La finanza della sicurezza sociale

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La finanza della sicurezza sociale
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La finanza
della sicurezza sociale
1 I sistemi di sicurezza sociale
Un tipico fenomeno finanziario dello Stato moderno è il rilevante espandersi della spesa pubblica destinata a consentire il funzionamento dei servizi sociali (trasporti pubblici, istruzione, assistenza sanitaria
e ospedaliera, ecc.). Ora, si può osservare che una quota sempre maggiore della spesa sociale viene
investita per il finanziamento del cosiddetto sistema di sicurezza sociale, ossia il complesso degli
istituti previdenziali, assistenziali e assicurativi pubblici che provvedono a tutelare il cittadino contro
quei fatti dannosi che possono compromettere o, quanto meno, limitare le sue capacità lavorative.
Possono, infatti, verificarsi spesso delle circostanze e degli eventi rischiosi (malattie, infortuni sul lavoro,
vecchiaia, disoccupazione) che, in assenza di adeguati strumenti assicurativi, impedirebbero indubbiamente la possibilità di un soggetto di ottenere un reddito ancorché minimo, tale da permettergli un’esistenza dignitosa. Le prestazioni economiche fornite dagli enti previdenziali e assistenziali (indennità di
malattia, di infortunio, indennità pensionistiche, assegni familiari, indennità e sussidi di disoccupazione)
sono finanziate in parte attraverso i contributi versati dai lavoratori e dai datori di lavoro e in parte dallo
Stato mediante le entrate tributarie (e quindi dall’intera collettività che paga le imposte)1.
Il funzionamento degli istituti di sicurezza sociale si fonda su un sistema di assicurazioni obbligatorie, che si differenziano notevolmente dalle normali assicurazioni private per una serie di ragioni
che qui sinteticamente esporremo.
•Innanzitutto, le prime sono obbligatorie, in quanto rispondono a finalità sociali di interesse pubblico,
mentre le assicurazioni private sono volontarie, in quanto hanno un fondamento di natura esclusivamente contrattuale (a parte quelle che coprono la responsabilità civile, imposte dalla legge).
•L’ammontare dei contributi previdenziali e assistenziali non è rimesso alla contrattazione privata
tra ente e assicurato. I contributi previdenziali sono infatti commisurati alla retribuzione dei lavoratori, secondo percentuali stabilite dalla legge. Di conseguenza, anche l’ammontare delle prestazioni economiche fornite è determinato in base a criteri stabiliti dalla legge. Così, la pensione
di invalidità è commisurata alla gravità della lesione subìta dall’assistito. Viceversa, il premio che
l’assicurato versa all’assicurazione privata può essere stabilito, entro certi limiti, dal primo, in relazione alla prestazione che intende garantirsi.
•In un sistema di assicurazioni sociali obbligatorie non c’è un’esatta corrispondenza tra i contributi
versati dal cittadino-assicurato e le prestazioni che gli verranno fornite. Esistono, infatti, soggetti che
finanziano il sistema (attraverso il pagamento dei contributi obbligatori e delle imposte) per somme
di ammontare superiore alle prestazioni che ricevono o che riceveranno. Viceversa, i cittadini meno
abbienti, maggiormente esposti ai rischi sociali, contribuiscono scarsamente al finanziamento del
sistema (i contributi sono commisurati infatti alle loro retribuzioni, che sono esigue o addirittura
inesistenti), ma godono in misura massima delle indennità offerte da questo. Quella che potrebbe
sembrare una distorsione del sistema, è invece una caratteristica tipica della finanza della sicurezza
sociale. Essa deve redistribuire la ricchezza tra le varie classi, assicurando un reddito minimo ai cittadini più bisognosi, che spesso sono privi di capacità contributiva e che per
questo sono i più diretti beneficiari delle prestazioni previdenziali e assistenziali.
