Michelangelo: Mito e genio cinquecento anni dopo

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Michelangelo: Mito e genio cinquecento anni dopo
Michelangelo: Mito e genio cinquecento anni dopo
Non ha l’ottimo artista alcun concetto
C’un marmo solo in sé non circonscriva
Col suo superchio, e solo a quello arriva
1
La man che ubbidisce all’intelletto
I celebri versi composti dal “Divino” Michelangelo possono ben esplicare la sua concezione artistica, e
sono una chiara confessione di quello che fu il suo grande interesse per il neoplatonismo, corrente filosofica
straordinariamente diffusa nel clima culturale dell’umanesimo. Per l’artista l’atto scultoreo sta tutto nel
levare, al fine di poter liberare la forma ideale prigioniera del marmo in eccesso, proprio come il corpo,
secondo la teoria platonica, è una gabbia per il volo liberatorio dell’animo umano, il quale tenta di innalzarsi
al mondo iperuranio dove poter contemplare con l’intelletto la pura bellezza delle idee. Tale attitudine del
Buonarroti è stata studiata da Carlo del Bravo, il quale ci dice che in Michelangelo fu sempre viva «la
coscienza dell’arte come via alla contemplazione e all’entusiasmo, nella quale il progressivo superamento
della contingenza fa ricercare il bel nudo come riflesso primario dell’assoluto»2; nell’intento di raggiungere
tali sublimi visioni, egli arrivava a disprezzare qualsiasi valore mondano, la varietà del linguaggio artistico, e
rifiutava di indugiare nella raffigurazione del dato naturale3. Una necessità che, nonostante fratture interne o
sensi di colpa, con energia lo sospingeva alla nobile contemplazione della grazia della figura umana, nel
desiderio di ritrovarvi l’origine divina4:
L’amore di quel ch’i’ parlo in alto aspira;
donna è dissimil troppo; e mal conviensi
arder di quella al cor saggio e verile.
5
L’un tira al cielo, e l’altro in terra tira.
Tali pensieri senz’altro guidarono lo scalpello dello scultore nella creazione del travagliato monumento a
Giulio II della Rovere: una volumetrica poesia della materia, un progetto ambizioso che vedeva il pensiero
michelangiolesco elevarsi e sublimarsi in pensieri neoplatonici sull'elevazione dell'anima6. In quest'opera il
committente volle evidenziare le sue affinità con san Paolo, il quale «un'illuminazione divina lo liberò da
audacia e superbia; che la grazia, con la gratuita giustificazione, in lui vinse il peccato della carne»7. L'opera,
come immaginiamo, era da leggersi in un crescendo dal basso verso l'alto, nel seguente ordine: dai Prigioni,
simbolo dell'anima intrappolata nella materia, alle Vittorie alate – due donne in atto di spogliarsi delle vesti
corporali – nelle nicchie frontali, salendo, oltre i Termini (allusivi al limite umano), al secondo livello, dove
troviamo la figura della Vita contemplativa, affiancata al san Paolo, e dall’altra parte il Mosè a lato della Vita
1
M. Buonarroti, Rime, a cura di E. Barelli, Milano 1975, n° 151.
C. Del Bravo, Il tribolo (1976-77), in Le risposte dell’arte, Firenze 1985, p. 110.
3
G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti (1568), Roma 2010, p. 1233; C. Del Bravo, Il Tribolo cit., p. 111.
Sui concetti di varietas e di umanesimo attivo e contemplativo nell’arte rinascimentale vedi C. Del Bravo, Varietas e contemplazione
nel Quattrocento, in Le risposte cit., pp. 53-71.
4
C. Del Bravo, I Carracci (1979), in Le risposte cit., pp. 139-140. Breve commento alla Volta Sistina (1996), in Bellezza e pensiero,
Firenze 1997, pp. 93-95.
5
M. Buonarroti, op. cit., n° 260.
6
C. Del Bravo, Conversazione intorno al monumento per Giulio II (2001), in Intese sull’arte, Firenze 2008, pp. 141-152.
7
C. Del Bravo, Conversazione intorno al monumento cit., p. 145.
2
attiva. Il significato profondo dell'opera, condiviso dall'artista e dal suo committente, si univa in pensieri
volti al superamento di valori mondani, per arrivare alla contemplazione di concetti più alti e spirituali.
