nebulosa tanto in Italia che attraverso l’emigrazione verso l’estero. La conoscenza della pericolosità e, in qualche misura, del rischio nasce nel nostro paese con il DL 180/98, emanato immediatamente a valle dell’evento di Sarno. Il 5 maggio 1998a seguito delle piogge abbattutesi nelle giornate precedenti, si innescarono improvvisamente decine e decine di, devastanti, colate rapide di fango. I 150 movimenti franosi che si succedettero nell’arco di 10 ore, andarono ad interessare contemporaneamente una vasta area nei comuni di Sarno, Siano, Bracigliano e quindici tra le province di Salerno e Avellino. Ulteriori movimenti si verificarono ancora in diversi comuni delle province di Napoli, Caserta, Avellino e Salerno. Fu una catastrofe di proporzioni davvero inenarrabili. Si contarono 160 vittime, danni gravissimi alle strutture ed alle infrastrutture, nonché modifiche sostanziali addirittura alla stessa morfologia del territorio. Il decreto venne ad avviare una consistente filiera di provvedimenti normativi che, seppur con alterne vicende, anda- LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE rono a dotare l’Italia di “Piani per l’assetto idrogeologico” (PAI) basati sulla perimetrazione delle aree a pericolosità e rischio. Tale informazione, predisposta a cura delle Autorità di bacino e delle regioni e di conseguenza soggetta a un forte grado di eterogeneità metodologica, è stata recentemente riordinata a seguito della emanazione della Direttiva europea e dei relativi provvedimenti di recepimento. ISPRA, in tal senso, ha recentemente rilasciato il mosaico delle aree a pericolosità di alluvione sui tre scenari (pericolosità scarsa, media e elevata) in accordo con la Direttiva. Superficie [km2] Rispetto alla pianura Rispetto al territorio nazionale 31493,8 45,0% 10,5% 24357,9 34,8% 8,1% 12185,9 17,4% 4,0% Tabella 1. Estensione delle aree a pericolosità idraulica per le diverse classi L’Italia, come è noto, ha una estensione delle pianure di circa 70.000 km2 che non arriva al 25% della superficie complessiva del territorio. In tale numero, se vogliamo, è contenuta la sintesi del rapporto stretto tra il nostro paese e le catastrofi idrogeologiche. Dai dati della Tabella 1 si osserva come oltre il 17% di tali aree pianeggianti, è soggetto a pericolosità di alluvione molto elevata, riferita cioè a tempi di ritorno di decine di anni. Tale percentuale aumenta sensibilmente quando si considerano le classi di pericolosità media (34%) e scarsa (45%) riferita, quest’ultima, allo scenario catastrofico. Tali dati possono essere incrociati con quelli demografici prodotti da ISTAT dai quali si vede che i cittadini residenti nelle aree a pericolosità elevata sono poco meno di due milioni che triplicano considerando quelle a pericolosità media. Si tratta di numeri rilevanti purtroppo confermati dalla cronaca. Conviene tuttavia subito rimarcare che non sussiste ad oggi in Italia, nonostante numerose iniziative un sistema organico, aggiornato e certificato a livello nazionale per il la documentazione cronologica di tali eventi. Il progetto AVI, con il censimento delle Aree vulnerate italiane, appare non risulta ad oggi aggiornato. Ciò, oltre alle difficoltà dovute alla frammentazione delle informazioni, sono ascrivibili anche a una frequente indeterminatezza dei contorni degli eventi stessi. Se si escludono i fenomeni che danno luogo alla dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, per i quali sussiste una documentazione istruttoria dettagliata, le notizie dei dissesti si sbriciolano in una pluralità di definizioni cui è difficile venire a capo, seppure i nuovi strumenti di analisi semantica sembrano assai promettenti. In ogni caso, vista anche la natura fisica del nostro Paese, gli elementi causali del danno da forzante meteorologica, sono spesso plurimi e mescolano diversi elementi per quali inondazione, ristagno, colata detritica, frana e altro ancora, per cui è difficile una catalogazione ne senso tradizionale del termine. Se gli eventi maggiori tendono più spesso ad essere connotati con chiarezza, ricordiamo che l’Italia e, in particolare le zone costiere, sono soggette a violente tempeste mediterranee straordinariamente concentrate nello spazio e, sovente, anche nel tempo. Questi fenomeni pur determinando spesso danni e anche perdite di vite umane, sono talvolta registrati come “minori” anche se, complessivamente, sono responsabili di una quota parte non trascurabile del danno complessivo. L’AZIONE DI MITIGAZIONE, LINEE E TENDENZE Il nostro Paese ha sviluppato nel tempo diverse linee di azione per la mitigazione del rischio idrogeologico intese soprattutto come riduzione della pericolosità. Le politiche di gestione del rischio, intese come tutela dei beni non negoziabili e riduzione del danno, stanno avviandosi di recente, sulla scorta della emanazione della Direttiva europea del 2007. Il rischio è sostanzialmente dettato dalla contemporanea presenza di una minaccia e di un bene esposto. La sua gestione ha sostanzialmente tre leve a disposizione. La prima è quella la probabilità di accadimento dell’evento calamitoso, ad esempio della tracimazione delle opere di difesa fluviali. Questa probabilità può essere ridotta, quantomeno per quanto attiene alle grandi piene, soprattutto ricorrendo agli interventi strutturali quali, ad esempio, le casse di espansione, scolmatori, adeguamenti arginali. È bene ricordare che le opere strutturali, per quanto sacrosante, lasciano comunque un rischio residuo anche dettato da esigenze di sostenibilità economica, sociale e ambientale. In ogni caso non sono in grado di intercettare tutte le diverse tipologie di evento che vengono a cimentare il territorio e talvolta soffrono di carenze di funzionamento dovuti alla combinazione non lineare di diversi fattori causali. In definitiva non si può immaginare che le opere, da sole, possano costituire un sistema di difesa in grado di coprire l’intero spettro di eventualità determinate dalla forzante climatica, lasciando un esiguo margine di rischio confinato soltanto ad eventi rarissimi, estremi degli estremi. Quest’ultima osservazione, apparentemente ovvia, è invece difficile da percepire e mettere a fuoco, sia da parte dell’opinione pubblica e dei portatori di interessi, che dello stesso decisore politico, ambedue affascinati dall’ipotesi di una soluzione esclusivamente tecnologica in grado di assicurare la “messa in sicurezza” e la definitiva eradicazione dei problema. Esiste poi un ulteriore opzione di riduzione della pericolosità affidata alla manutenzione del territorio e alla conduzione agricola delle colture, soprattutto nei territori collinari. Tale azione può dare effetti molto rilevanti è intrinsecamente virtuosa e trova pure, nella modellazione idrologica, un valido supporto in grado di indirizzarne correttamente le modalità e predirne quantitativamente gli effetti. Trova tuttavia inspiegabili resistenze di tipo culturale sulle quali il pensiero ambientalista si è scontrato e si scontra tuttora con alterne vicende. La seconda tipologia di azione riguarda diminuzione del valore esposto è altresì il dominio della pianificazione territoriale, specialmente attraverso la regolazione urbanistica. Si 23 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA tratta una di attività assolutamente fondamentale e di ampio respiro, ma che offre generosi frutti sul medio periodo, anche per la necessità di concertazione e mediazione con i cittadini e i portatori di interessi. A partire dagli anni ’90, si è più volte parlato, in alcuni casi disinvoltamente, di delocalizzazione di edifici esposti in aree pericolose. Queste azioni, per lo più determinate da motivazioni di assoluto buon senso, rivelano sovente grandi complessità prime quelle di tipo giuridico, che ne rendono l’attuazione estremamente difficile. Il corretto governo del territorio ha trovato un valido alleato nelle norme dei PAI che, per la prima volta a partire dalla seconda metà degli anni 2000, hanno posto specifici vincoli sulle aree pericolose, basati su analisi tecniche coerenti, seppur portate a diversi livelli di approfondimento. La terza leva per la gestione del rischio, viene ad agire sulla vulnerabilità, e cioè sul tasso di perdita atteso di un bene esposto, in presenza di un evento calamitoso assegnato. Lo stesso bene, in presenza del medesimo evento, può difatti registrare livelli di danno molto diversi, a seconda di come è difeso alla scala locale. Si tratta di una linea di azione di straordinarie potenzialità che si estrinseca, a sua volta, su due diverse scale temporali. La prima è quella del cosiddetto “tempo differito”, lontano dall’emergenza e agisce attraverso modalità quali la comunicazione di buone norme di comportamento in caso di evento, la produzione di una regolamentazione edilizia che riduca la vulnerabilità degli edifici, la definizione di procedure da attuare in caso di allerta, ad esempio la chiusura al traffico dei sottopassi stradali. Azioni apparentemente minori, a fronte del potenziale distruttivo della calamità. Eppure in grado di salvare le vite e ridurre consistentemente l’impatto sul danno economico. La seconda linea di riduzione della vulnerabilità è quella della catena cosiddetta del “tempo reale” che vede i sistemi di previsione, allertamento, gestione e contrasto dell’evento in atto. Si tratta di un irrinunciabile pilastro del sistema di prevenzione che ha visto imponenti sviluppi nelle ultime decadi e che, su ciascuna delle componenti appena rammentate, può effettivamente fare la differenza. È confermato dai fatti che non esistano soluzioni univoche o preconfezionate. Non ci sono azioni miracolose che, apportate alla scala nazionale, anche nella più che ipotetica eventualità di disporre della piena volontà politica e di tutti i finanziamenti necessari, possano risolvere integralmente il problema, o anche riportarlo a termini fisiologici. Si tratta di una battaglia da combattere ogni giorno, in maniera sussidiaria, dalla scala del Governo nazionale, alle istituzioni locali, fino alla realtà di ogni singolo cittadino. Questioni come la consapevolezza dei rischi, la coesione sociale, la disponibilità a seguire le regole ed attivare le risorse della comunità quando è necessario, possono essere ricomprese come si è prima cennato, sotto il nome di “resilienza”. È l’attitudine di un gruppo sociale a difendersi dalle calamità e sopportarne l’impatto senza soccombere quando queste accadono. La sua presenza non è un dono, o una eventualità casuale ma una istanza da costruire giorno per giorno con 24 saggezza e lungimiranza, in una azione generale e di lungo periodo. La comunità resiliente saprà trasmettere ai propri rappresentanti politici le giuste scale di priorità, anche per la realizzazione delle opere, riconoscerà i valori della solidarietà e del volontariato come fondanti, reagirà con fiducia e tempestività agli stati di allerta, preparandosi nel modo corretto a reagire all’evento. BIBLIOGRAFIA The AVI project: A bibliographical and archive inventory of landslides and floods in Italy, Guzzetti F., Cardinali M. & Reichenbach P. (1994) - The AVI Project: A bibliographical and archive inventory of landslides and floods in Italy. Environmental Management, Vol. 18, 623-633. CNR-GNDCI - Catalogo delle informazioni sulle località italiane colpite da frane e inondazioni – (Progetto AVI), volume I e II, pubblicazione CNR-GNDCI n° 1799, 1998. Benedini M. & Gisotti G. - Il dissesto idrogeologico, Carocci editore, Roma (2000) APAT (2007) Rapporto sulle frane in Italia, Rapporti 78/2007, ISBN: 978-88-448-0310-0 Trigila A., Iadanza C. “Il Progetto IFFI - Metodologia, risultati e rapporti regionali” Rapporto sulle frane in Italia (APAT, Roma), 2007. Trigila A., Iadanza C., Landslides in Italy – Special Report 2008 (Rapporti ISPRA 83/2008, in English). AA.VV. – Conferenza Nazionale sul Rischio Idrogeologico. Prevenzione e Mitigazione del Rischio, Le Priorità per il Governo del Paese. 6 Febbraio 2013, Palazzo Rospigliosi, Roma. AA.VV. - Cosa non funziona nella difesa dal rischio idrogeologico nel nostro Paese? Analisi e rimedi. Riassunti, Accademia Nazionale dei Lincei. XII Giornata Mondiale dell’Acqua-Incontro- Dibattito, 23 Marzo 2012, Roma. ISPRA (2013) Annuario dei dati ambientali, Pub 47/2014, ISBN: 978-88-448-0662-0 DIRETTIVA 2007/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2007, Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 288 del 6/11/2007, relativa alla valutazione e alla gestione dei rischi di alluvioni. ISTAT - I conti economici territoriali dell’Italia, anni 1951-1969, Roma. ISTAT - I conti economici nazionali dell’Italia, anni 19512005, Roma. MATTM – Il rischio idrogeologico in Italia. Report, ottobre 2008. Roma Trigila A. (ed.) Rapporto sulle frane in Italia. Il Progetto IFFI – Metodologia, risultati e rapporti regionali, APAT, Rapporti 78/2007. ANCE CRESME (2012) LO STATO DEL TERRITORIO ITALIANO 2012 Insediamento e rischio sismico e idrogeologico Giovanni Menduni, (2013) Perché, le ragioni dei disastri e qualche idea per cambiare le cose, ISBN 9788867556168 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Le Frane: tra difficoltà interpretative e modifiche dell’ambiente antropizzato e del clima FRANCESCO M. GUADAGNO E PAOLA REVELLINO Dipartimento di Scienze e Tecnologie, Università degli Studi del Sannio L ASPETTI INTRODUTTIVI e frane costituiscono uno dei processi morfogenetici più rilevanti, non solo per la loro intrinseca pericolosità, ma anche per la loro incidenza nelle modifiche delle forme del rilievo terrestre. Esse si esplicano attraverso il distacco ed il movimento di masse lungo i versanti, con differenti meccanismi e velocità, che si depositano poi a quote più basse. In genere, i fenomeni franosi sono preceduti da periodi in cui si sviluppano azioni degradative che possono indurre variazioni nell’equilibrio dei corpi. Il fattore tempo diviene quindi centrale nelle definizioni circa i possibili scenari dell’evoluzione dei versanti. In questo processo fisico degradativo che coinvolge la superficie terrestre, la gravità è la forza principalmente coinvolta nell’attivazione dei fenomeni, anche se occasionalmente possono divenire determinati le sollecitazioni indotte di sismi o le forze di filtrazione di acque di circolazione sotterranea. Come in altre nazioni, anche in Italia è percezione diffusa che si stia verificando un incremento della frequenza e della magnitudo delle frane che inducono impatti sempre più significativi in termini di perdita di vite umane e danni infrastrutturali (Tab. 1, Salvati al., 2010). Tabella 1 - Eventi di frana che hanno prodotto morti, feriti e/o dispersi in Italia per differenti periodi (dati da Salvati et al., 2010) Frane 1850–1899 1900–1949 1950–2008 N° Totale di eventi 162 509 2204 Morti 614 1119 4077 - 8 26 49 406 2019 2185 11 026 177 376 Dispersi Feriti Evacuati e senza tetto La tendenza all’incremento degli eventi è generalmente associata alla sempre più estesa antropizzazione del territorio, ma anche agli effetti dei cosiddetti cambiamenti climatici ed, in particolare, a mutazioni del regime delle piogge. In effetti proprio l’Italia, per la sue peculiari caratteristiche geologiche e morfologiche, è una della aree a più elevata pericolosità da frana e, quindi, a più elevato rischio. Nella nostra nazione sono infatti avvenuti eventi paradigmatici che costituiscono case histories di rilevanza internazionale quali, ad esempio, quelli relativi alla tragedia del Vajont (Ghirotti e Semenza, 2000), ancora oggi oggetto di studi ed approfondimenti per definirne gli aspetti genetici ed i meccanismi di propagazione (cfr. Atti de International Conference Vajont 1963-2013) o quelli che hanno colpito l’area sarnese nel 1998 (Guadagno et al., 2005). In Italia, le attività del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile, del CNR-IRPI e dei Servizi Geologici regionali consentono di disporre di cataloghi storici che raccolgono informazioni su eventi di frana e sull’impatto che tali fenomeni hanno avuto sulla popolazione (ad es. Amanti et al., 2001; Guzzetti & Tonelli, 2004). Le informazioni contenute in questi database sono anche state di ausilio per la realizzazione di mappe di pericolosità da frana (ad es. Caniani et al., 2007; Mancini et al., 2010). Le attuali conoscenze (si veda ad esempio il Progetto IFFIInventario dei Fenomeni Franosi in Italia; APAT, 2007) evidenziano che circa il 10 % del territorio italiano è stato classificato a rischio elevato (Reichenbach et al., 1998), ma in molte aree appenniniche circa l’80% della superficie è stata coinvolta o può essere coinvolta in eventi franosi (Revellino et al., 2010). In effetti la diffusa e pervasiva presenza dei fenomeni di frana è ben documentata dalla figura 1, ove è riportato l’indice di franosità, che esprime l’incidenza della franosità sul territorio come rapporto tra le are instabili e quelle stabili. 25 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Figura 1 - Indice di franosità sul territorio nazionale (Fonte ISPRA) Queste condizioni di elevata suscettibilità, e quindi di rischio, hanno determinato numerosi eventi di frana (Tab. 1) che hanno causato migliaia di vittime colpendo circa 800 comuni. Le caratteristiche genetiche degli eventi di frana, legate a specifiche e locali condizioni predisponenti, inducono una diversa complessità di approccio rispetto ad altri rischi naturali, quali ad esempio quello vulcanico o sismico, sia per la definizione delle aree potenzialmente coinvolgibili sia per la gestione dei rischi associati. Infatti, le definite caratteristiche genetiche ed areali, nel caso della pericolosità vulcanica, e la oramai raggiunta definizione normativa di carte di pericolosità sismica, basate sulle ricostruzioni degli eventi del passato e su studi geologico-strutturali di dettaglio, rendono oggi certamente meno problematica la definizione di possibili indirizzi gestionali per la mitigazione dei rischi. Diversamente, nella definizione del rischio da frana, così 26 come anche in quello alluvionale, sono presenti riferimenti meno certi. Se è vero, infatti, che all’indomani dei già citati eventi franosi in Campania del 1998 si è dato finalmente corso in Italia alla stesura di cartografie di rischio da frana e di alluvionamento (PAI), la natura puntuale delle frane, nelle loro diverse caratteristiche di movimentazione delle masse, rende complessa la definizione della probabilità di accadimento a livello areale. A dimostrazione di ciò, alcune statistiche recenti (Fausto Guzzetti, comunicazione personale) rendono esplicite queste difficoltà, riportando, ad esempio, come una buona percentuale di vittime sono state coinvolte in eventi di frana avvenuti al di fuori di aree classificate a rischio. Proprio i convergenti effetti dell’uso del suolo e della variazione del regime delle piogge rendono non completamente adeguati, o addirittura inadeguati, molti studi di previsione delle frane, compresi i Piani di Assetto Idrogeologico (PAI) redatti in Italia negli ultimi decenni. Ciò, unitamente anche ai progressi scientifici prodotti sui modelli di evoluzione, alla possibilità di acquisire dati attraverso il monitoraggio in continuo, al miglioramento degli algoritmi per le analisi di stabilità e di simulazione cinematica disponibili, evidenzia la necessità di riesaminare l’intero quadro delle procedure di valutazione del rischio da frana in Italia. ASPETTI TERMINOLOGICI E CLASSIFICATIVI Le frane sono fenomeni naturali complessi, sebbene intuitivamente semplici nella loro esplicazione. Alcuni aspetti terminologici e classificativi necessitano di essere preliminarmente chiariti al fine di poter comprendere appieno tali processi evolutivi che coinvolgono l’interfaccia superficie terrestre-atmosfera. Essi, come tutti gli interfaccia tra mezzi a comportamento diverso, possono essere caratterizzati da LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE instabilità. La parola Frana derivata dal latino Frangere ed indica “il movimento di una massa di roccia sciolta o lapidea o di detrito lungo un pendio” (Cruden 1991). Una definizione più completa e descrittiva fu data da Coates del 1977, che evidenzia che per frana, in inglese landslide, si intende un “movimento controllato dalla gravità, superficiale o profondo, con velocità da lenta a rapida, ma non lentissima, che coinvolge i materiali costituente una massa, una porzione o un intero versante”. Questa definizione evidenzia come le frane costituiscano un insieme di fenomeni ove le condizioni locali, in termini di assetti geologico-strutturali, geomorfologici ed idrogeologici, il comportamento dei materiali geologici, sono alla base di differenziate modalità esplicative. Essendo fenomeni geneticamente e fisicamente complessi, a differenza di altre discipline per le quali sono d’uso robuste classificazioni tassonomiche, per le frane sussistono difficoltà classificative, anche indotte dalla non ripetitività dell’evento. L’adozione di parametri discriminanti diviene quindi fondamentale per la definizione di criteri classificativi. Tra questi sono considerati di riferimento il tipo di movimento e di materiali mobilizzati, l’assetto geostrutturale del versante, la velocità di spostamento oltre che le cause e i meccanismi d’innesco. Le figure 2 e 3 mostrano la classifica più frequentemente utilizzata prodotta da Varnes nel 1978 e successivamente rivisitata da Cruden e Varnes nel 1996. Figura 2- La classifica dei Movimenti di Versante di Varnes (1978) Figura 3 – Classifica delle instabilità di versante di Varnes (1978) tradotta da Carrara et al. (1986). 