1. Il primo vero sistema di assicurazioni sociali obbligatorie è stato costituito nella Germania del Cancelliere Bismark: assicurazioni
sociali contro le malattie, 1883; contro gli infortuni, 1884; contro l’invalidità e la vecchiaia, 1889. In Italia, le assicurazioni obbligatorie per gli infortuni sul lavoro sorsero nel 1898 (nell’industria) e nel 1917 (nell’agricoltura); quelle per l’invalidità, la vecchiaia e la
disoccupazione nel 1919, mentre nel 1929 furono istituite quelle per le malattie professionali dei lavoratori dell’industria.
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2 Gli
effetti della finanza della sicurezza sociale
sulla redistribuzione e sulla stabilizzazione del reddito
Gli effetti redistributivi della finanza sociale operano anche a livello territoriale, settoriale e generazionale.
•Gli effetti redistributivi territoriali.
I cittadini che abitano le zone più ricche del Paese pagano sia più contributi assistenziali e previdenziali sia più imposte (a causa del maggior tasso di occupazione e dei redditi più elevati) di
quelli residenti nelle aree meno sviluppate, dove la disoccupazione è maggiore e minori sono le
retribuzioni. Questi ultimi soggetti si avvantaggiano maggiormente delle prestazioni assistenziali
(ad es. i sussidi di disoccupazione).
•Gli effetti redistributivi settoriali.
Può verificarsi che i lavoratori operanti in determinati settori produttivi (ad es. i metalmeccanici),
disponendo mediamente di retribuzioni piuttosto elevate, versino maggiori contributi rispetto a
quelli corrisposti dagli addetti di altri settori (ad es. l’industria tessile, l’agricoltura, ecc.), che
percepiscono salari inferiori. In tal modo, si realizza un trasferimento di ricchezza da un settore
produttivo a un altro.
•Gli effetti redistributivi generazionali.
I soggetti che, per età avanzata, fanno ormai parte della popolazione inattiva, godono di prestazioni previdenziali (pensioni) che di fatto sono finanziate attraverso i contributi dei soggetti più
giovani, e per questo motivo economicamente attivi.
•Vanno poi considerati gli effetti anticongiunturali e anticiclici della spesa sociale, per i quali
rimandiamo a quanto detto a proposito degli effetti economici della spesa pubblica nella
seconda parte dell’Unità 1.5 del testo.
Infine non vanno trascurati:
•gli effetti sugli investimenti.
Rileviamo che i contributi assistenziali e previdenziali costituiscono una sorta di risparmio forzato, che viene sottratto agli impieghi produttivi;
•gli effetti sulla pressione fiscale globale.
Non dimentichiamo, infatti, che la pressione contributiva è un’importante componente della pressione fiscale globale, data da:
Tributi + Oneri sociali
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Reddito
3 Il sistema di sicurezza sociale in Italia
Il sistema di sicurezza sociale in Italia ha subìto, in questi ultimi anni, un notevole potenziamento.
Nonostante l’ammontare dei contributi versati dai lavoratori abbia raggiunto livelli piuttosto elevati,
tali da rappresentare una consistente percentuale della pressione fiscale globale, le prestazioni previdenziali e assistenziali fornite sono aumentate con una dinamica ancora maggiore, per cui il divario
tra risorse gestite e spese effettuate si è allargato in modo preoccupante. Il deficit di gestione degli
enti della sicurezza sociale è coperto, data l’insufficienza dei contributi, dai trasferimenti da parte
dello Stato, finanziati attraverso le entrate tributarie.
