Le pensioni `categoriali` in Italia: legislazione e messa in opera del
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Le pensioni `categoriali` in Italia: legislazione e messa in opera del
Le pensioni ‘categoriali’ in Italia: legislazione e messa in opera del nuovo sistema multi-pilastro David Natali Università di Bologna-Forlì e Osservatorio sociale europeo, Bruxelles e Furio Stamati Istituto universitario europeo, Fiesole Versione preliminare Abstract Il sistema pensionistico in Italia ha subito importanti innovazioni nel corso degli ultimi vent’anni. Le riforme introdotte a partire dagli anni novanta hanno infatti prodotto una profonda ricalibratura. Il pilastro pubblico della previdenza è stato sottoposto a misure di contenimento della spesa, coerenti con la riduzione progressiva della protezione offerta dallo stato. In parallelo, il legislatore ha cercato di sviluppare la previdenza integrativa al fine di garantire una protezione adeguata del rischio vecchiaia (ed affini) anche in una fase di austerità. Il presente paper illustra i tratti salienti di questa ricalibratura, concentrandosi in particolare sullo sviluppo della previdenza occupazionale. Mentre i tassi di copertura dei fondi pensione negoziali sono aumentati nel corso degli anni, tale espansione si è realizzata in misura fortemente diseguale. L’accesso alle prestazioni, il quantum della protezione offerta e le regole di gestione si sono fortemente diversificate tra settori produttivi, aziende di grandi e piccole dimensioni e, ovviamente, sulla base della natura del contratto di lavoro (autonomo o dipendente). Il paper ha l’obiettivo di contribuire all’analisi delle principali direttrici di cambiamento e le loro implicazioni in termini di accesso alle prestazioni del secondo welfare. Particolare attenzione è posta ai processi di ridefinizione degli assetti organizzativi e istituzionali conseguenti del welfare ‘categoriale’, agli attori coinvolti, agli interessi in gioco e alle dinamiche redistributive in atto. Contatto David Natali Facoltà di Scienze Politiche R. Ruffilli, Università di Bologna [email protected] Sessione: Il Secondo Welfare in Italia: Sfide e Prospettive Coordinatori: Ugo Ascoli (Università Politecnica delle Marche) e Franca Maino (Università degli Studi di Milano) 1 Introduzione Il sistema pensionistico italiano ha subito nel corso degli ultimi decenni importanti riforme. Il contenimento della spesa previdenziale pubblica è andato di pari passo con l’individualizzazione dei rischi legati alla vecchiaia e con la riaffermazione del principio assicurativo [vedi Hacker, 2004; Marano e D’Antoni, 2008]. Per molti versi, le pensioni hanno rappresentato il terreno principale di sperimentazione di un nuovo pension mix. Si tratta dell’articolazione dei pilastri pensionistici (primo pilastro pubblico affiancato dalle parti sociali e dal mercato). Lo sviluppo della previdenza integrativa è infatti legato alla necessità – avanzata dai decisori politici – di meglio attivare il ‘secondo welfare’ in campo previdenziale al fine di colmare il gap di protezione determinato dal contenimento della spesa pubblica [Amato e Marè, 2007; Ministero del Welfare, 2002]. Il presente paper cerca di ricostruire il percorso attraverso cui il nuovo paradigma ‘multi-pilastro’ è stato definito ed implementato negli ultimi decenni. Il focus è dunque centrato sul policy output e outcome del processo di innovazione. In particolare, cercheremo di illustrare i principali passaggi legislativi che hanno portato alla ricalibratura del sistema pensionistico in Italia. Ci soffermeremo successivamente sull’analisi della concreta implementazione delle riforme e lo spazio guadagnato fino ad oggi dalla previdenza complementare. Al di là degli obiettivi sanciti dai decisori politici, il nuovo assetto ‘multi-pilastro’ ha fatto fatica ad affermarsi. Molti sono infatti i problemi incontrati per un pieno sviluppo dei fondi pensioni e delle polizze individuali. In altre parole, la riforma delle pensioni appare come un caso di implementation gap: la previdenza integrativa copre a tutt’oggi una minoranza di lavoratori, con forti differenze tra settori occupazionali, classi di età e genere. Ciò porta ad evidenziare uno dei problemi più evidenti legati al nuovo pension mix basato su di un ruolo più limitato dello stato: le disuguaglianze nel trattamento dei rischi sociali aumentano all’aumentare del ruolo del secondo welfare [vedi Covip, 2010; Berton, Richiardi e Sacchi, 2009]. La prima sezione introduce il lettore al sistema pensionistico italiano e ai principali problemi della sua evoluzione di lungo termine. La seconda sezione fa riferimento al complessivo percorso delle riforme previdenziali, i cui aspetti più rilevanti per la previdenza complementare verranno ripresi nella sezione successiva. La quarta sezione del paper si sofferma sugli outcome delle riforme in termini di sviluppo del secondo pilastro e della qualità della protezione (generosità, copertura, governance) da esso fornita a varie categorie: dipendenti privati e pubblici, così come autonomi, parasubordinati e professionisti. Saranno poi richiamati i principali problemi legati alla governance dei fondi pensione. La quinta sezione conclude, avanzando alcune chiavi di lettura per comprendere la direzione del policy change previdenziale italiano. Cercheremo in particolare di analizzare gli effetti del nuovo pension mix. Da un lato, il maggior ruolo della previdenza integrativa può in effetti 2 ridurre la pressione finanziaria sulle pensioni pubbliche; dall’altro, il ridotto ruolo della previdenza pubblica e il primo sviluppo dei fondi complementari rischia di frammentare la protezione dei rischi legati alla vecchiaia, riducendo gli spazi di solidarietà e affermando nuovi cleavage socioeconomici. 1. Il sistema pensionistico in Italia prima delle riforme: i tratti salienti Come negli altri paesi caratterizzati da un welfare state di tipo Sud-Europeo – Grecia, Spagna, Portogallo – la politica pensionistica occupa una quota preponderante della spesa sociale italiana: circa il 66 per cento, approssimativamente pari ad un terzo della spesa pubblica e al 16 per cento del prodotto interno lordo [vedi Eurostat; OECD, 2011]. Questo sbilanciamento previdenziale nell’assetto welfaristico del paese affonda le sue radici nella sua originaria impostazione Bismarckiana, che ha visto, prima dell’introduzione del suffragio universale maschile, la concessione da parte dell’elite liberale di una serie di istituti di assicurazione sociale di matrice occupazionale. Tale impostazione, sfidata più volte durante il periodo repubblicano dall’alternativa universalistica di una pensione di cittadinanza, ha saputo creare una vasta coalizione politica e categoriale in suo favore, assumendo però tratti particolaristico-clientelari, irresponsabilmente espansivi e penalizzanti per i profili professionali più deboli [Natali, 2007; Jessoula, 2009]. Lo stato sociale venutosi a formare tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta del secolo scorso presentava, in conseguenza di queste dinamiche, problemi di equità, efficacia e sostenibilità finanziaria. Il funzionamento del sistema nel suo complesso era caratterizzato da una duplice distorsione, funzionale e distributiva, che ha contribuito alla sovraprotezione dei tradizionali rischi sociali associati alla carriera tipica del lavoratore fordista [Ferrera 1984; 1993; 1997]. Dall’altro ha creato un cumulativo deficit di protezione a sfavore di soggetti deboli sul mercato del lavoro e/o colpiti da rischi sociali cosiddetti ‘nuovi’: i lavoratori atipici e precari, così come i soggetti gravati da responsabilità di cura nella sfera domestica [Ranci, 2002; Berton, Richiardi e Sacchi, 2009]. Per effetto della contraddizione tra l’impostazione fortemente lavorista degli schemi previdenziali e la necessità di protezione dei soggetti dipendenti dal capofamiglia, il concetto stesso di pensione è stato ‘stiracchiato’ in una serie di istituti di natura prevalentemente assistenziale: pensioni di invalidità, di reversibilità, minime e sociali [Regonini, 1996]. Nel contempo, l’iniziale impostazione occupazionalista di stampo Bismarckiano è stata esasperata dal grande peso dello stato nella gestione dell’economia, dal dualismo crescente tra grande industria e piccole imprese, dalla forte polarizzazione del sistema politico e dalle disparità economiche e sociali tra un nord ormai postindustriale ed un meridione persistentemente arretrato. 