“Ognuno fa sentire la sua voce”: rileggere Rocco Scotellaro e il Sud

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“Ognuno fa sentire la sua voce”: rileggere Rocco
Scotellaro e il Sud subalterno nella condizione
postcoloniale
Roberto Derobertis
Ricercatore indipendente (Bari)
ABSTRACT
“Ognuno fa sentire la sua voce”: rereading Rocco Scotellaro and the subaltern South
in the postcolonial condition
Rocco Scotellaro (1923-1953), writer and social researcher, was a committed intellectual who struggled with the peasants of his birthplace by taking part in land occupations in 1950s southern Italy.
Within the frame of conflicting relationships of subalternity and dominance between the North and the
South of Italy, Scotellaro’s texts are reread as representations of southern Italian farmlands as places
of exploitation and racial discrimination. A selection of his poetry and prose is analyzed in the context
of our postcolonial condition in order to understand, in the background, contemporary events such as
the new central role of farmlands and migrant peasants’ struggles. They are postcolonial subjectivities
that unsettle the relationship between the local and the global in the same South that was crossed by
Scotellaro and ‘his’ subalterns, who were not themselves homogeneous subjectivities with regard to
the official identity of the nation-State, nor to the stereotypical Italian southerners. Moreover, the
archive of our ‘Mezzogiorno’ (Southern Italy) is partially reopened by reconsidering its past of supposed opposition and passivity to modernization by taking into account processes of resistance and
conquest of autonomy by subaltern classes. Finally, considering Scotellaro’s political and literary experience as part of the history of the entanglement between colonialism, neocolonialism and late capitalism, the locations of the Mezzogiorno are focused within the texture of the Global South by asking
which tensions among exploitation, race, migration, and labour restructuring have been crossing our
South.
Contadini del Sud: da Carlo Levi a Rocco Scotellaro e oltre
Queste ‘note postcoloniali’ sul poeta, politico e ricercatore sociale lucano Rocco Scotellaro
sono un tentativo di problematizzare la presunta contraddizione tra modernità e tradizione
nel contesto meridionale e ‘derivano’ da una precedente ricerca su Carlo Levi (Derobertis
2014) e il suo Cristo si è fermato a Eboli (1945). Dunque, vorrei partire proprio dal modo in
cui Levi raccontava il rapporto tra i contadini lucani – soggetto-oggetto del suo raccontare – e
lo Stato e, in generale, le istituzioni nazionali:
Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo Stato? Lo Stato, qualunque
sia, sono “quelli di Roma,” e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi non si viva da cristiani. C’è la
grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili. (Levi 1990, 67)
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Mentre Scotellaro così scriveva in “Il primo addio a Napoli” (1947):
Io sono meno di niente
in questa folla di stracci
presa nel gorgo dei propri affanni.
Sono un uomo di passaggio, si vede
dal cuscino che mi porta
le cose della montagna.
[...]
Non voglio più sentire di questa città,
confine dove piansero i miei padri
i loro lunghi viaggi all’oltremare. (Scotellaro 2004, 14)
Emerge qui un rapporto di distanza e di malinconico spaesamento rispetto ai centri di
potere nazionali e, allo stesso tempo un senso di appartenenza più ampio, radicato nella migrazione. Scotellaro è il figlio reale e metaforico di contadini delusi dalla Nazione, ma vi è in
lui una profonda differenza generazionale: Scotellaro studia, vive sia a Napoli sia a Roma in
una condizione che lui chiama di “esilio” (Scotellaro 2004, 112) e conosce quello che egli
stesso definisce il “risveglio contadino” (Scotellaro 2012, 123). Con la fine della seconda
guerra mondiale, la nascita della Repubblica, la partecipazione delle masse contadine a forme seppure irregolari di rivolta nelle campagne, la Riforma agraria e il ritorno all’ordine, la
sua generazione conosce la possibilità di grandi cambiamenti anche sul piano globale: la decolonizzazione – che come sappiamo vede la partecipazione a processi parziali e temporanei ma a tratti radicali di sovversione del paradigma coloniale –, la nascita della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), prima entità sovranazionale europea, l’avanzata
Murale ispirato ai versi di “È fatto giorno” a Tricarico (MT),
città natale di Rocco Scotellaro (foto di R. Derobertis, 2013).