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Gli Enti nazionali di previdenza e assistenza sociale attivi in Italia
Cassa di previdenza e assistenza per gli ingegneri ed architetti liberi professionisti - INARCASSA
Cassa italiana di previdenza e assistenza dei geometri liberi professionisti
Cassa nazionale del notariato
Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei dottori commercialisti – CNPADC
Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei ragionieri e periti commerciali – CNPR
Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense
Ente di previdenza dei periti industriali e dei periti industriali laureati – EPPI
Ente di previdenza e assistenza pluricategoriale – EPAP
Ente nazionale di assistenza magistrale – ENAM
Ente nazionale di previdenza e assistenza a favore dei biologi – ENPAB
Ente nazionale di previdenza e assistenza degli psicologi – ENPAP
Ente nazionale di previdenza e assistenza dei farmacisti – ENPAF
Ente nazionale di previdenza e assistenza dei veterinari – ENPAV
Ente nazionale di previdenza e assistenza della professione infermieristica – ENPAPI
Ente nazionale di previdenza e assistenza lavoratori dello spettacolo e dello sport
professionistico – ENPALS1
Ente nazionale di previdenza e assistenza per i consulenti del lavoro – ENPACL
Ente nazionale di previdenza per gli addetti e gli impiegati in agricoltura – ENPAIA
Ente nazionale previdenza e assistenza dei medici e degli odontoiatri – ENPAM
Fondazione ENASARCO
Fondo Agenti Spedizionieri e Corrieri – FASC
Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani G. Amendola – INPGI
Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica – INPDAP2
Istituto nazionale infortuni sul lavoro – INAIL
Istituto nazionale previdenza sociale – INPS
Opera nazionale per l’assistenza agli orfani dei sanitari italiani – ONAOSI
( Fonte: ISTAT, Elenco delle Amministrazioni pubbliche, in Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 227 del 28 settembre 2012.)
1. L’Ente, dal 1/1/2012, è stato accorpato all’Inps.
2. 
L’Ente, dal 1/1/2012, è stato accorpato all’Inps.
Attualmente, in Italia, la maggior parte delle assicurazioni obbligatorie è gestita dall’Inps (Istituto
nazionale della previdenza sociale), che amministra i seguenti servizi previdenziali:
l’assicurazione contro la vecchiaia, l’invalidità e l’assicurazione superstiti, gestite at•
traverso il pagamento di una pensione a favore degli assicurati nel momento in cui divenissero
invalidi per cause estranee al lavoro, al compimento di una data età, e agli eredi (aventi diritto)
dell’assicurato in caso di morte;
•
l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria, che consiste nel pagamento all’assistito di un’indennità giornaliera per un dato periodo di tempo, in caso di disoccupazione.
L’Inps non amministra, però, i servizi assistenziali, che sono separati dalla gestione previdenziale
e vengono finanziati dalla fiscalità generale.
Il secondo ente previdenziale di rilevante importanza nazionale è l’Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), che gestisce le assicurazioni obbligatorie contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali a favore dei dipendenti delle imprese industriali, commerciali
e agricole che svolgono opera manuale e che, per tale ragione, sono soggetti ai rischi professionali.
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Le prestazioni effettuate dall’Inail sono sia economiche (un’indennità giornaliera in caso di inabilità totale temporanea e una rendita commisurata alla retribuzione se l’inabilità è permanente), sia medicochirurgiche (ad es. la fornitura di protesi).
Dobbiamo rilevare che l’enorme crescita delle spese sociali (che rischia di portare a un collasso
dell’intero sistema, specialmente di quello pensionistico) è causata da una molteplicità di fattori concomitanti, tra i quali ricordiamo:
•l’aumento della popolazione assicurata e della durata media della vita;
•l’indicizzazione, quanto meno parziale, di molte prestazioni (necessaria a mantenere inalterato il loro potere di acquisto, tenuto conto dell’inflazione);
•l’insufficienza dei prelievi contributivi sulle retribuzioni di alcune categorie di lavoratori autonomi, ancora inferiori rispetto a quelli effettuati sui compensi di lavoro dipendente.