3 Conseguentemente, il sistema pensionistico italiano alla fine degli anni Ottanta rappresentava un ‘labirinto’ di 47 fondi e casse professionali, ognuno con regole specifiche, concentrati in un singolo pilastro pubblico con un ruolo limitato per la previdenza integrativa. Il sistema, retributivo a ripartizione, era comparativamente molto generoso. Risultato di una serie di progressive espansioni, spesso frutto di esplicite rivendicazioni categoriali, esso si componeva di una pensione sociale di base, di una pensione da lavoro e di una buonuscita per i dipendenti pubblici e privati. Infine, data la generosità del sistema pubblico, sul versante occupazionale esistevano solo due istituti degni di rilievo: il trattamento di fine rapporto (TFR) dei dipendenti privati (cui corrisponde un’identità di buonuscita per i dipendenti pubblici) e un ristretto numero di fondi occupazionali per le grandi banche e aziende di stato, per le imprese telefoniche e assicurative e per alcune cooperative [Jessoula 2009]. All’interno di questo sistema, le disparità di trattamento erano evidenti, così come evidente era la particolare vulnerabilità di alcune casse (come nel caso dei coltivatori diretti e dei lavoratori dello spettacolo) ai processi di invecchiamento demografico e ristrutturazione industriale. Già agli inizi degli anni ottanta la seminale analisi di Onorato Castellino [1981] aveva indicato le enormi differenze in termini di ritorno finanziario sulla contribuzione tra le pensioni dei dipendenti privati e pubblici, destinate a creare conseguenze anche sul piano della sostenibilità finanziaria. Differenze categoriali caratterizzano anche i requisiti di quiescienza. La modalità di uscita più comune, la pensione di anzianità, permetteva il pensionamento a 35 anni per i lavoratori privati e (dal 1990) autonomi; mentre nel settore pubblico erano sufficienti 20-25 anni, 15 per le dipendenti statali sposate o con figli (titolari delle cosiddette ‘pensioni baby’). Di conseguenza, l’età media di pensionamento era circa 55 anni. Il tema della riforma delle pensioni si pose a partire dagli anni Ottanta. Se da un lato vi fu una trasversale consapevolezza delle sfavorevoli prospettive finanziarie del sistema, dall’altro una marcata difficoltà a sostenere i costi politici di un contenimento della spesa pensionistica: i deficit di protezione in altri campi della sicurezza sociale e l’impostazione lavorista del sistema Bismarckiano rendevano le pensioni non solo popolari presso i ceti medi e le classi lavoratrici, ma anche indispensabili per la sussistenza di molti nuclei familiari [Ferrera 1998]. E’ in questo contesto di grandi contraddizioni che maturano sia l’introduzione del TFR (1982) che l’estensione agli autonomi della formula retributiva (1990) [Natali 2008]. 4 2. Il percorso delle riforme pensionistiche e i suoi effetti sul primo pilastro Il quadro così delineato divenne finanziariamente e politicamente insostenibile di fronte alle trasformazioni degli anni Novanta, che aprirono la strada ad un’inedita stagione di riforme. Nel 1992, il governo Amato fronteggiò lo spettro della crisi valutaria e di bilancio. Ripartendo dai progetti e dalle proposte più consensuali dei tentativi riformisti del decennio precedente, il nuovo governo riuscì a ridurre drasticamente la spesa previdenziale corrente e attesa. Per tutti i lavoratori con meno di 15 anni di carriera, vennero inaspriti i requisiti anagrafici e di anzianità per l’ottenimento della pensione di vecchiaia, le modalità calcolo della retribuzione pensionabile e i termini di accesso alla pensione di anzianità nel pubblico impiego. Al tempo stesso, l’indicizzazione delle pensioni alla sola inflazione, il divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro e, finalmente, la creazione di un quadro normativo per le pensioni occupazionali (di cui si tratterà nella prossima sezione) e individuali provano, con scarso successo, ad incentivare lo sviluppo di una previdenza privata, non più meramente integrativa ma a pieno titolo ‘complementare’ [Natali 2007]. E’ in questa fase che viene implementato il nuovo paradigma di policy. Sulla base delle riflessioni del decennio precedente, si matura l’idea del progressivo passaggio dal sistema mono-pilastro (tutto centrato sulla previdenza pubblica) al sistema multi-pilastro (basato sulla compresenza delle pensioni pubbliche e della previdenza integrativa). In linea con la letteratura italiana [Lapadula e Patriarca 1995] e comparata [Bönker, 2005], il nuovo paradigma si definisce sulla base delle esigenze della finanza pubblica (ridurre la spesa pensionistica), della necessità delle parti sociali di individuare nuove risorse organizzative e di legittimità, e di individuare nuove forme di ‘democratizzazione’ del sistema economico e finanziario. La riforma portò a consistenti risparmi, ma apparve da un lato troppo onerosa per i futuri pensionati e dall’altro ancora insufficiente ad una completa ridefinizione del sistema. L’allungamento del periodo di calcolo per la retribuzione pensionabile, unito alla bassa rivalutazione garantita ai contributi, portò il governo tecnico di Ciampi ad alleviare le disposizioni più penalizzanti [Pizzuti, 1998]. D’altro canto, il deficit persistente della spesa pensionistica (e delle casse degli autonomi in particolare) e la mancata espansione dei pilastri complementari spinsero il governo Berlusconi ad un nuovo intervento nel 1994 [Cazzola, 1995]. Innanzitutto, venne creato un quadro regolativo per la completa privatizzazione delle casse professionali1 (d.l. 509/1994), che ne garantiva l’autonomia Vennero così privatizzati 16 enti: 2 sostitutivi dell’assicurazione generale obbligatoria (Inpdai e Inpgi), due integrativi (Enasarco e Fasc), due enti diversi (Enpaia e Onaosi) e dieci casse pensioni: la Cassa nazionale di previdenza e assistenza avvocati e procuratori legali; la Cassa di previdenza tra dottori commercialisti; la Cassa nazionale previdenza e assistenza geometri; la Cassa nazionale previdenza e assistenza ingegneri e architetti liberi professionisti; la Cassa nazionale del notariato; la Cassa nazionale previdenza e assistenza ragionieri e periti commerciali; l’Ente nazionale di previdenza e assistenza consulenti del lavoro (ENPACL); l’Ente nazionale di previdenza e assistenza medici (ENPAM); l’Ente nazionale di previdenza e assistenza farmacisti (ENPAF); l’Ente 5 gestionale, organizzativa e contabile, rivolgendosi così ad uno strato sociale molto vicino a tutti i partiti del centro-destra, Alcune norme transitorie previste dalla Amato vennero inasprite, preludendo alla presentazione di un progetto di riforma più organico, che prevede disincentivi al pensionamento anticipato, una riduzione generalizzata dell’ammontare dei benefici pensionistici ed un’ulteriore riduzione dell’indicizzazione, sul quale però il governo si vide negare la fiducia dall’opposizione interna della Lega. Il gabinetto tecnico seguito alla caduta del governo Berlusconi, e guidato dall’ex ministro del Tesoro Lamberto Dini, varò la più importante riforma del sistema pubblico dal 1969, partendo da una bozza preparata nell’ambito del centro-sinistra e fatta propria dalla CGIL. La nuova riforma vide l’unificazione dei regimi dei dipendenti privati e pubblici e dei lavoratori autonomi in un unico schema contributivo, sempre finanziato a ripartizione ma basato su di una nuova formula. Il sistema, cosiddetto a contribuzione nozionale definita, lega le pensioni future ai contributi effettivamente versati e agli andamenti economici e demografici, garantendo un tasso di rendimento uguale per tutti i