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Narratrici iraniane VIVERE E SCRIVERE LONTANO DA TEHERAN Un excursus critico sulle principali opere delle scrittrici persiane contemporanee tradotte in Italia. Gran parte di loro – da Azar Nafisi a Bahiyyih Nakhjavani, da Marjane Satrapi ad Anita Amirrezvani – risiedono in Europa o negli Stati Uniti. Si tratta, cioè, di una letteratura femminile dell’esilio, creata dalla rivoluzione islamica sciita, che considera le donne un male da celare sotto il velo. Nei libri di queste autrici c’è la resistenza ai mostri partoriti dal fanatismo religioso e l’orgogliosa coscienza delle radici millenarie di un paese, culla di arte e cultura, che non è mai stato arabo. ________________________________________________________________________________ di Anna Trapani “Ogni fiaba offre la possibilità di trascendere i limiti del presente e dunque, in un certo senso, ci permette certe libertà che la vita ci nega. Tutte le grandi opere di narrativa, per quanto cupa sia la realtà che descrivono, hanno in sé il nocciolo di una rivolta, l’affermazione della vita contro la sua stessa precarietà… tutte le grandi opere d’arte… celebrano l’insubordinazione contro i tradimenti, gli orrori e i tranelli della vita. La perfezione e la bellezza del linguaggio si ribellano alla mediocrità e allo squallore di ciò che descrivono. Ecco perché ci piace Madame Bovary e piangiamo per Emma, perché leggiamo avidamente Lolita e il nostro cuore si strugge per la sua piccola, volgare, poetica e sfacciata eroina”. Così scriveva l’iraniana Azar Nafisi nel 2003 nel suo bellissimo, intenso Leggere Lolita a Teheran pubblicato in Italia l’anno successivo da Adelphi. L’autrice, prima di emigrare negli Stati Uniti nel 1997, ha un arduo compito da portare avanti: insegnare letteratura, la letteratura di quell’Occidente demonizzato dalla rivoluzione islamica, ai suoi allievi dell’Università di Teheran. Nafisi è con il suo libro la più nota di una numerosa schiera di scrittrici che, dall’Occidente in cui hanno deciso di vivere per sottrarsi al regime teocratico degli ayatollah, trattano della loro patria in vario modo: o denunciando le atrocità e la mancanza di democrazia imperanti ormai nel loro paese o mostrandoci, sulle ali della nostalgia, un Iran che non esiste più in cui arte, bellezza, prosperità, misticismo si mescolano a tradizioni millenarie, senza nascondere la miseria dei ceti più poveri e dimenticati. Negli ultimi anni sono arrivati sugli scaffali delle librerie le opere di varie autrici di origine iraniana che vivono stabilmente in Europa o negli Stati Uniti e molte di queste insegnano letteratura inglese come la Nafisi o anglo-americana come Bahiyyih Nakhjavani che ha firmato quel romanzo straordinario che è La bisaccia pubblicato da noi con questo titolo nel 2001 dalla casa editrice Le Lettere e ripubblicato nel 2007 dalla Rizzoli con il titolo I viaggiatori dell’alba e La donna che leggeva troppo o insegnano scrittura creativa come Gina B. Nahai che ha scritto Sogni di pioggia. Altre, invece, arrivano alla scrittura da professioni diverse, per esempio Anita Amirrezvani che è una ballerina professionista, nonché critico di danza contemporanea. La sua opera d’esordio Il sangue dei fiori ci consegna un affresco della Persia del XVII secolo. Attualmente la più famosa è Marjane Satrapi che, con il suo romanzo a fumetti Persepolis, è stata il vero caso letterario di questi ultimi tempi. Saga familiare ma anche romanzo autobiografico e di formazione, ha uno spiccato interesse politico ed è il primo “graphic novel” della storia iraniana. Divenuto un film di animazione super premiato e molto curato nei tratti grafici le ha dato fama internazionale. Ma meno 1 noti, però altrettanto interessanti, sono Taglia e cuci e Pollo alle prugne. Se ci occupiamo di queste autorevoli firme che hanno scelto di vivere altrove è pur vero che la letteratura al femminile oggi, in Iran, non manca. Ciò che le manca è l’ampio respiro poiché resta, causa regime, “ghettizzata”, poco conosciuta. La censura limita, anzi impedisce, la libertà di