Giacomo Leopardi

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Percorso 7 – Autore
Giacomo Leopardi
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Leopardi e il Romanticismo
La formazione di Leopardi è rigorosamente classicistica, per questo, nella polemica tra classicisti e
romantici, egli prese posizione contro le tesi romantiche, specialmente in due scritti mai pubblicati: una “Lettera ai compilatori della Biblioteca italiana”, in risposta all’articolo di Madame De Stael
(1816), e un “Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica” (1818). Le posizioni di Leopardi,
però, sono molto più originali rispetto a quelle dei classicisti; infatti la poesia per il poeta è soprattutto espressione di una spontaneità originaria, di un mondo immaginoso e fantastico, proprio dei
primitivi e dei fanciulli. Sotto questo aspetto è d’accordo con i romantici italiani, i quali criticano il
classicismo accademico, il principio di imitazione, le regole rigidamente imposte dai generi letterari, l’abuso meccanico e ripetitivo della mitologia classica. Leopardi d’altra parte rimprovera agli
scrittori romantici la loro artificiosità nella ricerca dello strano e dell’orrido e l’aderenza al “vero”
che spegne ogni immaginazione. Egli, proprio per questo, ripropone i classici come modelli, ma in
senso opposto al classicismo accademico, con uno spirito schiettamente romantico. La sua esaltazione di ciò che è spontaneo e originario, non contaminato dalla ragione, lo fa apparire più romantico degli stessi romantici italiani. Si può parlare, quindi, per il suo gusto letterario e per la sua poetica di un classicismo romantico. Leopardi privilegia, tra le varie forme poetiche, quella lirica perché essa è espressione immediata dell’io, della soggettività e dei sentimenti. In questo il poeta si
contrappone alla scuola romantica lombarda, la quale è animata da intenti civili, morali, pedagogici e che predilige, quindi, le forme narrative e drammatiche (come A. Manzoni). Leopardi è vicino
al Romanticismo per una serie di motivi che ricorrono nelle sue opere quali: la tensione verso
l’infinito, l’esaltazione dell’io e della soggettività, il titanismo, l’enfasi dei sentimenti, il conflitto illusione-realtà (con la scelta del mondo dell’immaginazione contrapposto a quello della realtà),
l’amore per il vago e l’indefinito, il culto della fanciullezza e del primitivo come momenti privilegiati dell’esperienza umana, il senso tormentato del dolore cosmico.
Il pensiero di Leopardi
Tutta l’opera leopardiana si fonda su un sistema di idee continuamente meditate e sviluppate, il
cui processo si può seguire attraverso le pagine dello Zibaldone (una raccolta di appunti di argomenti vari, una sorta di diario, scritto tra il 1817 e il 1832). Al centro della meditazione di Leopardi
si pone subito un motivo pessimistico: l’infelicità dell’uomo. Egli, restando fedele ad un indirizzo di
pensiero settecentesco e sensistico, identifica la felicità con il piacere, sensibile e materiale; ma
l’uomo non desidera un piacere bensì “il piacere”: aspira cioè ad un piacere che sia infinito. Pertanto, siccome nessuno dei piaceri goduti dall’uomo può essere infinito, nasce nel poeta un senso
di insoddisfazione perpetua. Da questo nasce per Leopardi l’infelicità dell’uomo e il senso della
nullità di tutte le cose. L’uomo è dunque, per Leopardi, necessariamente infelice per la sua stessa
costituzione. Egli elaborò la “Teoria del piacere” nel 1820.
La natura benigna e il pessimismo storico: in questa prima fase dell’evoluzione del pensiero di
Leopardi, la natura è concepita come madre benigna, attenta al bene delle sue creature, che ha offerto un rimedio all’uomo e cioè l’immaginazione e le illusioni. Per questo gli uomini primitivi e gli
antichi Greci e Romani, che erano più vicini alla natura e quindi capaci di illudersi e di immaginare,
erano felici. Il progresso della civiltà invece ha allontanato l’uomo da quella condizione privilegiata,
ha messo crudelmente sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso infelice. Quindi questa prima fase del
pensiero leopardiano è costruita su questa antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli
antichi erano capaci di azioni eroiche e magnanime; essi erano più grandi di noi sia nella vita civile
sia nella vita culturale. Il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le illusioni, ha spento
ogni slancio magnanimo, ha reso i moderni incapaci di azioni eroiche, ha generato viltà, calcolo
egoistico e corruzione dei costumi. La colpa dell’infelicità presente è attribuita all’uomo stesso,
che si è allontanato dalla via tracciata dalla natura benigna.
