Le pensioni `categoriali` in Italia: legislazione e messa in opera del

Transcript

Le pensioni `categoriali` in Italia: legislazione e messa in opera del
Le pensioni ‘categoriali’ in Italia:
legislazione e messa in opera del nuovo sistema multi-pilastro
David Natali
Università di Bologna-Forlì e Osservatorio sociale europeo, Bruxelles
e Furio Stamati
Istituto universitario europeo, Fiesole
Versione preliminare
Abstract
Il sistema pensionistico in Italia ha subito importanti innovazioni nel corso degli ultimi vent’anni. Le riforme
introdotte a partire dagli anni novanta hanno infatti prodotto una profonda ricalibratura. Il pilastro
pubblico della previdenza è stato sottoposto a misure di contenimento della spesa, coerenti con la riduzione
progressiva della protezione offerta dallo stato. In parallelo, il legislatore ha cercato di sviluppare la
previdenza integrativa al fine di garantire una protezione adeguata del rischio vecchiaia (ed affini) anche in
una fase di austerità.
Il presente paper illustra i tratti salienti di questa ricalibratura, concentrandosi in particolare sullo sviluppo
della previdenza occupazionale. Mentre i tassi di copertura dei fondi pensione negoziali sono aumentati nel
corso degli anni, tale espansione si è realizzata in misura fortemente diseguale. L’accesso alle prestazioni, il
quantum della protezione offerta e le regole di gestione si sono fortemente diversificate tra settori produttivi,
aziende di grandi e piccole dimensioni e, ovviamente, sulla base della natura del contratto di lavoro
(autonomo o dipendente).
Il paper ha l’obiettivo di contribuire all’analisi delle principali direttrici di cambiamento e le loro
implicazioni in termini di accesso alle prestazioni del secondo welfare. Particolare attenzione è posta ai
processi di ridefinizione degli assetti organizzativi e istituzionali conseguenti del welfare ‘categoriale’, agli
attori coinvolti, agli interessi in gioco e alle dinamiche redistributive in atto.
Contatto
David Natali
Facoltà di Scienze Politiche R. Ruffilli, Università di Bologna
[email protected]
Sessione: Il Secondo Welfare in Italia: Sfide e Prospettive
Coordinatori: Ugo Ascoli (Università Politecnica delle Marche) e Franca Maino (Università degli Studi di
Milano)
1
Introduzione
Il sistema pensionistico italiano ha subito nel corso degli ultimi decenni importanti riforme. Il
contenimento della spesa previdenziale pubblica è andato di pari passo con l’individualizzazione dei
rischi legati alla vecchiaia e con la riaffermazione del principio assicurativo [vedi Hacker, 2004;
Marano e D’Antoni, 2008]. Per molti versi, le pensioni hanno rappresentato il terreno principale di
sperimentazione di un nuovo pension mix. Si tratta dell’articolazione dei pilastri pensionistici
(primo pilastro pubblico affiancato dalle parti sociali e dal mercato). Lo sviluppo della previdenza
integrativa è infatti legato alla necessità – avanzata dai decisori politici – di meglio attivare il
‘secondo welfare’ in campo previdenziale al fine di colmare il gap di protezione determinato dal
contenimento della spesa pubblica [Amato e Marè, 2007; Ministero del Welfare, 2002].
Il presente paper cerca di ricostruire il percorso attraverso cui il nuovo paradigma ‘multi-pilastro’ è
stato definito ed implementato negli ultimi decenni. Il focus è dunque centrato sul policy output e
outcome del processo di innovazione. In particolare, cercheremo di illustrare i principali passaggi
legislativi che hanno portato alla ricalibratura del sistema pensionistico in Italia. Ci soffermeremo
successivamente sull’analisi della concreta implementazione delle riforme e lo spazio guadagnato
fino ad oggi dalla previdenza complementare. Al di là degli obiettivi sanciti dai decisori politici, il
nuovo assetto ‘multi-pilastro’ ha fatto fatica ad affermarsi. Molti sono infatti i problemi incontrati
per un pieno sviluppo dei fondi pensioni e delle polizze individuali. In altre parole, la riforma delle
pensioni appare come un caso di implementation gap: la previdenza integrativa copre a tutt’oggi
una minoranza di lavoratori, con forti differenze tra settori occupazionali, classi di età e genere. Ciò
porta ad evidenziare uno dei problemi più evidenti legati al nuovo pension mix basato su di un ruolo
più limitato dello stato: le disuguaglianze nel trattamento dei rischi sociali aumentano all’aumentare
del ruolo del secondo welfare [vedi Covip, 2010; Berton, Richiardi e Sacchi, 2009].
La prima sezione introduce il lettore al sistema pensionistico italiano e ai principali problemi della
sua evoluzione di lungo termine. La seconda sezione fa riferimento al complessivo percorso delle
riforme previdenziali, i cui aspetti più rilevanti per la previdenza complementare verranno ripresi
nella sezione successiva. La quarta sezione del paper si sofferma sugli outcome delle riforme in
termini di sviluppo del secondo pilastro e della qualità della protezione (generosità, copertura,
governance) da esso fornita a varie categorie: dipendenti privati e pubblici, così come autonomi,
parasubordinati e professionisti. Saranno poi richiamati i principali problemi legati alla governance
dei fondi pensione. La quinta sezione conclude, avanzando alcune chiavi di lettura per comprendere
la direzione del policy change previdenziale italiano. Cercheremo in particolare di analizzare gli
effetti del nuovo pension mix. Da un lato, il maggior ruolo della previdenza integrativa può in effetti
2
ridurre la pressione finanziaria sulle pensioni pubbliche; dall’altro, il ridotto ruolo della previdenza
pubblica e il primo sviluppo dei fondi complementari rischia di frammentare la protezione dei rischi
legati alla vecchiaia, riducendo gli spazi di solidarietà e affermando nuovi cleavage socioeconomici.
1.
Il sistema pensionistico in Italia prima delle riforme: i tratti salienti
Come negli altri paesi caratterizzati da un welfare state di tipo Sud-Europeo – Grecia, Spagna,
Portogallo – la politica pensionistica occupa una quota preponderante della spesa sociale italiana:
circa il 66 per cento, approssimativamente pari ad un terzo della spesa pubblica e al 16 per cento del
prodotto interno lordo [vedi Eurostat; OECD, 2011]. Questo sbilanciamento previdenziale
nell’assetto welfaristico del paese affonda le sue radici nella sua originaria impostazione
Bismarckiana, che ha visto, prima dell’introduzione del suffragio universale maschile, la
concessione da parte dell’elite liberale di una serie di istituti di assicurazione sociale di matrice
occupazionale. Tale impostazione, sfidata più volte durante il periodo repubblicano dall’alternativa
universalistica di una pensione di cittadinanza, ha saputo creare una vasta coalizione politica e
categoriale in suo favore, assumendo però tratti particolaristico-clientelari, irresponsabilmente
espansivi e penalizzanti per i profili professionali più deboli [Natali, 2007; Jessoula, 2009].
Lo stato sociale venutosi a formare tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta del secolo scorso
presentava, in conseguenza di queste dinamiche, problemi di equità, efficacia e sostenibilità
finanziaria. Il funzionamento del sistema nel suo complesso era caratterizzato da una duplice
distorsione, funzionale e distributiva, che ha contribuito alla sovraprotezione dei tradizionali rischi
sociali associati alla carriera tipica del lavoratore fordista [Ferrera 1984; 1993; 1997]. Dall’altro ha
creato un cumulativo deficit di protezione a sfavore di soggetti deboli sul mercato del lavoro e/o
colpiti da rischi sociali cosiddetti ‘nuovi’: i lavoratori atipici e precari, così come i soggetti gravati
da responsabilità di cura nella sfera domestica [Ranci, 2002; Berton, Richiardi e Sacchi, 2009]. Per
effetto della contraddizione tra l’impostazione fortemente lavorista degli schemi previdenziali e la
necessità di protezione dei soggetti dipendenti dal capofamiglia, il concetto stesso di pensione è
stato ‘stiracchiato’ in una serie di istituti di natura prevalentemente assistenziale: pensioni di
invalidità, di reversibilità, minime e sociali [Regonini, 1996]. Nel contempo, l’iniziale impostazione
occupazionalista di stampo Bismarckiano è stata esasperata dal grande peso dello stato nella
gestione dell’economia, dal dualismo crescente tra grande industria e piccole imprese, dalla forte
polarizzazione del sistema politico e dalle disparità economiche e sociali tra un nord ormai postindustriale ed un meridione persistentemente arretrato.