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del Socialismo ma anche le tante promesse lasciate intravedere da una ristrutturazione in
chiave socialdemocratica del capitalismo in Occidente. È forse utile sottolineare che Scotellaro è un contemporaneo di Frantz Fanon, così come i tre testi pubblicati subito dopo la sua
morte – le poesie di È fatto giorno (1954), l’inchiesta Contadini del Sud (1954) e
l’autobiografia L’uva puttanella (1955) entrambe incompiute – sono coevi del Discours sur le
colonialisme (1955) di Aimé Césaire.
“Siamo entrati in giuoco anche noi”
Carlo Levi ha davanti a sé proprio questo scenario quando, vent’anni dopo il Cristo, nella
prefazione all’edizione congiunta di L’uva puttanella. Contadini del Sud (1964), scrive che
con l’azione e con la parola, mezzi e forme di libertà, Rocco Scotellaro esprime e muove in modo
nuovo i nuovi problemi del Mezzogiorno. Ma questi problemi non sono soltanto quelli del Mezzogiorno
contadino italiano […]. Sono, nel loro fondo, i problemi di centinaia di milioni di uomini di ogni paese,
che, con colori e tradizioni e vicende diverse, si pongono dappertutto di fronte allo stesso salto di tempi e di civiltà. (Levi 1964, XIV)
I contadini di Scotellaro fanno una vera e propria irruzione in questa storia che è una storia in
movimento:
Oh! qui nessuno è morto!
Nessuno di noi ha cambiato toletta
e i contadini portano le ghette
di tela quelle stesse di una volta.
Oh! qui non si può morire!
Venite chi deve venire:
suoneremo la nostra zampogna (Scotellaro 2004, 14)
E ancora con i celebri versi
terra senza consolazione finalmente stai zitta.
Ora che si rompono i tempi avrai dato ciò che puoi.
Noi ti teniamo a mente perché Settembre ricomincia,
possiamo sempre sperare i frutti di una nuova stagione.
È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi
con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.
Questo “noi” dirompente e plurale non identifica più i ‘cafoni’, sulla cui irriducibile differenza
razziale, antropologica e sociologica il Nord del Paese e le sue istituzioni scientifico-culturali
avevano costruito l’Unità nazionale, né quei ‘terroni’ che con il loro lavoro daranno un contributo decisivo al cosiddetto Miracolo italiano, emigrando a milioni da sud a nord negli anni
Cinquanta. Eppure in essi, come tematizza la poesia di Scotellaro, resta quella traccia che
restituisce una genealogia dolorosa fatta anche di brigantaggio ed emigrazioni:
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Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra...
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova. (Scotellaro 2004, 67)
In un celebre discorso tenuto nel 1955 a Matera, in occasione di un convegno che il PSI
dedicò al suo militante Scotellaro, Fortini sintetizzò così i motivi della sua poesia: “rapporti
infanzia-maturità, figlio-genitori, partenza-ritorno, sottomissione-rivolta, paese-nazione, piccolo mondo contadino-grande mondo-moderno” (Fortini 1974, 55). A ben vedere non si tratta
di antinomie, quanto di elementi che convivono e si reggono reciprocamente: il mondo contadino di Rocco Scotellaro è moderno, è la parte subalterna, sofferente e in certi frangenti
rivoltosa della modernità. Ecco allora la comparsa del caporalato e del lavoro semischiavistico in “Noi che facciamo?”:
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pecore. (Scotellaro 2004, 48)
E ancora in “Primo sciopero”:
A passi volenterosi
siamo giunti io e te
come truppa di riserva,
compagno della Camera di Bernalda,
e possiamo solo emettere un grido.
Sperduti siamo in questo mezzogiorno
nella lunga mulattiera
cordonata da agavi sempreverdi.