©Gianluigi Caruso, p.1
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Leopardi dà un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni, la vede dominata dall’inerzia; ciò vale
soprattutto per l’Italia, decaduta dalla grandezza del passato. Da questo deriva un atteggiamento
titanico: il poeta, come unico depositario della virtù antica, si erge solitario a sfidare il fato maligno, che ha condannato l’Italia a tanta abiezione, e condanna la sua codarda età.
Questa fase del Leopardi è stata designata con la formula del “pessimismo storico”, cioè la condizione negativa del presente viene vista come effetto di un processo storico, di una decadenza e di
un allontanamento progressivo da una condizione originaria di felicità. Non bisogna dimenticare
che anche questa condizione originaria di felicità è sempre relativa per Leopardi, in quanto egli è
ben consapevole del fatto che la vera condizione dell’uomo è infelice e che la felicità antica era solo frutto di illusione, di un generoso e provvidenziale inganno.
La natura maligna e il pessimismo cosmico: la concezione di natura benigna entra in crisi. Leopardi
si rende conto che la natura mira alla conservazione della specie e per questo fine può anche sacrificare il bene del singolo individuo e generare sofferenze. Ne deduce che il male non è un semplice
accidente, ma rientra nel piano stesso della natura. Leopardi, quindi, concepisce la natura come
meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle sue creature. Questa sua concezione è definita
meccanicistica e materialistica. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo stesso ma solo della natura; l’uomo è vittima innocente della sua crudeltà. L’infelicità, materialisticamente, è dovuta soprattutto ai mali esterni, a cui nessuno può sfuggire: malattie, elementi atmosferici, cataclismi,
vecchiaia e morte.
Al pessimismo storico della prima fase subentra così un “pessimismo cosmico”, nel senso che
l’infelicità non è più legata ad una condizione storica e relativa all’uomo, ma ad una condizione assoluta e diviene un dato eterno e immutabile di natura. Se l’infelicità è un dato di natura, vane sono le proteste e la lotta e non resta che la contemplazione lucida e disperata della verità. Subentra
così in Leopardi un atteggiamento contemplativo, distaccato e rassegnato. Il suo ideale non è più
l’eroe antico, teso a generose imprese, ma il saggio antico, soprattutto quello stoico, la cui caratteristica è l’atarassia cioè il distacco imperturbabile dalla vita.
La poetica del vago e indefinito
La “teoria del piacere” è un crocevia fondamentale nel pensiero leopardiano e costituisce il punto
d’avvio della sua poetica. Lo sviluppo delle meditazioni del poeta si può seguire nei fitti appunti
dello Zibaldone, immediatamente successivi alle pagine sul piacere. Se nella realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l’uomo può figurarsi piaceri infiniti mediante l’immaginazione; queste le parole del poeta: “il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nell’immaginazione,
dalla quale derivano la speranza, le illusioni”. La realtà immaginata costituisce così l’alternativa a
una realtà vissuta che è infelicità e noia. Ciò che stimola l’immaginazione a costruire questa realtà
parallela, dove l’uomo può trovare un illusorio appagamento al suo bisogno di infinito, è tutto ciò
che è vago, indefinito, lontano, ignoto. Leopardi nello Zibaldone descrive tutti gli aspetti della realtà che hanno questa forza di allontanare l’uomo dalla sua realtà infelice; per esempio, per il poeta,
la vista impedita da un ostacolo è piacevole perché suscita idee vaghe e indefinite in quanto subentra l’immaginazione che lo allontana dalla triste realtà. Lo stesso effetto hanno per lui una fila
di alberi che si perde all’orizzonte, un canto che poco a poco va allontanandosi, lo stormire del
vento tra le foglie. Inoltre tutte le sensazioni che creano l’idea dell’infinito si possono trovare anche nell’arte e nella poesia. Il bello poetico consiste nel vago e nell’indefinito, anche attraverso
certe parole che suscitano idee indefinite. Gli esempi di visioni e di suoni suggestivi che egli ripropone nello Zibaldone sono presenti anche nelle sue liriche. Altro elemento importante della poetica leopardiana è la rimembranza e cioè la memoria attraverso la quale c’è il recupero di una visione immaginosa della fanciullezza che accompagna la vita e la produzione poetica di Leopardi.
©Gianluigi Caruso, p.2
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1. La vita
NASCITA
29 giugno 1798 aRecanati, borgo appartenente allo Stato pontificio, il più attardato
e retrivo d’Italia.