3
Conseguentemente, il sistema pensionistico italiano alla fine degli anni Ottanta rappresentava un
‘labirinto’ di 47 fondi e casse professionali, ognuno con regole specifiche, concentrati in un singolo
pilastro pubblico con un ruolo limitato per la previdenza integrativa. Il sistema, retributivo a
ripartizione, era comparativamente molto generoso. Risultato di una serie di progressive espansioni,
spesso frutto di esplicite rivendicazioni categoriali, esso si componeva di una pensione sociale di
base, di una pensione da lavoro e di una buonuscita per i dipendenti pubblici e privati. Infine, data
la generosità del sistema pubblico, sul versante occupazionale esistevano solo due istituti degni di
rilievo: il trattamento di fine rapporto (TFR) dei dipendenti privati (cui corrisponde un’identità di
buonuscita per i dipendenti pubblici) e un ristretto numero di fondi occupazionali per le grandi
banche e aziende di stato, per le imprese telefoniche e assicurative e per alcune cooperative
[Jessoula 2009].
All’interno di questo sistema, le disparità di trattamento erano evidenti, così come evidente era la
particolare vulnerabilità di alcune casse (come nel caso dei coltivatori diretti e dei lavoratori dello
spettacolo) ai processi di invecchiamento demografico e ristrutturazione industriale. Già agli inizi
degli anni ottanta la seminale analisi di Onorato Castellino [1981] aveva indicato le enormi
differenze in termini di ritorno finanziario sulla contribuzione tra le pensioni dei dipendenti privati e
pubblici, destinate a creare conseguenze anche sul piano della sostenibilità finanziaria. Differenze
categoriali caratterizzano anche i requisiti di quiescienza. La modalità di uscita più comune, la
pensione di anzianità, permetteva il pensionamento a 35 anni per i lavoratori privati e (dal 1990)
autonomi; mentre nel settore pubblico erano sufficienti 20-25 anni, 15 per le dipendenti statali
sposate o con figli (titolari delle cosiddette ‘pensioni baby’). Di conseguenza, l’età media di
pensionamento era circa 55 anni.
Il tema della riforma delle pensioni si pose a partire dagli anni Ottanta. Se da un lato vi fu una
trasversale consapevolezza delle sfavorevoli prospettive finanziarie del sistema, dall’altro una
marcata difficoltà a sostenere i costi politici di un contenimento della spesa pensionistica: i deficit
di protezione in altri campi della sicurezza sociale e l’impostazione lavorista del sistema
Bismarckiano rendevano le pensioni non solo popolari presso i ceti medi e le classi lavoratrici, ma
anche indispensabili per la sussistenza di molti nuclei familiari [Ferrera 1998]. E’ in questo contesto
di grandi contraddizioni che maturano sia l’introduzione del TFR (1982) che l’estensione agli
autonomi della formula retributiva (1990) [Natali 2008].
4
2.
Il percorso delle riforme pensionistiche e i suoi effetti sul primo pilastro
Il quadro così delineato divenne finanziariamente e politicamente insostenibile di fronte alle
trasformazioni degli anni Novanta, che aprirono la strada ad un’inedita stagione di riforme. Nel
1992, il governo Amato fronteggiò lo spettro della crisi valutaria e di bilancio. Ripartendo dai
progetti e dalle proposte più consensuali dei tentativi riformisti del decennio precedente, il nuovo
governo riuscì a ridurre drasticamente la spesa previdenziale corrente e attesa. Per tutti i lavoratori
con meno di 15 anni di carriera, vennero inaspriti i requisiti anagrafici e di anzianità per
l’ottenimento della pensione di vecchiaia, le modalità calcolo della retribuzione pensionabile e i
termini di accesso alla pensione di anzianità nel pubblico impiego. Al tempo stesso, l’indicizzazione
delle pensioni alla sola inflazione, il divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro e, finalmente,
la creazione di un quadro normativo per le pensioni occupazionali (di cui si tratterà nella prossima
sezione) e individuali provano, con scarso successo, ad incentivare lo sviluppo di una previdenza
privata, non più meramente integrativa ma a pieno titolo ‘complementare’ [Natali 2007]. E’ in
questa fase che viene implementato il nuovo paradigma di policy. Sulla base delle riflessioni del
decennio precedente, si matura l’idea del progressivo passaggio dal sistema mono-pilastro (tutto
centrato sulla previdenza pubblica) al sistema multi-pilastro (basato sulla compresenza delle
pensioni pubbliche e della previdenza integrativa). In linea con la letteratura italiana [Lapadula e
Patriarca 1995] e comparata [Bönker, 2005], il nuovo paradigma si definisce sulla base delle
esigenze della finanza pubblica (ridurre la spesa pensionistica), della necessità delle parti sociali di
individuare nuove risorse organizzative e di legittimità, e di individuare nuove forme di
‘democratizzazione’ del sistema economico e finanziario.
La riforma portò a consistenti risparmi, ma apparve da un lato troppo onerosa per i futuri pensionati
e dall’altro ancora insufficiente ad una completa ridefinizione del sistema. L’allungamento del
periodo di calcolo per la retribuzione pensionabile, unito alla bassa rivalutazione garantita ai
contributi, portò il governo tecnico di Ciampi ad alleviare le disposizioni più penalizzanti [Pizzuti,
1998]. D’altro canto, il deficit persistente della spesa pensionistica (e delle casse degli autonomi in
particolare) e la mancata espansione dei pilastri complementari spinsero il governo Berlusconi ad
un nuovo intervento nel 1994 [Cazzola, 1995]. Innanzitutto, venne creato un quadro regolativo per
la completa privatizzazione delle casse professionali1 (d.l. 509/1994), che ne garantiva l’autonomia
Vennero così privatizzati 16 enti: 2 sostitutivi dell’assicurazione generale obbligatoria (Inpdai e Inpgi), due integrativi
(Enasarco e Fasc), due enti diversi (Enpaia e Onaosi) e dieci casse pensioni: la Cassa nazionale di previdenza e
assistenza avvocati e procuratori legali; la Cassa di previdenza tra dottori commercialisti; la Cassa nazionale
previdenza e assistenza geometri; la Cassa nazionale previdenza e assistenza ingegneri e architetti liberi
professionisti; la Cassa nazionale del notariato; la Cassa nazionale previdenza e assistenza ragionieri e periti
commerciali; l’Ente nazionale di previdenza e assistenza consulenti del lavoro (ENPACL); l’Ente nazionale di
previdenza e assistenza medici (ENPAM); l’Ente nazionale di previdenza e assistenza farmacisti (ENPAF); l’Ente
5
gestionale, organizzativa e contabile, rivolgendosi così ad uno strato sociale molto vicino a tutti i
partiti del centro-destra, Alcune norme transitorie previste dalla Amato vennero inasprite,
preludendo alla presentazione di un progetto di riforma più organico, che prevede disincentivi al
pensionamento anticipato, una riduzione generalizzata dell’ammontare dei benefici pensionistici ed
un’ulteriore riduzione dell’indicizzazione, sul quale però il governo si vide negare la fiducia
dall’opposizione interna della Lega.
Il gabinetto tecnico seguito alla caduta del governo Berlusconi, e guidato dall’ex ministro del
Tesoro Lamberto Dini, varò la più importante riforma del sistema pubblico dal 1969, partendo da
una bozza preparata nell’ambito del centro-sinistra e fatta propria dalla CGIL. La nuova riforma
vide l’unificazione dei regimi dei dipendenti privati e pubblici e dei lavoratori autonomi in un unico
schema contributivo, sempre finanziato a ripartizione ma basato su di una nuova formula. Il
sistema, cosiddetto a contribuzione nozionale definita, lega le pensioni future ai contributi
effettivamente versati e agli andamenti economici e demografici, garantendo un tasso di rendimento
uguale per tutti i lavoratori e addirittura la possibilità di un’uscita flessibile dal mercato del lavoro,
individuata tra i 57 e i 65 anni. Trentasei anni dopo la rifroma Brodolini, che aveva perfezionato la
lunga transizione ad un regime di calcolo interamente retributivo, il sistema pensionistico italiano
tornò alla sua originale impostazione contributiva.
Pur prevedendo una serie di misure compensative, la riforma restò sbilanciata su due punti
principali. Primo, per garantirsi un ampio consenso sociale, essa venne applicata solo ai nuovi
entrati nel mercato del lavoro e ‘pro rata’ ai lavoratori con un’anzianità contributiva inferiore a 18
anni. Secondo, i tagli progressivi avrebbero portato all’atteso risorgere di un grave problema di
adeguatezza della protezione, con tassi di sostituzione molto bassi per autonomi e atipici e la
concreta possibilità della ricomparsa del problema delle ‘pensioni d’annata’ per i beneficiari più
anziani. Per quanto riguarda i professionisti, infine, il decreto 103/1996 permetteva la creazione di
nuovi enti privatizzati imponendo, oltre alla clausole di garanzia già esistenti, l’adozione del
sistema contributivo. Nacquero così cinque nuove casse professionali e due gestioni separate.2
Dopo gli ulteriori interventi del Governo Prodi nel 1997, è solo con la riforma Maroni del 2004-05
che il sistema contributivo e multi-pilastro assume la sua configurazione definitiva [Natali 2008b].
nazionale di previdenza e assistenza veterinari (ENPAV) ; l’Istituto nazionale di previdenza dirigenti aziende
industriali (INPDAI), immediatamente rientrato nel sistema pubblico e fuso con il fondo nazionale dei lavoratori
dipendenti nel 2003, sull’orlo della bancarotta.