27 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Figura 4 - Classifica delle velocità degli eventi di frana (Cruden e Varnes, 1996) Come si po’ verificare, i meccanismi di distacco e movimentazione prevedono principalmente il crollo, il ribaltamento, lo scorrimento, ed il flusso, processi fisici che hanno caratteristiche esplicative assolutamente differenziate, caratterizzate peraltro da velocità di movimento anche profondamente diverse. Gli stessi meccanismi fisici, coinvolgendo sia masse rocciose sia rocce sciolte, possono essere caratterizzati da condizioni cinematiche e deformative anche molto diversificate. Le caratteristiche dimensionali non sono invece considerate un fattore di discriminazione, sebbene abbiano specifica importanza nelle definizione degli impatti. Proprio la velocità di movimento, unitamente alle volumetrie in gioco, è alla base della valutazione degli effetti sull’uomo e sulle infrastrutture. Come si può osservare nella figura 4, le velocità di spostamento possono variare dai pochi centimetri per anno a diverse decine di metri al secondo. A fenomeni molto lenti si contrappongono fenomenologie a carattere di flusso valanghivo che possono raggiungere velocità ben superiori a quelle della caduta dei gravi. Velocità superiori ai 3 m/s sono ritenute limite per la vita umana. In effetti per alcuni eventi sono state definite velocità pari o superiori ai 20 m/s come nel caso del Vajont (20-25 m/s) o di Sarno (15-20 m/s). Proprio per tenere in considerazione le possibili modalità esplicative degli eventi, ancora recentemente (Hungr et al 2001, Hungr e al. 2014) sono stati sviluppati approfondimenti per meglio caratterizzare alcuni aspetti cinematici. In tabella 2 è riportata una classificazione degli eventi di frana Tabella 2 - Classifica degli eventi di frana (da Varnes, 1978; Hutchinson, 1988; Cruden & Varnes, 1996; Hungr et al., 2001; Hungr et al., 2014; modificate) CROLLI FALLS Crollo di roccia (detrito, terra) – Rock/Debris/Earth Fall Crollo di roccia (detrito) - Rock (Debris) Fall RIBALTAMENTI TOPPLES Ribaltamento di roccia (detrito o terra) Rock/Debris/Earth topple Ribaltamento di roccia (detrito o terra) - Rock/Debris/Earth topple Ribaltamento flessurale - Rock Flexural Topple Scorrimento traslativo di roccia in blocco, di blocchi o di cunei Wedge) Rock Slide Scorrimento di roccia – Rock Slides Scorrimento rotazionale di roccia - Rotational Rock Slide(Slump) Scorrimento composito o rototraslativo di roccia - Compound SCORRIMENTI SLIDES Translational (or Rock Slide Collasso di roccia - Rock Collapse Scorrimento di detrito o terra – Soil Slides Scorrimento traslativo di detrito – Debris (Gravel, Talus, Sand) Slide Scorrimento rotazionale di terra - Clay (Earth , Debris) Slump (Rotational) Scorrimento composito o rototraslativo di terra – Compound Clay/Debris Slide Flusso di sabbia/ghiaia/detrito/limo asciutta - Dry Sand (Gravel, Debris, Silt) Flow Scivolamento per colata in sabbia/limo/detrito/roccia alterata - Sand (Silt, Debris, Weak Rock) Flow Slide FLUSSI FLOWS Flussi in materiali fini, granulari o rocciosi – Flows in fine-grained, granular or rock material Colata di argille sensitive - Clay Flow Slide Colata di terra – Earth Flow Colata di detrito - Debris Flow Colata di fango - Mud Flow Valanga di detrito - Debris Avalanche Valanga di roccia - Rock Avalanche ESPANSIONI LATERALI LATERAL SPREADS COMPESSI COMPLEX 28 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE scaturente dall’insieme delle definizioni oggi esistenti. Quanto emerge in modo evidente è la numerosità dei tipi di frana (circa 20) differenziabili per caratteristiche genetiche, esplicative o per i materiali coinvolti. Da ciò scaturiscono difficoltà interpretative che rendono spesso soggettive le attribuzioni tipologiche, in fase sia ricognitiva post-evento sia predittiva che forse è quella di maggiore interesse per la sicurezza delle popolazioni. A titolo di esempio è stato già richiamato il caso di Sarno. L’ancora oggi attuale rilevanza del caso, anche internazionale, è tale che nei successivi 15 anni diversi ambiti e centri di ricerca hanno prodotto oltre Figura 5 - Versante instabile a seguito delle modifiche geometriche indotte dal taglio 200 articoli scientifici su riviste internazionali. In effetti il confronto delle attribuzioni tipologiche (Guadagno et al., 2011) una falesia costiera o ad una ripa fluviale, non è un elemento dimostra come i diversi autori abbiano attribuito gli stessi morfologico stabile nel tempo. Terzaghi (1950) definì quali cause le modifiche nelle confenomeni a ben 8 tipologie differenziate. Ciò, da una parte, evidenzia la non stretta univocità dei criteri classificativi e, dizioni di stabilità dei corpi, sia esse interne sia esterne, indall’altra, le difficoltà interpretative basate su elementi rico- tendendo le variazioni indotte dagli agenti esogeni sul materiale costituente il pendio, nel primo caso, e sugli assetti struttivi. Le difficoltà nel determinare in specifici casi una tipolo- morfologici ed idrogeologici nel secondo. Le cause esterne, cioè quelle che non comportano variaziogia di fenomeno franoso diviene poi ancor più significativa quando si debbono definire gli scenari di frana in chiave ni nelle caratteristiche del materiale, inducono generalmente predittiva, riconoscendo quindi una possibile futura modalità un aumento degli sforzi di taglio; diversamente, le cause inesplicativa e definendo uno scenario di rischio. Il riconosci- terne inducono modifiche del materiale stesso che determimento della suscettibilità a franare di un determinato versan- nano un decremento delle resistenze dei materiali cosicché te è spesso basato solo su osservazioni, per cui l’esperienza una certa massa di terreno non è più stabile a parità di altre condizioni. Le cause esterne possono essere per esempio le dell’operatore diviene centrale. Ancor più di altri rischi naturali, lo studio degli accadi- modifiche morfologiche e geometriche del versante indotte menti del passato e la lettura del paesaggio geologico, costi- sia da un’evoluzione naturale per erosione al piede causata tuiscono la base della ricostruzione dell’evoluzione dei ver- da un fiume, sia da un taglio di pendio connesso alla costrusanti nel tempo e forniscono chiavi di lettura fondamentali zione di una strada o una casa. E’ quindi da evidenziare che tutti i materiali, sia essi natuper definire gli scenari di rischio. Per questi ultimi altra fondamentale conoscenza, e criterio discriminante, è costituita rali che antropici, sono soggetti ad alterazioni e decadimento delle proprietà. Conseguentemente i possibili cambiamenti dalle cause d’innesco delle instabilità. Vengono definite generalmente cause predisponenti spe- nel tempo delle proprietà fisico-meccaniche dei terreni e delcifici assetti geologico-strutturali, geologico-tecnici e mor- le rocce nonché degli stessi ammassi, possono determinare fologici che favoriscono quelle condizioni, quali la libertà significative riduzioni di resistenza che conducono alla incinematica, per lo sviluppo dei fenomeni. Innescanti sono stabilità dopo un certo tempo, sebbene apparentemente posinvece quelle cause che attivano nell’immediatezza gli stes- sa sembrare che nulla sia mutato. Se i comportamenti nel si. In effetti gli eventi franosi sono nella gran parte dei casi tempo dei materiali costituenti le strutture ingegneristiche innescati da eventi meteorologici caratterizzati da specifiche sono sufficientemente conosciuti e riconoscibili, quelli dei caratteristiche in termini di intensità e durata o da eventi si- materiali geologici sono spesso misconosciuti o parzialmente stimabili. Tali evoluzioni sono particolarmente sensibili smici. E’ però da sottolineare che, nel suo insieme costitutivo, un negli ammassi rocciosi argillosi ove le stesse caratteristiche versante, montuoso o collinare o ancora corrispondente ad minero-petrografiche favoriscono anche accelerate variazio29 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA ni dello stato fisico e, quindi, dei comportamenti dei materiali. Si è già detto come le modifiche geometriche lungo un versante possano essere causa predisponente degli eventi di frana. La figura 5 ne fornisce un esempio didascalico. Da ciò ne consegue la necessità che ogni variazione sul versante vada attentamente valutata in quanto può indurre significative variazione nella stabilità delle masse nonché nella circolazione idrica lungo il versante. Il già più volte richiamato caso di Sarno diviene a riguardo esemplare. I movimenti iniziali, classificabili quali “Valanghe di detriti”, sono stati favoriti dalla Figura 6 - Ricorrenza dell’assetto morfologico individuato nelle aree di innesco degli eventi di Sarno, Quindici, Siano e Bracigliano del 1998: A) Meccanismo d’innesco in corrispondenza di una scarpata naturale; B) presenza di una fitta rete di percorMeccanismi d’innesco in corrispondenza di un taglio antropico; C) Meccanismo d’innesco in seguito a crollo (da Guadagno e Revellino, 2005, modificata). si di risalita dei versanti a supporto delle attività agricolo-forestali. La figura 6 evidenzia le percentuali degli assetti ricorrenti nelle circa 170 zone apicali d’innesco FENOMENI DI FRANA IN ITALIA degli eventi di frana. Nei paragrafi precedenti si è detto dell’elevata frequenza La preponderanza delle instabilità associate alla presenza di tagli nelle coltri superficiali di natura piroclastica evi- spaziale e temporale degli eventi di frana in Italia, anche indenzia come di fatto gli eventi possano essere definiti quali dotta dagli assetti geostrutturali e morfologici. Per illustrare antropogenetici. In questo caso, masse di alcuni metri cubi un quadro delle complessità, nel seguito sono raccolte una hanno coinvolto ed attivato migliaia di metri cubi di mate- serie di immagini di eventi (fig. 7- 21) che hanno, in diverse riali presenti lungo i versanti e i fossi incidenti con un tipico epoche, colpito varie località e che richiamano le differenti tipologie e la pervasività della problematica. effetto a valanga. Figura 7 - La frana del Vajont del 9 ottobre 1963 in una foto di Edoardo Semenza (foto da Masè et al., 2004). Classificabile come uno scorrimento di roccia (rock slide), la frana collassò dal Monte Toc all’interno dell’invaso artificiale prodotto dalla costruzione di una diga lungo la valle del torrente Vajont generando un’onda d’acqua che si elevò al di sopra del corpo diga inondando alcuni abitati a valle provocando la morte di circa 2000 persone (Semenza e Ghirotti, 2000). 30 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Figura 8 – Frana della Val Pola (Alpi Centrali) del 28 luglio 1987 (foto da Crosta et al., 2004). Classificabile come valanga di roccia (rock avalanche), la frana provocò la perdita di 27 vite umane (Govi, 1989). Figura 9 – Una delle frane prodotte a seguito del terremoto del 5-6 febbraio 1783 in Calabria e che ha sbarrato il corso della Fiumara Boscaino, dando luogo al lago di Cumi (da Cotecchia et al., 1969) 31 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA sempre maggiore richiesta di metodi previsionali. Per quanto è stato in precedenza illustrato, predire una frana, nelle sue modalità di esplicazione cinematiche nonché Non vi è dubbio che il rischio da frana ha un impatto cre- temporali, non è cosa semplice. I modelli predittivi necesscente sulla società italiana. Recenti evidenze dimostrano sitano del riconoscimento del processo geologico alla base come in Italia, sussista il più elevato numero di morti per fra- della instabilità, spesso non facilmente definibile a priori. na in Europa e, dopo il Giappone, tra i più elevati rischii da Ciò diviene ancora più complesso quando da un livello di frana nel mondo. Di conseguenza vi è una crescente richiesta analisi locale si passa ad un livello areale. di sicurezza, di cui anche i recenti piani di intervento goE’ proprio per queste ragioni che si preferisce definire nelvernativo ne costituiscono una evidenza (www.italiasicura. le cartografie tematiche le aree suscettibili ad essere coingoverno.it), che comunque determinano la necessità di una volte da eventi di frana, nelle varie tipologie. La previsione temporale è di fatto connessa, tranne in alcuni specifici casi, alla probabilità di accadimento di eventi scatenanti che, come in precedenza ricordato sono quelli piovosi o forti sismi. Allo stato attuale è possibile affermare che in Italia si ha una buona conoscenza delle aree suscettibili. Il lavoro svolto nell’ambito delle attività delle Autorità di Bacino, consente di disporre di cartografie di pericolosità, che, sebbene in modo non omogeneo per il territorio nazionale, forniscono una quadro esaustivo della franosità in ogni Regione. E’ però da evidenziare che queste cartografie hanno uno scopo preminente pianificatorio e, quindi, sostanzialmente sono vincolistiche nei riguardi delle attività costruttive. Se diversamente consideriamo la vita umana, quale bene da salvaguardare prioritariamente attraverso azioni di mitigazione ma anche il Figura 10 – Scorrimenti e flussi a cinematica veloce innescati a seguito del terremoto di costruito, ed in particolare quello relativo alle Casamicciola che colpì l’isola d’Ischia il 28 luglio 1883 (da Cubellis e Luongo, 1998). infrastrutture, alle life-lines o ai centri abitati, si ritiene che solo in alcuni casi sussistano le necessarie definizioni di dettaglio dei rischi. Questi si determinano, in particolare, nelle aree che possono essere coinvolte da quegli eventi di frana a cosiddetta “cinematica veloce” che, quindi, si esplicano con velocità dei metri secondo. Proprio sulla base del complesso delle definizioni contenute nei Piani di bacino nonché dei continui miglioramenti delle conoscenze disponibili, appare oggi necessario procedere ad una analisi ragionata e di dettaglio per porre in evidenza situazioni di gravità, locali o areali, su cui sono necessarie attività di mitigazione, sia esse con interventi fisici sia esse attraverso piani gestionali. I continui accadimenti di eventi luttuosi pone in luce come le attuali cartografie, non specificamente indirizzate alla salvaFigura 11 - Rappresentazione cartografica della colata di terra denominata “Santo Ianni” (San Giorgio la Molara, Benevento), relativa all’area di canale e accumulo, a cura dell’Ing. Marchese a guardia della vita umana, costituiscano solo seguito del terremoto del 1805 (Archivio di Stato di Napoli). In occasione del sisma, il piede della delle documentazioni di riferimento generale. frana occupò l’alveo del Fiume Tammaro inducendo un temporaneo parziale sbarramento del fiume stesso. Nella planimetria tecnica, probabilmente una delle prime al mondo, sono indicati In effetti sarebbe necessario che ogni regione gli effetti al suolo prodotti, in termini di spostamento dei manufatti, nonché le dimensioni del corpo di frana. Sulla base delle misure dell’epoca, le parti relative all’area di canale ed al cumulo e comune disponga della conoscenza di quelle risultavano avere una lunghezza totale di circa 3545 m (1922 passi) e una larghezza massima aree ove, il determinarsi di fenomeni veloci e di circa 1470 m (800 passi), e presentavano, al loro interno, numerose fessure longitudinali e trasversali al versante (da Guadagno et al., 2006). distruttivi possa incidere sulle popolazioni sia PROBLEMATICITÀ NELLA GESTIONE DEL RISCHIO DA FRANA IN ITALIA 32 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Figura 12 – Mappa dell’area interessata dalla grande frana di Ancona del 13 dicembre 1982. Il movimento, di cui ci sono notizie già dai tempi dei Romani, ha avuto il suo momento più disastroso nel 1982 quando durante la sua movimentazione distrusse circa 300 edifici, danneggiando la ferrovia e la strada costiera per un tratto di circa 2,5 km (Cotecchia, 2006) in modo diretto sia coinvolgendo infrastrutture vitali. La co- http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/piani_di_emernoscenza di situazioni di particolare rischio consentirebbe genza_comuna.wp;jsessionid=B122F758DAC692C281DB anche di definire quelle che sono le priorità per la mitigazio- FFF2CC42E573). Senza efficienti piani di protezione civile, viene di fatto ne da attuare attraverso interventi di prevenzione e quindi, per meglio utilizzare le risorse disponibili. In effetti la conoscenza delle aree di particolare rischio, dovrebbe essere contenuta anche in quelli che sono i cosiddetti “Piani di Protezione Civile”. Recenti avvenimenti emergenziali evidenziano che una delle problematiche associate nella gestione dei rischi di frana sia quella relativa ai “Piani Comunali di Protezione Civile”. Se questi fossero opportunamente realizzati ed attuati anche negli aspetti comunicativi, tenendo in considerazione quanto prima indicato, costituirebbero un effettivo contributo alla mitigazione dei rischi, in quanto fornirebbero essenziali elementi di conoscenza. Purtroppo oggi i piani sono spesso assenti o non calibrati alle reali situazioni di rischio e quindi carenti o, ancora, inattuati, come anche le Figura 13 –Scorrimento rotazionale del 25 dicembre 1976 che ha interessato la Valle dei Templi cronache riportano (a riguardo consultare il sito ad Agrigento (da Cotecchia et al., 1995). 