free tibet - iapra li uecchie
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FREE TIBET Questa raccolta di articoli e appunti (i primi sono stati scritti nel 1992 per il periodico “L’Araldo di Pace” di Pistoia mentre il diario del viaggio in Ladakh è del 2000) vuole essere un piccolo contributo alla causa tibetana e un gesto di amore verso quel popolo e quella cultura. La spiritualità buddista Una delle cose che più affascinano il credente che si interroga seriamente sul proprio credere, è l'esistenza di altri uomini che gli somigliano nell'atteggiamento di ricerca ma seguono strade diverse. Il dialogo tra le religioni è parte integrante dell'animo sinceramente religioso e gli interrogativi che pone sono necessari alla crescita della dimensione spirituale. Per la chiesa cattolica le difficoltà in questo senso sono state numerose anche e possiamo dire che oggi, essa può continuare pazientemente a costruire il dialogo poggiando su due piccoli ma robusti fondamenti: un breve documento conciliare ed un intenso momento di preghiera. La dichiarazione "Nostra Aetate" contiene poche parole di grande valore e intensità. Essa si inserisce nella visione di Chiesa delineata dal Concilio Vaticano II: una Chiesa che afferma di non aver compreso fin dall'inizio, in tutta la sua completezza, la Parola di Dio e che necessita quindi di un cammino continuo (Dei Verbum 8). Una Chiesa inoltre che rifiuta l'immagine statica di società perfetta ma accetta l'imperfezione anche della propria cattolicità (Lumen Gentium 48) e che vede quindi, nel dialogo interreligioso, un modo per una realizzazione più matura della propria vocazione. Si legge infatti nella Nostra Aetate: << La chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini... Essa perciò esorta i suoi figli affinché... riconoscano, conservino e facciano progredire i beni spirituali e morali e i valori socio culturali che si trovano in essi>>. Il secondo fondamento è un incontro che si è svolto ad Assisi il 27 ottobre 1986 e che, per la sua valenza simbolica, è stato definito "l'icona di Assisi". Quel lunedì, l'immagine del Papa seduto in cerchio assieme ai rappresentanti di quasi tutte le religioni, ha "detto" più di mille discorsi. Un credente cattolico che voglia fermarsi a riflettere sul buddhismo, come su altre esperienze religiose, può partire da questa premessa, può avere il conforto di questi fondamenti. Questo breve scritto non vuole spiegare una religione ma rendere condivisibile una riflessione. Un detto buddhista spiega l'essenza di quella che, più che una religione, è una spiritualità: "se uno è colpito da una frecccia non si domanda chi è che l'ha scagliata, ma si impegna piuttosto nel cercare di estrarla". Possiamo quindi parlare del buddhismo come di un cammino graduale di perfezione: esso è realizzabile e l'esempio supremo è offerto dal Buddha, "l'illuminato, il risvegliato". La caratteristica del buddhismo, soprattutto nella sua tradizione Mahayana (del grande veicolo) alla quale appartiene anche il lamaismo tibetano, è quella di sottolineare come ognuno debba trovare la propria strada affidandosi sì alla guida di un maestro, ma solo in seguito ad un progresso conseguito all'interno di un cammino consapevolmente intrapreso. Al contrario, ad esempio, della tradizione rabbinica infatti, nel buddhismo il maestro "appare" quando il discepolo "è pronto". All'inizio di ogni cerimonia religiosa importante i buddhisti recitano: <<Prendo rifugio nel Buddha, prendo rifugio nel Dhamma, prendo rifugio nel Sangha>>. Sono questi i tre gioielli della spiritualità buddhista. Il Buddha è personaggio storico, colui che ha raggiunto lo stato di illuminato e che per primo ha tracciato la strada ed ha reso visibile la possibilità