La terra, il suolo nella Bibbia - Chiesa Evangelica Metodista di Parma
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La terra, il suolo nella Bibbia - Chiesa Evangelica Metodista di Parma
La terra, il suolo nelle pagine della Bibbia “La terra è sacra. (…) Noi non abbiamo creato la terra, ma ne siamo custodi. Anche se noi fossimo non credenti, la sacra mentalità della terra non cesserebbe per questo di accampare diritti davanti a noi, né di parlarci, né di spingerci oltre una visione positivistica del mondo. (…) noi abbiamo bisogno d’incarnare un amore appassionato per la creazione; e per tenere in vita questo amore, noi abbiamo bisogno di riflettere teologicamente sulla creazione.” Queste che avete ascoltate non sono parole mie, anche se io le sottoscrivo pienamente, ma della teologa Dorothee Solle che conclude la prefazione del suo libro “Per lavorare ed amare” scrivendo: “Credere nella creazione è una possibilità di condividere la terra.” Questa breve citazione della teologa protestante che molto si è interrogata sulla relazione degli esseri umani con il resto della creazione divina, evidenzia un elemento a mio parere significativo per la riflessione che oggi vogliamo insieme condurre, ossia che l’amore per la terra e la creazione nel suo complesso a partire dalla consapevolezza che essa è opera dell’amore divino, è strettamente connesso con relazioni solidali tra gli esseri umani e con una giusta distribuzione delle risorse terrestri. La mia non è un’affermazione che scaturisce da un moto del cuore. È invece saldamente ancorata a quanto nel testo biblico fa riferimento a quelle tematiche che oggi definiremmo ecologiche e di giustizia sociale, ma che nella Bibbia sono un elemento centrale della confessione di fede ebraica prima e cristiana poi. Detto ciò occorre partire appunto dal testo biblico per giungere alle chiare affermazioni di Dorothee Solle. Tra i molteplici brani che nella Bibbia si occupano della terra nella sua globalità o di quella affidata al popolo d’Israele ho scelto di soffermarmi in particolare su alcuni di essi che, a parer mio, permettono di delineare come un filo rosso, un disegno complessivo dal quale emerge il legame tra Dio e l’umanità e il suo compito nel mondo. Quindi iniziamo dall’inizio: il primo dei due racconti di creazione, Genesi 1,1-2,3. Molto ci si è interrogati nei secoli sulla modalità con cui Dio ha operato nel creare ossia se ex nihilo, cioè dal nulla, o per separazione. Senza nulla togliere a queste speculazioni, e osservando che forse è il testo stesso a non sciogliere del tutto il quesito, quel che invece è certo è che Dio istituisce un legame particolare e misterioso con la sua creazione attraverso la Parola. È a partire dalla Parola di Dio che avviene la separazione di luce e tenebre, di cielo, terra e mare; è per mezzo della Parola divina che gli esseri viventi sono chiamati all’esistenza, quindi possiamo ben dire che la Parola di Dio è performativa, fa quel che dice. Ma la Parola divina va oltre e Dio nel constatare che ciò che ha creato è buono, pronuncia una parola di benedizione che riguarda gli esseri viventi, animali e uccelli al versetto 22, l’umanità al 27, chiamandoli alla fecondità per riempire lo spazio loro assegnato. La terra stessa diventa generatrice di benedizione nel permettere che la vita degli animali da essa sorti possa proseguire. Infine la benedizione del settimo giorno, sul quale torneremo in seguito, come compimento dell’opera divina e tempo di riposo. L’essere umano compare verso il termine del capitolo, creato a immagine di Dio eppure legato indissolubilmente alla terra dal quale è stato tratto. Mi sembra che due elementi testuali possano mettere in luce il duplice legame: quello con la terra, in ebraico “adamah”, si evidenzia nel nome stesso dell’uomo che al versetto 26 è da Dio chiamato “adam” ossia il terroso, quello con l’essere conforme alla somiglianza divina lo si trova nel secondo racconto di creazione in Genesi 2,19 quando Dio porta con sé l’uomo per fargli assegnare i nomi agli esseri viventi. Qui l’azione umana evoca quella divina della creazione e istaura un legame di responsabilità: come Dio è responsabile per la creazione che ha chiamato all’esistenza, così l’essere umano deve essere