33 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Figura 14 – Le catastrofiche colate e valanghe detritiche avvenute a Sarno-Episcopio (Campania) il 5-6 maggio 1998. Negli stessi giorni, l’intera dorsale di Pizzo d’Alvano è stata interessata da eventi di frana analoghi ed a risultare colpiti sono stati altre a Sarno, anche i centri abitati di Quindici, Siano e Bracigliano con circa 160 morti in totale (Del Prete et al.,1998, Guadagno e Revellino, 2005). Figura 15 – Arre di distacco dei flussi che hanno interessato il versante a monte di Giampilieri (Messina) in 1° ottobre 2009 (foto G. Scarascia Mugnozza). 34 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Scenari di forti terremoti in aree appenniniche suscettibili meno anche il possibile ruolo attivo degli amministratori e, soprattutto, della popolazione in quanto non sarà presente ad eventi di frana ma oggi fortemente antropizzate rispetto al la necessaria consapevolezza dei rischi del territorio in cui passato, evidenziano la possibilità di significative forti incisi vive. La comunicazione di norme comportamentali sia in denze ed amplificazione delle possibili conseguenze. fase di emergenza sia in “tempo di pace” può essere quindi CONCLUSIONI determinante per indurre comportamenti adeguati. Ciò anche perché, nell’ambito del rischio da frana, che La crescente urbanizzazione del territorio Italia, ma anche come visto è pervasivamente presente in molte regioni italiane, non è attuabile l’opzione zero-rischio. Diversamente il progressivo abbandono di attività agricole e forestali, posdeve essere definito un rischio accettabile per la comunità di sono indurre un significativo incremento della suscettività a franare del territorio collinare e montuoso italiano, già fragicui però la stessa dovrà essere consapevole. La consapevolezza di vivere in territori difficili deve esser le per assetti geologici. Le modifiche del regime delle piogquindi una delle basi per evitare che l’antropizzazione del ge, ha incrementato in molte aree, la frequenza di fenomeni territorio, che spesso avviene in modo illegale, possa indurre di frana anche con conseguenze particolarmente gravi sia per incrementi della suscettibilità e, quindi, della pericolosità. In le popolazioni che per le infrastrutture. effetti, la pericolosità da frana dei territori, a differenza di altri rischi naturali (sismico e vulcanico), può essere significativamente incrementata dagli interventi lungo i versanti che non tengano in considerazione il generale fragile assetto, ed i comportamenti delle masse. Variazioni morfo-topografiche come quelle illustrate, variazioni nell’assetto idrogeologico e degli scorrimenti delle acque in superficie possono essere quindi determinanti per indurre quelle condizioni di suscettibilità su versanti che naturalmente potevano essere definibili quali stabili. Un ulteriore importante problematicità è quella relativa all’impatto dei cambiamenti climatici. Variazioni in intensità delle precipitazioni, incremento della frequenza degli eventi estremi, possono essere fattori determinanti nell’innesco di eventi anche in aree che nel recente passato non sono state coinvolte in situazioni di frana. Ciò determina la necessita di valutazioni degli scenari di rischio alla luce della attesa estremizzazione degli eventi meteorologici. In ultimo, e come più volte accennato, gli 16 – Scarpata principale dello scorrimento rotazionale che interessa l’abitato di Pisticci eventi di frana possono costituire un importante Figura (Italia meridionale): A) 1984; B) 1978 effetto associato alle azioni sismiche di forti terremoti. E’ questo un capitolo di particolare significatività. Come evidenziato anche attraverso il terremoto delle Calabrie del 1783 ma anche come ben documentato per altri sismi, terremoti ad elevata magnitudo possono attivare o riattivare, in areale più o meno esteso, instabilità di versante in modo anche diffuso. E’ questo un tema di particolare significato ed, in molti casi, di difficile definizione preventiva. Certe sono le possibili conseguenze, come il terremoto del Sichuan del 2008 o quello recentissimo del Nepal dimostrano. Oltre i danni diretti, possono determinarsi importanti ricadute sulle infrastrutture lineari, quali strade e ferrovie, fondamentali per Figura 17 – Scorrimento roto-traslativo evolvente a flusso (Maierato, Vibo Valentia) del febbraio 2010 (foto http://www.irpi.cnr.it/progetti/iano-maierato-3862/) apporto dei soccorsi. 35 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Figura 18 – La frana di Craco (Basilicata; Del Prete M. e Petley D.J., 1982): resti del muro ad archi costruito nel 1888 (foto da Bentivenga et al., 2004). Figura 19 - Immagine obliqua da elicottero della frana di Montaguto (Avellino) del 27 aprile 2006. In primo piano l’area di alimentazione, sullo sfondo l’area di canale e di accumulo. L’evento franoso ha una lunghezza di circa 3000 m. Nel corso degli ultimi 7 anni, la frana di Montaguto ha visto due importanti riattivazione: 1) nell’aprile del 2006, quando il materiali mobilitati verso valle hanno coinvolto la SS 90 delle Puglie e danneggiato alcuni edifici; 2) nel marzo del 2010, in cui un’altra riattivazione ha raggiunto i binari della linea ferroviaria Benevento-Foggia”, a valle della SS 90. (Foto F. Guadagno) 36 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE E’ quindi necessaria una politica di prevenzione, che oltre a prevedere misure fisiche di controllo delle instabilità, in primis per quelle situazioni che sono di rischio per la vita umana, consenta una diffusione della consapevolezza della pericolosità di molti territori. La consapevolezza dei rischi basata su scenari, purtroppo per molte aree non ancora disponibili, è quindi elemento fondamentale che dovrebbe guidare gli amministratori ed i tecnici verso analisi di priorità d’intervento e pianificazioni corrette, e le popolazioni verso comportamenti compatibili con una realtà geologica fragile. BIBLIOGRAFIA Figura 20- Veduta area della frana di Senise (Potenza) del 26 luglio 1986 che causò la distruzione di numerose abitazioni e la morte di otto persone (da Del Prete e Hutchinson, 1988). L’innesco della frana, a carattere prevalentemente traslativo, fu condizionato da modifiche antropiche e sbancamenti alla base del pendio eseguiti per la realizzazione di alcuni edifici. Amanti, M., Bertolini, G., & Ramasco, M. (2001). The Italian landslides inventory–IFFI Project. In Proceedings of III Simposio Panamericano de deslizamientos (pp. 1-2). 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In poche parole, la maggior parte degli eventi pericolosi naturali di carattere geologico (dai rischi specificatamente legati ai diversi processi vulcanici, fino a quelli relativi all’attività sismica, a frane, tsunami, rilascio improvviso di gas, etc.) sono compresi nel novero delle tipologie di rischio legate ad attività vulcanica. Se questo rende complessa da un lato la stima della pericolosità vulcanica, per lo stesso motivo la finalizzazione degli studi di vulcanologia classica a questo obiettivo rappresenta un elemento fortemente stimolante per la maggior parte dei vulcanologi. Parlare di rischio vulcanico relativamente alla situazione italiana è poi senza dubbio una impresa ardua, sia a causa dell’elevato numero di vulcani attivi presenti sul territorio italiano, che della estrema variabilità in termini di stili eruttivi, e quindi di rischi connessi, che essi mostrano. Nondimeno, le buone conoscenze di base disponibili per le diverse aree vulcaniche, frutto di anni di studio da parte soprattutto della comunità vulcanologica italiana, permettono di tracciare un quadro abbastanza esaustivo della situazione attuale. Scopo di questo articolo è quello di fare un breve riassunto della evoluzione geologica delle principali aree vulcaniche italiane, indicandone anche le principali fenomenologie eruttive attese ed i pericoli ad esse connesse. Tali fattori di pericolo saranno poi descritti in generale, indicandone le modalità di definizione e di mappatura generalmente in uso, indicando alcuni esempi di applicazione ai vulcani italiani. I VULCANI ATTIVI ITALIANI L’assetto attuale dell’area mediterranea è essenzialmente il risultato della subduzione della placca africana sotto quella eurasiatica, un processo caratterizzato da interazioni relativamente complesse tra processi orogenici e diffusa tettonica distensiva. Questo assetto, e la sua evoluzione attuale, sono responsabili delle intense attività sismica e vulcanica che caratterizzano l’intera area. Il Mediterraneo Occidentale, in particolare, è costituito da una serie di bacini marini formatisi a partire dall’Oligocene, progressivamente più giovani progredendo verso sudest, e caratterizzati da considerevoli assottigliamenti della litosfera continentale (Fossa di Valencia, mari di Alboran, Ligure e Tirreno Settentrionale) fino alla sua lacerazione e all’inizio di fenomeni di espansione (Bacino Provenzale e Tirreno Meridionale). La formazione di questi bacini è stata coeva con il corrugamento delle diverse catene montuose circostanti: la cordigliera Rif-Betica, le Magrebidi dell’Africa Settentrionale e della Sicilia, gli Appennini, le Alpi, le Dinaridi e le Ellenidi. L’area italiana in particolare, al centro di questo complesso puzzle, è stata sempre il luogo preferenziale di una forte attività vulcanica. Attualmente, possono essere definite attivi diversi settori, corrispondenti a situazioni geodinamiche diverse, e dei più importanti dei quali parleremo più in dettaglio nel seguito: - l’area campana, comprendente la Piana Campana ed il corrispondente offshore, con tre centri vulcanici principali: - i Campi Flegrei, la cui ultima eruzione è avvenuta nel 1538 dC, formando il cono del Monte Nuovo; - il Somma-Vesuvio, inattivo soltanto dal 1944; - l’isola di Ischia, la cui ultima attività, nel 1302 dC, si è concentrata nel piccolo centro eruttivo di Monte Arso. Una importante peculiarità, in termini di rischi conseguenti, di tutta l’area campana è la sua altissima densità abitativa, che unitamente alle tipologie eruttive che nel passato hanno caratterizzato i tre diversi vulcani, fanno di quest’area una tra quelle esposte a più alto rischio vulcanico al mondo. - l’arco eoliano e la sua estensione nella piana abissale tirrenica. Fanno parte di questo numerosi centri ed isole vulcaniche, tra le quali: - Stromboli, con la sua attività persistente, almeno negli ultimi 2 millenni; 39 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA - Lipari, con almeno una eruzione nel periodo storico dal Monte Pilato, nella sua parte nord-orientale; - Vulcano, la cui ultima eruzione si prolungò a partire dal 1888 fino al 1890. Particolarità di questa area vulcanica è la forte vocazione turistica, che fa oscillare di almeno un ordine di grandezza il numero dei residenti nella aree più prossime agli apparati vulcanici, con conseguente variazione del rischio atteso nei diversi periodi dell’anno. - Il monte Etna, il più grande vulcano subaereo europeo, in attività pressoché persistente, e per il quale la presenza di una elevato numero di centri abitati sulle sue pendici unita alla grande vocazione turistica, possono rappresentare elementi di incremento del rischio anche in presenza di attività di per sé non di elevata pericolosità. Oltre a queste, deve essere considerata attiva anche tutta l’area del Canale di Sicilia, dove sporadiche eruzioni sottomarine sono avvenute nel 1831 (Ferdinandea/Graham), nel 1891 (offshore di Pantelleria) e (forse) nel 1911. Inoltre, soprattutto in base alla presenza di una importante attività esalativa di CO2 e di una frequente attività sismica, è attualmente considerata potenzialmente attiva anche l’area dei Colli Albani, immediatamente a sud di Roma. L’area campana I vulcani della Campania sono da mettere in relazione a sistemi di faglie verticali e subverticali con due andamenti principali, Nordovest-Sudest, “Appenninico”, e NordestSudovest, “Antiappenninico”, generati dall’apertura, iniziata nel Miocene, della Piana Abissale del Tirreno e dalla rotazione antioraria della penisola italiana. In Campania una tale situazione ha portato alla formazione di una depressione strutturale allungata in direzione NO-SE che, colmata da depositi sedimentari e vulcanici plio-quaternari, costituisce oggi la Piana Campana. Sul margine tirrenico della piana, in prossimità delle terminazioni settentrionale e meridionale, si sono create e persistono le condizioni idonee alla risalita di magma e alla formazione di vulcani. I Campi Flegrei I Campi Flegrei costituiscono un’ampia struttura calderica risorgente formatasi in conseguenza delle due maggiori eruzioni verificatesi in Italia nel corso del Quaternario: l’Ignimbrite Campana (“IC”) e il Tufo Giallo Napoletano (“TGN”) rispettivamente avvenute circa 39 e 15 ka fa. Tradizionalmente la storia eruttiva dei campi Flegrei è divisa in tre “Periodi”: I Periodo Flegreo: l’inizio dell’attività risale a non meno di 50-60 ka, età delle rocce vulcaniche più antiche affioranti. Almeno 11 eruzioni esplosive e 5 effusive sono avvenute prima dell’eruzione dell’IC. Nel corso dell’eruzione dell’IC (39 ka) furono emessi circa 200 km3 di magma trachitico, prevalentemente sotto forma di colate piroclastiche, e il con40 seguente collasso strutturale portò alla formazione di una caldera di almeno 150 km2. L’eruzione ebbe certamente un impatto tremendo sul territorio, tanto che alcuni studiosi hanno suggerito un possibile rapporto con la transizione culturale da Paleolitico Medio a Paleolitico Superiore, con il rapido affermarsi dell’Homo Sapiens moderno sui Neanderthal. II Periodo Flegreo: tra 39 e 15 ka anni un’intensa attività vulcanica si sviluppò nell’interno, parzialmente sommerso, della caldera, dove sono stati identificati una decina di edifici vulcanici. Circa 15.000 anni fa avvenne l’eruzione del TGN, nel corso della quale furono emessi, prevalentemente come colate piroclastiche, 40 km3 di magma. Anche in questo caso l’eruzione fu accompagnata da un collasso calderico (oltre 50 km2), all’interno della caldera dell’IC. III Periodo Flegreo: negli ultimi 15 ka anni sono avvenute non meno di 61 eruzioni da bocche diverse, spesso monogeniche, tutte all’interno della caldera e concentrate in tre “Epoche”, periodi di intensa attività separati da lunghe quiescenze. Si è trattato per lo più di eruzioni esplosive, di magnitudo molto variabile e generalmente caratterizzate dall’alternarsi di fasi magmatiche e freatomagmatiche. Nel corso di ciascuna Epoca il tempo intercorso tra due successive eruzioni è stato in media di soli 60 anni. Delle 37 eruzioni esplosive riconosciute nella Prima Epoca, tra 12 e 9,5 ka, solo una, quella cosiddetta delle “Pomici Principali” (10,3 ka), ha avuto magnitudo rilevante. La Seconda Epoca (8,68,2 ka) generò 6 eruzioni, tutte esplosive e di magnitudo modesta. Nella Terza Epoca (4,8-3,8 ka) si sono verificate una ventina di eruzioni, quattro delle quali effusive. Il solo evento di magnitudo elevata può essere considerato l’eruzione di Agnano Monte Spina, avvenuto 4.100 anni fa. I primi due periodi di quiescenza sono durati 1.000 e 3.500 anni rispettivamente, mentre l’ultimo, iniziato circa 3.800 anni or sono, è stato interrotto nel 1538 dall’eruzione esplosiva, di moderata intensità, che portò alla formazione del Monte Nuovo, finora l’ultima dei Campi Flegrei. La struttura calderica ha esercitato un forte controllo sul vulcanismo dei Campi Flegrei. La posizione dei centri eruttivi e l’alternarsi di periodi di attività e di quiescenza durante il III Periodo sono stati condizionati dal collasso della caldera del TGN e dal successivo sollevamento della sua porzione centrale, tuttora in corso. Durante la I e la II Epoca il magma, risalito lungo le fratture bordiere della caldera del TGN, eruttò attraverso apparati per lo più monogenici che oggi formano una corona circolare discontinua che ripete quasi perfettamente la geometria della caldera TGN. Tra la II e la III Epoca la parte centrale della caldera (blocco de “La Starza”), che a più riprese aveva alternato periodi di emersione con episodi di subsidenza ed ingresso di acque marine, emerse definitivamente. Il sollevamento complessivo è stato di circa 90 m. Durante la III Epoca il magma è stato capace di raggiungere la superficie quasi esclusivamente lungo le fratture aperte nel blocco in sollevamento. Numerose crisi di sollevamento e abbassamento del suolo (bradisismo) si sono succedute fino al periodo attuale, accompagnate da importanti variazioni sia dell’attività esalativa che di quella sismica. Tale situazione di LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Fig. 1 Elaborazione 3D dell’area dei Campi Flegrei (a cura del Laboratorio di Geomatica e Cartografia dell’INGV; http://ipf.ov.ingv.it) unrest è tuttora in corso. La caratteristiche della caldera e la sua storia eruttiva suggeriscono chiaramente che una delle principali variabili in gioco in una eventuale ripresa futura dell’attività eruttiva ai Campi Flegrei è sicuramente rappresentata dalla posizione della bocca eruttiva. Tutta l’attività passata, ed in particolare quella ormai ben studiata relativa agli ultimi 15 ka, è stata caratterizzata da un continuo spostamento dei centri eruttivi da una eruzione all’altra, con la formazione di numerosi centri monogenetici o di centri complessi nei quali l’attività si è concentrata principalmente lungo fratture, lungo le quali si è spostata nel tempo la bocca eruttiva. In questo caso diventa così di primaria importanza definire la pericolosità vulcanica tenendo conto non solo delle variabili relative alla tipologia eruttiva di un possibile evento futuro (in termini di intensità, possibile scenario eruttivo, volume di magma eruttabile, etc.), ma anche appunto della probabilità di apertura di una bocca nelle varie aree all’interno della caldera. Una forte schematizzazione delle tipologie eruttive flegree è stata proposta negli anni passati, con tre tipologie di eventi possibili di riferimento corrispondenti ad eruzioni esplosive di intensità e volume crescente, oltre ad una caratterizzata da messa in posto di colate viscose o duomi. In ciascuno di questi eventi “di riferimento” le principali (da un punto di vista della pericolosità) tipologie di attività eruttiva sono rappresentate sia dalla caduta di lapilli e ceneri, che dallo scorrimento di flussi piroclastici. La principale differenza tra i vari eventi risiede nella sostanziale differenza dell’areale interessato dai fenomeni eruttivi. Isola d’Ischia Le isole d’Ischia e di Procida rappresentano le porzioni emerse di un grande sistema vulcanico che si estende su una superficie di circa 600 km2 tra Capo Miseno e i rilievi vulcanici sommersi presenti in off shore fino a quasi quaranta chilometri a Ovest di Ischia. L’area comprende apparati di dimensioni assai variabili, da modesti rilievi, probabilmente monogenici, ad ampie caldere legate a grandi eruzioni esplosive. Molti dei depositi affioranti sono il risultato di eruzioni esplosive di centri sottomarini. Ischia è quasi esclusivamente costituita da