della liberazione. Il Dhamma è la verità creduta ed insegnata da Buddha. IL Sangha è l'insieme di coloro che si impegnano nel cammino di liberazione: è l'incarnazione nella storia del cammino di salvezza. Il Buddha (Siddharta Gotama) nasce intorno al 583 a.C. nella zona gangetica dell'attuale Nepal. E' parte della piccola aristocrazia semiurbana ed appartiene alla stirpe dei guerrieri. Si racconta che abbia vissuto da giovane una vita agiata ma insoddisfacente e tormentata dall'incapacità di dare risposta al problema della sofferenza umana e del dolore. Fino a quando non decide di intraprendere una strada diversa fatta di ricerca, digiuno, veglia, ascesi, vita comunitaria e solitaria, silenzio. Ma ancora Siddharta non comprende e decide quindi di fermarsi sotto un grande albero: non si sarebbe rimesso in cammino fino a quando non avesse trovato soluzione ai propri tormenti. Dopo qualche tempo, nella notte viene tentato da Mara, il Diavolo, e poco prima dell'alba si risveglia (Buddha = il risvegliato) e parte per la città santa di Benares dove inizierà la sua predicazione, insegnando le quattro nobili verità (Dhamma). Esse sono: - tutto ciò che esiste è dolore, miseria, transitorietà; - questo stato miserevole è causato dal desiderio e dall'ignoranza; - il superamento di tale stato, cioè la salvezza, è possibile; - la via che vi conduce è l'ottuplice sentiero (otto regole pratiche di comportamento). Come si nota, la verità buddhista non è di natura filosofica ma esistenziale e normativa, potremmo dire quasi "tecnica". La meta finale è una condizione di sommo bene, detta Nirvana che, come nota Marcello Zago nel suo bel testo (M. Zago, La spiritualità buddhista, ed. Studium), <<non è tanto la verità che bisogna credere o conoscere in modo nozionale, quanto l'assoluto da scegliere e il fine ultimo verso cui bisogna incamminarsi... Il Nirvana propriamente non si può descrivere, lo si può solo cercare e raggiungere>>. << Interrompi la corrente del fiume con energia, o brahmana, disperdi le brame! Quando avrai compreso la distruzione degli elementi dell'esistenza riconoscerai Ciò che Non è stato Creato (= il Nirvana)>>. La questione tibetana storia di una vergogna Il Tibet è una regione che si estende per 1.200.000 Kmq nel sud-ovest della Cina. Vi risiedono circa 13 milioni e mezzo di persone di cui 7 milioni e mezzo di cinesi e 6 milioni di tibetani. Mezzo milione dei residenti cinesi è militare per cui possiamo dire che approssimativamente in Tibet è di stanza un militare cinese ogni 10 tibetani. L'invasione cinese infatti (vedi scheda) è stata accompagnata da una sistematica violazione dell'art. 49 della quarta convenzione di Ginevra (1949) che vieta il trasferimento di parte della popolazione del paese occupante nel paese occupato. Inoltre l'occupazione ha portato alla distruzione di 6254 monasteri, templi della cultura tibetana, luoghi paragonabili alle nostre università. La presenza dei monaci si è drasticamente ridotta basti pensare che i tre principali monasteri tibetani (Sera, Ganden, Drepung) negli anni '60 ospitavano rispettivamente novemila, seimila e diecimila monaci mentre adesso ne possono ospitare solo dai duecento ai trecento. L'autorità cinese infatti, tra i molti ostacoli, impedisce di scegliere il monachesimo dopo il compimento del diciottesimo anno di età. Ma il tentativo di una sistematica distruzione del tessuto culturale tibetano non si ferma qui: oggi l'insegnamento superiore è impartito in cinese in quanto, si dice, il tibetano mancherebbe di una terminologia specifica sufficiente. La scusa potrebbe reggere se in tibetano, prima della repressione culturale cinese, non si fossero insegnate materie come logica formale, dialettica e teologia. Questo è