- Club Milano

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club milano
n. 36
Ezio Bosso: «La musica è spazio condiviso, non esiste ascolto. E noi abbiamo la responsabilità di coinvolgere»
Viaggio nelle enoteche di città: da quelle storiche dove sentirsi milanesi DOC a quelle dove fare nuove amicizie
Se non soffrite il freddo e non temete la velocità, quest’inverno potreste provare uno sport nuovo: l’ice sailing
Sempre meno persone prendono appunti a mano, ma in tutta Italia fioriscono numerosi i corsi di calligrafia
gennaio - febbraio 2017
Antonio Marras: «La moda è un
lavoro serio, che richiede tempo e
passione per poter lasciare il segno»
− pagina 16
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editorial
Fuori classifica
Le classifiche sono come i sondaggi, la Nutella e la Coca Cola. Non ne puoi fare a
meno ma sai che dietro si nasconde il trucco. Fintanto che le si prende con leggerezza
possono anche essere divertenti, il problema sorge nel momento in cui le si eleva a
strumento utile, se non addirittura indispensabile, per costruirsi un’opinione. Proprio
negli anni del boom rappresentato da Expo, Milano è crollata dal 1° al 48° posto
nella speciale classifica italiana sulla qualità della vita (stilata da Italia Oggi e Università La Sapienza a novembre 2016). Quali siano i parametri di valutazione e come
vengano pesati è sempre un po’ un mistero. Di certo, per chi ci vive, è evidente che
Milano non è Mantova (oggi leader) e neppure Crotone (ultima), ma è qualcosa di
completamente diverso. È come chiedere se è più buona una mela o la pizza. Rispetto a una qualsiasi città di provincia abbiamo più traffico, più smog, più giocolieri (e
imprecazioni) ai semafori, meno asili e più cari, la trattoria è spesso solo sull’insegna
e non sul conto da pagare, la pausa pranzo dura meno di un’ora e se sei fortunato
la fai al bar e non certo a casa tua, un trilocale è un lusso per pochi, il parcheggio
una chimera. Però può capitare di decidere all’ultimo minuto di andare a vedere
una mostra di Basquiat, un concerto, di avere l’imbarazzo della scelta se mangiare
indiano, thailandese, giapponese, oppure una pizza alta, bassa, al taglio o fritta. Puoi
essere elegante anche senza marca, puoi essere ricco anche in bicicletta e nel week
end decidere di andare al mare, a sciare o al lago. E tutto in meno di due ore. Oppure
scegliere di andare a visitare le ricchezze artistiche di Mantova (proprio lei, la capoclassifica) senza alcun complesso di inferiorità, piuttosto con un po’ di stress in più
addosso. In realtà Milano dovrebbe essere fuori classifica perché ha caratteristiche
uniche che altre città non hanno. In particolare il gusto per la condivisione (spopola
il coworking e qualunque forma di sharing) e l’esaltazione del diverso da sé come
valore da ricercare e non da temere. Una rarità, soprattutto in quest’epoca in cui la
cultura “trumpista” sembra dominare. La verità è che chi ha scelto di vivere a Milano
difficilmente potrebbe accontentarsi di qualcosa di meno, per quanto più comodo e
meno stressante. È come una donna bellissima che ti obbliga a tenere alta la soglia di
attenzione, ti stanca, ma non riesci a farne a meno. Proprio come una bella classifica.
Stefano Ampollini
VIA DELLA SPIGA 30
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contents
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Volkswagen raccomanda
point of view
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focus
Calligrafia dell’anima
Spazio al pensiero
di Roberto Perrone
di Marilena Roncarà
inside
12
interview
Brevi dalla città
Ezio Bosso
a cura di Elisa Zanetti
di Nadia Afragola
outside
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focus
Brevi dal mondo
Milano in un sorso
a cura di Elisa Zanetti
di Elisa Zanetti
cover story
www.volkswagen.it
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Nuova Tiguan.
Connected with your life.
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Antonio Marras
di Nadia Afragola
interview
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Gigi Simoni
di Simone Sacco
focus
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La città s’illimpidiva
di Marilena Roncarà
portfolio
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Osservatorio Milanese
foto di autori vari
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contents
focus
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hi tech
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Scripta manent
Quando la tv è Ultra (HD)
di Carolina Saporiti
di Paolo Crespi
handwriting
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weekend
In bella scrittura
Storie preziose
di Alessia Delisi
di Carolina Saporiti
style
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weekend
Urban gentlemen
Carnevale tutto l’anno
di Elisa Anastasino
di Tullia Carota
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overseas
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Mi Buenos Aires querido
di Andrea Zappa
sport
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Sailing on the rocks
di Andrea Zappa
design
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food
Giardino d’inverno
Gourmet in quota
di Marzia Nicolini
di Marzia Nicolini
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food
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Felix Lo Basso
di Roberto Perrone
free time
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Da non perdere
a cura di Enrico S. Benincasa
secret milano
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Il luogo che non c’è
di Elisa Zanetti
In copertina
wheels
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Antonio Marras
Genio volante
Foto di Matteo
di Ilaria Salzano
Cherubino
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point of view
roberto perrone
Giornalista e scrittore, vive a Milano ma ha
solidi radici “zeneisi”. Si è occupato di sport,
food e viaggi a “Il Corriere della Sera”. Ora è
freelance. Il suo sito è perrisbite.it. A febbraio
è uscito il suo primo noir, La seconda vita di
Annibale Canessa (Rizzoli)
Calligrafia dell’anima
Il più bell’esempio di calligrafia lo ricordo ancora adesso con un po’ di dispiacere
per il fatto che è andato perduto. Lo conservavo, insieme con le tante lettere che
avevo ricevuto da amici e amiche di ogni parte d’Italia, qualcuna pure dall’estero,
in una scatola che mia madre infilò in un cassonetto in un momento di iconoclastico repulisti (senza prima avvertirmi, ovviamente). Erano un paio di fogli vergati
con una mano leggera e con una calligrafia perfetta, con le righe straordinariamente diritte, precise, come se ci fossero state delle linee di supporto. E poi non c’era
una sbavatura, non c’era uno svolazzo di inchiostro che rovinasse l’impatto visivo.
La penna della mia amica Lella aveva trasformato due salviette di carta delle allora
FFSS, cioè le Ferrovie dello Stato, recuperate nel bagno della carrozza di un treno, in un perfetto esercizio di calligrafia. Non ho mai capito come avesse potuto
scrivere là sopra, su una carta porosa, insidiosa, senza bucarla, senza sporcarla.
Era ed è un’artista e infatti quella per me era un’opera d’arte. E come tante opere
d’arte è andata perduta. Come è andata perduta la nostra abitudine a scrivere a
mano in buona e meno buona calligrafia. Non so da quanto tempo non scrivo una
lettera che non sia in formato mail. Eppure la scrittura mi affascina e acquisto una
stilografica almeno una volta all’anno. Io credo che la scrittura dica molto di noi,
di come siamo, di quello che pensiamo. Scrivere era qualcosa che ci apparteneva,
che ci faceva unici, che ci rendeva speciali. Scrivere, con una calligrafia che fosse
comprensibile, perché c’era anche questo sforzo da fare, rappresentava anche una
fatica, era un gesto molto più impegnativo di quello che compiamo pigiando sui
tasti di un computer, di un cellulare, di un tablet, insomma di quelli che oggi
chiamiamo device. Ricordo la gioia di trovare nella cassetta delle lettere una busta
con il mio nome scritto sopra, in una scrittura diversa, magari femminile, l’ansia
di leggere di cosa si trattasse. Ricordo di lettere scritte a ragazze di cui mi ero
innamorato in cui cercavo di dire e non dire, spesso di saggiare il terreno per non
affondarvi con i miei sentimenti. Spesso in questa pagina racconto del passato, di
quello che non c’è più. I cinema spariti, i telefoni a gettone, le mezze stagioni. Non
è rimpianto, è storia. Il mondo va avanti e questi aggeggi che maneggiamo ora sono
comodi. Lo faccio per ricordare, prima di tutto a me stesso, che sono stato felice e
comunicativo anche senza WhatsApp, SMS, social vari e assortiti e che mi piaceva
scrivere, la sera, ai miei amici e alle mie amiche (di più) per raccontare di me. E se
mia madre non avesse distrutto tutte quelle lettere adesso cercherei di capire se allora dicevamo di noi di più con la calligrafia di quello che ora diciamo con gli strumenti elettronici. Sarebbe un bell’esercizio: capire la calligrafia della nostra anima.
Roberto Perrone
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INSIDE
Su il sipario
Ricomincia in grande il 15 febbraio con la Compagnia Marionettistica Carlo Colla & Figli che torna nel luogo che per più
di mezzo secolo è stato la sua casa, la programmazione del
Teatro Gerolamo. Questo gioiello architettonico a pochi passi
dal Duomo riapre dopo 33 anni di oblio e 10 di restauro e
per il rinnovato debutto i Colla portano in scena proprio quel
personaggio di Gerolamo che al teatro ha poi dato il nome.
www.teatrogerolamo.it
Live Wine
Torna a Milano il Salone Internazionale
del Vino Artigianale. Ospitato dal Palazzo del Ghiaccio il 18 e il19 febbraio
l’evento porterà a Milano 150 cantine
italiane e straniere. Durante la manifestazione si potranno seguire incontri e
degustazioni a tema, mentre durante
le serate Live Wine Night alcuni luoghi
selezionati della città offriranno approfondimenti in compagnia di vignaioli.
www.livewine.it
Škoda Preview
Si chiama Kodiaq ed è il nuovo arrivato di casa
Škoda. Presentato con una preview esclusiva da
AutoRigoldi, in una serata presso lo showroom
di via Pecchio 10, questa automobile colpisce per
il suo look imponente, grazie alla combinazione
di design e ampi spazi interni. Dotata di sistemi di
sicurezza e assistenza all’avanguardia e di sistemi
di connettività innovativi, Škoda Kodiaq rivoluziona il mondo dei SUV. Gli amanti delle sportive
ameranno la funzione off-road, che rende sicure
anche le avventure fuori strada.
www.autorigoldi.it
A tempo di musica
Orologio ufficiale e sponsor della stagione d’Opera, da molti anni Rolex sostiene le attività del Teatro alla Scala: anche
quest’anno il noto marchio di orologeria è stato partner della
serata inaugurale di Sant’Ambrogio e ha scelto di sostenere il
Concerto di Natale e il programma Grandi Artisti alla Scala,
con una serie di concerti che si chiuderanno il 19 settembre
con Tamerlano con Plácido Domingo.
www.rolex.com
La casa dell’arte
Riapre dopo 25 anni la Casa D’arte
Spagna Bellora, che nella seconda metà
degli anni Ottanta fu luogo di scambio
e di dibattito culturale attento alle
esperienze italiane e internazionali. Il
progetto prevede di accostare opere
storiche ad alcuni lavori recenti e per festeggiare inaugura una mostra dedicata
a Alessandro Algardi, Agostino Ferrari,
Umberto Mariani, Giorgio Milani, Kyoji
Nagatani e Tino Stefanoni.
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outSIDE
Ommm…
Un weekend dedicato alla scoperta dello Yoga e
delle sue tante sfaccettature. Giunto alla 17esima
edizione, YogaPorteAperte coinvolge centri e
insegnanti di tutta Italia proponendo un programma di incontri per gli appassionati, con la
possibilità per il pubblico interessato di partecipare a lezioni gratuite di prova, conferenze, dibattiti, proiezioni di video e altre iniziative. Quando?
Durante il weekend del 28 e 29 gennaio.
www.insegnantiyoga.it
Banff Mountain Film Festival
Imprese di atleti ed esploratori, grandi spazi selvaggi
e natura incontaminata. Sono i protagonisti del Banff
Mountain Film Festival World Tour Italy, la rassegna cinematografica che porta in Italia i migliori film del Festival del Cinema di Montagna di Banff, in Canada. Giunta
alla sua quinta edizione, la rassegna tocca 26 città italiane a partire da Torino il 13 febbraio. Tra i titoli spicca
Poumaka, che racconta l’apertura di una nuova via sulla
torre omonima situata sull’isola di Ua Pou, in Polinesia.
www.banff.it
Prêt-à-porter
È una mostra da indossare Prêt-à-porter di Giovanni
Frangi. Inserita nel programma di eventi ideati per
Pistoia Capitale Italiana della Cultura 2017, dal 5
febbraio al 2 aprile, l’esposizione dà vita a Palazzo Fabroni. Gli spazi espositivi sono infatti parte determinante del processo creativo dell’artista. Ogni opera si
lega al contesto architettonico e storico dell’edificio,
raggiungendo un suggestivo equilibrio compositivo.
www.palazzofabroni.it
Una laurea in caffè
Sono in 28 e vengono da 17 Paesi del mondo.
Sono gli studenti che hanno raggiunto Trieste
per frequentare il settimo anno del Master in
Economia e Scienza del Caffè promosso da Illy.
Unico al mondo, questo corso offre ai giovani
laureati una preparazione a tutto tondo sulla
cultura del prodotto, dalla pianta alla tazzina,
sulla valenza sociale ed economica del caffè e
sulla cultura dei Paesi produttori.
www.illy.com
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Storie per immagini
Prosegue Storie di EOS 5 Tour, l’evento organizzato da Canon e partito il 5 novembre da
Milano, che avrà come ultima tappa Bari, il prossimo 11 febbraio. Durante la giornata gli amanti
della fotografia potranno incontrare alcuni grandi
fotografi italiani, partecipare a seminari tecnici e
testare le ultime novità della casa giapponese.
L’appuntamento sarà anche l’occasione per
vedere gli scatti che hanno preso parte al contest
dedicato alla serie Canon EOS 5D.
www.canon.it/eos5tour
Cover story
Cover story
ANTONIO MARRAS
SEGNI RICONOSCIBILI
Nato ai confini dell’Impero, come dice lui, per lo stilista sardo tutto può accadere,
basta crederci. Appassionato di cinema, con la moda riesce a dare libero sfogo
a quello che gli piace di più: dalla danza al teatro, dalla poesia alla letteratura.
Nonostante sia legato alla sua terra natale, Marras si è radicato bene anche a
Milano, una città piena di segreti, ma capace di aprirsi a chiunque
di Nadia Afragola - foto di Matteo Cherubino
Antonio Marras è il più intellettuale
degli stilisti. Il più francese degli italiani. È stato tra i protagonisti dell’ultima
Settimana della Moda Uomo di Milano
con una sfilata, performativa, in Triennale, luogo che prima di aprire le porte
alla nuova collezione, gli ha dedicato
una mostra: Nulla dies sine linea. Vita,
diari e appunti di un uomo irrequieto,
nata per celebrare vent’anni di «stracci e pasticci». È un’isola felice la sua,
come quella che gli ha dato i natali e
che custodisce ancora oggi il suo laboratorio e lo studio di progettazione, la
Sardegna.
Si presenti...
Nasco ai confini dell’Impero. In Sardegna, ad Alghero, un’isola nell’isola
dove si parla ancora il catalano. Sono
attaccato a quel posto in maniera viscerale, quasi morbosa, ma c’è in me
da sempre il bisogno di andare via pur
restando. C’è un confine da superare
che è il mare e c’è un approdo che è
solo una tappa di un viaggio che non
finisce. Non ho pace in nessun luogo.
Nasco con un DNA preciso: mio padre
aveva un negozio di tessuti, fu il pri16
mo a portare Fiorucci in Sardegna negli
anni Settanta. Il mio primo viaggio fu a
Milano proprio da Elio. Ho iniziato a
seguire il negozio di papà che nel frattempo si è ammalato ed è mancato nel
giro di pochi mesi. Un signore, un bel
giorno, mi ha chiesto di disegnare una
collezione, l’ho ignorato per due anni,
nel frattempo mi sono diplomato in
ragioneria nonostante i miei problemi
con i numeri. Non ricordo una data,
non so le tabelline, ho dei problemi di
discalculia. Sono la prova vivente che
tutto può accadere. La mia passione
vera è il cinema, la moda è un modo
per mettere in scena quello che mi
piace: la danza, il teatro, la poesia, la
letteratura.
Dice spesso che la sua arte è fatta di
«stracci e pasticci». Ci spieghi meglio.
Devo riempire pagine, imbrattare superfici, incollare, attaccare, sovrapporre, togliere, cancellare, rimettere, aggiungere, incastrare, incasellare e poi
scomporre di nuovo tutto per cercarne
l’armonia. Qualche volta queste cose
trovano un loro perché che comprende tutto quello che ho in mano, da un
ritaglio di foto, agli smalti di Patrizia (la
moglie, NdR). Tutto diventa materiale
utile per raccontare questa mia necessità di lasciare il segno… di riempire
vuoti. Sono pasticci dei quali mi vergognavo, solo Maria Lai a suo tempo riuscì a convincermi del loro valore. C’è
voluto tempo perché fossero esposti,
incasellati e perché trovassero dimora
in vecchie cornici prima e in un luogo
come la Triennale poi.
La Triennale ha riservato ai suoi 500
quadri e alle installazioni di una carriera oltre 1.200 mq. Che legame c’è
fra i segni e la cornice?
Francesca Alfano Miglietti è stata la
curatrice e ricordo ancora quando è venuta da me la prima volta. Si è fermata
due giorni e ne è uscita ubriaca: le ho
proposto di vedere una carrellata di
cose che erano lì da una vita. Dopo un
iniziale spaesamento è stata bravissima
a riprendersi. Ho avuto poi sei mesi per
mettere ordine: il mio è un lavoro in serie. Sono un “serial killer”, mi piacciono
le cose ripetute, i multipli.