E ancora dietro le agavi i padroni
puntano i fucili sulle bocche
dei foresi silenziosi come bestie. (Scotellaro 2004, 55)
La fatica del lavoro che non ripaga in “La mandria turbinava l’acqua morta”:
Che si dimena tra le foglie di granturco
e la malaria lo dissangua e beve:
gli dà il colore della terra maggesata
il nodoso salariato nel suo letto.
[...]
Con la faccia alla sconfitta
la catasta di legna cruda accanto,
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le galline raschiano la terra
e pendola la coda
dell’asina al letame (Scotellaro 2004, 51)
E quindi la rivolta nei versi di “Pozzanghera nera il diciotto aprile”:
Oggi ancora e duemila anni
porteremo gli stessi panni.
Noi siamo rimasti la turba
la turba dei pezzenti,
quelli che strappano ai padroni
le maschere coi denti. (Scotellaro 2004, 54)
Nonostante i continui rimandi testuali a un passato ancestrale, l’appartenenza alla modernità
di questi contadini è integrale. E come sappiamo la modernità è coloniale e, ben prima del
fenomeno che chiamiamo ‘globalizzazione’, essa ha contribuito – anche suo malgrado – come una violentissima onda d’urto proveniente dall’Europa, a connettere motivi, sentimenti e
arti condivise dalle resistenze della parte subalterna del mondo. Eco delle piantagioni frutto
dell’Atlantico nero, giungono fin dentro i reconditi di ciò che Franco Arminio ha chiamato il
“Mediterraneo interiore” (Arminio 2013, 1-40) in “Di gioventù cresciuta a suon di jazz”:
Ci ronza un motore
stamane nella nostra scorribanda.
E a noi tormento il bacio metallico
della corriera con le acacie,
queste cicale che riprendono
ai confini del campo di lino,
azzurro mare in quest’arsa terra,
e la presa diretta del Fiat,
è musica nel piano tra gli ulivi.
Gioventù cresciuta a suon di jazz!
Amammo io e te, ragazza, la vita
come due docili passeri in gabbia
dietro le tende dei nostri balconi.
Subito il jazz come anima ci attenne,
e adesso, a nostro amaro consenso,
quelle note hanno dato una trama
alla nostra segreta vicenda. (Scotellaro 2004, 88)
Per Fortini la poesia di Scotellaro è dunque “la celebrazione di alcuni dei momenti più alti
della vita collettiva di una classe che prende coscienza di sé (la rivolta come primo momento
di quel prendere coscienza, l’astuta volontà di trasformarla in vendetta durevole, la fraternità
nella vittoria e nella sconfitta)” (Fortini 1974, 53).
In “Contadini del Sud,” questa vita collettiva assume talvolta la forma di una resistenza
– per quanto a tratti ‘passiva’ – al farsi e disfarsi dello sviluppo capitalistico. Infatti, se nella
fase storica successiva all’Unità nazionale, il ‘colonialismo interno’ guidato da ceti politici e
classi dirigenti del Nord aveva operato forme estrattive attraverso lo sfruttamento delle risorDerobertis
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se naturali anche grazie all’occupazione del territorio con la famigerata Guerra al brigantaggio, proseguito sotto il fascismo con la ‘sbracciantizzazione’ delle campagne lucane e con i
primi sondaggi per l’estrazione di idrocarburi, nel Secondo dopoguerra esso era proseguito
con il definitivo svuotamento delle campagne, l’inurbamento forzato delle masse contadine e
la spinta all’emigrazione verso le fabbriche del Nord, le trivellazioni petrolifere, l’intervento
pubblico attraverso la Cassa del Mezzogiorno, tutto finalizzato all’accumulazione di risorse
finanziarie, espansione del mercato e alla formazione di un ceto medio piccolo-borghese che
gestisse per conto terzi questa grande e dolorosa trasformazione (Redazione di “Basilicata,”
VII-XI).
