Intervento di maggio 2003
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Intervento di maggio 2003
Elena Pirazzoli, Università di Bologna – Partner ACUME Immagine e Nome: il disagio dell’espressione di fronte alla Shoah Partirei con una citazione da Stefano Levi della Torre, allievo di pensiero di Primo Levi, pittore e docente di disegno presso il Politecnico di Milano. Ragionando sul divieto mosaico delle immagini, della rappresentazione di tutto il creato1, Levi della Torre scrive: Il problema della rappresentazione posto dal Decalogo (“Non ti farai alcuna immagine”) si è riproposto per gli ebrei di questo secolo in una forma traslata e terribile. Può lo sterminio nazista avere una rappresentazione? Oppure ogni rappresentazione diretta non può che falsificare e ridurre una verità così estrema e, per le dimensioni quantitative e qualitative, così inafferrabile dell’esperienza umana? La rappresentazione può persino diventare un idolo negativo dell’identità ebraica, un oggetto secolare di un culto per un corpo collettivo martirizzato senza limite e poi risorto.2 ‘Dopo Auschwitz’ è una determinazione che ormai si sente applicare ai vari campi del sapere e del creare. Poesia dopo Auschwitz, Dio dopo Auschwitz. Ed è significativo notare che un testo di estetica di recente pubblicazione, Ästetische Grundbegriffe3, inizia con la voce ‘assenza’, la cui parte finale è dedicata ad Auschwitz, mostrando come il più difficile compito dell’arte, dalla seconda metà del Novecento ad oggi, “sia stato di indicare almeno la traccia del trauma da cui proveniamo”4. Si può dire che si è creata un nuova categoria estetica: ‘arte dopo Auschwitz’. Una categoria che si pone il problema della rappresentazione - nel suo senso originario/etimologico di rendere presente con un movimento di recupero ed avvicinamento (re – ad - praesum), non di mimesi - di 1 “Non farai per te scultura né alcuna immagine di ciò che è in cielo al di sopra e in terra al di sotto e nelle acque al di sotto della terra, non ti prostrerai loro né presterai loro culto [non li servirai] perché io sono il Signore Dio tuo, Dio geloso, che punisce la colpa dei padri sui figli fino alla terza e quarta generazione di coloro che mi odiano” (Esodo 20, 4-5). 2 Levi della Torre 1998, p. 1. 3 ‘Concetti fondamentali di estetica’, il primo volume è stato recentemente pubblicato in Germania (gli altri seguiranno nel corso dei prossimi anni), a cura di Karlheinz Barck. 4 Pezzella 2001, p. 13. 1 qualcosa di ‘estremo’, di così impensabile (ma che è accaduto), che di solito viene definito tramite negazioni: indicibile e irrappresentabile. Altrimenti si potrebbe rischiare di limitarne la portata. Il Novecento è stato spezzato dalla Shoah: ‘dopo’ è stato detto che l’arte non poteva più avere significato, o meglio, con la famosa affermazione di Adorno, che “dopo Auschwitz scrivere una poesia è un atto di barbarie”5: una nuova interdizione, questa volta non espressa da Dio, né rivolta al rispetto dell’incommensurabilità di Dio. Questa volta sono stati gli uomini a pronunciare l’interdizione sulla parola e sull’immagine, temendo di limitare un evento ‘incommensurabile’, un evento di annullamento nella morte fredda e scientificamente pianificata. Ma gli uomini hanno bisogno di esprimere il dolore, e così il ‘divieto’, come già il divieto mosaico delle immagini, è stato aggirato, una deroga lo ha trasformato in una ‘reticenza’, in ‘pudore’. Lo stesso Adorno, infatti, è ritornato sui suoi passi, affermando che Il dolore incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò è forse falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia.6 Poesia dopo Auschwitz è stata fatta, sempre con una sensazione di afasia nella gola, sempre temendo che le vecchie parole non potessero dare a pieno il senso di “ciò che era stato”, quel “das, was war” la cui ‘forma’ Paul Celan usava per riferirsi all’accaduto7. E proprio la poesia di Celan pare abbia portato Adorno a rivedere la propria posizione. I poeti erano soprattutto ‘sopravvissuti’, molti sono divenuti scrittori proprio dopo l’evento, sentendosi addosso la responsabilità di 5 Adorno 1972, p. 22. Il saggio Critica della cultura e società, da cui è tratta questa affermazione, è del 1949. 6 Adorno 1975, p. 327. I saggi raccolti nella Dialettica negativa furono scritti nell’arco di tempo dal 1959 al 1966. 7 “La Schmueli sottolinea che Celan non pronuncia mai la parola ‘shoah’ , né tantomeno ‘olocausto’: quando parla del passato lo definisce ‘das, was war’, ‘ciò che era stato’, in quegli scarni, allitteranti fonemi, Celan riassume il suo ‘czernowitzeln’, ‘parlare Czernowitz’ ”. Vedi Celan 1998, p. CLVIII. 