AMBIENTE FAMILIARE La famiglia Leopardi poteva essere annoverata tra le più cospicue della nobiltà terriera marchigiana, seppur in cattive condizioni patrimoniali. Il padre trasmise al giovane
Leopardi i suoi orientamenti politici ostili a tutte le nuove idee. La madre era una
donna dura e gretta, intenta solamente a curare il patrimonio dissestato, era autoritaria, priva di confidenza e affetto.
FORMAZIONE\STUDI
Istruito inizialmente da precettori ecclesiastici, proseguì da solo, servendosi della biblioteca paterna, affrontando “sette anni di studio matto e disperatissimo”. Si erudì
culturalmente in breve tempo e iniziò a comporre le sue prime opere: Storia
dell’astronomia, il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, tradusse classici latini
e greci, le Odi di Orazio, il I libro dell’Odissea, il II dell’Eneide e una ingente massa di
componimenti poetici, odi, sonetti, canzoni, tragedie.
LA CULTURA ARCAICA Ereditò dall’ambiente familiare una cultura arcaica, di impianto illuministico, di orizzonti ristretti e un’eruzione arida e accademica. Scrisse l’orazione Agli italiani per la
liberazione del Piceno, simbolo dell’eredità reazionista paterna.
IL 1819
Con il 1819 si apre la stagione più originale della poesia leopardiana: Leopardi si dedica alla stesura dell’Infinito e si infittiscono anche le note dello Zibaldone, una sorta
di diario intellettuale avviato due anni prima, a cui Leopardi affida appunti, riflessioni
filosofiche, letterarie, linguistiche. Successivamente nel 1820-21 nascono altri idilli e
prosegue la serie di canzoni, iniziata nel ’18 con All’Italia.
GLI ULTIMI TEMPI
Durante il 1827-28 egli soggiorna a Pisa, dove trova un momento di “risorgimento”
dai suoi problemi di salute. Scrive A Silvia, che apre la serie dei “grandi idilli”.
Dopo il ritorno a Recanati, a seguito del suo trasferimento a Roma, Leopardi si muove nuovamente verso Firenze, dove la passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti
ispira il cosiddetto “ciclo di Aspasia”. Dopo essere diventato amico fraterno di Antonio Ranieri, si trasferisce presso di lui a Napoli. Rifugiatosi poi a Torre del Greco a
causa di un’epidemia di colera, trova l’ispirazione per ultimo grande canto, La ginestra.
MORTE
A Napoli Giacomo Leopardi trova la morte, attesa e invocata da anni, il 14 giugno
1837, a soli 39 anni.
©Gianluigi Caruso, p.3
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2. Il pensiero
LEOPARDI E IL SUICIDIO
Saffo (Ultimo canto di Saffo) si suicida in risposta in risposta al dolore. Leopardi giustifica il suicidio come risposta razionale a chi vuole liberarsi dal dolore. Il Leopardi maturo pensa che l’uomo sia altra virilità: vivere significa accettazine della
virilità. Il suicidio, qui, non è più giustificato.
LA NATURA BENIGNA
Il pensiero di Leopardi, fondato su un sistema di idee continuamente meditate e sviluppate, può essere
seguito nelle pagine dello Zibaldone.
L’INFELICITA’ DELL’UOMO
LA NATURA E LE ILLUSIONI
Al centro del pensiero di Leopardi, si pone un motivo pessimistico: l’infelicità
dell’uomo. La felicità è vista come piacere, sensibile e materiale. L’uomo desidera il
piacere, un piacere infinito per estensione e durata, e non un piacere qualunque. Nessun piacere dura in eterno e l’insoddisfazione che vi si crea consegue in un vuoto incolmabile dell’anima. Da questa tensione inappagata nasce l’infelicità dell’uom, il senso di nullità di tutte le cose.
La natura è vista da Leopardi come una “madre benigna”, che ha voluto sin dalle origini offrire un rimedio all’infelicità dell’uomo: le illusioni e le immaginazioni. Con questo espediente, la natura ha velato agli occhi della misera creatura le sue effettive
condizioni. Gli uomini primitivi e le prime civiltà, che vivevano a stretto contatto con
la natura erano capaci di illudersi e di immaginare, essendo felici perché ignoravano
la loro reale infelicità. Il progresso della civiltà ha distaccato l’uomo dal contatto con
la natura e ha messo dinanzi agli occhi dell’uomo il “vero” e lo ha reso infelice.