Una richiesta precisa: nessun ambito,
anche se c’è una stanza vietata ai mi17
Cover story
nori. Vuol dire che è diventato talmente bravo da superare i confini della
moda?
Sono stato molto contento di questa
richiesta, continuavano a chiedermi
quale collezione avrei esposto e alla risposta che non ci sarebbe stato nessuno
dei miei abiti la reazione era sempre la
stessa, sconcerto. Mi sono messo a nudo
e ho letto quella richiesta estrema, folle
e scriteriata come un profondo atto di
fiducia da parte di Silvana Annicchiarico, la direttrice della Triennale. Voleva
vedere solo le mie cose delle quali forse
aveva coscienza, ma non nella dimensione che poi hanno assunto. Ho ripreso in mano la mia vita, l’ho adattata al
luogo, l’ho fatta dialogare con lo spazio, un luogo ostico, una curva bianca,
asettica, che ho provato a rimpicciolire,
accostandola alle pareti, come dentro
un utero. Ci sono delle barriere di abiti
non miei da superare, vecchie giacche
appartenute a un’orchestra, camicie
intrise di lavanda bianca, che ricordano l’odore del bucato e provano a farti
sentire amato, protetto, accudito.
Da bambino era dislessico. È per questo che ha cercato respiro nella pittura
e nella fotografia?
Ho un problema grandissimo a leggere
a voce alta e avevo un maestro terribile
che me lo imponeva nonostante questa
mia paura. Una tortura: finivo sempre
per inventare parole che non esistevano pur di andare avanti. La pagina
scritta era un muro di lettere che bloccavano la mia mente, capace di trovare
respiro solo nelle pagine illustrate. La
prima cosa che ricordo della mia antologia è una foto con un campo bianco
e un taglio al centro: un taglio di Fon18
Cover story
tana, non sapevo chi fosse all’epoca e
non osai chiederlo. Era una ferita dove
potevi entrare, passare e andare oltre.
Mi si è aperto un mondo. E così ho iniziato a interessarmi solo alle cose che
mi garantivano respiro, come la poesia.
Ha però sempre trovato quel fil rouge
necessario a fare di singoli capi una
collezione completa: come si arriva a
un’idea d’insieme?
Il mio lavoro nasce dalla ricerca dei
tessuti, incontro ancora i fornitori con
i quali ho un rapporto stretto e ai quali
posso chiedere qualsiasi cosa. Mi dicono che sono pazzo e poi alla fine riusciamo a trovare quello che mi piace.
Sanno che mi devono far vedere errori, sbagli, quello che nessuno vuole, è
lì che puoi costruire poi una storia. Il
processo creativo non ha un iter sempre uguale, parto da una lettera, un
quadro, un film, un romanzo, una persona che ho incontrato, un dettaglio...
e da lì mettendo insieme frammenti,
bottoni, provo semplicemente a vedere
cosa succede.
Nel 2003 diventa stilista per la linea
prêt-à-porter della maison francese
Kenzo. Nel 2006 rivoluziona il concept e nel 2008 è promosso direttore
artistico globale del marchio. Come si
rivoluziona un mondo?
Rispettando il DNA del brand. Di solito chi arriva cerca di cancellare, togliere, annientare, buttare via, sradicare
quello che c’è stato prima. Alle volte
funziona ma non sempre. Credo che
non si possa lavorare nel presente guardando al futuro se non si dà un’occhiata al passato. È stato un periodo molto
intenso, una tappa di un viaggio molto
lungo.
Quell’equilibrio dei contrasti così tangibile nelle sue collezioni come si raggiunge?
Con assoluta incoscienza. Agisco e mi
muovo come un animale, per istinto.
Sono un sardo marino, cocciuto, determinato, ascolto tutti ma faccio come
penso sia opportuno fare. Porto avanti
un’idea, un concetto ma spesso parto
da cose che non mi piacciono, che ho
trovato brutte, irritanti fino a poco prima e poi a un certo punto scatta in me
il desiderio per certi dettagli sui quali
mi accanisco, fino a quando non trovo
la soluzione e quei particolari diventano parte integrante della collezione.
Devo poi lottare con una serie di persone che mi danno sistematicamente
del pazzo.
Franca Sozzani era molto più di una
semplice editrice italiana per la moda,
l’Italia e la città di Milano. Cosa resta
di questa donna così esile eppure così
carismatica?
Un vuoto. È riuscita a fare di un giornale, un baluardo, il biglietto da visita
nel mondo dell’Italia. Sceglieva dei fotografi che trasformavano quel giornale
in oggetto del desiderio da possedere
anche solo per quei servizi. E poi aveva dei collaboratori straordinari, penso
a Mariuccia Casadio, a Patrizia Gatti,
Cesare Cunaccia che facevano del giornale “quel giornale”.
Come definirebbe Milano?
Milano è una bella donna. È una città
nella quale sto molto bene, che negli
anni è cambiata tanto, migliorata in
maniera straordinaria, con i problemi
che non può non avere una capitale
così importante. È una donna piena di
segreti che si apre in maniera piacevole
Nonostante Marras è
il concept store aperto
a Milano nel 2012. Un
po’ negozio, un po’
libreria e un po’ bar, si
trova al civico 8 di via
Cola di Rienzo
e totale, mi piace pensare di poterla vestire con uno di quei manteau che Biki
(Elvira Leonardi Bouyeure, NdR) fece
per Maria Callas.
Spesso le sfilate di oggi prendono il
via nel web e poi arrivano in passerella... è finita un’epoca o è solo cambiato il modo di fare moda?
Nessun computer, tv o mezzo di proiezione ti possono regalare l’emozione
e quell’atmosfera magica che vivi durante una sfilata. Un tempo le signore
in prima fila potevano illustrare ma
non pubblicare se non dopo mesi i loro
disegni, pensate a Brunetta (Mateldi,
NdR) geniale disegnatrice di moda.
Oggi le prime file sono occupate da
blogger e le giornaliste faticano a essere inserite. Quando mi chiedono chi ho
in prima fila potrei uccidere. La moda è
un lavoro serio, pesante, richiede tempo, passione, coinvolgimento, non può
riassumersi con chi occupa la prima
fila. Nessuno applaude più, sono tutti con il telefono in mano a fare foto.
Sono cambiati i tempi, cambieranno
ancora ma quei cinque minuti restano
lì e raccontano il lavoro di sei mesi. Le
persone vedono anche dieci sfilate al
giorno, devi essere bravo a lasciare il
segno.
Perché ha deciso di far sfilare le collezioni femminili e maschili insieme?
Ho bisogno di raccontare un universo,
una storia che sia mia e mai come in
queste stagioni sento l’esigenza di intersecare l’uomo con la donna, la prima
con la seconda linea. È stato un anno in
cui ho avuto la possibilità di mostrare
un altro me. La mostra in Triennale mi
ha spogliato e unendo uomo e donna,
credo di essere riuscito a raccontare il
mio mondo e una parte di quello che
sono.
Quante persone lavorano a una sua
sfilata?
Sommando tutte le varie fasi di lavorazione si va dalle 400 alle 500 persone.
Lavora nella moda eppure il suo
quartier generale, il suo laboratorio è
ancora in Sardegna. Perché ha scelto
di complicarsi la vita?
Anche lo studio di progettazione è lì.
Devo rendere articolata la mia vita, le
cose semplici non vanno bene, mi annoio, ho bisogno di alternative. Perché
un simile attaccamento ad Alghero?
Perché ho iniziato lì e perché è lì che
tornavo a casa, nei fine settimana, la
sera dai miei due figli piccoli. Ho bisogno di tornare anche se, oggi, la mia
vita è equamente divisa tra Milano e
Alghero, con le varie sortite tra Parigi,
New York e Londra. Sia chiaro che Milano non è solo moda però, c’è stata la
mostra, c’è il Salone del Mobile e uno
spazio, Nonostante Marras, che apre la
porte a un flusso sempre più importante di appuntamenti.
19
Portfolio
Portfolio
In questa pagina.
Orange Blind, #smudge,
2016, Kenta Cobayashi.
L’artista giapponese
esplora le possibilità
di trasformazione
dell’immagine digitale,
sottoponendola
a un processo di
OSSERVATORIO
MILANESE
manipolazione che
Più in centro di così non si può. Ha aperto a dicembre in Galleria Vittorio
Emanuele II Osservatorio Fondazione Prada, un nuovo spazio espositivo
della maison di moda dedicato alla fotografia e ai linguaggi visivi. Si parte
con la mostra “Give Me Yesterday”, a cura di Francesco Zanot, che raccoglie
le immagini di 14 fotografi italiani e internazionali che hanno lavorato sul
tema della fotografia come diario personale. I diari raccontano la quotidianità
e i rituali intimi e personali in un arco di tempo che va dal Duemila a oggi.
L’immediatezza e la spontaneità del documentario diventano in questo modo
controllo estremo dello sguardo di chi osserva ed è osservato
Gli autoritratti della
ne afferma la fragilità.
Photo courtesy Kenta
Cobayashi G/P gallery
Nella pagina a fianco.
Camera Woman,
2015, Tomé Duarte.
fotografa portoghese
sono realizzati mentre
indossa i vestiti
della ex-compagna
nel tentativo di
riconnettersi con lei.
Photo courtesy Tomé
Duarte
di Carolina Saporiti - foto di autori vari
20
21
Portfolio
Portfolio
In questa pagina.
Her-story: Ke dutse
pela dipalesa II, 2013.
Lebohang Kganye è una
fotografa del Sudafrica,
i cui lavori si basano
sulla figura materna e
la memoria. L’artista
inserisce digitalmente
la propria immagine
all’interno di vecchie
istantanee della madre
scomparsa. Photo
courtesy Lebohanf
Kganye, Afronova
Gallery
Nella pagina a fianco.
To Me You Are a Work of
Art, 2011, Maurice van
Es. Olandese, Maurice
fotografa oggetti e
vestiti riordinati dalla
madre nella propria
casa, facendone delle
eleganti sculture. Photo
courtesy Maurice
van Es
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23
Portfolio
Portfolio
In questa pagina.
Orizzonte in Italia,
2011-2015. Tra il 2011
e il 2014 Antonio
Rovaldi ha scattato
immagini di orizzonti
che esprimono una
personale visione di
paesaggio e tracciano
i confini di un ideale
viaggio in Italia. Photo
courtesy Antonio
Rovaldi; The Goma/
Madrid; Galleria
Michela Rizzo
Nella pagina a fianco.
Hair Cut, 2016.
Izumi Miyazaki si
osservatorio
fondazione prada
Ospitato al quinto e al sesto
piano di uno degli edifici centrali
della Galleria Vittorio Emanuele II,
Osservatorio Fondazione Prada si
trova al di sopra dell’ottagono, al
livello della cupola in vetro e ferro
24
che copre la Galleria realizzata tra
il 1865 e il 1867. Gli ambienti,
ricostruiti nel secondo dopoguerra,
sono stati sottoposti a un restauro
che ha reso disponibile una superficie espositiva di 800 mq sviluppata
su due livelli.
www.fondazioneprada.org
autorappresenta in
situazioni ironiche.
Photo courtesy Izumi
Miyazaki
25
FOCUS
FOCUS
Spazio al pensiero
A due anni dalla posa della prima pietra la Fondazione Feltrinelli ha inaugurato il 13
dicembre la nuova sede di viale Pasubio con cinque giorni di incontri e letture, anticipo di
una programmazione che si preannuncia intensa e la risposta della cittadinanza, con le
lunghe file all’ingresso, è stata più che generosa
di Marilena Roncarà - foto di Filippo Romano
02
01
01. I 250 metri quadrati
della sala lettura al
quinto e ultimo piano
della Fondazione
Feltrinelli. La sala
lettura è aperta dalle
9.30 alle 17.30
26
Qualcosa in viale Pasubio è cambiato, dove prima
c’era un vivaio storico, adesso c’è un vivaio di idee
o meglio un nuovo spazio di cittadinanza che ha
la forma di un edificio possente, ma anche leggero,
con lo scheletro in cemento armato e le superfici
vetrate. Nei suoi 188 metri di lunghezza per 32 di
altezza sulla cuspide, il palazzo è una piccola meraviglia che non lascia certo indifferente nemmeno il passante più distratto. Progettato dallo studio di architettura Herzog & De Meuron, che l’ha
voluto aguzzo come il gotico locale e fortemente
orizzontale come le cascine delle campagne della
Lombardia, l’edificio alterna pieni e vuoti secondo un ritmo costante e crea un gioco di riflessi e
viste prospettiche sul quartiere che mescolano il
vecchio e il nuovo in un tutt’uno organico e originale.
E questo è “il fuori”, ma il progetto nutre l’ambi-
zione di non essere semplice edilizia, ma architettura per la città, luogo di sviluppo di idee, una
piazza contemporanea di partecipazione e aggregazione. «Resto convinto che investire nella cultura e nell’istruzione sia fondamentale per creare
e mantenere in vita una società aperta. La grande
architettura può essere un sostegno rilevante, ma è
meno importante delle attività che accadono dentro e intorno agli edifici» sostiene a questo proposito il progettista Jacques Herzog. A lui fanno eco
le parole di Carlo Feltrinelli, committente dell’opera con il Gruppo, di cui è direttore «Ci siamo
messi in moto per un progetto fuori dal tempo,
da questo tempo, ma secondo noi necessario e che
deve tornare attuale. Una nuova sede iconica per
una grande casa delle culture sociali, moderna e
internazionale: questa è l’idea». Non a caso con un
patrimonio archivistico di 12 km lineari di archivi,
270mila volumi e 16mila periodici, la Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli si configura come uno dei
maggiori centri di documentazione e ricerca nel
campo delle scienze storiche, politiche, economiche e sociali e la nuova sede di viale Pasubio vuole
essere una piattaforma di confronto accessibile a
tutta la cittadinanza nella convinzione profonda
che cambiare le cose per migliorare le condizioni
di vita di tutti sia possibile e necessario. «Il nostro
DNA è scritto nei nostri libri e nei nostri archivi,
aprire nuove opportunità di conoscenza e creare
nuove occasioni di lavoro sono le nostre finalità.
Fare dell’insieme delle nostre iniziative un fattore di politica partecipata è la nostra ambizione»
precisa il segretario generale della Fondazione
Massimiliano Tarantino. Ed è così che nei cinque piani più interrato del building Feltrinelli ha
già preso vita e corpo tutto questo. Cominciando dall’alto il quinto e ultimo piano, quello dove
davvero sembra di toccare il cielo, è una sala di
lettura aperta a tutti con quaranta postazioni per
la consultazione più altre poltrone a uso libero.
Quarto e terzo piano sono dedicati agli uffici della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, oltre che
spazio di co-produzione, ricerca e didattica. Cuore del progetto è la sala polifunzionale del primo
e secondo piano, un luogo di ritrovo, incontro e
scambio tra cittadini e realtà all’avanguardia in
campo artistico e divulgativo nell’ambito della
ricerca delle scienze sociali. Il piano interrato accoglie infine il materiale della biblioteca e degli
archivi della Fondazione, mentre al piano terra c’è
l’immancabile libreria che qui è anche il satellite
culturale che orbita attorno alle attività di ricerca
e divulgazione della Fondazione, accompagnando
i lettori nell’esplorazione dei temi proposti: globalizzazione e sostenibilità, cittadinanza europea,
innovazione politica, futuro del lavoro e fonti della Storia. L’assortimento dei circa 15mila titoli è
stato, infatti, realizzato privilegiando le scienze
umane e sociali, la letteratura e le arti visive. E
considerata la generale vocazione all’incontro e
alla socialità non poteva mancare neppure uno
spazio di ristoro: il Babitonga Caffè, che deve il
suo nome alla comunità brasiliana della Baia di
Babitonga autrice già nel 1842 di un importante
esperimento sociale all’insegna di un mondo più
giusto. Ecco allora che l’eco di quest’utopia e il
richiamo verso mondi nascosti sono ulteriori risonanze di un luogo che vuole combinare insieme cultura e convivialità. Insomma le suggestioni
sono davvero tante: a noi non resta che andare a
curiosare, approfittando il più possibile di questa
occasione da vivere in maniera attiva.
02. Vista dall’alto della
Fondazione, il primo
edificio pubblico
italiano progettato da
Herzog & de Meuron
27
Interview
interview
EZIO BOSSO
L’ULTIMO GESTO IN NOTE
In Italia è diventato famoso lo scorso anno dopo la partecipazione a Sanremo, lui però fa musica da 41 anni
e su quel palco non voleva salirci. Ora è a Milano agli Arcimboldi con il suo primo disco da solista
“The 12th Room”, dodici brani che svelano le sue radici e quelle della sua musica
di Nadia Afragola
28
Dopo aver venduto oltre 100mila biglietti con il tour Al piano, collezionando un sold out dietro l’altro, ha
firmato un contratto di esclusiva con
Sony Classic, insieme al suo pianoforte
Steinway Gran Coda. Come tutti i musicisti è un po’ nomade. Si considera un
quarto inglese e un po’ bolognese, ma
è Torino la prima città dalla quale è
dovuto andare via per essere ascoltato.
