2a PARTE

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2a PARTE
Coltivazioni al confine della foresta pluviale nella tenuta di Mogno
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Uno scempio annunciato
«Visto con gli occhi degli anni Duemila – ammette –
quello fu uno scempio, ma le politiche agrarie dei governi
sudamericani e di quello brasiliano in particolare non prevedevano alternative: bisognava strappare alla foresta
vergine quanti più ettari si potesse per consegnarli allo
sfruttamento agricolo e alla zootecnia». In Italia i prezzi
della terra erano saliti alle stelle e la bolla avrebbe tenuto
fino agli anni Ottanta: l’imperativo, dunque, era produrre
commodities. Tante e subito.
I Ferruzzi avevano già tre grandi allevamenti in Brasile,
ciascuno intorno ai duemila ettari, ma Mogno si candidava
ad essere ben altra cosa. Mille ettari di cacao, altrettanti di
caffè, cinquecento in guaranà e infine pascolo a perdita
d’occhio: 30.000 zebù di razza Nelore. Naturalmente,
un’azienda agricola simile, che dava lavoro a 500 operai
locali, avrebbe chiuso in pochi mesi senza una adeguata
dotazione infrastrutturale, e invece andò esattamente
come aveva scommesso Serafino Ferruzzi, ossia il governo brasiliano costruì in breve tempo una strada lunga
duemila chilometri, tra il Mato Grosso e San Paolo, e molto
presto fu collegata anche Belem, che si trova sul Rio delle
Amazzoni. Mogno era finalmente dentro il mercato.
«Furono comunque sei mesi molto lunghi», sospira
Livio Ferruzzi. Non solo per la lontananza dalla famiglia e
la convivenza con le maestranze, reclutate dai quattro angoli del Brasile e spedite in mezzo alla foresta, tra gli
indios. «Disboscavamo a mano i terreni destinati a pascolo: prima passavano gli uomini col machete, poi gli
zebù. Invece, dove sarebbero nate le piantagioni di caffè,
si lavorava con le macchine, tagliavamo gli alberi di mo54
gano con catene da nave agganciate ai trattori. Nella
mente, di tanto in tanto, ascolto ancora il rumore della
foresta che crolla».
Al posto di quella distesa di alberi maestosi crebbero
800.000 piante di cacao, una immensa piantagione dalle
rese superiori a quelle realizzate nelle grandi aree di produzione mondiali. Livio Ferruzzi ricevette anche delle offerte a trasferirsi in altre aziende, in Africa, che declinò.
Non fu meno fortunata l’esperienza del caffè. Due specie
coltivate, Robusta e Arabica, un milione e mezzo di
piante. Durò fino al 1991 e non rappresentò una passeggiata, perché l’azienda non aveva dei confini segnati; per
la verità, non esistevano neanche punti trigonometrici cui
appoggiarsi. «Decidemmo di fare così – racconta –: aprivamo con il machete una radura di venti metri di diametro, più o meno a caso, dove si posizionava uno strumento
che si collegava con i satelliti. Si badi bene: nei primissimi
anni Ottanta le tecnologie non erano quelle di oggi. Le registrazioni venivano mandate a New York per la decodifica e dopo qualche settimana avevamo il nostro “punto”.
Incendi dopo il disboscamento in Brasile
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Quindi partivamo per aprire un’altra radura e così via, per
mesi, a colpi di machete, muovendoci a cavallo e in
canoa». Marce che duravano per l’intera giornata in una
natura rigogliosa ma infingarda: «Un giorno persi una
squadra e mi toccò andarla a cercare: li trovai dopo una
“passeggiata” di sessanta chilometri sotto gli alberi, disidratati e febbricitanti. Li abbiamo riportati indietro e
quando siamo arrivati al campo base sono finito in ospedale insieme a loro».
Ben più “industriale” fu l’opera di disboscamento vera
e propria, che iniziò circa un anno dopo. Lo schema
era tuttavia diverso da quello seguito nel North Carolina
perché era differente la natura con cui confrontarsi.
Due D9 Caterpillar avanzavano tirando una catena da tre
pollici lunga cinquanta metri in mezzo agli alberi, che subito dopo non esistevano più: quindi, alcuni mesi di
quiete, in attesa dell’ultimo atto: «Non si vendeva quel
legno perché – racconta – in quella fase e in quelle condizioni non aveva mercato. Bisognava bruciare tutto ma potevamo farlo solo in agosto, quando il clima in quella zona
è secco. Abbiamo ripetuto queste operazioni su 3.000
ettari di foresta amazzonica». Mogno si estendeva su
500.000 ettari. Dal 1977 al 1991 ne furono coltivati
304.400, tra cui mille a caffè, seicento a cacao, 30.000
a pascolo.
Piantagioni a Mogno, in Brasile
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Pionieri dell’agricoltura
Ovviamente, per quanto gli italiani fossero preparati,
fu un lavoraccio, come e più di quel che era stato condotto
a termine a Open Grounds. Non si contavano gli incidenti
e nessuno lesinava l’impegno. «Un’azienda agricola in Europa ha un calendario, delle mansioni, tempi e ruoli precisi. Laggiù, quando si dovevano spostare le piante di
cacao dal vivaio al campo, saltavo sulla canoa e partecipavo anch’io al trapianto» racconta Livio Ferruzzi, che nel
Mato Grosso ha fatto di necessità virtù, rispolverando la
vecchia passione degli anni cagliaritani: «Quel che non
mancava erano i fiumi per vogare, anche se dovevi fare
attenzione persino ai pesci. Un operaio fece un brutto incontro con un’anguilla elettrica e ci lasciò la pelle. Purtroppo, l’agricoltura pionieristica sconta sovente un
deficit di preparazione della manodopera: in Brasile avevamo molti operai perché c’erano degli interessanti incentivi fiscali e perché i giovani facevano la fila per venire a
lavorare nella foresta amazzonica, in quanto quell’impegno sostituiva il servizio di leva ed era ben retribuito.
Questo non significa che arrivassero preparati».
Pionieristica o meno, quell’agricoltura era supportata
da investimenti colossali nella meccanizzazione e da consulenze scientifiche di prim’ordine: «Abbiamo sempre lavorato sulla base di analisi del suolo esaustive – precisa il
manager – e facendoci aiutare dagli esperti universitari
delle diverse discipline. Mogno aveva problematiche peculiari, come la carenza di boro, oppure come la presenza
di erbe velenose per il bestiame. Quando, nel 1991, la consegnai a Gardini che, nella divisione dei possedimenti di
famiglia si era tenuto il Brasile, era veramente un’azienda
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gioiello, dai grandi utili». La fortuna di questo progetto,
come del resto quella delle altre aziende affidate a Livio
Ferruzzi (che generalmente figurava come consulente della
proprietà ma di fatto agiva da general manager dell’azienda
in cui operava in quel momento), dipese anche dallo
schema seguito dal Gruppo italiano, che lavorava in termini
di progetti integrati, con i mercati locali ma anche tra di
loro: non a caso, nei discorsi di Livio Ferruzzi ricorre sempre la convinzione che Open Grounds fu un laboratorio per
le scelte assunte nelle altre aziende. Della galassia Ferruzzi
facevano parte, negli anni trascorsi da Livio Ferruzzi a
Mogno, le grandi tenute americane (tra cui Azucarlito in
Uruguay) ma anche possedimenti importanti in Europa (per
la precisione, in Italia, Francia, Gran Bretagna), tant’è che si
può legittimamente asserire che sull’impero agricolo della
famiglia ravennate non tramontasse mai il sole.
Il trapianto del caffè in Brasile
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Naturalmente, lavorare su questa scala facilitava molto,
ma questo non significa che un vero e proprio standard
venisse automaticamente calato su ogni realtà: «L’integrazione con la realtà locale – ammette il manager italiano –
è un valore per ogni impresa agricola, sia perché questa
realtà costituisce talvolta un mercato, sia perché fornisce
sempre, o quasi sempre, la manodopera aziendale. Ciò implica una valutazione del grado di sviluppo socioeconomico raggiunto dalla regione in cui si interviene». Così,
nelle realtà più arretrate che presentano abbondanza di
manodopera non specializzata, i sistemi produttivi venivano pianificati e organizzati secondo la logica del “labor
intensive”, mentre in quelle più avanzate si applicava
quella del “capital intensive”, con un maggiore ricorso alle
nuove tecnologie.