rocce vulcaniche sia effusive (duomi e colate di lava viscosa) che esplosive (depositi piroclastici e relativi rimaneggiamenti). Le rocce più antiche hanno un’età superiore ai 150 ka e costituiscono i resti di un edificio vulcanico nel settore sud-orientale dell’isola. Tra 150 e 170 ka, l’attività è caratterizzata dalla formazione di duomi lavici e moderata attività esplosiva di cui rimangono scarsi depositi piroclastici trachitici. Dopo un periodo di quiescenza di quasi 20.000 anni, ed una fase intorno a 100 ka di forte attività esplosiva, l’attività rimane molto ridotta fino a circa 73 ka. I depositi piroclastici emessi tra 73 ka e 56 ka sono il risultato di almeno dieci eruzioni esplosive 41 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA di magnitudo elevata, tra cui alcune eruzioni pliniane a cui si deve l’inizio della formazione della caldera di Ischia, che si concluderà con l’emissione del Tufo Verde dell’Epomeo (56 ka). A partire da questa eruzione l’attività dell’isola è stata caratterizzata dall’alternarsi di periodi di risorgenza della parte centrale della caldera (che negli ultimi 30000 anni si è sollevata fino a raggiungere gli attuali 789 m slm), intensa attività e quiescenza. La storia vulcanologica dell’isola successiva all’eruzione del Tufo Verde dell’Epomeo viene tradizionalmente divisa in tre periodi di attività; intorno a 10 ka (inizio del III Periodo) il vulcanismo si concentrò nella porzione orientale di Ischia ove si erano generate faglie normali in risposta al regime di stress distensivo indotto dalla risorgenza dell’Epomeo. Più tardi, circa 6.000 anni fa, l’attività vulcanica si estese anche all’angolo nordoccidentale dell’isola, al di fuori dell’area in sollevamento. Dopo una fase di sostanziale quiescenza (tra 5,5 e 2,9 ka) l’attività riprese vigorosa (35 diverse eruzioni riconosciute) fino al 1.302 d.C., anno dell’ultima eruzione a Ischia. Le eruzioni furono ora effusive e ora esplosive, e produssero colate di lava e depositi piroclastici da caduta e da flusso di composizione prevalentemente trachitica. Gli edifici vulcanici sono duomi lavici, coni di pomici, coni di scorie e coni di tufo. In risposta all’intensa attività deformativa, l’isola è stata inoltre interessata numerosi episodi di frane e collassi gravitativi, alcuni dei quali responsabili dell’innesco di importanti eventi di tsunami. Questa tipologia di attività, insieme alla possibilità di eruzioni di piccola-media intensità caratterizzate da dinamiche sia esplosive (caduta di ceneri, minori flussi piroclastici) sia effusive, rappresentano allo stato attuale le più probabili fonti di pericolosità vulcanica legata ad una eventuale riattivazione. Somma-Vesuvio Il complesso vulcanico Somma – Vesuvio è costituito da un vulcano più vecchio squarciato da una caldera sommitale, il Monte Somma, e da un cono più recente, il Vesuvio (Gran Cono), cresciuto all’interno della caldera dopo l’eruzione “di Pompei” del 79 d.C. La stratigrafia di pozzi profondi mostra che i prodotti più antichi del Somma-Vesuvio coprono i depositi dell’Ignimbrite Campana e, di conseguenza, sono più recenti di 39 ka. Il volume totale di prodotti emessi nell’arco dell’esistenza del vulcano può essere grossolanamente stimato a 100-150 km3. Nel corso della sua storia eruttiva il Somma-Vesuvio è stato caratterizzato da una grande variabilità sia dello stile eruttivo che della composizione dei prodotti emessi. Fino ad oggi i dati disponibili hanno permesso una ricostruzione abbastanza affidabile della storia del vulcano soltanto per gli ultimi 22.000 anni. In questo lasso di tempo sono stati riconosciuti i depositi di una quarantina di eruzioni esplosive che, nel periodo successivo all’eruzione del 79 d.C., si sono interstratificate con colate laviche e con i depositi di alcune delle principali eruzioni Flegree. Gli eventi principali sono rappresentati da quattro eruzioni pliniane: “Pomici di Base” (età radiocarbonio calibrata di. 22 ka BP), “Pomici di Mercato” (9,0 ka BP), “Pomici di Avellino” (4,4 42 ka BP) e “Pomici di Pompei” del 79 d.C.. I depositi di queste eruzioni (soprattutto i livelli pomicei di caduta) costituiscono marker stratigrafici molto evidenti che permettono di dividere l’attività del vulcano in quattro diversi periodi. I prodotti dell’attività che formò lo stratovulcano più vecchio sono esposti lungo la parete interna della caldera e sono costituiti da una successione di lave e di depositi di scorie, più o meno saldate, riferibili a un’attività prevalentemente effusiva e stromboliana. Lungo la parete del Somma e, più in generale, in posizione prossimale rispetto al vulcano, non sono stati finora riconosciuti depositi piroclastici riferibili a eruzioni esplosive di ragguardevoli magnitudo più antichi delle Pomici di Base. Tuttavia, tra queste ultime e l’Ignimbrite Campana, in aree mediali e distali, sono intercalati diversi depositi piroclastici di questo tipo: mentre alcuni sono certamente riferibili all’attività dei Campi Flegrei, la provenienza di altri, in particolare le “Pomici di Codola” (33.000 anni), le “Pomici di Schiava” (36.000 anni) e le scorie dell’”Eruzione di Taurano” dovrebbero essere vesuviane. La Caldera del Somma è una struttura polifasata formatasi a seguito di collassi correlati alle 4 eruzioni principali degli ultimi 22.000 anni. Queste eruzioni principali furono di solito precedute da umportanti periodi di quiescienza, di durata variabile da circa 8.000 anni (prima delle eruzioni delle Pomici di Mercato) ad alcuni secoli (prima della eruzione del 79dC). L’attività degli ultimi 2 millenni è caratterizzata da una forte variabilità di stili eruttivi, con almeno due eruzioni di intensità medio-alta (gli eventi subpliniani del 472 del 1631 dC) a cui si sono alternate fasi di attività meno intensa sebbene molto frequente, con eruzioni di varia natura, da stromboliane violente, ad eventi prolungati caratterizzati da emissione di cenere, ad attività effusiva. L’inizio della costruzione dell’attuale cono del Vesuvio può essere correlato a questo periodo di attività. In particolare, a partire dal 1639 l’attività è stata praticamente ininterrotta (a condotto aperto), con eruzioni laviche ed esplosive che si sono susseguite, separate da brevi periodi di quiescenza la cui durata massima è stata di sette anni. L’ultima eruzione, nel 1944, ha chiuso di fatto il periodo di attività a condotto aperto. Sulla base delle molte informazioni esistenti sulla storia passata del vulcano, è possibile raggruppare in alcune categorie le diverse tipologie eruttive. In particolare, l’attività esplosiva è stata caratterizzata da eventi con intensità e stile eruttivo largamente variabile, sia in termini di energia e massa rilasciate, che in termini di dinamiche eruttive coinvolte in ciascun tipo di evento. Si passa quindi, per quello che riguarda l’attività esplosiva, da eruzioni caratterizzate da deboli emissioni di scorie associate a colate laviche, ad eruzioni di media intensità e durata complessiva relativamente lunga (da giorni a settimane) con la formazione di colonne alte qualche chilometro di lapilli e ceneri i cui prodotti possono raggiungere spessori di decine di centimetri nelle aree prossimali al vulcano, fino ad eruzioni pliniane e subpliniane, caratterizzate sia da ricaduta di prodotti da colonne eruttive di altezza anche superiore ai 10-15 km, sia dalla forma- LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Fig. 2 L’isola di Stromboli. A sinistra: immagine registrata da un «Wide Angle Optoelectronic Stereo Scanner» (WAOSS) durante un volo-test il 16 Luglio 1996 (il Nord verso l’alto); © Martin Scheele. A destra: Stromboli da NE in una foto dall’aereo di Bernhard Edmaier (http://www.swisseduc.ch) zione di flussi piroclastici che possono percorrere le pendici dell’intero vulcano fino a distanze di almeno una decina di chilometri. Tali eruzioni sono ovviamente le più pericolose, ed è proprio sulla base dei caratteri di alcune di queste (le eruzioni subpliniane) che è stato scelto dalla protezione civile nazionale l’evento di riferimento per la costruzione dei piani di emergenza nel caso di una riattivazione futura, a brevemedio termine, del vulcano. Non dovrebbe essere trascurata infine la possibilità di una ripresa eruttiva di tipo prevalentemente effusivo, il cui impatto potrebbe essere elevato soprattutto in termini di danni economici, a causa della elevatissima urbanizzazione dell’area che potrebbe essere interessata da eventuali colate laviche. Arco Eoliano L’arcipelago delle Eolie è una complessa struttura lunga più di 200 km costituita da vulcani-strato più o meno complessi che formano sette isole principali e diversi rilievi sottomarini che estendono l’arco a Ovest (Eolo, Enarete e Sisifo) e a Nordest (Lametini e Alcione) intorno al bacino del Marsili Il vulcanismo è compreso tra 400 ka e il presente, ma potrebbe estendersi fino a più di un milione di anni fa. L’arco delle Eolie può essere diviso in tre settori, ciascuno con peculiari caratteristiche magmatiche, vulcaniche e strutturali: 1. Il settore occidentale comprende le isole di Alicudi, Filicudi e Salina nel quale il vulcanismo si è sviluppato tra 400 e 13 ka lungo un sistema di faglie a direzione Ovest-Est. Le rocce vulcaniche hanno composizione tipicamente calco-alcalina, con predominanza di termini mafici e intermedi. 2. Il settore centrale, che comprende le isole di Lipari e Vulcano, sviluppatesi in corrispondenza di un sistema di faglie che taglia l’angolo nordoccidentale della Sicilia e si prolunga fino a Malta, costituendo il margine occidentale di una possibile microplacca ionica. I prodotti affioranti hanno un’età inferiore a 200 ka e le loro composizioni sono eterogenee, con prodotti da mafici a riolitici riferibili alle associazioni calco-alcaline, shoshonitiche e potassiche. 3. Il settore orientale, che comprende Panarea e Stromboli, si è sviluppato su faglie a prevalente direzione Nordest – Sudovest; anche in questo settore i prodotti affioranti, con composizioni da mafiche a evolute ad affinità calco-alcalina, shoshonitica e potassica, non hanno età superiore a 200 ka. Stromboli Stromboli, l’isola più settentrionale dell’arcipelago eoliano, dista circa 60 km dalla costa calabra. La parte emersa dell’isola ha una superficie di 12,2 km2 e un volume di 3,8 km3, mentre il volume totale del complesso vulcanico, al di sopra della profondità di circa 2000 metri, è di quasi 200 km3. L’evoluzione morfostrutturale di Stromboli è stata dunque dominata da collassi calderici e cedimenti gravitativi di interi settori dell’edificio. La ricorrenza di collassi dello stesso settore dell’isola è spiegabile per la concomitanza di tre fattori: 1. l’edificio vulcanico raggiunge periodicamente massa e pendenze critiche che lo portano a condizioni di instabilità gravitazionale; 2. la tettonica regionale condiziona lo sviluppo di zone di debolezza morfostrutturale (sistemi di dicchi e fratture) lungo direzioni NE-SO con conseguente dilatazione e spostamento verso l’esterno del fianco del vulcano; 3. la forte immersione del fondo del Tirreno dal quale si innalza Stromboli rende il fianco nordoccidentale dell’isola più “propenso all’instabilità” di quello sudorientale. La caratteristica strutturale principale di Stromboli è l’ampia depressione a ferro di cavallo, la Sciara del Fuoco che occupa buona parte del fianco nordoccidentale dell’isola, e al cui interno, alla quota di circa 700 metri, si trovano i crateri attivi. Il neck di Strombolicchio, con una età di circa 200 ka, testimonia l’attività più antica affiorante nell’area emer43 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA sa. Tutte le altre rocce di Stromboli hanno meno di 100.000 anni e sono il risultato di una complessa storia eruttiva riconducibile a quattro periodi: Paleostromboli (tra 100 e 35 ka), Vancori (tra 26 e 13 ka), Neostromboli (tra 13 e 6 ka) e Stromboli Recente. Le lave del ciclo dei Vancori costituiscono la vetta dell’attuale vulcano (924 m s.l.m.). Leggermente al di sotto della cima dei Vancori, si è formato il cono di Neostromboli, la cui attività ha prodotto lave ad affinità ultrapotassica che oggi affiorano ai lati della Sciara del Fuoco. A partire da circa 6.000 anni fa, dopo un grande collasso che ha interessato il fianco occidentale del vulcano formando la Sciara del Fuoco, è iniziata l’attività dello Stromboli Recente; una serie di dicchi affioranti nei depositi del Neostromboli segnalano le linee di debolezza strutturale lungo le quali il magma è andato ad infiltrarsi. L’attività attuale, iniziata circa 2000 anni fa, è caratterizzata dalla persistenza di piccole esplosioni stromboliane che lanciano in aria, ad intervalli più o meno regolari da minuti ad ore, grossi brandelli di magma associati ad una scarsa quantità di cenere. Episodi di maggiore intensità (parossismi) e colate laviche incanalate lungo la Sciara del Fuoco, si intercalano con frequenza generalmente pluriannuale all’interno dell’attività persistente. La massima pericolosità legata all’attività del vulcano appare senza dubbio legata alla possibilità di innesco di tsunami a seguito di frane di importanti settori della Sciara del Fuoco. Gli eventi più recenti sono stati in genere associati ad attività lavica lungo il fianco della Sciara, o a seguito di esplosioni parossistiche. Non è da trascurare comunque, data l’elevata frequentazione turistica del vulcano, il rischio legato ad esplosioni improvvise che possono lanciare grossi blocchi nell’intorno dell’area craterica e lungo le pendici superiori del vulcano. Lipari Il complesso vulcanico di Lipari fu costruito, almeno nella sua parte emersa, tra circa 270 ka anni e il Medioevo attraverso la sovrapposizione di colate e duomi di lava e di depositi piroclastici di caduta e di flusso prodotti da eruzioni di magnitudo media e modesta, sovente caratterizzate da una forte componente idromagmatica. La storia eruttiva dell’isola è descritta da nove “Epoche” di attività interrotte da periodi di quiescenza, da fasi vulcano-tettoniche importanti e da episodi di terrazzamento marino nel corso dell’ultimo interglaciale (Forni et al., 2013). Diversi edifici vulcanici, tra loro sovrapposti in maniera più o meno complessa, furono attivi nel corso delle diverse Epoche, controllati nella loro distribuzione da una tettonica regionale a direzioni prevalenti NNO-SSE e N-S. La più recente fase eruttiva ha formato il cono di pomici di Monte Pilato, sovrastato da una colata ossidianacea. Vulcano La più meridionale dell’arcipelago eoliano, l’isola forma un sistema vulcanico complesso comprendente l’edificio del Vulcano Primordiale, sviluppatosi tra 120 e 100 ka fa, tagliato da una caldera sommitale (Caldera del Piano) a cui 44 segue, sul fianco nord dell’isola, la subsidenza polifasata, a seguito di collassi vulcano-tettonici, della Caldera della Fossa. Negli ultimi 15 ka l’attività si concentra quindi in questo settore, con la emissione di prodotti shoshonitici e latitici che riempiono parzialmente la depressione, In questo periodo, le principali fratture e bocche eruttive si allineano in direzione Nord-Sud, coincidendo con la direzione dei centri della contemporanea attività di Lipari. Da circa 6000 anni fa inizia la costruzione del cono de La Fossa, al centro della omonima caldera, con prodotti che variano da latitici a riolitici, con minori shoshoniti. L’ultima eruzione dell’isola, proprio dal cono de La Fossa, è avvenuta nel periodo 1888-1890, e fu ben descritta da Giuseppe Mercalli; questo tipo di eruzione, con ripetute esplosioni di blocchi e ceneri con frequenza ed intensità variabile, rappresenta il prototipo delle eruzioni cosiddette Vulcaniane, prendendo proprio il nome dall’isola stessa. A partire dal 1890, il cono de La Fossa è stato interessato da una forte attività esalativa, con numerosi periodi di crisi, anche recenti, durante i quali sono state osservate importanti variazioni sia nella estensione areale del campo fumarolico, che nella temperatura, nel flusso e nella composizione chimica dei gas rilasciati. Anomalie nella sismicità locale di bassa profondità hanno spesso accompagnato queste crisi. Pochi eventi eruttivi nella storia passata de La Fossa hanno avuto intensità media; tra questi alcune eruzioni di tipo subpliniano ed una eruzione caratterizzata dal coinvolgimento del sistema geotermico, che ha prodotto flussi piroclastici che si sono estesi fino a tutta la caldera de La Fossa. Correnti piroclastiche nella stessa area (e quindi estese all’attuale abitato di Vulcano Porto) si sono avute anche in corrispondenza di alcuni eventi minori, data la estrema prossimità del cono. I possibili scenari eruttivi in caso di ripresa dell’attività vulcanica dovrebbero considerare questa eventualità, insieme anche alla stima della pericolosità legata al lancio di blocchi con traiettorie balistiche, e l’eventualità di importanti destabilizzazioni del fianco nordest del cono, interessato da una estesa fratturazione e da alterazione per l’intensa attività fumarolica. ETNA Il vulcano è posizionato nella Sicilia centro-orientale, sul fronte dell’orogene Magrebide; durante il tardo Quaternario, alle strutture compressive dell’orogene si sovraimposero strutture distensive, probabilmente legate al forte arretramento del fronte nella sua parte calabra, e che attualmente formano una importante zona tettonicamente attiva, caratterizzata appunto da vulcanismo ed intensa sismicità. Questa tettonica distensiva ha fortemente controllato l’evoluzione spazio-temporale del magmatismo etneo. L’Etna è il più grande vulcano attivo subaereo in Europa, raggiungendo una altezza di quasi 3330 metri a partire da una base circa ellittica di 38x47 km. Il vulcano ha una struttura composita, formata da una serie di stratovulcani alcuni dei quali tagliati da una caldera sommitale, e da innumerevoli piccoli apparati per lo più monogenetici. L’attuale edificio, LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Fig. 3 Eruzione all’Etna (http://www.aivulc.it) risultante dalla coalescenza di questi diversi apparati, presenta una vasta depressione a ferro di cavallo aperta verso il Mar Ionio (Valle del Bove), formatasi a seguito di un importante collasso gravitativo del fianco est del vulcano, e nella quale si incanalano numerose delle frequenti colate laviche dell’attività attuale. L’attività nell’area etnea inizia intorno a 500 ka fa, con eruzioni sottomarine a chimismo tholeitico all’interno del cosiddetto Golfo pre-Etneo; intorno a circa 300 ka l’attività diventa subaerea, prima caratterizzata ancora da vulcanismo fissurale, quindi con la costruzione dell’attuale edificio. I magmi alcalino-sodici che caratterizzano l’attuale attività del vulcano iniziano intorno a 220 ka fa. La sequenza alcalina etnea è divisa in quattro sistemi vulcanici principali: i Centri alcalini Antichi (da 220 a 100 ka fa), il Trifoglietto (100-60 ka), l’Ellittico (60-15 ka), probabilmente il maggiore degli apparati che formano l’edificio attuale, ed il Mongibello Recente (da 15 ka fa). L’asse eruttivo dei principali apparati dell’edificio ha subito un generale spostamento verso ovest nel tempo. Il record eruttivo degli ultimi 15 ka mostra un ampio range di stili eruttivi, con alcuni episodi di larga scala (eventi Pliniani e subpliniani) che sono stati riconosciuti nel