L’inizio è con il botto: «La musica è un
fenomeno sociale, è il più grande coadiuvante. Non chiedetemi di parlare
della mia musica, parliamo della musica, che è di tutti. Noi abbiamo semplicemente la responsabilità di scriverla, interpretarla e suonarla. La musica
non vuole consenso». Poi prosegue con
i pregiudizi da combattere: «Pensano
che io scriva musica per balletti, ma
sono i teatri più importanti al mondo
a scegliere per i loro balletti la mia musica. In Italia invece pensano che io sia
nato il 10 febbraio del 2016 sul palco
dell’Ariston accanto a Conti, peccato
che faccio musica da 41 anni e da 30
concerti».
Cosa resta di Sanremo, quel giorno in
fondo le ha un po’ cambiato la vita?
La cosa più bella è aver dato spazio alla
musica. Sarai la prima a scriverlo, ma
io non ci volevo proprio andare. Avevo
paura, tre giorni prima dissi che non
mi sarei presentato, non volevo essere
confuso con un personaggio che era lì
per se stesso. Ho rischiato per amore
della musica, le devo tanto.
Dice spesso che la musica non è di
nessuno. In che senso?
La musica si fa solo insieme: lo dicevo
sempre ai miei concerti, ora non riesco
più a dirlo perché continuate a ripeterlo in televisione. La musica è uno spazio condiviso, non esiste senza l’ascolto.
Ai musicisti, che lavorano con me, dico
sempre che la musica non sono le note
che suonano. Ha uno strumento in più
che non vedi, lo spazio e un musicista
in più, chi ascolta. E noi, che mettiamo
solo le mani, abbiamo la responsabilità
di coinvolgere. Nella musica studi non
per essere il migliore ma per essere migliori.
Quando Ezio diventa il maestro?
Mi imbarazza quando mi chiamano così… Quando ho la bacchetta in
mano e anche in quel caso continuo a
essere Ezio. Il maestro non è colui che
ti dice come fare, ma colui che ti fa vedere la tua strada.
Nel 2011 le è stata diagnosticata una
malattia neurodegenerativa. Che cosa
è successo dopo?
Parto dalla fine, da chi mi ha salvato. È
stato il pianoforte che mi ha permesso di tornare a vivere e ad ascoltare la
musica. Nel 2011 mi sono perso per
imparare a seguire. È cambiato tanto il
mio corpo, a volte lui ha ancora memoria dell’uomo che ero e si arrabbia.
Personalmente ho deciso che è meglio
godere per le fortune che ho, non devo
dimostrare nulla.
Il 2016 è stato l’anno della sua consacrazione. Come si affronta, a riflettori
spenti, un simile carico di aspettative?
Non amo i riflettori, amo quello che
faccio, musica. Credo profondamente nel condividere quello che imparo.
Non mostri la musica ma la condividi,
perché ha un potere fantastico e rende
bello persino me. In Italia purtroppo
credono che io sia un fenomeno da baraccone, è faticoso dover sempre dimostrare un po’ di più... Io che poi non ho
niente da dimostrare!
Le sue prove sono oramai quasi sempre aperte al pubblico. È sicuro di
quello che fa?
Mai stato più sicuro di così. Vorrei riportare all’umanità la musica. Quando
devo spiegare le note ai musicisti dico
sempre che sono l’ultimo gesto di una
persona. Prima c’è la vita, la ricerca,
la sua storia e la storia intorno a lui.
Non chiamatela rivoluzione, la mia, è
solo un bellissimo desiderio. È bello
assistere a qualcosa che nel tempo si
perfeziona. Non voglio far vedere solo
il lato forte, non è nella mia natura. La
musica è studio, ma per colpa della disattenzione mediatica c’è tanta gente
che dice che non serve a niente studiare. Sogno che i teatri siano un posto
per tutti, non dove si va a vedere un
fenomeno paranormale. Bisognerebbe
pensare a qualcosa di vivo quando si
pensa a un teatro.
Quando ha firmato con Sony Classic,
quel giorno cosa vi siete detti?
All’inizio la cosa mi ha un po’ spaventato, detto questo il resto è stato tutto
in discesa perché l’obiettivo comune
era quello di fare e divulgare musica.
Sto pensando di dare vita a una Fondazione che si occupi di questo.
La fine del 2016 è coincisa con l’uscita della sua antologia: “…And the
Things that Remain”.
Le antologie mi danno sempre l’idea di
qualcosa di postumo, ma piacciono…
Ci sono 12 anni di registrazioni dentro.
Faccio tutto come fosse l’ultima cosa
e sono sempre stato così, anche prima
di ammalarmi. Sento l’urgenza di fare,
non so per quanto ancora potrò tenere
certi ritmi. Mi premeva dare protezione a me e alla mia musica.
Ha ripreso a vivere grazie al suo pianoforte Steinway Gran Coda. Com’è
andata all’inizio?
Se usi il passato qualcosa nel presente
non va, ecco perché mi piace ricordare
che i più grandi amori sono quelli di cui
non si ricorda il momento in cui li si è
incontrati. Se sei innamorato il prima
non conta, ami l’adesso e non ti importa niente del domani. Mi ha chiamato,
mi ha detto: «Vieni qui, metti un dito
su quel tasto, poi un altro e un altro ancora e vedrai che riusciremo a risolvere
qualche problema, come quello di non
connettere più tanto le sinapsi».
Al piano da solo o a dirigere un’intera
orchestra, cosa cambia?
Sono più tranquillo quando ho la bacchetta in mano. Una precisazione: non
si suona il pianoforte, si suona con il
pianoforte e un direttore non suona
un’orchestra ma con un’orchestra.
29
FOCUS
FOCUS
Milano in un sorso
In alcune si chiacchiera condividendo bottiglie prestigiose con perfetti sconosciuti, in altre si
leggono poesie o componimenti in milanese, in altre ancora si socializza ballando o giocando
a carte. Un viaggio fra le enoteche di Milano e le loro diverse anime
di Elisa Zanetti
INDIRIZZI
Bicerìn Milano
via Panfilo Castaldi 24
Bottega del Vino La Coloniale
corso Genova 19
Cantine Isola
via Paolo Sarpi 30
La Cieca
via Carlo Vittadini 6
N’Ombra de Vin
via San Marco 2
Vineria di Via Stradella
via Alessandro Stradella 4A
03
02
01
01. La Vineria di via
Stradella propone
degustazioni guidate
dai produttori di vino
che raccontano il loro
lavoro
30
«Bevendo gli uomini migliorano: fanno buoni affari,
vincono le cause, son felici e sostengono gli amici».
Così diceva più di 2000 anni fa il commediografo
greco Aristofane. Seguire il suo consiglio potrebbe
essere un buon proposito da aggiungere alla lista
di quelli già preparati per il 2017: del resto chi l’ha
detto che bisogna chiedere a se stessi solo di mangiare meno, fare più sport o smettere di fumare?
Dedicare un momento in più a un buon bicchiere
di vino può rappresentare un’occasione di convivialità, scambio e incontro (e se tra i vostri obiettivi per l’anno nuovo c’è anche quello di trovare
l’anima gemella potrebbe essere di aiuto). A Milano sono diverse le enoteche dove è possibile assaporare le delizie di Bacco e fare anche molto altro.
Partiamo con Cantine Isola. Nata nel 1896 come
Boeucc dell’Isola, da un Giovanni Isola compagno
di idee di Filippo Turati, sulla cui rivista “La Battaglia” Isola stesso inserì un invito a recarsi nella sua
cantina. Questo storico locale milanese prese il
nome attuale durante la seconda gestione, quando
un’altra famiglia Isola formata da cinque fratelli
scelse il plurale “cantine” che meglio si confaceva
alla propria numerosa realtà. Sarà Giacomo, uno
dei nipoti dei fratelli a portare avanti l’attività e
sua moglie, conosciuta come Milly, potrà vantare
di essere una delle prime sommelier donna. Tutti
i suoi segreti li ha imparati Luca Sarais, l’attuale
proprietario, che spiega: «Tenere il cliente al banco è un’arte, occorre saper parlare un po’ di tutto,
senza mai cadere nel banale e nel ridicolo». Per
riuscirci ha dato vita all’appuntamento La poesia
del martedì: ogni settimana alle 20.30 si legge un
piccolo brano «per regalare un momento di un’arte diversa dal fare vino» e da qualche anno ai versi
si alternano letture in dialetto milanese.
Ha una bella storia da raccontare anche N’Ombra de Vin: attaccata alle mura della Basilica di
San Marco, questa enoteca sorge in quello che fu
l’antico refettorio cinquecentesco dei frati agostiniani, citato da Manzoni ne I promessi Sposi. Frequentato un tempo dalle truppe napoleoniche,
annovera fra i suoi illustri ospiti anche Mozart e
oggi tutti i milanesi che la scelgono non solo per
un calice, ma anche per serate con musica dal vivo
dove non è difficile lanciarsi nelle danze, a volta addirittura sui tavoli. Inaugurato nel 1973 dal
veneto Giacomo Corà offre un’ampia selezione
di etichette, con una particolare attenzione per
la Francia. Punto di incontro imperdibile anche il
marciapiede davanti al locale, sempre frequentatissimo sia d’estate sia d’inverno.
Con le belle giornate non perdetevi il rilassante
giardino della Vineria di via Stradella. Nato come
piccolo ristorante e punto vendita di vino sfuso
di qualità, ha poi ampliato la sua offerta ai vini
di etichetta, cui dedica degustazioni guidate dalla
presenza dei produttori. Fra i progetti in cantiere
un corso di avvicinamento al vino, con lezioni su
bianchi, rossi e bollicine.
Da Bicerìn Milano invece si fa winesharing: il primo lunedì di ogni mese Alberto, Lorenzo e Silvia
propongono ai loro ospiti una bottiglia speciale
che gli iscritti alla serata condividono seduti a un
tavolo comune. Un’occasione per fare nuove conoscenze e per provare vini pregiati dall’annata e
dal prezzo importante, che forse altrimenti difficilmente si avrebbe l’occasione di stappare.
Se preferite mettere anche qualcosa sotto i denti
scegliete la serata A cena con: si sta sempre insie-
me in uno dei grandi “tavoli sociali”, degustando
una cena abbinata alle bottiglie che il produttore
ospite ha scelto di raccontare. Grazie alla formazione di Lorenzo, architetto, Bicerìn Milano offre
anche consulenze per la realizzazione di una cantina a casa propria, valutando se l’ambiente è idoneo e suggerendo la soluzione più adatta.
Si condivide anche alla Bottega del Vino La Coloniale di corso Genova, storica enoteca aperta
nel 1966 con una buona attenzione sia per i vini
sia per le bollicine. Con la bella stagione, su ampi
tavoloni di legno posti fuori dal locale, giovani e
meno giovani si mescolano per un bicchiere in
compagnia o una partita di carte.
Infine i sommelier più esperti non possono perdere l’occasione di mettersi alla prova da La Cieca:
oltre alla normale carta dei vini, questa enoteca
propone ai suoi ospiti una carta “nera”, in cui
l’unica informazione disponibile è il costo del
vino al bicchiere abbinato a un nome di fantasia.
I degustatori potranno provare il vino servito in
un calice nero e fare delle domande per indovinare quale bottiglia è stata loro servita. L’oste potrà
però rispondere solo con un “no” o un “forse” e
scoprire l’identità del vino non sarà facile. Vale la
pena provare: chi riesce non paga il bicchiere.
02. Da Bicerìn Milano
durante le serate di
winesharing vengono
aperte bottiglie
prestigiose che gli ospiti
hanno la possibilità di
assaporare seduti a un
tavolo comune
03. L’offerta di
N’Ombra de Vin
è specializzata in
etichette italiane e
francesi e il locale
ospita spesso serate
con musica dal vivo
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Interview
interview
GIGI SIMONI
Un Mister sottovoce
Diciotto mesi circa all’Inter che valgono quasi come una vita intera. Nella sua biografia,
“Simoni si nasce. Tre vite per il calcio” uno dei mister più amati dell’epopea nerazzurra
apre gli scrigni della memoria. E a noi ne ha raccontate di storie succose, come quel
famoso rigore non dato, Baggio e Suning…
di Simone Sacco
«Il mio pregio maggiore? L’umanità
nel lavoro. Parlare ai giocatori come se
fossero miei figli». Nell’affascinante e
contrastata epopea interista, Gigi Simoni da Crevalcore – 78 anni – è stato
l’allenatore “per bene”, che nel becero
calcio di oggi è più handicap che valo32
re indiscutibile. Solo che sono i buoni
quelli che entrano nel cuore dei tifosi.
A maggior ragione se sanno leggere la
partita. Come appunto sa fare il vero
cuore di Gigi Simoni. Lasciamo a lui la
navigazione tra i ricordi.
Mister, è stato “corteggiato” a lungo
per questa sua biografia?
Abbastanza. I tre autori (Carmignani,
Tronchetti e Ghedini, NdR) non hanno mai smesso di farmi pressing, ma a
me sembrava un progetto presuntuoso.
Però sono contento d’aver ceduto.
Perché la prefazione di Claudio Ba-
glioni? Siete amici?
Siamo molto amici. L’anno che ho allenato la Lazio (1985-86, NdR) Claudio
mi chiese se poteva venire ad allenarsi
a Tor Di Quinto per preparare il fiato in vista di una tournée. E il fatto
che un tifoso della Roma volesse
correre in mezzo ai laziali mi ha fatto simpatia. Da lì è nato un rapporto
speciale.
Il messaggio più importante del libro?
Mai arrendersi nella vita. Io, a fine anni
Ottanta, ero un allenatore in crisi; venivo da alcuni esoneri e avevo pensato
di smettere. Nel 1991 mi ritrovai in C2
con la Carrarese. Poteva essere la fine,
ma strinsi i denti e risalii. Poi venne la
straordinaria avventura con la Cremonese che mi portò a Napoli e da lì, nel
1997, finalmente l’Inter.
Sia sincero: è stato traumatico passare dal golfo di Napoli alla nebbia
meneghina?
Macché: io al mito di Milano città grigia non ci ho mai creduto. Certo, al
Nord la gente è più riservata mentre
a Napoli dal calcio non stacchi mai.
Sotto il Duomo, allo stesso tempo, mi
sono sempre trovato bene: camminavo
in centro, prendevo la metro, andavo a
teatro.
Scusi, lei viaggiava in metropolitana?
Abitavo in Duomo, a due passi dall’allora sede dell’Inter e perciò la metro
era comodissima. Certo la gente attorno mi guardava un po’ stupita!
La sua con l’Inter è stata simile a una
love story con una donna capricciosa?
Il grande amore e poi l’addio traumatico…
Questo è un luogo comune che mi
piace smentire. Tutti parlano di “piazza
difficile” quando tirano in ballo i colori
nerazzurri; al contrario per me il periodo ad Appiano Gentile fu il più facile
di tutti perché i giocatori di quella rosa
erano sempre felici. Certo, ne avevo 25
e in campo potevo mandarne solo 11.
Qualcuno ogni tanto giustamente mugugnava.
Qualcuno tipo Roberto Baggio?
No, lui no e mi sembra l’abbia scritto
nella sua autobiografia. Una frase tipo:
«Con tanti allenatori mi sono trovato in disaccordo, ma con Simoni mai.
Sapeva sempre spiegarti i motivi della
tua esclusione». In quell’Inter c’erano
tanti campioni di vita e Roby era uno
di questi. E in più ci univa l’amore per
la caccia e la pesca.
Baggio contro il Real Madrid campione d’Europa, il 25 novembre 1998,
fu devastante. Una delle sue più belle
partite in assoluto...
Quella sera era infuriato per non essere
partito titolare, ma in campo fece scintille: due goal in dieci minuti. Non venne subito ad abbracciarmi, ma cinque
giorni dopo, quando venni esonerato,
quello con lui fu l’addio più struggente. Gli dissi: «Roby, hai visto che con il
Real quella panca ti ha dato la carica?».
E lui mi abbracciò più forte.
Ronaldo, invece, lo trovò cambiato in
quel malinconico autunno del ’98?
In ritiro si presentò un po’incupito,
ma la cosa gli passò e tornò in fretta
al massimo delle sue potenzialità. Quel
Ronaldo non si può davvero descrivere
a parole: era imprendibile e ubriacante.
Una velocità pazzesca unita a una tecnica di un altro pianeta.
Nonostante ciò non vinceste lo scudetto anche a causa di una certa partita
che lei nel libro non cita…
Non mi è mai piaciuto fare dietrologia
su Juventus-Inter del 26 aprile 1998,
quella del rigore non fischiato su Ronaldo. Però al signor Ceccarini, l’arbitro, glielo dissi al telefono: «Non le
chiedo di ammettere il suo sbaglio, ma
almeno mi confessi qui il suo dubbio».
Lui fu irremovibile. Solo che a vent’anni di distanza tutti parlano ancora di
quel fallo. Sta lì il paradosso…
Con Massimo Moratti, al contrario,
si è chiarito da tempo. Parlo del suo
clamoroso esonero…
Sì, lui ha fatto autocritica dicendo di
essere stato avventato. E io, esonero o
meno, non finirò mai di ringraziare il
Presidente. Se non ci fosse stato Moratti non avrei potuto allenare l’Inter,
avere a disposizione Ronnie, vincere
una coppa UEFA, la Panchina d’Oro...
Queste sono cose che non si dimenticano.