responsabile degli esseri viventi a cui ha dato un nome. Pertanto, la peculiarità della creazione umana è collegata ad uno scopo che è esplicitato da Dio stesso al versetto 28: “riempite la terra e rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sopra ogni animale che si muove sulla terra”. Purtroppo queste parole, soprattutto a partire dal Medioevo, hanno dato autorevolezza ad una visione teologica “antropocentrica” che al centro del suo interesse pone l’essere umano, per volere di Dio dominatore indiscusso della terra vista unicamente come luogo di risorse da sfruttare per il benessere di un’umanità, staccata e completamente differente dal resto della natura. A partire da questa prospettiva, i concetti biblici di redenzione e riconciliazione vennero a riguardare esclusivamente gli esseri umani e i rapporti tra di essi, escludendone il resto della Creazione. Nel tempo, la consapevolezza dei guasti provocati nell’ambiente, l’emergere di una maggiore cultura ecologica, nonché la consapevolezza di quanto le Scritture hanno influito sulla percezione e comprensione della realtà, hanno indotto i teologi ad interrogarsi a lungo sul senso dei verbi ebraici kabash, “soggiogare” e radah, “dominare”. Attualmente, l’esegesi più accreditata, ha evidenziato come il primo termine in realtà sia relativo alla presa di possesso di un territorio intendendo con ciò la possibilità di avere uno spazio abitabile per ogni essere umano. Il secondo verbo, “dominare”, è collegato all’antica funzione regale che non indicava becero sfruttamento o dominio sugli altri, ma invece responsabilità personale del re nei confronti dei suoi sudditi e del territorio per l’ottenimento del benessere e della prosperità. Come evidenzia Gerhard Lohfink: “il campo semantico del verbo comprende le accezioni di accompagnare, pascolare, condurre, guidare, reggere, comandare”1 dal che si evince che questa concezione regale era collegata all’idea del pastore che governa le sue pecore. Non è infatti un caso che il profeta Ezechiele per parlare dei cattivi sovrani d’Israele usi la metafora dei cattivi pastori che non si prendono cura del gregge affidato loro (Ez. 34,1-6). Se alla visione veterotestamentaria, aggiungiamo pure l’interpretazione cristiana della regalità come si è inverata in Cristo, chiamato non a caso il Buon Pastore e dove il dominio è in realtà servizio agli altri, capiremo qual è il reale significato delle parole di Dio in Genesi, capiremo che Dio nel farci a sua immagine e somiglianza ci ha abilitato ad essere suoi collaboratori nell’amare e salvaguardare la sua creazione come è espresso con forza nel secondo racconto della creazione: “Dio il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse (abad) e lo custodisse (shamar).” (Gen. 2,15) Ancora due verbi significativi: il primo, abad, ha connotazioni legate al servizio e al culto, il secondo, shamar, si applica all’azione di vigilanza della sentinella come pure all’osservanza fedele ai comandamenti divini. L’interpretazione ebraica ha poi collegato quest’ultimo verbo a Deut. 5,12-14 in cui è riferito al giorno di shabbat, istaurando così un rapporto tra il dono del riposo nel giorno sacro ad Adonai e la preservazione della terra, un rapporto reso ancor più chiaro dalle parole stesse di Dio a Mosè sul monte Sinai sia in merito all’anno sabbatico sia al giubileo: “Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non seminerete e non raccoglierete quello che i campi produrranno da sé, e non vendemmierete le vigne incolte” (Levitico 25,11), tanto più che, aggiunge il Signore, “le terre non si venderanno per sempre; perché la terra è mia e voi state da me come stranieri e ospiti” (Levitico 25,23). Ecco un altro elemento utile alla nostra riflessione: la terra non appartiene agli esseri umani, ma a Dio, come ribadisce il Salmo 24. Gli esseri umani la abitano come stranieri ed ospiti; quanto è in essa è donato loro dal Signore che però gliene chiede conto, anche fissando dei paletti chiari all’utilizzo della stessa. Lo shabbat della terra e il giubileo se ben compresi ci dicono però anche qualcosa che rimanda alle relazioni umane, “… un asserire 1 G. Lohfink, Crescita. Il codice sacerdotale e il mito della crescita, in Le nostre grandi parole, Paideia, Brescia 