il Tibet oggi. Un paese, un popolo il cui capo politico e spirituale, il Dalai Lama, è in esilio nella vicina India dal 1959 e la cui seconda autorità del paese, il Panchen Lama, dopo un periodo di incertezza, si è ribellato all'autorità cinese soffrendo per questo quindici anni di rieducazione. Il Panchen Lama è morto nel 1989 ed i monaci stanno ancora cercando il suo successore che, come vuole la tradizione, deve essere un neonato che riconosca gli oggetti appartenuti al suo predecessore. Dagli anni '60 ad oggi sono spariti un milione e duecentomila tibetani. Nel 1987, 1988, 1989 è stato un susseguirsi di dimostrazioni seguite da dure repressioni ripetutamente condannate da Amnesty International. L'autorità cinese infatti si rende responsabile continuamente di una politica di sterilizzazione delle donne e di sparizione dei bambini tibetani. Il Tibet inoltre è diventato il luogo privilegiato per lo stoccaggio delle scorie radioattive di tutta la Cina. Il paese è economicamente importante perché ricco di uranio e legname e perché è la sorgente di gran parte dei corsi d'acqua del continente indiano.Il Dalai Lama ha chiesto ripetutamente il riconoscimento del Tibet presso le Nazioni Unite le quali hanno adottato alcune mozioni di condanna dell'atteggiamento cinese: chi difende la sovranità cinese sul Tibet dovrebbe infatti spiegare perché i tibetani hanno una lingua (il tibetano) che parlano solo loro e praticano il buddhismo tantrico diffuso esclusivamente nella loro regione. L'ultima proposta del Dalai Lama, in ordine di tempo, è che il Tibet, pur rimanendo sotto l'influenza cinese, sia riconosciuto come area asiatica di pace e protezione della natura. Nel 1989 gli è stato conferito il premio Nobel per la pace: nello stesso anno il Tibet è stato chiuso al turismo (ora lo si può visitare solo tramite viaggi organizzati e accompagnati da guide cinesi). Ma la "questione tibetana" non commuove. La realpolitik italiana ha portato il Presidente del Consiglio on. Giulio Andreotti al rifiuto di ricevere il Dalai Lama prima del suo viaggio in Cina nel 1991 per non scontentare il governo cinese. E' lecito dubitare fortemente che la questione del Tibet sia stata oggetto di discussione durante la recente visita del leader cinese Li Peng in Italia. Il problema però eccede il livello diplomatico ed è di tipo culturale. La situazione tibetana infatti mette in crisi alcune nostre categorie e pone problemi per certi versi nuovi. E' vero, ad esempio, che la liberazione del Tibet non andrebbe nel senso di una modernizzazione come noi la concepiamo: non andrebbe cioè verso la nostra idea di nazione. Nella cultura politicoreligiosa tibetana vediamo qualcosa di medioevale, qualcosa che non rientra nelle nostre categorie politiche e culturali. La categoria della modernizzazione economica sembra prevalere, nel nostro giudizio, su quella della giustizia e dell'autodeterminazione. Infine, è un dato di fatto, i tibetani, nonostante tutto, non rischiano l'estinzione: sembrano esserci problemi più importanti. Fonti: F. La Cecla, Il Tibet è lontano, saggio contenuto in Micromega 1/1991, pp.171-182 Asia News Numero 97, 15 ottobre 1991, p.422 Asia News Numero 100, 1-15 dicembre 1991, p. 525 Piccola scheda cronologica 1906: l'Inghilterra occupa Lhasa. Viene stipulato un trattato che riconosce la sovranità cinese. 1910: Invasione cinese. Fuga in India del 13° Dalai Lama. 1912: Dichiarazione di autonomia. Fino ad adesso il Tibet è stato una provincia dell'impero Manciù. 1914: Accordo di Simla che riconosce l'autonomia. La struttura feudale impedisce la proclamazione dell'indipendenza. 1949: Proclamazione della Repubblica Popolare Cinese. 1950: Occupazione militare del Tibet. 1951: Concessione di una limitata autonomia interna. 