Deduco quindi che non sia molto soddisfatto del passaggio di consegne tra
Thohir e Suning con l’attuale proprietà nerazzurra in mano a Zhang Jindong…
Semplicemente non mi pronuncio.
Me la faccia tra due-tre anni questa
domanda perché prima voglio vedere
mister Zhang in azione. Da fuori vedo
una persona ambiziosa e ricca, ma non
basta a dargli credito. L’Inter è una creatura italiana e con questi investitori
cinesi di mezzo non si capisce granché.
33
FOCUS
FOCUS
La città s’illimpidiva
Centosettanta immagini in bianco e nero ci portano per mano dal 1943 al 1953: dai
bombardamenti alla ricostruzione, a ritrovare piazze e scorci del capoluogo lombardo.
Merito della mostra “Milano, storia di una rinascita” che tra l’altro ci ricorda come la
guerra, allora come oggi, abbia sempre la stessa faccia
di Marilena Roncarà
milano centro
Fino al 12 marzo, l’ultimo piano
del Museo del Novecento, quello
affacciato su piazza Duomo, presenta la personale della fotografa
Paola Di Bello, che nelle proprie
vedute coglie una Milano del tutto
estranea ai meccanismi dell’abitudine con cui siamo soliti guardarla. In
particolare le immagini concepite
per la Sala Fontana e basate su
riprese fotografiche realizzate
intorno all’Arengario, mettono
in moto un’interessante visione
a doppio senso tra quello che si
coglie a occhio nudo dalle vetrate
e i paesaggi proposti dalla fotografa, creando un gioco a incastri tra
reale e virtuale.
01
01. Lavori di
rifacimento della
copertura della Galleria
Vittorio Emanuele,
1948, Cittadella degli
Archivi e Archivio
Civico di Milano
34
«La morte ‘insudicia’. Insudicia quello che era
pulito, intorbida quello che era limpido, inlaidisce quello che era bello, intenebra quello che era
luminoso, instupidisce quello che era intelligente,
immiserisce quello che era ricco. Pure si dice che
la morte è serenità, calma, e l’arte per parte sua...
Ma anche questa è forma di retorica: la peggiore:
la retorica dell’ottimismo. Quella calma, quella
serenità, non sono della morte, sì della vita che
rinasce dalla morte: della vita che si è celata nella
morte e l’ha vinta. Il primo giorno vidi Milano
‘insudiciata’ dalla morte. Poi la notte calò e uno
spettrale silenzio. L’indomani già Milano s’illimpidiva».
Sono le parole di Alberto Savinio che si stagliano
davanti a ogni visitatore appena oltrepassato l’ingresso, ad accoglierlo alla mostra in programma
a Palazzo Morando fino al 12 febbraio: Milano,
storia di una rinascita. 1943-1953 dai bombardamenti alla ricostruzione. Le parole dello scrittore
e compositore ci ricevono come uno schiaffo
potente, di quelli capaci di sbatterci in faccia la
realtà, salvo poi farci atterrare in maniera mor-
bida con il senso profondo che ci può essere un
poi, una rinascita. E tutta la mostra è così: forte,
emotiva, in grado di catturare lo sguardo di noi
visitatori con le immagini dei 170 scatti d’epoca
fino a riportarci, quasi per magia, in quel tempo
e in quello spazio rappresentato. Ed è tutto un
cercare di capire e riscoprire una città che è la
nostra di adesso, ma andando a ritroso, prima in
quell’abbattimento e sconforto fatto di macerie e distruzione dei bombardamenti e poi nello
slancio e nella capacità della città di rialzare la
testa dalla polvere, «a volte costruendo, altre ricostruendo, spesso speculando, dimentica di un
passato ingombrante», come ci ricordano le parole
del curatore Stefano Galli.
La mostra si apre con i grandi bombardamenti
del 1943, quando Milano fu oggetto di ripetuti
attacchi e una mappa con i luoghi colpiti dai raid
diventa il fulcro di una narrazione condotta attraverso immagini d’epoca, cimeli e reperti bellici:
dalle maschere antigas, agli ordigni, al paracadute
“da bengala” usato per illuminare a giorno la città prima dell’attacco. L’esposizione prosegue poi
con il racconto di alcuni aspetti della quotidianità
in tempo di guerra e a poco a poco, come a procedere per frammenti, la complessità, ma anche
la ricchezza della vita e delle relazioni sociali di
quei momenti così drammatici diventano palesi.
Lo stesso accade per episodi non sempre noti,
dalla Madonnina del Duomo ricoperta di stracci
per mascherarne il luccichio alle case di tolleranza
ben distribuite nel territorio cittadino, dal drammatico episodio della strage degli innocenti, che
vide l’eccidio di oltre 180 bambini nella scuola
elementare Crispi alla vista macabra dei cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi
appesi in piazzale Loreto.
Durante i bombardamenti la città era buia come
anche nere sono le pareti dell’allestimento che
racconta la guerra. Le stesse pareti diventano poi
bianche quando si passa al dopo, alla fase della
rinascita, come a dirci in maniera ineludibile che
qualcosa è mutato, «la città s’illimpidiva», che un
nuovo giorno si mostra luminoso e ricco di progetti per la città. Non a caso Milano diventa già da
allora ciò che è adesso: un centro di sperimenta-
02
zione artistica, un motore industriale per l’intero
Paese, una forza di rinnovamento continuo, senza sosta. Sorgono nuovi quartieri e nuovi edifici
su progetti di grandi architetti: Figini, Moretti,
Pollini, Bottoni, Portaluppi, si afferma la grande
scuola di design e Palazzo Reale ospita nel ’53 la
mostra monografica dedicata a Pablo Picasso, con
l’esposizione nella Sala delle Cariatidi di quel capolavoro di denuncia sociale che è Guernica, mai
più esposto in futuro in Italia, come a chiudere
un cerchio di quella guerra prima vissuta e poi
raffigurata.
A scorrerli uno dopo l’altro i 170 scatti in bianco e
nero della mostra emozionano, ci obbligano quasi
a soffermarci davanti ancora qualche istante per
cogliere meglio il racconto di cui sono testimoni. Le foto ci guidano in maniera lieve attraverso
un allestimento semplice, ma puntuale, capace di
meravigliare fino a diventare volano, soprattutto
nella parte dei bombardamenti, di tutte le altre
immagini di guerra che ogni giorno, anche nel nostro presente, arrivano sotto i nostri occhi. Come
a dire che l’orrore è lo stesso. Oggi come allora.
02. Palazzo Argentina,
corso Buenos Aires,
1949, Archivio Piero
Bottoni, Dastu,
Politecnico di Milano
35
HANDWRITING
Che bello scrivere…
Un foglio bianco e una penna. Bastano queste due cose per scrivere a mano, eppure gli
effetti benefici che questa azione ha sulla nostra mentre e sul nostro corpo sono tantissimi,
dallo sviluppo della creatività allo stimolo del cervello. E se il digitale ci sta facendo
dimenticare come farlo bene (o semplicemente come farlo), a rimetterci la matita in mano
ci pensano tanti oggetti ispirati a questo universo, fatto di grazie e svolazzi
illustrazione di Virassamy
37
focus
focus
SCRIPTA MANENT
Ma se smettessimo di scrivere a mano perderemmo qualcosa? Secondo i
maestri di calligrafia, sì, perché la grafia è parte di noi, di ciò che siamo e
della nostra civiltà, e racconta molto del nostro carattere. Ecco perché non
dovremmo abbandonare del tutto l’uso di carta e penna
di Carolina Saporiti - foto di ruskiduski
02
01
01. Nonostante sia
sempre meno comune
annotarsi le cose a
penna, aumentano (e
sono frequentatissimi)
i corsi di calligrafia in
tutta Italia, per affinare
la propria scrittura
38
«Se non respiri attraverso la scrittura, se non piangi
nello scrivere, o canti scrivendo, allora non scrivere, perché alla nostra cultura non serve» lo diceva
Anais Nin. Scrittrice del Novecento, conosciuta
soprattutto come la prima donna a pubblicare
libri erotici, Anais scriveva tantissimo, prendeva
appunti sul suo diario, poi pubblicato in una serie
di volumi. Forse da piccoli un diario lo abbiamo
avuto tutti, ma quanti di noi oggi ne hanno uno?
Pochi. E ancora meno sono quelli che tengono un
diario scritto a mano: capita di prendere appunti
salvandoli nelle bozze della posta elettronica su
smartphone o nelle note di un tablet, alcuni tengono un blog su cui riportano pensieri e riflessioni
di vario genere, ma girare con carta e penna in
borsa è sempre più raro.
Ma non è che ci stiamo perdendo qualcosa? Secondo l’ACI (l’Associazione Calligrafica Italiana)
sì, perché la tecnologia rischia di allontanarci dagli strumenti che ci permettono di comprendere
la realtà, e soprattutto rischia di far scomparire
i fondamenti della nostra civiltà che è basata
sulla scrittura. Calligrafia è una parola derivante
dal greco e composta dalle parole kalos, bello, e
graphìa, scrittura. Calligrafia, poi, è l’arte della
scrittura ornamentale. Si sviluppò soprattutto in
ambito religioso, dove c’era abbastanza ricchezza
da potersi permettere carta e inchiostro. Nei secoli divenne comune la grafia onciale (maiuscola,
usata da latini e bizantini) prima e quella gotica
poi, durante il Medioevo. A far tentennare per la
prima volta la scrittura a mano fu la comparsa
della stampa. Quando Gutenberg la inventò nel
XV secolo, i libri scritti e decorati a mano divennero meno comuni, pur non scomparendo.
Oggi, invece, ci chiediamo davvero che fine farà.
Era il 2013 quando negli Stati Uniti cresceva un
dibattito nazionale (che diventò cronaca internazionale) sull’utilità dell’insegnamento della scrittura a mano e in particolare dello stile corsivo.
Stati come la California o il Massachusetts non
volevano abbandonarlo, la Carolina del Nord addirittura varò la legge Back to basics, proponendo
un ritorno alle fondamenta e quindi al corsivo
nei programmi per la scuola primaria, mentre le
Hawaii, l’Indiana e l’Illinois avevano sostituito le
lezioni di scrittura a mano in corsivo con lezioni di battitura meccanica dei testi dal momento
che ormai tutto – dalla corrispondenza personale
a quella di lavoro, fino ai compiti in classe, tesi
ecc... – viene fatto da tastiera.
Sarà una scelta giusta? Se combattere contro la
diffusione di PC e smartphone è senza senso, perdere la capacità di scrivere a mano lo è altrettanto. «La scrittura a mano e quella digitale hanno
ognuna una propria area di competenza, una non
esclude l’altra» afferma Veronica Rosano, maestra
calligrafa e grafologa presso Fabriano Boutique.
Ma oltre alla ricchezza di uno strumento che è
stato fondamentale per lo sviluppo della nostra
società, è anche provato che la scrittura a mano
garantisca diversi tipi di stimoli (dall’associazione di forme e suoni al collegamento tra mente e
mano durante il movimento). A fine novembre
l’Archivio di Stato ha organizzato un convegno
sul tema. «Diversi medici e optometristi hanno
lanciato un allarme. Non scrivendo a mano alcune aree cerebrali non vengono più utilizzate, alcuni abilità cognitive si perdono e si memorizza
in maniera diversa. Oggi nelle scuole le lavagne
sulle quali si scriveva con i gessi sono state sostituite da quelle luminose, in questo modo gli
studenti non vedono il movimento del braccio e
della mano dell’insegnante che scrive, ma devono
semplicemente copiare una forma. E il numero
di ragazzi che soffrono di forme di disgrafia è aumentato notevolmente». Tra una decina di anni,
secondo alcuni medici, vedremo che ripercussioni avrà sulla nostra vista e la nostra postura lo stare così tante ore davanti a uno schermo. «Siamo di
fronte anche a un impoverimento della personalità e della creatività» spiega Veronica Rosano. In
questo non aiuta la nostra società: «Al convegno
è stato dato spazio anche alle grafiche, oggi quasi sempre disordinate. Soprattutto quelle online,
che sono i nuovi riferimenti, gli unici per i più
giovani, sono brutte e confuse».
E così i corsi di grafia stanno vivendo una stagione fortunatissima: dalle mamme preoccupate che
mandano i figli a lezione a chi, adulto, vuole imparare la scrittura ornamentale, in tutta Italia è un
fiorire di seminari di calligrafia.
02. La scrittura onciale
fu usata dal III all’VIII
secolo nei manoscritti
dagli amanuensi
latini e bizantini, e
successivamente
dall’VIII al XIII secolo
soprattutto nelle
intestazioni e nei titoli
39
handwriting
handwriting
A mano
Tanti prodotti dedicati a chi ha
ancora il piacere di sfiorare la carta
e sentire la penna scorrere sul foglio
purity
A partire dalla seconda metà degli
anni Sessanta l’artista Irma Blank,
tedesca di nascita, ma italiana di
adozione, ha rivolto la propria
attenzione al gesto scritturale puro.
Le sue opere saranno in mostra
presso la galleria P420 di Bologna
dal 28 gennaio al 18 marzo
www.p420.it
Fabriano Boutique - Set Carta da Lettere
Un canotto, 9 punte, 2 boccette di inchiostro e
un foglio di carta da lettere possono farci riscoprire
tutto il fascino di una lettera scritta a mano
www.fabrianoboutique.it
IN BELLA SCRITTURA
Campo Marzio - Filigree Fountain Pen
Un anticato motivo decorativo è lavorato
a mano e curato nei minimi dettagli per
“Scripta manent”, ovvero gli scritti rimangono, dice un proverbio latino,
affermando la necessità di mettere nero su bianco i propri diritti. Ma
se le parole volano, mentre la scrittura sopravvive ai capricci del tempo,
quale futuro ha, nell’era digitale, quella a mano?
dare vita a questa penna raffinata
www.campomarzio.it
di Alessia Delisi
La calligrafia è l’arte che insegna a scrivere in
modo elegante e regolare. Come il disegno, essa
richiede una forte personalità, espressa però entro
i confini strettamente definiti dell’armonia, le cui
regole, costruite su relazioni matematiche e relative alla corretta interazione tra forme e spazio,
rappresentano la visione che ciascuna civiltà ha
del mondo e di Dio. Gli arabi, i cinesi e la civiltà
occidentale – basata sull’alfabeto romano, la Chiesa cristiana e alcune istituzioni secolari come corti,
cancellerie e laboratori di scribi – hanno scritto in
accordo con la propria eredità culturale, il testo
da trascrivere o comporre e tutti quegli strumenti che hanno permesso lo sviluppo nel tempo
dei vari stili calligrafici, perché anche la penna,
il modo in cui essa veniva tagliata e impugnata,
era responsabile di una bella scrittura. E oggi? In
un’epoca come la nostra, caratterizzata dalla diffusione delle tecnologie digitali, qual è il destino
della calligrafia? Se lo sono domandati un gruppo
di esperti provenienti da tutto il mondo – dall’artista statunitense Brody Neuenschwander ai calligrafi italiani Luca Barcellona e Giovanni de Faccio,
dall’illustratrice Francesca Biasetton fino a Monica
40
Dengo, docente di calligrafia dell’Università Ca’
Foscari di Venezia – durante un convegno organizzato a Milano dall’Associazione Calligrafica
Italiana. Se la conservazione e divulgazione della
conoscenza non dipendono più, come un tempo,
dall’effettivo processo di scrittura, perché a immagazzinare l’informazione ci pensano i computer,
la storia della scrittura manuale può essere letta
come il racconto di un’avventura che in quasi ventimila anni ha toccato tutti gli aspetti della vita
umana, non solo quello filologico. Per questo è importante salvaguardarla: stringere una penna tra le
dita mette in atto complessi coordinamenti sensomotori che richiedono molta più concentrazione
di quella necessaria a digitare su una tastiera. La
scrittura a mano inoltre stimola l’attività cerebrale
e la capacità di fare collegamenti. A valorizzarne la
funzione pedagogica e formativa sono oggi molte
creazioni di design: se Tapparelle Desk dell’azienda italiana Colé fa parte di una collezione di mobili ispirata alle case degli scrittori, Campo Marzio
e Fabriano Boutique propongono articoli per la
scrittura con i quali dare forma al pensiero, riscoprendo il fascino senza tempo del gesto grafico.