Queste considerazioni suggeriscono la necessità di una razionalizzazione del sistema pensionistico,
che dovrebbe operare secondo le seguenti direttive:
•una riforma dei criteri di determinazione dell’età pensionabile e della retribuzione pensionabile, nonché del rapporto tra l’ammontare della pensione e quello della retribuzione (riforma in parte attuata recentemente);
•un’incisiva promozione della previdenza integrativa, attraverso lo sviluppo dei fondi-pensione.
Tali direttive sono state sostanzialmente accolte dalle riforme pensionistiche del 1995, del 2004,
del 2007, del 2009 e del 2012.
4 Le principali riforme del sistema pensionistico italiano
In ordine cronologico, ecco le principali novità introdotte in Italia dalle riforme del sistema pensionistico pubblico e contemporaneamente l’evoluzione della previdenza complementare.
Fino a dicembre del 1992 il lavoratore iscritto all’Inps riceveva una pensione il cui importo era collegato alla retribuzione percepita negli ultimi anni di lavoro. Con una rivalutazione media del 2% per ogni
anno di contribuzione, per 40 anni di versamenti, veniva erogata una pensione che corrispondeva
a circa l’80% della retribuzione percepita nell’ultimo periodo di attività lavorativa. Inoltre, la pensione
in pagamento veniva rivalutata negli anni successivi tenendo conto di due elementi fondamentali:
l’aumento dei prezzi e l’innalzamento dei salari reali.
In questa fase esperienze di previdenza complementare sono presenti solo nelle banche e in alcune
aziende con appositi Fondi pensione creati per i soli dipendenti delle aziende stesse.
Con la riforma Amato del 1992 (D. Lgs. n. 503 del 1992), lo scenario cambia:
•si innalza l’età per la pensione di vecchiaia e si estende gradualmente, fino all’intera vita lavorativa,
il periodo di contribuzione valido per il calcolo della pensione;
•le retribuzioni prese a riferimento per determinare l’importo della pensione vengono rivalutate
all’1%, percentuale nettamente inferiore a quella applicata prima della riforma;
•la rivalutazione automatica delle pensioni in pagamento viene limitata alla dinamica dei prezzi (e
non anche a quella dei salari reali).
La riforma Amato ha dato il via a un processo di armonizzazione delle regole tra i diversi regimi
previdenziali, ma di fatto ha anche determinato una riduzione del grado di copertura pensionistica
rispetto all’ultimo stipendio percepito. Da qui la necessità di introdurre una disciplina organica della
previdenza complementare con l’istituzione dei Fondi pensione ad adesione collettiva negoziali e
aperti (Decreto Legislativo n. 124/1993).
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Con la riforma Dini del 1995 (Legge n. 335 del 1995) si è passati dal sistema retributivo a quello
contributivo. La differenza tra i due sistemi è sostanziale:
•nel sistema retributivo la pensione corrisponde a una percentuale dello stipendio del lavoratore:
essa dipende dall’anzianità contributiva e dalle retribuzioni, in particolare quelle percepite nell’ultimo periodo della vita lavorativa, che tendenzialmente sono le più favorevoli;
•nel sistema contributivo, invece, l’importo della pensione dipende dall’ammontare dei contributi versati dal lavoratore nell’arco della vita lavorativa.
Il passaggio dall’uno all’altro sistema di calcolo è avvenuto in modo graduale, distinguendo i lavoratori in base all’anzianità contributiva. Si sono così create tre diverse situazioni:
•i lavoratori con almeno 18 anni di anzianità contributiva a fine 1995 hanno mantenuto il sistema
retributivo;
•ai lavoratori con un’anzianità contributiva inferiore ai 18 anni alla stessa data, è stato attribuito il
sistema misto, cioè retributivo fino al 1995 e contributivo per gli anni successivi;
•ai neoassunti dopo il 1995 viene applicato il sistema di calcolo contributivo.