Livio Ferruzzi in canoa in Brasile
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Nelle piantagioni sudamericane
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La serra della soia
Un anno dopo aver seguito Serafino Ferruzzi in Brasile,
quindi nel 1978, Livio fu chiamato dal “principale” in
Paraguay. Il gruppo italiano controllava un’azienda zootecnica dalle performance non esaltanti, la Paragro,
300.000 ettari ubicati nel Chaco, e aveva acquisito insieme ad altri investitori italiani la Agropeco, una delle
più importanti del Paese per estensione, che allora si sviluppava su 60.000 ettari di foresta pluviale e pascoli,
15.000 dei quali da rendere coltivabili.
Il tecnico italiano si trovava in una delle regioni – ecologicamente parlando – più preziose del pianeta, Ciudad
del Este, nell’Alto Paranà (Paraguay orientale), ma la bellezza del paesaggio compensava solo in parte la fatica di
una conquista che fu lunga e costosa. «Era un dedalo di alberi e sentieri appena accennati», ricorda. Trent’anni fa si
impiegavano 24 ore per attraversare l’azienda, traghetto
compreso, visto che le prime strade furono costruite solo
quando gli imprenditori italiani dimostrarono che, dove
per secoli i Guaranì avevano coltivato solo mais e manioca
per la propria sussistenza, poteva nascere un granaio di
importanza mondiale.
Pur con qualche necessaria variabile, l’evoluzione agraria di Agropeco ricalca quella di Mogno che ricalca a sua
volta quella di Open Grounds Farm. Anche in questo caso,
si partì con un colossale disboscamento, seguito dalla coltivazione intensiva della soia. Bulldozer e catene, roghi
su roghi. «Avevo scommesso sulla soia perché in Sud
America, per ragioni di luce, si presentavano le condizioni
ottimali. Il terreno, poi, si prestava talmente a questa
coltura che interrompemmo la tradizionale rotazione,
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utilizzata per debellare il nematode, che in Paraguay non è
presente. Da 35 anni la soia fa registrare ad Agropeco rese
da primato, per il pisello proteico è una specie di serra a
cielo aperto». Nel 2002, il giornale paraguagio Noticias,
dando conto dell’ennesimo record della soia coltivata
nella tenuta italiana, titolava: “Un mar de produccion”.
Soia Ogm, coltivata con metodi no-till (e periodico paraplow contro il compattamento del suolo) e senza alcuna
irrigazione. Attualmente Agropeco, che si trova a breve
distanza dalle cascate di Iguazu e a 370 chilometri dalla
capitale, Asuncion, consta di 6.500 ettari di campi e 5.550
di foresta equatoriale (bosco atlantico) riuniti in un corpo
unico ed è proprietà FerSam. Livio Ferruzzi è stato a lungo
il presidente della società paraguaiana.
Una piantagione in Brasile
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Livio l’Americano
«Prima di tutto bisogna sapere che no-till e sementi
Ogm sono indissolubilmente legati al successo delle coltivazioni intensive nei Paesi americani. Senza il biotech
non si otterrebbero le rese che si ottengono a costi così
bassi. Naturalmente la lotta integrata aiuta, ma i fondamenti sono la semina su sodo e i semi geneticamente modificati per resistere alle fitopatologie». Una sorta di
dichiarazione di fede, quella del manager sardo, fondata
sull’esperienza. Oggi Agropeco è leader nella produzione
di soia e la scelta colturale è caduta da tempo sul transgenico. Tuttavia, FerSam ha affinato nel tempo le tecniche di
coesistenza tra la coltura convenzionale e quella Ogm.
«Sul piano finanziario, le due produzioni hanno costi analoghi, come quello energetico – spiega Ferruzzi – e costi
diversi, come quelli relativi agli erbicidi, primo tra tutti il
glifosate. La soia convenzionale comporta un costo diretto complessivo di 240 dollari all’ettaro, mentre quello
della soia RR è di 213 dollari a ettaro».
Lavorare questi terreni non è uno scherzo: boro e zinco,
spiega l’agronomo italiano, possono sparire a cinque centimetri di profondità; anche il fosforo si dimostra capriccioso. «Fortunatamente un’analisi pedologica mi costa 20
dollari, mentre in Italia l’avrei a 300. E i risultati arrivano
entro il mese», commenta. Il rendimento unitario medio
delle coltivazioni di soia Agropeco oscilla di campagna in
campagna tra 2,10 e 3 tonnellate a ettaro, e i silos aziendali hanno una capacità di 15.000 tonnellate: la produzione Agropeco viene commercializzata per il 50% a
livello locale e altrettanta prende la via dell’esportazione,
che è diretta prevalentemente in Europa. Performance che
hanno fatto di questa gemma verde nella foresta pluviale
un punto di riferimento per il settore delle oleaginose.
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Merito anche del suo manager, stimato in tutto il mondo
per la sua esperienza e anche per la schiettezza con cui la
espone. Un tratto tipicamente americano. «La terra rende
ancora bene, in media fino al cinque per cento, soprattutto da quando è esplosa la bolla immobiliare – mi informa –. Il valore di una tonnellata di soia è raddoppiato
in questi anni, come peraltro quello del granoturco. Oggi
il mercato è ancora condizionato dai sussidi e dalle importazioni cinesi ma entrambi questi fattori sono destinati a ridursi o a scomparire entro il 2012-2013 e allora si
ridisegneranno gli equilibri mondiali».
Livio Ferruzzi è un fautore del liberismo, ha pensato e
lavorato da americano anche quando si trovava in Italia e
da alcuni anni è anche cittadino degli States. Non a caso,
in Paraguay gli è riuscito un piccolo miracolo, quello di far
dialogare i produttori locali di soia con la potentissima filiera statunitense. Per la prima volta nella storia, nel 2005,
i produttori di soia degli Stati Uniti e del Paraguay hanno
raggiunto grazie a lui un accordo “per incrementare le rispettive esportazioni nel mondo, promuovere la liberalizzazione dei commerci con un’intensa attività di lobbying
e sviluppare il mercato internazionale delle oleaginose”.
DIPLOMA APS
Il diploma di benemerenza dei produttori di soia del Paraguay
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Coordinatore tecnico dell’accordo è stata la FerSam, attraverso il Dialogo Internazionale tra i Produttori di Oleaginose (Iopd), al termine del quale vi è stata la storica firma
dell’American Soybean Association (Asa), dell’United Soybean Board (Usb), della Camara Paraguayana de Exportadores de Cereales y Oleaginosas del Paraguay (Capeco)
e della Asociacion de Productores de Soja, Oleaginosas y
cereales del Paraguay (Aps).
Secondo l’accordo, i produttori statunitensi e paraguaiani avrebbero dovuto cooperare per promuovere lo sviluppo del comparto della soia e abbattere le barriere
commerciali che derivano dalle norme (europee) sull’etichettatura e sulla tracciabilità, nonché dai nuovi limiti
imposti ai residui chimici, ma l’intesa è sfumata dopo
qualche anno. «Alla fine l’ambizione dei singoli ha avuto
la meglio sulla strategia», commenta amaro Ferruzzi.
Il quale tuttavia, a giudizio di molti, con quell’accordo ha
indicato una rotta.
Una risaia sperimentale
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Agropeco sotto la lente
«Di una cosa sola mi sono pentito nella mia vita – mi
dice a un certo punto con la schiettezza degli americani –
e cioè di non aver incontrato prima William Kirby-Smith».
Parla del suo amico professore di ecologia marina della
Duke University. Un altro americano di frontiera, attaccatissimo alla sua terra, come esigono le tradizioni di famiglia. Un trisavolo di Kirby-Smith fu l’ultimo generale
sudista del North Carolina, che aveva lasciato gli stati del
Nord per unirsi alla confederazione: lui, però, non si arrese
mai alle giubbe blu. Anche William non è tipo che getta la
spugna di fronte ai problemi e si deve a lui se Agropeco, la
più grande azienda agricola dell’est del Paraguay, si è conservata la gemma di smeraldo che è, un pezzo incontaminato di foresta tropicale in cui convivono ecologia e
agricoltura.