2
ENPAB (1997) - Ente Nazionale di previdenza e assistenza a favore dei biologi; EPAP (1999) - Ente di Previdenza ed
Assistenza Pluricategoriale degli Attuari, dei Chimici, dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali, dei Geologi; ENPAPI
(1998) - Ente Nazionale Previdenza Assistenza Infermieri Professionali; EPPI (1997) - Ente di previdenza dei periti
industriali e dei periti industriali laureati; ENPAP (1997) - Ente Nazionale di previdenza e assistenza per gli psicologi;
INPG - 2 (1997) Gestione separata giornalisti; ENPAIA (1998) - Gestione separata agrotecnici.
6
Sotto un rinnovato impulso di coordinamento delle politiche sociali a livello Europeo e di fronte
alla recessione seguita agli attacchi terroristici del 11 settembre 2001, il governo di centro-destra
intervenne sull’età pensionabile sia nelle pensioni di anzianità (portando il minimo anagrafico da 57
a 60 anni) che nel nuovo sistema contributivo, dove l’uscita flessibile venne eliminata e il requisito
elevato a 65 anni (60 per le donne). Insieme ad alcune misure redistributive e compensative (un
contributo di solidarietà sui trattamenti più elevati, una nuova disciplina per la totalizzazione dei
contributi versati a diverse gestioni, l’eliminazione progressiva del divieto di cumulo tra pensione e
reddito da lavoro) e alcuni trattamenti di favore per i gruppi sociali di primario interesse elettorale
(la possibilità per le casse privatizzate e per le regioni di istituire forme pensionistiche
complementari e un generoso incentivo a ritardare il pensionamento nel settore privato) la riforma
contribuì in modo decisivo al consolidamento dei pilastri complementari. In particolare, con il
decreto legislativo 252/2005 – che innovava la disciplina normativa della previdenza
complementare in forma di ‘Testo Unico’ – venne introdotta, dal 2008, la formula del
silenzio/assenso per il trasferimento del TFR maturando ai fondi di secondo pilastro o, in macanza
di questi ultimi, ad un fondo ad hoc creato presso l’INPS.
Con il successivo governo di centro sinistra vennero rimodulati gli effetti più penalizzanti sulle
pensioni di anzianità, attraverso un nuovo sistema di quote, e introdotte nuove misure parametriche
con intenti redistributivi, di rifinanziamento (tra cui l’introduzione di finestre d’uscita anche per la
pensione di vecchiaia) e di maggiore protezione per le carriere discontinue. L’impostazione
contributiva e multi-pilastro venne invece confermata da tre interventi: una nuova disciplina per la
revisione triennale ed automatica dei coefficienti di trasformazione; l’anticipazione al 2007
dell’entrata in vigore del silenzio/assenso, con la creazione di un secondo fondo presso l’INPS
destinato a contenere il TFR delle aziende con più di 50 dipendenti; l’attuazione della direttiva CE
2003/41, per la regolazione e la supervisione dei fondi pensionistici di rilevanza Europea.
Con il ritorno del centro-destra al governo nel 2008 e l’inasprimento della posizione fiscale
dell’Italia in seguito alla crisi finanziaria internazionale e all’esposizione dei debiti sovrani di alcuni
membri dell’Eurozona, nuove misure sono state introdotte nel 2008 e nel 2010. Dopo alcuni
interventi, tutto sommato marginali con il decreto 112/2008, convertito dalla legge 133/2008, nel
2010, il decreto numero 78, convertito con modifiche dalla legge 122/2010, ha introdotto le più
importanti novità: la revisione del meccanismo delle decorrenze (le cosiddette finestre) che prevede
un’unica finestra di uscita individualizzata sia per il pensionamento di anzianità che di vecchiaia; a
decorrere dal 1° gennaio 2015, i requisiti anagrafici per le pensioni di vecchiaia e anzianità
dovranno essere rivisti ogni tre anni (secondo le elaborazioni dell’ISTAT relative alla variazione, su
base triennale, della speranza di vita dei sessantacinquenni); vengono rinnovati i coefficienti di
7
trasformazione del sistema contributivo, anch’essi legati all’aspettativa di vita, che influiscono
invece sull’entità dei benefici previdenziali.
In seguito ad una sentenza della Corte di Giustizia Europea che imputava allo stato italiano una
discriminazione ai danni dei suoi dipendenti, il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia
delle lavoratrici pubbliche viene portato a sessantacinque anni in due scaglioni: viene incrementato
di un anno dal 1° gennaio 2010 e, dopo la chiusura di Bruxelles ad una proposta di transizione più
morbida, di altri quattro anni a partire dal 1° gennaio 2012 [Jessoula 2010]. Vengono inaspriti i
controlli sull’evasione contributiva, sulle pensioni di invalidità e sull’assegno sociale, mentre alcuni
fondi speciali vengono accorpati alla gestione generale dei lavoratori dipendenti.
In conclusione, è possibile affermare che il sistema pensionistico italiano ha subito una notevole
trasformazione, per effetto del gran numero di riforme cui è stato sottoposto tra il 1992 e il 2010.
Indubbiamente, il sistema pubblico ha guadagnato una grande capacità di contenere la spesa
pensionistica e di stabilizzarla rispetto a dinamiche demografiche avverse. Tuttavia, l’obiettivo di
mantenerla attorno al 13 per cento del PIL resta del tutto aleatorio, come dimostrano i rilevamente
degli ultimi anni [vedi NVSP, 2009], a fronte di shock di natura macroeconomica e/o
occupazionale.
Dal punto di vista delle forme e della qualità della protezione fornita, la politica pensionistica
italiana ha perso, lungo il percorso fin qui delineato, alcuni caratteri della sua origine Bismarckiana,
primo fra tutti l’esclusività del pilastro pubblico. Questo si traduce, dal punto di vista dei singoli
individui assicurati nel sistema pubblico, in una riduzione del tasso di sostituzione lordo di un
lavoratore ‘tipico’ (cioè con 37 anni di contributi e una carriera continua) dall’80 per cento degli
anni Novanta ad un 71 per cento attuale e, mantenendo il caso ormai ipotetico di un pensionamento
a 65 anni, ad un 58,7 per cento nel 2050. Inutile aggiungere che queste cifre si abbassano fin quasi a
dimezzarsi tanto più il lavoratore ha vissuto una fase iniziale di precariato o di discontinuità nella
sua carriera [RGS, 2010].
A questo si deve aggiungere che, in termini di pensioni d’annata, si prevede un gap di ricchezza tra
vecchi e nuovi pensionati: a dieci anni dall’uscita dal mercato del lavoro tale impoverimento
relativo si stabilizzerà in media attorno al 20 per cento a partire dal 2030. Raggiunti i 30 anni dal
pensionamento nel 2060, i medesimi individui avranno invece raddoppiato il loro impoverimento
relativo rispetto alla coorte uscente. Entrambi questi fenomeni, ancora più drammatici in termini
assoluti per la loro concentrazione negli strati più poveri della forza lavoro, pongono una chiara
sfida all’adeguatezza e alla sostenibilità degli schemi assistenziali a carico della fiscalità generale,
anche e soprattutto in termini di incentivi all’offerta di lavoro [RGS, 2010].
8
Se questi problemi paiono ancora oggi trascurati, le riforme hanno certamente perseguito molti
obiettivi diversi: stabilizzazione finanziaria, armonizzazione normativa, equità distributiva e
innovazione istituzionale e di governance. Tuttavia, il minimo comun denominatore è ravvisabile
nel trasferimento in capo agli individui di una serie di rischi, individuali e sistemici, legati al
percorso di carriera, al quadro macroeconomico e demografico e al rendimento dei mercati.
Contrariamente alle attese, neppure il rischio politico è stato eliminato: le riforme sottrattive – a
livello puramente previdenziale così come fiscale – si sono susseguite con la stessa frequenza di
quelle espansive e non hanno portato né ad un’innovazione strutturale capace di chiudere il capitolo
previdenziale né alla formazione di nuove aspettative capaci di guidare le scelte individuali di
lavoro, risparmio e investimento. Parimenti, il livello di frammentazione occupazionale resta ancora
elevato, così come forti sono i legami tra alcuni decisori e ben riconoscibili clientele politiche, che
non di rado riescono ad ottenere forme selettive di compensazione, accesso al processo decisionale
e protezione. In altre parole, la dimensione categoriale e di classe è rimasta forte, ma non si realizza
più attraverso la garanzia di mantenimento dello status acquisito, stratificandosi invece nella storia
individuale dei percorsi di carriera. Così, se il sistema italiano ha adottato, durante la fase espansiva
dello stato sociale, un’impostazione categoriale alla socializzazione dei rischi pensionistici, il
medesimo approccio occupazionalista continua oggi ad ispirarne una rinnovata individualizzazione.
Tale sindrome è certamente accentuata dal funzionamento e dall’evoluzione degli schemi di
secondo pilastro, cui ora ci rivolgiamo.