Il sistema di calcolo contributivo comporta una consistente diminuzione del rapporto tra la prima
rata di pensione e l’ultimo stipendio percepito (cosiddetto tasso di sostituzione): per i lavoratori dipendenti con 35 anni di contributi, la pensione corrisponde a circa il 50-60% dell’ultimo stipendio
(per gli autonomi si ha un valore assai inferiore) e si rivaluta unicamente in base al tasso d’ inflazione.
Con il Decreto Legislativo n. 47 del 2000 viene migliorato il trattamento fiscale per coloro che
aderiscono a un Fondo pensione e sono introdotte nuove opportunità per chi desidera aderire in
forma individuale alla previdenza complementare attraverso l’iscrizione a un Fondo pensione aperto
o a un Piano individuale pensionistico (cosiddetto Pip).
Con la riforma Maroni del 2004 (Legge delega n. 243 del 2004) vengono stabiliti incentivi per
chi rinvia la pensione di anzianità: chi sceglie il rinvio può beneficiare di un super bonus che consiste
nel versamento in busta paga dei contributi previdenziali che sarebbero stati versati all’ente di previdenza (un importo pari a circa un terzo dello stipendio).
Aumenta l’età anagrafica per le pensioni di anzianità e quelle di vecchiaia; solo per le donne rimane
la possibilità di andare in pensione di anzianità a 57 anni ma con forti tagli all’assegno pensionistico,
prevedendo il calcolo della pensione integralmente con il sistema contributivo.
Vengono inoltre fissati i criteri di delega per un ampio disegno di riforma della previdenza complementare.
Elementi cardine della delega sono:
•una migliore equiparazione tra le diverse forme pensionistiche complementari;
•il conferimento del Tfr (Trattamento di Fine Rapporto) da parte dei lavoratori dipendenti alla previdenza complementare anche con modalità tacite;
•l’unitarietà e omogeneità della vigilanza sul settore attribuita alla Commissione di vigilanza sui
Fondi pensione (Covip).
Con il Decreto Legislativo n. 252 del 2005 viene data attuazione alla predetta Legge delega sostituendo interamente il Decreto legislativo n. 124 del1993.
La riforma Prodi del 2007 (Legge n. 247 del 2007), introduce le cosiddette “quote” per l’accesso
alla pensione di anzianità, determinate dalla somma dell’età e degli anni lavorati: nel 2009 la quota da
raggiungere è 95 (con almeno 59 anni di età), dal 2011 si passa a quota 96 (con almeno 60 anni di
età), mentre dal 2013 si sale a 97 (con almeno 61 anni di età); si rende inoltre automatica e triennale
la revisione dei coefficienti di calcolo della pensione obbligatoria in funzione della vita media calcolata
su dati Istat.
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La Legge n. 102 del 2009 stabilisce che:
•dal 1° gennaio 2010, l’età di pensionamento prevista per le lavoratrici del pubblico impiego aumenta progressivamente fino a raggiungere i 65 anni;
•dal 1° gennaio 2015, l’adeguamento dei requisiti anagrafici per il pensionamento deve essere
collegato all’incremento della speranza di vita accertato dall’Istat e validato dall’Eurostat.
Infine, la Legge n. 92 del 2012 (nota come riforma Fornero) completa le precedenti riforme previdenziali estendendo a tutti il metodo contributivo per il calcolo delle pensioni di anzianità. L’età di
pensionamento viene alzata a 62 anni per le donne lavoratrici dipendenti del settore privato (63 anni
e 6 mesi per le lavoratrici autonome). Entro il 2018 l’età di pensionamento delle donne sarà equiparata a quella degli uomini, che resta a 65 anni.
GLI ESODATI: UNA QUESTIONE APERTA
L
a riforma Fornero, presentata dall’allora ministra del governo Monti, non è stata priva di code polemiche, se non
disperanti, per i così detti esodati.
Sul sito internet EXCITE/ Economia e lavoro se ne parlava diffusamente così:
ma che invece diventa urgente per quanti avrebbero dovuto maturare i requisiti nel 2012 (con possibilità di
pensionamento dal 2013 in poi) e che, alla luce di ciò, hanno accettato il cosiddetto “esodo volontario”.
