I Le sette. Erano già le sette e Puri ancora non si ve

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I Le sette. Erano già le sette e Puri ancora non si ve
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Le sette. Erano già le sette e Puri ancora non si vedeva.
Ci farà fare tardi, pensò Saturnino, e accompagnò lo
sguardo inquieto, rivolto alla grossa sveglia sulla credenza della cucina, con un gesto di impazienza e di stizza.
“Tadeo, tu almeno sei pronto?” domandò con tono
brusco, rivolgendosi verso il corridoio.
“Sì, padre” si udì di rimando.
La chiave girò nella serratura. Puri entrò un po’ trafelata, lasciando l’ombrello gocciolante fuori dalla porta.
“Ho consegnato tutto. La signora Zabaleta è stata
molto contenta. Quel suo vestito così com’era non andava proprio più, invece così rimesso a posto... Mamma mia com’è tardi! – esclamò. – Andiamo?”
A Tadeo fu affidata una grossa sporta di paglia, di
quelle per la spesa. Una corda, attraversando più volte
i manici, formava un gioco di intrecci sul canovaccio a
quadri blu, che fungeva da copertura.
La porta si chiuse e i tre si avviarono verso la stazione.
Il piccolo appartamento restò vuoto. Sui vetri delle
finestre, la pioggia fina fina disegnava ghirigori inutili.
Il giorno digradava lentamente dietro una trapunta
grigia.
La stazioncina era perfettamente in carattere con
l’insieme del paese.
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Nel cuore dell’hinterland di Bilbao, il capoluogo della Biscaglia e la città più importante delle province basche, Sestao era un grosso borgo industriale, dove case
e fabbriche si ammassavano in un insieme compatto.
La stazione era brutta e scomoda: non c’era nemmeno una panchina, eppure decine di migliaia di operai ogni giorno si spostavano con quei treni su e giù
per la Ría, il territorio basco a più alta concentrazione
industriale: due strisce di terra lunghe 16 chilometri ciascuna, che fiancheggiano l’estuario del Nervión, dal
capoluogo al mare. Inzeppata fino all’inverosimile di
fabbriche, rumori, fumo, odori nauseabondi e misere
case operaie, la Ría era popolata da un’umanità fitta e
laboriosa, apparentemente uniforme, ma cui le molte
diverse parlate regalavano guizzi di luce, come la brezza alle foglie dei pioppi.
L’assoluta mancanza di comodità di quella stazione
dimostrava che, evidentemente, i lavoratori non dovevano mai essere stanchi o forse i treni non erano mai in
ritardo.
I marciapiedi lungo i binari erano sporchi e male
illuminati e tutto il paese non era che un affastellarsi di
case annerite, fatiscenti e misere, attorno agli enormi
mostri ardenti degli altiforni e al fragore dei cantieri
navali: una cascata di solitudini e di insalubri brutture,
che veniva giù da una collina, in altri tempi amena e
verdeggiante.
A Sestao, quando l’altoforno 2A apriva la colata
d’acciaio, tutto il paese respirava zolfo e soda caustica.
Ma questo era il prezzo da pagare per avere un lavoro. Qui si veniva da ogni parte della Spagna in cerca
di un salario sicuro, anche se a condizioni durissime.
A volte, quelli del sindacato clandestino organizzavano azioni di protesta, assemblee, scioperi. Non tutti
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li seguivano. La gente aveva paura. Paura di perdere
il posto o, peggio, di finire in carcere. E infatti, i sindacalisti era lì che finivano e per le famiglie diventava
un incubo.
Quelli del sindacato ufficiale, invece, si limitavano a rispolverare periodicamente la loro retorica, che
andava predicando l’unione gloriosa di lavoratori e
imprenditori. Il sindacato franchista, la Organización
Sindical, era uno dei tre ambiti previsti dal regime per
l’inquadramento dei cittadini: famiglia, municipio e
sindacato. La gente lo chiamava Sindicato Vertical,
perché c’erano dentro tutti: i padroni delle fabbriche,
i dirigenti, gli impiegati e gli operai, non divisi, però,
per categorie, ma per rami di attività, in maniera, appunto, verticale.
Per la partecipazione strettamente politica, invece,
c’era il Movimiento Nacional, partito unico, elevato al
rango di ministero.
Quando in ambienti ufficiali, compresi quelli sindacali, ci si riferiva ai lavoratori, raramente si usava
il termine obreros (operai), preferendo quello più generico di trabajadores (lavoratori) o, meglio ancora,
quello tutto autarchico di productores, ibrido di incerta collocazione.
Alla Spagna franchista sembrava che il termine obrero appartenesse alla più pericolosa tradizione bolscevica e portasse con sé deprecabili echi del passato, ricordando che, prima della guerra, durante la seconda repubblica, aveva governato il Partido Socialista Obrero
Español, che di bolscevico non aveva un gran che, ma
che era alleato del Partito Comunista nel Fronte Popolare, ed era quindi uno dei simboli della sciagurata sinistra, che la vittoria dei Nacionales nella guerra civile
aveva definitivamente messo al bando.