1959: Rivolta e fuga del Dalai Lama e di circa 20.000 tibetani in India dove riescono a conservare la loro identità. 1989: Susseguirsi di rivolte seguite da dure repressioni con migliaia di morti e detenuti. 1989: Il Dalai Lama riceve il Premio Nobel per la Pace. Business is Business Domenica 24 agosto 1992, su alcuni dei maggiori quotidiani nazionali, apprendiamo che l'ufficio pubbliche relazioni dell'Holiday Inn di Lhasa ha promosso per la fine di agosto, in collaborazione con la compagnia turistica Siat, una settimana dedicata alla cucina ed alla moda italiana. Cene e sfilate, con la benedizione del governo cinese, erano annunciate all'interno di alcuni dei più suggestivi monasteri tibetani. Riportiamo dalla "Repubblica": << La notizia dell'happening "volgare e di cattivo gusto" come è stato definito dai tibetani rifugiati in India, è stata anticipata con un lancio di agenzia dall'autorevole giornale inglese Observer. Secondo il servizio, che uscirà oggi nelle edicole (24 agosto, n.d.r.), la manifestazione è stata organizzata sotto l'egida del governo italiano. In particolare si parla di una delegazione di 20 vip, guidata dal signor Stefano Torda, direttore generale del ministero per il Turismo. Dal dicastero c'è stata ieri una smentita, ma in realtà l'informazione viene da un certo Alec Le Suer, portavoce del signor Ernesto Barba, pugliese di Gallipoli, direttore dell'Holiday Inn di Lhasa ed inventore della contestata iniziativa. Il signor Le Suer annuncia per conto di Barba che saranno presenti "praticamente tutti i maggiori stilisti italiani" insieme ai "top chef" d'Italia ed in particolare dalla Puglia, terra d'origine di Mister Barba>>. Cosa vogliamo fare? Indignarci ed inneggiare al cattivo gusto? Ricordare che la real-politik italiana, più realista del re, non ci ha mai convinto e tuttora ci sconforta? Provare ad immaginare che effetto farebbe un cenone di fine anno, con immancabili ricchi premi e cotillons, sotto il colonnato del Bernini o sotto le guglie del Duomo di Milano? O ricordare, più drammaticamente, che la politica farneticante di desertificazione della cultura tibetana da parte cinese ha prodotto migliaia di vittime innocenti? Che pena signori. Che pena il paese dei Mister Barba. Che pena questa cultura del "Made in Italy" che calpesta i sentimenti più profondi della gente. Questa è l'Italia che esportiamo: peccato. Noi però, che nel nostro piccolo abbiamo cercato di aiutare a comprendere il dramma di questo popolo e di questa regione, che ci siamo adoperati perché il silenzio non calasse sulla tragedia tibetana e abbiamo denunciato la spaventosa e scientifica campagna coloniale cinese, non ci stiamo. Diciamo forte che ci vergognamo di tutto questo e che continueremo nel nostro sforzo di solidarietà. Fosco Maraini un incontro speciale Quando entriamo nella sala che ospiterà la conferenza èancora presto. Si siede mentre gli spiego come si svolgerà l'iniziativa: i modi sono gentili, l'aspetto trasmette una straordinaria vitalità. Fosco Maraini è una persona incredibile , la sua vita si snoda nell'arco di tutto il nostro secolo e, mi confida qualcuno, se non fossimo in un paese tanto bravo ad allevare grandi uomini quanto ingiusto nel non valorizzarli sarebbe tra i nostri vanti maggiori. Invece accade che nei villaggi sperduti del Tibet o nei solitari monasteri giapponesi ti chiedano sue notizie, mentre in Italia il suo nome è quasi sconosciuto ai profani. Negli anni '30 Maraini arrampica in Dolomiti con personaggi del calibro di Piaz e Comici, con loro apre alcune delle vie più belle del Vajolet. La seconda guerra mondiale lo sorprende studioso in Giappone dove, fatto prigioniero, patisce gli stenti dei campi di prigionia. Ma