3. Il travagliato sviluppo della previdenza complementare
Come preannunciato, fatta eccezione per il TFR e per un piccolo numero di fondi occupazionali per
i manager delle grandi imprese, delle banche e delle assicurazioni,3 la previdenza complementare in
Italia è praticamente inesistente prima della riforma Amato del 1992. Le stime al 1997 dei fondi pre
esistenti
[riportate
in
Brambilla,
2007]
indicavano
circa
mille
forme
pensionistiche,
prevalentemente a capitalizzazione, a contribuzione definita e gestite mediante contratti di
assicurazione, che interessano più di un milione e mezzo di lavoratori e gestiscono riserve
patrimoniali pari a 18 miliardi di euro, con flussi contributivi annui pari a 3.
Il TFR consiste invece in una prestazione dovuta per legge (l.n. 297/1982 e Codice Civile, art.
2120) al lavoratore dipendente in ogni caso di risoluzione del rapporto di lavoro, finanziata tramite
riserve di cassa da parte datoriale, garantita in ultima istanza da un fondo pubblico e pari alla
3
Il primo fondo pensione italiano di cui si abbia nozioneè istituito dalla ‘Commissione centrale di beneficenza” della
Cariplo nel 1842 [vedi Brambilla 2007].
9
somma del 6,91 per cento di ogni retribuzione annuale, rivalutata ad un tasso pari ai tre quarti
dell’inflazione addizionati del 1,5 per cento. Primo elemento del sistema nato dalla riforma
Brodolini a ripresentare una logica contributiva, seppure con un rendimento garantito, il TFR nasce
all’inizio degli anni Ottanta per superare le forti disparità categoriali e l’insostenibilità finanziaria –
almeno in anni di inflazione elevata - di un istituto preesistente dai forti connotati dinamici e
retributivi: l’indennità di anzianità [vedi Ferrera e Jessoula 2007; Jessoula 2010]. Nel settore
pubblico il ruolo del TFR è parzialmente svolto dai trattamenti di fine servizio: prestazioni collegate
al pensionamento, inizialmente pensate come ammortizzatori del periodo di decorrenza e divenute
molto generose (sia in termini retributivi che dinamici) nel corso della fase espansiva.
Nonostante lo sviluppo limitato della previdenza integrativa, durante il lungo e improduttivo
dibattito riformista degli anni Ottanta, l’idea di affiancare schemi privati alla previdenza pubblica
raccolse un consenso trasversale. In questa direzione si muoveva il più organico progetto di riforma
del decennio, presentato dal Ministro del Lavoro Gianni De Michelis (PSI), così come la proposta
del socialista Formica di utilizzare il neonato TFR per finanziare forme pensionistiche
complementari. Tale proposta raccoglieva il favore dei sindacati, specialmente di CGIL, scettica nei
confronti del TFR sin dai suoi inizi: Trentin si espresse esplicitamente a favore di questa opzione
alla fine del decennio. Tuttavia, l’opposizione della DC - in particolare del suo esperto di questioni
previdenziali Cristofori – in uno scenario di grande rivalità e tensione tra i due poli del
centrosinistra impedì di concretizzare lo slancio riformatore, ostacolato anche dalla necessità di
varare le prime riforme sottrattive in materia di previdenza pubblica [Regonini 1984; 1996;
Jessoula, 2009].
Solo la concentrazione di responsabilità e potere decisionale a favore del primo ministro (e a
discapito della componente democristiana) che segue gli attacchi speculativi e terroristici del 1992 e
già risente degli scandali di Tangentopoli, permise al governo Amato di portare a sintesi le proposte
più promettenti. Alla luce dei consistenti tagli operati dalla riforma del pilastro pubblico, specie a
livello di previsioni di spesa, si rese necessario un vero e proprio salto verso una soluzione multi
pilastro: a questo obiettivo fu destinato il decreto legislativo 124/1993.
Il decreto delineava un nuovo sistema, volontario ma incentivato a livello fiscale, di pensioni di
secondo e terzo pilastro, che riconosceva i fondi preesistenti (pur impedendone l’ulteriore
espansione) e si strutturava in fondi di categoria, cosiddetti chiusi o negoziali, e fondi aperti ad
adesione individuale. In tutti i casi, la legge prevede solo forme a contribuzione definita per i lavori
dipendenti, consentendo l’opzione della prestazione definita ai soli lavoratori autonomi. Il decreto
individuava i destinatari dei nuovi fondi tra i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, e autonomi
10
collettivamente identificati (per categoria, comparto, raggruppamento, anche territoriale,
organizzazione produttiva, area professionale) e definiva come fonti i contratti e accordi collettivi,
anche aziendali, gli accordi fra lavoratori se promossi dalle maggiori organizzazioni sindacali o di
categoria, i regolamenti di enti o aziende al di fuori dei contratti collettivi. I fondi sono
normalmente costituiti come associazioni no profit che affidano a soggetti terzi (società di
intermediazione, imprese assicurative nei rami vita, capitalizzazione e previdenza, enti di
previdenza obbligatoria) la gestione delle risorse o come fondi speciali nell’ambito del patrimonio
di una singola società o ente, con un patrimonio di destinazione separato ed autonomo. I cosiddetti
fondi aperti sono invece istituiti direttamente dai soggetti abilitati alla gestione e sono aperti
all’adesione inviduale di soggetti privi di un fondo negoziale di riferimento.
Il tentativo del governo, per quanto innovativo, fu però condizionato da esigenze di contenimento
dei costi nel breve periodo e finì per esercitare un impatto controproducente, soprattutto dal punto di
vista fiscale: mentre nessun nuovo fondo venne creato, furono proibite nuove iscrizioni ai fondi
preesistenti. Rispetto alla normativa e alla prassi previgente, il decreto introdusse un limite di
contribuzione pari al 10 per cento della retribuzione e nuove tasse: un prelievo del 15 per cento con
credito d’imposta sui contributi, un’imposta dello 0,25 per cento sul patrimonio dei fondi, la
tassazione separata dei rendimenti e un trattamento meno favorevole per le rendite. Inoltre, si
eliminò l’esenzione sui contributi fino al 4 per cento della retribuzione, si limitò la deducibilità dei
contributi del datore di lavoro e si introdusse una serie di rigidità legate all’erogazione delle
prestazioni e all’uso del TFR nel finanziamento. L’unico vero incentivo fiscale, la detrazione ad
aliquota massima del 27 per cento di una somma pari a 3 milioni di lire, risultò infine poco
funzionale perché riprende in toto il regime vigente per i versamenti alle esistenti forme assicurative
di natura previdenziale, senza alcun vero incentivo per favorire i nuovi fondi. Allo stesso modo, la
necessità di smobilitare il TFR per superare il problema del doppio pagamento implicava non solo
la volontarietà dell’adesione (con la conseguenza negativa che lo Stato non è tenuto, ai sensi
dell’articolo 38 della Costituzione, a garantire in ultima istanza le prestazioni) ma anche una corsia
preferenziale per i fondi negoziali, gli unici ai quali il TFR può essere conferito ed unici a godere
delle relative deduzioni fiscali [Brambilla, 2007; Jessoula, 2009].
I problemi suesposti vennero affrontati dalla riforma Dini e dalla riforma Visco. Con la prima (e
con le norme attuative varate nei successivi due anni), la platea dei destinatari fu estesa ai soci e ai
lavoratori delle coperative e quella dei gestori alle società di gestione di fondi comuni, mentre
l’accesso fu reso meno rigido dalla possibilità di aderire collettivamente ai fondi aperti e dalla
cosiddetta portabilità: la possibilità di trasferire tutta la posizione individuale ad altro fondo dopo tre
anni di permanenza ed anche senza cessazione del rapporto di lavoro. Venne inoltre fatto obbligo
11
alle compagnie assicurative di operare solo nel ramo previdenza, omogeneizzando e semplificando
la normativa, anche dal punto di vista fiscale. La governance dei fondi venne consolidata con
l’attribuzione ai fondi del diritto di voto inerente agli investimenti e al potere di indirizzo e controllo
in materia di gestione e amministrazione; vennero inoltre omogeneizzate le modalità di
comunicazione agli iscritti e viene istitutita una Commissione di Viglianza (COVIP) con l’incarico
di garantire la trasparenza e la corretta gestione e amministrazione dei fondi. Infine, fu prevista (ma
non implementata) l’estensione del regime di TFR ai dipendenti pubblici ‘contrattualizzati’, per
favorire la previdenza complementare anche nel settore pubblico [Brambilla, 2007; Jessoula, 2009].
Dal punto di vista fiscale vi furono molte novità. La tassazione sulle prestazioni erogate fu
abbassata al 87,5 per cento e vennero eliminate sia la tassa del 15 per cento sui versamenti
contributivi sia il prelievo fiscale sull’attivo dei fondi, sostuito da un’imposta fissa di 10 milioni
(ridotti a 5 per i primi 5 anni di attività). Il limite massimo di contribuzione fu portato al 10,91 per
cento, pari a tutto il TFR a cui si aggiunse un 2 per cento di contribuzione da parte del lavoratore e
un ammontare equivalente da parte datoriale, deducibili entrambi fino ad un limite di 5 milioni di
lire, eventualmente rivalutabili (per gli autonomi, il limite è pari al 6 per cento, fino allo stesso
massimo). La disciplina fiscale per le assicurazioni non fu invece modificata. A titolo di
risarcimento alle imprese venne infine accantonato un importo pari al 3 per cento del TFR utilizzato
in un fondo in sospensione d’imposta.
