Bukowski non morto \- Anteprima

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Bukowski non morto \- Anteprima
FRANCESCO SPIEDO
Bukowski non è
morto - Anteprima
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T h i s e b o o k w a s c r e a t e d w i t h B a c kTy p o
( h t t p : // b a c k t y p o . c o m )
by Simplicissimus Book Farm
Table of contents
Prologo
Parte prima
PROLOGO
Nel 1971 gli Stati Uniti d'America scoprono e
si ritrovano tra le mani un romanzo diverso,
pieno
di
sporcizia,
di
quella
vita
che
solitamente si nasconde negli angoli, come
polvere, e che invece adesso spunta fuori e si
piazza sotto i riflettori. Qualcuno ha scoperto
un nuovo talento, una nuova penna magica, che
piace al pubblico e divide la critica, che non
mette
d'accordo
e
fa
discutere:
tutti
i
presupposti per un successo. Un vero e proprio
caso editoriale. Per cento dollari al mese
Charles Hank Bukowski inizia la sua seconda
carriera da scrittore, quella fortunata: Post
Office, piace, e lentamente ripaga gli sforzi.
-Hank è un successo, meglio del previsto!
-Sì, mi è giunta voce..ma è davvero così
importante?
-Certo, certo. Le vendite sono in crescita,
abbiamo già recuperato
totalmente l'investimento, ci sono stati molti
contatti: piaci, piaci, piaci.
-Strano, non piaccio mai a nessuno: forse è
colpa di quell'acne giovanile troppo affezionato
a me..
-Ora è tutto diverso: Bukowski! Ma non lo senti,
come suona bene?! Era destino.
-Già, probabile, anche se mi piace credere che
si tratti solo di un po' di fortuna. La parola
destino suona quasi come una condanna, ti si
incolla addosso e non ti lascia più, ineluttabile,
meglio la fortuna che gira e cambia. E' meno
definitiva, più libera e selvaggia. Va bene,
lasciamo perdere.
Hank ha notato uno strazio silenzio calare nella
stanza, il solito che si propaga quando la
discussione prende strade poco battute o poco
interessanti. Così si prende una piccola pausa
con la scusa di accendersi una sigaretta, ma il
fiammifero non ne vuole sapere di accendersi.
Ne prova un altro e poi un altro ancora.
-Maledetto destino.
Poi, finalmente, l'ultimo si accende con quel
crepitio tipico del
legno che prende fuoco. Hank aspira per bene,
soddisfatto, poi
torna a parlare.
-Adesso?
-Adesso,
dobbiamo
aspettare,
valutare
le
offerte: osservare le reazioni del pubblico e
girare. Dobbiamo andare in giro, bisogna farti
vedere! Il pubblico deve associare alle parole la
tua faccia: è importante, è fondamentale.
-No, non mi riferivo a questo. Dico, adesso cosa
cambia per me? Questo successo a che serve?
Avrò sempre i miei cento dollari? La birra sarà
sempre
la
stessa,
stesso
sapore?
I
cavalli
correranno sempre troppo piano o troppo
veloce e le donne continueranno a spalancare
le gambe agli uomini sbagliati?
-Una cosa alla volta, Hank, una alla volta. I
cento dollari? Certo, e mica solo quelli: ci sono i
soldi delle vendite. Tante vendite quindi tanti
soldi!
-E cosa me ne faccio di questi soldi? Ho sempre
vissuto
con
molto
meno,
già
cento
mi
sembrano troppi..
-Più birra, Hank..
-Uhm.
-Più corse, più scommesse, magari un cavallo
tutto tuo: oppure un fantino! Potresti comprarti
un fantino!
-Uhm.
-E le donne inizieranno a pensare anche un po'
a te. Sai, i soldi non fanno la felicità, ma
risolvono tanti problemi.
-Questo mi sembra interessante.
-Brindiamo?
-C'è una bottiglia sul lavandino, prendila.
-Ma è vuota!
-Ah, devo aver già brindato allora. Perdonami.