qui è per raccontarci del "suo" Tibet: quel Tibet che ha attraversato in più riprese sia negli anni trenta che negli anni successivi al 1950, data funesta dell'occupazione da parte della Cina comunista, e che fa di Maraini un testimone prezioso e raro della devastazione sistematica e brutale di una delle più belle civiltà della nostra storia. Le diapositive che Fosco Maraini ci mostra sono inquietanti: nei suoi viaggi al fianco del professor Tucci, grandissimo tibetologo ormai scomparso, ha raccolto fotografie non sapendo che sarebbero presto diventate le uniche testimonianze al mondo di tesori ormai spariti per sempre, distrutti dalla furia ideologica cinese. Ma cosa è accaduto in Tibet? E' accaduto che nel 1950 la Cina lo ha occupato militarmente iniziando un massiccio trasferimento di popolazione civile in barba all'art. 49 della quarta convenzione di Ginevra, tanto che adesso si contano, in territorio tibetano, circa 6 milioni di tibetani contro 7 milioni e mezzo di cinesi (di cui mezzo milione di militari per cui si ha un rapporto di un militare cinese ogni dieci tibetani). E' accaduto che l'occupazione ha portato alla distruzione di più di seimila monasteri, centri della cultura paragonabili alle nostre università; al divieto di diventare monaco dopo il compimento del diciottesimo anno di età; al boicottaggio sistematico della vita monastica tanto che il monastero di Sera che ancora negli anni '60 contava circa 9.000 monaci, adesso non ne ospita più di trecento. E' accaduto che il capo politico-spirituale del Tibet, il Dalai Lama, è dovuto fuggire con migliaia di connazionali in India nel 1959 e da allora tenta di salvaguardare con tenacia l'identità del suo popolo. E' accaduto, infine, che oggi èdifficile varcare la frontiera del Tibet per i turisti, meno per le scorie radioattive cinesi e di alcuni stati europei. Fosco Maraini è venuto per questo, invitato dall' associazione "Eirene", per parlarci di come Cina e Tibet siano in realtà due nazioni completamente diverse per lingua, cultura e religione e di come la prima, grazie anche alla realpolitik europea, stia schiacciando l'altra che nonostante tutto riesce a sopravvivere. Quando ho accompagnato il professor Maraini all'uscita mi è sembrato soddisfatto: è stato prodigo con tutti di strette di mano e sorrisi. Qualcuno comincia ad aprire gli occhi sul dramma di un popolo a lui così caro. Piccolo Tibet diario di un viaggio in Ladakh Un viaggio atteso e sognato. I viaggi non iniziano mai con la partenza ma con l’immaginazione, il sogno. Questa mattina di luglio aggiungiamo un tassello a quel lungo tragitto iniziato tanti anni fa, quando scoprimmo il gioiello: la cultura e la spiritualità tibetana. Torniamo con la mente all’incontro con il maestro fiorentino che, quasi ottantenne, attraversa di corsa la strada ed arriva nel luogo convenuto per parlare del Tibet che non c’è più, dei monaci esiliati, dei monasteri distrutti. Sull’aereo che ci porta a Francoforte infatti, i primi pensieri sono per Fosco Maraini (dei cui scritti e pensieri ci siamo ampiamente nutriti in questi anni e, soprattutto, negli ultimi mesi). A Francoforte dobbiamo attendere alcune ore e decidiamo di concederci una ricca colazione in stile “allemando”: salsicce, crauti e mezzo litro di birra a testa. Non avevamo calcolato però che sul “Francoforte – Mumbai” ci venisse servito il pranzo in stile indiano: il primo incontro interculturale avviene nel nostro stomaco e risulta ricco di contrasti. Durante il volo, il mio compagno di viaggio mi trasferisce pillole entusiaste di conoscenza: ha preparato un piccolo quaderno con una sintesi degli aspetti salienti del buddismo e della cultura indotibetana in genere, oltre a quella “piccola summa” che è