IL PESSIMISMO STORICO
La prima fase del pensiero di Leopardi è costituito dall’antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi, che
vivevano sotto l’influenza dell’illusione, erano capaci di azioni eroiche, erano più grandi dei moderni sia nella vita civile
che in quella culturale. Erano ricchi di esempi eroici e grandi virtù. Il progresso della civiltà e della ragione ha spento
l’illusione, sfociando in un’incapacità dei moderni. L’uomo è colpevole della sua stessa infelicità. Leopardi giudica aspramente il periodo storico in cui vive, oppresso dalla Restaurazione, dicendo che soprattutto l’Italia è decaduta dalla grandezza del passato. Il poeta si vede come un titano, da solo ad ergersi a sfidare il fato che ha condotto l’Italia alla deca
denza, unico fra tutti a possedere l’antica virtù.
Ne consegue il pessimismo storico leopardiano, la condizione negativa del presente vista come un lento regredire della
società e dell’uomo, che si è allontanato dalla sua condizione, seppur apparente, di felicità. Ma Leopardi è ben consape
vole che quella condizione era solo frutto di pura illusione. Il pessimismo storico, quindi, ha solo valore orientativo, in
quanto si colloca in un quadro che può dirsi cosmico.
LA NATURA MALVAGIA
Successivamente Leopardi si rende conto che la natura non mira al bene dei singoli individui ma alla conservazione della
specie. E’ vista quindi come una natura malvagia, che genera dolore e che è responsabile di aver messo nell’uomo quel
desiderio di felicità infinita senza però soddisfarlo.
Leopardi attribuisce la responsabilità del male al fato, opponendolo ad una natura benigna. La natura adesso è vista
come un meccanismo “cieco”, in cui la sofferenza e la distruzione degli esseri è una legge essenziale per mandare avanti
la specie. E’ una concezione non più finalistica ma meccanicistica. La colpa dell’infelicità non è più dell’uomo ma della
natura.
Anche se filosoficamente la natura è vista come meccanismo inconsapevole, Leopardi ama rappresentarla poeticamente
come una divinità malvagia. Adesso le caratteristiche che prima erano state attribuite al fato, slittano verso la natura.
Mentre prima l’infelicità umana era vista come assenza di piacere adesso è materialisticamente vista come dovuta a mali
esterni, quali le malattie, elementi atmosferici e enti a cui l’uomo non può sfuggire.
IL PESSIMISMO COSMICO (1824-1828)
Se la causa dell’infelicità è la natura stessa allora anche gli antichi erano infelici, ma meno consapevoli grazie alla loro vita
attiva, che li distraeva da questa condizione. Leopardi arriva a concludere che, indipendentemente dal periodo storico in
cui vive, l’uomo è sempre stato vittima dei mali naturali. Si parla quindi di pessimismo cosmico. In un primo momento
questo genera un distacco dalla poesia e l’atarassia, il distacco alla vita e al titanismo. Successivamente Leopardi riprende
©Gianluigi Caruso, p.4
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la lotta titanica, per arrivare a costruire, prima di morire, una concezione della vita sociale e del progresso sulla base della
concezione pessimistica della natura.
Il nucleo fondante è il “vero”. L’uomo deve accettare il dolore. Il dolore è l’unica verità, realtà, certezza. Non è un dogma,
non è un ideale di patria (come per Foscolo), non è il “vero” storico o morale di Manzoni.
L’uomo razionale arriva alla conclusione che la vita è dolore. La verità è arida e non consolatoria. Tutto il resto è
un’invenzione, un’immaginazione, un’ipotesi, un sogno, un’illusione. Prima di morire Leopardi guadagna un certo ottimismo.
LEOPARDI E IL SUO TEMPO
Leopardi attacca i patrioti e i positivisti. Gli scienziati credono in un programma di riforme e nell’evoluzione. A differenza
di Manzoni, Leopardi, attacca anche i cattolici liberali: non c’è riforma che possa cambiare il dramma esistenziale umano.
Nella terza fase, negli anni 1830-1836, Leopardi assume un aspetto sarcastico: Leopardi ride delle illusioni e delle speranze altrui.
3. La poetica del “vago e indefinito”
IMPORTANTI CONSIDERAZIONI
Distinzione tra termini e parole: il termine definisce, chiarisce i limiti del significato (ha a che fare con la scienza, che limita e definisce). Non ha a che fare con la poesia. La parola aspira a più significati, è vaga, non definisce un contorno, è aperta e si apre alle tante interpretazioni, possibilità. Leopardi è un petrarchista, non
tradisce la nostra tradizione. Utilizza la poesia del ricordo e inserisce nelle sue opere parole piane, eleganti,
polisemantiche e musicali. La poesia è vista come espressione dell’Io.