2 testimoni, di “salvati”8 che hanno dapprima, quando erano nei campi, desiderato di poter raccontare, e in ciò hanno attinto forza e speranza, ma poi, tornati liberi hanno temuto il ricordo, ostacolo per un ritorno alla vita. Per alcuni ciò ha significato soccombere sotto il peso della memoria, della vergogna per la propria casuale – e per questo ‘colpevole’ – salvezza. Ad un certo punto ha prevalso in queste voci il desiderio di condividere il destino dei “sommersi”, destino a cui anni prima erano riusciti a scampare. Primo Levi, Jean Améry, Paul Celan, Tadeusz Borowski9 (e quanti meno famosi di loro) si sono ricongiunti al popolo assente. L’afasia, dunque, si è scontrata con la necessità del ricordo, forse per rendere giustizia ai ‘sommersi’, o forse solo poter dire il dolore e l’orrore di ciò che l’uomo aveva fatto all’uomo. Si è cercato di dare un nome all’evento, un nome che sapesse rendere l’essenza di quello che era stato. ‘Olocausto’, ‘genocidio’, ‘sterminio’, ora ‘shoah’10. Il nome più noto, ‘olocausto’, diffuso e utilizzato soprattutto negli Stati Uniti, è quello ora più contestato a causa del suo significato di ‘sacrificio’. (Ora manca il tempo per un’analisi della migrazione semantica di questo termine, che sarebbe utile ed interessante). Se gli ebrei sono stati una vittima sacrificale, è meglio non chiedersi a quale dio è stato alzato questo ‘olocausto’. Al dio-demone nazista di progettazione sociale, non certo al Dio degli ebrei, introvabile in quella Catastrofe. Per Agamben anche la scelta del termine Shoah, ‘Catastrofe’, non coglie a pieno l’essenza, limitandosi alla descrizione: si tratta sempre di un eufemismo “in quanto implica la sostituzione dell’espressione propria per qualcosa di cui non si vuole, in realtà, sentire parlare, con una espressione attenuata o alterata [e ciò] comporta sempre delle ambiguità”11. Ma in questo caso il ‘nome’ non contiene alcuna irrisione, alcuna sgradevolezza. 8 Il riferimento è a I sommersi e i salvati di Primo Levi, ultima sua riflessione sull’accaduto: il libro fu pubblicato nel 1986, e l’11 aprile 1987 Levi si tolse la vita. 9 Prigioniero polacco di Auschwitz, autore di una serie di racconti sulla sua prigionia, pubblicati in lingua originale già nel 1947, in italiano nel 1988 nella raccolta Paesaggio dopo la battaglia, Il Quadrante editore, Torino. Borowski si suicidò nel 1951, non ancora trentenne. 10 In ebraico ‘distruzione, devastazione, catastrofe’. 11 Agamben 1998, p. 28. 3 Nel 1945 si era di fronte a un fatto inedito, privo di nome, ma che era avvenuto. Un fatto, come già sottolineato, unico. Ma Agamben si chiede: Ma perché indicibile? Perché conferire allo sterminio il privilegio della mistica?12 Per sviluppare la sua riflessione, Agamben risale ad un uso particolare del verbo greco ‘euphemein’: quello che ne fa Giovanni Crisostomo nel trattato Sull’incomprensibilità di Dio. Secondo il Padre della Chiesa, il modo migliore per glorificare Dio è rispettare il suo essere assolutamente incomprensibile, “indicibile, inenarrabile, inscrivibile”13. Mentre alcuni uomini si sforzano di comprendere l’essenza di Dio, le schiere angeliche gli rendono gloria eterna: “(…) quelli [gli angeli] adorano in silenzio, questi [gli uomini] si danno da fare; quelli distolgono gli occhi, questi non si vergognano di tenere fisso lo sguardo nella gloria inenarrabile”14. La riflessione di Agamben prosegue: Il verbo che abbiamo reso con ‘adorare in silenzio’ è, nel testo greco, ‘euphemein’. Di questo termine, che significa in origine ‘osservare il silenzio religioso’, deriva la parola moderna ‘eufemismo’, che indica i termini che si sostituiscono ad altri che, per pudore o buone maniere, non si possono pronunciare. Dire che Auschwitz è ‘indicibile’ o ‘incomprensibile’ equivale a ‘euphemein’, ad adorarlo in silenzio, come si fa con un Dio; significa, cioè, quali che siano le intenzioni di ciascuno, contribuire alla sua gloria. Noi, invece, “non ci vergogniamo di tenere lo sguardo fisso nell’inenarrabile”. Anche a costo di scoprire ciò che il male sa di sé, lo troviamo facilmente anche in noi.15 In una traduzione precedente16 del testo di Crisostomo, il verbo ‘euphemein’ è reso invece come ‘cantare lodi’. Il verbo ha, infatti, il 12 Agamben 1998, p. 30. Agamben 1998, p. 30. Citazione da San Giovanni Crisostomo. 14 Crisostomo 1970, p. 129. Brano citato in traduzione dal francese in Agamben 1998, p. 30. 15 Agamben 1998, p. 30. 16 Vedi traduzione di R. Flacelière in Crisostomo 1950, p. 103. 13 4 significato base di ‘dire parole di buon augurio’, che si è sviluppato nelle due apparentemente antitetiche specializzazioni di ‘serbare religioso silenzio’ e ‘risuonare lietamente, gridare con entusiasmo, acclamare’. Il termine ‘eufemismo’ in riferimento alla distruzione ebraica può essere quindi considerato come un modo per mantenersi lontani dall’essenza della questione, evitando con sacrale rispetto di ‘dirne’ il nodo centrale, ma insieme gridando a gran voce, limitandosi alla superficie. Le parole di chi è tornato per raccontare, le parole di chi si reso carnefice, queste parole mostrano una realtà che a volte si preferirebbe “restasse per sempre incomprensibile”17. D’altra parte, come sottolinea Levi della Torre, vi è il rischio opposto di trasformare la Shoah in un “idolo negativo dell’identità ebraica”, quel ‘gridare a gran voce’ che ha portato a un certo ‘holocaust business’. Al nome, per evitare problemi, spesso viene sostituito un toponimo, secondo un processo metonimico: un luogo per un evento. Auschwitz, appunto, è tale luogo. Ma Auschwitz non fu l’unico luogo: la mappa dei campi di concentramento e dei campi di sterminio è impressionante per la sua capillarità in tutto il corpo europeo, come “un enorme tumore con infinite metastasi”18. Auschwitz fu la struttura più estesa ed articolata, il ‘gioiello’ della macchina dello sterminio, prodotto finale di un processo di ottimizzazione. ‘Ottimizzazione’, termine mutuato dal lessico industriale, indica un miglioramento della resa con il diminuire del dispendio energetico, e questo si è delineato anche con la Soluzione finale, dapprima condotta con metodi più ‘artigianali’ delle Judenjägde, cacce all’ebreo, fino alle camere a gas. Non mi è possibile qui approfondire questo tema, ma resta uno degli aspetti essenziali per comprendere in cosa risieda l’unicità della Shoah. Le rovine del complesso di Auschwitz, e non quelle degli imponenti edifici di Speer, l’architetto prediletto di Hitler, sono ciò che resta ai posteri di quello che fu il ‘Reich millenario’. 