parola e voci di donne restano quasi inascoltate. Poco si può dire e ancor meno giunge a noi. Però un bel quadro lo fa Anna Vanzan nel suo Figlie di Shahrazad, Scrittrici iraniane dal XIX secolo ad oggi che, edito da Bruno Mondadori, tratta di varie scrittrici iraniane che pubblicano in persiano e non sono certo sotto le luci dei riflettori come le colleghe esuli. Il libro illustra la produzione attuale delle donne che supera, in Iran, almeno a livello di narrativa, quella degli uomini e come cerchino il modo per far nascere un dibattito intellettuale sia politico che sociale. Tra i nomi prima citati un posto particolare per come sapientemente intreccia fatti storici tragicamente noti a una narrazione stilisticamente impeccabile spetta a Gina Nahai. Il suo nome inizia a circolare da noi con Al chiaro di luna sul viale, ma il suo romanzo più bello resta Sogni di pioggia edito da Mondadori lo scorso anno. Vi leggiamo: “Durante i giorni della sanguinosa rivoluzione, l’Iran è un paese barricato. Noi restiamo a casa con le porte chiuse e ascoltiamo il rumore delle processioni che ci sfilano accanto. Uomini di ogni età, vestiti da funerale, marciano in gruppo e sventolano bandiere nere in segno di lutto. Cantano preghiere in farsi e in arabo per il loro profeta morto e i suoi discepoli martiri. Per manifestare il proprio dolore e la propria devozione, flagellano se stessi e i loro figli con pesanti catene o con lame simili a machete. Si strappano i vestiti, hanno il viso e il corpo intrisi di sangue, ma continuano a marciare, colpendosi la fronte con il metallo finché non si fracassano il cranio e non cadono a terra privi di sensi”. E anche: “Ognuno di noi vive in una terra oscura di verità velate e misteri custoditi. Proprio come venivano costruite le case da noi prima che arrivassero gli europei: c’era una “sala esterna”, ordinata, bella, arredata con opulenza secondo le possibilità dei proprietari, in cui erano ammessi i visitatori. E poi c’era una “sala interna”, in cui potevano entrare solo i parenti più stretti e dove le donne di casa trascorrevano la maggior parte della loro vita, dove si potevano togliere il velo, parlare e perfino ridere. Ogni persona che conosco ha una metà nascosta”. Il fanatismo religioso che si è impossessato degli uomini iraniani colpisce in modo profondo la dodicenne voce narrante del romanzo, Yaas. È lei che ricorda i periodi felici troppo brevi e l’infinita tristezza di sua madre sposa delusa e frustrata, la sua famiglia dilaniata da calamità a volte cercate prepotentemente dal padre incapace di lasciare l’amante bella ed elegante per tornare dalla moglie amata, forse, solo per un momento, il suo disagio, anzi la sua emarginazione, dovuta alla sordità che la rende però osservatrice sensibile e acuta in un mondo che mortifica la donna, sempre, in qualsiasi condizione. E lei è due volte svantaggiata: perché sorda e perché ha i capelli color rosso fuoco che la rendono tanto diversa dalle altre ragazze e poco apprezzata dagli uomini che non considerano avvenente una donna con tale capigliatura. Comunque l’handicap le chiude le porte del matrimonio. E il passo in cui la costruzione delle antiche case persiane viene accostato alla dimensione di marginalità della sfera femminile ci mostra un mondo parallelo. Questa disposizione delle camere la ritroviamo in Il sangue dei fiori di Anita Amirrezvani, anch’esso della Mondadori. Qui lo scenario è diverso. Siamo catapultati nel XVII secolo nella favolosa città di Isfahan, ricca di palazzi magnifici e sede dello scià Abbas il Grande. Enormi ricchezze accanto a enormi miserie in una grande città nota ovunque per la sua opulenza e la fabbrica dei famosi tappeti persiani già allora oggetto del desiderio che pochi si potevano permettere almeno quelli più pregiati ottenuti con minuscoli nodi e colori opportunamente accoppiati per dare il giusto risalto al disegno conferendogli luce e “anima”. L’autrice ha lavorato a questo progetto per nove anni, come lei stessa afferma nella postfazione, riuscendo a rendere una Persia dalle mille sfaccettature ma sempre