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NEI CORPI DELLA LINGUA- Antonio
Devicienti: MADDALENA ALLA LUCE DELLA
LAMPADA e L’OMAGGIO A GIACOMETTI
(LEGGENDO RENÉ CHAR)
stephan norsic- georges de la tour, la Madeleine à la veilleuse
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La mente s’esalta e si nutre anche di pellegrinaggi (di laici pellegrinaggi) in luoghi ch’essa impara ad amare
dapprima in un verso, in un libro, in una fotografia.
Sono andato così, qualche anno addietro, al Louvre (quell’universo che ne contiene innumerevoli altri)
anche per vedere la Madeleine à la veilleuse di Georges de la Tour. Seguivo suggestioni scaturenti da una
delle opere per me più feconde ed incessantemente nutrienti che esistano: quella di René Char.
Seguendo i percorsi labirintici del Louvre, sono giunto nella sala dedicata a Georges de la Tour. La
Maddalena era in un angolo della sala al cui centro imperversava, dipinto ammiratissimo dai visitatori, il
Baro. So che quando Char si recava al Louvre amava fermarsi in meditazione proprio in quell’angolo,
davanti al non grande dipinto della prostituta dai capelli sciolti. Madeleine affiora in più di un luogo
dell’opera chariana, sempre evocata tramite la pittura di Georges de la Tour, uno degli “alleati sostanziali”
di René Char, probabilmente a causa di quella luce di candela o di lampada ad olio che rischiara i volti,
rende trasparenti le dita, s’accampa coraggiosa nel cuore della tenebra (è tema chariano il lampo che,
improvviso e repentino, rischiara il buio, discopre cose e paesaggi altrimenti celati).
Avevo con me un quadernetto di carta di Fabriano sul quale avevo ricopiato a penna il poème – è, questo, un
mio vezzo quando cerco di impadronirmi in modo (come dire?) anche fisico di un testo: spessissimo cerco il
libro se, per esempio nel web, incontro lavori che mi colpiscono in modo particolare, perché ho anche
bisogno di sentire tra le dita la carta, vedere da vicino i solchi che la stampa ha provocato nella pagina (il se
paraba boves rimane per me la metafora dello scrivere più vicina al mio sentire di lettore). Davanti al
dipinto di La Tour ho aperto il quaderno e mi sono ripetuto le parole che so quasi a memoria:
MADELEINE À LA VEILLEUSE
Je voudrais aujourd’hui que l’herbe fût blanche pour fouler l’évidence de vous voir souffrir: je ne
regarderais pas sous votre main si jeune la forme dure sans crépi de la mort. Un jour discrétionnaire,
d’autres pourtant moins avides que moi, retireront votre chemise de toile, occuperont votre alcôve. Mais ils
oublieront en partant de noyer la veilleuse et un peu d’huile se répandra par le poignard de la flamme sur
l’impossible solution.
Poi ho provato a tradurre l’arduo Char:
MADDALENA ALLA LUCE DELLA LAMPADA
Vorrei quest’oggi che l’erba fosse bianca per poter calcare l’evidenza della tua sofferenza: non guarderei
sotto la tua mano così giovane la forma dura, senza belletto della morte. Un giorno a discrezione altri
tuttavia meno avidi di me ti sfileranno la camicia di tela, verranno ad occupare la tua alcova. Ma andando
via dimenticheranno di spegnere la candela e un po’ d’olio si spanderà dalla lama della fiamma
sull’impossibile soluzione.
Di che cosa è “avido” il poeta? Forse di quel suo voler vedere in profondità, di quel suo saper vedere la
sofferenza della prostituta che più di molti altri conosce solitudini, ossessioni, inconfessati vizi. La luce di
candela di La Tour non si spegne (i clienti di Maddalena “dimenticheranno” di estinguerla), forse una
“soluzione”, restando nell’umano, è impossibile. Ma che cos’altro abbiamo oltre al nostro umano? Ed è un
umano capace di abbracciare molto così del soffrire come del gioire. La morte non è rimossa, è invece ben
presente sotto la mano di Maddalena e quell’indimenticabile fiamma, mobile e viva, getta luce (ma anche
ombre) sia sui libri che sul teschio, nel cuore dell’addensarsi della tenebra dagli angoli della stanza. E
Maddalena soffre, il poeta che contempla il dipinto, avviando quel colloquio diretto con la giovane
prostituta, ne scorge l’umano dolore (nihil humani a me alienum puto è per me tratto distintivo dell’arte
chariana) capace di trasfigurare le cose (l’erba che da verde diventa bianca). E quella fiamma, sempre
presente nelle numerose altre versioni del medesimo tema dipinte da La Tour, spande luce ed olio sulla
soluzione impossibile, ché l’esistere umano possiede anche questo carattere, di traversare fasi impossibili a
risolversi.