17 18 Agamben 1998, p. 7. Bastian 1995, p. 24. 5 Si può dire che l’icona della Catastrofe è la struttura di Auschwitz: l’edificio d’ingresso, il cancello (Arbeit macht frei), le baracche, la sua pianta così chiara, l’articolazione funzionale, tutti questi elementi mostrano a pieno la pianificazione sistematica e scientifica dello sterminio. Accanto alla parola, infatti, si è cercata anche un’immagine che potesse divenire ‘icona’ di ciò che era avvenuto. A differenza del fungo atomico di Hiroshima (o, per parlare dell’attuale, dell’aereo che entra nel WTC), mancava un’immagine che potesse raccogliere in sé l’evento, evento fatto non di un terribile istante (e quindi immortalabile in uno scatto), ma condotto in un arco di tempo di anni, reso quotidiano a vittime, carnefici e spettatori indifferenti. Come dare raffigurazione a tale orrore? Un’immagine è limitante. D’altra parte, un’icona serve come appoggio per la memoria e, anche involontariamente, si crea di necessità nel corso del tempo. Per sua definizione un’icona è un “segno visivo che ha un rapporto di somiglianza con la realtà esterna, in quanto presenta le stesse caratteristiche dell’oggetto denotato”19. Un rapporto di somiglianza con la realtà, ma anche un’immagine che definisce a pieno l’oggetto. Che lo sa evocare al primo sguardo. Originariamente un’icona è anche un’immagine religiosa, un’immagine oggetto di culto. Oggi, a sessanta anni dall’evento, ogni occidentale medio ha negli occhi un ricco repertorio di immagini fotografiche e cinematografiche (tratte da documentari e film): baracche di legno, filo spinato, corpi nudi o avvolti in sdrucite divise a righe, prigionieri in fila, treni, cumuli di cadaveri scheletriti, forni in muratura, mucchi di oggetti quotidiani o effetti personali (le serialità infinite di scarpe, valigie, stoviglie, occhiali, etc…), e sacchi di capelli. Grazie ai testimoni e al lavoro degli storici, sa anche delle camere a gas. Le può vedere, ma non le distinguerebbe da altre celle. Le camere a gas sono state fatte saltare quasi tutte. Non restano, quindi, immagini ‘dirette’ dello sterminio: non abbiamo fotografie di camere a gas in azione, dei sonderkommandos intenti al loro 19 Vedi voce ‘icona’ nel vocabolario Zingarelli 1996, p. 807. 6 lavoro di spostamento dei corpi dalle docce ai forni20, e ciò genera non pochi problemi alla storiografia che si batte contro revisionismi e negazionismi. Ma la conoscenza di ciò che è avvenuto ci fa ‘avvertire’ la Shoah in quei ‘resti’. Si è così creata un’immagine della Catastrofe, una sorta di icona latente, fatta di più elementi: i cumuli di oggetti ‘comuni’, abiti, scarpe, effetti personali, valigie, e le fotografie in bianco e nero - portate con sé per ricordo, oppure scattate dai nazisti per studi antropometrici e fisiognomici - …di fronte a tutto questo siamo portati ad avvertire una perdita, fino alla perdita ‘incommensurabile’ della Shoah. E la quotidianità di quegli oggetti ci fa sentire quanto possa essere vicino quell’‘incommensurabile’. Afasia e necessità di urlare, sono le reazioni d’urgenza che segnano da sempre il rapporto fra arte e Shoah. In un intervento su questo tema, Aharon Appelfeld ha scritto che L’espressione artistica dopo l’Olocausto sembrava repellente, disgustosa. Il dolore e la sofferenza esigevano il silenzio o grida selvagge21. Ma dall’evento Shoah è scaturita arte, su piani molto differenti. I disegni dai campi (svaghi di bambini dal destino segnato, o sfoghi nascosti di Häftlinge22), gli schizzi dei testimoni, ma anche l’arte del ‘dopo’. Si è delineata una nuova confusione: l’arte riguardante la Shoah è stata vista come ‘arte ebraica’, ovvero il contraltare artistico della visione dello sterminio come questione solo delle sue vittime, solo come fatto ebraico. Ma la memoria non è solo una questione ebraica, la Shoah ha cambiato profondamente la percezione del concetto di progresso e di sviluppo della nostra civiltà occidentale. Vittime, carnefici, spettatori indifferenti e ‘zona grigia’ sono rimasti coinvolti in essa, poi tale coinvolgimento è stato esteso alle generazioni nate dopo. 20 Le immagini di quei momenti, come i luoghi propri dello sterminio (camere a gas, campi con l’unica funzione dell’‘eliminazione’ dei trasporti) sono state distrutte dai nazisti, in modo che non restassero prove di ciò che avrebbe mostrato che quella non era stata una guerra, e una prigionia di guerra, come le altre. 21 Appelfeld 2000, p. 140. 22 ‘Prigionieri’ in tedesco. 