il glossario di “Segreto Tibet”. Viaggiare in due verso l’India significa riprodurre naturalmente lo schema “Lama-Chela” (maestro-discepolo) del Kim di Kipling. Mi immedesimo con passione nella condizione che, usando un termine sanscrito, definisco di KAB-CHUNG (seminarista). Durante la lettura ci scambiamo commenti divertiti sulle descrizioni degli amplessi divini su cui Maraini si sofferma spesso con evidente compiacimento. Arriviamo a Mumbai (già Bombay) in piena notte: abbiamo poche ore per una doccia ed un breve riposo. All’uscita dall’aeroporto siamo avvolti da folate di caldo odorose. Inizia la contrattazione di ogni cosa e le continue mance, attraversiamo all’alba una Mumbai sudata e zeppa di umanità: siamo in India! Abbiamo deciso di volare con la Jet Airways che, almeno nelle forme, garantisce maggiore affidabilità delle Indian Airlines. Dopo circa due ore di volo arriviamo a Chennai (già Madras). Cerchiamo un taxi e troviamo la classica Ambassador che diventerà una compagna costante e affidabile del nostro viaggio. Imbocchiamo una striscia di strada verso la città: caos immenso, clacson assordanti, corriere stracolme da cui si sale e si scende al volo, si passa zizagando in una zuppa di umanità. Riusciamo ad arrivare al Taj Connemara dove ci sistemiamo. L’inglese di qui è stretto e “strascicato”: il classico “ciondolìo” della testa degli Indiani complica notevolmente la comprensione. Riusciamo a dormire e a recuperare qualche ora. Cena indiana al ristorante dell’albergo allietati da una bellissima danzatrice. Decidiamo di fare un giro notturno della città: lo facciamo con un risciò a motore guidato da un autista che parla esclusivamente Tamil. In qualche modo raggiungiamo la Marina (la seconda spiaggia del mondo per estensione) sulla Baia del Bengala. La spiaggia è piena di “intoccabili” che dormono. Prima di andare a dormire, ci lasciamo andare a riflessioni filosofiche di scarso valore vista la stanchezza: lo facciamo sul bordo della piscina con sigaro, gin tonic e camicia umida. La mattina seguente, grazie anche al gin tonic, ci alziamo tardi. Visitiamo Fort S.George e la cattedrale di S.Thomas dove la tradizione vuole sepolto il corpo del santo incredulo. Vediamo una Chennai diversa, più tranquilla. Insperata oasi di silenzio il parco della Società Teosofica: squarcio vero di India coloniale che ci ispira riflessioni piuttosto conservatrici. Partiamo nuovamente per l’aeroporto. Arrivati a Delhi, due ore e quaranta minuti di viaggio, consumiamo una cena “occidentale” per far riposare un po’ anche il nostro stomaco. La sala è vuota, il tempo passa con discussioni di “tuttologia” scarsamente applicata: l’autore più citato della serata è Amartya Sen, uno di quelli che ci fanno amare l’India. Notiamo che caratteristica della parlata di Delhi è quella di “mangiarsi” le parole. Stiamo bene. Dormiamo un po’ in aeroporto: partiamo in leggero ritardo per Leh. Il sogno si trasforma in realtà. Le cime dell’Himalaya si stagliano da una glassa di nuvole. Vista l’altezza delle cime, le vediamo accanto. L’aereo, partito da Delhi un’ora prima, vira verso il transhimalaya e, piano piano, appaiono le vallate del Ladakh. L’emozione è indescrivibile: strisce di miele verde incassate in valli stupende. Atterriamo a Leh in un piccolo aeroporto militare: del resto, in questa terra al confine tra India, Pakistan e Cina, gli eserciti sono elementi costanti del paesaggio. In fila, segniamo a mano i nostri dati su un registro e prendiamo un taxi per l’hotel Gal-dan Continental nel centro del paese. Bazar, rumori, sporcizia e facce simpatiche si confondono in un clima di confusa pacatezza. L’hotel ha una corte carina ed è essenzialmente accogliente. E’ adatto al luogo. La camera è