L’INFINITO NELL’IMMAGINAZIONE
La “teoria del piacere” costituisce da una parte il nucleo della filosofia leopardiana, dall’altra il punto d’avvio
della sua poetica. L’immaginazione ha un ruolo fondamentale poiché, siccome il piacere infinito è irraggiungibile, l’uomo non può far altro che lavorare con l’immaginazione e l’illusione per compensare il vuoto che si
genera dall’impossibilità di raggiungere un piacere infinito. L’uomo quindi si illude attraverso
l’immaginazione, stimolata da tutto ciò che è “vago e indefinito”, lontano, ignoto. Da questa conclusione scaturiscono due teorie: quella della visione e quella del suono. La teoria della visione si basa sul piacere generato dalle idee vaghe e indefinite, mentre quella del suono su una serie di suoni suggestivi perché vaghi.
IL BELLO POETICO
La teoria filosofica dell’indefinito si aggancia alla teoria poetica. Il bello poetico, quindi, consiste per Leopardi
in tutto ciò che è “vago e indefinito” e si manifesta in tutte quelle immagini elencate da Leopardi nella teoria
della visione e del suono. Secondo Leopardi queste immagini sono suggestive anche perché rievocano le
sensazioni che ci hanno affascinati da fanciulli. La “rimembranza”, ossia il ricordo, diviene essenziale al sentimento poetico. Poetica dell’indefinito e poetica della rimembranza si fondono: la poesia non fa altro che recuperare la visione immaginosa della fanciullezza attraverso la memoria.
ANTICHI E MODERNI
Per Leopardi gli antichi erano i maestri della poesia vaga e indefinita, perché erano più vicini alla natura ed
erano immaginosi come fanciulli. I moderni invece hanno perduto questa facoltà. Il poeta distingue poesia
d’immaginazione e poesia sentimentale. Quella d’immaginazione è ormai preclusa; ai moderni quindi resta la
poesia sentimentale, che nasce dalla consapevolezza del “vero” e dall’infelicità.
Leopardi segue fedelmente la poetica del “vago e indefinito” e, pur consapevole che appartiene ad un’età
moderna, non rinuncia alle illusioni, pur consapevole della loro vanità, e le continuerà ad usare all’interno
delle sue poesie.
LEOPARDI E ROUSSEAU
Leopardi è affascinato da Rousseau. Non tutti gli uomini sono felici a contatto con la natura. Il contatto
uomo-natura è un’idea romantica. Durante gli anni del pessimismo cosmico egli cancella l’idea di una natura
benigna e la speranza di una felicità. Matura l’idea di una condanna totale di ogni felicità.
©Gianluigi Caruso, p.5
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ANALISI DI PASSI TRATTI DALLO ZIBALDONE
T1a
“La teoria del piacere”
L’anima umana desidera e mira al piacere, ossia alla felicità, ma non esiste un piacere che miri alla soddisfazione totale dell’uomo. Nessun piacere è eterno, nessun piacere è immenso. I piaceri che l’uomo può permettersi sono circoscritti e non illimitati, perciò questi creano un vuoto. Nell’uomo esiste una facoltà immaginativa, che concepisce le cose quali non sono, anche quelle reali. L’immaginazione porta l’uomo a figurarsi piaceri che non esistano: il piacere infinito non può trovarsi nella realtà, si trova quindi nell’immaginazione, dalla
quale derivano la speranza e le illusioni. L’uomo tende quindi a sostituire i piaceri infiniti con le illusioni e con
il vago, l’ “immensa varietà”. L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana. La facoltà immaginativa
talvolta soddisfa più chi è ignorante e non conosce il “vero”, che il colto, consapevole di ciò che è reale.
La pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione. L’anima immagina ciò
che non vede e la vastità delle sensazioni la diletta moltissimo.
T1b
“Il vago, l’indefinito e le rimembranze della fanciullezza”
Da fanciulli ogni cosa che ci piaceva era collegata al “vago e indefinito”: l’idea che ci creava quella sensazione
era sempre indeterminata e illimitata. Da fanciulli bastavano queste cose a riempirci l’anima, anche quelle
piccole. Da grandi nulla ci soddisferà più pienamente, solo i ricordi dell’infanzia.
