I miracoli economici: Cina, India e paesi asiatici - Blog-ER

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I miracoli economici: Cina, India e paesi asiatici
I miracoli economici: Cina, India e
paesi asiatici
1. IL CENTRO DI GRAVITÀ DELL’ECONOMIA
SI SPOSTA VERSO ORIENTE
I nuovi protagonisti
La globalizzazione – sotto forma di crescita guidata dalle esportazioni – ha contribuito a strappare i paesi dell’Est asiatico alla povertà, assicurando loro l’accesso sia ai mercati internazionali
sia alle tecnologie che hanno reso possibile un
vasto incremento della produttività.
Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona,
Einaudi, Torino, 2006, pag. 33
Un miliardo e 300 milioni di cinesi. Un miliardo
e 100 milioni di indiani. Il dragone e l’elefante. E
dietro di loro c’è il resto dell’Asia, trainato da
queste due locomotive, coinvolto nello stesso
formidabile decollo. Le nazioni più ricche – 130
milioni di giapponesi, 50 milioni di sudcoreani,
23 milioni a Taiwan, la tecnopoli di Singapore –
hanno appreso a utilizzare i costi di produzione
cinesi e indiani per rimanere competitive nelle
tecnologie avanzate. Indonesia (240 milioni), Filippine (88 milioni) e Malaysia (24 milioni) partecipano allo sviluppo come fornitrici di energia,
materie prime, manodopera. I paesi della ex penisola indocinese (quasi 200 milioni tra Vietnam,
Thailandia, Cambogia) diventano satelliti che
ruotano attorno ai due colossi. [...]
In totale, Cindia [Cina + India] e satelliti con 3,5
miliardi di esseri umani sono cinque volte la popolazione dell’intero continente europeo inclusa
la Russia, otto volte l’Unione Europea allargata a
25 membri, tredici volte gli abitanti degli Stati
Uniti. Più della metà dell’umanità è concentrata
in quest’area, ed è questa la metà che cresce.
Cresce sia demograficamente sia economica2
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mente. Tra le due crescite – popolazione e ricchezza – c’è un legame chiaro.
Federico Rampini, L’impero di Cindia,
Mondadori, Milano, 2006, pag. 3
La crescita economica che ha caratterizzato il decennio 1990-2000 ha avuto velocità diverse nelle diverse
aree del mondo. È stata quanto mai rapida in alcuni
paesi del Sudest asiatico, come Corea del Sud, Hong
Kong, Singapore, Taiwan, Thailandia, Malaysia, Vietnam, Singapore, Indonesia e Filippine, che sono arrivati a coprire oltre un terzo della produzione industriale mondiale.
Ma i veri protagonisti nello scenario economico mondiale contemporaneo sono la Cina e l’India. Il loro
primato assoluto nella crescita del Pil e il loro peso
demografico (insieme costituiscono il 40% della popolazione mondiale) sembrano metterli nella condizione di guidare il nuovo asse geoeconomico del pianeta. Trova dunque conferme crescenti la tesi di alcuni economisti i quali, già alla fine del XX secolo, avevano previsto che, in un mondo caratterizzato dalla
rapida diffusione delle capacità tecnologiche, il centro di gravità dell’economia mondiale si sarebbe spostato verso i paesi asiatici affacciati sul Pacifico.
I paesi emergenti del Sudest asiatico
Diversi paesi del Sudest asiatico hanno conosciuto
uno sviluppo produttivo impressionante tra la fine
del Novecento e l’inizio del terzo millennio, tanto da
far parlare di nuovi “miracoli economici”. Possiamo
suddividere questi paesi in due gruppi:
1. i cosiddetti Nic, ovvero i New industrialized countries, “paesi di nuova industrializzazione”; sono la
Corea del Sud, Singapore, Hong Kong e Taiwan, che
hanno raggiunto uno stadio avanzato di sviluppo e si
sono meritati l’appellativo di “tigri asiatiche”;
2. i paesi che ne hanno seguito l’esempio, cioè Indonesia, Thailandia, Malesia, Filippine e che nel decennio 1991-2001 sono entrati nella classifica dei primi dieci al mondo per tassi di crescita.
Secondo i dati della Banca mondiale, i tassi di crescita del Pil delle quattro “tigri” nei periodi 1970-80,
1980-90 e 1990-96 sono stati impressionanti: per
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esempio, in Corea del Sud si sono registrati il 9,3%,
8% e 7,7%, a Taiwan il 10,2%, 8,1% e 6,3%. Per
avere un termine di paragone, consideriamo che negli
stessi periodi il tasso medio di crescita dell’Occidente
industrializzato è oscillato fra il 3,4% e il 2%. Lo sviluppo del Sudest asiatico si è contraddistinto per l’incontro fra il liberismo economico e regimi politici
autoritari. Questo ha garantito da un lato una conflittualità sociale e politica molto limitata (assenza di sindacati, controllo dell’opposizione interna ecc.), dall’altro un basso costo del lavoro: due fattori che hanno incoraggiato gli investimenti stranieri.