lavoratori e addirittura la possibilità di un’uscita flessibile dal mercato del lavoro, individuata tra i 57 e i 65 anni. Trentasei anni dopo la rifroma Brodolini, che aveva perfezionato la lunga transizione ad un regime di calcolo interamente retributivo, il sistema pensionistico italiano tornò alla sua originale impostazione contributiva. Pur prevedendo una serie di misure compensative, la riforma restò sbilanciata su due punti principali. Primo, per garantirsi un ampio consenso sociale, essa venne applicata solo ai nuovi entrati nel mercato del lavoro e ‘pro rata’ ai lavoratori con un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni. Secondo, i tagli progressivi avrebbero portato all’atteso risorgere di un grave problema di adeguatezza della protezione, con tassi di sostituzione molto bassi per autonomi e atipici e la concreta possibilità della ricomparsa del problema delle ‘pensioni d’annata’ per i beneficiari più anziani. Per quanto riguarda i professionisti, infine, il decreto 103/1996 permetteva la creazione di nuovi enti privatizzati imponendo, oltre alla clausole di garanzia già esistenti, l’adozione del sistema contributivo. Nacquero così cinque nuove casse professionali e due gestioni separate.2 Dopo gli ulteriori interventi del Governo Prodi nel 1997, è solo con la riforma Maroni del 2004-05 che il sistema contributivo e multi-pilastro assume la sua configurazione definitiva [Natali 2008b]. nazionale di previdenza e assistenza veterinari (ENPAV) ; l’Istituto nazionale di previdenza dirigenti aziende industriali (INPDAI), immediatamente rientrato nel sistema pubblico e fuso con il fondo nazionale dei lavoratori dipendenti nel 2003, sull’orlo della bancarotta. 2 ENPAB (1997) - Ente Nazionale di previdenza e assistenza a favore dei biologi; EPAP (1999) - Ente di Previdenza ed Assistenza Pluricategoriale degli Attuari, dei Chimici, dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali, dei Geologi; ENPAPI (1998) - Ente Nazionale Previdenza Assistenza Infermieri Professionali; EPPI (1997) - Ente di previdenza dei periti industriali e dei periti industriali laureati; ENPAP (1997) - Ente Nazionale di previdenza e assistenza per gli psicologi; INPG - 2 (1997) Gestione separata giornalisti; ENPAIA (1998) - Gestione separata agrotecnici. 6 Sotto un rinnovato impulso di coordinamento delle politiche sociali a livello Europeo e di fronte alla recessione seguita agli attacchi terroristici del 11 settembre 2001, il governo di centro-destra intervenne sull’età pensionabile sia nelle pensioni di anzianità (portando il minimo anagrafico da 57 a 60 anni) che nel nuovo sistema contributivo, dove l’uscita flessibile venne eliminata e il requisito elevato a 65 anni (60 per le donne). Insieme ad alcune misure redistributive e compensative (un contributo di solidarietà sui trattamenti più elevati, una nuova disciplina per la totalizzazione dei contributi versati a diverse gestioni, l’eliminazione progressiva del divieto di cumulo tra pensione e reddito da lavoro) e alcuni trattamenti di favore per i gruppi sociali di primario interesse elettorale (la possibilità per le casse privatizzate e per le regioni di istituire forme pensionistiche complementari e un generoso incentivo a ritardare il pensionamento nel settore privato) la riforma contribuì in modo decisivo al consolidamento dei pilastri complementari. In particolare, con il decreto legislativo 252/2005 – che innovava la disciplina normativa della previdenza complementare in forma di ‘Testo Unico’ – venne introdotta, dal 2008, la formula del silenzio/assenso per il trasferimento del TFR maturando ai fondi di secondo pilastro o, in macanza di questi ultimi, ad un fondo ad hoc creato presso l’INPS. Con il successivo governo di centro sinistra vennero rimodulati gli effetti più penalizzanti sulle pensioni di anzianità, attraverso un nuovo sistema di quote, e introdotte nuove misure parametriche con intenti redistributivi, di rifinanziamento (tra cui l’introduzione di finestre d’uscita anche per la pensione di vecchiaia) e di maggiore protezione per le carriere discontinue. L’impostazione contributiva e multi-pilastro venne invece confermata da tre interventi: una nuova disciplina per la revisione triennale ed automatica dei coefficienti di trasformazione; l’anticipazione al 2007 dell’entrata in vigore del silenzio/assenso, con la creazione di un secondo fondo presso l’INPS destinato a contenere il TFR delle aziende con più di 50 dipendenti; l’attuazione della direttiva CE 2003/41, per la regolazione e la supervisione dei fondi pensionistici di rilevanza Europea. Con il ritorno del centro-destra al governo nel 2008 e l’inasprimento della posizione fiscale dell’Italia in seguito alla crisi finanziaria internazionale e all’esposizione dei debiti sovrani di alcuni membri dell’Eurozona, nuove misure sono state introdotte nel 2008 e nel 2010. Dopo alcuni interventi, tutto sommato marginali con il decreto 112/2008, convertito dalla legge 133/2008, nel 2010, il decreto numero 78, convertito con modifiche dalla legge 122/2010, ha introdotto le più importanti novità: la revisione del meccanismo delle decorrenze (le cosiddette finestre) che prevede un’unica finestra di uscita individualizzata sia per il pensionamento di anzianità che di vecchiaia; a decorrere dal 1° gennaio 2015, i requisiti anagrafici per le pensioni di vecchiaia e anzianità dovranno essere rivisti ogni tre anni (secondo le elaborazioni dell’ISTAT relative alla variazione, su base triennale, della speranza di vita dei sessantacinquenni); vengono rinnovati i coefficienti di 7 trasformazione del sistema contributivo, anch’essi legati all’aspettativa di vita, che influiscono invece sull’entità dei benefici previdenziali. In seguito ad una sentenza della Corte di Giustizia Europea che imputava allo stato italiano una discriminazione ai danni dei suoi dipendenti, il requisito anagrafico per la pensione di vecchiaia delle lavoratrici pubbliche viene portato a sessantacinque anni in due scaglioni: viene incrementato di un anno dal 1° gennaio 2010 e, dopo la chiusura di Bruxelles ad una proposta di transizione più morbida, di altri quattro anni a partire dal 1° gennaio 2012 [Jessoula 2010]. Vengono inaspriti i controlli sull’evasione contributiva, sulle pensioni di invalidità e sull’assegno sociale, mentre alcuni fondi speciali vengono accorpati alla gestione generale dei lavoratori dipendenti. In conclusione, è possibile affermare che il sistema pensionistico italiano ha subito una notevole trasformazione, per effetto del gran numero di riforme cui è stato sottoposto tra il 1992 e il 2010. Indubbiamente, il sistema pubblico ha guadagnato una grande capacità di contenere la spesa pensionistica e di stabilizzarla rispetto a dinamiche demografiche avverse. Tuttavia, l’obiettivo di mantenerla attorno al 13 per cento del PIL resta del tutto aleatorio, come dimostrano i rilevamente degli ultimi anni [vedi NVSP, 2009], a fronte di shock di natura macroeconomica e/o occupazionale. Dal punto di vista delle forme e della qualità della protezione fornita, la politica pensionistica italiana ha perso, lungo il percorso fin qui delineato, alcuni caratteri della sua origine Bismarckiana, primo fra tutti l’esclusività del pilastro pubblico. Questo si traduce, dal punto di vista dei singoli individui assicurati nel sistema pubblico, in una riduzione del tasso di sostituzione lordo di un lavoratore ‘tipico’ (cioè con 37 anni di contributi e una carriera continua) dall’80 per cento degli anni Novanta ad un 71 per cento attuale e, mantenendo il caso ormai ipotetico di un pensionamento a 65 anni, ad un 58,7 per cento nel 2050. Inutile aggiungere che queste cifre si abbassano fin quasi a dimezzarsi tanto più il lavoratore ha vissuto una fase iniziale di precariato o di discontinuità nella sua carriera [RGS, 2010]. A questo si deve aggiungere che, in termini di pensioni d’annata, si prevede un gap di ricchezza tra vecchi e nuovi pensionati: a dieci anni dall’uscita dal mercato del lavoro tale impoverimento relativo si stabilizzerà in media attorno al 20 per cento a partire dal 2030. Raggiunti i 30 anni dal pensionamento nel 2060, i medesimi individui avranno invece raddoppiato il loro impoverimento relativo rispetto alla coorte uscente. Entrambi questi fenomeni, ancora più drammatici in termini assoluti per la loro concentrazione negli strati più poveri della forza lavoro, pongono una chiara sfida all’adeguatezza e alla sostenibilità degli schemi assistenziali a carico della fiscalità generale, anche e soprattutto in termini di incentivi all’offerta di lavoro [RGS, 2010]. 