Grazie ai consigli di questo docente universitario, la società Agropeco, di cui Livio Ferruzzi è presidente, ha destinato infatti più della metà dei suoi 14 mila ettari totali
(estensione dell’azienda dopo l’acquisizione da parte di
FerSam) a una riserva ecologica (6.700 ettari), che rappresenta una delle più grandi aree rimaste, per dimensioni
ininterrotte, di “bioma” della foresta tropicale atlantica.
Una volta tale bioma si estendeva dal nord del Brasile fino
a sud in Argentina e ad est in Paraguay, ma circa il 90/95%
di questo tipo di foresta è stato convertito ad altri usi,
principalmente all’agricoltura.
Attualmente, esiste un certo numero di foreste atlantiche preservate in altre aree del Sud America e la riserva
di Agropeco è la più estesa (su terreni privati), seconda
per biodiversità solo ad Amazzonia e Borneo. In questo
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paradiso naturale, la Società ha donato circa 500 ettari di
terra agli indiani Ache del Nacunday, incoraggiandoli a
utilizzare la riserva forestale, che è situata prevalentemente lungo le rive di torrenti e fiumi.
Nel dicembre del 2004, Kirby-Smith è stato invitato a
visitare l’azienda e a raffrontarne i dati con altre esperienze in Brasile e Paraguay. Giova ricordare che in genere
queste grandi aziende coltivano prevalentemente soia,
mentre Agropeco coltiva mais, sorgo, frumento e soia.
Recentemente ha sperimentato la stevia, un dolcificante
naturale “non-sugar”.
Lo studio di Kirby-Smith ha concluso che le metodiche
di Agropeco avevano minimizzato l’erosione dei terreni
lateritici rossi, mentre la maggior parte delle aziende di
quel Paese ha disboscato la terra fino ai bordi dei fiumi,
portando all’erosione del suolo argilloso e causando
quell’insabbiamento su larga scala, che rende i corsi d’acqua di colore rosso. Al contrario, la riserva realizzata
all’interno della maxi tenuta, con le sue ampie distese di
foresta, crea delle barriere per i torrenti, minimizzando
gli impatti negativi della messa a coltura. Inoltre, il management italiano semina seguendo curve di livello e terrazzamenti che rallentano lo scorrimento idrico superficiale
e contengono l’acqua per brevi periodi, affinché essa penetri nel terreno. Kirby-Smith ha anche notato frequenti
deviazioni dell’acqua che fuoriesce dai canali e forma piccoli “stagni”, una dispersione assecondata per facilitare
l’infiltrazione dell’acqua nel suolo. La stessa pratica no-till
e la lotta integrata applicata da Livio Ferruzzi – sempre a
giudizio del ricercatore – hanno portano in questi anni
a minimizzare il fenomeno erosivo.
«Nel suo resoconto, Kirby-Smith ci ha dato una serie di
consigli – conferma Ferruzzi – sul possibile utilizzo della
foresta, con l’obiettivo di conservare la sua integrità portando allo stesso tempo dei benefici economici. Tra i suggerimenti c’era anche quello di investigare sulla presenza
di piante con valore medicinale e sviluppare su piccola
scala un’agricoltura “shade-grown” di quelle piante che si
trovano sotto la calotta della foresta. Il Paraguay ha una
lunga tradizione nell’uso dei medicinali a base di erbe e
gli stessi Ache hanno fatto uso estensivo di tali piante
della foresta costiera atlantica. Molte di queste sono presenti nella foresta di Agropeco e gli indios potrebbero essere un’ottima risorsa in questa prospettiva». Concetti di
cui Ferruzzi è profondamente convinto e che sostiene da
anni: su Noticias dell’11 marzo 2002, caldeggia infatti “un
piano di sviluppo dei campesinos” su base cooperativa.
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Aranceti in Uruguay
La foresta sostenibile
Il rapporto con l’università va ben oltre l’interesse professionale: Kirby-Smith è innanzi tutto un amico. Un’amicizia che il docente tratteggia così: «Livio Ferruzzi è
l’uomo d’affari più etico che abbia conosciuto e una delle
persone di quest’ambiente più sinceramente interessate
all’agricoltura ecocompatibile. Per lui la buona pratica
agricola include tutto, compresa la tenuta di una strada
poderale per prevenire l’erosione della foresta pluviale».
Lo studio della Duke – seguito da un master – portò effettivamente il management di Agropeco a elaborare un
programma di sviluppo di “foresta sostenibile” nella riserva, il che ha indotto a modificare radicalmente le metodologie di lavoro, praticando l’abbattimento selettivo di
alcune specie ma preservando l’integrità della riserva.
«Lavorare con la Duke mi ha permesso di rivedere radicalmente le tecniche di disboscamento, com’era inevitabile a distanza di decenni e, quindi, in un mondo che era
cresciuto in sensibilità ambientale», ammette Ferruzzi
che, in questi anni, ha lavorato anche alla costituzione di
una fondazione non-profit con lo scopo di proteggere la
foresta. L’iniziativa può contare dal 2006 sul lavoro di una
ricercatrice della stessa Duke la quale ha stimato in undici milioni di dollari il valore della riserva nell’ambito di
un “carbon sequestration project”. FerSam sta valutando
la possibilità di costituire ad Agropeco una riserva di isolamento del CO2.
Da quando è iniziato il programma scientifico, si è arrestato ogni disboscamento nella tenuta: «Il Gruppo Ferruzzi ha sempre considerato la problematica ambientale
un vincolo rigido nella pianificazione e nella progetta72
zione dell’insediamento produttivo – ricorda l’agronomo
italiano – ma la collaborazione con la Duke ci ha insegnato
a utilizzare metodi meno invasivi di quelli degli anni Ottanta, pur necessari e inevitabili allora, in quel contesto
sociale ed economico, e comunque condotti seguendo
precisi protocolli scientifici, perché noi sacrificammo
molti boschi atlantici, è vero, ma non fu mai un disboscamento selvaggio». Queste parole rinviano evidentemente
agli studi condotti negli anni Ottanta dal Gruppo Ferruzzi
sulla foresta amazzonica, a partire dal progetto Mogno.
Lo sfruttamento agricolo, per condurre alla massima
produttività possibile, presuppone il rispetto degli equilibri dell’ecosistema; gli italiani, infatti, hanno lavorato a
lungo – fin da quando sul ponte di comando si trovava ancora Serafino Ferruzzi – alla standardizzazione di un criterio operativo che contenesse i possibili effetti negativi
derivanti da un processo di trasformazione del territorio
men che corretto. In un’agricoltura intensiva e no-till su
estensioni di migliaia di ettari, la regolarità delle precipitazioni costituisce una risorsa, e nelle aree coperte dalla
foresta amazzonica solo il 50% delle piogge deriva da correnti atlantiche, mentre quel che resta è imputabile ad
evapo-traspirazione: di conseguenza, un disboscamento
selvaggio, provocando un maggiore accumulo di anidride
carbonica nell’atmosfera, avrebbe provocato una moltiplicazione incontrollata dei fenomeni erosivi, una redistribuzione non programmabile delle risorse idriche e
soprattutto un’alterazione del regime pluviometrico.
Senza contare altri e peggiori danni all’ecosistema.
Dell’intera area di Mogno – 500.000 ettari di cui 340.000
agricoli – fu messo a coltura meno del 10% (30.000 ettari)
e le stesse precauzioni sono state osservate in Paraguay,
dove continuano ad esserlo ora che l’azienda appartiene
alla FerSam, precisa Livio.