record stratigrafico Olocenico. Negli ultimi 1000 anni, l’attività è stata dominata da eruzioni stromboliane di media intensità, spesso accompagnate da voluminose emissioni laviche. L’attività eruttiva attuale si manifesta tramite eruzioni dai diversi crateri attivi presenti nell’area sommitale, legate a risalita di magmi attraverso una zona di condotti centrali, e attraverso numerose eruzioni laterali, alimentate da fratture radiali originatesi dall’area dei condotti centrali. Meno di frequente, alcune eruzioni laterali, chiamate eccentriche, sono innescate da intrusioni di magma provenienti direttamente dai serbatoi profondi, senza l’interessamento dei condotti centrali. L’attività vulcanica passata chiaramente mostra che gli eventi a più elevato rischio potrebbero essere correlati alla apertura di bocche eruttive a bassa quota sulle pendici del vulcano, dove maggiore è la presenza di aree abitate. Un evento di questo tipo, avvenuto nel 1669, culminò con la formazione di un cono piroclastico nei pressi dell’abitato di Nicolosi (a circa 800 m di quota) e con l’emissione di una colata lavica che in circa 4 mesi raggiunse la città di Catania, a 17 km di distanza, formando un delta lavico che fece avanzare la linea di costa di alcune centinaia di metri. Allo stesso modo, anche colate laviche provenienti dalle aree sommitali possono, se alimentate da un flusso e per un tempo sufficiente, minacciare le aree abitate, come nel caso dell’abitato di Zafferana Etnea durante l’eruzione del 1991-93. Ovviamente non sono da trascurare anche gli improvvisi eventi di fontana di lava, simili a quelli che si sono succeduti con alta frequenza negli ultimi anni, con formazione di colonne eruttive spesso caratterizzate da un elevato contenuto in cenere, che dispersa dai venti in quota può dare problemi al traffico aereo e terrestre. Nondimeno, la forte frequentazione turistica dell’area sommitale del vulcano può rappresentare un fattore di incremento del rischio anche legato alla attività di minore energia. Infine, specie nel caso dell’Etna, la sismicità vulcano-tettonica si è rivelata un ulteriore fattore di rischio, data la bassa profondità e la magnitudo non trascurabile che la caratterizzano. LA PERICOLOSITÀ VULCANICA La eruzioni vulcaniche possono generare danni di gravità molto diversa in funzione non solo della magnitudo complessiva dell’eruzione (la massa di materiale eruttato) o della sua intensità globale (il tasso eruttivo), ma soprattutto a causa della grande variabilità dei processi ad esse connessi. La si45 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA tuazione italiana in particolare, come discusso in precedenza, mostra peculiarità importanti e soprattutto una ampia variabilità di situazioni possibili che devono essere di volta in volta tenute in opportuna considerazione. Nella stima della pericolosità vulcanica di un’area non è sufficiente quindi valutare la probabilità di accadimento di un’eruzione, ma devono sempre essere tenute in considerazione le diverse modalità in cui può manifestarsi la dinamica eruttiva A complicare il tutto, le diverse dinamiche eruttive possono essere esse stesse correlate a diverse tipologie di possibile danno, e singoli parametri o soglie di riferimento devono essere definite per ciascuno di questi. A titolo di esempio, nel caso di un’eruzione caratterizzata da ricaduta di materiale piroclastico, dovremmo considerare le diverse tipologie di impatto che questo tipo di attività può avere sull’ambiente e sulle aree antropizzate, definendo quindi soglie di rischio per possibili effetti sulle costruzioni, che saranno diverse da soglie di rischio per la valutazione dell’impatto ambientale sulle falde idriche, o dei possibili effetti su infrastrutture e servizi (strade, traffico aereo, etc.). Per questo motivo, la definizione della pericolosità vulcanica di un’area non può essere trattata in modo analogo alla pericolosità sismica dove, semplificando, il fenomeno primario di riferimento è lo scuotimento del suolo. La pericolosità vulcanica di una determinata area entro un determinato intervallo temporale è quindi rappresentata dalla somma di diverse pericolosità “parziali”, ciascuna ottenuta attraverso il prodotto di tre diversi valori di probabilità concernenti: (i) il verificarsi dell’eruzione, (ii) il verificarsi nel corso dell’eruzione del fenomeno considerato nella sua variabile intensità, (iii) il verificarsi del fenomeno considerato nell’area considerata. I fenomeni vulcanici pericolosi Come detto sopra, la complessità nella valutazione della pericolosità vulcanica di un’area risiede in gran parte anche nella estrema variabilità di fenomeni potenzialmente pericolosi associati alle diverse dinamiche eruttive. Questi fenomeni sono passati in rassegna sinteticamente di seguito. Caduta di materiale piroclastico - Un’eruzione esplosiva immette nell’atmosfera frammenti di roccia solida e di magma fuso insieme a gas vulcanici con portate variabili tra 103 kg/sec nelle singole esplosioni stromboliane, fino a oltre 109 kg/sec nelle grandi eruzioni pliniane. I frammenti più grossi (bombe e blocchi) di norma ricadono lungo traiettorie balistiche a distanze non superiori ai 2-3 km dalla bocca. I frammenti di taglia inferiore a qualche centimetro (ceneri e lapilli) vengono trascinati verso l’alto dai gas, formando imponenti colonne eruttive che possono in molti casi penetrare nella stratosfera (superando quindi altezze dell’ordine di 1015 km) e che sono poi disperse dai venti presenti alle varie quote. Il risultato finale di questo processo è la deposizione di estese coltri di materiale piroclastico incoerente, a granulometria e spessore variabile con la distanza dal centro eruttivo. I pericoli associati a questo tipo di eruzioni possono essere 46 distinti in due grandi gruppi: quelli correlati alla presenza (ed eventuale permanenza) di cenere in atmosfera, che crea grosse problematiche al traffico aereo, e quelli legati all’accumulo di particelle al suolo, che variano dai problemi correlati alla stabilità degli edifici sotto il carico del materiale accumulato, a quelli relativi al danneggiamento di infrastrutture e life lines (linee elettriche, comunicazioni) e all’eventuale inquinamento, sia chimico che fisico, di falde acquifere, bacini idrici o coltivazioni. La dispersione di cenere nell’atmosfera può inoltre ridurre o azzerare la visibilità creando problemi anche al traffico terrestre; pochi centimetri di copertura sul manto stradale possono provocare problemi seri al traffico. Nelle aree interessate da un’importante copertura di cenere, i problemi possono protrarsi anche per tempi lunghi rispetto all’eruzione a seguito di processi risospensione della cenere fine respirabile (PM10 e minore) da parte di eventi atmosferici o a causa del traffico terrestre. I principali parametri fisici utili a definire la pericolosità e il relativo impatto possono quindi essere considerati lo spessore, il peso per unità di volume del deposito (variabile in funzioni anche di parametri ambientali quali umidità), e la granulometria dei prodotti. I fluidi magmatici condensati sulla superficie esterna delle particelle durante la loro permanenza nella colonna eruttiva, che possono essere facilmente rilasciati al suolo tramite l’azione delle acque piovane, rappresentano per contro il maggior fattore chimico di rischio associato a questo tipo di attività. La valutazione della pericolosità relativa alla ricaduta di piroclastiti è basata in genere sulla relazione tra gli spessori (o il carico esercitato) dei depositi e la loro dispersione, ottenuta con modelli fisico-matematici per il trasporto, la diffusione e la ricaduta delle particelle che tengono conto del regime regionale dei venti. Con tali modelli, introducendo opportune semplificazioni e generalizzazioni, è infatti possibile eseguire numeri molto elevati di simulazioni numeriche. Il risultato dei modelli dovrebbe essere sempre comparato, laddove possibile, con le mappe di dispersione per i diversi eventi passati del vulcano in studio, in modo da valutare eventuali possibili incongruenze. Inoltre, l’applicazione corretta di questi modelli prevede che i dati di input per il modello siano direttamente derivati da studi di base sui depositi dell’attività eruttiva del vulcano in studio. Un esempio della sinergia possibile tra stime di pericolosità derivate dall’applicazione di modelli numerici e dati derivanti dalla ricostruzione vulcanologica di eventi passati è stato proposto ad esempio per il Vesuvio. In questo caso, i dati di dispersione di 24 eventi esplosivi passati di taglia medio-grande (da stromboliani violenti a subpliniani) sono stati ricalcolati come carico a terra (kg/m2) su una maglia regolare di 1 km di lato nell’areale intorno al vulcano, fino a distanze di circa 50 km. In questo modo, è stato possibile calcolare la frequenza storica di superamento di una certa soglia di carico (100, 200, 300, 400 kg/m2), ciascuna corrispondente a determinate probabilità di impatto sugli edifici, in ciascun punto della maglia. Questo ha permesso di tracciare curve di isofrequenza (in sostanza la percentuale di eruzioni) di supe- LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Fig. 4 Carta di pericolosità da caduta di piroclasti per eruzioni di media intensità (da stromboliane violente a subpliniane) al Vesuvio. A destra, una mappa di frequenza storica, a sinistra il risultato della simulazione numerica per eventi della stessa taglia. I numeri sulle curve indicano i valori della probabilità (o frequenza) di superamento della soglia di 300kg/m2 (modificato da Cioni et alii, Journal of Geophysical Research, 2003). ramento della soglia di carico prescelta in ciascun punto della griglia. Questi dati sono stati poi confrontati con quelli derivanti dal calcolo della dispersione teorica di particelle, durante un’eruzione esplosiva di taglia simile a quelle considerate per costruire la mappa di frequenza storica, reiterata per circa 160.000 volte utilizzando casualmente i profili dei venti in quota campionati da un database comprendente circa 14 anni di misure dirette. Il confronto tra i risultati ottenuti con i due metodi appare interessante. In generale, i risultati ottenuti dall’analisi della dispersione dei depositi delle eruzioni passate (isofrequenze) sembrano fornire valori più affidabili per le aree prossimali (fino a distanze di circa 10 km dal cratere attuale), per le quali il modello risente maggiormente delle assunzioni fatte circa la distribuzione delle particelle lungo la colonna eruttiva, mentre le simulazioni forniscono valori di probabilità più robusti per la dispersione oltre tali distanze, per le quali i dati di terreno sono via via più sporadici e soprattutto a causa del limitato numero di eruzioni studiate in confronto al numero altissimo di simulazioni. Questo permette infatti di tener conto maggiormente dell’effetto della variabilità nella direzione e intensità del vento, fattore principale nel determinare l’areale di dispersione del materiale emesso durante una singola eruzione. Come in ogni caso di corretta applicazione dei metodi di simulazione numerica, comunque, è importante tener conto come questi debbano essere sempre “nutriti” con i dati derivanti dallo studio di eruzioni passate del medesimo vulcano, in modo che i parametri di partenza di tali simulazioni siano il più possibile vicini a quelli attesi nel caso di una futura eruzione. Le simulazioni numeriche, d’altra parte, sono uno strumento irrinunciabile anche per quanto riguarda la stima a breve termine della pericolosità legata a dispersione di cenere in vulcani in attività persistente, come ad esempio l’Etna. La frequente improvvisa ripresa dell’attività, con formazione di fontane di lava alte fino a diverse centinaia di metri, spesso associate a dense nubi di cenere disperse dai venti in quota (generalmente tra cinque e ottomila metri) può provocare importanti disagi al traffico aereo, che devono essere ovviamente segnalati in tempo reale. Per questo motivo, l’Osservatorio Etneo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia di Catania si è dotato di un sistema automatico attraverso il quale, quotidianamente, vengono reiterate simulazioni (con più modelli numerici) relative ad eventuali eruzioni di cenere, la dispersione delle quali viene simulata in funzione della previsione giornaliera della variazione ogni tre ore dell’andamento dei venti alle diverse quote. Il risultato di tali simulazioni viene trasmesso in automatico ai centri funzionali della protezione civile ed a quelli preposti al controllo del traffico aereo, permettendo così di prevenire possibili problemi nel caso di reale ripresa dell’attività. Correnti piroclastiche – Il collasso di una colonna eruttiva, o in alcuni casi esplosioni laterali di duomi, portano alla generazione di nubi di gas e particelle ad elevata temperatura che scorrono orizzontalmente al suolo con velocità iniziali che possono raggiungere i 300 m/s. Le colate piroclastiche s.s., ad elevata concentrazione di particelle, tendono in genere a scorrere sui fondovalle, lasciando depositi anche imponenti. I flussi a bassa concentrazione di particelle seguono invece percorsi scarsamente condizionati dalla morfologia e lasciano depositi di spessore talora quasi irrilevante. La rimobilizzazione da parte delle acque meteoriche dei depositi lasciati dalle colate piroclastiche induce la formazione di lahar per tempi anche lunghi dopo l’eruzione. Lahar possono anche essere generati direttamente dai flussi piroclastici che erodono, fondono e si mischiano con ghiaccio e neve. L’impatto di tali correnti sull’ambiente è spesso devastante, e varia in funzione delle caratteristiche fisiche della 47 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA corrente (concentrazione, velocità, temperatura) e di come queste variano con la distanza o la topografia. Aree entro alcuni chilometri (fino a 10 ed oltre, in funzione della scala del fenomeno) possono essere fortemente impattate e d in alcuni casi subire una distruzione pressoché completa. Gli esseri viventi sono estremamente vulnerabili a queste nubi, poiché anche in caso di basse temperature e velocità, la concentrazione di particelle nelle parti inferiori della nube stessa mantiene sempre valori vicino se non superiori al limite di respirabilità. D’altro canto, l’elevata pericolosità di tali nubi per l’ambiente e per le aree urbanizzate deriva soprattutto, oltre che dalle elevate temperature (sopra i 200° e fino a 700° C) che possono innescare incendi sia alla vegetazione che nelle case, anche dalla spinta orizzontale (pressione dinamica, sostanzialmente una misura dell’energia cinetica) che esse esercitano per l’elevata velocità e concentrazione delle porzioni basali. Tale spinta supera in molti casi la resistenza a sollecitazioni orizzontali per la quale sono progettati generalmente gli edifici. Anche nel caso di deboli sollecitazioni orizzontali (ad es. a distanze di diversi chilometri dal punto di emissione) l’effetto delle correnti piroclastiche sugli edifici può essere notevole, soprattutto per il cedimento delle strutture verticali più vulnerabili, quali porte e finestre, piuttosto che dell’intera struttura. L’invasione da parte della miscela di gas caldi e particelle di parti di un edificio a seguito dello sfondamento delle strutture protettive delle sue aperture può provocare incendi e l’eventuale soffocamento degli abitanti. Le zone pericolose in relazione allo scorrimento di correnti piroclastiche hanno estensione molto diversa nei diversi vulcani a causa dall’ampia variabilità con cui questi eventi possono presentarsi. La loro definizione all’interno di mappe di pericolosità è stata proposta in alcuni casi, sulla base dell’estensione delle aree coperte dai depositi dei flussi piroclastici di epoca storica o di altri intervalli temporali (Merapi, Mayon, St.Helens), della possibile ubicazione della bocca eruttiva, o in funzione della taglia e frequenza dei flussi piroclastici passati. Modelli numerici via via più complessi, 2D o 3D, sono stati predisposti per definire le aree di possibile invasione di flussi piroclastici; tali modelli in alcuni casi possono dare informazioni circa i diversi parametri che determinano la pericolosità di questi eventi, tipo pressione dinamica, temperatura, velocità e concentrazione. I modelli numerici più semplici, tuttora molto usati a causa della loro facilità di uso e velocità di calcolo, sono quelli basati sul “cono di energia”, cioè sul rapporto medio tra altezza del collasso e percorso del flusso, strettamente correlato alla topografia (nel modello, vengono considerate potenzialmente invadibili quelle aree la cui topografia giace al di sotto del cono di energia). Nonostante esistano ad oggi codici di calcolo di elevata complessità, capaci di descrivere le variazioni puntuali dei principali parametri di flusso sia nello spazio 3D che ne tempo, ogni simulazione necessita di tempi di calcolo lunghi, che non ne permettono la reiterazione sui numeri elevati (migliaia di eventi) necessari per la definizione probabilistica delle aree di invasione. Proprio per questo, negli ultimi anni è stato ripreso lo sviluppo di codici semplificati 2D che 48 migliorano le performances date dai metodi basati sul cono di energia, mantenendone al tempo stesso la facilità di uso e rapidità di calcolo. Nella stesura di mappe della pericolosità connessa allo scorrimento di flussi piroclastici sono stati spesso usati ambedue gli approcci già discussi nel caso della caduta piroclastica, confrontando i risultati dell’applicazione di modelli numerici con i dati derivanti dalla riscostruzione vulcanologica di eventi passati. Infatti, poiché lo scorrimento di un flusso piroclastico è in genere fortemente condizionato dalla topografia preesistente, se da un lato le mappe di pericolosità basate sui risultati di simulazioni numeriche presentano la peculiarità di poter utilizzare dati topografici reali, dall’altro l’utilizzo di mappe di frequenza “storica” di invasione delle diverse aree nell’intorno di un apparato vulcanico permettono di tener di conto della forte variabilità naturale che caratterizza questo fenomeno, derivante sia dalle caratteristiche fisiche del flusso, che dai principali parametri eruttivi che possono caratterizzare le diverse eruzioni di uno stesso vulcano, sia della variabilità della posizione della bocca eruttiva nei vari eventi passati. La definizione della cosiddetta “Area Rossa” vesuviana, cioè l’area da evacuare nell’imminenza di una eruzione al Vesuvio a causa dei rischi connessi al possibile scorrimento di colate piroclastiche, è appunto basata sui dati derivanti dalla delimitazione dei depositi di flusso piroclastico delle eruzioni di tipo subpliniano dell’attività passata (di caratteristiche simili al massimo evento atteso in caso di una riattivazione a breve-medio termine). Colate di lava - Le colate laviche raramente rappresentano una minaccia diretta per la vita umana e, anche su forti pendii, superano molto raramente la velocità di un uomo che corre. Nei testi di vulcanologia, è riportato un solo caso in cui nel marzo del 1977 una colata eccezionalmente veloce (15 km/ora) invase un villaggio in prossimità del vulcano Nyiragongo (Zaire), uccidendo circa 70 persone. Molto più spesso, le