8 Se questi problemi paiono ancora oggi trascurati, le riforme hanno certamente perseguito molti obiettivi diversi: stabilizzazione finanziaria, armonizzazione normativa, equità distributiva e innovazione istituzionale e di governance. Tuttavia, il minimo comun denominatore è ravvisabile nel trasferimento in capo agli individui di una serie di rischi, individuali e sistemici, legati al percorso di carriera, al quadro macroeconomico e demografico e al rendimento dei mercati. Contrariamente alle attese, neppure il rischio politico è stato eliminato: le riforme sottrattive – a livello puramente previdenziale così come fiscale – si sono susseguite con la stessa frequenza di quelle espansive e non hanno portato né ad un’innovazione strutturale capace di chiudere il capitolo previdenziale né alla formazione di nuove aspettative capaci di guidare le scelte individuali di lavoro, risparmio e investimento. Parimenti, il livello di frammentazione occupazionale resta ancora elevato, così come forti sono i legami tra alcuni decisori e ben riconoscibili clientele politiche, che non di rado riescono ad ottenere forme selettive di compensazione, accesso al processo decisionale e protezione. In altre parole, la dimensione categoriale e di classe è rimasta forte, ma non si realizza più attraverso la garanzia di mantenimento dello status acquisito, stratificandosi invece nella storia individuale dei percorsi di carriera. Così, se il sistema italiano ha adottato, durante la fase espansiva dello stato sociale, un’impostazione categoriale alla socializzazione dei rischi pensionistici, il medesimo approccio occupazionalista continua oggi ad ispirarne una rinnovata individualizzazione. Tale sindrome è certamente accentuata dal funzionamento e dall’evoluzione degli schemi di secondo pilastro, cui ora ci rivolgiamo. 3. Il travagliato sviluppo della previdenza complementare Come preannunciato, fatta eccezione per il TFR e per un piccolo numero di fondi occupazionali per i manager delle grandi imprese, delle banche e delle assicurazioni,3 la previdenza complementare in Italia è praticamente inesistente prima della riforma Amato del 1992. Le stime al 1997 dei fondi pre esistenti [riportate in Brambilla, 2007] indicavano circa mille forme pensionistiche, prevalentemente a capitalizzazione, a contribuzione definita e gestite mediante contratti di assicurazione, che interessano più di un milione e mezzo di lavoratori e gestiscono riserve patrimoniali pari a 18 miliardi di euro, con flussi contributivi annui pari a 3. Il TFR consiste invece in una prestazione dovuta per legge (l.n. 297/1982 e Codice Civile, art. 2120) al lavoratore dipendente in ogni caso di risoluzione del rapporto di lavoro, finanziata tramite riserve di cassa da parte datoriale, garantita in ultima istanza da un fondo pubblico e pari alla 3 Il primo fondo pensione italiano di cui si abbia nozioneè istituito dalla ‘Commissione centrale di beneficenza” della Cariplo nel 1842 [vedi Brambilla 2007]. 9 somma del 6,91 per cento di ogni retribuzione annuale, rivalutata ad un tasso pari ai tre quarti dell’inflazione addizionati del 1,5 per cento. Primo elemento del sistema nato dalla riforma Brodolini a ripresentare una logica contributiva, seppure con un rendimento garantito, il TFR nasce all’inizio degli anni Ottanta per superare le forti disparità categoriali e l’insostenibilità finanziaria – almeno in anni di inflazione elevata - di un istituto preesistente dai forti connotati dinamici e retributivi: l’indennità di anzianità [vedi Ferrera e Jessoula 2007; Jessoula 2010]. Nel settore pubblico il ruolo del TFR è parzialmente svolto dai trattamenti di fine servizio: prestazioni collegate al pensionamento, inizialmente pensate come ammortizzatori del periodo di decorrenza e divenute molto generose (sia in termini retributivi che dinamici) nel corso della fase espansiva. Nonostante lo sviluppo limitato della previdenza integrativa, durante il lungo e improduttivo dibattito riformista degli anni Ottanta, l’idea di affiancare schemi privati alla previdenza pubblica raccolse un consenso trasversale. In questa direzione si muoveva il più organico progetto di riforma del decennio, presentato dal Ministro del Lavoro Gianni De Michelis (PSI), così come la proposta del socialista Formica di utilizzare il neonato TFR per finanziare forme pensionistiche complementari. Tale proposta raccoglieva il favore dei sindacati, specialmente di CGIL, scettica nei confronti del TFR sin dai suoi inizi: Trentin si espresse esplicitamente a favore di questa opzione alla fine del decennio. Tuttavia, l’opposizione della DC - in particolare del suo esperto di questioni previdenziali Cristofori – in uno scenario di grande rivalità e tensione tra i due poli del centrosinistra impedì di concretizzare lo slancio riformatore, ostacolato anche dalla necessità di varare le prime riforme sottrattive in materia di previdenza pubblica [Regonini 1984; 1996; Jessoula, 2009]. Solo la concentrazione di responsabilità e potere decisionale a favore del primo ministro (e a discapito della componente democristiana) che segue gli attacchi speculativi e terroristici del 1992 e già risente degli scandali di Tangentopoli, permise al governo Amato di portare a sintesi le proposte più promettenti. Alla luce dei consistenti tagli operati dalla riforma del pilastro pubblico, specie a livello di previsioni di spesa, si rese necessario un vero e proprio salto verso una soluzione multi pilastro: a questo obiettivo fu destinato il decreto legislativo 124/1993. Il decreto delineava un nuovo sistema, volontario ma incentivato a livello fiscale, di pensioni di secondo e terzo pilastro, che riconosceva i fondi preesistenti (pur impedendone l’ulteriore espansione) e si strutturava in fondi di categoria, cosiddetti chiusi o negoziali, e fondi aperti ad adesione individuale. In tutti i casi, la legge prevede solo forme a contribuzione definita per i lavori dipendenti, consentendo l’opzione della prestazione definita ai soli lavoratori autonomi. Il decreto individuava i destinatari dei nuovi fondi tra i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, e autonomi 10 collettivamente identificati (per categoria, comparto, raggruppamento, anche territoriale, organizzazione produttiva, area professionale) e definiva come fonti i contratti e accordi collettivi, anche aziendali, gli accordi fra lavoratori se promossi dalle maggiori organizzazioni sindacali o di categoria, i regolamenti di enti o aziende al di fuori dei contratti collettivi. I fondi sono normalmente costituiti come associazioni no profit che affidano a soggetti terzi (società di intermediazione, imprese assicurative nei rami vita, capitalizzazione e previdenza, enti di previdenza obbligatoria) la gestione delle risorse o come fondi speciali nell’ambito del patrimonio di una singola società o ente, con un patrimonio di destinazione separato ed autonomo. I cosiddetti fondi aperti sono invece istituiti direttamente dai soggetti abilitati alla gestione e sono aperti all’adesione inviduale di soggetti privi di un fondo negoziale di riferimento. Il tentativo del governo, per quanto innovativo, fu però condizionato da esigenze di contenimento dei costi nel breve periodo e finì per esercitare un impatto controproducente, soprattutto dal punto di vista fiscale: mentre nessun nuovo fondo venne creato, furono proibite nuove iscrizioni ai fondi preesistenti. Rispetto alla normativa e alla prassi previgente, il decreto introdusse un limite