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Con una mandria a Las Cabezas
Las Cabezas, miracolo italiano
«Anche in Argentina produciamo senza aratro, senza erpice e soprattutto senza irrigare». Livio Ferruzzi ci introduce con queste parole a Las Cabezas. L’azienda agricola
argentina del Gruppo FerSam si trova nella provincia di
Entre Rios. Ha una storia importante. È lì, infatti, che
i Ferruzzi si sono sempre riuniti per prendere le decisioni
importanti, una specie di Camelot romagnola. Quelle praterie hanno visto, per capirci, Raul Gardini, Carlo Sama,
Arturo Ferruzzi e il resto del clan aprire con una grande
riunione di famiglia il biennio d’oro, tra il 1987 e il 1988,
quando alle 45 società dell’impero Ferruzzi si aggiunse la
Montedison. Proprio tra le piante di soia di Entre Rios,
Gardini festeggiava, nel dicembre del 1988, la nascita di
Enimont… Una tradizione che subisce uno stop nel ’91,
con il “divorzio” tra Gardini e gli altri Ferruzzi, ma riprende anni dopo, quando una parte della famiglia riacquista la tenuta argentina.
Oggi Las Cabezas è una grande azienda agricola in cui
si raggiungono rese ad ettaro e una produzione bovina da
carne invidiate in tutto il mondo e che il mercato premia
con prezzi superiori alla media: in Argentina lo chiamano
“il miracolo italiano”. Tutto è iniziato quasi quarant’anni
fa, quando Serafino Ferruzzi acquisì quell’azienda dagli
inglesi, che l’avevano destinata all’allevamento: oggi a
Las Cabezas si seminano ogni anno circa 10.000 ettari e
8.000 sono dedicati alla produzione di pregiate vacche
Hereford, frutto di una lunga selezione.
Come a Open Grounds, anche in Argentina Livio Ferruzzi
– che dal 1980 al 1993 fu responsabile di tutte le tenute
Ferruzzi in quel Paese, che allora superavano i 23.000
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ettari – impose l’approccio integrato ai problemi dello
sfruttamento intensivo della terra, per quanto, in questo
caso, non siano stati necessari alcuna bonifica e nessun
disboscamento, ma la pura e semplice razionalizzazione
dei sistemi di coltivazione e allevamento, con risultati
economici, tuttavia, altrettanto rivoluzionari. «Siamo partiti anche lì con l’analisi pedologica e climatologica. Lo
studio delle condizioni ambientali (clima, terreno, popolazioni infestanti) e l’individuazione della soglia economica d’intervento (intesa come densità critica di
infestazioni, al di sopra della quale il costo dell’agrofarmaco è inferiore al beneficio generato dall’incremento
produttivo corrispondente) e degli strumenti non chimici
per il controllo delle infestanti e degli insetti sono propedeutici alla lotta integrata», spiega il manager, che in Argentina è riuscito a ridurre in modo significativo l’uso
degli agrofarmaci, con un certo sollievo per il bilancio di
quest’azienda di 18.000 ettari, gestita attualmente con
l’aiuto di una ventina di dipendenti.
La benedizione della tenuta di Las Cabezas
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«Questo è stato possibile anche perché la proprietà non
ha lesinato sugli investimenti tecnologici – riconosce
l’agronomo – e mi ha permesso di lavorare con il meglio
della tecnologia americana: per intenderci, se inizialmente utilizzavamo sei seminatrici e non riuscivamo a seminare tutto prima della metà di dicembre, oggi ne
bastano due, e concludiamo le operazioni entro novembre». Il costo di ogni seminatrice si aggira intorno ai
110.000 dollari, mentre quello dei trattori ai 160.000.
Tra le piante di mais in Argentina
Una seminatrice su sodo
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Numeri da capogiro
«A Las Cabezas si incontrano condizioni di fertilità che
permetterebbero numerose opportunità colturali – illustra
Livio Ferruzzi –. Con FerSam abbiamo scelto di puntare su
soia, mais e frumento, investendo ogni anno (doppia
semina inclusa) quasi 11.000 ettari in questi seminativi e
compiendo scelte agronomiche rivoluzionarie». Fra i
primi casi in Argentina, infatti, è stata introdotta in questa provincia del Nord la semina su sodo, che ha reso possibile la gestione dell’intera azienda, in precedenza
parzialmente ceduta in affitto, e l’espansione delle colture su tutto il patrimonio fondiario. Nel 1990 venivano
messi a coltura, con l’ausilio di una ventina di operai,
2.400 ettari, mentre 2.500 erano gestiti dagli affittuari:
negli anni, il personale è stato dimezzato e la coltivazione
diretta più che quadruplicata. Conseguentemente, il fatturato prodotto dai seminativi è passato da due a sette
milioni di dollari.
Si calcola che gli investimenti fatti abbiano consentito
a quest’azienda un risparmio superiore al milione di dollari in un decennio, propiziato dalle scelte operate nell’ambito dei mezzi di produzione: «Se nel 1990 erano
necessari 20 trattori per l’attività agricola, oggi, a espansione avvenuta, ne bastano 12. Le macchine per la semina
su sodo, allora importate dagli Usa, oggi hanno costi pressoché identici alle altre seminatrici e vengono prodotte
anche nel paese sudamericano, dove Las Cabezas ha fatto
scuola».
Ecco i risultati: «Usiamo Ogm per mais e soia e seme
tradizionale per il frumento. Complessivamente, si producono ogni anno 18.000 tonnellate di mais, 25.500 di
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soia e 10.000 di frumento, tutti destinati all’esportazione,
come il sorgo, che prende la via della Cina e serve a produrre etanolo. Le rese vanno dai 25 ai 45 quintali per la
soia e dagli 80 ai 110 per il mais. Sono rendimenti sicuramente superiori a quelli che raggiungiamo in Paraguay
– dice Ferruzzi – perché la tenuta di Entre Rios presenta
un terreno diverso, molto più simile al mid west. In Italia
parleremmo di medio impasto profondo, ma da noi non ci
si accontenta di definizioni generiche, in quanto per ciascuna operazione si studia preventivamente la composizione del suolo». Una scelta di prudenza, indispensabile
quando si maneggiano investimenti di tale portata, fa notare il super-tecnico.
L’intervallo delle rese ottenute in Argentina può stupire, tuttavia esso dipende dalla piovosità. A Las Cabezas,
appunto, non si irriga ed è sufficiente l’acqua piovana per
alimentare le piantagioni. Con una piovosità media da 900
a 1.300 millimetri nel periodo utile (novembre-febbraio)
e precipitazioni che possono arrivare, ogni volta, anche a
100 millimetri, il problema è ancora una volta quello
dell’erosione del terreno, che si riesce a ridurre del 90%
con la semina su sodo. Portare Las Cabezas a queste performance non è stata comunque cosa facile. Inizialmente,
anche il no-till non convinceva i vertici Ferruzzi che l’avevano acquistata dagli inglesi («così, seguendo la tradizione, perdemmo dieci anni di crescita», sibila il tecnico)
e l’azienda argentina si trovava strutturalmente in perdita: «Anche la scelta di affittarne una parte era stata suicida, dal momento che gli affittuari non erano interessati
ad investirci». Solo con la gestione FerSam, quando cioè
il manager italiano ha potuto applicare integralmente le
proprie metodologie, è tornata a macinare utili.
La tenuta di Las Cabezas in Argentina
Piantagione di sorgo a Las Cabezas
Una mandria di Hereford a Las Cabezas
Hereford da primato
L’azienda zootecnica è a cielo aperto. Le vacche Hereford
pascolano liberamente su circa 8.000 ettari di terreno e
non vengono alimentate con mangime. La razza scelta è
tra le migliori per la produzione di carne, perché ingrassa
facilmente, sopporta la rusticità dell’allevamento al pascolo e resiste alle malattie e ai parassiti. «Non a caso, si
tratta di una delle razze più allevate nel mondo e piaceva
moltissimo a Serafino Ferruzzi – ricorda il manager sardo –.
Abbiamo tentato degli incroci, ma per quel contesto le
Hereford restavano le migliori, anche perché la nostra
azienda produceva e produce tuttora vitelli, ma li vende
prima della fase dell’ingrasso». Dal 1987 al 1991, i vitelli
dei Ferruzzi sbancavano al concorso delle razze bovine di
Palermo, il popolare quartiere di Buenos Aires dove si
svolge la fiera più importante del settore zootecnico.