Bosa - Lume
La luce, nella forma di una piccola lanterna luminosa che accompagna chi scrive,
è protagonista del nuovo progetto ideato da Alessandro Zambelli per Bosa
www.bosatrade.com
Internoitaliano – Stra
Una lastra di alluminio, tagliata e
ripiegata su se stessa, si fa incastro
perfetto per questa lente di
ingrandimento progettata da
Giulio Iacchetti
Colé Italia - Tapparelle Desk
www.internoitaliano.com
Scrittoio in rovere naturale in cui la tapparella, originariamente
pensata per piuma e calamaio, diventa un moderno contenitore
che cela telefono, tablet e laptop
www.coleitalia.com
41
style
style
Bomber jacket
Un classico del casualwear riproposto
per il guardaroba primaverile
tagliatore
Manifattura completamente made
in Italy per la giacca a due bottoni
in tessuto mélange
berwich
Cinquetasche dal taglio classico
sdramattizzato dalla coulisse in vita
Sealup
Puntododici
Blauer
Verde militare in tessuto waterproof
In tessuto tecnico super leggero
Classico in stile aviator
www.sealup.net
www.puntododici.com
www.blauer.it
Gant
MCS
Stella McCartney
In suede nocciola con tasconi frontali
Con profili e colletto in pelle a contrasto
Con terza tasca portadocumenti sul petto
www.gant.com
www.mcs.com
www.stellamccartney.com
C.P. Company
Eleventy
AT.P.CO
Con taschina e dettaglio logo sull’avambraccio
Collo e bordi in maglia elasticizzati a contrasto
Interno in tessuto camiceria con zip a contrasto
www.cpcompany.com/it
www.eleventy.it
www.atpco.it
urban gentlemen
salvatore ferragamo
Stringata rivisitata in chiave
moderna grazie ai dettagli futuristici
su linguetta, tallone e suola
Una combinazione perfetta tra tailoring e sportswear
contraddistingue la collezione dal sapore retrò di Neil
Barrett. I colori naturali e le forme senza tempo richiamano
un guardaroba inglese per il perfetto gentiluomo urbano
di Elisa Anastasino
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sport
sport
SAILING ON THE ROCKS
Le ice boat sono incredibili macchine da velocità in grado di sfrecciare
su qualsiasi lago, fiume o mare che abbia perso la consistenza liquida
a favore di quella solida. Intuitive e facili da condurre, hanno un unico
“problema”: fermarle non è affatto facile
di Andrea Zappa
windsurf e kite
Chi ama il ghiaccio ma preferisce
sentire il vento nelle mani con una
vela da windsurf o da kite può rivolgersi alla WISSA (World Ice and
Snow Sailing Association). L’associazione organizza un campionato
mondiale fin dal 1980 e quest’anno
l’appuntamento sarà dal 20 al 27
febbraio nella città russa Togliatti,
nei presi del fiume Volga.
www.wissa.org
01
01. Un ice boat classe
DN pronto a sfrecciare
sul ghiaccio a più di 90
km/h. Lo scafo dotato
di tre pattini sganciabili
misura 3,7 metri e
ha una superficie
velica di 5,57 metri
quadrati. Foto courtesy
iceboating.net
44
Veloci, velocissime. Chi non soffre il freddo e ama
le accelerazioni da brivido deve, almeno una volta
nella vita, salire a bordo di una ice boat e provare
questa eclettica quanto refrigerante evoluzione
dell’andare a vela. L’ice sailing è una disciplina
che ha trovato diffusione, per ovvie ragioni climatiche, soprattutto nelle regioni del nord tra
Russia, Europa, Stati Uniti e Canada, anche se, in
occasione di inverni particolarmente rigidi, qualche tentativo è stato compiuto anche in Italia.
Il problema è trovare luoghi dove il ghiaccio sia
spesso almeno quindici centimetri e ci siano spazi
di fuga sufficientemente ampi per manovrare in
sicurezza questi bolidi dalle alte velocità.
In Europa gli appassionati sono qualche migliaio,
ma spostandosi verso nord-est o andando direttamente oltreoceano, il numero degli ice sailor cresce in modo significativo. L’outfit di chi pratica
questo sport consiste in una tuta, guanti da sci, un
casco e un bel paio di scarpe chiodate necessarie
per camminare sul ghiaccio, ma anche per fermare gradualmente il proprio mezzo una volta che
la vela ha perso di portanza. Sfrecciare su una superficie ghiacciata controllando una vela diventa
una pratica sportiva solo attorno al 1880 in Svezia, ma l’ice sailing ha radici più “pratiche” e abbastanza antiche. Per esempio in Olanda, già nel
XVII secolo, durante la stagione invernale, molti
commercianti montavano ai loro carri dei pattini
e delle grandi vele in modo da poterli condurre
con il minimo sforzo lungo i canali ghiacciati del
Paese. La vela veniva regolata attraverso lunghe
funi e chi la controllava seguiva a piedi il mezzo
camminando lungo le sponde del corso d’acqua.
In Québec, invece, delle piccole “caravelle” in legno progettate per scivolare erano utilizzate per
attraversare gli innumerevoli laghi ghiacciati che
caratterizzano la regione. L’evoluzione “ludica”
si è avuta solo in un secondo tempo, quando le
vele hanno iniziato a essere più performanti, dalle dimensioni ridotte e anche scafi e pattini sono
diventati più leggeri e tecnici. Condurre una ice
boat è abbastanza semplice, ovviamente bisogna
possedere rudimentali conoscenze veliche, come
intendere qual è la direzione del vento e le andature che si possono tenere in relazione a questa,
e poi si è già pronti per salire a bordo e disegnare infinite traiettorie sul ghiaccio. Le regolazioni
sono minime: il pattino anteriore fa da timone e
poi c’è una scotta (paranco a più linee) con la
quale il pilota regola l’angolo di apertura e chiusura dell’unica vela che ha a disposizione. Ci sono
diverse classi di ice boat a seconda della lunghezza
della “slitta” e della superficie velica. La più popolare è forse la DN. Il cui nome deriva da “Detroit
News”, giornale che nel 1936 sponsorizzò un
concorso per progettare un modello che potesse
essere costruito facilmente da una sola persona
nel proprio garage. Le dimensioni di un DN sono
ridotte: lo scafo, dotato di tre pattini smontabi-
02
li, è lungo 3,7 metri per 53 cm di larghezza e la
vela misura 5,57 metri quadrati. Il tutto per un
peso complessivo di circa 20,4 chili. Caratteristiche che lo rendono facilmente trasportabile così
da permettere agli amanti di questa disciplina di
spostarsi senza grossi problemi alla ricerca del
“buon ghiaccio”. Il costo di una di queste “macchine volanti” si aggira tra i 4 e i 5mila euro, ma si
possono trovare ottime occasioni anche nel mondo dell’usato. La International DN Ice Yacht Racing Association (www.icesailing.org) organizza
ogni anno, dalla metà di novembre fino ai primi
di aprile, un fitto circuito di regate che culmina
con la World Cup, appuntamento che si tiene
ogni volta in un Paese distinto tra Europa, Stati
Uniti, Canada e Russia. Le regate si svolgono solitamente su un percorso a forma di bastone di
circa 1,5 km da compiere per tre volte. Sulla linea
di partenza possono schierarsi un massimo di 60
ice boat, un numero impressionante se si pensa
che, una volta dato lo start, sul campo di regata si
incroceranno scafi in grado di tenere medie superiori ai 90 km/h, e in quei frangenti, per fermarsi
non si può certo buttare l’ancora!
02. ll lago Bajkal nella
Siberia meridionale
ospita innumerevoli
regate sul ghiaccio, tra
queste la più popolare
è l’omonima Bajkal
Cup. Foto courtesy
iceboatracing.com
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design
design
In bloom
La mania per la botanica ha
raggiunto l’apice nell’800, quando si
collezionavano piante esotiche. E anche
oggi tutti vogliono circondarsi di verde
Botanique - Jewelled Garden Hanging Ispirato dai cristalli sfaccettati e dai
boudoir bohèmien, questo terrario è
perfetto per ospitare belle
piante rampicanti
www.botanique-boutique.com
Giardino d’inverno
È tempo di motivi botanici e trame vegetali, che attaccano
radici (anche) nel design. La natura è fonte di ispirazione
primaria e dà vita a collezioni verdi tra felci e licheni
Etsy
Piante e fiori sulla tavola, per una prima colazione speciale.
Tovaglietta in cotone di ispirazione scandinava
di Marzia Nicolini
www.etsy.com
Kann Design - Kora Beechwood
La carta da parati con
motivi floreali disegnata
da 4P1B Design Studio
per Wall&Decò è un
paradiso di felci e
uccelli incantati
46
Quello del plants power è un trend forte. Lo dimostrano le ultime uscite editoriali: dal nuovo
libro da collezione A Garden Eden edito da Taschen, raccolta di alcune delle più belle illustrazioni botaniche di Ottocento e Novecento direttamente dagli archivi della biblioteca di Vienna,
al più moderno volume Evergreen di casa Gestalten, raccolta ispirazionale tutta dedicata ai professionisti e appassionati del gardening. La verità
è che quello per il verde è un amore ad alto tasso
di contagio. Anche la moda si è lasciata influenzare, vedi la seducente collezione autunno inverno
2016-17 firmata Dolce & Gabbana. Gli stilisti
siciliani hanno detto di essersi ispirati ai lussureggianti alberi dell’orto botanico di Palermo. Gli
abiti di Giambattista Valli, invece, si ricoprono di
gardenie e peonie effetto 3D, in un inno alla femminilità, alle fioriture, alla primavera. E che dire
del beauty? Dalle fragranze come My Burberry
Black, che replica il profumo di un giardino inglese dopo una giornata di pioggia, alla mania degli estratti vegetali come elisir di giovinezza, con
maison come Yves Rocher in prima fila, piante e
fiori trovano il loro posto anche nell’olimpo della cosmesi. Poteva il design restare indifferente?
No, ovviamente. Ed ecco che anche nel settore
dell’interior è tutta una profusione di pattern vegetali e fantasie fiorite. Trame di felci, profili di
muschi, ciuffi di palme esotiche, delicati boccioli
hanno invaso divani, tappeti, sedute e tende, ma
anche carte da parati, rivestimenti e copriletti. Un
inno alla vita naturale che avrebbe reso orgoglioso Rousseau e il suo mito del bon sauvage. Nel
frattempo Pantone Inc. ha decretato che il colore di questo nuovo anno è un bel verde chiaro e
brillante: secondo gli esperti, infatti, il greenery,
delicata sfumatura di verde e giallo, è destinata
a influenzare le prossime mode. «Greenery simboleggia rinascita, rinnovamento e rigenerazione.
Ogni primavera inizia un nuovo ciclo», ha spiegato Leatrice Eiseman, direttore esecutivo del Pantone Color Institute, ai giornalisti del “The New
York Times”. Verde uguale piante, uguale tutti
pazzi per la vegetazione. Design incluso.
Poltroncina imbottita con braccioli
della Collezione Rewind. Un
progetto del designer José Pascal
www.kanndesign.com
House Of Hackney - Ananas
Lampada da tavola con base a forma
di ananas in fine porcellana, dettagli in
Design by Nico - Leaf Rug
ottone e paralume a fantasia tropicale
Tappeto rettangolare in feltro di lana disegnato da Nicolette
www.houseofhackney.com
de Waart. Come un soffice prato sotto i piedi
www.designbynico.co.uk
47
wheels
wheels
genio volante
Per i 60 anni di Citroën DS il Museo di Flaminio Bertoni si trasferisce a Volandia,
a due passi dall’hub internazionale di Milano Malpensa. L’allestimento ripercorre
la vita e le creazioni del designer varesino
di Ilaria Salzano
02
03
01
01. DS è oggi diventato
un marchio a sé,
sinonimo di lusso e
innovazione. Una
preziosa eredità che si
deve alla DS 19, prima
vettura della gamma
48
Come fosse un passaggio temporale, dal terminal
T1 dell’aeroporto di Milano Malpensa una passerella trasporta i curiosi direttamente a Volandia: il
museo, concepito da principio per custodire pezzi unici del mondo dell’aeronautica, simulatori,
archivi storici, oggi ha tutta l’intenzione di far volare i visitatori tra i successi di terra e cielo dello
scorso secolo. L’omaggio “terrestre” va a Flaminio
Bertoni, designer varesino nell’anima. Bertoni ha
contribuito notevolmente nel settore proponendo automobili innovative, confortevoli e dallo
stile inconfondibile. La collezione – installata dal
2007 nella sede della provincia di Varese – dopo
mesi di ricerca, dunque, adesso trova finalmente
uno spazio ad hoc in grado di evocare le origini professionali del suo creatore. Siamo nell’ex
lattoneria delle Officine Caproni. Chi conosce la
storia sa che prima di andare a Parigi e iniziare
la sua carriera Bertoni lavorò come lattoniere in
alcune delle più importanti carrozzerie del posto (tra cui la Macchi, destinata a crescere come
azienda aeronautica). Un filo che si ricongiunge,
quindi, per partire dalla notte dei tempi e descrivere totalmente la personalità del genio. L’occasione è speciale: i 60 anni di Citroën DS, i marchi
che più in assoluto ricordano il suo nome.
L’allestimento, con una dozzina di stanze, ripercorre la sua vita, dai primi esordi nella scultura, ai
bozzetti delle auto, intervallati da tutte le collaborazioni artistiche di cui nel contempo si cibava.
Interessanti i pezzi unici, come ad esempio la curiosa vettura a tre ruote denominata V3R, oppure
i prototipi dove Bertoni riponeva la sua creatività
più fervida in attesa dei debutti.
Era il 1934 quando venne lanciata sul mercato la
Traction Avant, esposta in questa sede con tanto di manifesti pubblicitari e altre opportunità
artistiche sviluppate al tempo. L’auto guadagnò
subito il terzo premio di scultura alla quarta Exposition des Beaux Arts ad Asnières; fu un successo, così come accadde per la successiva 2 CV,
attorniata nel museo da opere che si rifanno al
tema del viaggio e della libertà. Temi con cui la
vetturetta venne presentata nel 1948 al Salone
dell’Automobile di Parigi e che contribuirono a
renderla negli anni un fenomeno culturale.
Quasi dieci anni dopo dall’elaborazione dei progetti è evidente come il designer si sentisse più
vicino al mondo della natura: nello specifico, il
disegno della DS 19 mostra come la calandra
e il frontale riprendevano i tratti di un pesce.
Quest’ultima produzione vinse il primo premio come opera d’arte industriale: presentata
nel 1957, venne esposta alla Triennale di Milano
come esemplare. Non fu l’ultimo lavoro per l’automotive. Con il mercato in aumento e le esigenze di un marchio in espansione, Bertoni in questi
anni lavorò ancora per le quattro ruote. Fu la sua
fatica più grande. Dal suo atelier di rue du Theatre 48 nel 1964 uscì l’Ami6. Una storia lunga e
tormentata.
Per Citroën era indispensabile avere un segmento
nuovo da poter inserire tra la 2CV e la DS. Per
l’allora progetto M (M stava per milieu de gamme,
che in francese significa di metà gamma), dunque,
l’artista pensò a una due volumi con portellone:
idea troppo innovativa per i tempi, che venne
bocciata, come si vede dalle teche del museo. Il
suo estro dunque diede vita a una versione con
montante posteriore rovesciato, con cui i passeggeri posteriori avrebbero avuto spazio per la testa
ma nel contempo anche un baule generoso. Non
andò tutto liscio. Per ragioni di costo, il designer si
vide costretto a ridisegnare di corsa il frontale, andando a ribassare in maniera drastica solo la parte
centrale di muso e cofano. Per poi alzare anche
l’alloggiamento dei fari anteriori e aumentare il
fascio luminoso. «Sembra che abbia investito 3
pedoni», commentò alla fine del proprio progetto.
Nonostante ciò, la versione successiva, la Break,
debuttata nel ‘64, riuscì a fregiarsi del titolo di
“auto più venduta” in Francia (1965). Certo, per
renderla accattivante, il nome scelto fu Amì (amico), venne pubblicizzata con donne bellissime a
bordo e in luoghi da sogno. Ma il marketing poteva dirsi ancora agli antipodi. Quella fu la sua fortuna. Bertoni lo ricordiamo per il suo operato più
puro. Male o bene, è così che ha lasciato il segno.
02. Flaminio Bertoni
lavorava di notte nel
suo atelier. Per tutto
ciò che diede alla
cultura francese venne
nominato Cavaliere
dell’ordine delle Arti
e delle Lettere della
Repubblica Francese
03. Il debutto in strada
della DS negli anni
del dopoguerra fu
eclatante. Mai si era
vista tanta eleganza
“dentro” e tanta
innovazione “fuori”
49
hi tech
hi tech
Alta definizione
Schermi, fotocamere, tv e proiettori.
Con questi sofisticati device vedrete tutto,
fino all’ultimo dettaglio
BenQ - XI2000
È il primo videoproiettore LED UHD 4K
DLP al mondo dedicato all’home cinema,
con 8,3 milioni di pixel reali. In parole
povere, porta tra le pareti domestiche un
perfetto equilibrio tra elevata luminosità e
precisione cromatica
www.benq.it
Quando la tv è Ultra (HD)
Samsung - UBD-M9500
Anche i lettori Blu-ray entrano nella partita dell’alta definizione.
Quello appena lanciato al CES dispone di una modalità “private
La parte del leone quest’anno la fanno gli OLED, sottili, sofisticati, super
performanti. Ma c’è spazio anche per proiettori, fotocamere, webcam e
monitor per computer. A una condizione: che spacchino il pixel!
cinema” per trasferire l’audio del televisore agli auricolari
Bluetooth personali. Inoltre riconosce automaticamente il tipo di
pannello a cui è collegato e si setta di conseguenza
www.samsung.it
di Paolo Crespi
Fra i protagonisti di
CES 2017, Sony ha
presentato una vasta
gamma di tv tra cui
spiccano i nuovi Bravia
delle serie A1 e XE93.
Entrambi utilizzano
pannelli Oled e
tecnologia 4kK
50
Alta definizione, anzi altissima. È la parola d’ordine di questo inizio d’anno, sia per i “broadcaster” e
i produttori di contenuti che preparano e in parte
hanno già realizzato il passaggio alle trasmissioni
in HD, sia per i big player dell’audio/video, che al
CES di Las Vegas (la più importante fiera mondiale dell’elettronica di consumo) hanno appena sfoderato le ultime novità in fatto di super schermi
televisivi. A partire naturalmente dal nuovo fronte degli OLED, considerato lo standard del futuro,
sempre più prossimo, man mano che i prezzi si
“democratizzano” con il crescere della domanda.