T1d
“Indefinito e infinito”
Leopardi fa riferimento al suo Infinito, dicendo che le sensazioni che rimandano all’infinito sono quelle generate dall’immaginazione di qualcosa al di là di ciò che è visibile e tangibile. Compaiono immagini quali: campagna, valle, filare d’alberi, fabbrica, torre, orizzonte…
T1e
“Il vero è brutto”
Il passato è più bello del presente perché nel presente si ha la vera forma della concezione umana e rispecchia l’immagine del vero. Il vero è brutto.
T1g
“Parole poetiche”
Le parole lontano, antico ecc… sono poetiche perché racchiudono il concetto d’infinito. Le parole notte, notturno ecc… richiamano al concetto di vago.
T1h
“Ricordanza e poesia”
Molte volte un’immagine riesce piacevole in una poesia per l’abbondanza di ricordi che essa suscita.
T1l
“Indefinito e poesia”
Il bello va oltre ciò che è tangibile (che si crede o che si osserva), consiste nella scelta di tali o somiglianti
sensazioni indefinite da imitare.
T1m
“Suoni indefiniti”
Suoni lontani, indefiniti, risultano piacevoli e evocano pensieri vasti e indefiniti.
Leopardi e il Romanticismo
©Gianluigi Caruso, p.6
Giacomo Leopardi
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I Canti
-
conversione dall’erudizione al bello (1818-1821): rifiuto di uno stile erudito, passaggio dai libri al sentimento. Grande espressività lirica;
- conversione al vero (1824): passaggio dalla bellezza del sentimento che può essere anche offuscamento della razionalità alla presa di coscienza del vero. Rappresenta un taglio drastico con il sentimento e con l’espressione lirica (momento della riflessione, abbandono della poesia). Riflessione
rapporto uomo-natura, Operette morali.
Dei Canti fanno parte le Canzoni e gli Idilli.
Le Canzoni
Tra le Canzoni, composte tra il 1818 e il 1823, cinque sono quelle più importanti e sono dette canzoni civili:
All’Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel
pallone.
Altre canzoni importanti sono il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo, dedicate a due personaggi suicidi.
Gli Idilli
Scritti tra il 1819 e il 1821, tra di essi ricordiamo: l’ Infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, che sono detti
“piccoli idilli” o semplicemente idilli.
Tra i “grandi idilli”, scritti tra il 1828-1830 dal “secondo Leopardi”, troviamo: Le ricordanze, La quiete dopo la
tempesta, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, A Silvia, Il passero solitario e, in ultima battuta, La
ginestra.
Il “ciclo di Aspasia”
E’ un ciclo di liriche in cui il poeta designa la donna amata. Il ciclo consiste di cinque componimenti. Ricordiamo A se stesso.
Canti
T
/
Titolo
All’Italia
Tipo
Data
Canzone 1818
civile
5
Ultimo canto di Saffo
Canzone 1821
2
L’infinito
Piccoli
Idilli
1819
3
La sera del dì di festa
Grandi
Idilli
1820
Notizie fondamentali
Il poeta richiama l’antico valore della patria e la necessità di liberarsi dalle dominazioni straniere. La guerra è uno strumento di reazione ad una situazione di sottomissione. Viene enfatizzata la contrapposizione tra presente e futuro e la grandezza di Roma. L’Italia
è paragonata ad una donna oramai diventata schiava che, non reagendo ai soprusi, rimane inerme a contare le vergogne subite.
Nella parte finale viene fatto riferimento alla canzone di Petrarca.
Si delinea qui l’idea di un’umanità infelice per una condizione assoluta. Si incolpano gli dei e il fato, che sono forze malvagie che perseguitano l’uomo. Saffo trova la pace nel suidicio, perché brutta e
non ricambiata nell’amore verso Faone.
E’ l’espressione della poetica del vago e indefinito. L’infinito è inteso in senso spaziale e temporale. Lo spingersi oltre un limite (la
siepe) provoca sensazioni dolci e allo stesso tempo che destano
paura. C’è una corrispondenza tra cose vicine e lontane, tra l’eterno,
le morte stagioni e il presente. Il perdersi tra queste sensazioni vaghe e indefinite è piacevole.
Mentre per tutti la sera del giorno festivo è il prendere riposo “da’
trastulli”, per l’autore non è altro che un giorno di riflessione, in cui
pensa alla sua infelicità e a tutto ciò che passa, trascorre in silenzio
e non ritorna più. Compare la figura di una donna ignota che dorme dopo essersi svagata con altri uomini e non con lui e quella di
un artigiano, che fa venire in mente all’autore il carattere effimero e
fuggevole di tutte le cose umane.