-…
Nel 1971, a Pasadena, Ernest Chinaski è seduto
sui gradini della piazza e due poliziotti si
avvicinano. Ha l'aria di un uomo distrutto, gli
occhi rossi e le mani gonfie, mentre quei due
sono
fieri
ed
perfettamente
ordinati
stirata.
nella
loro
divisa
Forse
lo
hanno
scambiato per un barbone, per un senzatetto,
per un povero mendicante: no, Ernest è solo un
altro uomo che soffre per amore e vorrebbe
bere, ma non se lo può permettere. Così esce di
casa la mattina presto ed inizia la sua spola tra i
bar, alla ricerca di un cliente facoltoso e gentile
che gli offra un giro per poi continuare, altro
bar e stessa storia. Quando cala la sera, prima di
tornare a casa, si siede sui gradini per smaltire
la sbornia: senza un dollaro in tasca è sempre
ubriaco, tutte le sere. L'amore si soffre a tutte le
ore, la mancanza d'amore è una sbornia che
non ci passa mai.
-Allora, cosa ci facciamo qui?
-Miei cari signori è una lunga storia, avete
tempo?
-Come ti chiami?
-Parlate
uno
alla
volta
e,
cortesemente,
presentatevi. Non è un comportamento da
gentiluomini questo...
-Su, forza, in piedi!
-Ernest Chinaski si alza solo se ne ha voglia.
Non mi sembra d'aver fatto nulla di male e voi
siete qui a prendervela con me! E con il mondo
chi se la prende? Io con chi me la prendo?
-Si calmi, venga con noi..
-Ho perso il lavoro e mia moglie ha smesso di
parlarmi ed ha iniziato ad andare a letto con
chiunque:
dice
che
è
l'unico
modo
per
guadagnare qualche dollaro extra. Eh già,
perché dice che io sono solo un fallito ed un
ubriacone e che ha sbagliato a sposarmi e che il
primo buon partito che incontra se lo sposa e
mi lascia. Ma cosa deve fare un uomo quando
non ha da lavorare? Avrebbe potuto iniziare a
bere insieme a me, invece di scopare in
continuazione.
-Certo, Ernest, proprio così. Sono donne, le
donne, tutte uguali. Vero Karl? Pure tua moglie
ti ha lasciato, no?
E lo strano terzetto si avvia verso la pattuglia:
la sirena illumina il volto dei tre. Karl ed Ernest
con le facce da uomini traditi, il terzo contento
e superbo in quella divisa che gli calza un po'
grande sulle spalle: spesso gli uomini con la
divisa non hanno spalle abbastanza grosse per
reggerla. Questo spiega molte cose.
-Dove abiti, Ernest?
-A casa di quella stronza di mia moglie..
-Ti accompagniamo noi, dacci l'indirizzo.
-No, non serve..davvero! Abito in fondo alla
strada, ma grazie per l'interessamento. Ce la
faccio, ce la faccio da solo.
-Meglio se ti facciamo compagnia, tanto non
abbiamo nulla da fare noi..
-Ho capito, che stronzi. Volete spassarvela
anche voi con mia moglie. Che possa andarvi il
cazzo in cancrena, brutti stronzi.
Nel 1971, a Pasadena, inizia questo racconto.
Non esiste alcuna storia fintanto che qualcuno
non decida di raccontarla.
PARTE PRIMA
Born to be Ernest
Invidio i citazionisti, quelli che ricordano le
date, i nomi, le parole esatte, che hanno sempre
qualcosa da dire e lo dicono al momento giusto.
Odio quelli che sanno come presentarsi, che
hanno una frase buona e preparata, una battuta
sagace per rompere il ghiaccio. Detesto chi sa
cosa dire perché io non so mai da che parte
cominciare.
-Sono Ernest e sono sette giorni che non bevo.
Loro applaudono, loro, gli altri. Loro che sono
qui e non lo sanno perché lo faccio, perché e
per chi sono costretto a farlo. Io penso che
come inizio, come inizio faccia davvero schifo:
c’avrei potuto pensare un attimo in più, passare
il giro e lasciare la parola a questa grassona che
mi siede affianco, prendermi il mio tempo per
inventare un inizio migliore. Nella mia vita
avrei dovuto ammazzare tutti quelli che mi
hanno detto “non importa, inizia, inizia da qualche
parte, poi da qualche altra parte dovrai pur
andare”; ammazzerei quella sicurezza con la
quale
hanno
pronunciato
e
continuano
a
pronunciare la parola “andare”, come se il
senso di tutto fosse andare, andare da qualche
parte.