7 Va detto, quindi, che non solo artisti di origine ebraica si sono confrontati con la Shoah e la sua memoria: anche artisti tedeschi, figli del dopoguerra e di colpevoli silenzi, o addirittura appartenenti alla generazione che aveva vissuto quegli anni di fervore nazista senza comprendere ciò che stava avvenendo. Joseph Beuys e Anselm Kiefer (che furono anche in rapporto maestro - allievo) si sono confrontati, in modo differente, con l’ingombrante passato tedesco. Per Beuys si è trattato di un tentativo della prima ora di cercare gli elementi per una ‘forma’ capace di ‘dire’ che cosa era avvenuto. Una vetrina di oggetti, di ‘reliquie’, e una planimetria del luogo sono ciò che resta. Colpisce estremamente vedere come già nella metà degli anni ’50 l’artista avesse colto quale fosse stata l’essenza dell’evento: la spoliazione dell’identità e la progettazione di una macchina perfetta, Auschwitz. Risalgono, infatti, alla fine degli anni ’50 – inizio ’60 alcune opere che hanno titoli come Auschwitz Vitrine (1956-64)23 e Ohne Titel (Plan des Konzentrationslager Birkenau) (1963). La prima è un’installazione, una ‘vetrina’ come dice il titolo, contenente “file di materiale in forma di salsicce, schizzi di figure femminili emaciate, blocchi di sego, elettrodi e fili metallici, mappe delle linee ferroviarie che portavano al campo di morte, forme cilindriche somiglianti a un camino”24, due contenitori pieni di capelli, una foto di baracche in legno (probabilmente un’immagine di Auschwitz II Birkenau) e un crocifisso senza croce adagiato su un piatto. Ohne Titel (Plan des Konzentrationslager Birkenau)25 è una stampa della pianta di Auschwitz II - Birkenau, con le file ordinate delle baracche, i blocchi rettangolari circondati da recinzioni, le rotaie che tagliano la superficie del campo. Sulla mappa, dipinte a mano, delle grandi croci di tempera bruna. Questa opera appartiene a una serie datata 1941-1963 composta da altri testi a loro volta segnati da croci: nei loro titoli torna l’espressione ‘doppelt gekreuzt’, che significa ‘doppiamente crocifisso’. Le vetrine di oggetti richiamavano i padiglioni di Auschwitz all’epoca ancora colmi dei resti delle vittime, dei frammenti delle loro vite e dei loro corpi. La pianta del campo evocava il luogo e la sua precisa 23 Nel 1955 Beuys partecipò a un concorso per un memoriale ad Auschwitz. Saltzman 1999, p. 13. 25 ‘Senza titolo (pianta del campo di concentramento di Birkenau)’. 24 8 pianificazione: la progettazione scientifica dello ‘smaltimento’ di scorie umane. In un’intervista del 1982 Beuys, di fronte alla domanda se Auschwitz potesse (e possa) avere una rappresentazione, se ciò che è avvenuto in forme così terribili potesse essere ‘fissato’ in un quadro, in un’immagine, risponde che ciò non è possibile. La sua Auschwitz Vitrine non vuole essere questa ‘rappresentazione’, nel senso di ‘definizione’ chiusa, ma è piuttosto “il tentativo per preparare una medicina”26. Una medicina che possa fare ricordare. E quali sono i componenti di questa ‘pozione’? Sono ciò che è stato creato in Auschwitz: materiale organico come nuova materia prima accanto alla pianificazione urbanistica e sociale di uno sterminio. Auschwitz viene riportato a ciò che è stato, ovvero un evento fatto dagli uomini, e non qualcosa di demoniaco e oltreumano. Beuys non tratterà più di questo tema per tutta la durata della sua lunga produzione artistica, o almeno non lo farà dichiaratamente. Saranno i critici europei a vedere nelle sue opere frammenti della Shoah. I critici europei, disse Beuys ad un intervistatore americano, “interpretano il mio lavoro come avente a che fare con l’olocausto – grasso con catastrofe, con morte – colore grigio e distruzione. Ma non mi interesso di allusione. Mi interesso di Cambiamento”.27 Durante la seconda guerra mondiale, Beuys era un pilota dell’esercito tedesco e il suo aereo venne abbattuto in Crimea. Venne poi salvato da alcuni Tatari che lo guarirono coprendone il corpo con grasso animale e avvolgendolo in una coperta di feltro, nutrendolo con miele e prodotti caseari. Quell’esperienza segnò la sua vita e la sua arte. Quei materiali, capaci di provocare trasformazioni, divennero gli elementi fondamentali della sua mitologia personale, i segni di riconoscimento del suo lavoro artistico. 26 Beuys 1990, p. 184. Per i suoi atteggiamenti e per il suo modo di creare, Beuys viene considerato un artista ‘sciamano’. 27 Robins 1989, p. 74. 9 Nel 1980, durante una performance28 che prevedeva il dialogo con il pubblico, venne chiesto a Beuys se non avesse sentito alcuna colpa per aver fatto parte dell’esercito tedesco, l’artista ebbe un momento di tentennamento, si fece ripetere la domanda, poi rispose “Naturalmente. Tutti noi siamo – ognuno è colpevole”29. Queste parole sembrarono un modo per sollevarsi da ogni responsabilità. Certo vi era una sorta di ‘imbarazzo’, un disagio di fronte alla domanda, di fronte alla ‘questione della colpa’. In altre occasioni, di fronte a domande similari, Beuys dirà che la condanna deve essere rivolta non solo alla Germania, ma nei confronti di un sistema sociale che ha reso possibile la Catastrofe30. Ma resta l’importanza delle opere di questo artista che così presto, così a ridosso dell’evento, crea delle ‘forme’ per dire l’evento. E le ‘forme’ scelte da questo artista si ripresenteranno in tempi più recenti: tornerà la catalogazione, gli inventari, i ‘reliquiari’ (modalità utilizzata soprattutto da Boltanski, artista francese che tratta di perdita, anche in connessione alla Shoah), tornerà il materiale organico e il disagio dell’osservatore di fronte ad esso (nella terribile, sgradevole Ebrea di Fabio Mauri, realizzata nel 1971, quindi anch’essa abbastanza precocemente), tornerà la struttura di Auschwitz II – Birkenau (tutte le volte che si vorrà evocare il sistema concentrazionario in senso lato). Il lavoro di Anselm Kiefer è più articolato, si dipana in un arco di anni molto più lungo e tocca il tema sotto aspetti differenti, attuando una vera e propria Vergangenheitsbewältigung, ovvero una ‘elaborazione del tempo passato’, che lo porta, con tutte le ambiguità del caso, ad indossare i panni di un tedesco medio della generazione precedente. Con questi occhi vede le occupazioni di terre, vede le imprese militari, vede i miti nazisti. Per poi iniziare a vedere con altri occhi le rovine di ciò che è restato, le ‘perdite’ auto-inflittesi da una Germania che si è privata di parte dei suoi cittadini e, conseguentemente, di umanità. E con nuovi occhi evoca gli scomparsi e il vuoto da essi lasciato, attraverso numeri, stelle e un cielo cinereo. Per motivi di tempo, posso 28 The Theory of Social Sculpture, presso la Cooper Union (USA). Robins 1989, p. 74. Citazione di Beuys tratta da un altro articolo di Robins: The Double Message of Joseph Beuys, in “New York Arts Journal”, novembre 1980. 