1986, pag. 190 che la vita non dipende dalla febbrile attività che esercitiamo per provvedere a noi stessi, che può esserci una pausa, in cui la vita - spiega il teologo Walter Brueggemann – semplicemente ci viene data, come puro dono.”2 Ebbene nel contesto scritturale del giubileo Levitico si delinea sempre più chiaramente un altro elemento di riflessione: la non appartenenza della terra agli uomini è legata alla non appartenenza, e quindi schiavitù, di nessun essere umano ad un altro in Israele. (leggere Lev. 25,39-42). L’essere umano non può essere schiavo di un altro essere umano e deve poter godere dei mezzi appropriati per vivere con dignità, tanto che se li perde – dice ancora il Signore in Levitico – sarà dovere per gli altri di sostenerlo sia che si tratti di un ebreo, oppure di uno straniero o solo di un ospite (Lev. 25,35) perché: “Io sono il Signore, vostro Dio, vi ho fatto uscire dal paese d’Egitto per darvi il paese di Canaan, per essere il vostro Dio” (Lev. 25,38) Ecco il punto che mi pare cruciale in questa analisi e dove tutto si collega: Dio si profila come un Dio liberatore, come un Dio che non sopporta schiavitù e ingiustizia, Egli vuole che il suo popolo se ne ricordi e si comporti di conseguenza nel governare il territorio che gli ha donato, la Terra Promessa, così che possa sempre essere il luogo dove scorrono latte e miele. Leggere: Deut. 24,19-22. Qui, mi sembra, che la relazione divina con gli esseri umani e la terra creata, e quella conseguente che gli esseri umani istaurano tra loro e con la terra donata prenda sempre più corpo e chiarezza a partire dall’evento Esodo, ossia dall’azione di liberazione divina, che mette in moto la storia umana come storia di libertà. È “il dato radicale” della storia ebraica ed umana, come spiega Severino Croatto nel suo libro sull’Esodo, tanto da scrivere che persino la Genesi non è altro che “un’interpretazione dell’Esodo espressa nel linguaggio delle origini, una interpretazione del ‘progetto’ ontologico elaborato per gli esseri umani”.3 Appare allora chiaro che parlare di progetto ontologico in tale contesto significa accostarsi al significato essenziale dell’esistenza umana a partire dal fatto che siamo stati creati per la libertà. Questa consapevolezza teologica è diventata nel corso degli anni patrimonio di un numero sempre crescente di chiese e di credenti fino ad aver deciso di dedicare alle tematiche della pace, giustizia sociale ed ambiente la sesta Assemblea del Consiglio Ecumenico delle Chiese, organismo ecumenico mondiale fondato nel 1948 di cui fanno parte oltre 300 chiese protestanti, anglicane e ortodosse. L’Assemblea dal titolo “Gesù Cristo, luce del mondo”, si svolse a Vancouver in Canada nel 1983 e fu l’occasione per invitare tutte le chiese ad avviare un “processo conciliare di impegno per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato”. A livello europeo, l’impegno ecumenico si è man mano sviluppato con la costituzione di ECEN (European Christian Environmental Network), la Rete ambientale cristiana europea fondata nel 1998, subito dopo la seconda Assemblea Ecumenica Europea di Graz; con l’istituzione del Tempo del Creato (primi di settembre 4 ottobre) che vuole favorire un atteggiamento responsabile ed empatico verso la creazione. A livello mondiale, sono state soprattutto le assemblee ecumeniche in paesi del Sud del mondo (Bangonk, Isole Fij, India ecc) ad evidenziare la stretta interconnessione tra le questioni ecologiche e la giustizia sociale fino a parlare chiaramente di una eco-giustizia. Pensiamo alla distribuzione delle ricchezze e delle risorse del pianeta per cui vi è un 20 % della popolazione mondiale che detiene l’83% delle risorse ed è responsabile per l’86% dei consumi globali di beni e servizi e della maggiore produzione di gas serra, mentre vi è 2 W. Brueggemann, Genesi, Claudiana, Torino 2002, pag. 55 3 S. Croatto, Exodus: A Hermeneutics of Freedom, Orbis Book, Maryknoll, N.Y. 1981, pag. 31 un 60 % di paesi che ha solo il 6% delle risorse. Anche a causa dei cambiamenti climatici, in Africa il 73% delle terre coltivate sono a rischio desertificazione, mentre diminuisce la quota di cibo pro-capite in questo continente, pertanto è prevedibile che da qui al 2020 vi siano oltre 60 