Attualmente, Las Cabezas impiega una decina di addetti
nella cura del bestiame, che viene allevato fino ai 5-6 mesi
di vita, quando raggiunge un peso di circa 250 chilogrammi: un traguardo raggiunto dopo una lunga selezione, che offre oggi una delle carni più apprezzate dal
mercato. Questo traguardo è stato tagliato dopo un ventennio di selezione genetica, che ha consentito di raggiungere un maggiore peso allo svezzamento (si partiva da
180 chili), cioè quando si vende il bovino, e ad uno e due
anni di vita, cioè nella successiva fase dell’ingrasso. La
produzione annuale ammonta a circa 4.000 capi all’anno.
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Una Hereford da primato
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Il Compagno Gorbaciov
Nel 1988 il Gruppo Ferruzzi era già proprietario di
Montedison, ma non ancora del tutto coinvolto nell’affaire
Enimont. Gardini aveva lanciato il progetto etanolo,
che aveva nel Brasile un punto di riferimento, e gli italiani
facevano agricoltura ovunque nel mondo. Persino
nell’Unione Sovietica di Gorbaciov. In quell’anno, il
Gruppo Ferruzzi sottoscrisse un accordo di collaborazione con il Comitato agroindustriale dell’Urss, in pratica
con il governo di quel Paese. Prevedeva di utilizzare nella
provincia caucasica di Stavropol le tecnologie italiane per
la produzione di mais, soia, barbabietola da zucchero e
girasole; di ottimizzare la struttura degli allevamenti, migliorare la qualità e ampliare la gamma; di introdurre nuove
macchine; di affinare l’efficienza delle strutture locali,
ottenere una maggiore utilizzazione dei centri industriali
esistenti e realizzarne di nuovi, che sfruttassero tecnologie pulite e a risparmio energetico; di introdurre esperienze d’avanguardia nell’organizzazione del lavoro.
L’accordo, sintetizza il Sole 24 Ore del 25 ottobre 1988,
contemplava “export di tecnologia in cambio di materie
prime energetiche”.
Quelli, ricordiamolo, erano gli anni della glasnost, della
perestroika e soprattutto dell’uskorenie, vale a dire
dell’accelerazione dello sviluppo economico, principi lanciati dal XXVII congresso del Pcus, nel 1986. Gorbaciov,
che veniva proprio dalla provincia agricola di Stavropol,
aveva presentato personalmente questa svolta in Italia,
con una storica visita, mentre si aprivano le porte del
mondo sovietico alle nostre imprese. «Fummo selezionati
– ricostruisce Livio Ferruzzi – in base alla nostra esperienza
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La presentazione del progetto Stavropol
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mondiale nel settore agroalimentare, e non fu certamente
un caso. L’Urss stava uscendo da una lunga fase di crisi,
segnata dal fallimento dei piani quinquennali e di investimenti sbagliati ed onerosi, soprattutto in campo militare;
nelle grandi città aleggiava ancora lo spettro della fame
e la malnutrizione era una problema generale della
popolazione. Il comparto scontava perdite colossali:
si pensi che la quantità di grano che andava perduta dal
campo al negozio era pari a quella che l’Urss importava
dagli Stati Uniti».
Questi problemi indussero i sovietici a chiedere aiuto ai
nostri agronomi. L’approvvigionamento di materie prime
assumeva allora un ruolo strategico per il gigante russo e
la grande disponibilità di risorse naturali, associata alla
presenza di un’agricoltura ancora arretrata ma di solida
tradizione, legittimava una scommessa ambiziosa come
quella di Stavropol, la provincia che Gorbaciov aveva
governato all’inizio della sua carriera politica. Ricca di
petrolio, gas naturale, materiali da costruzione e metalli,
era già stata al centro di importanti investimenti in campo
L'insegna del kolkhoz di Stavropol
88
energetico. I terreni fertili coprivano il 40% del territorio
e il clima era da sempre favorevole alle colture intensive.
Quando gli italiani vi si applicarono, Stavropol, che era un
granaio dell’Urss, presentava quindi dei rendimenti unitari già nettamente superiori a quelli che si incontravano
nel resto del Paese.
«Eppure anche qui – puntualizza Livio Ferruzzi – la produttività della maiscoltura raggiungeva a stento il 40%
dello standard occidentale, gli addetti erano il quadruplo
di quelli che venivano impiegati nelle aziende americane
o francesi, e le derrate alimentari, malgrado la vicinanza
a mercati molto ricettivi, continuavano a deteriorarsi nei
magazzini a causa della disastrosa disorganizzazione
della macchina industriale e distributiva». Nessuna sorpresa, insomma, se l’Unione Sovietica era costretta a importare ogni anno dai 15 ai 25 milioni di tonnellate di
cereali dagli Usa e milioni di tonnellate di burro, latte in
polvere e carne dall’Unione Europea.
I tecnici organizzati dalla Ferruzzi Finanziaria, che
aveva promosso l’accordo coinvolgendo le diverse società
del Gruppo, riuscirono a ottimizzare la struttura dei prodotti russi, migliorarne la qualità e ampliarne la gamma,
introducendo nuove sementi e nuove razze animali, ma
anche applicando tecnologie già sperimentate dal Gruppo
italiano nel mondo e utilizzando macchine agricole
meglio rispondenti di quelle sovietiche agli standard del
mercato agroalimentare mondiale.
L’accordo fu sottoscritto il 19 ottobre del 1988 e ogni
intervento concordato con le autorità locali. Il programma
di lavoro assunse fin dall’anno successivo dimensioni ragguardevoli: si trattava di trasformare non soltanto il modo
di coltivare la terra ma anche, e radicalmente, quello di
lavorare le derrate, mettendo mano alle tecnologie e all’organizzazione di zuccherifici, oleifici, macelli, centrali
del latte, salumifici, caseifici… Interventi impegnativi riguardarono l’industria conserviera e quella dei mangimi,
né va dimenticato che Ferruzzi si occupò di revisionare
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l’intero sistema infrastrutturale al servizio delle unità produttive: strade, silos, ma anche industrie per l’imballaggio
dei prodotti finiti. Quest’azione ha richiesto ovviamente
un’intensa preparazione, in termini di progettazione e
sperimentazione, ma anche di training del personale
russo, avvenuto soprattutto in Italia.
In questa colossale operazione, affidare un ruolo primario al manager sardo appariva scontato, perché, come
precisa un rapporto aziendale dell’epoca, l’accordo con i
sovietici aveva stabilito che, per impostare il lavoro,
“saranno esaminate alcune delle più significative esperienze agricole del Gruppo Ferruzzi e in particolare i casi
di quattro grandi progetti integrati: Mogno in Brasile,
Azucarlito in Uruguay, Open Grounds Farm negli Stati Uniti
e Torvis in Italia” e Livio era al vertice di due dei quattro
progetti citati.
«Operativamente, il capofila era la Technimont – ricorda
Livio Ferruzzi – la quale aveva già dei solidi rapporti con
i russi. Loro, per modernizzare l’agricoltura, ritenevano
utile mettere in competizione le loro aziende con imprese
straniere». Quando arrivò nella russa Stavropol, ubicata
nel Kraj, il manager sardo si trovò di fronte a una sfida
da 500.000 ettari in cui erano impegnate, nell’ordine,
Technimont, Eridania, Agra, Beghin Say, Central Soyya,
Cereol, Provimi, Cerestar e Artfer Farm Management. Dietro le quinte, appunto, la Ferfin.
Un’armata non invincibile, del che ci si rese conto molto
presto: «Appena arrivammo là chiedemmo un’istruttoria a
Technimont – mi ha raccontato Paolo Sgorbati, vice a Stavropol – che in teoria, operando da anni su quel territorio,
aveva i contatti giusti. Ci tennero in ballo per due mesi,
senza produrre un’analisi dei terreni, uno strumento indispenabile per Livio, che a un certo punto, spazientito, si
presentò con un grosso tubo alla riunione generale e ne
estrasse delle foto satellitari: erano immagini a infrarossi
scattate dai satelliti americani. Con i dati forniti da quelle
immagini partimmo».