Nel 1997, tuttavia, le Borse del Sudest asiatico sono
state l’epicentro di una grave crisi finanziaria. Le
economie della regione sono state pesantemente colpite dalla crisi, che ha portato alla luce ritardi e debolezze e ha mostrato come una crescita associata a forti disuguaglianze sociali, alla corruzione e alla mancanza di trasparenza può rendere instabile un’economia di mercato. La crisi del 1997 segnò dunque una
battuta d’arresto per il Sudest asiatico, che però si è
ripreso con l’inizio del terzo millennio e ha fatto di
nuovo registrare alti tassi di crescita del Pil. Questo
“miracolo” economico, quindi, non sembra ancora
esaurito.
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L’apertura all’Occidente, intanto, alimentò il desiderio di libertà e democrazia, soprattutto tra i giovani.
Nel 1986 gli studenti manifestarono a Shanghai e
Pechino, rivendicando quei diritti civili e politici riconosciuti in Occidente; le dimostrazioni furono
duramente represse. Nel maggio 1989 – mancavano
pochi mesi alla caduta del Muro di Berlino – in occasione della visita del presidente sovietico Gorbaciov i giovani diedero vita a un’altra imponente manifestazione in piazza Tien An Men, a Pechino, ancora per chiedere libertà civili e politiche: la piazza
rimase occupata fino a che, all’inizio di giugno, intervenne l’esercito con i carri armati e aprì il fuoco
sui manifestanti. La repressione di piazza Tien An
Men procurò alla Cina una condanna unanime a livello internazionale, ma poco dopo le relazioni economiche con il resto del mondo ripresero normalmente. Anche il dissolvimento dell’Urss e del comunismo sovietico non fece cambiare sostanzialmente
la linea del Partito comunista cinese, che al congresso del 1992 escluse ogni forma di liberalizzazione
politica e confermò la volontà di proseguire nelle
riforme economiche secondo un modello di “capitalismo di Stato”.
La sfida cinese oggi
2. IL RISVEGLIO DEI GIGANTI: LA CINA
Riforme economiche senza libertà politica
La Cina di oggi, paese con una forza potenziale di lavoro di 750 milioni di persone, è figlia del ciclo di
riforme che il leader Deng Xiaoping varò tra la fine
degli anni settanta e il 1989. Tali riforme condussero
ad abbandonare l’economia pianificata, sia nell’agricoltura sia nell’industria, e a reimpostare progressivamente la vita economica cinese sulla base della proprietà privata e del libero mercato. Deng pensava
dunque a una Cina comunista, ma aperta all’economia di mercato e agli scambi con l’Occidente. Le
riforme a favore dell’agricoltura privata generarono
incrementi produttivi costanti, liberando centinaia di
milioni di cinesi dallo spettro della fame e favorendo
l’esodo (oggi in pieno svolgimento) dalle zone rurali
alle aree industrializzate.
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La Cina di oggi assorbe un quarto dell’acciaio, un
quarto dell’alluminio e un terzo del ferro prodotti
nel mondo, e consuma il 45% del carbone e il 7%
del petrolio (secondo importatore mondiale dopo
gli Usa) estratti sempre a livello mondiale. Uno sviluppo così tumultuoso e rapido, attestato al 9-10%
annuo del Pil, non si registrò nemmeno in Italia,
Germania e Giappone dopo la seconda guerra mondiale.
La crescita economica del gigante asiatico è accompagnata e sostenuta da ingenti investimenti nella ricerca. Nel 2001 la Cina ha speso 60 miliardi di dollari in questo settore (meno dei 280 degli Usa, ma più
della Germania, che è il primo investitore europeo) e
il suo impegno continua a crescere. Sempre nel 2001
in Cina si laurearono 740.000 studenti e c’erano altrettanti ricercatori (seconda soltanto agli Usa); nel
2005 i neolaureati cinesi in materie scientifiche sono
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diventati più di un milione e ogni anno oltre 50 mila
studenti vengono mandati dal governo a specializzarsi all’estero. La più grande sfida che la Cina sta
lanciando al resto del mondo, e in particolare agli
Usa, riguarda quindi il settore tecnologico e scientifico. Mai come oggi le competenze scientifiche costituiscono risorse produttive cruciali ed è in gran parte in base a esse che si misura la corsa per la leadership mondiale: una corsa che nel XX secolo ha visto
protagonisti Usa e Giappone, ma che nel secolo appena aperto vede nuovi agguerriti protagonisti, la
Cina e l’India in primo luogo.