Da questo punto di vista, l’inchiesta di Contadini del Sud rappresenta un vero e proprio
‘esodo’ sia dalla teoria del Sud arretrato sia, all’opposto, del Sud che non poteva precludersi
l’ingresso nella modernizzazione. Il testo di Scotellaro offre l’occasione di mettere all’opera,
‘tradotte’ – non senza considerare differenze e discontinuità – dal contesto dell’India coloniale a quello del Mezzogiorno italiano, alcune categorie storiografiche interpretative sviluppate
da Ranajit Guha nelle celebri 16 tesi del suo A proposito di alcuni aspetti della storiografia
dell’India coloniale. La prima è la “politica del popolo,” ovvero uno spazio autonomo “nel quale gli attori principali non erano i gruppi dominanti della società indigena o le autorità coloniali, ma le classi e i gruppi subalterni che costituivano la grande massa della popolazione lavoratrice” (Guha 2002, 35). Quindi, la “mobilitazione,” che “nello spazio della politica subalterna era costruita in modo orizzontale” e “faceva affidamento [...] sull’organizzazione tradizionale della parentela, della territorialità o su forme di organizzazione di classe, a seconda
del livello di consapevolezza delle persone coinvolte” (Guha 2002, 36). Infine, l’“eterogeneità
della composizione sociale” (Guha 2002, 36) di quella mobilitazione, superata da forme di
resistenza condivise da parte delle classi subalterne rispetto alle élite.
Si potrebbe, a questo punto, azzardare un’analogia tra la situazione dei contesti coloniali extraeuropei con quello meridionale italiano: dominio del Nord con la collaborazione delle élite locali e ruolo subalterno delle classi lavoratrici talvolta convogliato in forme non
preordinate di ‘rivolta’. Letta in questa prospettiva, quella di Scotellaro è una sorta di ‘contronarrazione’ rispetto al “romanzo antropologico dell’inferiorità meridionale” (Teti 2001, 49-107)
e alla “violenza epistemica” (Spivak 2004) del ‘colonialismo interno’ italiano. Non a caso
l’incipit della narrazione di Contadini del Sud ha lo scopo di disegnare una complessa geografia di confine e di confini morfologici, politici e di classe (Scotellaro 2012, 123-24):
Quella parte della Basilicata che viene generalmente chiamata l’Alto Materano, dove le ultime propaggini delle montagne sono state raschiate dai boschi e si affacciano nude e gialle sulla nuda e gialla
piana collinare di Matera, sulla Fossa Premurgiana e sulla Piana di Metaponto, comprende alcuni
paesi che rappresentarono, nell’immediato dopoguerra, la zona grigia del risveglio contadino […].
Così la segnarono, e giustamente, in grigio, i segretari delle Federazioni dei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale. Ai limiti di questa zona, infatti, Irsina era “rossa” e dava nel 1946 i quattro quinti
dei voi al Partito Comunista; Montescaglioso, Ferrandina, San Mauro Forte avevano elle agguerrite
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organizzazioni contadine, e Tricarico paese del Vescovo e di preti e di monache, era il centro attivo
della Democrazia Cristiana. […]
In questi paesi allignò dapprima una sorta di qualunquismo povero, fatto di impulsi e di reazione
non organizzati; i contadini continuarono a zappare la terra, i proprietari di terra, i maestri delle scuole
elementari e gli ex dirigenti fascisti, criticando la nuova libertà, cautamente aspettavano di prendere
posizione.
In queste aree, i contadini di Scotellaro sono personaggi di confine anche dal punto di vista
di classe: sono braccianti ma anche artigiani, sono pastori ma anche piccoli commercianti
improvvisati, sono sarte e scrivane con lavori stagionali nelle campagne, si tratta insomma di
lavoratori ‘autonomi’. Non è una classe né intrinsecamente rivoluzionaria né fatalmente votata alla sconfitta ma che vive, come disse Fortini, “il timore di essere derelitti, ai margini della
storia” (Fortini 1974, 7).