Con la riforma Visco, casalinghe e soggetti a carico furono inclusi tra i destinatari e la deducibilità
fiscale dei contributi è portata al 12 per cento del reddito complessivo (ai lavoratori dipendenti si
applicano due limiti addizionali: il limite è pari al doppio del TFR destinato alla previdenza
collettiva entro un massimale annuo di 5.164,57 Euro). L’imposta fissa sul patrimonio dei fondi fu
poi sostituita da un prelievo del 11 per cento sui rendimenti e una tassa equivalente venne
introdotta, come imposta sostitutiva dell’IRPEF, sui rendimenti del TFR, in precedenza tassato
soltanto al momento dell’erogazione.
Il sistema tributario dei fondi si indirizzava così verso il modello tributario ETT, come in Svezia e
Danimarca, in cui i contributi sono esentati ma sia i rendimenti che le prestazioni sono sottoposte a
tassazione. Questa soluzione garantiva entrate fiscali sia nel breve che nel lungo periodo, ma
contribuiva a scoraggiare l’investimento rispetto ad alternative (inclusi fondi concorrenti di altri
paesi comunitari) tassate soltanto al momento dell’erogazione. Inoltre, costituì un’evidente
discriminazione rispetto al trattamento del primo pilastro pubblico, le cui sole prestazioni sono
soggette ad imposizione fiscale [Brambilla, 2007; Jessoula, 2009].
12
Infine, venne riformato il terzo pilastro: viene eliminata la detraibilità delle polizze vita e vengono
introdotte forme pensionistiche inviduali (PIP) mediante assicurazioni nei rami vita e investimento
finanziario (unit-linked), che però presentano regole diverse e sono sottoposte al controllo
dell’ISVAP anziché della COVIP, creando problemi di coordinamento, coerenza e diritto alla
portabilità.
Anche questo intervento non produsse una notevole accelerazione nello sviluppo dei fondi
integrativi: al contrario, il ritmo delle adesioni rallenta marcatamente in una fase di recessione
globale. Il decreto 252/05 riscrisse e razionalizzò il quadro regolativo della previdenza
complementare sotto forma di Testo Unico, favorendo lo smobilizzo del TFR maturando, anche a
favore dei fondi aperti e delle prestazioni individuali, con un meccanismo di silenzio/assenso, con
nuove norme per facilitare l’accesso al credito delle imprese e con un trattamento fiscale più
favorevole. Anche la portabilità del TFR venne rafforzata, abbassando a due anni il periodo minimo
per trasferire ad altro fondo la posizione individuale e garantendo, sebbene solo in alcuni casi, la
contribuzione datoriale anche a forme di terzo pilastro. Come già accennato nel paragrafo
precedente, la platea delle fonti istitutive venne allargata per comprendere le regioni, le casse
privatizzate (con l’obbligo di creare al loro interno una gestione separata) e all’INPS (presso il
quale verranno creati ben due fondi di destinazione per il TFR). Il sistema della previdenza
complementare venne inoltre allargato alle nuove forme contrattuali previste dalla riforma Biagi del
mercato del lavoro, che prima ne erano escluse. Allo stesso tempo, la governance dei fondi fu
potenziata e la COVIP divenne ‘sportello unico’per tutte le richieste e le autorizzazioni.
Nella sua versione originale, la formula del silenzio/assenso, preservando la volontarietà della
previdenza complementare, prevedeva che i lavoratori dipendenti privati decidessero, entro luglio
2008 (o comunque entro 6 mesi dall’assunzione) se conferire il TFR maturando ad un fondo o piano
di propria scelta o mantenerlo presso l’azienda.4 In caso fossero rimasti silenti, il TFR sarebbe stato
automaticamente destinato al fondo negoziale di riferimento (che si impegnava a garantire
rendimenti equivalenti) o, in mancanza di quest’ultimo, ad un fondo ad hoc creato presso l’INPS
(Fondinps). Dal punto di vista fiscale, invece, venne eliminato il tetto alla deducibilità dei contenuti,
mentre le prestazioni vennero assoggettate ad una tassazione separata al 15 per cento, ridotto dello
4
Tale ritardo, poco giustificabile in una prospettiva squisitamente di policy, discende da considerazioni politiche.
Primo, il governo decise di rimandare alla legislatura successiva i punti più delicati dell’intera riforma, sia nel pilastro
pubblico che in quelli complementari. In secondo luogo, all’interno del governo si venne a creare un conflitto tra i
ministri della Lega Nord, e in particolare il Ministro del Welfare Maroni e i ministri del PDL guidati dal premier
Berlusconi. Mentre il primo difese l’accordo trovato con le parti sociali, i secondi presero le parti dell’ANIA
(l’associazione delle imprese assicuratrici) che lamentava le scarse garanzie di portabilità del contributo datoriale negli
schemi di terzo pilastro. A causa di questa spaccatura, e probabilmente anche per dare alle aziende private più tempo
per prepararsi a competere con soluzioni negoziali ancora parzialmente sovraordinate, l’intera implementazione della
riforma venne ritardata di ben quattro anni.
13
0,3 per cento per ogni anno di contribuzione oltre il quindicesimo, fino ad un massimo del 6 per
cento al trentacinquesimo anno. Venne inoltre consentito ai nuovi entranti di dilazionare la
contribuzione alle forme complementari, potendo detrarre durante la fase centrale della propria vita
lavorativa un ammontare pari ai mancati versamenti (rispetto al tetto annuo di 5.164,57 Euro)
eventualmente accumulati durante i primi cinque anni di adesione. Infine, venne permesso ai
pensionati che avessero maturato almeno un anno di contribuzione in un fondo integrativo, di
proseguire la contribuzione volontariamente fino a nuova decisione.
Il nuovo regime del TFR fu in realtà implementato nel quadro della riforma Damiano. Nel
novembre 2006 l’entrata in vigore del meccanismo di silenzio assenso fu anticipata al 2007. Dopo
un processo di consultazione con le parti sociali, la finanziaria per il 2008 riformò immediatamente
la nuova normativa, prevedendo che il TFR maturando fosse trasferito all’INPS anche nel caso in
cui il lavoratore decidesse di tenerlo presso il datore di lavoro, se l’azienda ha almeno 50
dipendenti: in tal caso la quota sarebbe stata accumulata in un secondo fondo INPS (Fondinps 2).
Il decreto legislativo 28/2007, nel recepire la Direttiva IORP (2003/41/EC) ha ulteriormente
ampliato i poteri della COVIP in termini di vigilanza sulle modalità di definizione, comunicazione e
rispetto dei principi delle politiche di investimento dei fondi, della loro governance e della
possibilità di esercitare attività transfrontaliere. In particolare, sono stati previsti, con le relative
sanzioni, limiti agli investimenti giudicati più rischiosi (secondo il principio della ‘persona
prudente’) ed un approccio più severo in tema di conflitto d’interessi [Brambilla, 2007; Jessoula
2011].
In conclusione, dopo l’articolato e complesso percorso di riforma intrapreso a partire dal 1992, il
sistema multi-pilastro italiano ha trovato un’impostazione più comprensiva, specialmente in tema di
governance dei fondi, e più chiara, in particolare dal punto di vista fiscale. Tuttavia, la diffusione
della previdenza complementare è ancora insufficiente e rivela ampie divergenze categoriali in
termini di copertura e qualità della protezione, che purtroppo sono fortemente correlate a quelle
ancora esistenti nel pilastro pubblico. Inoltre, gli assicurati italiani sono comparativamente poco
protetti dai rischi di investimento e di insolvenza. Di questi aspetti ci occuperemo nella prossima
sezione.
14
4. Gli esiti del percorso di riforma sulla previdenza categoriale di secondo pilastro
In seguito alle riforme presentate nelle precedenti sezioni, il sistema mono-pilastro italiano si è
evoluto in uno basato su tre pilastri. All’interno del secondo, quello occupazionale, coesistono fondi
pre-esistenti di iniziativa datoriale, fondi negoziali o ‘chiusi’5 e fondi aperti ad adesione collettiva,
istituiti e gestiti da intermediari finanziari e società assicurative o di gestione del risparmio.
Tralasciando per un attimo i fondi preesistenti, destinati all’esaurimento per l’impossibilità di
accogliere nuovi membri, e le polizze assicurative individuali, va rilevato che i fondi chiusi e fondi
aperti godono delle medesime agevolazioni fiscali e dell’opportunità di ricevere quote di TFR, fatta
eccezione per la corsia preferenziale garantita ai fondi negoziali dalla formula del silenzio assenso e
dalla limitata portabilità del contributo datoriale. Le forme pensionistiche individuali sono invece
attuate mediante l’adesione a fondi pensione aperti o la stipula di polizze individuali pensionistiche
(contratti di assicurazione sulla vita a finalità previdenziale).