realistica, vera. Dalla miseria, dalla semplicità e onestà dei villaggi sperduti tra le montagne alle case sfarzose arredate riccamente e dove il cibo prelibato non manca mai; dalle concubine annoiate dello scià occupate a spendere soldi alle serve o alle mendicanti che affollano le strade più grandi a trafficate di Isfahan; dalle ragazze di buona famiglia 2 che cercano l’amore con mille sotterfugi anche a costo di mentire e troveranno, invece, il solito matrimonio imposto dai genitori alla giovane protagonista semplice e ingenua all’inizio della sua travagliata storia e poi donna decisa con un mestiere da uomo, tessitrice di tappeti, che la rende benestante e ricercata per la bellezza dei suoi manufatti; dalla insignificante semplicità dei villaggi fatti di quattro case allo stordimento di una provinciale nella caotica e assordante Isfahan; tutto è vero, curato nei particolari, niente è lasciato all’approssimazione. La Persia culla di cultura e arte, la Persia patria dell’arte della tessitura dei tappeti, ci parla dalle pagine del romanzo che trasudano nostalgia e rabbia per ciò che oggi sembra dimenticato in nome del fanatismo. Si ha l’impressione che Amirrezvani abbia scelto questo periodo storico (ambienta la narrazione intorno al 1620) per marcare ancor di più lo iato profondo tra il prima e il dopo. Il regno di Abbas il Grande viene ricordato, infatti, come uno dei più prosperi dell’antica Persia. Parlare di come eravamo rimane sempre il modo migliore per parlare dell’oggi. Gli iraniani non sono arabi; il fatto di professare la religione islamica non li rende, tout court, arabi. Si considerano occidentali, meglio europei e ariani. Più di due milioni di iraniani vivono all’estero e di questi tantissimi negli Stati Uniti. Ma nessuno dimentica le proprie radici e la cultura dei padri. Tutti, quelli rimasti in patria e gli emigrati, coltivano la cultura e soprattutto la letteratura e le arti. Non solo gli strati più colti della popolazione ma anche quelli con una istruzione minore conoscono e sanno a memoria interi brani delle opere letterarie e in particolar modo poetiche delle loro glorie nazionali quali Hafez e Omar Khayyam. Ritengono giustamente che il patrimonio culturale di un popolo non debba andare perduto ma che vada, invece, consegnato alle future generazioni per conservarsi vivo, presente sempre alla coscienza di ognuno. Avremmo su ciò tanto da imparare noi italiani, maestri nell’esercitare il dono dell’oblio culturale! Questo amore per la cultura e il regime imposto da Khomeini e tutto il clero prima (spalleggiati dagli onnipotenti guardiani della rivoluzione, come ben evidenziato dalla Afisi) e da Achmadinejad ora, ma ancora con l’ausilio fondamentale degli ayatollah, è un binomio che sembra impossibile esista se non si sapesse che “il sonno della ragione genera mostri”. E i mostri partoriti dal fanatismo religioso sono, purtroppo, dietro l’angolo in qualsiasi cultura. Attualmente le masse più povere delle città e dei villaggi interni decretano il successo del governo in carica nonostante i brogli elettorali. Il regime teocratico ha fatto apprezzare maggiormente i piccoli piaceri della vita, come un pic nic sull’erba, riunioni familiari o con amici, come già Azar Nafisi rendeva manifesto in Leggere Lolita a Teheran. Più di recente ciò si vede nelle opere di Satrapi. Il tratto grafico della fumettista è semplice ma efficace. Le sue storie godono di una comunicativa immediata e politicamente “pesante”. Un fumetto d’autore il suo, che con Pollo alle prugne, raggiunge il massimo, probabilmente superiore anche ai due volumi di Persepolis. Le sue storie familiari non risparmiano nessuno nemmeno i nonni e soprattutto la nonna con i suoi “vizietti” (l’oppio a scopo curativo!) e gli incontri con le amiche per passar tempo sparlando delle assenti. Storie intimiste e ironiche nel contempo ma soprattutto dietro la leggerezza dei fatti raccontati talvolta minimi c’è la consapevolezza di una felicità perduta, il rimpianto per una società serena, in bilico tra modernità e tradizione, che non tornerà più ed ha lasciato un vuoto grande