«Il progetto di collaborazione era sia agricolo che industriale, tuttavia funzionò solo la parte agricola, che interessava 20.000 ettari di terreno. Quell’ambito funzionò
davvero bene», ricorda con un certo orgoglio il manager
sardo. In effetti, dopo qualche problema iniziale legato
alla inadeguatezza delle nostre trattrici, dal 1990 gli italiani riuscirono a elevare le rese di tutte le colture a livelli
mai visti prima in quella regione: il mais fece registrare
76 quintali a ettaro contro la media sovietica di 28, la barbabietola 517 con una polarizzazione del 15%, e 72 quintali per ettaro di saccarosio, mentre la media sovietica era
di 261. «Secondo i loro esperti, la soia non doveva neanche
crescere in quella regione e invece la portammo a una resa
di 30 quintali, con un incremento del 100% sulla media
sovietica. E dire che anche i tecnici italiani dell’Eridania
non scommettevano oltre quota 8», puntualizza.
Si intuisce che quelli erano anche anni di sfide tra gli
esperti di casa nostra.
L’accordo con i russi prevedeva che la Società italiana
fosse remunerata in base all’incremento produttivo e questa circostanza fece in modo che, quando nel 1991 l’Urss
“implose” e Gorbaciov perse il potere, il saldo dell’operazione per il Gruppo fosse comunque positivo. Anche in
questo frangente, il dirigente dei Ferruzzi lavorò in totale
solitudine: sei mesi con gli operai locali – «erano tutti
quanti russi, perché gli italiani non vollero venirci laggiù»
– per portare a termine il programma agricolo. «Non è
stato semplice – ammette ora Livio Ferruzzi – anche perché si partiva da un contesto culturale molto particolare.
I russi, ad esempio, erano convinti che la soia non sarebbe
mai cresciuta nei loro terreni, che cioè non valesse la pena
impegnarsi, ma noi dimostrammo che non era vero.
Quando i primi mille ettari di questa oleaginosa diedero
frutto, però, non si sapeva che fare del raccolto, perché
mancavano gli impianti di lavorazione. Un altro problema
rilevante riguardava l’approvvigionamento di sementi
selezionate».
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«Il miglioramento varietale e tecnologico nel campo dei
cereali e delle oleaginose – ricorda Ferruzzi – era funzionale anche allo sviluppo dell’industria mangimistica e ad
alimentare l’altro “cuore” di Stavropol, la zootecnia».
A quel tempo, l’Urss aveva un concreto problema di malnutrizione e diventava fondamentale poter garantire alla
popolazione un approvvigionamento duraturo di proteine
nobili, di origine animale. Constatando la situazione di partenza, Livio Ferruzzi puntò su suini, bovini e ovini, muovendosi sul duplice fronte della carne e del latte. Partendo
da un “parco” di 1.000.000 di capi, esclusi gli allevamenti
avicunicoli, i tecnici italiani predisposero una serie di interventi sulle razioni alimentari, aumentandovi le farine proteiche (soia e girasole) e bilanciandole con l’uso di mangimi
concentrati. Seguendo questo programma, come si evince
da documenti di lavoro di quegli anni, la sperimentazione
su bovini da carne e da latte e sui suini partì già nel 1989
e in un secondo tempo furono condotte le necessarie iniziative di miglioramento genetico e zooiatrico per accrescere la qualità media degli allevamenti e una graduale
trasformazione degli impianti zootecnici fissi, come stalle
e ricoveri, nonché una razionalizzazione delle attrezzature
utilizzate per la produzione e il trasporto del latte.
Nei primi anni Novanta, quando l’accordo si interruppe
in seguito alla rivoluzione che portò Eltsin al potere, sul
fronte industriale era stata completata la progettazione di
stabilimenti per la produzione di zucchero, oli, amido,
lievito, acido citrico e mangimi, destinati ad incrementare
le filiere dell’alimentazione umana e animale. Inoltre, era
previsto l’insediamento di macelli e industrie di lavorazione delle carni, centrali del latte e caseifici, in grado di
lavorare, confezionare e supportare logisticamente anche
la distribuzione dei prodotti finiti sul territorio russo. Le
nuove industrie conserviere completavano il panorama
della dotazione industriale. Il caso Enimont e la crisi
dell’Urss interruppero quell’esperienza. Della quale oggi
a Stavropol rimane ben poco.
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Irrigazioni a Stavropol
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Le stalle di Cragnotti
Nel luglio del 1993, con la morte di Gardini e i vertici
del Gruppo in carcere, la Ferfin passò di mano: Carlo Sama,
anni dopo, parlerà di “esproprio”. Dopo alcuni mesi, Livio
Ferruzzi tornò in Italia. Era il febbraio del 1994, quando
divenne consulente generale di Sergio Cragnotti che in
quei giorni aveva acquisito il controllo della Cirio-BertolliDe Rica e che l’anno successivo gli affidò la Fagianeria e i
Toteri di Caserta. Apparentemente, un’azienda modello
da 5.000 capi. «Abbiamo fatto un gran lavoro – mi ha spiegato un giorno Paolo Sgorbati che, in qualità di direttore
generale di Cirio Agricola Immobiliare Spa, affiancò Livio
Ferruzzi in quell’impegno – alla Fagianeria e ai Toteri. Del
resto con lui non era possibile nulla di diverso. Esigente
con gli altri, in quanto esigente verso se stesso».
L’avventura effettivamente iniziò bene, con una produzione di 30 litri di latte a vacca, partendo da una situazione
drammatica. Nelle riunioni riservate, e non solo in quelle,
Cragnotti definiva l’azienda “il bubbone” per via delle
perdite considerevoli (circa due miliardi all’anno), ma sapeva di possedere la più grande stalla del Sud e condizioni
di lavoro ineguagliabili: cento metri dalle stalle allo stabilimento di lavorazione, un marchio affermato e un’azienda
agricola di mille ettari per approvvigionare le stalle.
Per sei anni, Livio Ferruzzi lavorò duramente per riportare l’azienda ai vertici della zootecnica italiana. Anche in
questo caso, furono affrontati importanti investimenti nel
drenaggio e nel livellamento dei terreni, venne introdotta
l’irrigazione con i pivot, arrivarono trattori a cingoli di
grande potenza e si realizzò la mungitura in parallelo.
«Se Cirio Agricola è ritornata ai fasti di un tempo il merito è suo» riconoscerà Michele Falce, stretto collaboratore
di Livio Ferruzzi in quest’impresa, della quale le riviste
tecniche celebrarono il successo: “Un passato illustre e un
presente ai vertici della zootecnia da latte” scriveva Terra
e Vita nel 2002. Falce fu testimone diretto dell’attenzione
spasmodica di Livio per la qualità della produzione: «Il complesso aziendale è stato totalmente rinnovato – dichiarò al
settimanale – con l’abbandono della lettiera e l’adozione
delle cuccette per motivi di benessere degli animali e
soprattutto di maggiore sanità e pulizia della mammella».
Seicentocinquanta cuccette, due miliardi di investimento,
ma non senza un ritorno, calcolato nei dettagli. Precisa sempre Falce: «l’obiettivo era anche quello di risparmiare sulla
paglia, considerato che in precedenza, utilizzandola solo
per la lettiera, ne dovevamo acquistare 60.000 quintali».
Insomma, Ferruzzi convinse Cragnotti a trasformare il
“bubbone” in un’azienda produttiva, informatizzò la
mungitura, rinfoltì le mandrie ma soprattutto ne uniformò
le performances e allontanò definitivamente lo spettro
della vendita. Intanto, cresceva nelle gerarchie aziendali,
diventando amministratore delegato della Cirio Ricerche
e sovrintendente degli stabilimenti di produzione delle
conserve, come vicepresidente della Spa: quasi un ritorno
alle origini per il nipote di Giulio Colombani.
«Sono stati anni appassionanti – racconta – e Cragnotti è
un uomo intelligente, anche se molto difficile da seguire;
tuttavia mi aveva dato carta bianca e riuscii a fare cose
impensabili, come l’introduzione del no-till in Italia, che
sparì non appena me ne andai».