di contribuzione pari al 10 per cento della retribuzione e nuove tasse: un prelievo del 15 per cento con credito d’imposta sui contributi, un’imposta dello 0,25 per cento sul patrimonio dei fondi, la tassazione separata dei rendimenti e un trattamento meno favorevole per le rendite. Inoltre, si eliminò l’esenzione sui contributi fino al 4 per cento della retribuzione, si limitò la deducibilità dei contributi del datore di lavoro e si introdusse una serie di rigidità legate all’erogazione delle prestazioni e all’uso del TFR nel finanziamento. L’unico vero incentivo fiscale, la detrazione ad aliquota massima del 27 per cento di una somma pari a 3 milioni di lire, risultò infine poco funzionale perché riprende in toto il regime vigente per i versamenti alle esistenti forme assicurative di natura previdenziale, senza alcun vero incentivo per favorire i nuovi fondi. Allo stesso modo, la necessità di smobilitare il TFR per superare il problema del doppio pagamento implicava non solo la volontarietà dell’adesione (con la conseguenza negativa che lo Stato non è tenuto, ai sensi dell’articolo 38 della Costituzione, a garantire in ultima istanza le prestazioni) ma anche una corsia preferenziale per i fondi negoziali, gli unici ai quali il TFR può essere conferito ed unici a godere delle relative deduzioni fiscali [Brambilla, 2007; Jessoula, 2009]. I problemi suesposti vennero affrontati dalla riforma Dini e dalla riforma Visco. Con la prima (e con le norme attuative varate nei successivi due anni), la platea dei destinatari fu estesa ai soci e ai lavoratori delle coperative e quella dei gestori alle società di gestione di fondi comuni, mentre l’accesso fu reso meno rigido dalla possibilità di aderire collettivamente ai fondi aperti e dalla cosiddetta portabilità: la possibilità di trasferire tutta la posizione individuale ad altro fondo dopo tre anni di permanenza ed anche senza cessazione del rapporto di lavoro. Venne inoltre fatto obbligo 11 alle compagnie assicurative di operare solo nel ramo previdenza, omogeneizzando e semplificando la normativa, anche dal punto di vista fiscale. La governance dei fondi venne consolidata con l’attribuzione ai fondi del diritto di voto inerente agli investimenti e al potere di indirizzo e controllo in materia di gestione e amministrazione; vennero inoltre omogeneizzate le modalità di comunicazione agli iscritti e viene istitutita una Commissione di Viglianza (COVIP) con l’incarico di garantire la trasparenza e la corretta gestione e amministrazione dei fondi. Infine, fu prevista (ma non implementata) l’estensione del regime di TFR ai dipendenti pubblici ‘contrattualizzati’, per favorire la previdenza complementare anche nel settore pubblico [Brambilla, 2007; Jessoula, 2009]. Dal punto di vista fiscale vi furono molte novità. La tassazione sulle prestazioni erogate fu abbassata al 87,5 per cento e vennero eliminate sia la tassa del 15 per cento sui versamenti contributivi sia il prelievo fiscale sull’attivo dei fondi, sostuito da un’imposta fissa di 10 milioni (ridotti a 5 per i primi 5 anni di attività). Il limite massimo di contribuzione fu portato al 10,91 per cento, pari a tutto il TFR a cui si aggiunse un 2 per cento di contribuzione da parte del lavoratore e un ammontare equivalente da parte datoriale, deducibili entrambi fino ad un limite di 5 milioni di lire, eventualmente rivalutabili (per gli autonomi, il limite è pari al 6 per cento, fino allo stesso massimo). La disciplina fiscale per le assicurazioni non fu invece modificata. A titolo di risarcimento alle imprese venne infine accantonato un importo pari al 3 per cento del TFR utilizzato in un fondo in sospensione d’imposta. Con la riforma Visco, casalinghe e soggetti a carico furono inclusi tra i destinatari e la deducibilità fiscale dei contributi è portata al 12 per cento del reddito complessivo (ai lavoratori dipendenti si applicano due limiti addizionali: il limite è pari al doppio del TFR destinato alla previdenza collettiva entro un massimale annuo di 5.164,57 Euro). L’imposta fissa sul patrimonio dei fondi fu poi sostituita da un prelievo del 11 per cento sui rendimenti e una tassa equivalente venne introdotta, come imposta sostitutiva dell’IRPEF, sui rendimenti del TFR, in precedenza tassato soltanto al momento dell’erogazione. Il sistema tributario dei fondi si indirizzava così verso il modello tributario ETT, come in Svezia e Danimarca, in cui i contributi sono esentati ma sia i rendimenti che le prestazioni sono sottoposte a tassazione. Questa soluzione garantiva entrate fiscali sia nel breve che nel lungo periodo, ma contribuiva a scoraggiare l’investimento rispetto ad alternative (inclusi fondi concorrenti di altri paesi comunitari) tassate soltanto al momento dell’erogazione. Inoltre, costituì un’evidente discriminazione rispetto al trattamento del primo pilastro pubblico, le cui sole prestazioni sono soggette ad imposizione fiscale [Brambilla, 2007; Jessoula, 2009]. 12 Infine, venne riformato il terzo pilastro: viene eliminata la detraibilità delle polizze vita e vengono introdotte forme pensionistiche inviduali (PIP) mediante assicurazioni nei rami vita e investimento finanziario (unit-linked), che però presentano regole diverse e sono sottoposte al controllo dell’ISVAP anziché della COVIP, creando problemi di coordinamento, coerenza e diritto alla portabilità. Anche questo intervento non produsse una notevole accelerazione nello sviluppo dei fondi integrativi: al contrario, il ritmo delle adesioni rallenta marcatamente in una fase di recessione globale. Il decreto 252/05 riscrisse e razionalizzò il quadro regolativo della previdenza complementare sotto forma di Testo Unico, favorendo lo smobilizzo del TFR maturando, anche a favore dei fondi aperti e delle prestazioni individuali, con un meccanismo di silenzio/assenso, con nuove norme per facilitare l’accesso al credito delle imprese e con un trattamento fiscale più favorevole. Anche la portabilità del TFR venne rafforzata, abbassando a due anni il periodo minimo per trasferire ad altro fondo la posizione individuale e garantendo, sebbene solo in alcuni casi, la contribuzione datoriale anche a forme di terzo pilastro. Come già accennato nel paragrafo precedente, la platea delle fonti istitutive venne allargata per comprendere le regioni, le casse privatizzate (con l’obbligo di creare al loro interno una gestione separata) e all’INPS (presso il quale verranno creati ben due fondi di destinazione per il TFR). Il sistema della previdenza complementare venne inoltre allargato alle nuove forme contrattuali previste dalla riforma Biagi del mercato del lavoro, che prima ne erano escluse. Allo stesso tempo, la governance dei fondi fu potenziata e la COVIP divenne ‘sportello unico’per tutte le richieste e le autorizzazioni. Nella sua versione originale, la formula del silenzio/assenso, preservando la volontarietà della previdenza complementare, prevedeva che i lavoratori dipendenti privati decidessero, entro luglio 2008 (o comunque entro 6 mesi dall’assunzione) se conferire il TFR maturando ad un fondo o piano di propria scelta o mantenerlo presso l’azienda.4 In caso fossero rimasti silenti, il TFR sarebbe stato automaticamente destinato al fondo negoziale di riferimento (che si impegnava a garantire rendimenti equivalenti) o, in mancanza di quest’ultimo, ad un fondo ad hoc creato presso l’INPS (Fondinps). Dal punto di vista fiscale, invece, venne eliminato il tetto alla deducibilità dei contenuti, mentre le prestazioni vennero assoggettate ad una tassazione separata al 15 per cento, ridotto dello 4 Tale ritardo, poco giustificabile in una prospettiva squisitamente di policy, discende da considerazioni politiche. Primo, il governo decise di rimandare alla legislatura successiva i punti più delicati dell’intera riforma, sia nel pilastro pubblico che in quelli complementari. In secondo luogo, all’interno del governo si venne a creare un conflitto tra i ministri della Lega Nord, e in particolare il Ministro del Welfare Maroni e i ministri del PDL guidati dal