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georges de la tour- peter lippmann
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Molti altri gli alliés substantiels di Char assieme a Georges de La Tour: Nicolas de Staël, Maria Helena
Vieira da Silva, Vifredo Lam, Georges Braque e, naturalmente, Alberto Giacometti.
Nel 1954 Char scrive:
Du linge étendu, linge de corps et linge de maison, retenu par des pinces, pendait à une corde. Son
insouciant propriétaire lui laissait volontiers passer la nuit dehors. Une fine rosée blanche s’étalait sur les
pierres et sur les herbes. Malgré la promesse de chaleur la campagne n’osait pas encore babiller. La
beauté du matin, parmi les cultures désertes, était totale, car les paysans n’avaient pas ouvert leur porte, à
large serrure et à grosse clé, pour éveiller seaux et outils. La basse-cour réclamait. Un couple de
Giacometti, abandonnant le sentier proche, parut sur l’aire. Nus ou non. Effilés et transparents, comme les
vitraux des églises brûlées, gracieux, tels des décombres ayant beaucoup souffert en perdant leur poids et
leur sang anciens. Cependant hautains de décision, à la manière de ceux qui se sont engagés sans trembler
sous la lumière irréductible des sous-bois et des désastres. Ces passionés de laurier-rose s’arrêtèrent
devant l’arbuste du fermier et humèrent longuement son parfum. Le linge sur la corde s’effraya. Un chien
stupide s’enfuit sans aboyer. L’homme toucha le ventre de la femme qui remercia d’un regard, tendrement.
Mais seule l’eau du puits profond, sous son petit toit de granit, se réjouit de ce geste, parce qu’elle en
percevait la lointaine signification. À l’intérieur de la maison, dans la chambre rustique des amis, le grand
Giacometti dormait (ora in Recherche de la base et du sommet).
Biancheria stesa, biancheria intima e biancheria domestica, fermata da pinze, stava appesa ad una corda. Il
distratto padrone le lasciava passare volentieri la notte all’addiaccio. Fine rugiada bianca si distendeva sulle
pietre e sull’erba. Malgrado l’annuncio del caldo la campagna non aveva ancora il coraggio di gridare. La
bellezza del mattino, tra i coltivi deserti, era totale perché i contadini non avevano ancora aperto la porta
dall’ampia serratura e dalla grande chiave per svegliare secchi ed attrezzi. L’aia reclamava. Una coppia di
Giacometti, abbandonando il vicino sentiero, comparve nei paraggi. Nudi oppure no. Filiformi e trasparenti,
come le vetrate delle chiese bruciate, pieni di grazia, simili a macerie che hanno molto sofferto nel perdere il
loro antico peso e il sangue. Tuttavia altezzosi nella loro decisione, al modo di coloro che si sono impegnati
senza tremare sotto l’irriducibile luce dei sottoboschi e dei disastri. Questi innamorati dell’oleandro si
fermarono davanti all’arbusto dell’agricoltore e ne aspirarono a lungo il profumo. Si spaventò la biancheria
sul filo. Uno stupido cane se la diede a gambe senza abbaiare. L’uomo toccò il ventre della donna che
ringraziò con uno sguardo, teneramente. Ma soltanto l’acqua del pozzo profondo, sotto la sua piccola tettoia
di granito, gioì di quel gesto perché ne intuiva la lontana significanza. Dentro la casa, nella rustica camera
degli amici, il grande Giacometti dormiva.