Ma non solo, perché nel club dell’alta definizione
entrano di diritto anche i proiettori high-end, le
foto-videocamere in grado di girare senza soluzione di continuità filmati in 4K (detto anche Ultra
HD, questo standard fa riferimento ai circa 4mila
pixel orizzontali di risoluzione), che a loro volta
alimentano il circuito dell’home-entertainment di
qualità, e i monitor da computer che in fatto di
definizione non hanno nulla da invidiare ai totem
da salotto… Parlando di tv, i brand del giorno sono
LG, che dalla capitale del Nevada ha lanciato lo
schermo OLED W77, premiato con il Best of Innovation Award, sottile come una carta da parati
(aderisce al muro grazie a una lastra magnetica,
mentre tutte le componenti elettroniche e gli
speaker sono contenuti in una speciale soundbar),
Sony con la serie A1, che al contrario riesce a
proiettare l’audio direttamente dallo schermo, di
grande design (Acoustic Surface il nome del loro
brevetto), Panasonic con i nuovi OLED Ultra HD
Hdr, dall’inarrivabile resa cromatica, e Samsung
con i suoi QLed, alternativa agli Oled basata
sulla tecnologia Quantum Dot, con picchi di luminosità e valori di contrasto superiori per ora a
quelli dell’agguerrita concorrenza. E poi (o prima) viene il software, cioè i contenuti televisivi
in 4K, di cui c’è grande richiesta ma scarsità di titoli, tutti per la verità di alto gradimento da parte
del pubblico (come nel caso della serie I Medici,
prodotto nativamente in 4K). E le infrastrutture
tecnologiche che devono poter supportare i nuovi canali del palinsesto pubblico e privato. Per la
Rai, lo switch è avvenuto curiosamente il giorno
della Befana: ora tutte le reti del servizio pubblico,
comprese quelle tematiche, viaggiano in HD, ma
solo attraverso la piattaforma satellitare TivùSat,
utilizzata soprattutto in quelle zone del Belpaese in cui il segnale del digitale terrestre è debole
o assente. Per un cambio generalizzato bisognerà
aspettare ancora un bel po’…
LG - Ultra Wide Mobile da 34”
Esperienza di gioco senza precedenti e grande produttività per
i professionisti e gli appassionati di video con i nuovi monitor ad
alta risoluzione della casa coreana. Si usano in abbinamento al
computer ma anche come periferiche Chromecast
www.lg.com/it
Logitech - C922 Pro Stream
La webcam, molto innovativa,
permette di registrare e trasmettere
video naturali in alta risoluzione a 30
frame per secondo (fps) oppure a
720p con 60fps. Include la modifica
dinamica dello sfondo, senza bisogno
di usare i tradizionali “teli verdi”
www.logitech.it
Panasonic - Lumix LX15
Versatile e creativa, la nuova fotocamera compatta
a ottica fissa (Leica) dispone di ben 22 filtri e gira
filmati in 4K di durata pressoché illimitata. Grazie al
funzionamento digitale, “panning” e zoomate stabili
sono un gioco da ragazzi
www.panasonic.it
51
weekend
weekend
STORIE PREZIOSE
Influenzata dalla vicinanza con la Germania, è una delle
regioni più ricche di tradizioni. “Bienvenue en Alsace”, terra
di ottimi vini, castelli incantati, artigiani maestri dell’intarsio
e delle stoffe... e di mura misteriose
di Carolina Saporiti
sul web
www.auberge-de-l-ill.com
www.les-haras-hotel.com
www.tourisme-alsace.com
www.france.fr
www.paindepices-lips.com
01
01. Vista dell’Ecomusée
d’Alsace, il più grande
ecomuseo di Francia,
che riaprirà dopo la
chiusura invernale
il 19 marzo. Foto di
Florentin Havet
52
Non c’è bisogno di andare nelle grandi città per
vedere monumenti storici o visitare musei affascinanti. E non serve prenotare una vacanza in
montagna o in Paesi del nord per sentirsi nel posto giusto nella stagione invernale. Basta andare in
Alsazia dove, passato il Natale, che qui è un affare
molto serio (le decorazioni delle case di Strasburgo e Colmar fanno invidia a tutto il mondo) ci si
può dedicare indisturbati alla scoperta del territorio e soprattutto alle sue storie preziose. Ogni
eccellenza è accompagnata da tradizioni mitiche.
Il primo motivo che rende speciale questa regione della Francia è la sua vicinanza alla Germania:
per secoli i due Stati si sono alternati nella sua
“gestione” e ciò le ha conferito un lato tipicamente indipendente. Le tre città principali sono
Strasburgo, Colmar e Mulhouse e tutt’intorno il
paesaggio è circondato dalle montagne verdi dei
Vosgi, dal Reno e da ettari di vigneti. La strada
del vino dell’Alsazia è la più antica di Francia ed
è per questo che qui è molto sviluppato il turismo
enologico. Ma la potenza della natura rende speciale l’Alsazia anche per chi vuole trascorrere una
vacanza su una mountain bike o facendo attività
sportive di vario genere – come trekking, pesca e
canottaggio.
Fondata nel 1953, la strada dei grand crus d’Alsazia si estende ai piedi delle foreste dei Vosgi,
dominate da misteriosi castelli, attorno ai quali si
sviluppano piccoli villaggi con locande dove assaggiare alcuni di questi vini. La route si estende
per più di 170 km da nord a sud, con più di 1.000
vignerons sempre pronti ad accogliere i visitatori
nelle loro cantine per scoprire i sette vitigni alsaziani: sylvaner, gewurztraminer, muscat, riesling,
pinot bianco, pinto grigio e pinot nero. Oltre al
vino si possono assaggiare acquaviti distillate dalla frutta. La Maison Massenez, a Val de Villé, oggi
guidata da Manou, ne produce di ottime ottenute
da ciliegie, lamponi, prugne e pere. Le acquaviti prodotte da Manou Massenez (il nuovo volto
– femminile – della casa) oggi si trovano un po’
ovunque in tutto il mondo. Da Klur invece vi
aspettano degustazioni e visite delle cantine (per
le vigne non è la stagione più adatta) alla scoperta
di una maison che da 10 anni è impegnata nel-
02
la coltivazione biologica e biodinamica. Girando
per i villaggi del vino vi sembrerà di essere in una
fiaba tra cottage dipinti con colori vivaci, mura
medievali e nidi di cicogna sulle guglie delle chiese. I più belli sono Riquewihr, Eguisheim, Kaysersberg e Bergheim, più piccoli e più silenziosi sono
Saint-Hippolyte e Katzenthal.
Nonostante la fama mondiale dei vini alsaziani,
anche la birra di questa regione si difende bene.
La famiglia Haag conduce il più antico birrificio
d’Alsazia, Méteor, fondato nel 1640. Ma non di
solo vino (e birra)... Quindi via alla scoperta del
pane pepato (pain d’épices). Il pane al miele è
citato sia da Omero sia da Virgilio, ma nel XIII
secolo si è diffuso il suo consumo, con leggeri variazioni, tra Basilea, Strasburgo e Francoforte. Se
viaggiate con bambini dovreste fermarvi al Gingerbread Museum, a Gertwiller, dove il maestro
panettiere Michel Habsiger ha creato un museo
pieno di giocattoli.
Da nord a sud, percorrendo l’Alsazia in macchina,
si incontrano anche città più grandi. Strasburgo
non è solo sede del Parlamento europeo: dal 1988
eat & sleep
A pochi km da Colmar Jérome
Jaegle ha aperto il ristorante
l’Alchemille, che prende il nome
da una pianta famosa per le sue
proprietà legate alla fertilità. Jaegle,
chef giardiniere, propone piatti alla
clorofilla e cioccolato alla regina dei
prati. L’Auberge de l’Ill è un piccolo
gioiello nel villaggio d’Illhauesern
che esiste da 150 anni ed è gestito
da quattro generazioni dalla famiglia Haeblin. Il ristorante detiene 3
stelle Michelin. Lo chef Marc Haeblin ha firmato anche la carta del
ristorante nel cuore di Starsburgo
della brasserie dell’albergo Les
Haras. Tutti templi imperdibili della
gastronomia alsaziana.
è infatti patrimonio dell’Umanità dell’Unesco e
in effetti, nei secoli, in tanti si sono innamorati
delle sue vie e delle sue piazze. Gutenberg, Victor
Hugo, Napoleone e Gustave Doré rimasero probabilmente incantati dalla cattedrale gotica che si
affaccia sulla place du Chateau.
Spostandosi verso sud si incontra l’abbazia San
Leonardo ai piedi del Mont Sainte Odile, dove
Charles Spindler iniziò un’attività di intarsio che
oggi è portata avanti dal nipote Jean Charles. Entrando le narici vi si riempiranno di profumo di
legno. Attorno al monte si snoda un sentiero archeologico che inizia con il Muro Pagano (lungo
11 km) probabilmente risalente al 1 secolo d.C.
di cui è sconosciuta la funzione.
Infine, prima di raggiungere la pittoresca Colmar
con le sue case colorate affacciate sui canali, fermatevi al castello dell’Haut-Koenigsburg. Giunti
in città concludete il viaggio con un po’ di arte.
Progettato da Herzog e De Meuron nel cuore
della città, il Musée Unterlinden racchiude capolavori di grandi artisti come Jean Dubuffet, Pablo
Picasso e Grunewald. Per un finale in bellezza.
02. Il Parc Salvator di
Mulhouse, la seconda
città d’Alsazia per
dimensione dopo
Strasburgo, è stato
aperto nel 1890 dove
un tempo sorgeva un
cimitero
53
weekend
weekend
Carnevale tutto l’anno
Si avvicina il weekend più sentito per Ivrea. Nonostante la
manifestazione prenda il via ufficiale il 6 gennaio e per tutto l’anno i
cittadini si ritrovino in varie occasioni, è nel fine settimana di Carnevale
che la festa esplode con la Battaglia delle Arance. Se siete scettici dovreste
farci un salto. Verrete travolti dall’entusiasmo degli eporediesi
di Tullia Carota
02
01
01. Il Carnevale di Ivrea
prende ufficialmente
il via il 6 di gennaio
con la prima uscita di
Pifferi e Tamburi, che
accompagnano poi
ogni momento della
manifestazione fino al
Martedì di Carnevale
54
«Ivrea la bella». Se a dirlo è Carducci, allora deve
essere vero. E, in effetti, lo è: il capoluogo simbolico del Canavese, quel territorio che si estende
per circa 50 Km da Chivasso alla Valle d’Aosta,
conta poco più di 25mila abitanti, è attraversato
dalla Dora Baltea e il suo centro storico affascina
chiunque lo veda per la prima volta.
Seppure piccola e non in cima all’elenco delle
mete turistiche italiane, Ivrea è famosa in tutto
il mondo, soprattutto per due cose: l’Olivetti e il
Carnevale. Sull’Olivetti si sa quasi tutto. Camillo
e il figlio Adriano furono imprenditori illuminati
che, oltre a sviluppare prodotti tecnologici all’avanguardia, ebbero la lungimiranza di proporre un
modello di sviluppo industriale avanzato, attento
ai propri dipendenti, al territorio e alla società.
Il secondo motivo per cui Ivrea è famosa in tutto
il mondo, si diceva, è il Carnevale. Ma a essere
famosa è soprattutto la Battaglia delle Arance.
Criticata e malvista da molti, ha una storia curiosa alle spalle e fa, in realtà, parte di una manifestazione, lo Storico Carnevale di Ivrea, che dura
molti giorni e si apre ogni anno il 6 gennaio con
l’uscita di Pifferi e Tamburi – che potrebbero essere considerati la banda ufficiale della manifestazione. Districarsi tra gli appuntamenti e la storia
di questo Carnevale, il più antico d’Italia, non è
facile, anche perché i diversi momenti pescano da
differenti epoche storiche.
Ma sono due le anime principali: da un lato c’è la
componente storica, rappresentata dal corteo di
cui fanno parte personaggi come il Generale, la
Mugnaia, gli Abbà e il Podestà; dall’altro la Battaglia delle Arance, combattuta da squadre a piedi e
squadre su carri da getto. Il comune denominatore
è uno però: rappresentare la liberazione di Eporedia (questo il nome di Ivrea in epoca romana) dalla tirannia. Nel 1600 l’ennesima rivolta popolare
contro il Marchese di Monferrato, signore della
città, portò alla liberazione e così le nove squadre
di aranceri a piedi rappresentano il popolo che
sfida il tiranno, interpretato simbolicamente dalle
squadre sui carri che indossano una maschera a
protezione del volto. Se ve lo state chiedendo... sì,
tutti possono partecipare alla Battaglia iscrivendosi a una delle squadre.
Le origini della Battaglia risalgono al Medioevo,
quando a essere lanciati in strada erano i fagioli
e non gli agrumi. Due volte l’anno, infatti, il feudatario donava una pignatta di legumi alle famiglie meno abbienti che per disprezzo gettavano il
contenuto per strada. La battaglia moderna viene
combattuta dal 1947, ma ha radici nell’Ottocento
quando le giovani della città, per attirare l’attenzione dei ragazzi, lanciavano dai balconi coriandoli, confetti, lupini, fiori e anche arance, un frutto
esotico (portugaj in dialetto piemontese) proveniente dalla Costa Azzurra. Era un modo (forse
un po’ bizzarro) per richiamare la loro attenzione.
Il gesto cortese si trasformò presto in duello.
Le due anime, dunque, si incontrano per la prima volta il sabato sera di Carnevale quando alla
città viene presentata la Mugnaia che ogni anno
è interpretata da una giovane eporediese sposata: anche se può sembrare difficile da capire, per
le donne della città essere Mugnaia è motivo di
grande orgoglio. Inizia quindi, di sabato, il cuore
della manifestazione con il Corteo Storico che attraversa la città e continua per i tre giorni successivi con la Battaglia, il Corteo, i fuochi, le fagiolate
nei vari rioni e l’abbruciamento degli scarli (alti
pali di legno, sinonimo di prosperità) il martedì
sera, quando si svolge anche la marcia funebre per
la fine del Carnevale dopo la quale viene dato appuntamento all’anno successivo. Ma non si può
certo concludere una festa così: quindi mercoledì,
primo giorno di Quaresima, nel rione Borghetto
viene distribuita polenta con merluzzo (vengono
cucinati 1400 kg di polenta, 800 di merluzzo e
1400 di cipolle!).
Chi c’è stato, al Carnevale di Ivrea, ci vuole tornare. Se fosse un eporediese a dirlo sarebbe troppo
facile, ma invece ad assicurare che vale la pena
andare almeno un giorno sono anche quelle persone che con il Canavese non hanno nulla a che
fare. Le vie della città, preparate per difendersi dai
lanci delle arance, sono invase da turisti, cittadini
e curiosi, ma soprattutto da un’atmosfera di grande festa. Da non sottovalutare, poi, la possibilità
di fermarsi a mangiare in qualche ristorante della zona per assaggiarne le specialità quali zuppe,
pane, polenta, salumi e molti legumi e una sosta
a Caluso, la culla dell’Erbaluce, vino tipico della
zona che dal 1975 è tutelata dalla Cantina Cooperativa produttori Erbaluce di Caluso che oggi
conta 160 produttori. Infine, per addolcire lo
spettacolo della Battaglia (o da portare a casa) è
consigliabile passare dalla pasticceria Balla a Ivrea
a comprare la torta Novecento, la cui ricetta segreta è stata depositata come marchio registrato.
02. La Battaglia delle
Arance è il momento
più famoso del
Carnevale di Ivrea.
Criticata da molti, è in
realtà combattuta con
lealtà e in amicizia
55
overseas
overseas
MI BUENOS AIRES QUERIDO
La capitale mondiale del tango è una città frenetica e dai mille volti, che
si odia o si ama, dove noi italiani ci sentiamo quasi a casa, e che per
essere capita deve venir vissuta barrio per barrio
testo e foto di Andrea Zappa
naturalmente
Per prendersi una pausa della
frenesia cittadina e conoscere la
vera forza di Madre Natura, non
resta che prendere un volo da
Buenos Aires e andare a visitare le
eccezionali cascate di Iguazù nella
provincia argentina di Misiones al
confine con il Brasile. Dichiarate
patrimonio dell’umanità dall’Unesco, sono un sistema di 275
cascate che raggiungono salti fino
a 70 metri di altezza.
01
01. La capitale
dell’Argentina, Buenos
Aires, è suddivisa in
barrios ognuno dei
quali con proprie
caratteristiche
56
Non c’è dubbio, “l’italianitudine” che si respira
a Buenos Aires dà la sensazione, nonostante le
14 ore di volo, di non essersi mossi dallo Stivale.
La maggior parte dei porteñi, infatti, ha nel proprio albero genealogico un pezzo di quell’Italia
migrante che se ne andò in Argentina in cerca di
fortuna a partire dai primi del Novecento. E allora
non ci si sorprende della calda accoglienza quando intuiscono la parentela, del «ciao» quando si
esce da un negozio, o se, nel menù di un qualsiasi ristorante spicca in bella vista la Milanesa, che
qui si presenta anche con una variante più ricca,
la Milanesa Napolitana ricoperta di mozzarella e
pomodoro.