-Ho trent’anni e se mi beccano di nuovo a bere
mi sbattono dentro: ubriachezza, molestie ed
offese al pubblico ufficiale. Rischio tre anni,
forse quattro o forse due in buona condotta. Mi
hanno offerto questo buco di posto come mia
rivalsa sociale: il mio reinserimento. Ma credo,
anzi sono sicuro, che tre, quattro o due anni in
galera sarebbero l’ideale: pasto caldo, un letto e
finalmente libero dalla vista di mia moglie che
si sbatte anche il postino.
Loro mi guardano stupiti ed anche un po’
stupidi. Finalmente sono contento, credo che
sia un buon continuo di storia: continuo,
ancora, perché mi piace vederli preoccupati e
sul punto di scappare.
-Sapete, ora esco da qui e me ne vado al bar a
farmi una bella sbronza così avrò la lingua
calda, pronta per la notte. I miei amici poliziotti
verranno a controllare ed io finalmente gli dirò
quello che penso di questo posto: che è una
grandissima cazzata, se siamo qui è perché non
ci possono salvare! Ci hanno abbandonato e
marchiato: cavatevela da soli, ci hanno scritto
sul culo. Io davvero non so dove potremmo
mai andare...
Quanti sguardi sorpresi e preoccupati: hanno
tutti paura di non farcela e se uno solo cade,
tutti cadranno, ed hanno paura che sia io quello
che li condannerà. Sono tutti piccoli e bianchi
birilli ed io mi sento tanto una grossa e rotonda
palla da bowling, pronta a buttarli giù. Hanno
tutti paura di non farcela, tutti tranne me; nella
strana complicità degli alcolisti anonimi c’è
qualcosa che non quadra, e di sicuro non è la
condivisa dipendenza dall’alcool. Qualcos’altro
non torna. Ci rinchiudono dentro stanze scure,
con poche luci, che non ci guardiamo neppure
bene negli occhi e ci dicono di parlare, di
raccontare, di non avere paura, che non siamo
soli, che non siamo mostri. Beviamo solo un po’
troppo, giusto un goccio di troppo. Che non
dobbiamo avere vergogna. Che non dobbiamo
lasciarci andare. Che non dobbiamo scappare.
Che
dobbiamo
parlare
e
raccontare.
Che
dobbiamo recitare sempre il nostro nome,
ricordando a tutti chi siamo e cosa facciamo.
Perché anonimi? Perché alcolisti anonimi? La
timidezza con la quale questa gente parla mi
puzza di strano, la riservatezza con la quale
salgono i gradini che separano questa stanza
dalla strada a me non convince. Dov’era
quest’imbarazzo quando li ho visti bere a bocca
piena da grossi boccali nel pieno della festa?
Vomitare sulle scarpe di un passante e poi
tornare a bere: lo sanno tutti che faccia
abbiamo,
ubriaconi,
lo
sanno
anzi
no,
tutti
degli
che
siamo
alcolisti.
E’
degli
più
formale. Lo sanno tutti, allora perché anonimi?
Forse le persone si vergognano d’aver chiesto
aiuto. Anonimi non perché alcolisti, ma perché
pentiti. Forse le persone hanno vergogna d’aver
sbagliato e di voler cambiare: le persone hanno
vergogna di non riuscire a farcela da soli. Ecco,
questo spiegherebbe un sacco di cose. Quanti
occhi, tutti uguali e tutti spenti, quante facce
nere e piene di vergogna, il giudizio trapassa
l’aria che ci separa e mi sembra di toccare il
loro risentimento: non sto collaborando, non
sto migliorando, non mi lascio aiutare e non
aiuto.