©Gianluigi Caruso, p.7
Giacomo Leopardi
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8
Canti
T
6
Titolo
A Silvia
7
Le ricordanze
Tipo
Grandi
Idilli
Data
1828
Grandi
Idilli
1829
la memoria sensazioni indescrivibili provate dall'autore stesso, ma
nello stesso tempo porta Leopardi a definire la sua vita,il suo presente,infelice, poiché si è reso conto della vanità delle illusioni e di
non aver vissuto la giovinezza come doveva. Importante è la figura
di Nerina, in stretto contatto con quella di Silvia. Nerina rappresenta l'illusione dell'amore e la fugacità dell adolescenza, poiché muore giovanissima e al contrario,Silvia è il primo vero
amore che nessuno potrà mai capire,che si trova nelle parti più intime dell'animo del poeta,che è invece il mito dell'amore
non vissuto.
8
La quiete dopo la
tempesta
Grandi
Idilli
1829
9
Il sabato del villaggio
Grandi
Idilli
1829
Grandi
Idilli
1829/
1830
Grandi
Idilli
1829
10 Canto notturno di
un pastore errante
dell’Asia
11 Il passero solitario
Notizie fondamentali
Dedicata a Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi,
morta di tubercolosi, la lirica fa riflettere sul tema della giovinezza
che viene strappata da una morte troppo prematura. La speranza,
la contentezza di un “vago avvenir” sono travolti dalla morte, che
spazza via le illusioni che caratterizzano la gioventù.
Il tema centrale è il ricordo che di per se è dolce, perché riporta al-
Il dolore è paragonato alla tempesta, che quando passa permette a
chi ha sofferto di rallegrarsi momentaneamente. Ma il piacere è “figlio d’affanno”, è “gioia vana”, e non è qualcosa di consistente. Dopo aver superato delle sofferenze si prova un piacere che è assenza
di dolore e di timore, non un piacere concreto e consistente.
Si presenta subito la contrapposizione tra gioventù e vecchiaia, tra
spensieratezza e ricordo dei tempi ormai passati. Prima del giorno
di festa ognuno si appresta a completare il lavoro, per passare la
domenica senza impegni. Ma quello che è piacevole non è il dì di
festa, ma il giorno che lo precede. In generale il piacere sta
nell’attesa, perché il dì di festa sarà solo “tristezza e noia” perché si
penserà al da farsi nel giorno feriale.
Nella prima strofa il poeta si rivolge alla luna, ponendole una serie d' interrogativi inerenti alla sua esistenza, al suo valore e al suo scopo. Nella
seconda strofa non c'è nessuna risposta riguardo agli interrogativi precedenti e segue una descrizione allegorica della vita umana. Essa è paragonata al viaggio insidioso di un “vecchierello” malato, esposto alle intemperie della natura e la sua destinazione coincide con “l'abisso orrido”,
cioè la morte. La presenza della luna, viene rievocata nella memoria del
pastore come compagna delle sue notti solitarie, ed accresce con la sua
distanze il bisogni del pastore di interrogarsi sul perché dell'universo, della vita e di se stesso. Nella quinta strofa il pastore, dopo aver cercato risposte dalla luna, si rivolge ad una realtà inferiore, le pecore. Esse sono
felici ma a differenza della luna, questo sentimento non è dato dal fatto
che conoscono il perchè di ogni cosa ma dall'ignorare la proprio condizione. Nell'ultima strofa il pastore smonta ogni ipotesi fin qui avanzata
circa la possibilità che le forme di vita, anche diverse dall'uomo, possano
essere felici, infatti è più probabile che la vita sia, in se stessa, una sventura, in ogni condizione.
Il passero che Leopardi vede sulla torre campanaria di Recanati richiama al poeta un'identificazione malinconica tra l’uccello e se
stesso. Leopardi è solo, a causa della situazione di dolore esistenziale in cui versa. Dolore che il passero solitario, in quanto animale, non percepisce e dunque non può provare, sentendosi sempre
felice.
©Gianluigi Caruso, p.8
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Canti
T Titolo
13 A se stesso
15 La ginestra o il fiore
del deserto
Tipo
Grandi
Idilli
Grandi
Idilli
Data
1835
1836 a
Torre
del
Greco
Notizie fondamentali
Poesia per Fanny Targioni Tozzetti, stesa sul modello greco di Archiloco e catulliano, presenta la profonda disillusione del poeta
dopo il rifiuto dell'amata. Leopardi rivela il profondo pessimismo
e nichilismo a cui è giunto: la realtà ha perso ogni significato; ogni
illusione è crollata; la vita umana è cosa misera e infelice.