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alberto giacometti
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Dieci anni dopo eccolo il testo alto ed ammirevole per costruzione e tensione intellettuale:
CÉLÉBRER GIACOMETTI
En cette fin d’après-midi d’avril 1964 le vieil aigle despote, le maréchal-ferrant agenouillé, sous le nuage
de feu de ses invectives (son travail, c’est-à-dire lui-même, il ne cessa de le fouetter d’offenses), me
découvrit, à même le dallage de son atelier, la figure de Caroline, son modèle, le visage peint sur toile de
Caroline — après combien de coups de griffes, de blessures, d’hématomes? —, fruit de passion entre tous
les objets d’amour, victorieux du faux gigantisme des déchets additionnés de la mort, et aussi des parcelles
lumineuses à peine séparées, de nous autres, ses témoins temporels.
Hors de son alvéole de désir et de cruauté. Il se réfléchissait, ce beau visage sans antan qui allait tuer le
sommeil, dans le miroir de notre regard, provisoire receveur universel pour tous les yeux futurs (ora in Le
Nu perdu).
Anche in questo caso ecco la mia proposta di traduzione:
PER UN OMAGGIO A GIACOMETTI
Su quel finire del pomeriggio dell’aprile 1964 la vecchia aquila despota, il capomaniscalco inginocchiato,
sotto la nuvolaglia di fuoco delle sue invettive (mai cessò di prendere a frustate, insultare il proprio lavoro,
cioè se stesso) mi disvelò, nel bel mezzo del pavimento del suo atelier, la figura di Caroline, sua modella, il
viso dipinto sulla tela di Caroline – dopo quanti colpi d’artiglio, di ferite, d’ematomi? – frutto di passione tra
tutti gli oggetti d’amore, vittorioso sul falso gigantismo dei cascami ammassati della morte ed anche delle
particelle luminose appena separate di noialtri, suoi testimoni temporali. Fuori del suo alveolo di desiderio e
di crudeltà. E si rifletteva, quel suo bel viso senza passato che avrebbe prestissimo ucciso il sonno, nello
specchio del nostro sguardo, ricettore universale (ma provvisorio) in nome di tutti gli occhi a venire.
Chi saprebbe dire in modo più pregnante e conciso di Char? Eppure la scrittura del poeta provenzale e l’arte
dello scultore e pittore di Stampa sanno generare altre parole, variazioni potenzialmente infinite sul tema;
James Lord, Jean Genet, Yves Bonnefoys, Lucetta Frisa e Marco Ercolani, John Berger hanno scritto su
Giacometti, sfogliarne i loro libri, spesso corredati da foto, consente di ripetere la visita che Char rese
all’amico carissimo ed è interessante notare come le sculture giacomettiane in foto (ma anche il volto
peculiare del loro autore, i vari luoghi dello studio) non abbiano la smorta piattezza di altre sculture
fotografate, ma sembrino conservare la loro tridimensionalità: Un giorno, scrive John Berger in My
Beautiful (Bruno Mondadori, Milano, 2008, traduzione di Maria Nadotti) qualcuno chiese ad Alberto:
“Quando alla fine le sue sculture devono lasciare lo studio, dove dovrebbero andare? In un museo?” E lui
rispose: “No, seppellitele nella terra, così faranno da ponte tra i vivi e i morti” (pag. 16); e poi: In questo
libro Giacometti e Trivier sono alla ricerca di una zona d’esperienza dove il rivelarsi equivale a un
incontrarsi. O, per dirla altrimenti: entrambi testimoniano non di uno stato dell’essere, ma di un comune
atto di divenire. Enrambi lasciano dietro di sé la traccia di un moto, non in avanti, ma verso. Un moto
verso, con le gambe e uno sguardo, una lingua, un ascolto e una solitudine (pag. 56). Marc Trivier ha
splendidamente fotografato le sculture di Giacometti che costituiscono il testo per immagini del libro,
l’anima visiva dell’opera che dialoga incessantemente con i testi in prosa di John Berger il quale anzi,
proprio in apertura scrive: La prima cosa da fare è osservare le foto. Smettete di leggere. Per favore,
guardatele di nuovo (pag. 12).