colate laviche non coprono più di poche decine di metri per ora. La velocità di una colata lavica è diretta funzione di diversi fattori tra i quali la viscosità del magma (dipendente essenzialmente dalla composizione chimica del magma stesso), la pendenza del terreno, la portata eruttiva, la velocità di raffreddamento, collegata a sua volta sia al tasso di emissione che alla capacità del magma di creare durante lo scorrimento strutture quali canali, croste superficiali solide e tunnel che la isolano efficientemente dal contatto con l’atmosfera. Mentre per altri fenomeni pericolosi (quali ad es. la ricaduta di materiale piroclastico) l’impatto è fortemente funzione dell’entità del fenomeno (ad es. lo spessore di materiale caduto al suolo in una certa area), le colate di lava distruggono tutto quanto incontrano sul loro cammino, innescando anche fenomeni pericolosi secondari e terziari, quali incendi, modifiche del paesaggio e dell’idrografia, prolungata sterilizzazione del territorio. Questo semplifica in parte la definizione della pericolosità legata a questo tipo di fenomeno, in quanto diviene di fondamentale importanza definire in particolare il percorso di una futura colata, piuttosto LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Fig. 5 L’eruzione del Vesuvio del 1631, in una stampa dell’epoca. Sono chiaramente visibili i flussi piroclastici. che altri parametri quali ad esempio il suo spessore finale in un certo punto. Piccole esplosioni, con effetti locali, possono essere correlate all’instabilità del fronte di una colata lavica ad alta viscosità in lento avanzamento, che può generare piccoli flussi piroclastici che si distaccano improvvisamente e ad alta velocità dalla colata stessa aumentando l’area soggetta a rischio. Esplosioni di varia intensità accompagnano anche il contatto delle colate laviche con acqua. In caso di invasione di aree fortemente vegetate, possono infine verificarsi esplosioni di sacche di metano generatosi a seguito della combustione della vegetazione sepolta dalla lava. La valutazione della pericolosità da invasione lavica è in genere affrontata tramite l’ausilio di metodi di modellazione numerica di vario tipo, da metodi che utilizzano esclusivamente la topografia per determinare su base probabilistica i possibili percorsi seguiti da una colata lavica, fino a modelli più complessi che tengono conto anche delle proprietà fisiche della lava e della loro variazione lungo il percorso a seguito del suo progressivo raffreddamento. Un dato di fondamentale importanza nella definizione di mappe di pericolosità deriva dall’accurata analisi storica e geologica delle possibili aree di apertura di una bocca eruttiva, che permette di definire la probabilità di apertura di una bocca eruttiva in una determinata area, fortemente correlata a fattori geologici e strutturali. Non di meno, l’analisi della distribuzione e delle caratteristiche delle colate laviche passate può dare importanti informazioni sulle modalità di scorrimento e sulle proprietà fisiche che hanno caratterizzato le eruzioni passate. Tali informazioni sono la base per una corretta applicazione dei modelli numerici, e per la stesura di mappe di pericolosità affidabili. Mappe di pericolosità relative allo scorrimento di colate laviche sono ad esempio attualmente disponibili per l’Etna, che in Italia rappresenta certamente il vulcano maggiormente interessato da questa tipologia eruttiva. Tali mappe, costruite utilizzando diversi modelli numerici, tengono conto della distribuzione spaziale della molteplicità di fratture e bocche eruttive che hanno interessato l’intera attività del vulcano e della loro relativa frequenza di attivazione, della morfologia attuale (con una precisione del modello digitale di riferimento del terreno fino a pochi metri), oltre che dei diversi possibili scenari eruttivi in termini di durata e probabilità di accadimento. Queste mappe dovrebbero essere utilizzate sia nella pianificazione a livello territoriale che per la preparazione dei piani di gestione nel caso di eruzioni future. Data la lenta progressione di una colata lavica e l’attività eruttiva spesso prolungata nel tempo, mappe di pericolosità vengono di solito costruite anche ad evento in corso, per simulare la possibile evoluzione del percorso seguito dalla colata, ed in questo modo pianificare i possibili interventi di mitigazione del rischio, quali interventi volti alla deviazione della colata o al generale rallentamento della sua avanzata. Interventi di questo tipo sono stati messi in opera, spesso con successo, nelle principali eruzioni dell’Etna a partire dal pioneristico tentativo compiuto nel 1983. Frane vulcaniche – Le frane innescate dall’attività vulcanica o comunque a essa connesse possono essere molto diverse sia per tipo e dinamica che per dimensioni, potendo raggiungere volumi superiori ai 100 km3 nel caso di grandi collassi strutturali. In genere la destabilizzazione gravitativa di un versante o di un intero settore di un edificio vulcanico inizia come valanga di roccia o come frana di scivolamento, che si disintegra nel corso del movimento in frammenti di taglia variabilissima. Se nella frana vengono coinvolte grandi quantità di acqua (dall’interessamento di falde acquifere o di 49 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Fig. 6 Risultato della simulazione numerica di una eruzione subpliniana al Vesuvio. I colori mostrano la distribuzione della concentrazione delle particelle nella nube (piu’ scuro, concentrazioni maggiori) dopo 750 secondi dal collasso della colonna eruttiva (da Neri et alii, Geophysical Research Letters, 2007). corpi d’acqua superficiali, quali ad esempio laghi craterici), e sedimento fine, la massa di detrito può trasformarsi rapidamente in una colata di fango (“lahar”), capace di scorrere a valle per decine di chilometri. Sui vulcani le frane sono un fenomeno comune dovuto non solo alle rapide variazioni morfologiche legate ai processi di erosione, accumulo, espulsione correlati ai diversi eventi eruttivi, ma anche al fatto che essi sono strutturalmente indeboliti dai diversi processi che in continuazione li modificano (terremoti, deformazioni del suolo, processi termometamorfici, idrotermali e fumarolici legati alla ripetuta ascesa e alla stagnazione del magma, sovraccarico indotto dall’accumulo in superficie dei prodotti eruttati, fattori climatici). In queste condizioni sono diversi i fattori che possono innescare una frana che può arrivare a interessare settori interi del cono vulcanico: intrusioni di magma, esplosioni, terremoti, forti piogge. Rimuovendo una parte significativa dell’edificio vulcanico, le grandi frane inducono improvvisi abbassamenti della pressione agente sul sistema magmatico-idrotermale, causandone in numerosi casi la sua decompressione esplosiva, e dando così luogo ad eruzioni anche di elevata intensità, caratterizzate da esplosioni direzionali con conseguente generazione di flussi piroclastici estremamente energetici (blast). Anche se il primo esempio riconosciuto e studiato di questo tipo è stata l’eruzione del Monte St.Helens (Washington, USA) del Maggio 1980, da allora si è visto come il fenomeno sia tutt’altro che 50 raro. Una grande frana può seppellire il fondovalle sotto centinaia di metri di roccia e detrito, formando un paesaggio caotico, caratterizzato dalla presenza di decine di piccoli rilievi (“hummocks”), può sbarrare corsi d’acqua e formare laghi effimeri da cui possono trarre origine successivamente devastanti lahar. Lo studio di dettaglio delle caratteristiche strutturali di un apparato vulcanico, ed il riconoscimento di eventuali depositi o morfologie correlabili ad eventi di frana occorsi durante la sua storia eruttiva, sono gli elementi fondamentali per valutare la probabilità di un eventuale franamento catastrofico di intere porzioni dell’edificio. Modelli numerici ad elementi finiti sono stati utilizzati in alcuni casi per valutare tale eventualità. Mappe di pericolosità che per questo tipo di fenomeno possono essere costruite tenendo in conto l’intera area eventualmente coinvolta in una frana, e la topografia della zona di possibile accumulo. La massima distanza percorribile è spesso valutata utilizzando leggi empiriche che mettono in relazione volume, altezza massima di distacco e areale di invasione per eventi passati. Un rischio direttamente connesso a questo tipo di eventi, ed in particolare da tenere in forte considerazione ad uno dei principali vulcani attivi italiani quali lo Stromboli, è quello legato all’innesco di possibili tsunami a seguito di frane, sia subaeree che sottomarine, di importanti porzioni del versante della Sciara del Fuoco. Eventi di questo tipo, fortunamente di entità ridotta, sono avvenuti almeno 5-6 volte negli ultimi LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE 100 anni, l’ultima delle quali nel dicembre 2002. La pericolosità di tali eventi è legata all’altezza massima raggiunta dall’onda, e quindi alla massima distanza di penetrazione lungo la costa, oltre che alla possibile propagazione dell’onda di tsunami fino ad interessare le coste delle isole limitrofe e della Calabria. Tali fattori sono fondamentalmente funzione della massa della frana; al tempo stesso, la conformazione dell’isola, e soprattutto la sua forte vocazione turistica, fanno sì che anche in caso di frane di dimensioni minori, il rischio possa essere elevatissimo in funzione del periodo dell’anno (ad esempio nella stagione estiva). La simulazione numerica della propagazione di un’onda di tsunami, e del suo possibile impatto in funzione della conformazione delle coste su cui tale onda può abbattersi, sono uno dei metodi principali per la costruzione di mappe di pericolosità. Anche in questo caso, una attenta analisi dei fenomeni occorsi in eruzioni passate, ed in particolare delle aree di costa invase dall’onda stessa, può fornire utili elementi per la pianificazione dell’emergenza e di misure di mitigazione del rischio. Colate di fango (lahars e debris flows) - “Lahar” è una parola indonesiana che descrive una miscela di acqua e frammenti di roccia che fluisce lungo i fianchi di una montagna e che, nella letteratura internazionale, ha assunto un significato ampio includendo praticamente ogni tipo di flusso composto da acqua e fango (flusso fluviale diluito, colata di detrito, flusso iperconcentrato, ecc.) che trasporta materiale solido di natura vulcanica. Si tratta di flussi in cui il fango (una sospensione di acqua e materiale fine, al di sotto dei 60 microns di diametro) è, dal punto di vista dinamico anche se non volumetrico (ne basta un decimo del volume totale), la componente dominante che permette il trasporto delle particelle. Nei flussi più eterogenei (colate di detrito) il fango ha un doppio ruolo: di supporto per i frammenti grossolani e di smorzamento degli attriti; in tal modo la competenza della colata è tale che possono essere trasportati blocchi di 1 m di diametro anche per velocità di soli 50 cm/sec. Le dimensioni dei lahar e la loro velocità possono variare entro limiti molto ampi: i lahar più grandi possono avere ampiezza di centinaia di metri, spessore di decine di metri e velocità di decine di km/ora. Nella parte superiore dei lahar ad alta concentrazione di sedimento (colate di detrito) tutti i punti si muovono alla stessa velocità: si forma perciò una sorta di livello centrale in cui non esiste stress tangenziale (plug) che si muove indeformato, quasi galleggiante, sui livelli sottostanti caratterizzati da un forte gradiente verticale di velocità. Man mano che la velocità del flusso diminuisce (ad es. per diminuzione dell’angolo di pendio), lo spessore di questa zona centrale del flusso “rigida” cresce, annullando progressivamente la zona basale fino a giungere ad interessare l’intero spessore del flusso. A questo punto la colata si blocca depositando tutto il materiale trasportato “in massa”. Una importante caratteristica di questi flussi fangosi, che ne aumenta n modo significativo la pericolosità, è la capacità di erodere ed inglobare nel flusso, durante il suo scorrimento, sia sedimenti che ulteriori quantità di acqua esterna. Questa caratteristica (bulking) mantiene alta la mobilità e la capacità di trasporto del flusso. Lahars possono essere innescati in vario modo: – per il coinvolgimento diretto, durante l’eruzione, di ingenti quantità di acqua, come nel caso di eruzioni attraverso laghi, coperture nevose o ghiacciai o per la presenza di forti piogge che cadono immediatamente dopo o durante un’eruzione, mescolandosi efficientemente con il materiale appena deposto.soprattutto in presenza di estese coltri di cenere; - per la rimobilizzazione di sedimenti vulcanici sciolti durante piogge torrentizie o per lo scorrimento rapido di acque di fusione dei ghiacciai durante periodi di quiete eruttiva; - per il collasso di versanti instabili, in particolare se costituiti da rocce alterate ricche in minerali argillosi e impregnati di acqua. Nel caso di attività in aree glaciate, si osserva la generazione di lahar catastrofici anche a seguito di eruzioni modeste, dove assumono massima importanza sia l’estensione dell’area innevata che l’effetto di mescolamento meccanico tra frammenti caldi e ghiaccio. La semplice copertura di prodotti piroclastici caldi su neve o ghiaccio, o il lento scorrimento di una colata lavica, non sono in genere sufficienti ad innescare importanti effetti di fusione del ghiaccio. Al contrario, durante eruzioni subglaciali (tipiche ad es. dei vulcani islandesi), l’anomalia termica legata alla emissione di prodotti vulcanici al di sotto di una spessa coltre glaciale può dare origine a grosse quantità di acqua di fusione che vanno ad alimentare veri e propri alluvionamenti, noti con il nome di jokulhlaup. La definizione delle zone esposte a pericolo di scorrimento di colate di fango, analogamente agli altri fenomeni vulcanici, in genere è basata sia sul record storico e stratigrafico che sui risultati derivanti dall’applicazione di modelli numerici. Dato il forte condizionamento morfologico allo scorrimento delle colate di fango, tali modelli numerici sono sempre associati a Modelli Digitali del Terreno di elevata precisione. Sono attualmente disponibili numerosi modelli numerici che simulano lo scorrimento di questi flussi, molti dei quali di libero accesso ed utilizzo, da modelli che sulla base di leggi empiriche definiscono le aree di invasione, fino a modelli in cui queste vengono stimate tenendo in considerazione le principali leggi fisiche e reologiche che dominano il processo. Alcuni di questi modelli possono essere utilizzati anche per la simulazione dello scorrimento di flussi piroclastici granulari, in cui la turbolenza è soppressa. Diversamente da quanto si verifica per le correnti piroclastiche diluite, che spesso ricoprono anche gli alti topografici, lo scorrimento delle colate di fango tipicamente è confinato alle valli e ristretto a pochi metri al di sopra del fondo valle. Altri rischi - Mentre i fattori di rischio sopra discussi son principalmente correlati a dinamiche eruttive ed in particolare ai prodotti ad esse associati, altri fattori di rischio sono associati alle eruzioni vulcaniche. Tra questi, non può essere trascurata la possibilità di eventi improvvisi di rilascio di gas, sia magmatico (attraverso campi di fumarole, rilascio diffuso dal suolo, o esplosione improvvisa di sacche di gas accumulatesi in corpi magmatici molto superficiali), che di vapor 51 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA d’acqua, a seguito della rapida messa in pressione di sistemi acquiferi geotermali dovuta la loro riscaldamento per trasferimento di calore da sacche magmatiche nelle loro vicinanze. Tolta l’acqua, che rappresenta di gran lunga la fase volatile principale disciolta in un magma, i gas magmatici più abbondanti sono rappresentati da CO2, specie dello zolfo, ed in minor misura da Cloro, Fluoro, ossido di carbonio e idrogeno. Poiché la CO2 ha una bassa solubilità nei magmi a bassa profondità (per pressioni minori di circa 2 kbar, corrispondenti a circa 8-10 km di profondità) la presenza di serbatoi magmatici al di sotto di un’area vulcanica implica il rilascio continuo di questa specie, che si accumula nei corpi acquiferi subsuperficiali e subisce spesso un rilascio per diffusione attraverso il suolo. Il continuo rilascio fa sì che questo gas, più pesante dell’aria, tenda a fluire e concentrarsi nelle zone morfologicamente depresse, raggiungendo concentrazioni tossiche per gli esseri viventi. Il rilascio continuo alla base di laghi craterici può causare la progressiva saturazione in gas delle acque del lago, specie quando questi sono caratterizzati da una forte stratificazione che impedisce scambi sostanziali tra acque profonde e superficiali. A causa della pressione maggiore, le acque profonde contengono in soluzione molta più CO2 delle acque superficiali. Il raggiungimento della sovrasaturazione permette il rilascio di bolle di gas, che rendono instabile la stratificazione del lago, invertendo improvvisamente le masse d’acqua e innescando la liberazione improvvisa di enormi quantità di gas. Ulteriori fattori di rischio possono essere legati all’attività sismica praticamente sempre associata all’attività magmatica. A causa della bassa profondità cui generalmente si concentra l’attività sismica in queste aree, ed alla magnitudo mai troppo elevata di questa, le possibili aree a rischio rimangono confinate entro pochi chilometri dall’area vulcanica. Numerosi studi hanno tuttavia dimostrato che la possibilità di avere, durante una crisi eruttiva, un numero molto alto di eventi di bassa magnitudo può in parte degradare le caratteristiche meccaniche degli edifici, provocando una progressiva variazione della loro vulnerabilità. LA STIMA DELLA PERICOLOSITÀ VULCANICA Il comportamento generalmente ripetitivo dei vulcani ad alta frequenza eruttiva, caratterizzati da condizioni di condotto aperto (es. Kilauea, Sakurajima, Piton de la Fournaise, Etna, etc.), permette in genere stime attendibili della frequenza delle eruzioni e dei principali fenomeni ad esse associate. Diversamente, in caso di vulcani quiescenti o comunque a bassa frequenza eruttiva, la probabilità di accadimento di un’eruzione è molto difficile da valutare così come la sua magnitudo e la sequenza di fenomeni eruttivi. In ogni caso, un importante strumento alla base della valutazione della pericolosità associata ad un singolo evento eruttivo consiste nella stesura di uno scenario di riferimento. In particolare, nel caso di vulcani a bassa frequenza eruttiva, la pericolosità può essere valutata nell’assunzione del futuro verificarsi di uno scenario predeterminato (il più grande, il più frequen52 te, il più pericoloso, ecc.), ricavato dalla storia eruttiva del vulcano considerato. Analogamente a quanto in uso per i terremoti, un utile concetto è in alcuni casi quello di Evento Massimo Atteso (EMA), definito come il più energetico (o meglio quello capace di generare il danno maggiore) tra tutti i possibili eventi attesi entro un certo intervallo di tempo. Questo concetto si può applicare specialmente a quei vulcani la cui attività ha mostrato andamenti ricorrenti e/o chiaramente definiti. L’affidabilità dell’EMA dipende quindi dalla qualità delle