Il periodo Cragnotti terminò nel 1999. Dal 2000, pur
continuando fino al 2005 a dispensare consigli a Cirio
Agricola attraverso la sua Worldwide Agricultural Consultancy, Livio Ferruzzi tornò, in qualità di presidente di
Agropeco e amministratore delegato di FerSam, a fianco di
Carlo Sama e Alesssandra Ferruzzi nella Società che ha
riacquistato le aziende di Serafino Ferruzzi in Paraguay e
Argentina e che in Italia, dal 2005, è proprietaria del 2% di
Bonifiche Ferraresi.
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Una veduta di Open Grounds Farm
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Il futuro delle commodities
Sono le due seminatrici che mancano ad Agropeco l’argomento delle interminabili discussioni di questi giorni
tra Livio Ferruzzi e Francisco Velasquez, l’agronomo paraguaiano che è stato chiamato a ottimizzare lo sfruttamento dell’azienda e ha avviato un programma basato
sullo studio delle curve di livello del suolo. «Dobbiamo
assolutamente evitare di perdere il treno della soia. Andiamo incontro a una stagione di rialzi dei prezzi delle
commodities, che si riverbererà sul mercato della carne, a
partire dal pollame», spiega, confermando che questa tendenza sarà decisiva per l’azienda argentina, la quale lega
il proprio fatturato soprattutto all’allevamento dei bovini.
Las Cabezas produce per l’export, in una fase di affanno della zootecnia argentina: «In questi ultimi anni,
quel Paese ha perso dieci milioni di capi, in termini di
minor produzione – sottolinea –. Del resto, il mercato argentino della carne è molto nervoso, perché risente di fattori esogeni, non puramente economici: in virtù
dell’asado, questo prodotto è il pane degli argentini e
quindi una commodity esposta agli interventi governativi,
che sono volti a calmierare i prezzi in funzione della situazione sociale e, di conseguenza, politica».
Il tecnico non ama i governi, men che meno quelli che
si vestono da agricoltori e da scienziati: «Con questa
lunga e cocciuta opposizione all’ingresso degli Ogm, l’Europa si sta suicidando e l’Italia è la prima responsabile,
con la Francia, di questa scelta deleteria che avrà ripercussioni lunghe, compromettendo anche i gioielli del
made in Italy. L’olio italiano, ad esempio, è assediato dalla
mosca e tonnellate di prodotto perdono così il loro valore
mentre una banale linea transgenica risolverebbe il problema senza alcun danno al consumatore. Perché se fosse
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altrimenti, milioni di americani che si nutrono quotidianamente di Ogm sarebbero già morti. E forse anche milioni
di italiani, viste le quantità di soia che l’Italia importa dai
paesi in cui si coltiva solo Ogm».
La politica può fare momentaneamente la fortuna di
una produzione ma presenta sempre un conto: «L’etanolo
resterà conveniente finché sarà sussidiato dai governi, ma
questo implica che cresca il prezzo del mais e il differenziale ricadrà sul consumatore. Quando si riuscirà a
estrarre l’etanolo dalla cellulosa – argomenta l’agronomo
sardo – avremo lo sganciamento dalle commodities alimentari e cambierà il quadro. E quella sarà la rovina del
Brasile, probabilmente». Ferruzzi è un rivoluzionario
anche nell’organizzazione dei costi e non esita a infrangere vecchi tabù: «È sbagliato affidare ai terzisti le operazioni in campagna perché ci si lega mani e piedi a un
soggetto che non è interessato all’utile aziendale e neanche allo sviluppo del bene fondiario».
Il futuro dell’agricoltura, secondo Livio Ferruzzi, è
scritto in due bilanci, quello contabile e quello del suolo:
sono le due bussole di questo Marco Polo dell’agricoltura,
un super-tecnico che per decenni ha esplorato le regioni
e le opportunità ancora sconosciute del pianeta verde. Il
suo racconto potrebbe proseguire per ore, ma Giulia ci annuncia che anche a Beaufort è l’ora della pasta: gnocchetti
alla campidanese. Aioh!
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LIVIO E LA SOIA IN ITALIA.
LA RICERCA PUBBLICA E LO SVILUPPO PRIVATO.
Di Gianpietro Venturi dell’Università di Bologna
Con Livio ci incontravamo quasi tutte le volte che tornava in Italia. Ci
univa l’amicizia e la comune passione per l’agricoltura. Erano lunghe
giornate e serate, scambi di informazioni, accese discussioni tecniche
e anche di scherzi.
«Faremo la soia in Italia».
«Faremo chi?».
«Noi del Gruppo Ferruzzi».
Per me fu come l’annuncio dell’Arcangelo Gabriele. Si apriva una
prospettiva insperata e poteva essere anche una rivincita.
Quando nella primavera del 1979, nel parlamentino del Ministero
dell’Agricoltura presentai il Progetto Nazionale di Ricerca “Oleaginose” al mondo operativo, in particolare a rappresentanti dell’agricoltura e dell’industria di trasformazione, avevo inserito anche un
“Sottoprogetto soia”, che però mi fu sonoramente bocciato. Si disse
che la coltura non interessava perché i prezzi non erano remunerativi
per gli agricoltori e quelli, non elevati, del mercato estero non avrebbero mai reso competitiva la produzione interna. Soprattutto mi fu
“spiegato” (a me Agronomo, cattedratico di Agronomia) che era ben
noto che in Italia la soia “non viene“, per le produzioni troppo basse,
tanto da non renderla economica.
Le esperienze condotte in diverse Università (Bologna e Padova al
Nord, Pisa e Perugia al Centro, Napoli, Bari, Sassari, Palermo e Catania al Sud) e Istituti del Ministero dell’Agricoltura, avevano fornito
risultati molto contradditori. Nonostante avessi cominciato a seguire
prove di soia già all’inizio degli anni sessanta da studente all’Istituto
di Agronomia di Bologna, non riuscii a difendere adeguatamente il
programma di ricerca proposto. Il “Sottoprogetto soia” fu cancellato,
il Progetto fu finanziato e iniziò nel 1980, incentrato su altre oleaginose, ritenute più interessanti per il paese.
Questa era l’atmosfera quando Livio m’informò della volontà
di introdurre e diffondere in Italia questa coltura poco conosciuta e
ritenuta a priori inadatta al nostro paese.
Con Livio c’eravamo conosciuti quando lui era studente del terzo
anno e io assistente del Prof. Mancini. Chiese la tesi in Agronomia e
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il Prof. Mancini, nel 1966, lo affidò a me e alla Collega Amaducci.
L’argomento della tesi era la ploidia della bietola, nel momento in cui
si cominciava a parlare di monogerme e iniziava la profonda rivoluzione che portò all’ammodernamento della bieticoltura. Chiesi a Livio
perché, con lo zio frutticoltore e quella grande azienda alle spalle, si
dedicasse a contare cromosomi di bietola al microscopio. Mi rispose
che, avendo possibilità di fare esperienze tecnico-pratiche in casa,
voleva comprendere ed imparare metodologie scientifiche in un settore
del tutto diverso.
Questo era Livio fin da giovane.
Preparava gli esami con grande puntiglio (ma non trascurava di
giocare a maraffone), però non si sentiva mai pronto e bisognava
“buttarlo dentro”. Quest’ansia di imparare e il dubbio di non sapere
abbastanza, che lo hanno sempre accompagnato, non contrastavano
con la sicurezza che ha sempre poi avuto nelle decisioni operative;
anzi da ciò deriva il successo di queste ultime.
Della vita studentesca da tesista di Livio, molti sarebbero gli spunti
anche divertenti da raccontare. Fra tutti, la volta che, in occasione della
visita di una importante personalità, ci fu raccomandato di tenere i
laboratori in perfetto ordine. Mezz’ora prima della visita, Livio inavvertitamente rovesciò il contenitore delle fucsina leucobase che serviva
a colorare i cromosomi da contare. Sgomento e disperazione! Banco e
pavimento erano di un bel rosso vivo. La visita seguì un percorso
diverso dal programmato e per fortuna all’arrivo in laboratorio tutto era
tornato perfetto, ma sul bancone rimane ancora oggi una macchia rossa.