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Saturnino e sua moglie Puri, come tanti altri, appena sposati erano venuti in Biscaglia, dal loro paesino
toledano. Dopo i nove mesi canonici dal loro matrimonio, a Sestao, in due stanzette fredde, era nato Tadeo.
Il parto era stato lungo e difficile e, dopo di lui, di figli
non ne erano venuti altri.
Da bambino era stato un po’gracile. Ha bisogno di
vitamine, aveva decretato il dottore del dispensario de
La Naval, i grandi cantieri navali in cui lavorava Saturnino, detto Satur, e forse il clima asciutto della Castiglia gli avrebbe giovato più dell’umidità del nord, ma,
in Castiglia, quelle tre bocche non avrebbero avuto di
che sfamarsi. Ci tornavano d’estate, per le vacanze e,
alla fine, Tadeo era venuto su abbastanza forte, salvo
per qualche bronchite. Del resto, Saturnino era fortunato ad aver trovato un lavoro vero e dignitoso nel
nord, dove pioveva tanto, ma il salario c’era tutti i mesi
e con l’indennità del turno di notte e un po’ di lavoro di
cucito di Puri, ogni tanto, potevano perfino permettersi
un cinema.
A Sestao presero dunque il trenino locale e, mentre
andavano verso la città, attraverso il velo impalpabile
della pioggia estiva, al di sopra del groviglio scuro e
implacabile delle case e delle fabbriche della Ría, Satur e Puri guardavano le colline verdi, i prati smeraldini con le mucche al pascolo, le masse fitte degli alberi,
le cascine sparse, che ancora resistevano all’avanzare
dell’industria ed ancora una volta quella ricchezza tutta sfumata di verdi e di grigi li stupiva: era così diversa
dai colori assoluti della loro Castiglia...
Alla stazione centrale di Bilbao, si arrampicarono
con i loro bagagli su un vagone che li avrebbe portati a Madrid. Ci sarebbero volute circa dieci ore, per
percorrere i 400 chilometri che separano la città basca
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dalla capitale della Spagna. Poi avrebbero preso due diverse corriere e l’indomani, verso le sei di sera, se tutto
andava liscio, sarebbero giunti a Trifuentes del Cigarral.
Il viaggio era faticoso, ma a Tadeo piaceva. I genitori
sonnecchiavano a lungo e lui non doveva fare altro che
dare una mano nei trasbordi. Per il resto poteva leggere,
guardare il paesaggio e fantasticare quanto gli pareva.
Ogni tanto suo padre gli chiedeva perché aveva lo
sguardo perso e sua madre domandava a più riprese
se aveva fame o se era contento di andare al paese, a
trovare i parenti, ma, a parte questo, era libero. Quella
giornata restava come sospesa, non era la vita normale
e non era ancora una giornata di vacanza: era una terra
di nessuno, tra un luogo e l’altro e un tempo di nessuno, tra due ritmi di vita: un territorio dell’anima del
quale gli piaceva sentirsi padrone.
Quella sarebbe stata una vacanza speciale: l’ultima
dell’infanzia. All’inizio dell’anno Tadeo aveva compiuto quattordici anni e a settembre avrebbe iniziato
la prestigiosa scuola di apprendisti della Naval, per
studiare disegno industriale. Da quel momento sarebbe entrato nel mondo degli adulti. I cugini più grandi,
rimasti al paese, che campavano malamente facendo
i braccianti agricoli, lo avrebbero rispettato e tenuto
in grande considerazione, perché lui, Tadeo, anche se
ancora apprendista, sarebbe diventato un operaio specializzato della Naval, la stessa ditta in cui suo padre
lavorava come manovale e le ragazze gli avrebbero
dato retta, anche perché, da settembre, le sue gambe
scure e fibrose, come quelle di certe caprette toledane,
avrebbero finalmente conosciuto i pantaloni lunghi.
Alle due di un torrido pomeriggio di luglio, la prima delle due corriere che dovevano prendere li scaricò
su un piazzalone assolato alla periferia di Toledo.
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Impossibile di qui immaginare la magnificenza della città e la curva con la quale il Tago sembra stringerla
per la vita, come un amante possessivo e impaziente.
La periferia anonima non restituiva nulla di un passato
remoto e splendido. Le sue vestigia attiravano turisti
da tutto il mondo: in quei monumenti insoliti rimanevano le tracce di un’armonia tra culture e fedi diverse
che, per una volta, non era rimasta solo un sogno visionario. Molti secoli prima, qui a Toledo, era accaduto
persino che un re cristiano finanziasse una nuova sinagoga, per ringraziare il suo segretario ebreo, e questi
ne aveva affidato la costruzione agli arabi, gli architetti
e gli artigiani più bravi del tempo.