conoscenze di base acquisite sulla storia e sulle modalità di funzionamento del vulcano. La definizione di un EMA è particolarmente utile per la valutazione della pericolosità di quei fenomeni la cui possibile distribuzione sul territorio può essere soddisfacentemente riprodotta attraverso la reiterazione di simulazioni numeriche in accordo con poche importanti variabili vincolanti (per es. la caduta di piroclastiti in accordo con il campo dei venti, l’altezza della colonna eruttiva, e la popolazione granulometrica). I risultati delle simulazioni numeriche possono poi essere confrontati con i dati disponibili sull’attività passata. L’uso dei dati delle simulazioni numeriche piuttosto che quelli storici o geologici ha come risultato prodotti finali “filosoficamente” differenti: una distribuzione probabilistica del fenomeno simulato e una frequenza storica del fenomeno registrato. La zonazione della pericolosità vulcanica può essere fatta tramite la stesura di mappe di pericolosità per i diversi eventi attesi, selezionando valori di soglia il superamento dei quali determina condizioni di impatto ritenute non accettabili. Tali mappe sono di grande utilità per prevedere le aree con probabilità crescente di essere impattate da un determinato evento, e per mettere in atto politiche di pianificazione territoriale mirate alla mitigazione ed alla riduzione drastica del rischio. La pianificazione di un’eventuale emergenza vulcanica passa invece, oltre che per l’utilizzo di tali mappe, anche per la definizione dei diversi scenari eruttivi attesi, in cui vengano specificate in dettaglio le dinamiche all’interno di ogni evento eruttivo possibile, l’impatto atteso di tali dinamiche, scalato rispetto all’intensità dell’evento, la scala temporale lungo la quale si svolge l’intera eruzione e lungo la quale si esplicano le diverse dinamiche eruttive comprese nello scenario e le loro relazioni reciproche. Visto il continuo incremento delle conoscenze, e soprattutto a causa dell’elevata dinamicità che caratterizza la vita di un’area vulcanica, la progressiva implementazione ed il continuo aggiornamento delle mappe di pericolosità e degli scenari attesi ai singoli vulcani dovrebbe essere una pratica comunemente adottata dalle autorità preposte, in modo da garantire ai cittadini un adeguato grado di sicurezza e preparazione nel caso di ripresa dell’attività in una delle molte aree vulcaniche italiane. LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Evoluzione del clima nella regione mediterranea VINCENZO ARTALE E ALESSANDRO DELL’AQUILA ENEA, CR Casaccia, Roma SISTEMA CLIMATICO TERRESTRE, RUOLO È DELL’OCEANO E DEL MEDITERRANEO noto come il sistema climatico terrestre sia costituito, oltre che dal sole che fornisce l’energia, dall’atmosfera, dall’oceano, dalla criosfera (i ghiacci) e dalla biosfera (il mondo vivente). Il clima terrestre è determinato dagli scambi termodinamici interni e dal trasporto di acqua all’interno di questi settori. L’atmosfera e l’oceano sono i principali responsabili del trasporto e della distribuzione del calore sulla terra. Si stima che il trasporto di calore dalle regioni tropicali verso i poli si distribuisca in parti uguali tra l’oceano e l’atmosfera. Per esempio nel oceano Atlantico il calore immagazzinato negli strati superficiali delle zone tropicali è trasportato verso nord attraverso grandi correnti oceaniche (e.g. la Corrente del Golfo), il cui principale effetto è di mitigare il clima dell’Europa Occidentale. Queste correnti durante il loro percorso verso nord non cessano mai d’interagire con l’atmosfera, attraverso scambi di massa e di calore. In media l’atmosfera fornisce all’oceano il 43% della sua energia interna, il resto proviene direttamente dal sole (35%) e dagli scambi con i continenti (22%). Il calore assorbito dall’oceano è acquisito e ridistribuito orizzontalmente e verticalmente all’interno delle masse d’acque oceaniche e infine restituito all’atmosfera. I tempi di risposta del sistema oceanico sono circa due ordini di grandezza maggiori, molto più lenti, di quelli atmosferici. La corrente del Golfo, sempre attraverso misure sperimentali, purtroppo eseguite in modo sistematico solo negli ultimi cinquanta anni, ha mostrato una notevole variabilità dal 1950 in poi, parte di questa variabilità si può spiegare con la variabilità e l’avvezione dei “gyres” (vortici oceanici) subtropicali. Alcuni suggeriscono che questa variabilità può essere associata alla variabilità climatica in generale, ma da sola non spiega tutto, per esempio non ci spiega perché la corrente del Golfo si sta indebolendo. Si sa che il Nord Atlantico riceve energia termica equivalente a circa un Pwatt (1015 watt), ossia un milione di un milione di volte l’energia che normalmente usiamo in casa, equivalente a fornire energia a centinaia di mondi industrializzati, attraverso la Corrente del Golfo e la Corrente Nord Atlantica. Questa enorme quantità di calore non è trasportata solo dalle correnti indotte dallo stress del vento sulla superficie marina, ma soprattutto dalle correnti indotte dalla cosiddetta circolazione termoalina, la quale s’instaura in virtù delle differenze di temperatura e salinità (e quindi di densità) tra le diverse masse oceaniche. Spesso tutti i complessi processi connessi con la circolazione termoalina sono semplificati rappresentandoli come un gigantesco moto circolare verticale, indicato appunto come “nastro trasportatore oceanico”, in cui le acque calde superficiali di origine tropicale che raggiungono la parte più settentrionale del Nord Atlantico, dove a causa della perdita di calore superficiale e della conseguente maggiore concentrazione di sale, affondano trasformandosi in una corrente profonda e fredda in direzione opposta (verso sud). E’ importante considerare che l’intensità della circolazione termoalina, e proporzionalmente anche la quantità di calore trasportato, dipende da piccole differenze di densità, le quali dipendono a loro volta da un delicato equilibrio nel Nord Atlantico tra raffreddamento alle alte latitudini e l’apporto d’acqua dolce (meno densa) dovuta a pioggia, neve e fiumi. Un maggior apporto d’acqua dolce riduce l’intensità della circolazione termoalina ma non in modo lineare (Rahmstorf, 1995). Infatti, all’inizio il meccanismo convettivo continua a essere attivo e la circolazione relativa continua a rimuovere l’acqua meno salata superficiale e a sostituirla con quella più salata proveniente da sud. Tuttavia questo meccanismo ha dei punti critici (tipping point), sorpassati i quali la circolazione termoalina incomincia a oscillare tra diversi stati d’equilibrio, tra cui è compreso quello compatibile con un suo eventuale blocco (Lenton et al., 2008). Il riscaldamento superficiale, che si sta osservando negli ultimi venti anni 53 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA causando lo scioglimento dei ghiacci, non solo quelli marini del polo nord, ma anche terrestri in particolare quelli della Groelandia, hanno un effetto simile. Dalle osservazioni tratte da un lavoro del 2005 di Bryden su Nature, si può costatare che il trasporto di calore nel Europa settentrionale (Corrente del Golfo) si sia ridotto quasi del 30 %, ipotesi riconfermata anche da una pubblicazione più recente di Rahmstorf et al. (2015). Ossia è aumentata la re-circolazione verso sud, in pratica le zone tropicali e sub-tropicali stanno accumulando calore e sale. Se la circolazione termoalina si bloccasse completamente, nelle aree del Nord Atlantico la temperatura si abbasserebbe di più di dieci gradi. Cosa che, infatti, è già successo nel passato, come si può costatare dalle analisi sui sedimenti oceanici e dalle carote di ghiaccio in Groenlandia (Broecker, 1997) dalle quali si è evidenziato che la circolazione termoalina si è interrotta bruscamente diverse volte a causa di flussi anomali d’acqua dolce provocando dei lunghi periodi freddi, in Europa Nord Occidentale, per centinaia d’anni (Heinrich events). L’ultimo di questi eventi è accaduto circa 12000 anni fa. Lo studio di questi eventi, pur non dando nessuna indicazione certa sul clima futuro, è importante perché ci dà la consapevolezza che eventi catastrofici nella circolazione oceanica con fortissimi impatti sulla variabilità climatica globale possono avvenire indipendentemente da fattori antropici, ossia possono essere considerati come delle instabilità insite al sistema accoppiato oceano-atmosfera. Tuttavia il riscaldamento globale, dovuto per esempio ai gas–serra, può contribuire ad aumentare sia la temperatura superficiale dell’oceano che la piovosità alle alte latitudini ed entrambi i fattori danno un contributo negativo sulla densità superficiale riducendo così il motore della circolazione termoalina, come sembra che stia avvenendo dalle misure sperimentali analizzate da Bryden (2005). Dal rapporto dell’IPCC del 2007 si può evincere che raddoppiando il contenuto attuale di CO2, con associato un aumento di temperatura maggiore di due gradi centigradi, la circolazione termoalina si blocca completamente (Bindoff et al., 2007). 1.1. Il Mediterraneo, un laboratorio climatico a scala ridotta. Il Mar Mediterraneo, nonostante abbia dimensioni trascurabili in confronto ai grandi oceani, è invece un’area geografica in cui avviene, a scala più piccola, una varietà di processi e interazioni atmosfera-oceano tipiche dei grandi oceani. E’ una regione densamente popolata e risulta particolarmente sensibile e vulnerabile ai cambiamenti climatici, tanto da essere definita come uno dei più rilevanti ‘hot-spots’ (Giorgi, 2006b) in termini d’impatti socio-economici. La caratteristica principale del Mediterraneo riguarda il suo ciclo idrologico, in sostanza consuma per evaporazione più acqua di quella che riceve dalla pioggia e dai fiumi, in media il deficit è di circa un metro l’anno, e quindi il generoso Atlantico tramite lo stretto di Gibilterra ci fornisce continuamente ciò di cui il bacino oceanico ha bisogno. Questo è l’elemento chiave per comprendere la circolazione del Mediterraneo e la formazione e trasformazione delle 54 sue acque. L’acqua atlantica (AW) che entra nel Mediterraneo forma uno strato d’acqua superficiale variabile sia nello spessore (100-200 metri) sia nei valori di temperatura e salinità (all’origine circa 36 grammi di sale su un litro d’acqua, si indica con 36 psu o semplicemente 36), un valore apparentemente piccolo, ma il cui ruolo è cruciale nella circolazione oceanica. Questa acqua perde galleggiabilità lungo il suo percorso, ossia perde acqua per evaporazione, ma non il sale (il sale non evapora!), che a questo punto assolve lo stesso ruolo dei pesi per i sommozzatori: più sale rimane in gioco in superficie, più a fondo va l’acqua. Questa acqua continua poi il suo percorso lasciandosi la costa sulla destra (a causa della forza di Coriolis). Nella parte orientale del bacino, vicino all’isola di Rodi, in virtù degli intensi venti Etesiani, si forma un’acqua intermedia, detta acqua levantina (LIW), con caratteristiche saline molto elevate (a questo punto l’acqua ha acquistato quasi tre grammi in più per chilo, quasi il massimo possibile nel Mediterraneo!) e con una temperatura relativamente elevata (circa 14.5 gradi centigradi). Quest’acqua è il ramo di ritorno dell’acqua atlantica, il funzionamento è simile a quello delle scale mobili: quando lo scalino ha finito di trasportarvi in cima, sparisce e ricompare all’inizio della scala, pronto a rifare la stessa fatica. Allo stesso modo il flusso dell’acqua levantina, propagandosi principalmente in modo antiorario (ciclonico), a una profondità tra i 200800 metri, dopo intense variazioni di temperatura e salinità dovute al mescolamento con altre acque incontrate lungo il suo cammino, finalmente arriva nel oceano Atlantico, dopo circa 20 anni. Ora manca ancora un pezzo importante per completare la storia del Mediterraneo, manca un fondamentale elemento caratteristico della conveyor belt mediterranea (la scala mobile oceanica!): la produzione d’acqua profonda (DW), che costituisce un importante indicatore climatico. Questo tipo d’acqua si forma principalmente nel Golfo del Leone, nel Nord e Sud Adriatico, nella regione Nord-Est del bacino Levantino e nel Mar Egeo. Formazioni d’acque dense avvengono durante intensi fenomeni evaporativi, in cui l’oceano cede all’atmosfera notevoli quantità di calore (superando anche i 103 Watt/m2) a causa dei venti freddi e secchi che perturbano la superficie marina (e.g. Maestrale, Etesiani e Bora), lasciando a disposizione tantissimo sale in poco tempo (3-4 giorni), tanto da rendere così instabile l’acqua superficiale da inabissarsi improvvisamente, ventilando l’intera colonna d’acqua e ossigenandola in modo da garantire così la sopravvivenza dell’intero sistema bio-geo-chimico marino. Una caratteristica interessante di questi fenomeni consiste nella loro limitata dimensione spaziale e temporale a fronte dell’enorme impatto sull’intera circolazione generale e le limitate aree oceaniche in cui si osservano. Un simile ruolo lo gioca la regione sub-polare del Labrador nella circolazione del Nord Atlantico. Quando questi processi si interrompono il mare muore, per mancanza di ossigeno e questi eventi sono già accaduti decine di volte nell’ultimo milione di anni. LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE 2. I CAMBIAMENTI CLIMATICI OSSERVATI DALL’INIZIO DELL’ERA INDUSTRIALE A OGGI In Figura 1 mostriamo l’andamento della temperatura superficiale osservata nel Mar Mediterraneo dal 1854 a oggi ottenuta dall’analisi di dati in situ. Dal confronto tra l’andamento globale della temperatura, ottenuta quindi dalla media di tutti i dati disponibili, e quella regionale (riguardanti solo il sottoinsieme riguardante il Mar Mediterraneo), si evince, nel primo caso, un aumento continuo della temperatura media con sovrapposte delle deboli oscillazioni. In particolare la prima fase di aumento della temperatura (1910-1935) sarebbe dovuta a un aumento della costante solare e alla diminuzione dell’attività vulcanica mentre la seconda fase, a partire dal 1970-1975, non sarebbe giustificata se non inserendo nel bilancio termico il riscaldamento dovuto all’accumulo di gas serra, almeno secondo i risultati di simulazioni numeriche. Invece nel caso del Mar Mediterraneo, le oscillazioni multidecennali sono molte grandi: l’andamento della temperatura sembra essere dato dalla sovrapposizione di un’oscillazione la cui ampiezza delle anomalie di temperatura sono pari a 0.3-0.6°C e con un periodo temporale di circa 60-70 anni, tuttavia è molto evidente, a partire dall’inizio del XX secolo (minimo del 1910), una tendenza al riscaldamento con un aumento della temperatura di quasi 1.0°C e con una accelerazione al riscaldamento negli ultimi vent’anni (Marullo et al., 2011). In particolare, dopo l’ultimo minimo di temperatura della metà degli anni ’70, la temperatura è aumentata con un tasso pari a 0.026±0.005°C/anno. Infine, il raffreddamento della SST del Mediterraneo osservato tra il 1965 e il 1975 appare associato a una fase di aumento dell’indice NAO, in altre parole NAO e SST sono anticorrelati. Figura 1: Confronto tra la serie storica (1854-2010) della temperatura superficiale marina (SST) globale (a) e quella mediterranea (b) . In quella globale SST si nota un aumento della SST di 0.4-0.5 °C in 35 anni (1910-1942), un andamento costante (1942-1979) e un aumento di 0.4-0.5 °C in 35 anni (1980-2008); nel Mediterraneo è invece molto evidente l’oscillazione multi decennale (AMO), che maschera parzialmente il trend positivo. 55 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Dal 1985 sono stati resi disponibili dati satellitari che permettono una misura sinottica, ad alta risoluzione spaziale e temporale, del campo di temperatura della superficie marina (Marullo et al., 2007). Le temperature medie annuali dal 1985 al 2006 mostrano un tasso di crescita di 0.037±0.007°C/anno, quindi con valori maggiori di quelli osservati in situ, sovrapposto a intense oscillazioni interannuali cui si distinguono in particolare quelle associate agli anni freddi 1992-1993 e il massimo assoluto di temperatura registrato nel 2003, il quale ha tutte le caratteristiche per essere considerato un anno anomalo con ondate di calore nel periodo estivo (eventi climatici estremi), mai osservate in precedenza. Se dall’analisi regionale passiamo a un’analisi ancora più di dettaglio, ossia a scala locale, notiamo che la distribuzione spaziale di questi andamenti, a fronte di un tasso di crescita positivo in tutto il bacino, presenta caratteristiche locali piuttosto pronunciate, con valori per esempio molto più elevati nel mar Adriatico e nel bacino Levantino, dove a sud e ovest di Creta si avvicina al valore di 0.1°C/anno. La tendenza al riscaldamento è molto più pronunciata nei mesi estivi che contribuiscono in larga misura all’andamento positivo che si osserva in tutto il bacino su base annuale. In particolare si nota che, nei mesi da maggio a luglio, con massimo in giugno, il tasso di crescita positivo è assai marcato anche nel Mediterraneo centrale al contrario di quanto si osserva su base annuale, perché in questa zona sono i tassi positivi estivi che sono bilanciati da tassi di crescita negativi durante i mesi invernali. Quindi si sta osservando la tendenza all’aumento dell’ampiezza del ciclo stagionale; ovvero della tendenza ad avere inverni con picchi anomali di freddo ed estati con maggiori possibilità di avere ondate anomale di calore, come quella del 2003. Un’inversione di questa tendenza è stata comunque osservata durante l’inverno (2006-2007) nel corso del quale le temperature superficiali del Mediterraneo sono state costantemente superiori alla media degli ultimi 22 anni. Le medie di bacino non sono rappresentative della fenomenologia che avviene nei sottobacini; inoltre appare evidente una volta di più come alla presenza di una così alta variabilità temporale possa essere fuorviante e difficoltoso estrapolare tendenze future calcolate su pochi anni, soprat- Figura 2: Anomalie (rispetto media climatologica di tutto il periodo) di temperature superficiali per i punti di terra della regione euro-mediterranea (LON: 10W40E; LAT: 30N-48N, all’interno del rettangolo nero riportato in alto a destra) per le quattro stagioni da diversi datasets di osservazioni e simulazioni regionali per il periodo 1961-2000. Per ogni stagione viene applicata una media mobile di 5 anni. Vedere il testo per maggiori dettagli 56 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE tutto considerando che l’avvento dei satelliti con la relativa abbondanza di dati avviene nel decennio degli anni ’90 che è stato caratterizzato da notevoli cambiamenti nella circolazione del Mar Mediterraneo con conseguenti influenze sul campo di temperatura superficiale. Ancora una volta si conferma la necessità di trovare altri elementi oggettivi per irrobustire l’analisi dei cambiamenti climatici, come per esempio la modellistica climatica. Le proiezioni climatiche prodotte dai modelli numerici permettono di valutare la possibile ampiezza dei cambiamenti dell’equilibrio climatico e i suoi possibili impatti nella regione Euro-mediterranea. In particolare, per quanto riguarda il clima della regione mediterranea, per la sua complessa orografia e per la rilevante presenza di processo climatici a scala medio piccola, viene fatto un grande uso di simulazioni regionali ad alta risoluzione. I Modelli Climatici Regionali (MCR) producono scenari climatici ad alta risoluzione (20 km e oltre) per una data regione usando come forzanti a scala più grande Modelli Climatici Globali (MCG) meno risolti (risoluzione tra i 100 e i 200 km), che forniscono le condizioni al bordo. I MCR migliorano sensibilmente la qualità delle proiezioni climatiche rispetto ai modelli globali MCG soprattutto in una regione ad orografia complessa (Artale et al 2010) e in prossimità della regione costiera (Feser et al., 2011). Un certo numero di MCR sono stati sviluppati nel corso degli ultimi decenni, con l’obiettivo generale di produrre informazioni a scala locale per gli studi di valutazione di impatto e adattamento alle fluttuazioni climatiche (Giorgi 2006). Il principale vantaggio che si ha nell’uso di MCR rispetto ai MCG è l’ottimizzazione delle risorse di calcolo rispetto alla possibilità di incrementare la risoluzione spaziale e quindi di migliorare la descrizione dell’interazione fra la dinamica atmosferica e la superficie, sia dal punto di vista delle interazioni aria-mare che dal punto di vista dell’interazione con la topografia e della descrizione degli effetti dell’uso del suolo. La loro capacità di riprodurre la variabilità climatica osservata viene usualmente valutata analizzando le simulazioni di controllo ottenute utilizzando come condizioni al bordo dei data-sets climatici globali, le reanalisi (ECMWF, 2004) . Tali prodotti sono ottenuti a loro volta eseguendo delle simulazioni climatiche globali in cui sono assimilati ad ogni passo temporale le osservazioni disponibili (satelliti, stazioni Figura 3: Come in figura 2 ma per le anomalie delle precipitazioni. 