Mezzo millennio separa la concezione michelangiolesca dell'arte dalla sensibilità contemporanea dei
giovani artisti impegnati nella libera ed ambiziosa reinterpretazione del mausoleo a Giulio II, partendo dallo
studio di alcuni disegni dei primi progetti dell'opera; è stato dunque davvero interessante osservare come la
sensibilità pittorica moderna di ciascun ragazzo abbia reagito all'attitudine fortemente contemplativa del
"divino" Michelangelo verso la creazione artistica; in qual modo le loro voci interiori si siano avvicinate a
questo tipo di linguaggio figurativo. Rispettando così l'originario ordine di lettura dal basso verso l'alto,
procederemo nella descrizione dei lavori eseguiti dagli artisti.
Partendo dai prigioni collocati al primo livello, vediamo i disegni di Stefano Galli, Jacopo Ginanneschi e
Giulia Huober. Stefano nelle sue creazioni, poste all'estremità della struttura, affronta i suoi pensieri sul tema
in un emergere dall'oscurità alla luce, dalla potenza all'atto, dimostrando una forte sensibilità pittorica e
spirituale nel meditare sui modelli michelangioleschi, e recependo appieno una ricerca contemplativa della
bellezza; i corpi sembrano illuminarsi di una grazia celeste, liberati dalle tenebre della materia, dunque dal
male, che, secondo il pensiero neoplatonico, non è altro che assenza di luce. L’artista afferma di non avere
un preciso riferimento artistico, ma ci pare di notare in lui richiami alla pittura francese ottocentesca –
pensiamo ad Ingres o Bouguereau – nella delicatezza lineare nel disegno dei nudi.
In Jacopo Ginanneschi vige, più di tutti i suoi colleghi, il celebre aspetto michelangiolesco della pittura di
nudi scultorei a tutto tondo8. Egli, procedendo per bozzetti e studi di nudi, mostra di aver raggiunto una forte
intesa con il genio michelangiolesco9; e crediamo che esamini in maniera quasi stoica la materia marmorea,
rimandandoci al Lucullus di Cicerone, in cui si parla della certezza dei giudizi sensoriali: «Chi è che non
vede quanta grande forza c'è nei sensi? Quante cose vedono i pittori nelle cose che sono in ombra e in
rilievo, che noi non vediamo?»10. Jacopo nel concepimento dell'Atlante e nel Vittorioso indugia sui dettagli,
nella volontà di esaminare a fondo l'oggetto che ha davanti, dunque con un approccio oggettivo e razionale.
Giulia è, tra gli artisti che partecipano al progetto, la più interessata a sperimentare nuove tecniche
pittoriche. Lei stessa dichiara di lasciarsi guidare nella creazione delle forme iniziando da alcune macchie di
pigmento impresse casualmente, ricavando poi da esse lo sviluppo delle figure. Gli artisti a cui lei si ispira
vanno dal Pontormo e dal suo studio sulle pose del corpo umano, fino ai pittori del ritorno all'ordine, in
particolare Sironi. Inoltre è stata un'attenta osservatrice non solo dei Prigioni, ma anche degli affreschi della
Cappella Sistina, riuscendo ad individuare nelle forme di Michelangelo posizioni e aspetti che, secondo lei,
si ripropongono. Osservando le torsioni di questi corpi – ispirate al contrapposto michelangiolesco –
vediamo poi quanto essa sia riuscita ad esprimere un grande effetto di dinamicità, la stessa dinamicità con la
quale agisce nello sperimentare sulla tela, quasi in una lotta con la materia cartacea del supporto.
Saliamo adesso al livello superiore e concentriamoci sui lavori di Gleb Shtyrmer e Matteo Benetazzo. Il
primo ha dato prova di sé nelle due imponenti figure bibliche del Mosè e del san Paolo; il secondo si è
8
C. Del Bravo, Scale di immaginazioni (1993), in Bellezza e pensiero cit., pp. 101-102; C. Del Bravo, Breve commento cit., p. 94.
G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori cit., pp. 1203-1205; C. Del Bravo, Il Tribolo cit., p. 111.
10
Cicerone, Lucullo, Traduzione a cura di U. Carlotti, Roma 1964, VII, 19-20.
9
cimentato nella realizzazione della Vita attiva e della Vita contemplativa, dandoci una personalissima
interpretazione di queste figure.