Di tutto questo Saturnino e Puri non sapevano nulla. Sapevano confusamente, questo sì, che c’erano stati
gli arabi, gli ebrei e i cristiani e che, alla fine, questi
avevano avuto ragione di tutti gli altri. Era stato un
gran bene per la patria, avevano detto loro. Tadeo ne
aveva imparato un po’ di più a scuola, ma la storia che
si studiava allora era coperta da un manto di retorica
così fitto, che rendeva la realtà irriconoscibile.
Satur e Puri sapevano poi che il capoluogo della loro
provincia era stato la capitale di un impero grandissimo, che abbracciava mezzo mondo e di questo si sentivano oscuramente fieri.
Per Tadeo era diverso. A quella città, a quei luoghi
era affezionato per via delle vacanze, ma lui era nato
nel nord, lì era sempre vissuto e non era per niente convinto, come desideravano o forse davano per scontato i
suoi, di appartenere più al continuo frinire delle cicale
dei campi toledani, che al ruggito del mar Cantábrico,
che rompe a Punta Galea.
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“Non ce la faccio più – sospirò affranta Puri, che
cercava refrigerio nei movimenti di un ventaglio umile
e pretenzioso, pieno di pizzi neri. – Non so se è meglio questo caldo nostro o la pioggia e il cielo grigio
di lassù.”
“¡Qué tontería! – la rimbeccò ruvido suo marito –
non essere stupida! Certo che è meglio il nostro clima. L’ha detto anche il dottore del dispensario quando
Tadeo era piccolo. Non te lo ricordi? Fa caldo, ma il
clima è asciutto ed è molto sano” asserì convinto.
Satur nell’insieme era un brav’uomo, ma il suo carattere era introverso, ombroso e cupo e i suoi modi
bruschi e sbrigativi. Riteneva la moglie un essere leggermente inferiore e, del resto, era solo una donna,
anche se doveva ammettere di esserle abbastanza affezionato. Aveva grandi speranze riguardo a Tadeo: il ragazzo valeva, ne era sicuro, e forse, un giorno sarebbe
potuto diventare perfino caporeparto, ma considerava
una mollezza perniciosa mostrarsi tenero con lui.
Il padre di Satur, di cui Tadeo portava il nome, era
sempre stato un bracciante agricolo che andava a lavorare, quando c’era da lavorare, nei campi degli altri.
L’orto e i pochi alberi da frutto che possedeva provvedevano solo parzialmente alle necessità della famiglia
e, certi anni, gli inverni erano proprio duri. Sarebbe
stato orgoglioso che suo nipote diventasse capo reparto alla Naval, lassù nel nord.
“Madre, ma dobbiamo mangiare qui al sole? Non c’è
nemmeno un posto per sedersi” esclamò contrariato
Tadeo, quando sua madre cominciò a rimestare dentro
la sporta delle provviste, portate da casa per il pranzo.
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“Ci sarebbe il solito bar” azzardò Puri, guardando
timidamente il marito.
“Sì, andiamo” concesse Satur.
Tadeo amava quei pranzi lungo la strada delle vacanze e amava quel bar dall’aspetto paesano, all’estrema periferia della città.
Era un bar qualsiasi, con il pavimento coperto di
segatura, che si mischiava ai tovagliolini, agli stuzzicadenti e ai noccioli delle olive, gettati a terra dagli
avventori. Aveva un bancone di legno, segnato dai cerchi lasciati da mille bicchieri, odorava di vino ed era
scuro e fresco, come il ventre di un grande orcio; ma
soprattutto, oltre la porta del fondo, si apriva un cortile
ombroso di platani. Lì erano sistemati quattro tavoli e
qualche panca e, in cambio della consumazione delle
bevande, era permesso pranzare con cibi propri.
“Mezzo litro di rosso e una bottiglia di gazzosa” ordinò Satur e la mano spiccia dell’oste fece zampillare
dall’otre di pelle di capra il vino, che si riversò gorgogliando nella rustica caraffa di terracotta.
Da una sporta, venuta con loro da Sestao, Puri fece
apparire tre panini imbottiti con fettine di carne impanata e peperoni verdi fritti e la fiambrera, un contenitore rotondo di alluminio, che custodiva una tortilla de
patatas, la fragrante frittata di patate, piatto umile, ma
sublime, della cucina domestica spagnola. Il pane si
era fatto duro e i cibi erano un po’ unti, ma per Tadeo
non esisteva banchetto migliore.
Una volta rifocillati, alle quattro e mezza, presero
la corriera per Talavera de la Reina, che un’ora dopo,
invece di depositarli a destinazione, era ancora ferma
a cinque chilometri da Toledo, a causa di un guasto.
I passeggeri erano stati costretti a scendere.
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