30 vedi Saltzman 1999, pp. 13-16 e nota 22, pp. 129-130. 29 10 qui trattare solo una parte del lavoro di questo artista, la parte che considero più significativa. L’incontro con la profonda parola poetica di Paul Celan dà l’avvio al ciclo più coinvolgente di Kiefer, quello che ruota intorno alle figure di Margarete e Shulamith, le due figure della Todesfuge di Celan: […] Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte noi ti beviamo al meriggio la morte è un Mastro di Germania noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo la morte è un Mastro di Germania il suo occhio è azzurro egli ti coglie col piombo la sua mira è precisa nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell’aria egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Mastro di Germania i tuoi capelli d’oro Margarete i tuoi capelli di cenere Sulamith Le due figure femminili incarnano le icone di due mondi: due mondi lontani, divenuti poi limitrofi, fino alla scelta di un allontanamento cruento. La bionda Margarete, eroina di Goethe, rappresenta la Germania, la sua terra e le sue rigogliose messi di grano, la fertilità e il calore. Ma anche quei miti di ‘Blut und Boden’31 cari al Nazionalsocialismo. Sulamith32, invece, è la figura femminile del Cantico dei Cantici, l’amata di Salomone, con riccioli neri che le ornano il viso. Ma ora le chiome brune si sono fatte cenere: da icona d’amore Shulamith diviene emblema dell’ebraismo che ora giace nell’aria. Kiefer sviluppa questo tema ossessivamente, esprimendo i due personaggi femminili per metonimia: non sono mai presenti a figura intera (a parte un caso di Sulamith) ma nei loro capelli e in ciò che viene 31 ‘Sangue e terra’. La traslitterazione corretta dall’ebraico sarebbe ‘Shulamith’, nome femminile derivato dalla medesima radice ‘shalam’ da cui deriva anche ‘Shlomo’ (Salomone) e il termine ‘shalom’ (pace), per questo motivo ‘Shulamit’ viene tradotta a volte come ‘pacifica’. 32 11 ad essi associato. Margarete è paglia su tela, spiga di grano ad acquerello, Shulamith è ciocche brune, vernice nera, superficie bruciata. Le prime due opere raffiguranti le due icone femminili sono del 19801981: Dein goldenes Haar, Margarete33 è una delicata raffigurazione ad acquerello di spighe di grano che si stagliano sul cielo terso, mentre Dein aschenes Haar, Sulamit34 mostra una donna nuda, avvolta solo dai lunghissimi capelli neri (iperbolici, le giungono ai piedi) con il viso coperto dalle mani e dalle scure ciocche scomposte, alle sue spalle un tetro paesaggio di grattacieli. Il grano di Margarete riporta alla propaganda nazista che lodava la produzione agricola, mentre i grattacieli di Shulamith ricordano che la Shoah è un prodotto della modernità, della punta avanzata della civiltà occidentale. Nel 1981 Margarete viene riproposta come paglia applicata su tela dipinta di azzurro: con la stessa modalità vengono evocati da Kiefer altri temi germanici come Norimberga, Die Meistersinger (riferimento all’opera di Wagner), la Notte di San Giovanni (teatro della sfida dei maestri Cantori), temi fra loro intrecciati. Norimberga, Nürnberg, evoca con il suo nome momenti differenti: i grandi raduni sullo Zeppelinfeld, le feste del Parteitag e l’esecuzione dei Maestri Cantori diretta da Furtwängler, la ‘cattedrale di luce’ di Speer, imponente ed effimera scenografia per una manifestazione del partito, le folle in festa de Il trionfo della volontà35di Leni Riefenstahl, ma anche le leggi antisemite del 1935 e i processi del dopoguerra. Kiefer fonde i temi: gli steli di paglia si stagliano al cielo come i fasci di luce, in una Norimberga che riassume in sé l’ascesa e la condanna del Nazismo. Ma Norimberga non è Auschwitz. Questa tela del 1982 sarebbe un semplice paesaggio campestre se in alto a destra non vi fosse il nome “Nürnberg”: basta questo ad evocare l’orrore36. È solo una libera associazione che porta l’osservatore a pensare alla Shoah: Norimberga è stata teatro di tanti avvenimenti di matrice differente, fra i quali gli atti 33 ‘I tuoi capelli d’oro, Margarete’, 1980. ‘I tuoi capelli di cenere, Sulamit’, 1981. 35 Triumph des Willens, film realizzato nel 1935 per esaltare il Nazismo. 36 Vedi Anselm Kiefer 1984, p. 108. 