premier Berlusconi. Mentre il primo difese l’accordo trovato con le parti sociali, i secondi presero le parti dell’ANIA (l’associazione delle imprese assicuratrici) che lamentava le scarse garanzie di portabilità del contributo datoriale negli schemi di terzo pilastro. A causa di questa spaccatura, e probabilmente anche per dare alle aziende private più tempo per prepararsi a competere con soluzioni negoziali ancora parzialmente sovraordinate, l’intera implementazione della riforma venne ritardata di ben quattro anni. 13 0,3 per cento per ogni anno di contribuzione oltre il quindicesimo, fino ad un massimo del 6 per cento al trentacinquesimo anno. Venne inoltre consentito ai nuovi entranti di dilazionare la contribuzione alle forme complementari, potendo detrarre durante la fase centrale della propria vita lavorativa un ammontare pari ai mancati versamenti (rispetto al tetto annuo di 5.164,57 Euro) eventualmente accumulati durante i primi cinque anni di adesione. Infine, venne permesso ai pensionati che avessero maturato almeno un anno di contribuzione in un fondo integrativo, di proseguire la contribuzione volontariamente fino a nuova decisione. Il nuovo regime del TFR fu in realtà implementato nel quadro della riforma Damiano. Nel novembre 2006 l’entrata in vigore del meccanismo di silenzio assenso fu anticipata al 2007. Dopo un processo di consultazione con le parti sociali, la finanziaria per il 2008 riformò immediatamente la nuova normativa, prevedendo che il TFR maturando fosse trasferito all’INPS anche nel caso in cui il lavoratore decidesse di tenerlo presso il datore di lavoro, se l’azienda ha almeno 50 dipendenti: in tal caso la quota sarebbe stata accumulata in un secondo fondo INPS (Fondinps 2). Il decreto legislativo 28/2007, nel recepire la Direttiva IORP (2003/41/EC) ha ulteriormente ampliato i poteri della COVIP in termini di vigilanza sulle modalità di definizione, comunicazione e rispetto dei principi delle politiche di investimento dei fondi, della loro governance e della possibilità di esercitare attività transfrontaliere. In particolare, sono stati previsti, con le relative sanzioni, limiti agli investimenti giudicati più rischiosi (secondo il principio della ‘persona prudente’) ed un approccio più severo in tema di conflitto d’interessi [Brambilla, 2007; Jessoula 2011]. In conclusione, dopo l’articolato e complesso percorso di riforma intrapreso a partire dal 1992, il sistema multi-pilastro italiano ha trovato un’impostazione più comprensiva, specialmente in tema di governance dei fondi, e più chiara, in particolare dal punto di vista fiscale. Tuttavia, la diffusione della previdenza complementare è ancora insufficiente e rivela ampie divergenze categoriali in termini di copertura e qualità della protezione, che purtroppo sono fortemente correlate a quelle ancora esistenti nel pilastro pubblico. Inoltre, gli assicurati italiani sono comparativamente poco protetti dai rischi di investimento e di insolvenza. Di questi aspetti ci occuperemo nella prossima sezione. 14 4. Gli esiti del percorso di riforma sulla previdenza categoriale di secondo pilastro In seguito alle riforme presentate nelle precedenti sezioni, il sistema mono-pilastro italiano si è evoluto in uno basato su tre pilastri. All’interno del secondo, quello occupazionale, coesistono fondi pre-esistenti di iniziativa datoriale, fondi negoziali o ‘chiusi’5 e fondi aperti ad adesione collettiva, istituiti e gestiti da intermediari finanziari e società assicurative o di gestione del risparmio. Tralasciando per un attimo i fondi preesistenti, destinati all’esaurimento per l’impossibilità di accogliere nuovi membri, e le polizze assicurative individuali, va rilevato che i fondi chiusi e fondi aperti godono delle medesime agevolazioni fiscali e dell’opportunità di ricevere quote di TFR, fatta eccezione per la corsia preferenziale garantita ai fondi negoziali dalla formula del silenzio assenso e dalla limitata portabilità del contributo datoriale. Le forme pensionistiche individuali sono invece attuate mediante l’adesione a fondi pensione aperti o la stipula di polizze individuali pensionistiche (contratti di assicurazione sulla vita a finalità previdenziale). In linea con quanto definito da Cesari et al. [2007], i fondi negoziali o chiusi differiscono dai fondi aperti sotto quattro aspetti principali: 1) essendo tipicamente uno strumento della contrattazione tra le parti sociali, i loro parametri chiave (quali ad esempio i criteri di partecipazione e le aliquote di contribuzione) vengono definiti nell’ambito delle negoziazioni tra sindacati e datori; 2) sono associazioni senza scopo di lucro; 3) normalmente beneficiano di una contribuzione aggiuntiva da parte del datore di lavoro (per i fondi pensione aperti ciò è possibile solo in caso di adesione collettiva); 4) non possono gestire direttamente il portafoglio, ma devono avvalersi di soggetti specializzati. I dati che mostriamo di seguito, indicano le caratteristiche principali della previdenza integrativa in Italia. A fronte della ridotta generosità delle prestazioni del pilastro pubblico, la previdenza integrativa ha iniziato a svilupparsi. La seguente Tabella 1 mostra l’evoluzione degli ultimi anni. Tabella 1. La previdenza complementare in Italia (secondo e terzo pilastro) al Dicembre 1999/2005/2009 Numero di fondi 1999 2005 2009 1999 Iscritti 2005 2009 1.155.168 407.022 2.040.150 820.385 1999 Risorse* 2005 2009 - 7.615 2.954 Fondi di nuova istituzione Fondi Negoziali Fondi Aperti 5 33 88 43 89 39 76 701.127 136.305 18.757 6.269 Come abbiamo visto, si tratta di fondi basati su ripartizioni di tipo categoriale o professionale, settoriale, territoriale, di comparto, di azienda o inter-aziendale. Essi vengono promossi da organizzazioni sindacali o di categoria attraverso contratti o accordi collettivi, oppure istituiti da casse privatizzate, regioni, enti e aziende che operano al di fuori di un contratto nazionale e perfino da accordi individuali tra lavoratore e datore di lavoro. 15 Fondi 618 455 391 preesistenti Totale fondi 739 587 506 Polizze 75 individuali (PIP) Totale 739 581 *risorse destinate alle prestazioni in milioni di Euro 654.625 665.561 673.079 - 32.441 38.943 1.492.057 - 2.227.751 811.199 3.507.361 1.547.923 - 43.010 3.338 63.991 8.966 1.492.057 3.038.950 5.055.284 - 46.348 72.957 fonte: COVIP [2000; 2006; 2010] Alla fine del decennio (il dato è riferito al 31 dicembre 2009), la previdenza integrativa (costituita da fondi chiusi o negoziali, fondi aperti e polizze individuali) ha coperto poco più di cinque milioni di lavoratori (pari al 21% degli occupati). Il dato è quadruplicato nel corso di dieci anni. Anche il totale delle risorse gestite è aumentato progressivamente, fino a superare i settanta miliardi di euro. Il processo di cambiamento si è in definitiva realizzato attraverso la parziale riduzione delle prestazioni del pilastro pubblico e attraverso la stratificazione del sistema (aggiunta di nuovi pilastri). La forte frammentazione della previdenza complementare può essere compresa meglio da uno sguardo disaggregato per tipo di fondo e per categoria, con una particolare attenzione per i fondi negoziali. A fine 2010 tali fondi erano 38 a cui si aggiunge Fondinps, che annovera 67.000 lavoratori, di cui 38.000 dipendenti del settore privato. Nel prosieguo illustriamo cinque linee di differenziazione nella protezione complementare: tra lavoratori del settore pubblico e privato; tra lavoro autonomo e dipendente; tra grandi, piccole e medie imprese; tra le diverse aree del territorio; tra lavoro tipico e atipico.6 Una prima divisione opera in linea con il cleavage pubblico/privato: nel 2009, i lavoratori privati coperti da forme integrative erano 3,7 milioni; contro 139.000 lavoratori pubblici. Solo il fondo Espero per i lavoratori della scuola è stato attivato (vedi Tabella 2. sotto). Altra linea di divisione riguarda il lavoro autonomo e quello dipendente: il primo molto meno coperto, con 1,2 milioni di iscritti e concentrato nei fondi aperti e nelle polizze.7 Ulteriore discriminante è data dalla dimensione delle imprese nel settore privato: le piccole e medie imprese sono molto meno toccate dal fenomeno dei fondi negoziali (vedi tasso di copertura del Fondo Fondapi). Il contributo delle imprese sotto i 20 dipendenti, che impiegano quasi il 50 per cento degli occupati, alla platea degli aderenti non raggiunge il 14 per cento: nel 2005 il tasso di adesione nelle 6 E’ utile ricordare che per molti dei lavoratori non coperti dai fondi integrativi vige, in ogni caso, il TFR. Ciò comporta possibili vantaggi, determinati dai rendimenti per il momento inferiori della previdenza integrativa, ma anche svantaggi. Questi ultimi sono legati alla funzione ibrida del TFR che soprattutto in un mercato del lavoro sempre più flessibile rischia di essere utilizzato per proteggere rispetto a periodi di disoccupazione piuttosto che per fini previdenziali. 