La presa di parola dei subalterni meridionali
In una sorta di traduzione nel tempo e nello spazio della seminale riflessione di Antonio
Gramsci, il riferimento a Guha e la figura dei “margini della storia” ci rimandano direttamente
al Quaderno 25 del 1934, significativamente intitolato Ai margini della Storia (Storia dei gruppi sociali subalterni) (Gramsci 2001, 2277-94). Qui Gramsci si soffermava sull’occasionalità
della rivolta nelle campagne e sulla capacità limitatamente autorganizzativa dei subalterni e
di come la loro storia “disgregata ed episodica” nell’eterno conflitto tra dominanti e subalterni
rappresenti la vera sfida per chi decida di fare la storia di quelle classi o gruppi e – mutatis
mutandis – anche per chi si appresti a organizzarli politicamente nel presente.
Ed è Stuart Hall a suggerirci la connessione tra Scotellaro e Gramsci. Hall, infatti,
definisce “la questione di Gramsci” come quel “momento proletario” in cui la rivoluzione è
stata possibile ma non è stata (Hall 2008, 67-68). Quella possibilità si annida proprio nei
margini, nelle soggettività ritenute minute dalla Storia grande:
Spesso i gruppi subalterni sono originariamente di altra razza (altra cultura e altra religione) di quelli
dominanti e spesso sono un miscuglio di razze diverse, come nel caso degli schiavi. (Gramsci 2001,
2286)
Nei “Criteri metodologici” per affrontare la storia di tali gruppi Gramsci scriveva:
I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria “permanente” spezza, e non irrimediabilmente, la subordinazione. […] Ogni
traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere. (Gramsci 2001, 2283-84)
A questo punto è il caso di chiedersi, con Spivak (2004, 281), se i contadini e i subalterni di
Scotellaro hanno potuto parlare. E se non hanno parlato nel senso pieno e strutturato di un
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eloquio libero e affermativo, si tratta di capire come ci è giunta la traccia della loro voce, di
che materiale è fatta la testualità della loro narrazione. Non è secondario ricordare che il celebre ragionamento di Spivak nasceva da una critica feroce al ruolo intellettuale di Deleuze e
Foucault e da un’interlocuzione critica con gli studiosi del Subaltern Studies Group indiano: i
filosofi francesi accusati di essere fatalmente distanti dall’oggetto delle loro elaborazioni filosofico-politiche, gli studiosi indiani accusati di essenzializzare la figura del contadino subalterno dell’Asia meridionale. “Tutti e tre – scrive Spivak – concordano sull’assunto che ci sia
una forma pura di coscienza” (Spivak 2004, 285). Scotellaro, però, non era uno studioso accademico, proveniva dalla periferia d’Europa e non da una colonia europea nell’Asia meridionale, non era neanche un subalterno nel senso pieno del termine, essendo entrato nel
circuito virtuoso dell’emancipazione attraverso lo studio e l’emigrazione a corto raggio. In un
mondo subalterno era nato, cresciuto, e di esso aveva provato a riportare le molte voci.
A questo proposito, giova sottolineare il ruolo dell’oralità nella scrittura di Scotellaro: la
citazione continua di discorsi altrui, la sintassi non lineare, il lessico quotidiano e talvolta dialettale, la giustapposizione di discorso diretto, indiretto e indiretto libero, la sintassi della lingua parlata, l’uso di espressioni popolari (De Blasi 2014). Nei suoi testi vi è l’urgenza di far
esprimere nella lingua scritta coloro che non ne avevano la possibilità. Un tentativo di resa
unitaria di un soggetto “irreparabilmente eterogeneo,” per dirla ancora con Spivak (2004,
282). Si pensi alla prima figura raccontata da Contadini del Sud: Michele Mulieri, bracciante
e anche piccolissimo proprietario, falegname, militare arruolato volontario per andare in colonia, emigrante, manovale poi disabile in seguito a un incidente, uomo dalle idee politiche
piuttosto confuse che combatte la sua personale e inutilmente individualistica battaglia contro la burocrazia statale nel tentativo di farsi riconoscere l’invalidità e che si definisce fieramente un “Figlio del tricolore.” In questa tragica, confusa e rivendicata appartenenza sta forse la natura instabile e tensiva dell’affiliazione nazionale di un’intera, frastagliata classe sociale meridionale, splendidamente riassunta nei versi di “La mia bella patria”:
Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia patria è dove l’erba trema. (Scotellaro 2004, 114)
Scotellaro ai margini del presente: dal ‘land grabbing’ alla ‘rosarnizzazione’
del lavoro
A ben vedere, la rilettura di Scotellaro nel presente della condizione postcoloniale solleva
molte delle questioni nelle quali siamo immersi, mostrandoci quanto ancora la campagna, i
braccianti e la riproduzione attraverso il lavoro della terra costituiscano ancora i ‘margini’ del
discorso neo-colonialista. Si pensi per esempio al fenomeno del land grabbing: paesi che
acquistano in Africa centinaia di ettari di terra coltivabili con contratti capestro dal costo irrisorio, accaparrandosi il diritto di sfruttamento di terre coltivabili secondo la più tradizionale
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logica coloniale. Oppure alla Basilicata di oggi: luogo simbolo dell’estrazione intensiva di valore dal sottosuolo, come nel caso delle trivellazioni petrolifere nella Val D’Agri, che stanno
dando vita a una nuova onda di movimenti politici dal basso.