34 12 antisemiti non sono quelli maggiormente ricordati. In due parole, Norimberga non è Auschwitz. Ma evocare chiaramente ‘Auschwitz’ non è facile. Ora, negli anni ’80, diversamente dai tempi di Beuys, le immagini dei campi sono note, forse troppo per poter essere utilizzate da artisti. Kiefer preferisce così evocare non il ‘luogo’ della Catastrofe, ma il ‘soggetto’ che l’ha subita. Dopo Dein aschenes Haar, Sulamit del 1981, Shulamith perde corporeità e diviene ombra scura, spesso alle spalle della paglia di Margarete, come in Dein goldenes Haar, Margarete, tela dello stesso anno. Rappresentando una delle due figure Kiefer, senza nominarla, implica anche l’altra37. Margarete e Shulamith si presentano così come “parti inseparabili dello stesso essere”38: con la distruzione di Shulamith è scomparsa anche l’umanità della Germania. E infatti la paglia bruciata diviene cenere. Scomparso il corpo, Shulamith resta in brune ciocche di capelli (come quelle che i nazisti accumulavano nei ‘Kanada’ dei campi per riutilizzarle come materie prime nell’industria tessile) come in un libro d’artista, Sulamit, realizzato nel 1990: sulla copertina di piombo solo una ciocca di capelli neri e il nome vergato a mano. Shulamith ‘giace nell’aria’, diviene ‘assenza’, spazio vuoto di architetture naziste riprese da Kiefer e sovvertite: il mausoleo per i soldati tedeschi39 di Kreis diviene memoriale per gli ebrei assenti. Unico segno di Shulamith è il suo nome scarabocchiato in alto a destra: prevale (e opprime) lo spazio vuoto, contenuto dalle volte in mattoni anneriti, quasi che questa non fosse più la cripta eretta in memoria dei soldati caduti, ma fosse piuttosto una ‘fornace’, forse un crematorio. Sul fondo, 37 Mark Rosenthal, uno dei maggiori critici di Kiefer, scrive: “Da un lato la paglia può essere aggiunta alle raffigurazioni di Sulamith, dall’altro linee curve o rette dipinte in nero possono fare eco alla forma dei capelli di Margarete. Nella visione di Kiefer la Germania ha mutilato se stessa e la propria civiltà distruggendo la propria parte ebraica e così, alludendo frequentemente a entrambe le figure, tenta di rendere la Germania di nuovo intera. La sua azione è certamente provocatoria, per alcuni contrasterebbe con il fatto che fino a poco tempo fa in Germania vigeva un tabù virtuale contro ogni menzione della passata esistenza dei propri ebrei”, Rosenthal 1987, p. 96. 38 Hauschildt, p. 4. Donald Kuspit sottolinea che già nel testo poetico le due donne sono inseparabili (vedi Rosenthal 1987, p. 96, riferimento a Kuspit 1984, pp. 84-86. 39 Wilhelm Kreis aveva progettato per la nuova Berlino nazista la Soldatenhalle, “un enorme blocco […] sulla cui destinazione Hitler non si era mai pronunciato chiaramente, ma credo che lo concepisse come una specie di connubio fra il sacrario e il museo militare. Infatti, dopo l’armistizio con la Francia, decretò che vi fosse esposta, come primo cimelio, la carrozza ristorante in cui nel 1918 era stata firmata la resa della Germania e nel 1940 quella della Francia. Era anche prevista una cripta per accogliere i più illustri feldmarescialli tedeschi del passato, del presente e del futuro” (da Speer 1971, p. 164). 13 laddove nel progetto di Kreis doveva esserci la tomba, il fuoco: sette fiammelle ardono su una specie di altare, sette come una menorah. L’architettura nazista viene ‘resuscitata’ da Kiefer anche in altre opere: in tutte gli edifici appaiono vuoti, abbandonati, solitari, come immense ‘rovine romantiche’ stagliate su un cielo notturno. Come ultimi residui di una grande civiltà. Qui sta l’ambivalenza di questo artista, la cui opera è stata spesso fraintesa a causa del recupero di temi fortemente tedeschi che erano stati utilizzati dalla mitologia nazista. Ma Kiefer cerca di recuperare l’identità tedesca senza omettere nulla, né i deliri di onnipotenza, né gli orrori. Le ‘architetture da megalomani’, come le definisce lo stesso Speer nella sua autobiografia, incarnano un preciso momento della ‘germanità’, un momento che ha rappresentato insieme la maggiore potenza e la maggiore aberrazione. Un momento che deve essere attraversato da un tedesco di oggi alla ricerca della propria identità. Proprio per elaborare il senso di quella nostalgia, per calarlo nella realtà dei fatti, per poter leggere insieme i due lati della medaglia: la potenza e i suoi simboli tangibili accanto alla pianificazione di un massacro e gli strumenti usati per attuarlo. La megalomania di Speer e la megalomania di Himmler. Le tele di Kiefer raffiguranti edifici progettati da Troost, Kreis o Speer, ricordano le parole di quest’ultimo sulla ‘teoria della rovine’40, ma il “valore che un edificio può avere, visto come rovina”41 passa anche attraverso la conoscenza di ‘cosa’ sia stato quel potere che ha prodotto quelle costruzioni. La ‘nostalgia’ di Kiefer, in ogni caso, non viene rivolta ai momenti di splendore di quegli edifici che, anzi, vengono ricordati nel loro abbandono. Con Innenraum42 entriamo nella sala dei mosaici della nuova Cancelleria del Reich, progettata da Albert Speer. La Cancelleria fu distrutta durante i bombardamenti di Berlino del 1945, ma ne sono state conservate foto e progetti. Kiefer, però, sceglie di raffigurare la sala come appare in una immagine del 1945: la vetrata del soffitto 40 Speer propose ad Hitler di utilizzare materiali come granito e mattoni per gli edifici del Reich, in quanto, anche quando fossero divenuti rovine, avrebbero mostrato ai posteri magnificenza e potere. Per soddisfare le esigenze di materiali da costruzione molti campi di concentramento sorsero accanto a cave di granito (Mauthausen) o zone ricche di argilla. Per la “Theorie vom Ruinenwert” Vedi Speer 1971, pp. 66-67. 41 Speer 1971, p. 67. 42 ‘Spazio interno’. 