La Cina, inoltre, è diventata il paese dove aziende di
tutto il mondo e di tutti i settori hanno delocalizzato, cioè hanno spostato in parte o in tutto le loro sedi produttive. Questo è avvenuto per l’esistenza di
alcune condizioni favorevoli, come le infrastrutture
moderne e i centri universitari di buon livello, ma
soprattutto la manodopera a basso costo (e abbastanza istruita): in Cina sono del tutto assenti organizzazioni sindacali che diano voce alle rivendicazioni degli operai, i quali svolgono il loro lavoro a ritmi
serrati e senza le forme di tutela esistenti nei paesi
occidentali.
Il paese ha scavalcato gli Stati Uniti nell’esportazione
di prodotti ad alto contenuto tecnologico, dai telefonini ai computer. Inoltre, in virtù del saldo attivo fra
esportazioni e importazioni, ha accumulato riserve
valutarie che sfiorano i 1000 miliardi di dollari. Per
questo, la Cina può essere considerata il “banchiere”
degli americani e gioca un ruolo importante per la
stabilità del dollaro; d’altra parte, il paese non è più
soltanto il luogo dove le multinazionali straniere investono, perché le multinazionali cinesi stanno a loro
volta acquistando aziende in moltissimi paesi, a cominciare dagli Usa.
Il modello cinese di capitalismo
Se i dirigenti cinesi parlano di “socialismo di mercato”, certi critici occidentali ribattono che si tratta
piuttosto di un capitalismo selvaggio. In realtà la vita
economica della Cina degli ultimi anni configura
un’esperienza nuova, appunto non facilmente definibile, perché tiene insieme realtà contraddittorie, al6
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meno secondo i parametri occidentali. Si può parlare di una sorta di capitalismo di stato, o capitalismo
pianificato, in quanto il partito mantiene un ruolo
forte e preciso nell’economia. In Cina vi sono per
esempio una serie di grandi complessi industriali
formalmente autonomi, cioè guidati da presidenti e
amministratori delegati, sul modello occidentale.
Dietro lo staff dirigenziale, però, si trova spesso un
ingegnere capo, la cui parola diventa decisiva per dare via libera ai maggiori investimenti, alle grandi
operazioni commerciali e finanziarie: questa figura
dotata di poteri d’indirizzo generale non è altro che
un rappresentante del partito.
In Cina vige dunque da un lato un sistema centralista e autoritario, dall’altro di libero mercato. Il valore dell’uguaglianza economica di tutti è solo un ricordo del passato e per il Partito comunista cinese
l’arricchimento individuale è il mezzo più rapido ed
efficiente per stimolare la crescita economica del
paese; ci sono già 15 milioni di nuovi ricchi e un
consistente ceto medio, che costituisce un enorme
mercato interno. All’ampia libertà sul piano economico – lo abbiamo già ricordato – non corrisponde
però la libertà politica e il governo cinese è stato fino
a oggi sordo alla campagna internazionale in difesa
dei diritti umani e politici. In molti paesi la crescita
economica e l’apertura dei mercati verso l’esterno
hanno costituito condizioni favorevoli allo sviluppo,
o al radicamento, di istituzioni parlamentari, delle libertà civili, del pluralismo politico e della stampa,
insomma di una vita democratica. In Cina no, fino
ad ora. Ma questo grande paese con le sue contraddizioni rimane un osservato speciale, perché appare
destinato a diventare un perno del nuovo mondo
globalizzato.
3. IL RISVEGLIO DEI GIGANTI: L’INDIA
Un paese dalle molte contraddizioni
Se la Cina ha liberato le sue energie a partire dalla fine degli anni ottanta, l’India si è imposta di recente
come l’altro miracolo economico dell’Asia. Al pari
della Cina, l’India è da una parte un paese produttore, dall’altra un mercato potenzialmente gigantesco e
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che già ha cominciato ad assorbire sempre più beni
di consumo: dal 1996 la vendita di automobili è raddoppiata, quella dei telefoni cellulari è cresciuta
dell’80% all’anno e 45 milioni di famiglie indiane sono abbonate alla televisione via cavo.