In linea con quanto definito da Cesari et al. [2007], i fondi negoziali o chiusi differiscono dai fondi
aperti sotto quattro aspetti principali: 1) essendo tipicamente uno strumento della contrattazione tra
le parti sociali, i loro parametri chiave (quali ad esempio i criteri di partecipazione e le aliquote di
contribuzione) vengono definiti nell’ambito delle negoziazioni tra sindacati e datori; 2) sono
associazioni senza scopo di lucro; 3) normalmente beneficiano di una contribuzione aggiuntiva da
parte del datore di lavoro (per i fondi pensione aperti ciò è possibile solo in caso di adesione
collettiva); 4) non possono gestire direttamente il portafoglio, ma devono avvalersi di soggetti
specializzati.
I dati che mostriamo di seguito, indicano le caratteristiche principali della previdenza integrativa in
Italia. A fronte della ridotta generosità delle prestazioni del pilastro pubblico, la previdenza
integrativa ha iniziato a svilupparsi. La seguente Tabella 1 mostra l’evoluzione degli ultimi anni.
Tabella 1. La previdenza complementare in Italia (secondo e terzo pilastro) al Dicembre
1999/2005/2009
Numero di fondi
1999
2005 2009
1999
Iscritti
2005
2009
1.155.168
407.022
2.040.150
820.385
1999
Risorse*
2005
2009
-
7.615
2.954
Fondi di nuova
istituzione
Fondi Negoziali
Fondi Aperti
5
33
88
43
89
39
76
701.127
136.305
18.757
6.269
Come abbiamo visto, si tratta di fondi basati su ripartizioni di tipo categoriale o professionale, settoriale, territoriale, di
comparto, di azienda o inter-aziendale. Essi vengono promossi da organizzazioni sindacali o di categoria attraverso
contratti o accordi collettivi, oppure istituiti da casse privatizzate, regioni, enti e aziende che operano al di fuori di un
contratto nazionale e perfino da accordi individuali tra lavoratore e datore di lavoro.
15
Fondi
618
455
391
preesistenti
Totale fondi
739
587
506
Polizze
75
individuali (PIP)
Totale
739
581
*risorse destinate alle prestazioni in milioni di Euro
654.625
665.561
673.079
-
32.441
38.943
1.492.057
-
2.227.751
811.199
3.507.361
1.547.923
-
43.010
3.338
63.991
8.966
1.492.057
3.038.950
5.055.284
-
46.348
72.957
fonte: COVIP [2000; 2006; 2010]
Alla fine del decennio (il dato è riferito al 31 dicembre 2009), la previdenza integrativa (costituita
da fondi chiusi o negoziali, fondi aperti e polizze individuali) ha coperto poco più di cinque milioni
di lavoratori (pari al 21% degli occupati). Il dato è quadruplicato nel corso di dieci anni. Anche il
totale delle risorse gestite è aumentato progressivamente, fino a superare i settanta miliardi di euro.
Il processo di cambiamento si è in definitiva realizzato attraverso la parziale riduzione delle
prestazioni del pilastro pubblico e attraverso la stratificazione del sistema (aggiunta di nuovi
pilastri).
La forte frammentazione della previdenza complementare può essere compresa meglio da uno
sguardo disaggregato per tipo di fondo e per categoria, con una particolare attenzione per i fondi
negoziali. A fine 2010 tali fondi erano 38 a cui si aggiunge Fondinps, che annovera 67.000
lavoratori, di cui 38.000 dipendenti del settore privato. Nel prosieguo illustriamo cinque linee di
differenziazione nella protezione complementare: tra lavoratori del settore pubblico e privato; tra
lavoro autonomo e dipendente; tra grandi, piccole e medie imprese; tra le diverse aree del territorio;
tra lavoro tipico e atipico.6
Una prima divisione opera in linea con il cleavage pubblico/privato: nel 2009, i lavoratori privati
coperti da forme integrative erano 3,7 milioni; contro 139.000 lavoratori pubblici. Solo il fondo
Espero per i lavoratori della scuola è stato attivato (vedi Tabella 2. sotto).
Altra linea di divisione riguarda il lavoro autonomo e quello dipendente: il primo molto meno
coperto, con 1,2 milioni di iscritti e concentrato nei fondi aperti e nelle polizze.7 Ulteriore
discriminante è data dalla dimensione delle imprese nel settore privato: le piccole e medie imprese
sono molto meno toccate dal fenomeno dei fondi negoziali (vedi tasso di copertura del Fondo
Fondapi). Il contributo delle imprese sotto i 20 dipendenti, che impiegano quasi il 50 per cento degli
occupati, alla platea degli aderenti non raggiunge il 14 per cento: nel 2005 il tasso di adesione nelle
6
E’ utile ricordare che per molti dei lavoratori non coperti dai fondi integrativi vige, in ogni caso, il TFR. Ciò comporta
possibili vantaggi, determinati dai rendimenti per il momento inferiori della previdenza integrativa, ma anche svantaggi.
Questi ultimi sono legati alla funzione ibrida del TFR che soprattutto in un mercato del lavoro sempre più flessibile
rischia di essere utilizzato per proteggere rispetto a periodi di disoccupazione piuttosto che per fini previdenziali.
7
Nelle pagine successive vedremo come le regole di disciplina della governance dei fondi tenda a produrre una
separazione netta tra diritti degli iscritti ai fondi negoziali o chiusi e iscritti ai fondi aperti.
16
imprese sotto i 50 dipendenti era pari al 5,4 per cento, mentre nello stesso anno le imprese con più
di mille dipendenti occupavano meno del 15 per cento dei lavoratori privati ma il 36 degli aderenti a
fondi negoziali. Tuttavia, alcuni passaggi dell’evoluzione della previdenza negoziale hanno
dimostrato che, per quanto vulnerabili siano le piccole aziende alla perdita del TFR e per quanto
stretti siano i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro, è fondamentale l’azione interveniente del
sindacato (si pensi all’altissimo tasso di adesione conquistato da Fonchim) o delle reti interpersonali
e dell’emulazione [Mefop, 2008]. L’esperienza positiva delle regioni del Nord est, dove i lavoratori
privati e autonomi erano sovrarappresentati in tutte le forme complementari già nel 2001.
Tabella 2. Fondi pensione negoziali (chiusi) per settore occupazionale, 2009
Fondi
Settore
Tasso d’adesione >50%
Fopen
Energia (Gruppo Enel)
Previvolo
Piloti Trasporto Aereo (Alitalia)
Fondenergia
Energia (Gruppo Eni)
Fonchim
Chimica e farmaceutica
Quadri e Capi FIAT
Gruppo Fiat
Concreto
Cemento, calce e gesso
Pegaso
Gas, acqua, elettricità
Fondoposte
(Gruppo Poste)
Gommaplastica
Industria gomma e plastica
Foncer
Industria ceramica
Astri
Autostrade
Tasso d’adesione > 20% <50%
Fondav
Assistenti di volo (Alitalia)
Priamo
Autoferrotranvieri
Cometa
Metalmeccanica
Previcooper
Cooperative commercio
Telemaco
Telecomunicazioni (Gruppo Telecom)
Eurofer
Gruppo Ferrovie dello Stato
Mediafond
Telecomunicazioni (Gruppo Mediaset)
Prevaer
Servizi aeroportuali
Cooperlavoro
Cooperative produzione e lavoro
Tasso d’adesione < 20%
Previambiente
Igiene ambientale
Alifond
Industria alimentare
Arco
Industria arredamento, legno, cemento
Previmoda
Industria tessile, abbigliamento, calzature
Byblos
Industria carta, aziende grafiche, editoriali
Fondapi
Piccole e medie imprese
Previlog
Logistica
Fonte
Commercio, turismo, servizi
Espero
Settore scuola
Prevedi
Settore edile, industria e artigianato
fonte: COVIP [2010]
Tasso di adesione %
88,9
85,9
84,8
82,9
78,5
78,3
68,9
59,3
56,3
55,4
54,5
48,3
47,3
46,5
45,6
44,4
43,9
37,4
32,6
24,8
18,5
17,9
17,5
17,2
14,0
8,8
8,8
8,5
7,1
7,1
Marcati profili di stratificazione sono anche legati al territorio e al tessuto produttivo, in particolare
alla grandezza dell’azienda. I lavoratori meridionali e insulari sono sottorappresentati all’interno
17
degli aderenti ai fondi (20 per cento contro 26 tra gli occupati), il centro Italia vede le due
grandezze allineate al 21 per cento, mentre le aree settentrionali sono sovra-rappresentate (59 contro
54 per cento). La sola Lombardia ospita quasi un quarto degli iscritti e il Nord ovest da solo più di
un terzo, cioè quanto il centro (Emilia Romagna esclusa) e il Meridione insieme. Le regioni
settentrionali raccolgono in tutto il 64 per cento dei titolari di forme negoziali o preesistenti. Inoltre,
è sempre nel Nord che si sono realizzate, con notevole successo, esperienze negoziali di tipo
territoriale: è questo il caso della Valle d’Aosta con Fopadiva e del Trentino con Laborfonds,
entrambi aperti agli impiegati pubblici, dove il tasso di adesione arriva nel complesso al 38 e al 58
per cento rispettivamente [Covip, 2002; 2005; 2011].