14 infranta, le pareti annerite. Al centro l’artista inserisce una sorta di altare dove ardono fiamme. Il fuoco e la corte della Cancelleria ritornano in Athanor, grande tela del 1983-84. Sulla superficie dipinta con olio, acrilico, emulsione e gommalacca, viene applicata della paglia, poi alcune parti vengono ‘segnate’ dal fuoco. Una fornace alchemica dove il Terzo Reich ha pensato di purificare il proprio paese dai corpi estranei, ora forse una fornace alchemica dove elaborare il lutto per una perdita che ha segnato anche la perdita di umanità di chi l’ha generata. Durante gli anni ’80 Kiefer inizia a fare riferimenti, sempre più decisivi per il significato delle opere, all’alchimia e alla qabbalah. Si può dire che quest’ultima sia la componente più ‘affascinante’ della cultura ebraica, anche se spesso se ne ha un’idea poco chiara. Qabbalah significa ‘ricezione’: con questo termine viene indicata la tradizione mistica dell’ebraismo, e in particolare il movimento di pensiero esoterico che nacque in Europa durante il XII secolo”43. Le visioni celesti presenti nella narrazione biblica sono testi fondamentali per la successiva articolazione del pensiero qabbalistico. Una delle dottrine più antiche si fonda sul primo capitolo del libro di Ezechiele, in cui appare al profeta il carro celeste che porta il trono divino. La mistica della Merkavah (in ebraico “carro”), o mistica del trono, è la più antica, fondata sulla visione di Ezechiele44: Il trono di Dio è “il mondo luminoso della divinità, con le sue potestà, i suoi eoni e denominazioni”45: per giungervi, l’anima dell’adepto deve intraprendere un viaggio, come viene descritto nella letteratura degli Hekaloth46, non attraverso i sette cieli, ma attraverso i sette palazzi situati nel cielo più alto, a loro volta suddivisi in stanze47. 43 Vedi Busi 1998, p. 3. Vedi Scholem 1965, p. 66. 45 Scholem 1965, p. 68. 46 In ebraico ‘palazzi, templi’. Vedi il libro d’artista Sefer Hechalot in Eccher 1999. 47 Vedi Scholem 1965, pp. 66-75. “[…] Il mondo superno era raffigurato come una struttura architettonica materiata di luce. Dal misticismo tardoantico degli Hekaloth, i cabbalisti ereditarono una complessa angelologia e la raffigurazione di un’ascesa dell’anima articolata in tappe conoscitive sempre più elevate”, in Busi 1998, pp. 9-10. 44 15 Kiefer riprende alcuni elementi di questa corrente in alcune opere degli anni ’90, come Die Himmelspaläste48 e Merkawa49. Entrambi sono opere in forma di libro, le cui pagine sono date da fotografie, sulla cui superficie vengono poi applicati materiali differenti. E in entrambi il soggetto è un’ampia stanza abbandonata dal pavimento di mattoni sconnessi, scandita da pilastri. Il soffitto appare basso. Sul pavimento dissestato si aprono fori. In Die Himmelspaläste man mano che si scorrono le pagine, fra i pilastri appaiono evanescenti corpi femminili, una di queste figure porta le mani alla testa, sembra gridare ma dalla sua bocca esce un alito gassoso. E simili presenze gassose, in altre pagine, si levano dai fori nel pavimento, fra un pilastro e l’altro, come strani geiser domestici. Merkawa si apre con la fotografia di una finestra dai vetri rotti su un muro di mattoni. Poi, con gli occhi, si scende una scala e compare lo stesso pavimento di prima, con i fori e gli aliti gassosi, numerati da 1 a 7. Vergate a mano le parole ‘Hechaloth’ e ‘die Himmelspaläste’. Già la superficie delle pagine di Die Himmelspaläste era stata cosparsa con cenere: in Merkawa questa compare assieme a vestitini in stoffa bianca. Le ultime pagine sono un cielo notturno, stellato. Cenere e abiti bianchi caratterizzano anche opere come Lilit e Lilith’s Töchter50, libri d’artista, tele, fotografie che Kiefer realizza dal 1991 in poi. La figura di Lilith51 è ambigua, duplice: prima donna creata da Dio ‘come’ Adam (dalla terra e dal soffio vitale del Signore) e non da una sua costola, poi ribellatasi al Creatore e all’Uomo52, diviene una ‘demonessa’ per il Talmud. In altre religioni orientali, come quella sumera, viene considerata una divinità. Donna affascinante e pericolosa, questa è l’immagine che viene associata a Lilith, come accade nel racconto di Primo Levi53. 48 ‘I palazzi del cielo’, libro di immagini fotografiche con cenere e acrilico, 1990. Sulla copertina è presente anche il termine ‘Merkaba’. 49 Letteralmente ‘carro’ in ebraico (da una radice che significa ‘cavalcare’); libro di immagini fotografiche, cenere, acrilico e stoffa, 1996. 50 ‘Le figlie di Lilith’. 51 Per la figura di Lilith vedi Ginzberg 1995, pp. 75-76. 52 Per questo motivo è stata scelta come icona dal mondo femminista. 53 Vedi P. Levi, Lilit e altri racconti, Einaudi, Torino 1981. 16 Alla donna-demone Kiefer dedica una mostra nel 1991, poi continua a rappresentarla: Lilith è un vestito bianco sporco di cenere, è una ciocca di capelli neri. Come per Margarete e Shulamith, la figura femminile viene evocata attraverso qualcosa che la caratterizza. L’abito bianco rimanda da un lato alla veste nuziale, a Lilith sposa promessa all’Adam, all’Uomo, dall’altro alla purezza della vittima sacrificale. I capelli neri sono, secondo la tradizione talmudica, sede del potere demoniaco (e seducente) di Lilith, ma, all’interno dell’opera di Kiefer, richiamano la figura di Shulamith. Sullo sfondo di molte rappresentazioni di Lilith appare una città, anzi, una metropoli fitta di palazzi, di grigi grattacieli. Poi, sulla superficie dell’immagine fotografica Kiefer applica cenere. Il titolo, che sia Lilit oppure Lilith’s Töchter, viene scritto sopra questo sfondo, accanto agli abiti. Non si comprende se Lilith e le sue figlie siano state la causa della distruzione della città o se sia stata la città ad annientare loro. Da un lato abbiamo un demonessa