57 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA meteorologiche, palloni sonda, boe,…). Nel progetto di ricerca europeo CLIM-RUN (www. climrun.eu) le proiezioni climatiche sulla regione Euro Mediterranea prodotte durante il precedente progetto ENSEMBLES (van der Linden and Mitchell, 2009) sono stati analizzate in termini dei cambiamenti attesi per le variabili meteo climatiche più rilevanti, unitamente ad una analisi preliminare dell‘abilità dei modelli nel riprodurre il clima osservato. Nella tabella 1 sono riportate le simulazioni climatiche volte a riprodurre il clima presente prese in considerazione. In Figura 2 sono riportati la serie temporale delle anomalie (rispetto alla media climatologica di tutto il periodo) di temperature superficiali per i punti di terra della regione EuroMediterranea (LON: 10W- 40E; LAT: 30N-48N,) all’interno del rettangolo nero riportato in alto a destra. La linea nera spessa è ricavata dall’archivio di osservazioni prodotte dal CRU (Harris et al 2013), la linea nera tratteggiata è l’archivio di reanalisi globale ERA-40 (Uppala et al., 2005) che è utilizzato a sua volta come condizioni al bordo per le simulazioni regionali di valutazioni di ENSEMBLES (linee solide colorate). La riga magenta spessa è la media dell’insieme dei modelli (vedi tabella 1), l’area grigia, che corrisponde a una deviazione standard, corrisponde all’ampiezza della distribu- ENSEMBLES Model name 1 C4IRCA3 2 CNRM-RM4.5 3 CHMI-ALADIN 4 DMI-HIRHAM5 5 ETHZ-CLM 6 ICTP-RegCM3 7 INMRCA3 8 KNMI-RACMO2 9 METNOHIRHAM 10 METO-HC HadRM3Q16 11 METO-HC HadRM3Q3 12 METO-HC HadRM3Q0 13 MPI-M-REMO 14 SMHIRCA 15 UCLM-PROMES Tabella 1 Simulazioni regionali di controllo forzate dalla reanalisi globale ERA-40 per il periodo 1961-2000 (http://ensemblesrt3.dmi.dk/). zione delle simulazioni regionali. Ad ogni serie temporale è stata applicata una media mobile di 5 anni per evidenziare i segnali a scala di tempo più lunghe della semplice variabilità inter-annuale. La serie temporale ottenuta dalla reanalisi ERA40 segue sempre molto da vicino l’andamento delle osservazioni, cosa non inaspettata poiché i dati di temperatura Figura 4: Proiezioni climatiche future per le regione Euro-Mediterranea. Sono riportate le anomalie di temperature superficiale per il periodo 2021-2050 rispetto al periodo 1971-2000, così come vengono riprodotte considerando la media delle proiezioni climatiche future ENSEMBLES (tabella2) . 58 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE CRU sono assimilati direttamente nel sistema di reanalisi. Sono presenti dei segnali a scala decadale, verosimilmente legati ad oscillazioni climatiche (AMO, NAO) che interessano il nord Atlantico (Mariotti e Dell’Aquila 2012). Gli anni 70 sono caratterizzati da una significativa anomalia negativa di più di 0.5°C in Autunno. Nella stagione estiva, dopo una prima fase di trend negativo fino alla metà degli anni 70, un robusto trend positivo si può mettere in evidenza. I modelli climatici regionali tendono in generale ad amplificare il trend negativo, arrivando ad avere per la metà degli ani 70 un bias negativo di 0.3 °C, ed a sottostimare il trend positivo soprattutto a fine anni 90. Nelle altre stagioni l’andamento temporale delle temperature è riprodotto in modo sufficientemente accurato dai modelli, seppur con una sistematica sottostima delle temperature di più di 0.2°C nell’ultima parte del periodo in tutte le stagioni. Per quanto riguarda invece le precipitazioni (Figura 3) , le differenze tra osservazioni e reanalisi sono ben maggiori, soprattutto negli anni 70 e negli autunni degli anni 90. Le precipitazioni non sono assimilate nei sistemi di reanalisi e sono un prodotto previsionale (ovvero ottenuto dalle equazioni prognostiche del modello) e quindi tali discordanze non sono del tutto inattese. In particolare la reanalisi ERA40 è caratterizzata da una ben nota anomalia positiva di umidità negli anni 70 (Mariotti and Dell’Aquila 2012) che produce un sistematica sovrastima delle precipitazioni in tutte le stagioni ad eccezione parzialmente dell’inverno. In quest’ultima stagione sono presenti alcuni periodi caratterizzati da evidenti anomalie di precipitazioni, come nel caso dei primi anni 90. 3. PROIEZIONI CLIMATICHE IN EUROPA PER I PROSSIMI DECENNI In seguito alla valutazione delle performance delle simulazioni regionali prodotte nel progetto ENSEMBLES nel riprodurre le principali caratteristiche del clima presente, riportiamo ora alcuni dei principali risultati che si possono evidenziare analizzando le proiezioni climatiche per il XXI secolo riportate in tabella 2. In Figura 4 riportiamo le proiezioni per la temperatura superficiale nel periodo 2021-2050 rispetto al clima presente 1971-2000, mediate sulle simulazioni ENSEMBLES riportate in tabella 2. Tutte le simulazioni mostrano un evidente incremento delle temperature per la metà del XXI secolo, che durante la stagione estiva potrebbe raggiungere i 2 gradi lungo le coste mediterranee. Un rilevante gradiente meridionale (più di un grado di differenza) può essere identificato tra l’Europa centro settentrionale e quella meridionale. In inverno invece l’incremento maggiore è previsto sull’Europa orientale. Per quanto riguarda le precipitazioni, le simulazioni mostrano proiezioni meno concordi, come mostrato in Figura 5. Notare che le regioni puntinate rappresentano le aree dove almeno i 2/3 delle simulazioni concordano con il segno del cambiamento. Un evidente gradiente meridionale nelle tendenze delle precipitazioni è presente in tutte le stagioni, con Tabella 2: In tabella sono riportate le combinazioni MCG/MCR estratte dall’archivio del progetto ENSEMBLES (http://ensembles-eu.metoffice.com) per sviluppare nell’ambito del progetto europeo FP7 CLIM-RUN, prodotti climatici basati sulle proiezioni climatiche numeriche. Lo scenario socioeconomico ipotizzato è lo SRES A1B. una diminuzione delle precipitazioni nelle regioni mediterranee ed un aumento nel centro-nord Europa. In particolare in tutta l’Italia centro meridionale le proiezioni riportano una decisa riduzione delle piogge, mentre per il nord dell’Italia le simulazioni non concordano sul segno del possibile cambiamento, al di fuori della primavera quando una diminuzione della precipitazione stagionale è ben visibile a sud delle Alpi. In uno scenario di riscaldamento (Figura 4), la potenziale riduzione delle piogge medie nella regione Mediterranea è per lo più attribuita a uno spostamento verso nord dei disturbi sinottici provenienti dall’Atlantico, in grado di generare condizioni atmosferiche più stabili durante la maggior parte dell’anno, soprattutto in estate (Giorgi and Lionello, 2008). L’interesse nei confronti della variabilità climatica e delle sue mutazioni su scala locale, negli ultimi anni, si è allargato ben oltre la comunità scientifica, per coinvolgere in maniera sempre più diretta le amministrazioni locali. Tali comunità non sono interessate unicamente ai cambiamenti delle medie stagionali ma anche alla statistica degli eventi estremi. Tali eventi e, come nel caso delle precipitazioni intense, generano gravi ripercussioni sulle infrastrutture, sui trasporti e sulla sicurezza dei cittadini. Attraverso l’attività di ricerca e lo sviluppo di proiezioni climatiche su scala territoriale è possibile contribuire alla pianificazione di interventi preventivi, superando la logica dell’emergenza. A puro titolo esemplificativo riportiamo in Figura 6 i cambiamenti previsti dalle simulazioni ENSEMBLES nella frequenza de eventi intensi di precipitazioni giornaliere nel Golfo Ligure (e in particolare sulla vulnerabile regione delle Cinque Terre) per il periodo 2041-2050 rispetto a quelli del periodo 1971-1980. 59 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA Gli eventi intensi riportati nel grafico sono i giorni in cui le precipitazioni giornaliere sono superiori a un certo valore, scelta in questo caso come il 95 percentile rispetto al ciclo stagionale di riferimento nel clima presente (1971-1980). Le barre colorate rappresentano i cambiamenti nella frequenza di eventi intensi sulla regione ligure in ogni simulazione regionale per ogni stagione. Il quadro che emerge dalle simulazioni mostra un aumento di eventi in inverno, mentre gran parte delle proiezioni evidenzia una diminuzione di tali eventi in primavera e in autunno. In estate la maggioranza dei modelli prevede un leggero incremento di tali fenomeni. Questa varietà d’informazione climatica è facilmente riproducibile in altre zone della Penisola caratterizzate da un’elevata vulnerabilità rispetto agli eventi estremi. 4. CONCLUSIONI Nei capitoli sopra abbiamo citato numerosi studi che, attraverso l’analisi di dati raccolti in situ o da dati calcolati attraverso modelli numerici, mostrano nell’area europea e mediterranea un graduale aumento della variabilità climatica, particolarmente accentuata negli ultimi decenni. Abbiamo analizzato come la temperatura delle acque superficiali, intermedie (la famosa acqua levantina, LIW, di cui sopra) e profonde stiano subendo notevoli modificazioni. Tale aumento della temperatura è accompagnato da un contemporaneo aumento della salinità: più l’acqua è calda maggiore è la sua capacità di diluire il sale! Pensate quando vi preparate l’acqua per cuocere gli spaghetti! Il quadro generale che ne consegue è molto complesso e non sempre lineare, vedi l’apparente blocco della crescita della temperatura nell’ultimo decennio. A tale riguardo si citano ad esempio due lavori molto recenti, in cui Chen et al. (2014), ha mostrato che l’oceano Atlantico ha accumulato calore nelle acque intermedie invece che in superficie, invece l’oceano Pacifico si è effettivamente raffreddato negli ultimi dieci anni, ma buona parte del calore accumulato si è spostato nell’oceano Indiano, che sta mostrando invece un rilevante aumento di calore (SangKi Lee et al., 2015). Questo avviene soprattutto a causa di una diversa distribuzione dello stress del vento e della differenza di pressione tra l’oceano Pacifico e l’oceano Indiano che innesca un aumento del trasporto di massa e calore attraverso gli Stretti Indonesiani. Perché lo iato nel riscaldamento globale è successo e quanto tempo durerà sono misteri. Tuttavia, gli scienziati sanno che l’oceano ha recentemente contribuito a tamponare quello che altrimenti sarebbe stato una forte accelerazione del riscaldamento della superficie, che comunque continua a essere osservata a livello globale. Figura 5: Come in figura 4 ma per le precipitazioni. Le regioni puntinate evidenziano dove almeno i 2/3 delle simulazioni prese in esame concordano sul segno del cambiamento previsto 60 LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA | SCIENZE E RICERCHE Figura 6: Istogrammi delle variazioni climatiche percentuali (periodo 2041-2050 confrontato con il 1971-1980) per il numero di eventi intensi di precipitazione giornaliera sul Nord Adriatico nelle simulazioni climatiche regionali prodotte nel progetto ENSEMBLES. Gli eventi intensi sono definiti come i giorni in cui le precipitazioni giornaliere sono superiori ad una certa soglia, scelta in questo caso come il 95 percentile del ciclo stagionale di riferimento nel clima presente (19711980). Le barre colorate rappresentano la percentuale di cambiamenti nella frequenza di eventi intensi sulla regione ligure delle Cinque Terre in ogni simulazione regionale (riportate a lato con le corrispondenti simulazioni globali che le guidano a grande scala) per ogni stagione. Le linee sottile grigie corrispondono al numero di eventi intensi riprodotti dai modelli nel clima presente. Così come il riscaldamento dell’atmosfera continua a mostrare che il pianeta sta subendo uno squilibrio radiativo. Come già accennato sopra nel corso del XX secolo, le acque intermedie e profonde del Mediterraneo hanno subito un riscaldamento e aumento della salinità non sempre lineare, che può essere diviso in tre diverse fasi temporali: l’iniziale tasso di crescita osservato nei primi anni del secolo subisce un incremento intorno al 1960 passando da circa pochi centesimi di grado centigrado nei precedenti 40 anni a quasi un decimo di grado nei successivi venti-trenta anni, per arrivare agli ultimi dieci in cui si stanno osservando trend di due–tre decimi di grado. Parallelamente, il tasso di crescita di T e S per le acque intermedie è comparabile e leggermente superiore. Dopo il 1990 tali tassi di crescita si sono osservati in particolare nelle acque profonde nel Mar Tirreno e nel Mar Ligure mostrano un aumento della temperatura e della salinità pari a qualche centesimo di grado per anno. Molti autori hanno individuato in questi andamenti di temperatura e salinità un primo effetto del riscaldamento dovuto ai gas serra; infatti, è stato calcolato che l’osservato aumento della quantità di calore ricevuta dal Mediterraneo dal 1940 a 1995 è compatibile con le stime dell’effetto radiativo dovuto all’effetto serra nello stesso periodo. Altri autori preferiscono vedere in questi andamenti di temperatura e salinità un effetto ‘locale’ della naturale variabilità interannuale del clima. In particolare dal 1960 alla fine degli anni 1980 si è osservata una notevole riduzione delle precipitazioni, che possono aver contribuito a un aumento di salinità del bacino mediterra- neo. In questo scenario, l’aumento di temperatura al fondo sarebbe spiegato anche dal fatto che l’aumento dell’attività convettiva, coinvolgendo più acqua intermedia (calda e salata), avrebbe contribuito a trasportare più calore al fondo del Mediterraneo occidentale. Probabilmente non esiste un’unica causa e l’aumento di calore ricevuto dal Mediterraneo a causa dell’aumento dei gas serra ha agito su questo sottofondo di graduale aumento della salinità anche causato dalla costruzione, tra il 1960 ed il 1990, di numerose dighe lungo i fiumi affluenti nel Mediterraneo che ha diminuito considerevolmente l’afflusso d’acqua dolce fluviale (Rohling, E.J. e H. L. Bryden; 1992; Mariotti et al., 2002). Tutto questo si ripercuote, al di sopra dell’oceano, in un innalzamento della temperatura dell’aria lungo le coste del Mediterraneo, soprattutto nel periodo estivo ed in secondo luogo in quello primaverile. Questo riscaldamento è particolarmente evidente dalla seconda metà degli anni ’70 ma non si ripercuote direttamente sulle piogge per le quali non è stato osservato alcun trend ma più che altro un’alternarsi di periodi più o meno piovosi. Per quanto riguarda invece le proiezioni climatiche future tutti le simulazioni regionali ad alta risoluzione prodotte nel recente progetto di ricerca Europeo FP6 ENSEMBLES concordano su un possibile aumento di temperatura superficiale nei prossimi 20-30 anni di circa 2 gradi nel periodo estivo, accompagnato da una marcata diminuzione delle piogge lungo tutte le coste mediterranee che si contrappone ad un significativo aumento delle precipitazioni nel centro-nord Europa. Questo avrà anche dei possibili effetti locali sulla stagiona61 SCIENZE E RICERCHE | LE CATASTROFI NATURALI IN ITALIA lità delle precipitazioni intense in aree particolarmente vulnerabili come il Golfo Ligure dove le proiezioni climatiche descrivono un possibile spostamento del picco delle precipitazioni intense dal periodo autunnale a quello invernale. C’è però da sottolineare come tali proiezioni siano state ottenute con modelli che non considerano in modo dettagliato l’interazione tra l’atmosfera e l’oceano che come abbiamo visto gioca un ruolo fondamentale nel determinare le condizioni climatiche dell’area mediterranea. Per tale ragione sono state recentemente prodotte delle nuove simulazioni climatiche ad alta risoluzione per la regione Euro-Mediterranea in cui tali effetti di accoppiamento aria-mare possono essere adeguatamente descritti. Tali simulazioni sono state concepite nell’ambito dell’iniziativa internazionale MedCordex (www.medcordex.eu) i cui principali risultati verranno pubblicati nella letteratura scientifica internazionale nei prossimi mesi. BIBLIOGRAFIA Artale, V. 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Una conquista lunga cinquantuno anni GABRIELLA BERNARDI Pino e le sue astronome PATRIZIA TORRICELLI Donne, e le parole per parlarne AGOSTINA LATINO Genesi e analisi della Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica PAOLA MAGNANO, ANNA PAOLILLO, GIUSEPPE SANTISI Autostima e autoefficacia, identità di genere e soddisfazione lavorativa. Implicazioni per la scelta di carriera DOMENICO CARBONE Cos’è la politica? Opinioni a confronto tra le donne elette nei comuni italiani LUCIA PIETRONI Rosa vs Blu. 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Riflessioni sulle grandi esposizioni universali ALDO ZECHINI D’AULERIO Effetti dei cambiamenti climatici sulle piante e le loro malattie FRANCESCA DILUISO, IGOR BAZEMO Sicurezza alimentare e politiche di sviluppo rurale FRANCESCO RENDE - ROBERTO SAIJA Tutela della salute, sicurezza e qualità del cibo nel diritto alimentare europeo EMANUELE MANES La spesa consapevole: pochi consigli per la nostra salute e contro lo spreco alimentare LIA GIANCRISTOFARO Un mondo alimentare sommerso come “museo vivo” della dieta mediterranea VINCENZO CROSIO Il cibo e la ritualità PAOLO COSTA Cibo, etica e identità: qual è la morale della tavola? FRANCO RIVA Grasso/Magro. Un circolo perfetto ADOLFO VILLAFIORITA Tecnologie per combattere lo spreco alimentare GIUSEPPE MORELLO RFId. La nuova frontiera della tracciabilità. 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