milioni di persone che potrebbero migrare da queste aree verso il Nord del mondo. In Italia dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata del nostro paese è aumentata del 500% portando alla distruzione di territori boschivi ed agricoli e in particolare dal 1990 al 2005 si sono consumati 2 milioni di terreno agricolo fertile, pari circa alla superficie del Veneto per costruire capannoni, strade e case. Procedendo con questo ritmo che eredità pensiamo di lasciare alle generazioni future? Oltre l’aumento del clima che porta conseguenze disastrose, vi è anche il consumo eccessivo di risorse limitate che dovrebbe preoccuparci, in primis l’acqua che non a caso sta diventando un bene prezioso tanto da essere privatizzata con effetti negativi non solo per le nostre tasche visto l’aumento delle bollette, ma anche perché finirà coll’essere percepito come bene di consumo invece che un diritto, disponibile solo per quei paesi e popolazioni che pagheranno per averlo. Molto altro si potrebbe dire, ma credo che un po’ tutti siamo consapevoli di quel che sta avvenendo e che all’Aja nel 2000 alla Conferenza delle Parti al Congresso ONU sul cambiamento climatico, il patriarca ecumenico Bartolomeo I non si fece scrupolo di chiamare “un peccato che viola la buona volontà di Dio, il fedele amore di Dio per la vita, per gli esseri umani e per l’intera creazione”. Proseguendo nella riflessione ed analisi dei testi biblici e muovendoci dall’Antico al Nuovo Testamento un testo dell’apostolo Paolo mi pare possa offrire una chiave di lettura di come l’azione liberatrice e redentiva di Dio in Cristo Gesù avvolga e coinvolga la creazione tutta e la sospinga verso quei “nuovi cieli e nuova terra” che nel libro di Apocalisse marcano fortemente il compimento, l’avvento del Regno di Dio. Sto parlando del capitolo 8 della lettera rivolta alla comunità di credenti in Roma, una lettera che secondo l’esegeta e teologo Bornkamm è una sorta di bilancio, di testamento spirituale pur non essendo certo l’ultima in ordine di tempo. In questo capitolo e in particolare nella pericope da 14 a 30 Paolo non utilizza il termine terra (ghe) ma parla della creazione (ktisis) nel suo complesso e la inserisce in questo movimento di salvezza e liberazione che partendo dal passato della resurrezione di Cristo e passando per le tribolazioni del presente, porta l’esistenza cristiana verso il compimento, verso: “la gloriosa liberazione dei figli di Dio”. Nel frattempo, però, le difficoltà sofferenze dell’oggi non sono dall’apostolo misconosciute e bypassate: egli ne ha perfetta coscienza, ma ritiene pure che esse non siano il punto di arrivo dell’esistere. “ Infatti, io ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria che dev’essere manifestata a nostro riguardo” (Rm. 8,18) ecco come si esprime l’apostolo sottolineando che vi è sproporzione tra le sofferenze attuali e la gloria futura: essa sarà maggiore delle prime e in prospettiva permetterà alla speranza dell’oggi di non sfiorire, ma invece di trarne forza e motivazione. Ma non sono solo i credenti che vengono coinvolti in questo movimento dalla sofferenza e schiavitù del presente verso la gloria e la libertà futura: tutto il creato ne sarà coinvolto. Quel creato che ora geme ed è in attesa ha parte nell’opera di redenzione divina che si concretizza in modo anticipatorio nel disvelamento dei figli di Dio. Certo oggi l’affermazione paolina può apparire quasi ovvia e assodata. Perché infatti il creato intero non dovrebbe essere parte di un tale processo redentivo e di glorificazione? In fin de’ conti l’essere umano non è parte integrante della meravigliosa creazione di Dio? Attualmente con la nostra sensibilità moderna, con una cultura ecologica sempre più diffusa le sue parole appaiono quasi scontate, ovvie. In realtà per lungo tempo la cultura cristiana e occidentale, ha ritenuto che i processi di liberazione e salvezza fossero limitati alla sola umanità e in particolare a quella solo credente, questo perché si vedeva l’umanità come completamente sganciata da una natura che, a partire dal dettato biblico, appare non più divinizzata. Il battista nordamericano, Harvey Cox nel suo libro del 1965, La città secolare, esprimerà in modo chiaro un pensiero ricorrente nella