biblica, dall’altro la società avanzata, la modernità che ha offerto le sue tecniche allo sterminio. Chi è il demone? La mostra tenutasi nel 1999 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna presentava una rassegna delle ultime opere dell’artista: immense tele dalla superficie bruciata o cosparsa di sabbia, opere in piombo alchemico e storico (come le lastre di piombo recuperate dal rivestimento del tetto della cattedrale di Colonia), libri cosparsi con semi di girasole. Sulle tele, incise sui materiali, le parole scelte dallo stesso Kiefer: parole, spesso versi, che completano il significato dell’immagine. E tracce di significato vengono fornite da indicazioni come der Sand aus den Urnen54, 54 ‘La sabbia delle urne’: titolo della prima raccolta di poesie di Paul Celan, confluito poi nella più ampia Mohn und Gedächtnis (papavero e memoria). ‘Mohn und Gedächtnis’ è anche il titolo di una mostra tenuta da Kiefer alla Galleria Foksal di Varsavia nel 1989. 17 titolo di un quadro “für Ingeborg Bachmann”55, o da citazioni di versi tratti dall’opera della Bachmann stessa e di Paul Celan56. Celan vive su di sé la Catastrofe ebraica, mentre Bachmann sceglie, a posteriori, di “schierarsi al fianco delle vittime del nazismo”57, lei che proveniva da una famiglia austriaca filonazista, senza presentarsi come vittima lei stessa. Senza voler forzare l’interpretazione, evitando di vedere Kiefer solo come un ‘artista della Shoah’, appare chiaro come egli abbia scelto, come tedesco del ‘dopo’, come ‘Nachgeborene’, di confrontarsi con il tema Shoah. Con la realtà delle decisioni prese dalla generazione dei padri e con il peso delle omissioni del dopo. Come scrive Christa Wolf: Evitare determinati ricordi. Non parlarne. Non fare affiorare alla coscienza parole, serie di parole, intere associazioni di idee che possano sbloccarli. Non porre certe questioni a gente della tua età. Perché è intollerabile dover pensare insieme alla parola ‘Auschwitz’ la piccola parola ‘io’: ‘io’ al condizionale passato: io avrei. Io avrei potuto. Io avrei fatto. Avrei obbedito.58 Nel suo cammino attraverso il Nazismo, Kiefer si scontra con la Shoah e con le conseguenti perdite: la perdita della parte ‘razzialmente impura’ dei cittadini tedeschi, la perdita di umanità da parte di questi ultimi, la perdita di identità per la Germania del dopo, la perdita di fiducia nel progresso. Perdite che generano ricerche: di identità, miti, spiritualità e cultura, cercando anche di recuperare la cultura ebraica, soprattutto (per scelta personale) in quella forma particolare che è la qabbalah. Non pone a se stesso, quindi, la questione di che cosa il suo ‘io’ avrebbe fatto di fronte ad Auschwitz, come nei primi lavori (qui non esaminati) non si era rappresentato come un resistente al Nazismo, ma come un soldato comune. Piuttosto evoca gli scomparsi. 55 ‘Per Ingeborg Bachmann’, come Kiefer scrive in alto sul margine destro della tela. Riferimenti poetici si hanno ad esempio in due grandi tele a tecnica mista: Gewitter der Rosen (‘tempesta delle rose’) riprende Nella tempesta delle rose, in Bachmann 1978, p. 57, e Wach in Ziguenerlager und wach im Wüstenzelt, es rinnt uns der Sand aus den Haaren è esattamente un verso tratto dalla poesia Il gioco è finito, in Bachmann 1994, p. 7, “Sveglio nel campo di zingari e sveglio nella tenda del deserto, scorre la sabbia dai nostri capelli”. Nella mostra in questione non si è segnalato né nei pannelli, né in catalogo, la presenza di tali riferimenti poetici, che sono espliciti per l’artista. 57 Beherendt, Jacob 2000. 58 Wolf 1994, p. 286. 56 18 Di fronte ad un’opera come Sternenfall, ‘stelle cadenti’, accade qualcosa di inaspettato, forse di indesiderato: molti osservatori, benché consapevoli della consuetudine astronomica di contrassegnare le stelle con numeri - di ‘dare un nome’ alle stelle attraverso una sigla numerica ‘sentono’ in questi numeri, in queste matricole stellari poste nel cosmo oppure cadute a terra, la presenza di altro. Per molti quei numeri portano ad Auschwitz, ai numeri tatuati sulle braccia. È una sensazione più che una consapevolezza, il rimando non è dichiarato dall’artista che, ‘innocentemente’, si limita a rappresentare stelle. Ma ‘stelle’ erano anche quelle portate sul braccio dagli ebrei privati dei loro diritti, vessati, perseguitati e confinati nei ghetti. Al termine del viaggio che li portava nei campi di morte le stelle venivano tramutate in numeri, numeri su carta nella maggior parte dei campi, numeri sulla pelle, surrogati dei nomi, solo ad Auschwitz. Stelle nel cielo, nella tomba scavata nell’aria di celaniana memoria. Stelle cadute, dove la caduta dà sempre una sensazione di morte. Forse è un’interpretazione forzata, ma numeri e stelle non sono più ‘innocenti’ dopo la Shoah. E quando questa mia pelle sarà dilaniata contemplerò Dio senza la mia carne. Il libro di Giobbe Oh, i camini sulle ingegnose dimore della morte, quando il corpo di Israele si disperse in fumo per l’aria – e lo accolse, spazzacamino, una stella che divenne nera o era forse un raggio di sole? Oh, i camini! Vie di libertà per la polvere di Job e Geremia – chi vi ha inventato e, pietra su pietra, ha costruito la via per i fuggiaschi di fumo? 19 Oh, le dimore della morte, invitanti per la padrona di casa altrimenti ospite – Oh, dita che posate la soglia come un coltello tra la vita e la morte – Oh, camini, oh, dita, e il corpo di Israele in fumo per l’aria!59 59 Sachs 1966, p. 17. 20