Torniamo alla soia.
Nel corso degli anni ’70 la superficie mondiale era cresciuta del 138%
e la produzione quasi raddoppiata.
Ciò grazie all’espansione della coltura nell’America del Sud (Brasile,
Argentina, Paraguay).
All’inizio degli anni ’80 la superficie coltivata a soia nel mondo
era di circa 51 milioni di ettari, con una produzione attorno agli
84 milioni di tonnellate, concentrata in USA (60%) seguita,
a distanza, da Cina e Brasile (17 e 15%).
Le produzioni medie più elevate venivano ottenute in Argentina e
USA con 21 e 19,8 q/ha rispettivamente.
Con poco più di 10 milioni di tonnellate, la soia contribuiva al 39,1%
della produzione mondiale di oli vegetali commestibili e, con 45,7
milioni, al 62,8% di quella di farine ad elevato contenuto proteico.
A livello mondiale, negli anni ’70 il prezzo della soia era costantemente cresciuto, in parallelo all’incremento delle produzioni, rendendo
così interessante la coltura, richiesta soprattutto per l’elevata concentrazione proteica (circa 40%), più che per il contenuto in olio (circa 20%)
del seme. In quest’ottica anche la CEE cercò di stimolarne la produzione interna mediante il varo di un’apposita organizzazione di mercato (reg. CEE 1614/78), basata su un sistema di aiuto tipo
“definciency-payments”. Si erano create le condizioni economiche per
introdurre la coltura in Europa, mancavano però quelle tecniche.
Questa era la situazione quando Livio mi anticipò l’intenzione del
Gruppo Ferruzzi di dedicare molta attenzione a questa nuova
coltura, che già coltivavano in Nord e Sud America.
Ciò mi rafforzò nell’intento, mai cessato, di resuscitare il “Sottoprogetto soia” del Ministero dell’Agricoltura, che, affidato per il coordinamento alla Professoressa Amaducci, fu finalmente approvato e
finanziato a partire dal 1981.
Si era così costituito, cementato dall’amicizia, un rapporto, poi risultato vincente, fra ricerca pubblica e iniziativa privata.
La ricerca pubblica non rimaneva fine a se stessa, ma poteva giovarsi
dell’ampia base operativa privata, con un rapporto di doppio scambio
vantaggioso per entrambi. I risultati di tipo applicativo via via ottenuti potevano essere trasmessi immediatamente ai coltivatori e quindi
subito verificati; contemporaneamente alla ricerca venivano prospettati
i problemi via via emergenti.
I problemi da risolvere erano numerosi: innanzitutto la scelta dei gruppi
di maturazione adatti alle condizioni pedoclimatiche del nord Italia,
poi i ceppi di rizobio, la tecnica di inoculazione, l’epoca e la densità
di semina, la distanza fra le file, la concimazione azotata, l’irrigazione, la difesa dalle infestanti e tanti altri di minor importanza. Per
fortuna non si prospettavano timori particolari per parassiti e malattie.
La ricerca aveva la possibilità di affrontare, senza stretti vincoli
di tempo, molti argomenti non noti e cercarne la risposta scientifica
(accertamento degli effetti e dei meccanismi agenti); viceversa gli aspetti
tecnici e organizzativi dell’introduzione della coltura dovevano essere
risolti subito, già prima del contratto con i coltivatori.
Fu messa in piedi una organizzazione complessa, ma agile ed
efficiente. Era necessario contattare gli agricoltori, fare i contratti per for-
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nitura di sementi e di inoculanti, per il ritiro del prodotto e, soprattutto,
assicurare una capillare assistenza tecnica. Il modello dell’extension
service americano fu molto utile.
Allora, in tutta l’Unione Europea, venivano coltivati meno di 5.000
ettari, principalmente in Spagna; in Italia solo poche centinaia.
Le esperienze italiane erano molto limitate, mancavano molte conoscenze, gli interrogativi superavano di gran lunga le risposte e la ricerca iniziava solo allora a fornire i primi risultati.
Livio organizzò un bellissimo viaggio per conoscere l’esperienza degli
Stati Uniti.Visitammo i migliori Istituti di ricerca sulla soia nel Nord
e nel Sud. Si trattava di capire quali tecniche erano esportabili in Italia, operando in situazioni pedoclimatiche diverse, e adattando le fitotecniche alla disponibilità di una differente meccanizzazione.
Durante le visite ci colpì una frase ricorrente:“Non conosciamo molti
aspetti perché è una pianta nuova che studiamo seriamente da soli
quaranta anni”. Se era così in USA, figuriamoci in Italia! Cosa fare?
Livio in quell’occasione si assunse la responsabilità di indirizzare le
scelte del Gruppo, anche coinvolgendo diverse società collegate con i
relativi tecnici. Riuscì ad abbinare le conoscenze acquisite in Nord e
in Sud America, con l’intuizione ed anche il coraggio di affrontare il
rischio di un insuccesso, con la convinzione assoluta che la coltura
“non poteva sbagliare” e “avrebbe sfondato”.
Io pensavo che il primo anno (1982) si sarebbe potuto raggiungere
qualche centinaio di ettari e mi sembravano già tanti. Fui terrorizzato
quando seppi che ne erano stati seminati quasi 2.900.
Livio rideva «È una superficie ridicola rispetto alle aziende che seguo
in USA o in Sud America».
Pur con una coltura del tutto nuova per i coltivatori (oltre 750),
i risultati furono eccezionali: in media, in primo raccolto, oltre 34q/ha
contro i circa 20 degli americani!
Il successo derivava certamente da un andamento climatico favorevole,
ma soprattutto dalle ottime scelte tecniche, derivanti anche dal costante
contatto con la ricerca, e dall’organizzazione che aveva indotto
(o obbligato) i coltivatori a seguirle correttamente.
La coltura era stata introdotta in Italia!
Ora si trattava di consolidarla, sia negli areali della bietola che in quelli
del mais. Lo sviluppo della soia non si arrestò, anzi ebbe un incremento straordinario.
La progressione delle superfici (totale di primo e secondo raccolto) negli
anni dell’introduzione e del consolidamento (1982/87) fu la seguente (in migliaia di ettari): 2,9-23,0-35,1-93,5-235,6-481,6.
Altrettanto impressionante fu il livello produttivo. Le rese, in quintali/ettaro, furono: 34,3-27,1-30,9-31,9-37,7-36,0 per il primo
raccolto, largamente prevalente, e 24,5-22,4-24,9-25,0-25,9-24,6
per il secondo raccolto.
Sempre record mondiale, ottenuto sebbene ogni volta fossero coinvolti
nuovi territori e nuovi coltivatori.
Raramente una nuova coltura è stata introdotta e diffusa con altrettanta rapidità.
Il problema successivo era mantenerla senza ripeterla troppo frequentemente sugli stessi terreni per evitare l’instaurarsi di fitopatie e parassiti. Furono proposti gli avvicendamenti adatti alle diverse esigenze
di coltivazione, con l’intento di ottenere il reddito non da una singola
coltura, ma dall’insieme di quelle in successione. Va ricordato che
nell’impostare la tecnica colturale, furono sempre scelte le soluzioni a
basso input (chimico ed energetico). Obiettivo ora usuale, ma a quei
tempi nemmeno considerato.
L’introduzione della soia è stata quindi un’occasione di crescita tecnica per molti coltivatori, e quindi per l’agricoltura di molte zone, ed
anche un bell’esempio del reciproco vantaggio derivante dalla collaborazione fra ricerca e pratica operativa.
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Quella della soia, complessivamente, è stata una bella storia e Livio
ne è stato insieme sia l’ispiratore, sia uno dei principali protagonisti.
Bologna, 21 marzo 2011
Gianpietro Venturi
Università di Bologna
Progetto grafico: BTS Adv - Torino
Stampato da: Graf Art - Venaria Reale - Torino
“Los hombres que trabajan la tierra
son los caballeros del mundo”
FerSam Uruguay S.A.
Ediciones