7 Nelle pagine successive vedremo come le regole di disciplina della governance dei fondi tenda a produrre una separazione netta tra diritti degli iscritti ai fondi negoziali o chiusi e iscritti ai fondi aperti. 16 imprese sotto i 50 dipendenti era pari al 5,4 per cento, mentre nello stesso anno le imprese con più di mille dipendenti occupavano meno del 15 per cento dei lavoratori privati ma il 36 degli aderenti a fondi negoziali. Tuttavia, alcuni passaggi dell’evoluzione della previdenza negoziale hanno dimostrato che, per quanto vulnerabili siano le piccole aziende alla perdita del TFR e per quanto stretti siano i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro, è fondamentale l’azione interveniente del sindacato (si pensi all’altissimo tasso di adesione conquistato da Fonchim) o delle reti interpersonali e dell’emulazione [Mefop, 2008]. L’esperienza positiva delle regioni del Nord est, dove i lavoratori privati e autonomi erano sovrarappresentati in tutte le forme complementari già nel 2001. Tabella 2. Fondi pensione negoziali (chiusi) per settore occupazionale, 2009 Fondi Settore Tasso d’adesione >50% Fopen Energia (Gruppo Enel) Previvolo Piloti Trasporto Aereo (Alitalia) Fondenergia Energia (Gruppo Eni) Fonchim Chimica e farmaceutica Quadri e Capi FIAT Gruppo Fiat Concreto Cemento, calce e gesso Pegaso Gas, acqua, elettricità Fondoposte (Gruppo Poste) Gommaplastica Industria gomma e plastica Foncer Industria ceramica Astri Autostrade Tasso d’adesione > 20% <50% Fondav Assistenti di volo (Alitalia) Priamo Autoferrotranvieri Cometa Metalmeccanica Previcooper Cooperative commercio Telemaco Telecomunicazioni (Gruppo Telecom) Eurofer Gruppo Ferrovie dello Stato Mediafond Telecomunicazioni (Gruppo Mediaset) Prevaer Servizi aeroportuali Cooperlavoro Cooperative produzione e lavoro Tasso d’adesione < 20% Previambiente Igiene ambientale Alifond Industria alimentare Arco Industria arredamento, legno, cemento Previmoda Industria tessile, abbigliamento, calzature Byblos Industria carta, aziende grafiche, editoriali Fondapi Piccole e medie imprese Previlog Logistica Fonte Commercio, turismo, servizi Espero Settore scuola Prevedi Settore edile, industria e artigianato fonte: COVIP [2010] Tasso di adesione % 88,9 85,9 84,8 82,9 78,5 78,3 68,9 59,3 56,3 55,4 54,5 48,3 47,3 46,5 45,6 44,4 43,9 37,4 32,6 24,8 18,5 17,9 17,5 17,2 14,0 8,8 8,8 8,5 7,1 7,1 Marcati profili di stratificazione sono anche legati al territorio e al tessuto produttivo, in particolare alla grandezza dell’azienda. I lavoratori meridionali e insulari sono sottorappresentati all’interno 17 degli aderenti ai fondi (20 per cento contro 26 tra gli occupati), il centro Italia vede le due grandezze allineate al 21 per cento, mentre le aree settentrionali sono sovra-rappresentate (59 contro 54 per cento). La sola Lombardia ospita quasi un quarto degli iscritti e il Nord ovest da solo più di un terzo, cioè quanto il centro (Emilia Romagna esclusa) e il Meridione insieme. Le regioni settentrionali raccolgono in tutto il 64 per cento dei titolari di forme negoziali o preesistenti. Inoltre, è sempre nel Nord che si sono realizzate, con notevole successo, esperienze negoziali di tipo territoriale: è questo il caso della Valle d’Aosta con Fopadiva e del Trentino con Laborfonds, entrambi aperti agli impiegati pubblici, dove il tasso di adesione arriva nel complesso al 38 e al 58 per cento rispettivamente [Covip, 2002; 2005; 2011]. Questi indicatori, anche peggiori nel caso dei fondi negoziali, rappresentano un dato di lungo periodo che il quadro regolativo della previdenza complementare non è riuscito a sovvertire. Già nel 1999, il XVII Rapporto BNL/Centro Einaudi sul risparmio e sui risparmiatori in Italia [BNL e Centro Einaudi, 1999] aveva individuato simili tendenze, identificando nel dirigente maschio tra i 40 e i 49 anni, settentrionale, laureato e appartenente alla classe di reddito più alta, il profilo più propenso ad iscriversi ad un fondo pensione. Come è facile attendersi, il profilo meno incline all’adesione veniva invece trovato nell’esercente meridionale di basso reddito e bassa istruzione, particolarmente se giovane e donna. Un caso particolare è poi quello dei lavoratori atipici, per i quali esistono almeno tre fattori di rischio legati alla previdenza integrativa. Il primo è determinato dal calcolo delle prestazioni in linea col principio contributivo, in base al quale i trattamenti sono determinati dai contributi versati durante l’intera carriera lavorativa. In sostanza, carriere interrotte e periodi di bassi salari avranno in futuro un’incidenza significativa sul livello di protezione fornita. Il secondo fattore riguarda il livello dei salari, di solito più basso rispetto a quello dei lavoratori tipici. Questo rende difficile l’accantonamento di risorse per la previdenza integrativa [COVIP, 2010]. Inoltre, i lavoratori atipici sono privi del TFR che abbiamo detto è stato una fonte fondamentale di risorse da destinare ai fondi pensione [Jessoula, 2009]. Fanno eccezione in questo senso i lavoratori in somministrazione, introdotti con la Riforma Biagi del 2003, che godono degli stessi diritti dei lavoratori tipici delle aziende che li impiegano, TFR incluso. Nell’aprile 2011 ha ricevuto l’autorizzazione della COVIP un fondo ad essi dedicato: Fontemp. Istituito da Assolavoro e da Felsa/Cisl, Nidil/Cgil e Uil/Cpo a seguito del contratto collettivo nazionale del luglio 2008, Fontemp è un fondo contributivo a capitalizzazione, momentaneamente con un solo comparto in linea coi rendimenti del TFR, che si rivolge ai lavoratori in somministrazione (a tempo determinato e a tempo indeterminato, con la possibilità di 18 rimanere nel fondo anche una volta divenuti lavoratori subordinati) e agli impiegati delle Agenzie per il lavoro: una platea dei potenziali aderenti di più di 500 mila lavoratori in circa 80 aziende. La più notevole innovazione introdotta da Fontemp consiste nel fatto che, tenendo conto delle peculiarità del settore, sia il 4 per cento di contributi aggiuntivi al TFR sia i costi di gestione sono interamente a carico degli enti bilaterali per il lavoro temporaneo (Ebitemp e Formatemp). In linea con un trend generalizzato che vede affermarsi il ruolo degli enti bilaterali nel welfare aziendale - si pensi ad esempio alla formazione permanente – questa innovazione ha l’indubbio potenziale di aprire una nuova frontiera di opportunità per sostenere le categorie lavorative più deboli nel loro sforzo previdenziale. Il dato più preoccupante è il mancato decollo della previdenza integrativa tra i lavoratori più giovani, coloro che avrebbero dovuto beneficiare del sistema misto pubblico/privato. Alla fine del 2009, gli iscritti con meno di 35 anni sono risultati pari al 21 per cento, circa 11 punti percentuali in meno rispetto allo stesso dato riferito al complesso dell’occupazione. La maggior parte degli iscritti appartiene alla fascia di età compresa fra i 35 e i 54 anni: l’incidenza sul totale degli iscritti ai fondi pensione è del 66 per cento, rispetto al 57 per cento degli occupati. Gli aderenti con almeno 55 anni sono il 13 per cento, a fronte dell’11 per