Questi indicatori, anche peggiori nel caso dei fondi negoziali, rappresentano un dato di lungo
periodo che il quadro regolativo della previdenza complementare non è riuscito a sovvertire. Già nel
1999, il XVII Rapporto BNL/Centro Einaudi sul risparmio e sui risparmiatori in Italia [BNL e
Centro Einaudi, 1999] aveva individuato simili tendenze, identificando nel dirigente maschio tra i
40 e i 49 anni, settentrionale, laureato e appartenente alla classe di reddito più alta, il profilo più
propenso ad iscriversi ad un fondo pensione. Come è facile attendersi, il profilo meno incline
all’adesione veniva invece trovato nell’esercente meridionale di basso reddito e bassa istruzione,
particolarmente se giovane e donna.
Un caso particolare è poi quello dei lavoratori atipici, per i quali esistono almeno tre fattori di
rischio legati alla previdenza integrativa. Il primo è determinato dal calcolo delle prestazioni in
linea col principio contributivo, in base al quale i trattamenti sono determinati dai contributi versati
durante l’intera carriera lavorativa. In sostanza, carriere interrotte e periodi di bassi salari avranno in
futuro un’incidenza significativa sul livello di protezione fornita. Il secondo fattore riguarda il
livello dei salari, di solito più basso rispetto a quello dei lavoratori tipici. Questo rende difficile
l’accantonamento di risorse per la previdenza integrativa [COVIP, 2010]. Inoltre, i lavoratori atipici
sono privi del TFR che abbiamo detto è stato una fonte fondamentale di risorse da destinare ai fondi
pensione [Jessoula, 2009].
Fanno eccezione in questo senso i lavoratori in somministrazione, introdotti con la Riforma Biagi
del 2003, che godono degli stessi diritti dei lavoratori tipici delle aziende che li impiegano, TFR
incluso. Nell’aprile 2011 ha ricevuto l’autorizzazione della COVIP un fondo ad essi dedicato:
Fontemp. Istituito da Assolavoro e da Felsa/Cisl, Nidil/Cgil e Uil/Cpo a seguito del contratto
collettivo nazionale del luglio 2008, Fontemp è un fondo contributivo a capitalizzazione,
momentaneamente con un solo comparto in linea coi rendimenti del TFR, che si rivolge ai
lavoratori in somministrazione (a tempo determinato e a tempo indeterminato, con la possibilità di
18
rimanere nel fondo anche una volta divenuti lavoratori subordinati) e agli impiegati delle Agenzie
per il lavoro: una platea dei potenziali aderenti di più di 500 mila lavoratori in circa 80 aziende. La
più notevole innovazione introdotta da Fontemp consiste nel fatto che, tenendo conto delle
peculiarità del settore, sia il 4 per cento di contributi aggiuntivi al TFR sia i costi di gestione sono
interamente a carico degli enti bilaterali per il lavoro temporaneo (Ebitemp e Formatemp). In linea
con un trend generalizzato che vede affermarsi il ruolo degli enti bilaterali nel welfare aziendale - si
pensi ad esempio alla formazione permanente – questa innovazione ha l’indubbio potenziale di
aprire una nuova frontiera di opportunità per sostenere le categorie lavorative più deboli nel loro
sforzo previdenziale.
Il dato più preoccupante è il mancato decollo della previdenza integrativa tra i lavoratori più
giovani, coloro che avrebbero dovuto beneficiare del sistema misto pubblico/privato. Alla fine del
2009, gli iscritti con meno di 35 anni sono risultati pari al 21 per cento, circa 11 punti percentuali in
meno rispetto allo stesso dato riferito al complesso dell’occupazione. La maggior parte degli iscritti
appartiene alla fascia di età compresa fra i 35 e i 54 anni: l’incidenza sul totale degli iscritti ai fondi
pensione è del 66 per cento, rispetto al 57 per cento degli occupati. Gli aderenti con almeno 55 anni
sono il 13 per cento, a fronte dell’11 per cento del complesso dell’occupazione [COVIP, 2010].
Un aspetto importante della messa in opera dei fondi pensione è poi legato alla loro governance.
Come affermato da Bripi e Giorgiantonio [2010], è possibile enucleare tre aspetti problematici di
particolare rilevanza: a) il trade-off tra professionalità e rappresentanza all’interno degli organi di
amministrazione e controllo; b) la chiara definizione dei compiti e delle responsabilità degli organi
decisionali e di supervisione; c) la previsione di appropriati meccanismi per la gestione dei conflitti
d’interesse.
Per i fondi negoziali, il consiglio di amministrazione ha il compito di fissare le linee strategiche di
investimento del patrimonio e l’obbligo di affidare la gestione di questo stesso patrimonio a
intermediari finanziari esterni, selezionati mediante procedure regolamentate e pubbliche e vincolati
al mandato. I fondi negoziali hanno poi l’obbligo di utilizzare una banca depositaria esterna, che
svolge un ruolo di tesoriere e di controllore della conformità delle scelte del gestore alla legge, allo
statuto e ai regolamenti. Molto meno rigida la regolamentazione della gestione dei fondi aperti.
Questi ultimi – a cui non è attribuito uno statuto giuridico autonomo rispetto agli intermediari
finanziari che li hanno istituiti – vedono la sovrapposizione dei rispettivi organi di amministrazione
e controllo contabile.8
8
Per quel che concerne l’attività di vigilanza, essa è esercitata dalla Covip sui FPa, mentre i soggetti istitutori sono
sottoposti alla vigilanza delle rispettive autorità di settore (Banca d’Italia, Consob e Isvap).
19
Su ciascuno dei punti richiamati, la disciplina della governance dei fondi in Italia [vedi anche
Jessoula, 2011] appare limitata e foriera di rischi per gli iscritti. Con riferimento alla prima
dimensione (il trade–off tra professionalità e rappresentanza), e nonostante le recenti riforme (d.M.
15 maggio 2007, n. 79), che hanno introdotto requisiti di professionalità più stringenti e hanno
innalzato la percentuale di amministratori dei fondi pensioni negoziali che devono rivestirli, il
possesso degli stessi è tuttora imposto solo a (almeno) la metà dei componenti del CdA. Ancora più
deficitaria la situazione dei fondi aperti: la soglia minima di 500 aderenti in via collettiva, prevista
ai fini dell’integrazione della composizione dell’organismo di sorveglianza (costituito, di regola, da
due membri designati dai soggetti istitutori), con due rappresentanti nominati dall’impresa e dai
lavoratori, produce nuove fonti di disuguaglianze [ibidem, 18-19].
Con riferimento alla seconda dimensione (definizione dei compiti e delle responsabilità degli organi
decisionali e di supervisione), nei fondi negoziali le competenze del responsabile del fondo, cui
sono attribuite funzioni di supervisione sull’operato del consiglio di amministrazione, si
sovrappongono – in alcuni casi – a quelle del soggetto preposto alla funzione di controllo interno. E
spesso, con riferimento alla terza dimensione richiamata del conflitto d’interesse tra gestori e
controllori, la legge prevede che la qualifica di responsabile possa essere rivestita da un membro del
CdA o dal direttore del fondo. Ancora meno stringenti i vincoli per i fondi aperti.
Come richiamato in precedenza, la diversa disciplina tra fondi negoziali e aperti tende ad accentuare
il diverso trattamento dei lavoratori dipendenti (soprattutto del settore privato) – sottoposti a
maggiori garanzie relative alla governance – da un lato; e dei lavoratori autonomi (maggiormente
rappresentati nei fondi aperti e dunque sottoposti a minori garanzie) dall’altro [vedi COVIP, 2010].
E’ dunque evidente che l’implementazione delle riforme e del nuovo paradigma multi-pilastro è
stata parziale. Nuovi elementi di frammentazione dei lavoratori hanno portato a uno sviluppo
limitato e fortemente diversificato. E’ facile individuare nelle caratteristiche peculiari del sistema
produttivo e del lavoro in Italia, una delle cause di tale evoluzione. Il rilievo del tutto particolare
della piccola imprenditoria e del lavoro autonomo, al pari delle difficoltà del bilancio pubblico
hanno sicuramente segnato la nascita della previdenza complementare in Italia. Al tempo stesso, la
progressiva frammentazione dei diritti previdenziali integrativi è coerente con il nuovo sistema a
più pilastri.
4. Discussione e conclusioni
Come ricordato dal presente paper, il sistema pensionistico italiano ha subito nel corso degli ultimi
decenni importanti riforme. Il contenimento della spesa previdenziale pubblica è andato di pari
20
passo con l’individualizzazione dei rischi legati alla vecchiaia e con la riaffermazione del principio
assicurativo. Per molti versi, le pensioni hanno rappresentato il terreno principale di
sperimentazione di un nuovo welfare mix [vedi Ascoli e Ranci, 2002] (coerente con il paradigma
multi-pilastro).