teologia di quei decenni scrivendo che se: “né l’uomo, né Dio sono determinati dal rapporto con la natura (…), ciò non solo li rende entrambi liberi per la storia, ma rende la natura stessa disponibile per l’uso dell’uomo.”4 Occorreranno decenni perché una simile visione teologica venga contestata fino ad arrivare alle eco teologie che hanno sviluppato un movimento di pensiero cristiano trasversale i cui frutti si possono toccare anche nelle recenti affermazione (2001) della Charta Oecumenica in cui cattolici, ortodossi e protestanti si impegnano a realizzare “condizioni sostenibili di vita per l’intero creato”, a “sviluppare … uno stile di vita nel quale, in contrapposizione al dominio della logica economica e alla costrizione al consumo, accordiamo valore ad una qualità di vita responsabile e sostenibile; a sostenere le organizzazioni ambientali di Chiese e le reti ecumeniche che si assumono una responsabilità per la salvaguardia della creazione”. Tornando al nostro brano, l’apostolo Paolo descrive plasticamente la creazione come una donna che ha le doglie del parto, cioè prima che nasca qualcosa di meraviglioso? La terra, afferma l’apostolo, “… aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio,(…) per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio” (Rm. 8,19 e 21) Un attesa che guarda solo ad un futuro lontano, in una vita oltre la vita mentre qui la creazione continua a gemere? Certo non è questo il pensiero paolino e nemmeno può esserlo una visione cristiana che voglia essere fedele al dettato evangelico! No l’esperienza cristiana si muove nel mezzo della tensione tra il già della resurrezione di Cristo e il non ancora del compimento finale. Essa non vuole cedere ad ogni tentativo entusiastico e carismatico d’intendere il dono dello Spirito come liberazione dei drammi della storia e di fuga in avanti, ma invece insiste che la salvezza è insieme evento e promessa. Anzi è proprio la contraddizione fra l’annuncio della salvezza già in atto grazie all’appartenenza a Cristo e nell’oggi l’invito a pazientare sotto la guida dello Spirito in attesa del ritorno del Signore che si genera una tensione che per l’apostolo altro non è che speranza. Ed è grazie a questa speranza che la fede può durevolmente opporsi sia alla tentazione di un’attesa rassegnata e inattiva, sia alla tentazione di “affrettare” l’avvento del nuovo mondo di Dio. È alla luce di questa speranza che l’esperienza cristiana correttamente vissuta può slanciarsi verso traguardi non ancora presenti, ma figurabili e per cui operare in senso liberatorio e riconciliatore. “ L’etica aggressiva che contraddistingue il mondo moderno –afferma il teologo Jurgen Moltmann, nel suo scritto La giustizia crea futuro – rispecchia la mentalità di uomini irriconciliati e i loro sogni nichilistici d’onnipotenza. Un’etica di riconciliazione, invece, riflette una vita che tutte le creature devono vivere”5 . In una comunione riconciliata con il creato, attuabile solo a partire dall’azione redentiva e creatrice di Dio in Gesù Cristo, gli esseri umani possono sperimentare la natura non più 4 H. Cox, La città secolare, Vallecchi, Firenze 1968, pag. 24 5 J. Moltmann, La giustizia crea futuro, 1990, pag. 97 come oggetto e contro parte, bensì come un continuum: essi stessi sono natura e la natura è in loro. "La riconciliazione con Dio viene sperimentata...mediante la fede in Cristo...Se non fosse riconciliata l'intera creazione, nemmeno Cristo sarebbe il Cristo di Dio e il fondamento di tutte le cose. Ma se la creazione è riconciliata, anche i cristiani dovranno porsi, di fronte alle altre creature, come si pongono rispetto ai propri simili: ogni creatura è un essere per il quale Cristo è morto al fine di introdurlo in un mondo riconciliato."6 Lo stesso si può dire della forza liberante dell’evangelo che diviene manifesta solo se questo poggia sulla resurrezione di Cristo e se viene indirizzato alla critica e alla trasformazione in prospettiva escatologia di questo mondo ingiusto e sprofondante nel nulla. Credo che questo possa e debba essere l’impegno di tutti i cristiani e di tutte le chiese per salvaguardare non solo il creato, ma il futuro stesso dell’umanità. Mirella Manocchio, Parma 23.09.2012 6 J. Moltmann, op. cit., pag. 46