e incolmabile. Pollo alle prugne, considerato il fumetto della maturità artistica e premiato al Festival Internazionale di Angouleme con il primo premio, tratta di un musicista iraniano, famoso suonatore di tar degli anni Cinquanta, che si lascia morire quando la moglie rompe il suo strumento, forse il migliore del paese. Gli ultimi giorni di quest’uomo sono struggenti e carichi di poesia. La quarantenne autrice traccia gli ultimi otto giorni ponendo al sesto giorno l’incontro con l’angelo della morte che presto lo porterà via con sé. Il dialogo tra i due è disperato ma ne vien fuori un angelo quasi dispiaciuto di dovergli prendere la vita, però è un calice che non può allontanare dal povero musicista poiché così ormai è scritto. L’amore infelice e la scomparsa, la fine ineluttabile di un periodo storico, di una società sono il paradigma della perdita di speranza e della fine delle illusioni degli iraniani progressisti che combattevano lo scià Reza Palhevi ma non avrebbero mai voluto un governo islamico 3 antioccidentale. Un popolo capace di tre rivoluzioni nel Novecento, quelle del 1905, del 1953 e 1979, è finito vittima di se stesso. Concludiamo questo breve excursus (senza pretesa di completezza) tra alcune delle scrittrici iraniane contemporanee più prestigiose con quella che avvince per la prosa alta e mistica come le sue storie: Bahiyyih Nakhjavani autrice, tra l’altro, di I viaggiatori dell’alba e La donna che leggeva troppo, entrambi editi da Rizzoli. Come già detto, il primo dei due è meglio conosciuto con il titolo La bisaccia, indubbiamente più pregnante poiché tutta la storia, anzi le storie, ruotano attorno ad una misteriosa bisaccia. Tante persone ne vengono in possesso a vario titolo; tutte persone le cui vite, in un modo o nell’altro, muteranno. Ma cosa contiene realmente la bisaccia? Perché il suo contenuto influenza tanto le vite di questi individui? Forse contiene ciò che ognuno di essi cerca. Lungo la via che porta dalla Mecca a Medina i pellegrini cioè un ladro, una giovane sposa, una serva abissina, un derviscio, un cadavere già in putrefazione, vanno verso il proprio destino colmi di paure, fatti da nascondere o raccontare, sogni, rimpianti, desideri fino a quando la bisaccia…. Racconto molto orientale per ambientazione e atmosfera mistica ricca di suggestioni, questo romanzo semplicemente incanta. Così come incanta La donna che leggeva troppo. Soprattutto la sua protagonista. Il romanzo, tra verità e leggenda, è un inno alla donna, alla intelligenza e indipendenza delle donne, al loro coraggio attraverso la figura di Tahirih Qurratu’l-Ayn, poetessa vissuta nella Persia del 1800 che osava vivere come un uomo, discutendo di religione e politica, predicando e facendo proseliti, scrivendo versi e proclamando la dignità delle donne. Era bellissima e, nonostante l’accusa di omicidio che pendeva sul suo capo, riusciva a sfuggire alla polizia anche grazie al suo fascino. Davanti a una donna così non si poteva restare indifferenti: o se ne aveva paura o si rimaneva soggiogati come accadde allo scià. Quando morì la sua fama aumentò vertiginosamente perché cominciò a circolare la notizia del suo gesto più significativo: nel momento della cattura ebbe il coraggio di levarsi il velo rivelando il suo viso in pubblico. “Una donna con il velo era come un libro con la copertina chiusa”. Ma l’imam Alì, per gli sciiti la più grande autorità religiosa dopo il Profeta, così diceva: “Le donne sono carenti nella fede e nell’intelligenza. State attenti ai mali che derivano dalle donne, state in guardia anche rispetto a quelle donne che sembrano buone. Non obbedite loro nemmeno nelle cose che sembrano sagge, giacché esse possono attrarvi al male… Non consultate le donne perché la loro visione è debole e la loro determinazione instabile… Coprite i loro occhi tenendole sotto il velo, perché il rigore del velo le tiene buone… Nel complesso la donna è male, e, quel che è peggio, noi non possiamo fare a meno di lei”. Parole che si commentano da sole e che, purtroppo, nella sostanza, non sono relegate soltanto al mondo islamico. 4