cento del complesso dell’occupazione [COVIP, 2010]. Un aspetto importante della messa in opera dei fondi pensione è poi legato alla loro governance. Come affermato da Bripi e Giorgiantonio [2010], è possibile enucleare tre aspetti problematici di particolare rilevanza: a) il trade-off tra professionalità e rappresentanza all’interno degli organi di amministrazione e controllo; b) la chiara definizione dei compiti e delle responsabilità degli organi decisionali e di supervisione; c) la previsione di appropriati meccanismi per la gestione dei conflitti d’interesse. Per i fondi negoziali, il consiglio di amministrazione ha il compito di fissare le linee strategiche di investimento del patrimonio e l’obbligo di affidare la gestione di questo stesso patrimonio a intermediari finanziari esterni, selezionati mediante procedure regolamentate e pubbliche e vincolati al mandato. I fondi negoziali hanno poi l’obbligo di utilizzare una banca depositaria esterna, che svolge un ruolo di tesoriere e di controllore della conformità delle scelte del gestore alla legge, allo statuto e ai regolamenti. Molto meno rigida la regolamentazione della gestione dei fondi aperti. Questi ultimi – a cui non è attribuito uno statuto giuridico autonomo rispetto agli intermediari finanziari che li hanno istituiti – vedono la sovrapposizione dei rispettivi organi di amministrazione e controllo contabile.8 8 Per quel che concerne l’attività di vigilanza, essa è esercitata dalla Covip sui FPa, mentre i soggetti istitutori sono sottoposti alla vigilanza delle rispettive autorità di settore (Banca d’Italia, Consob e Isvap). 19 Su ciascuno dei punti richiamati, la disciplina della governance dei fondi in Italia [vedi anche Jessoula, 2011] appare limitata e foriera di rischi per gli iscritti. Con riferimento alla prima dimensione (il trade–off tra professionalità e rappresentanza), e nonostante le recenti riforme (d.M. 15 maggio 2007, n. 79), che hanno introdotto requisiti di professionalità più stringenti e hanno innalzato la percentuale di amministratori dei fondi pensioni negoziali che devono rivestirli, il possesso degli stessi è tuttora imposto solo a (almeno) la metà dei componenti del CdA. Ancora più deficitaria la situazione dei fondi aperti: la soglia minima di 500 aderenti in via collettiva, prevista ai fini dell’integrazione della composizione dell’organismo di sorveglianza (costituito, di regola, da due membri designati dai soggetti istitutori), con due rappresentanti nominati dall’impresa e dai lavoratori, produce nuove fonti di disuguaglianze [ibidem, 18-19]. Con riferimento alla seconda dimensione (definizione dei compiti e delle responsabilità degli organi decisionali e di supervisione), nei fondi negoziali le competenze del responsabile del fondo, cui sono attribuite funzioni di supervisione sull’operato del consiglio di amministrazione, si sovrappongono – in alcuni casi – a quelle del soggetto preposto alla funzione di controllo interno. E spesso, con riferimento alla terza dimensione richiamata del conflitto d’interesse tra gestori e controllori, la legge prevede che la qualifica di responsabile possa essere rivestita da un membro del CdA o dal direttore del fondo. Ancora meno stringenti i vincoli per i fondi aperti. Come richiamato in precedenza, la diversa disciplina tra fondi negoziali e aperti tende ad accentuare il diverso trattamento dei lavoratori dipendenti (soprattutto del settore privato) – sottoposti a maggiori garanzie relative alla governance – da un lato; e dei lavoratori autonomi (maggiormente rappresentati nei fondi aperti e dunque sottoposti a minori garanzie) dall’altro [vedi COVIP, 2010]. E’ dunque evidente che l’implementazione delle riforme e del nuovo paradigma multi-pilastro è stata parziale. Nuovi elementi di frammentazione dei lavoratori hanno portato a uno sviluppo limitato e fortemente diversificato. E’ facile individuare nelle caratteristiche peculiari del sistema produttivo e del lavoro in Italia, una delle cause di tale evoluzione. Il rilievo del tutto particolare della piccola imprenditoria e del lavoro autonomo, al pari delle difficoltà del bilancio pubblico hanno sicuramente segnato la nascita della previdenza complementare in Italia. Al tempo stesso, la progressiva frammentazione dei diritti previdenziali integrativi è coerente con il nuovo sistema a più pilastri. 4. Discussione e conclusioni Come ricordato dal presente paper, il sistema pensionistico italiano ha subito nel corso degli ultimi decenni importanti riforme. Il contenimento della spesa previdenziale pubblica è andato di pari 20 passo con l’individualizzazione dei rischi legati alla vecchiaia e con la riaffermazione del principio assicurativo. Per molti versi, le pensioni hanno rappresentato il terreno principale di sperimentazione di un nuovo welfare mix [vedi Ascoli e Ranci, 2002] (coerente con il paradigma multi-pilastro). Il ‘secondo welfare’ ha assunto nel settore pensionistico le caratteristiche proprie dei fondi pensione (di tipo negoziale e aperto). Questi sono cresciuti in modo significativo negli ultimi anni, sia in termini di copertura sia di patrimonio gestito. In linea con il paradigma multi-pilastro, infatti, a fronte del contenimento della spesa pubblica e l’attesa riduzione delle prestazioni provenienti dal pilastro pubblico, la previdenza complementare si è sviluppata con il compito di mitigare gli effetti dei tagli alle prestazioni pubbliche. Nelle pagine precedenti abbiamo cercato di illustrare il percorso di riforma in Italia, il contenuto della nuova legislazione, e i principali effetti in termini di copertura dei rischi legati alla vecchiaia. Nonostante l’espansione del ‘secondo welfare’ nell’ambito pensionistico, la storia degli ultimi anni appare quella di un implementation gap e della nascita di un pension mix che, accanto a elementi di forza, propone evidenti criticità. I principali limiti derivano dalla difficile implementazione del nuovo paradigma in una realtà economico, finanziaria e produttiva del tutto peculiare. In primis, la previdenza integrativa si è affermata in una fase di crisi di bilancio. Ciò ha determinato il mancato lancio dei fondi pensione nel settore del pubblico impiego (a causa dei costi che tale lancio avrebbe determinato sui conti pubblici). In secondo luogo, le particolarità del mercato del lavoro e della struttura produttiva hanno contribuito alla crescita ‘a macchia di leopardo’ dei fondi integrativi. I lavoratori dipendenti sono di norma maggiormente coperti dai fondi integrativi rispetto al lavoro autonomo. E all’interno del lavoro dipendente, i lavoratori delle grandi imprese sono maggiormente protetti rispetto a quelli delle piccole e medie imprese. Altre disuguaglianze riguardano i lavoratori tipici e atipici e le giovani generazioni che, più bisognose dell’apporto dei fondi pensione, sono in realtà iscritti in numero minore rispetto alle coorti più anziane. Accanto al diverso sviluppo dei fondi, vi è poi la questione della disciplina della governance. La legislazione in Italia appare ancora oggi deficitaria e foriera di ulteriori differenze di trattamento tra categorie di lavoratori: a seconda, ad esempio, che essi siano iscritti a fondi negoziali oppure a fondi aperti. Se tali elementi appaiono legati alle peculiarità del sistema economico e del lavoro in Italia, altre tensioni appaiono essere insite nel nuovo paradigma. L’estensione del ‘secondo welfare’ in campo pensionistico appare infatti foriera di una maggiore frammentazione della protezione contro i rischi legati alla vecchiaia. Gli spazi di solidarietà si restringono e diritti ed obblighi previdenziali tendono ad essere definiti a livello d’impresa, di settore produttivo e/o di categorie sociali e di età. 21 Bibliografia: Amato, G. e Marè, M. 2007 Il Gioco delle Pensioni: Rien ne va Plus?, Bologna, Il Mulino. Ascoli, U. e Ranci, C. (a cura di) 2002 Dilemmas of the Welfare Mix: The New Structure of Welfare in an Era of Privatization, New York: Kluwer Academic. 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