simile a quella di un rifugio di montagna: non vi sono pavimenti, gli asciugamani non sono proprio pulitissimi ma il personale è sempre sorridente e servizievole. Luce e acqua calda sono disponibili solo in alcune ore della mattina e della sera. Su richiesta possiamo consumare alcuni spuntini ma non pasti veri e propri. Tra tante emozioni ricordo la sosta al monastero di Chemnei. All’ingresso, un piccolo monaco ci chiede una penna. Entriamo nel “Dukhan” e assistiamo ad una preghiera solitaria accompagnata dal classico suono di tamburo. Uno dei monaci, dopo che il mio compagno dimostra di ben conoscere le divinità raffigurate all’interno del monastero, ci prende in simpatia. Veniamo a sapere da lui che, in una stanza non accessibile agli estranei, sono custodite maschere ed oggetti rappresentanti divinità terrificanti. Chiediamo naturalmente di farvi visita, ma il nostro amico ci fa gesti significativi di terrore. E’ in quel momento che, visto il suo interesse per la mia torcia tascabile, gli propongo uno scambio: la torcia contro l’ingresso nella stanza. Le paure si volatilizzano e riusciamo ad entrare. Lo spettacolo che ci appare è entusiasmante: maschere di grandi dimensioni usate per il famoso festival del monastero che si tiene in autunno. Questo episodio rafforza la simpatia tra noi e il monaco: appena usciti dalla cappella dedicata a Tara (di recente costruzione) ci invita nella sua cella a prendere il tè. L’idea da una parte ci affascina, dall’altra ci terrorizza visto il livello di igiene del luogo. Decidiamo comunque di accettare e ci preoccupiamo unicamente di mettere in serie un’infinità di domande con l’unico scopo di far bollire il tè per almeno dieci minuti (tempo necessario per far fuori la maggior parte dei bacilli più temibili). All’ottavo minuto, per evitare incidenti diplomatici, decidiamo di sederci e prendiamo la nostra razione di bevanda. Il sapore è molto buono: è stato fatto alla maniera tibetana, mescolando da subito acqua, tè e zucchero (abbiamo evitato il latte che è l’altra componente essenziale) e filtrando il tutto al momento del versamento nella tazza. Finalmente rilassati, il monaco accenna ad un Mantra di Padmasambhava: tentiamo una imitazione ma veniamo seriamente redarguiti sulla pronuncia della parola “HUM” (il suono è molto gutturale, la “M” finale non si sente). Giunta l’ora del congedo, regaliamo al nostro amico una fascia elastica per il suo piede malandato. All’uscita un bambino, che sembra il monello del monastero (spesso viene redarguito perché entra con i sandali nelle zone sacre) ci saluta: aveva potuto sfogliare, insieme ad alcune donne ladake, i nostri libri con le foto dei luoghi da loro conosciuti. Semplicità e gentilezza, come sempre, regnano sovrane. La sera, a Leh, ceniamo al solito ristorante dove chiacchieriamo amichevolmente con due simpatici tedeschi qui per fare trekking. Ritorniamo in albergo con l’aiuto dell’unica torcia rimasta (la città non è illuminata) e riusciamo a riposare dopo una giornata intensa e piena di piacevoli sensazioni. Una mattina finalmente troviamo delle moto a noleggio: optiamo per due Yamaha Escort due tempi, poiché la Enfield risulta molto pesante e non facile da usare per motociclisti non molto esperti quali siamo. Felici, dopo un tragitto superbo, vento in faccia, raggiungiamo Basgo. Le sensazioni provate lungo il percorso sono indescrivibili. Percorriamo, talvolta in solitudine, la lunga striscia di asfalto che attraversa una zona desertica di rara bellezza. L’atmosfera è incredibile. Una parte del tratto si rivela particolarmente pericolosa per la strettezza della strada e la presenza di camion, soprattutto sul tratto dove lo Zanskar confluisce nell’Indo. Di ritorno da Basgo ci riposiamo