Ancora una volta ai confini di questa regione di confine, nella Piana del Sele, a San Nicola Varco vicino Eboli (SA) – la stessa Eboli dell’hic sunt leones di Levi ma anche la città
del bufalaro diciassettenne Cosimo Montefusco la cui vicenda chiude Contadini del Sud – a
migliaia si ammassano i lavoratori stagionali dei campi e della trasformazione agroalimentare. Si tratta di lavoratori migranti ipersfruttati con quel meccanismo di caporalato che dalla
poesia di Scotellaro giunge fino a noi quasi immutato, se non fosse mutato drasticamente il
contesto: siamo di fronte a un esercito di riserva di lavoratori che alimentano le politiche di
dumping dell’UE in materia agroalimentare, alimentato dalla pratica dell’outsourcing, cioè
della riduzione dei diritti e dei salari nel livello più basso del lavoro. Come ha scritto Antonello
Mangano, oggi è tutto il lavoro in Italia a ritrovarsi ‘rosarnizzato’. Eppure, come negli anni
Cinquanta dei contadini di Scotellaro, anche oggi il tratto ineludibile di questa messa a profitto del lavoro e della vita ha conosciuto subito le sue resistenze: basti pensare alle rivolte
contadine e, in generale, del lavoro migrante: da Castel Volturno a Rosarno, dalla Capitanata
al Salento, dalla Sicilia a San Nicola Varco fin su nel vasto polo logistico che si estende da
Piacenza a Milano. Come il contadino di Scotellaro anche quello migrante di oggi vive affiliazioni multiple e, continuamente mobilitato, coltiva desideri di autonomia. E il Sud, da feroce
laboratorio politico del colonialismo interno e della ristrutturazione capitalistica nazionale, si
ritrova a essere il luogo di una micro ri-articolazione della più generale condizione postcoloniale. Come ha scritto Spivak, l’“attuale divisione internazionale del lavoro è una dislocazione
del campo frammentato dell’imperialismo territoriale del diciannovesimo secolo” (Spivak
2004, 286): dentro quel campo occorre sondare linee di faglia e contraddizioni.
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Roberto Derobertis teaches English in secondary schools. He earned his PhD in Italian
Studies (2007) with a dissertation on ‘migrant writings’ in Italian Literature at the University of
Bari, where he was also temporary research fellow between 2008 and 2010. As an
independent scholar, he focuses his attention on migrations, postcolonialism, the Italian
South and literary writings. He edited Fuori centro. Percorsi postcoloniali nella letteratura italiana (Rome 2010) and co-edited (with Bruno Brunetti) L’invenzione del Sud. Migrazioni,
condizioni postcoloniali, linguaggi letterari (Bari 2009) and Identità, migrazioni e postcolonialismo in Italia. A partire da Edward Said (Bari 2014) He is a research team member of the
postcolonialitalia research project (www.postcolonialitalia.it).
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