Negli anni novanta i governi indiani abbandonarono
l’orientamento politico che voleva l’economia fortemente regolamentata dallo stato. Questo cambiamento da una parte ha consentito una forte crescita
del Pil (+8% annuo nell’ultimo periodo), dall’altra
ha portato con sé un aumento delle disparità tra i
diversi gruppi sociali e tra le diverse regioni del paese. Lo sviluppo economico e industriale degli ultimi
vent’anni ha liberato dalla fame duecento milioni di
indiani. La povertà è tuttavia ancora molto diffusa e
visibile soprattutto nelle città e nelle grandi metropoli del paese (come Nuova Delhi, Bombay, Calcutta), dove si accalcano masse di miserabili e dove
spesso il dislivello di vita tra ricchi e poveri appare
abissale. C’è poi la questione del sistema delle caste,
cioè della suddivisione tradizionale (legata all’induismo, la religione maggioritaria) della società indiana
in gruppi disposti su una scala gerarchica e non comunicanti fra loro. Le caste sono state abolite dalla
costituzione indiana del 1947, ma per certi aspetti
sopravvivono nella mentalità comune e nella vita
pratica (opportunità di lavoro, di matrimonio ecc.).
La delocalizzazione e l’eccellenza scientifica
Da alcuni anni l’India è, insieme alla Cina, una delle
mete principali degli investimenti delle multinazionali e luogo di concentrazione delle produzioni delocalizzate dai paesi ricchi dell’Occidente. In India le
aziende occidentali trovano un’elevata offerta di lavoro, a un costo estremamente basso per le mansioni
meno qualificate. Ma il lavoro costa comunque meno che in Occidente anche quando richiede competenze professionali di medio o di alto livello. Per fare
un esempio, grandi studi legali statunitensi delocalizzano oggi in India non solo mansioni semplici ma
anche le più complesse, come redigere una pratica di
brevetto tecnologico secondo la legge americana (a
una tariffa di 70 dollari l’ora anziché 300, come negli
Usa). O, ancora, molti studenti di New York sono
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abbonati a un servizio che offre ripetizioni di matematica in collegamento via Internet con l’India: il
prezzo è circa un quarto di quello che chiederebbe
un professore statunitense.
Le giovani generazioni indiane, quelle che hanno la
possibilità di accedere all’istruzione superiore, sono
fortemente motivate a conquistare sempre migliori
chances professionali. Un elemento che favorisce
l’India è inoltre la diffusa conoscenza della lingua
inglese, dovuta al passato coloniale e al lungo rapporto privilegiato che il paese ebbe con la Gran Bretagna. L’India è così diventata un luogo di eccellenza
per le nuove tecnologie. Si sta imponendo sul mercato mondiale della ricerca farmaceutica, della biogenetica (biotecnologie) e in altri settori a elevata
specializzazione, soprattutto l’informatica.
La città di Bangalore, nella regione di Karnakata, è il
centro della cosiddetta Silicon Valley indiana (la Silicon Valley è la zona della California con la più alta
concentrazione mondiale di aziende e centri di ricerca informatici). Inizialmente, negli anni ottanta,
aziende americane affidarono appalti e compiti esecutivi alle società informatiche indiane di Bangalore,
per esempio duplicare importanti programmi per
computer. Ma assai presto il distretto di Bangalore
dimostrò di possedere potenzialità molto maggiori:
grazie alla preparazione dei matematici e degli ingegneri che vi lavorano, è diventato uno dei maggiori
centri al mondo di ricerca ed elaborazione di nuovi
prodotti informatici, oltre che la sede in cui vengono
gestite, attraverso Internet, le banche dati di aziende
come Deutsche Bank, General Motors, American
Express. Data questa eccellenza, l’India è a sua volta
diventata una esportatrice di cervelli nel settore
informatico.
Verso il futuro
Sono tre miliardi e mezzo. Sono più giovani di
noi, lavorano più di noi, studiano più di noi.
Hanno più risparmi e più capitali di noi da investire. Hanno schiere di premi Nobel della
scienza. Guadagnano stipendi con uno zero in
meno dei nostri. Hanno arsenali nucleari ed
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eserciti di poveri. Sono Cina, India e dintorni.
Cindia non indica solo l’aggregato delle due nazioni più popolose del pianeta: è il nuovo centro
del mondo, dove si decide il futuro dell’umanità. […] Le speranze di progresso così come i
rischi di catastrofi, il riscatto dalla miseria e la
guerra all’inquinamento, la libertà o la repressione: la partita del XXI secolo si gioca qui.
Federico Rampini, L’impero di Cindia, Mondadori,
Milano, 2006, pag. 3
Per il loro livello di crescita economica e per il loro
peso demografico, equivalente al 40% della popolazione mondiale, l’India e la Cina si presentano come
i due paesi in grado di orientare un nuovo asse geoeconomico del pianeta. Nessuno possiede la sfera di
cristallo per leggere nel futuro: ma di certo ci troviamo di fronte a due protagonisti che faranno sentire
la propria voce negli equilibri del secolo appena iniziato.
a cura di Angelica Guidi
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