Buenos Aires è una città immensa, caotica e di
grande fascino, chi viene da fuori la chiama, non
a caso: la ciudad de la furia. Una delle esperienze
più incredibili è quella di girarla sugli autobus. La
fitta rete di linee porta in qualsiasi angolo della
capitale, ovviamente con i dovuti tempi. I mezzi
sono pittati come auto del circuito Nascar americano e i conduttori li guidano con lo stesso estro
dei piloti di Indianapolis: velocità da ultimo giro
di qualifica, la salita e la discesa avvengono quasi
al volo e se non alzi il braccio alla fermata il bus
tira dritto. La giustificazione? «La città è grande
e per arrivare da un capo all’altro bisogna fare in
fretta».
Dopo essersi fatti frullare dentro l’autobus, non
resta che iniziare il paseo por el barrio. A Buenos
Aires ogni quartiere (barrio) possiede un’anima
distinta. Gli amanti delle boutique alla moda e
del design potranno incontrare “interessanti souvenir” tra le case basse e colorate di Palermo: il
quartiere si divide in maniera non ufficiale nelle
zone di Soho, Hollywood, Viejo e Chico. Sempre
da queste parti si trova un parco, noto come il
Bosques Palermo, di circa 25 ettari con un piccolo
lago artificiale navigabile nel centro, dove trova
spazio il Planetario Galileo Galilei.
Molto in voga tra i turisti anche il quartiere Recoleta, famoso per il suo immenso cimitero (assolutamente da visitare) dalle lussuose tombe dove
riposano le personalità più illustri del Paese, compresa la tanto amata Evita Peron. A pochi passi
dall’entrata del cimitero, la piazza Intendente Alvear, meglio conosciuta come plaza Francia, ospita ogni fine settimana la Feria de Artesanos e gli
spettacoli di numerosi artisti di strada.
Chi ama lo shopping compulsivo a basso prezzo
e cerca un’alternativa culinaria al classico asado
argentino (carne cotta alla brace), apprezzerà invece i colori e i sapori del barrio chino (quartiere
cinese) a Belgrano, una volta passati sotto l’arcoporta della via principale si viene catapultati in
una vera Chinatown.
Ma per respirare la reale atmosfera porteña, bisogna spingersi a sud nella zona del porto dove si
incontra San Telmo, il primo quartiere della città, in cui nacque il tango tra taverne di marinai e
bordelli. Oggi è una zona molto turistica con bancarelle e bar, da non perdersi il Bar Plaza Dorrengo, nell’omonima piazza, caratterizzato da tavoli
in legno pieni di scritte e con le immagini delle
leggende del tango appese alle pareti. Attaccato a
San Telmo c’è la Boca, il multicolore quartiere del
porto fondato dai nostri immigrati genovesi che
decisero di dipingere le loro case con la vernice
avanzava dagli scafi delle navi. Il cuore della Boca
è rappresentato dalla Bombonera, ufficialmente
02
lo stadio Alberto José Armando, culla del Boca Juniors, la squadra più amata dagli abitanti della capitale. Molto interessante la visita guidata di circa
due ore alla scoperta dei segreti di questo tempio
della fede calcistica porteña che ha dato la gloria a
un giovane Diego Armando Maradona. Una volta
calpestata l’erba del campo della Bombonera, se
è l’ora dell’aperitivo, ci si può dirigere verso la
moderna zona di Porto Madero, dove sorseggiare
in relax un’ottima Patagonia Weisse, ammirando
la silhouette illuminata di vecchie gru portuali.
Un’altra tappa obbligata è il suggestivo e tradizionale Café Tortoni, in pieno centro, Avenida
de Mayo 825. Inaugurato nel 1958, era il preferito di molti intellettuali dell’epoca. Un classico
è fare merenda seduti nei piccoli tavoli di legno
e marmo con medialunas e café con leche, il tutto accompagnato per tradizione da un bicchiere
di soda. Alla sera il locale ospita anche esibizioni
di tango. Ma se volete vedere uno spettacolo con
un’intera compagnia di ballerini, non resta che
passeggiare lungo la centralissima Avenida Corrientes, soprannominata il viale dei teatri e delle
librerie. La vera anima del tango però la si può
respirare andando una sera in una delle milongue
più famose della città, come il Niño Bien, il Salon
Canning, la Catedral e la Viruta, il cui slogan è
entrás caminando y sales bailando, entri camminando, esci ballando. Se questo dovesse accadere
per davvero, non lascerete più questa città.
02. Porto Madero
è la moderna zona
portuale: andate all’ora
dell’aperitivo per bere
una birra Patagonia
57
food
food
Gourmet in quota
La montagna d’inverno riserva sorprese. Oltre alle piste da sci
e alle cime innevate, ci sono i ristoranti stellati. Che con i loro
piatti capolavoro, sintesi di tradizione alpina e innovazione,
conquistano i sensi. Sullo sfondo, paesaggi incantati
di Marzia Nicolini
02
03
01
01. Servizio
impeccabile e
accoglienza altoatesina
al ristorante St.
Hubertus, due stelle
Michelin gestito
dallo chef Norbert
Niederkofler.
All’interno dell’hotel
Rosa Alpina di San
Cassiano, sposa la
filosofia del cook the
mountain
58
Immaginate il paesaggio mozzafiato delle cime
più belle delle nostre Alpi, tra comprensori sciistici invidiati in tutto il mondo, boschi innevati,
ghiacciai e altopiani assolati. Amatissima dagli
sportivi di ogni età, la montagna riserva però anche un lato meno dinamico e assai più godereccio:
parliamo dell’haute cuisine firmata dagli chef del
posto. Un connubio, quello tra territorio montano
e alta gastronomia, che trova nelle loro creazioni
la sintesi perfetta. Tradizione e innovazione vanno
a braccetto, in piatti che dialogano con le vette
circostanti. Perché per questi chef, fini conoscitori
del luogo in cui operano (e da cui spesso provengono), è la montagna la fonte prima di ispirazione.
Esserle fedeli è quasi d’obbligo.
Le scuole di pensiero e i piatti da gustare sono
tanti e diversi. Se la montagna resta il fil rouge per
eccellenza, quelle degli chef di montagna sono
preparazioni assai personali. Il St. Hubertus, due
stelle Michelin, è il palcoscenico privilegiato dello
chef Norbert Niederkofler, mente e mani dell’hotel Rosa Alpina, il Relais & Châteaux della famiglia Pizzinini a San Cassiano, nella bellissima Val
Badia. In un borgo altoatesino dove si comunica
in lingua ladina, si assaggiano piatti esaltanti come
il trancio saltato di foie gras con créme brûlée alla
mela e balsamico e risotto al pino mugo con faraona affumicata. A Niederkofler, sud-tirolese della
Valle Aurina, il merito di aver concettualizzato la
filosofia del cook the mountain, un grande progetto
di promozione e valorizzazione della gastronomia
montana. In un’ambientazione in puro stile sudtirolese, al ristorante del Romantik Hotel Stafler di
Vipiteno, la doppia stella Michelin Peter Girtler,
star della cucina della Gourmetstube Einhorn,
crea piatti ricercati. Il suo riferimento? La migliore tradizione altoatesina, compresi gli antichi
ortaggi dimenticati e la varietà di erbe spontanee
selvatiche di montagna. Qui si mangia riscaldati da una grande stufa in maiolica, con la netta
sensazione di fare un salto temporale nel passato.
Sempre in Alto Adige, il promettente Matteo Metullio, classe 1989, triestino, dirige le cucine de La
Siriola, il celebre ristorante dell’Hotel Ciasa Salares a San Cassiano. Il menu si apre con una frase
che sembra un motto: «la forza sta in tutto quello
che ha radici solide». Dall’uovo di Bresse al magret
d’agnello in soffice crema al latte di capra, l’itinerario goloso lascia (estremamente) contenti. Altra
regione alpina, altre suggestioni. Chi ha provato
la cucina valdostana di Agostino Buillas, una stella Michelin, lo sa: la meticolosità che questo chef
riserva ai piatti del suo Café Quinson a Morgex,
pochi chilometri da Courmayeur, è unica. Situato
nella piazza principale del paese e a conduzione
familiare, il ristorante di Buillas è caldo e avvolgente. Merito della scelta di rivestimenti in pietra
e legna locale, degli spessi tappeti che coprono
i pavimenti e delle stufe che scoppiettano allegramente. Da non perdere l’hamburger di carne
cruda valdostana, il magret d’anatra e l’ampia selezione di vini e formaggi della Valle (e non solo).
Lasciarsi coccolare è un attimo. E quando si esce,
la vista del Monte Bianco, svettante di fronte al
paese, rende il tutto ancora più suggestivo. Ultima
tappa all’Umami di Bormio, nel cuore della Valtellina. Il giovane chef Antonio Borruso, una stella
Michelin, dedica al nome del suo ristorante, che in
giapponese significa “saporito”, una cucina capace di miscelare abilmente aromi, colori, profumi,
creando un insolito punto di incontro tra due (diversissime) tradizioni culinarie, quella napoletana
e quella valtellinese, che si fondono in un menu
inaspettato. Da ricette tradizionali come i succulenti pizzoccheri, rivisitati in forma sferica, al
merluzzo gratinato con mandorle, non ci si annoia
di certo. Anche l’arredamento gioca il suo ruolo:
di gusto contemporaneo, il ristorante ha vetrate a
tutta altezza che lasciano entrare la luce, toccando
il paesaggio circostante. E dopo una bella mangiata, i più temerari possono avventurarsi sugli sci o
sulle ciaspole.
02. Ambientazione
valdostana e caldi
rivestimenti in legno
locale al Café Quinson
di Morgex. In cucina
lo chef stellato
Agostino Buillas è
affiancato dalla sua
famiglia
03. Piatti come opere
d’arte: al Romantik
Hotel Stafler di
Vipiteno, la doppia
stella Michelin Peter
Girtler propone
ricette della tradizione
sudtirolese
59
food
food
La ricetta dello chef
FELIX LO BASSO
Felice, detto “Felix”, appare più giovane della sua
età (compirà 44 anni quest’anno) probabilmente per
l’entusiasmo, la sveltezza e un che di “guasconeria
alla d’Artagnan” dei fornelli, che ha attraversato
la provincia milanese in tutte le sue sfumature per
arrivare nella grande città a vedere l’effetto che fa.
Ed è anche l’ultima stella a essere stata accesa a
Milano lo scorso novembre, ma per lui è la terza in
tre ristoranti diversi
Intuizione, fantasia, innovazione e
creatività sono i pilastri della cucina
del cuoco pugliese
Risotto alla parmigiana…
di Roberto Perrone
Natale è appena passato. Sono curioso, che cosa si prepara un cuoco per la
festa più importante dell’anno?
Tortellini in brodo, che mi faccio io.
A novembre la terza stella con il nuovo ristorante a Milano, ma in realtà è
la terza in tre ristoranti diversi, come
vincere tre campionati di calcio con tre
differenti club. Felix non le manda a
dire, è schietto. Da dove viene?
Vengo da Molfetta.
Dalla Puglia come arriva qua?
Frequento l’istituto alberghiero “Armando Perotti” a Bari. Quindi parto. Le
mie prime esperienze sono sulla riviera
romagnola, a Rimini, a Riccione.
Da dove nasce la spinta?
Avevo voglia di andare fuori, di mettermi in gioco, a quell’età non guardi
alle stelle.
C’è sempre un momento catartico nella vita di un uomo, specialmente di un
cuoco...
Il mio è rappresentato dall’incontro
con Vincenzo Cammerucci, storico
chef romagnolo con formazione marchesiana. È nata un’altra storia, un altro modo di pensare la ristorazione, capendo gli ingredienti che sono una cosa
importante per l’alta cucina.
Dopo la Romagna, una breve, ma
intensa parentesi a Montecarlo da
Robuchon, poi l’Alto Adige, all’Alpenroyal di Selva di Val Gardena...
Qui sono rimasto dodici anni e nel
2011 arriva la stella numero 1. A quel
punto cercavo la seconda o comunque
60
qualcosa in più, qualcosa di mio, ma il
titolare aveva altre strategie. In definitiva ero io che sentivo di voler/dover
cambiare.
Dopo tanto girovagare per la provincia generosa è il momento di mettere
piede in città. Prime impressioni?
Arrivo a “Unico” nella cucina lasciata
Fabio Baldassarre. A Milano, finalmente. Qui c’è un concentrato di ristorazione che ti spinge a voler fare meglio.
La competizione a noi cuochi piace, è
stimolante.
Stella anche a Unico. E nuovo addio.
Come mai?
I proprietari non avevamo voglia di investire, volevano fare eventi, mischiare
le cose. Stavo già pensando di lasciare
Milano, ma all’ultimo minuto ho trovato questa location interessante che
mi ha convinto a restare e così il 14
giugno del 2016 apro in piazza Duomo e a novembre, a Parma, eccomi per
la terza volta sul palco tra i premiati
Michelin per il 2017. Tre stelle in tre
posti differenti.
Dove ha incontrato il piacere della
cucina?
Nella casa di mia nonna Marianna. Faceva di tutto: le orecchiette, i triddi,
una pasta in brodo tradizionale, le polpette di uovo e la parmigiana di melanzane, la mia preferita. Così ho creato
un risotto con il gusto di una parmigiana e l’ho dedicato a mia mamma.
La sua idea di cucina?
Prima avevo un’idea diversa, ora penso
che si debba ritornare ad amare le cose
più semplici. Riscoprire il servizio in
sala ad esempio: completare un piatto al tavolo. Il cliente italiano lo chiede e poi così si dà un ruolo anche al
cameriere che è un mestiere in via di
estinzione. L’evoluzione ci sta, ma non
è quello che principalmente chiede
l’ospite.
Approfondiamo la sua idea del mestiere di cuoco...
Da ragazzo avevo un quadro con tutte le foto degli chef che ammiravo.
Compravo giornali, ritagliavo le foto e
le riunivo in un collage. Al primo posto, però, avevo sempre Alain Ducasse.
Sempre francesi, a me gli italiani non
mi fanno impazzire, anche quando
viaggiavo e frequentavo gli eventi internazionali andavo a guardare gli altri, negli italiani non trovavo nulla di
esaltante. Gli altri sono bravi, la Francia
ancora oggi è un modello nell’hotellerie
e nella ristorazione.
Separato, con due figli, Samuele di 14
anni e Melissa di 6 che vivono a Igea
Marina, Felix, ma in Puglia torna?
Ogni tanto. Mi hanno fatto ambasciatore della cucina pugliese.
Con Milano ha un rapporto aperto,
senza sconti...
Sì, Milano è una metropoli, ma non la
vedo come la descrivono, come la capitale economico-gastronomica. Non è
una città che lavora tutti i giorni, non è
ancora stabile ci sono alti e bassi. Milano si sveglia a dicembre.
Ingredienti: 280 g di riso carnaroli, 60 g di parmigiano, 40
g di burro di capra, 1 l d’acqua, 1 l di latte, 50 g di vino
bianco, 250 g di latte, 25 g di scalogno, 2 melanzane nere,
10 g di capperi disidratati, 300 g di pomodori San Marzano,
sale, pepe, olio d’oliva q.b, 4 foglie di basilico comune piccolo,
4 foglie di basilico rosso, 4 foglie di basilico thai, 4 foglie di
basilico selvatico, dadini di melanzana fritta
Preparazione. La crema di melanzane:
realizzare incisioni nelle melanzane,
cuocere e abbrustolire in salamandra
prestando attenzione a girarle costantemente. Quando saranno morbide
dentro e abbastanza abbrustolite all’esterno, toglierle dalla salamandra e
sbucciarle. Frullare aggiustando di sale,
pepe e un filo d’olio fina a ottenere una
crema liscia e omogenea. Polvere di
pomodoro: frullare il pomodoro crudo,
quindi scolarlo per una notte nell’etamina. Frullare una seconda volta con
un filo d’olio, stendere il composto su
carta forno. Far essicare a 65° per 36
ore. Quando il composto assumerà la
consistenza di una cialda croccante,
frullarla al Bimby ottenendo la polvere
di pomodoro. Per il risotto: fare sudare lo scalogno con un cucchiaio d’olio
in casseruola, quindi tostare il riso fin
quando i chicchi non diventeranno traslucidi. Sfumare con il vino bianco, fare
evaporare e continuare la cottura per
altri 16 minuti con acqua e latte precedentemente miscelati. A fine cottura, togliere dal fuoco e mantecare con
burro di capra e parmigiano reggiano.
cena con vista
All’ultimo piano di Townhouse
Duomo, con vista sul Duomo,
ha aperto lo scorso giugno il
ristorante dello chef pugliese Lo
Basso. E dopo appena cinque mesi
ha conquistato la stella Michelin.
L’ambiente accogliente è arredato
con finiture curate in ogni dettaglio,
per rendere l’esperienza unica e
per far sentire gli ospiti a casa. Nel
suo ristorante Felix Lo Basso offre
una cucina di alto livello, sofisticata
nell’elaborazione dei piatti ma con
forti ancoraggi alla tradizione e alle
materie prime italiane
Ristorante Felix Lo Basso
Piazza Duomo 21 – Milano
www.duomo.townhousehotels.com
61
free time
free time
Da non perdere...
Una selezione dei migliori eventi che
animeranno la città nei prossimi mesi
a cura di Enrico S. Benincasa
Keith Haring - About Art
Jack Savoretti
Boom 60!
L’arte in Italia a cavallo degli anni
Cinquanta e Sessanta era protagonista sulle pagine di magazine e
rotocalchi più di quanto si pensi.