Sono
tutti
preoccupati
dal
mio
pessimismo. Che stupidi, io so perfettamente
dove andrò e cosa farò appena uscito di qui:
andrò al primo bar, il primo sulla strada, a
riempirmi di birra. Ho mentito, ho detto una
tremenda bugia, ma cosa importa? A chi
importa? A me non frega per niente. Io non ho
sbagliato nulla. Non ho vergogna di nulla. Sono
qui perché l’ennesimo giudice ha deciso che ho
bisogno d’aiuto ed ai giudici, come alle donne,
nessuno può dire di no.
-Però ho da poco trovato un lavoro e credo che
le cose potranno finalmente andare meglio.
Ora va bene, sorridono di nuovo, qualcuno
applaude, mi incoraggiano. Eppure ho mentito
di nuovo; cosa si nasconde nelle bugie? Alcune
allontanano, altre avvicinano, altre distruggono,
altre proteggono, cosa cambia? Qual’è il segreto
delle bugie? Cambia il colore delle parole?
Cambia l’odore delle lettere? La verità è così
tremendamente sopravvalutata: non c’è bugia
migliore di quella che ci raccontiamo da soli,
quella che speravamo di ascoltare. Che stupidi,
gli uomini. Sono così stupidi che se qualcuno
vorrà ingannarli troverà di certo il modo di
farlo e, se posso riuscirci io, la cosa non deve
essere molto complessa. Mi alzo, lentamente,
senza dare l’impressione di andare di fretta; con
una mano in tasca conto le poche monete, me
le rigiro tra le dita e ne faccio la somma: poca
cosa, ma quanto basta per iniziare, poi troverò
di certo il modo di continuare. In fondo
l’importante non era iniziare? Troverò di certo
il modo di arrivare, arrivare a fine serata e
magari anche a casa. Casa, che bella parola. E
chi ce l’ha avuta mai una casa. Casa dei miei
non era casa mia, non lo era per niente. Il
monolocale diviso con quella puttana della mia
ex-moglie non era casa mia, era il mio rifugio
per il sesso. Quando ero piccolo desideravo
tanto un rifugio per il sesso, lo desideravo
anche più della casa e dei soldi, ma non avevo
né le donne né i soldi per andarle ad affittare. E
sono cresciuto con questo cazzo di disagio, con
quel desiderio represso di sesso e puttane, di
monolocali dove fare sesso: così si spiega il
matrimonio, l’errore più grosso degli ultimi sei
mesi della mia vita. La mia vita che è divisa a
metà tra grosse stronzate ed errori incredibili:
le stronzate hanno dato ritmo ai momenti
divertenti, gli errori hanno riempito ogni
mattina, ogni puntuale risveglio. Anche se
qualche risveglio, uno ogni tanto, l’ho saltato,
cancellando la sveglia, eliminando un giorno
dal calendario: un giorno in meno da stronzo
ed uno in più disteso sul letto, sbronzo. La città
è vuota e gialla, ci sono i lampioni troppo alti e
le strade troppo strette: non c’è armonia, la
somma delle parti non restituisce il totale,
sembra proprio che ogni pezzo non veda l’ora
di andare via e sganciarsi da questo casino, da
questo grosso puzzle a colori ricomposto alla
buona, un po’ come viene, senza troppa
attenzione alle sfumature ed ai giochi di ombre.
Sembra proprio che ci sia spazio per tutto, ma
posto per nessuno: figurarsi per me, io sono
solo un altro pezzo che deve sganciarsi e volare
da qualche altra parte per sperare, un giorno, di
incastrarsi senza smussare troppo gli angoli;
siamo tutti pezzi rigidi e ben delineati che
accettiamo,
però,
modellare,
di
lasciarci
riformare,
livellare
e
ricontrollare,
riposizionare, adattare per regalare all’insieme
un’immagine migliore. Ed il mio posto in
questo quadro è sul fondo, con un bicchiere in
mano ed un po’ di polvere nelle tasche. Tutto
quello che posso fare è regalarmi un sorriso
sulla faccia, di quelli che non costano nulla e ti
offrono il ruolo di scemo del villaggio. Quanto
amore sprecato.
-Una chiara, piccola, per favore.
-Ancora qui, Ernest? Ma non avevi smesso?