un po’ e poi ripartiamo per la vicina Stok sede degli attuali discendenti degli antichi regnanti Ladakhi. Non troviamo immediatamente la strada, anzi ci perdiamo e ci ritroviamo in un viottolo di campagna ameno, pieno di bambini di ritorno dalla scuola con i classici pullover amaranto che si fermano a giocare lungo i ruscelli. A due diamo un breve passaggio sulle moto. I bambini ladakhi sono tanti, vivaci, simpatici. Riusciamo a trovare il monastero: una piccola cittadella molto carina, semideserta: una vera scoperta. Un monaco anziano ci informa molto gentilmente che i luoghi sacri sono chiusi e che il “padre guardiano” è andato via. Decidiamo allora di inerpicarci per un colle sopra il monastero dove è situata una pietra: strano monumento votivo fatto di rami pieni delle caratteristiche preghiere al vento. Ci troviamo così immersi nel silenzio e nella contemplazione che solo queste montagne sono in grado di donare con tanta intensità. I momenti di solitaria meditazione sono seguiti da riflessioni sui ricordi e sui meccanismi della mente. Torniamo in città: la moto si rivela un mezzo stancante, siamo provati. Per la sera, cambiamo ristorante (Yak Tail in Fort Road) e ceniamo indiano in maniera ottimale accanto ad amici olandesi conosciuti qualche giorno prima quando, stremati dal percorso in bicicletta, ci hanno chiesto un passaggio verso Hemis. Prima di addormentarci, affrontiamo una breve ma dotta discussione sul significato della “liturgia delle ore”: dopo poco cadiamo tra le “braccia di Morfeo”. Il nostro viaggio è ormai giunto al termine. Passiamo una mattinata nella biblioteca buddista poco fuori dal paese: probabilmente avremmo dovuto farlo il primo giorno, sia perché ci avrebbe permesso un approccio più graduale all’altura, sia perché scopriamo volumi interessanti. Abbiamo ormai chiaro che sono indispensabili compagni di viaggio, da queste parti, il grande Giuseppe Tucci, Luciano Petech e Sven Hedin il quale ci consola dei nostri ormai vuoti portafogli, descrivendo così la sua condizione a Leh: Here the Silver stream of rupees flowed away without intermission, but I consoled myself with the thought that we should soon be in a country where, with the best will in the world, we could not spend a farthing. E’ difficile trarre delle conclusioni. Il Ladakh è veramente qualcosa di particolare. Abbiamo cercato di affrontarlo da viaggiatori e non da turisti e questo comporta voglia di conoscere, letture, desiderio di vivere giorno per giorno senza programmi ma aperti alla possibilità che l’ascolto e il respiro del luogo potevano suggerirci. In Ladakh si può viaggiare in Ambassador o in moto, si può andare in bicicletta e a piedi (se adeguatamente preparati), si può fare l’autostop per brevi tratti (basta muovere il braccio dal basso verso l’alto con il palmo rivolto in giù). I ritmi sono lenti, puoi cambiare valuta un po’ da ogni parte, puoi fare conoscenze o restartene solo in contemplazione. Ciò che è certo è che il Ladakh ti cambia: con gentilezza e pacatezza, con semplicità e serenità. Le persone sono gentili, le loro facce indimenticabili. L’Indo scorre da secoli e accompagna il vagare dei monaci: testimone affidabile del tempo che avvolge e protegge l’invecchiare dei gompa. Le preghiere al vento, da colle a colle, evocano una spiritualità ancora viva e genuina come le ruote della preghiera fatte di barattoli scoperchiati. Viaggeremo ancora in senso orario, viaggeremo ancora seguendo le orme dei maestri. © 2007 Giovanni Paci (per gli scritti) Tutte le immagini sono tratte da internet, se avessi violato qualche diritto vi prego di contattarmi all’indirizzo e-mail [email protected] e provvederò a rimuovere le immagini e a divulgare una nuova versione del documento