Una mostra al Museo del Novecento celebra questa relazione
esponendo copie originali dell’epoca con servizi e interviste ad artisti
come De Chirico, Picasso e Niki
de Saint Phalle.
Museo del Novecento - Milano
fino al 12 marzo
www.museodelnovecento.org
Art Garfunkel
Quattro date in Italia per il cantautore statunitense, metà di quel duo
capace di rimanere nella storia della
musica con brani come The Sound
of Silence. Accompagnato da Tab
Laven (chitarra) e Cliff Carter (tastiere), Art Garfunkel passerà anche
da Milano per un’unica occasione a
metà febbraio.
Teatro LinearCiak - Milano
il 15 febbraio
www.dalessandroegalli.com
Palazzo Reale - Milano
dal 20 febbraio al 18 giugno
www.palazzorealemilano.it
Kish Kush
La compagnia Teatrodistinto porta
al Parenti uno spettacolo di teatro
danza che indaga sul tema della
diversità e sulla meraviglia che può
comportare. Un muro di carta
sottile divide i due protagonisti sulla
scena, desiderosi però di confrontarsi in un gioco di suoni, luci e
ombre che porta poi alla creazione
di immagini nuove.
Teatro Franco Parenti - Milano
dal 31 gennaio al 5 febbraio
www.teatrofrancoparenti.it
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Sembra quasi un passaggio di testimone tra due grandi protagonisti della Pop
Art del secolo scorso: Jean Michel Basquiat ci saluta, ma arriva Keith Haring
a “sostituirlo” in un’ipotetica staffetta
che vede coinvolti due grandi poli museali della città, il Mudec e Palazzo Reale. Sarà proprio quest’ultimo a ospitare
fino alla metà di giugno la retrospettiva
dedicata a Haring, artista fondamentale
degli anni Ottanta che, tra i suoi tanti
meriti, ha anche quello di aver aperto
la via per lo “sdoganamento” dei graffiti
e della street art nel panorama dell’arte
mondiale. La mostra ripercorre tutta la
sua carriera e contiene una vastissima
selezione delle sue opere provenienti
Fabrique - Milano
il 24 febbraio
www.jacksavoretti.com
da tutto il mondo, mettendo in costante riferimento la sua produzione con
quella di altri artisti. Il suo essere iconico nel tratto e la sua visione militante
dell’arte ne hanno fatto un simbolo che
oggi, a oltre 25 anni dalla morte, continua ad avere una forza e una capacità di influenzare, entrambe doti che
contraddistinguono solo i grandi artisti.
Ma la grandezza di Keith Haring passa
anche dall’essere stato in grado di mettere in comunicazione mondi e culture
diverse tra loro, a volte poco assimilabili almeno a prima vista: è proprio questo uno degli aspetti che la mostra di
Palazzo Reale (curata da Gianni Mercurio) si propone di evidenziare.
Lo scorso ottobre è uscito il suo quinto
album in studio, Sleep No More, accolto
come i precedenti da ottime recensioni
da parte degli addetti ai lavori. Jack Savoretti continua sulla sua strada, quella della musica di qualità, cercando di
non imitare nessuno e costruendosi
pian piano un pubblico fedele e attento alla sua evoluzione. E la sua strada
non può che passare dall’Italia perché
Jack, nonostante i natali britannici, non
ha mai rinnegato il legame con il nostro
Paese e in particolare con la città da cui
proviene suo padre, Genova. Un rapporto, però, vissuto in maniera normale e che, artisticamente parlando, si è
declinato in diverse collaborazioni con
altri artisti italiani, l’ultima delle quali
è Elisa (con cui duetta nel brano Waste
Your Time on Me contenuto nell’ultimo On della cantante friulana). Sleep
No More può essere considerato il suo
album della maturità per il quale si è
avvalso della collaborazione di un team
di produttori di primo livello, già al
lavoro con fenomeni degli ultimi anni
come per esempio Adele. Lui stesso
l’ha definito come «una lettera d’amore
dedicata a mia moglie», l’attrice Jemma
Powell, dalla quale ha avuto due figli.
Jack sarà in concerto a Milano alla fine
di febbraio per una delle sue due date
italiane (la seconda non può che essere
quella di Genova).
Identità golose
Torna agli inizi di marzo la kermesse dedicata all’eccellenza gastronomica curata da Paolo Marchi. Il
tema scelto per l’edizione 2017 è
il viaggio, «per ribadire che tutto
quello che consumiamo è frutto
di viaggi». Si inizia il sabato, grande
novità per questo evento, e non
mancheranno certo i protagonisti
della nostra cucina.
MiCo - Milano
dal 6 all’8 marzo
www.identitagolose.it
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Puoi trovare Club Milano
in oltre 200 location
selezionate a Milano
Il luogo che non c’è
La sua realizzazione non fu semplice, Bramante affrontò diversi problemi, ma alla
fine le difficoltà si rivelarono un’opportunità. Situata in pieno centro, ma poco nota,
la basilica di Santa Maria presso San Satiro ha un aspetto apparentemente dimesso,
ma svela a chi ha voglia di varcarne la soglia uno straordinario segreto
di Elisa Zanetti
Probabilmente ci sarete passati davanti mille volte, l’avrete intravista senza
varcarne la soglia. Del resto accade
spesso: alcuni tesori si hanno sotto gli
occhi, eppure non si vedono. La basilica di Santa Maria presso San Satiro è
sicuramente uno di questi.
Collocata al 17/19 di via Torino, viene forse messa in ombra dalle vetrine
di una delle vie dello shopping milanese, eppure non è difficile scorgerla.
Leggermente aggettante, con il corpo
centrale della sua facciata sembra quasi chiamare i passanti. Ascoltate il suo
invito ma, fate attenzione, non fermatevi a osservare solamente l’esterno
dalla corte poligonale irregolare che
la ospita, anzi, sappiate che la facciata
neorinascimentale fu tema di dibattito all’epoca della sua realizzazione: la
chiesa del resto affondava le sue radici
nella fine del XV secolo, ma fu portata a termine solo nel XIX. In origine
il compito di realizzare la facciata fu
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affidato a Giovanni Antonio Amedeo,
ma pare che a causa di divergenze con
il Bramante – responsabile del progetto, che a sua volta aveva fatto una
proposta per l’esterno oltre ad avere
progettato la facciata posteriore – i
lavori furono solo avviati. Si dovette
aspettare il 1871 per vedere la struttura completata.
La basilica venne costruita sulla preesistente San Satiro, di cui resta traccia
nel nome, per ricordare un miracolo
avvenuto nel 1242, quando un uomo
pugnalò un’immagine della Madonna
custodita all’interno della chiesa e questa iniziò a sanguinare. I problemi legati alla facciata principale non furono gli
unici: a metà lavori l’amministrazione
della città negò al Bramante il permesso di occupare con l’abside parte della
via posteriore. L’artista si trovò quindi
a dovere fare i conti con spazi ridotti.
Ma si sa, non tutti i mali vengono per
nuocere e così quello che in origine
sembrava essere un ostacolo si rivelò il
punto di forza dell’intera costruzione.
Osservate ora gli interni della basilica,
lasciatevi abbagliare dalle volte dorate
percorrendo la navata centrale e ammirate i soffitti a cassettoni delle due
laterali. Alzate gli occhi verso la cupola
riccamente decorata da lacunari dipinti in oro e azzurro e infine godetevi
lo spettacolo di questa piccola chiesa:
l’abside in tutto il suo magnifico sviluppo. Notate niente di strano? Spostatevi lateralmente, vi sarà più facile
ricordare quanto vi abbiamo raccontato poco fa: Bramante non potendo
estendersi nella via adiacente per la
realizzazione dell’abside, con un colpo
di genio diede vita al cosiddetto finto
coro bramantesco. Ciò che vi sembra
profondo una decina di metri, in realtà
è raccolto in poco più di un metro. Un
abile gioco prospettico che, ancora una
volta, mostra che spesso non si vede ciò
che si ha davanti agli occhi.
night & restaurant: Al fresco Via Savona 50 Angolomilano Via
Boltraffio18 Antica Trattoria della Pesa V.le Pasubio 10 Bar Magenta Largo
D’Ancona Beda House Via Murat 2 Bento Bar C.so Garibaldi 104 Bhangra
Bar C.so Sempione 1 Blanco Via Morgagni 2 Blue Note Via Borsieri 37
Caffè della Pusterla Via De Amicis 24 Café Gorille Via De Castillia 20
Caffè Savona Via Montevideo 4 Cape Town Via Vigevano 3 Capo Verde
Via Leoncavallo 16 Cheese Via Celestino IV 11 Chocolat Via Boccaccio 9
Circle Via Stendhal 36 Colonial Cafè C.so Magenta 85 Combines XL Via
Montevideo 9 Cubo Lungo Via San Galdino 5 Dada Cafè / Superstudio
Più Via Tortona 27 Deseo C.so Sempione 2 Design Library Via Savona 11
Elettrauto Cadore Via Cadore ang. Pinaroli 3 El Galo Negro Via Taverna
Executive Lounge Via Di Tocqueville 3 Exploit Via Pioppette 3 Fashion
Cafè Via San Marco 1 FoodArt Via Vigevano 34 Fusco Via Solferino 48
G Lounge Via Larga 8 Giamaica Via Brera 32 God Save The Food Via
Tortona 34 Goganga Via Cadolini 39 Grand’Italia Via Palermo 5 HB Bistrot
Hangar Bicocca Via Chiese 2 Il Coriandolo Via dell’Orso 1 Innvilllà Via
Pegaso 11 Jazz Cafè C.so Sempione 4 Kamarina Via Pier Capponi 1
Kisho Via Morosini 12 Kohinoor Via Decembrio 26 Kyoto Via Bixio 29
La Fabbrica V.le Pasubio 2 La rosa nera Via Solferino 12 La Tradizionale
Via Bergognone 16 Le Biciclette Via Torti 1 Le Coquetel Via Vetere 14 Le
jardin au bord du lac Via Circonvallazione 51 (Idroscalo) Leopardi 13 Via
Leopardi 13 Les Gitanes Bistrot Via Tortona 15 Lifegate Cafè Via della
Commenda 43 Living P.zza Sempione 2 Luca e Andrea Alzaia Naviglio
Grande 34 MAG Cafè Ripa Porta Ticinese 43 Mandarin 2 Via Garofano
22 Milano Via Procaccini 37 Mono Via Lecco 6 My Sushi Via Casati 1 - V.le
Certosa 63 N’ombra de Vin Via San Marco 2 Noon Via Boccaccio 4 Noy
Via Soresina 4 O’ Fuoco Via Palermo 11 Origami Via Rosales 4 Ozium
t7 café - via Tortona 7 Palo Alto Café C.so di Porta Romana 106 Panino
Giusto P.zza Beccaria 4 - P.zza 24 Maggio Parco Via Spallanzani - C.so
Magenta 14 Patchouli Cafè C.so Lodi 51 Posteria de Amicis Via De Amicis
33 Qor Via Elba 30 Radetzky C.so Garibaldi 105 Ratanà Via De Castillia
28 Refeel Via Sabotino 20 Rigolo Via Solferino 11 Marghera Via Marghera
37 Rita Via Fumagalli 1 Roialto Via Piero della Francesca 55 Serendepity
C.so di Porta Ticinese 100 Seven C.so Colombo 11 - V.le Montenero 29
- Via Bertelli 4 Smeraldino P.zza XXV Aprile 1 Smooth Via Buonarroti 15
Superstudio Café Via Forcella 13 Stendhal Via Ancona 1 Tasca C.so Porta
Ticinese 14 That’s Wine P.zza Velasca 5 Timè Via S.Marco 5 Tortona 36
Via Tortona 36 Trattoria Toscana C.so di Porta Ticinese 58 Union Club Via
Moretto da Brescia 36 Van Gogh Cafè Via Bertani 2 Volo Via Torricelli 16
Zerodue_Restaurant C.so di Porta Ticinese 6 3Jolie Via Induno 1
stores: Ago Via San Pietro All’Orto 17 Al.ive Via Burlamacchi 11 Ana
Pires Via Solferino 46 Antonia Via Pontevetero 1 ang. Via Cusani Bagatt
P.zza San Marco 1 Banner Via Sant’Andrea 8/a Biffi C.so Genova 6 Brand
Largo Zandonai 3 Brian&Barry via Durini 28 Brooksfield C.so Venezia
1 Buscemi Dischi C.so Magenta 31 Centro Porsche Milano Nord Via
Stephenson 53 Centro Porsche Milano Est Via Rubattino 94 C.P. Company
C.so Venezia Calligaris Via Tivoli ang. Foro Buonaparte Dantone C.so
Matteotti 20 Eleven Store Via Tocqueville 11 Fgf store Piazza xxv Aprile1
Germano Zama Via Solferino 1 Gioielleria Verga Via Mazzini 1 Joost Via
Cesare Correnti 12 Jump Via Sciesa 2/a Kartell Via Turati ang. Via Porta 1
La tenda 3 Piazza San Marco 1 Le Moustache Via Amadeo 24 Le Vintage
Via Garigliano 4 Libreria Hoepli Via Hoepli 5 MCS Marlboro Classics C.so
Venezia 2 - Via Torino 21 - C.so Vercelli 25 Moroso Via Pontaccio 8/10
Native Alzaia Naviglio Grande 36 Open viale Monte Nero 6 Paul Smith
Via Manzoni 30 Pepe Jeans C.so Europa 18 Pinko Via Torino 47 Rubertelli
Via Vincenzo Monti 56 The Store Via Solferino 11 Valcucine (Bookshop)
C.so Garibaldi 99
showroom: Alberta Ferretti Via Donizetti 48 Alessandro Falconieri
Via Uberti 6 And’s Studio Via Colletta 69 AutoRigoldi Showroom Skoda Via
Pecchio10 AutoRigoldi Showroom Volkswagen Via Novara 235 Bagutta
Via Tortona 35 Casile&Casile Via Mascheroni 19 Damiano Boiocchi Via
San Primo 4 Daniela Gerini Via Sant’Andrea 8 Gap Studio C.so P.ta Romana
98 Gallo Evolution Via Andegari 15 ang. Via Manzoni Gruppo Moda Via
Ferrini 3 Guess Via Lambro 5 Guffanti Concept Via Corridoni 37 IF Italian
Fashion Via Vittadini 11 In Style Via Cola Montano 36 Interga V.le Faenza
12/13 Jean’s Paul Gaultier Via Montebello 30 Love Sex Money Via Giovan
Battista Morgagni 33 Massimo Bonini Via Montenapoleone 2 Miroglio Via
Burlamacchi 4 Missoni Via Solferino 9 Moschino Via San Gregorio 28 Parini
11 Via Parini 11 Red Fish Lab Via Malpighi 4 Sapi C.so Plebisciti 12 Spazio
+ Meet2Biz Alzaia Naviglio Grande 14 Studio Zeta Via Friuli 26 Who’s
Who Via Serbelloni 7
beauty & fitness: Accademia del Bell’Essere Via Mecenate 76/24
Adorè C.so XXII Marzo 48 Aspria Harbour Club Milano Via Cascina
Bellaria 19 Caroli Health Club Via Senato 1Centro Sportivo San Carlo Via
Zenale 6 Damasco Via Tortona 19 Get Fit Via Lambrate 20 - Via Piranesi
9 - V.le Stelvio 65 - Via Piacenza 4 - Via Ravizza 4 - Via Meda 52 - Via Vico
38 - Via Cenisio 10 Greenline Via Procaccini 36/38 Gym Plus Via Friuli 10
Intrecci Via Larga 2 Le Garcons de la rue Via Lagrange 1 Le terme in città
Via Vigevano 3 Orea Malià Via Castaldi 42 - Via Marghera 18 Romans Club
Corso Sempione 30 Spy Hair Via Palermo 1 Tennis Club Milano Alberto
Bonacossa Via Giuseppe Arimondi 15 Terme Milano P.zza Medaglie d’Oro
2, ang. Via Filippetti Tony&Guy Gall. Passerella 1 Virgin Active Milano Diaz
Piazza Diaz 6
art & entertainment: PAC (Padiglione Arte Contemporanea) Via
Palestro 14 Pack Foro Bonaparte 60 Palazzo Reale P.zza Duomo Teatro
Carcano C.so di Porta Romana 63 Teatro Derby Via Pietro Mascagni
8 Teatro Libero Via Savona 10 Teatro Litta C.so Magenta 24 Teatro
Smeraldo P.zza XXV Aprile 10 Teatro Strehler Largo Greppi 1 Triennale
V.le Alemagna 6 Triennale Bovisa Via Lambruschini 31
hotel: Admiral Via Domodossola 16 Astoria V.le Murillo 9 Boscolo C.so
Matteotti 4 Bronzino House Via Bronzino 20 Bulgari Via Fratelli Gabba 7/a
Domenichino Via Domenichino 41 Four Season Via Gesù 8 Galileo C.so
Europa 9 Nhow Via Tortona 35 Park Hyatt (Park Restaurant) Via T. Grossi
1 Residence Romana C.so P.ta Romana 64 Sheraton Diana Majestic V.le
Piave 42
inoltre: Bagni Vecchi e Bagni Nuovi di Bormio (SO) Terme di PreSaint-Didier (AO)
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Colophon
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viale Col di Lana, 12
20136 Milano
T +39 02 45491091
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Zappa
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