Il ‘secondo welfare’ ha assunto nel settore pensionistico le caratteristiche proprie dei fondi pensione
(di tipo negoziale e aperto). Questi sono cresciuti in modo significativo negli ultimi anni, sia in
termini di copertura sia di patrimonio gestito. In linea con il paradigma multi-pilastro, infatti, a
fronte del contenimento della spesa pubblica e l’attesa riduzione delle prestazioni provenienti dal
pilastro pubblico, la previdenza complementare si è sviluppata con il compito di mitigare gli effetti
dei tagli alle prestazioni pubbliche.
Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di illustrare il percorso di riforma in Italia, il contenuto
della nuova legislazione, e i principali effetti in termini di copertura dei rischi legati alla vecchiaia.
Nonostante l’espansione del ‘secondo welfare’ nell’ambito pensionistico, la storia degli ultimi anni
appare quella di un implementation gap e della nascita di un pension mix che, accanto a elementi di
forza, propone evidenti criticità. I principali limiti derivano dalla difficile implementazione del
nuovo paradigma in una realtà economico, finanziaria e produttiva del tutto peculiare. In primis, la
previdenza integrativa si è affermata in una fase di crisi di bilancio. Ciò ha determinato il mancato
lancio dei fondi pensione nel settore del pubblico impiego (a causa dei costi che tale lancio avrebbe
determinato sui conti pubblici). In secondo luogo, le particolarità del mercato del lavoro e della
struttura produttiva hanno contribuito alla crescita ‘a macchia di leopardo’ dei fondi integrativi. I
lavoratori dipendenti sono di norma maggiormente coperti dai fondi integrativi rispetto al lavoro
autonomo. E all’interno del lavoro dipendente, i lavoratori delle grandi imprese sono maggiormente
protetti rispetto a quelli delle piccole e medie imprese. Altre disuguaglianze riguardano i lavoratori
tipici e atipici e le giovani generazioni che, più bisognose dell’apporto dei fondi pensione, sono in
realtà iscritti in numero minore rispetto alle coorti più anziane. Accanto al diverso sviluppo dei
fondi, vi è poi la questione della disciplina della governance. La legislazione in Italia appare ancora
oggi deficitaria e foriera di ulteriori differenze di trattamento tra categorie di lavoratori: a seconda,
ad esempio, che essi siano iscritti a fondi negoziali oppure a fondi aperti.
Se tali elementi appaiono legati alle peculiarità del sistema economico e del lavoro in Italia, altre
tensioni appaiono essere insite nel nuovo paradigma. L’estensione del ‘secondo welfare’ in campo
pensionistico appare infatti foriera di una maggiore frammentazione della protezione contro i rischi
legati alla vecchiaia. Gli spazi di solidarietà si restringono e diritti ed obblighi previdenziali tendono
ad essere definiti a livello d’impresa, di settore produttivo e/o di categorie sociali e di età.
21
Bibliografia:
Amato, G. e Marè, M.
2007
Il Gioco delle Pensioni: Rien ne va Plus?, Bologna, Il Mulino.
Ascoli, U. e Ranci, C. (a cura di)
2002
Dilemmas of the Welfare Mix: The New Structure of Welfare in an Era of Privatization, New York:
Kluwer Academic.
Berton, F., Richiardi, M. e Sacchi, S.
2009
Flex-insecurity. Perché in Italia la flessibilità diventa precarietà, Bologna, Il Mulino.
BNL e Centro Einaudi
1999
XVII Rapporto sul Risparmio e sui Risparmiatori in Italia, Milano, Guerini e Associati Editore.
Bönker, F.
2005
‘Changing ideas on pensions: accounting for differences in the spread of the multipillar paradigm in
five EU social insurance countries.’ In P. Taylor-Gooby (a cura di) Ideas and Welfare State Reform
in Western Europe, Palgrave Macmillan, pagg. 81–99.
Brambilla, A.
2007
Capire i Fondi Pensione. Nuova previdenza complementare, TFR e pensioni pubbliche degli italiani,
Milano, Il Sole 24 Ore.
Bripi, F. e Giorgiantonio, C.
2010
La governance dei fondi pensione in Italia: miglioramenti possibili, Roma, Banca d’Italia.
Castellino, O.
1981
Il Labirinto Delle Pensioni, Bologna: Il Mulino.
Cazzola, G.
1995
Le nuove pensioni degli italiani.,Bologna, Il Mulino
Cesari, R., Grande, G. e Panetta, F.
2007
La previdenza complementare in Italia: caratteristiche, sviluppo e opportunità per i lavoratori,
Roma, Banca d’Italia.
Covip (Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione)
2000
Relazione annuale 1999, Roma, Covip.
2002
Relazione annuale 2001, Roma, Covip.
2005
Relazione annuale 2004, Roma, Covip.
2006
Relazione annuale 2005, Roma, Covip.
2010
Relazione annuale 2009, Roma, Covip.
2011
Relazione annuale 2010, Roma, Covip.
Ferrera, M.
1984
Il Welfare State in Italia, Bologna, Il Mulino
1993
Modelli di solidarietà, Bologna, Il Mulino.
1997
The Uncertain future of the Italian welfare state, in ‘West European Politics’, 20/1, pp. 231-249.
1998
Le trappole del welfare, Bologna: Il Mulino.
Ferrera, M. e Gualmini, E.
22
2004
Rescued by Europe? Social and Labour Market reforms in Italy from Maastricht to Berlusconi,
Amsterdam, Amsterdam University Press.
Ferrera, M. e Jessoula, M.
2007
Italy: a narrow gate for path-shift, in Anderson, K, E. Immergut e I. Schulze (a cura di), Handbook
of West European Pension Politics, Oxford, Oxford University Press.
Hacker, J. S.
2004 ‘Privatizing risk without privatizing the welfare state: The hidden politics of social policy
retrenchment in the United States.’ American Political Science Review, 98(02), pagg.243–260.
Jessoula, M.
2009
La Politica Pensionistica, Bologna, Il Mulino.
2010
Ricalibrare il welfare state italiano: una politics troppo debole per una strategia di policy necessaria?,
in M. Giuliani e E. Jones (a cura di) Politica in Italia 2009, Bologna, Il Mulino.
2011
‘Italy: From Bismarckian Pensions to Multipillarization under Adverse Conditions’ in B. Ebbinghaus
(a cura di) The Varieties of Pension Governance. Pension Privatization in Europe., New York,
Oxford University Press.
Lapadula, B. e Patriarca, S.
1995
La rivoluzione delle pensioni, Roma: Ediesse.
Marano, A. e D’Antoni, M.
2008
‘L’incertezza pervasiva. La tendenza al trasferimento dei rischi su individui e famiglie.’ In F.R.
Pizzuti (a cura di) Rapporto sullo Stato Sociale 2008, Roma, UTET Università.
Mefop (Società per lo Sviluppo del Mercato dei Fondi Pensione)
2008
Indagine Conoscitiva su un Gruppo di 300 aderenti e 300 non aderenti alle Forme Pensionistiche
Complementari, Comunicazione interna non pubblicata, Roma, Aprile 2010.
Ministero del Welfare
2002
Rapporto di Strategia Nazionale sulle Pensioni, Roma, Ministero del Welfare.
Natali, D.
2007
Vincitori e Perdenti. Come cambiano le pensioni in Europa e in Italia, Bologna, Il Mulino.
2008a Pensions in Europe, European Pensions, Bruxelles, PIE-Peter Lang.
2008b Le riforme pensionistiche in Italia : un’analisi storica dei ‘giochi di solidarietà’, in Rivista delle
Politiche Sociali, n.4/08, pp. 139-170.
NVSP (Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale)
2009
Gli Andamenti Finanziari del Sistema Pensionistico Obbligatorio, Roma, Ministero del Lavoro,
della Salute e delle Politiche Sociali.
OECD (Organization for Economic Cooperation and Development)
2011
Pensions at a Glance. Retirement Income Systems in OECD and G20 Countries, Parigi, OECD.
Palier, B. (a cura di)
2010
A Long Goodbye to Bismarck?, Amsterdam, Amsterdam University Press.
Pizzuti, F.R.
1998
‘Pension Reform and Economic Policy Constraints in Italy.’ Labour,, 12, pagg. 45–66.
Regonini, G.
1984
‘Il sistema pensionistico: risorse e vincoli’, in U. Ascoli (a cura di) Welfare state all’italiana, Roma:
La Terza.
23
1996
‘Partiti e Pensioni: Legami mancanti’, in M. Cotta and P. Isernia Il Gigante dai Piedi di Argilla,
Bologna, Il Mulino, 73-137.
Ranci, C.
2002
Le Nuove Disuguaglianze Sociali in Italia, Bologna, Il Mulino.
RGS (Ragioneria Generale dello Stato)
2010
Le Tendenze di Medio-lungo Periodo del Sistema Pensionistico e Socio-sanitario. Rapporto n.12,
Roma, Ministero dell’Economia e delle Finanze.
24