Un vero e proprio “popolo” caratterizzato da numeri vertiginosi: dopo una prima stima di circa 65 mila unità, il
governo Monti ha riveduto i numeri al rialzo, arrivando a ipotizzare che gli esodati possano essere addirittura 350
mila e ritrovandosi nella condizione di dover provvedere a queste persone che, in buona fede e molto spesso per
fare un favore alle proprie aziende, hanno scelto di firmare degli accordi che allo stato attuale delle cose potrebbero
rappresentare la loro rovina.
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Esodati: gli ex lavoratori nel limbo
Esodati, chi sono? La domanda è lecita alla luce delle conseguenze della riforma delle pensioni attuata dal governo
Monti, che ha spostato in avanti l’età per ritirarsi dall’attività lavorativa, precipitando molte persone in una situazione
drammatica: ritrovarsi disoccupati, senza la possibilità di ricevere l’assegno mensile guadagnato con anni di contributi
versati regolarmente.
Gli esodati, infatti, sono tutti quei lavoratori che, prossimi alla pensione, hanno deciso di lasciare il lavoro dietro
corresponsione da parte della propria azienda di una buonuscita-ponte, firmando il licenziamento o accettando
di essere messi in mobilità. Una soluzione diffusa nell’imprenditoria italiana per cercare di far quadrare i conti di spese
sempre più alte e introiti sempre più bassi, che tuttavia, alla luce delle nuove disposizioni in merito all’età pensionabile,
ha dato origine a una situazione altamente critica.
Un problema che non interessa:
•coloro che hanno raggiunto i requisiti nel 2011 e sono in attesa della finestra mobile introdotta dal ministro Sacconi
nel 2010 (12 mesi per i dipendenti, 18 per gli autonomi);
•chi ha risolto il rapporto di lavoro o ha accettato di farlo nell’ambito di una procedura collettiva di mobilità conclusa
entro il 4 dicembre 2011;
•i dipendenti pubblici che entro il 4 dicembre 2011 hanno chiesto di essere esonerati dal servizio
•i collocati in mobilità lunga;
•i lavoratori che prima del 4 dicembre 2011 hanno ricevuto il via libera alla prosecuzione volontaria della contribuzione;
•coloro che entro il 4 dicembre 2011 risultavano già titolari di una prestazione straordinaria finanziata da fondi di
solidarietà di settore;
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Indennità e ammortizzatori: il problema dei costi
Lo spostamento in avanti dell’età pensionabile è stato fatto per dare respiro alle casse dello Stato, ma rischia di avere
esattamente l’effetto opposto. La soluzione del governo di pagare un’indennità transitoria più lunga della neonata
Aspi1 (18 mesi per gli over 55), ma con le stesse caratteristiche, significa mettere in conto una spesa superiore a
3 miliardi di euro all’anno (considerando 1 119 euro per 12 mesi da pagare a 350 mila persone, è facile farsi
un’idea). Idem dicasi per un ammortizzatore ad hoc. Il nodo diventa allora quello di reperire i fondi, che per legge
dovrebbero essere acquisiti con un aumento dei contributi per gli ammortizzatori versati dalle aziende. Una
soluzione che rischia di affossare ancora di più la produzione italiana, già in crisi profonda, e che porta a rispondere
alla domanda “esodati, chi sono?” con “un problema”, anziché “la soluzione” che il governo credeva di aver trovato
per salvare l’economia nazionale.
(Fonte: http://lavoro,excite.it/esodati-chi-sono.html, 6 aprile 2012)
1. Si tratta della nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego a sostegno dei disoccupati. In vigore dal 1° gennaio 2013, essa sostituisce,
unendole in un solo ammortizzatore, la maggior parte delle precedenti indennità di disoccupazione, oltre all’indennità di mobilità.
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