Guardando le opere di Gleb, rimaniamo colpiti dall’immensa, precisa struttura dei due soggetti e dalle
loro salde pose, stagliandosi con imponenza sull’osservatore. Del patriarca egli ha reso perfettamente la
terribilità michelangiolesca del volto11, arricchendolo nella pittura, ci pare, di visioni sublimi simili a quelle
J. H. Füssli. Il disegno è collocato (come in uno dei progetti originari dell’opera) a fianco della Vita Attiva,
poiché Mosè ebbe una «fede non contemplativa, ma rivolta alle opere», obbediente alla legge divina e
vittoriosa sull’idolatria12, al contrario del popolo d’Israele13, verso il quale scatta severo il suo sguardo. Nel
San Paolo Gleb ha dovuto affrontare un lavoro difficile quanto stimolante, poiché ha dovuto immaginare dal
nulla una figura dell’originario progetto mai compiuta. Osservando il volto del santo, ci sembra di poter
trovare alcune somiglianze con quello che Michelangelo raffigurò negli affreschi della Cappella Paolina;
inoltre il suo gesto esteriore sembra coincidere col significato della vita contemplativa posta di fianco, dato
che egli è colto in un momento di riflessione su quelle lettere da lui composte e tenute in mano,
contemplando dentro di sé l’illuminazione della grazia divina che scelse proprio lui, superbo e audace, e
tuttavia liberato dal peccato14.
Nelle due figure allegoriche di Matteo vediamo dei precisi rimandi letterari alla Divina Commedia,
poiché egli ha deciso di far vestire i panni di queste due vite alle figure bibliche di Lia e Rachele, apparse a
Dante in visione come custodi del limes tra purgatorio e paradiso (Purgatorio XVII vv. 94-108). Lia,
personificazione della vita attiva e del lavoro, viene rappresentata giovane e bella, intenta ad intrecciare una
ghirlanda di fiori – la specie lì raffigurata, seguendo il pensiero dell’artista, rimanda alla passione sia carnale
che cristologica – così da farsi bella e potersi contemplare allo specchio, gesto a cui allude la corona di volti
sul suo capo; inoltre il pittore, in un dolcissimo gesto che celebra anche una sua esperienza personale,
inserendo nel ventre della figura un bambino, simbolo della generazione e della fertilità. La vita
contemplativa viene invece immaginata come una giovane donna con lo sguardo perso in profonde
meditazioni, con le mani giunte sulle ginocchia; la sua veste inoltre nasconde tra le pieghe alcuni volti, i
quali alludono alle parole di Dante, secondo cui la donna è sempre in uno stato perenne di contemplazione di
se stessa. Senza alcun dubbio Matteo si è rivelato un artista interessato allo studio di temi alti, manifestando
una sua personale immaginazione e maniera di dipingere.
Marianna Rosi invece, con il suo lavoro, assume un ruolo chiave nell’insieme del progetto, essendo colei
che, attraverso la realizzazione dei partimenti architettonici riprodotti pittoricamente, darà omogeneità
all’intero insieme. Inoltre, davvero interessanti sono gli inserti architettonici nei quali rappresenta quattro
pavoni, che sappiamo essere simbolo della resurrezione e della vita eterna, nonché del trionfo della luce sulle
tenebre; l’effetto che questa pittrice vuol darci mediante queste due grottesche, è quello di due finestre nelle
quali sono posati i pavoni, suggerendo un immaginario Eden al di là di esse.
Al resto dei paramenti architettonici contribuisce anche Elia Mauceri, il quale ha il compito, insieme a
11
G. Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori cit., pp. 1231-1232.
Del Bravo, Conversazione intorno al monumento cit., pp. 142, 144. Esodo 20, 23; 32, 1-19.
14
C. Del Bravo, Conversazione intorno al monumento cit., pp. 142, 144-145
12 C.
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Matteo, di realizzare la tomba di Giulio II – posta nella parte più alta del monumento –, conferendole una
particolare interpretazione, poiché essa assume le sembianze di un albero di quercia, in omaggio al cognome
Della Rovere, famiglia dalla quale proveniva Giulio II.
Questa esperienza con i ragazzi dell’Accademia di Belle Arti di Firenze ci ha dato l’opportunità di
scoprire cosa significa dipingere oggi, e soprattutto quale siano i pensieri, i sentimenti di questi giovani
artisti nei confronti di un “genio” come Michelangelo Buonarroti. L’occasione di reinterpretare uno dei
progetti più sofferti e incompiuti dell’artista ha permesso di far emergere lo spirito personale di ognuno dei
ragazzi, dando vita ad illuminanti visioni e a fecondi dialoghi tra passato e futuro sulla creazione artistica.
Proprio per questo il titolo che abbiamo dato a questo testo – “Michelangelo Buonarroti: cinquecento anni
dopo” – ci è sembrato giusto per l’occasione, se pensiamo a come il “divino” maestro sia tutt’ora attuale e
fonte di ispirazione nelle forme e nei contenuti della sua arte.