Nella canzone si parla della coraggiosa e allo stesso tempo fragile
resistenza, che la ginestra oppone alla lava del Vesuvio, il monte
sterminatore, simbolo della natura crudele e distruttiva. Il delicato
fiore coraggiosamente risorge sulla lava impietrata e sembra rallegrare queste lande desolate. Ma il suo destino è tragicamente segnato da una nuova eruzione, capace di annullare non solo la sua
consolante presenza ma la presenza dell'uomo in questi luoghi. La
ginestra diviene simbolo della condizione umana.
La vera rivolta, la vera lotta che l'uomo deve ingaggiare è contro la
natura crudele che non esita a devastare ogni opera umana con la
sua inarrestabile forza. Nell' eterno confronto con la natura l'uomo deve avere ben presente la sua debolezza, ma anche la sua dignità. Deve allearsi con i suoi simili per affrontare i dolori della sua
condizione, sostenuto dalla solidarietà dei suoi simili.
©Gianluigi Caruso, p.9
Percorso 7 – Autore
Giacomo Leopardi
10
Le Operette morali e l’«arido vero»
Le Operette morali sono quasi tutte composte da Leopardi nel 1824, dopo la delusione subita al suo ritorno
da Roma. Sono operette di argomento filosofico, in cui compaiono anche dei riferimenti relativi ai suoi appunti dello Zibaldone. L’argomento viene esposto attraverso una serie di invenzioni fantastiche, miti, allegorie, paradossi. Molte delle operette sono dialoghi tra personaggi immaginari e/o realmente esistiti.
Leopardi decide di rappresentare il “vero”, la realtà così com’è, l’infelicità inevitabile dell’uomo, l’impossibilità
del piacere, la noia, il dolore e i mali materiali che affliggono l’umanità.
Operette morali
T
Titolo
Tipo
/
T15 Dialogo della natura
e di un Islandese
Data
Notizie fondamentali
maggio Un uomo, dopo aver viaggiato molto per varie parti del mondo, per fuggire la Natura arriva un giorno in Africa. Qui ha un dialogo con la Natura,
1824
sottoforma di donna, e la accusa di essere la causa dell’infelcità degli
uomini. La Natura quindi risponde che il mondo non è stato fatto per il
genere umano e per la sua felicità, anzi se un giorno esso si estinguesse,
lei forse non se ne accorgerebbe. L’Islandese controbatte facendo un
esempio: se fosse invitato da un signore nella sua villa e all’arrivo in casa
fosse maltrattato dai servi e dai figli, rinchiuso in una stanza buia e fredda, ricorderebbe al signore di essere stato invitato e di non esserci andato di spontanea volontà. Di conseguenza aveva il diritto di non essere
trattato male. La Natura si è comportata con gli uomini allo stesso modo
del signore. La Natura perciò, pur non avendo fatto il mondo per gli uomini, li ha fatti nascere e non deve renderli infelici e schiavi. Allora la Natura gli ricorda che la vita dell’universo è un ciclo perpetuo di trasformazioni della materia, a cui nulla sfugge. Quindi l’Islandese domanda il perché della vita e dell’universo. Una domanda che rimane senza risposta,
che sta a significare il mistero insondabile dell’universo. II dialogo si
conclude in maniera brusca per la misera fine dell’Islandese: secondo
alcuni, fu divorato da due leoni, secondo altri, fu preda di un violentissimo vento, che lo ricoprì di sabbia, trasformandolo in mummia.
Operette morali
T
Titolo
Tipo
/
T17 Dialogo di Tristano e
di un amico
Data
1832
Notizie fondamentali
Tristano ritiene che non solo il suo tempo sia caratterizzato da
un’infelicità solida ed evidente, ma che ogni uomo sia ontologicamente infelice. Successivamente deriderà la fiducia nel progresso dei contemporanei, che egli giudica vili e più deboli degli
antichi, i quali erano magnanimi e anche fisicamente più forti, sia
nel corpo che nello spirito. Il protagonista espone così un pensiero organico, che ha come fondamento l’infelicità ineluttabile
dell’uomo: infelicità che non può essere definita, come tenta invece di fare l’Amico, né fenomeno accidentale né condizione trascurabile.
©Gianluigi Caruso, p.10