Ed infatti i testi chariani sono un guardare le sculture di Giacometti, un contemplarle vive nella campagna in
attesa che si dispieghi la mattinata o nello studio parigino. Indimenticabile risulta il sussulto dell’acqua nel
pozzo al gesto che compie l’uomo-scultura di toccare il ventre (fecondo) della sua donna-scultura.
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alberto giacometti
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Oppure si pensi al suo atelier: Molto tetro – Giacometti rispetta la materia al punto che s’offenderebbe se
Annette levasse la polvere dai vetri, scrive Genet nel suo L’atelier di Alberto Giacometti (traduzione italiana
di Massimo Raffaeli, Il melangolo, Genova, 1992) e più in là: “(Settembre ’57) La statua più bella di
Giacometti – parlo di tre anni fa – l’ho scoperta sotto il tavolo, curvandomi a raccogliere una cicca. Nella
polvere – l’aveva nascosta lì – il piede d’un ospite sbadato rischiava di spaccarla…
LUI – Se davvero è tanto forte, si farà vedere, pure se la nascondo (pagg. 32 e 35, 36).
Mi sia consentita un’osservazione: ritengo l’aggettivo tetro una scelta infelice, dal momento che lo studio di
Rue Hippolyte Maindron 46 è davvero, come ben scrive Char, un’officina di maniscalco, un luogo cioè
dove arde il fuoco ed uno spazio all’interno del quale l’accumulo di detriti, sculture, tele, attrezzi è
manifestazione visibile della ricerca febbrile di Giacometti. E davvero le foto che possono capitarci tra le
mani testimoniano l’inesausto cercare, l’insoddisfatto ricominciare: Giacometti si rimette ogni volta al
lavoro, anzi, è capace di andare avanti per ore, il suo è un corpo a corpo con la possibilità di rappresentare la
realtà per come egli la percepisce, alla maniera di Cézanne e direi di Morandi la sua arte è uno studio
ininterrotto e disperato, una serie interminabile di sondaggi dentro la realtà, un modernissimo accumulo di
tentativi, come se, nel nostro tempo, avesse più senso il processo artistico che il suo risultato compiuto: “Il
suo lavoro è un divenire come è in divenire lui stesso: è dissodare la figura dell’uomo, scorticarla,
rimpicciolirla, mummificarla. Ma nessuna scultura di Giacometti è un fossile o un reperto: è la maschera,
tragica e semplice, che lo sguardo umano, , giunto al fondo di sé, arriva a vedere come “osso” dell’anima;
la penultima maschera, la più vicina alla sua essenza, la statuina filiforme da riporre in una scatola di
fiammiferi. Ma dentro quella scatola ciò che, allo sguardo superficiale, non sembra che una minuscola
marionetta straziata, è la raffigurazione più fedele che un artista contemporaneo ci dà della condizione
naturalmente tragica dell’esistenza” (Marco Ercolani e Lucetta Frisa, Il muro dove volano gli uccelli,
L’Arcolaio, Forlì, 2013, pag. 62).
Ma c’è anche un gatto che, assieme al cane, è una delle sculture indimenticabili di Alberto Giacometti e mi
sia consentito concludere con questa fantasia: il Gatto di Giacometti attraversa il pensiero che s’è fatto
spazio e la luce entra da un finestrone; filiforme attraversa in permanenza l’hangar o l’officina alla periferia
parigina. Nella consumazione, nel diventare niente, nel ridiventare materia, cuore rappreso in pochi grumi di
bronzo. Si consumano i corpi quasi cercassero la sparizione, ma resiste qualcosa in essi che non vuole
morire – oppure si materializzano nell’ombra luce del mondo (una gamba, un passante, una donna). Alberto
si netta le mani sporche di creta con uno straccio ed esce alla luce di Rue Hippolyte Maindron; il suo Gatto
galleggia nella polvere minerale addensata sui mobili (è demone di greca sapienza), lo precede sulla strada
verso il caffé: lì frugale colazione. Forse verrà Char in visita questo pomeriggio ed intuirà: il Gatto di
Giacometti generato dalla folgore incontra mani segnate all’arte. Vedrà il suo amico colpire la tela con
rasoiate di pennello e il Gatto indicare con la testa tesa verso l’oltreparigi la grazia sconfinata dell’istante.
Antonio Devicienti