Il personale nel non profit
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Il personale nel non profit
Federico Spazzoli e Francesco Liuzzi Il personale nel non profit © Copyright 2010 by Maggioli S.p.A. Maggioli Editore è un marchio di Maggioli S.p.A. Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001: 2000 47822 Santarcangelo di Romagna (RN) • Via del Carpino, 8 Tel. 0541/628111 • Fax 0541/622020 www.maggioli.it/servizioclienti e-mail: [email protected] Diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. Finito di stampare nel mese di aprile 2010 dalla Litografia Titanlito s.a. Dogana (Repubblica di San Marino) 5.La gestione delle risorse umane nelle organizzazioni non profit: sistemi o processi? Anna Biffi Premessa Fino alla metà degli anni Novanta la gestione delle risorse umane era una funzione non codificata nel settore non profit. Selezione, formazione, motivazione, valutazione, sistemi di ricompensa, sviluppo professionale, spontaneamente agiti, erano connaturati alla mission di ciascuna organizzazione. Solo dalla fine degli anni Novanta lo sviluppo del settore, da una parte, e il mutamento delle forme di reclutamento e di accesso degli operatori, dall’altra, hanno fatto emergere il bisogno di strutturare maggiormente i sistemi produttivi e di organizzare i lavoratori. Per rispondere a questa esigenza il settore non profit ha mutuato dall’“esterno”, in particolare dalla letteratura delle Human Relations (Mayo, 1933), for profit, orientamenti teorico-gestionali e soprattutto un potente apparato strumentale, che a molti dirigenti delle imprese sociali è sembrato facilmente importabile e “applicabile”. Questo trasferimento, che di per sé non è un limite, lo diventa se attuato in modo frammentario, senza interrogarsi su significato, impatto, costo degli strumenti introdotti, eludendo l’elaborazione di strategie specifiche di gestione delle risorse umane in ambito non profit. Le contraddizioni che emergono all’interno delle organizzazioni del privato sociale nei rapporti con le persone, spesso, sono procurate da queste omissioni. 1. Nodi tematici Proponiamo l’analisi di vicinanze e distanze, affinità e differenze nell’impostazione dei rapporti con le persone in ambito for profit e non profit, facen- 70 ANNA BIFFI do tesoro di alcuni concetti presenti in letteratura, riconosciuti fondamentali per entrambi: ▪ le forti implicazioni fra contesti di lavoro e comportamenti dei lavoratori; ▪ l’importanza delle relazioni nelle decisioni delle persone che lavorano; ▪ la centralità del fattore umano nei processi produttivi. I meccanismi di influenza fra contesto e comportamenti Per comprendere se la gestione delle risorse umane, nel comparto non profit, si connota come sistema o come processo, è utile non considerare scontati i contesti specifici e le loro implicazioni. L’eterogeneità dei contrapposti orientamenti metodologico-strumentali presenti in letteratura e l’estraneità all’ambito non profit di questi stessi modelli giustificano l’ingenuità di alcune domande. Cosa significa gestire le risorse umane nelle organizzazioni non profit? Chi gestisce chi? Perché? Con quali obiettivi? Con che livelli di potere e d’autorità? In che senso e in quale misura i lavoratori sono risorse? Qualche semplice articolazione smonta l’apparente banalità dei quesiti. Esistono peculiarità specifiche nella gestione delle risorse umane delle società non profit che proteggono o espongono i lavoratori più o meno di quelli delle imprese for profit? Il cosiddetto “contratto psicologico” (Solari, 2004), le motivazioni degli operatori e la presunta “equità intrinseca” del sistema sono in grado di fronteggiare le spinte del mercato, in una fase matura della storia di queste organizzazioni? Fin dalla costituzione dei valori fondativi, ma ancora di più, dopo la formulazione di un apparato legislativo che disciplina questo settore (l. n. 281/1991; l. n. 68/1991; d.lgs. 460/1997; l. n. 328/2000; l. n. 118/2005; d.lgs. 155/2006), le diverse tipologie d’Impresa sociale di comunità (ICS) sono caratterizzate da “ambivalenze” strutturali, economiche e giuridiche, che ne rappresentano la forza e la debolezza. Si pensi anche soltanto agli ossimori impresa-sociale o socio-lavoratore, per quanto riguarda la dimensione economica imprenditoriale. E, ancor di più, osservandone la dimensione sociale, spiccano le seguenti caratteristiche: ▪ essere promosse da un gruppo di persone; ▪ prevedere l’inclusione nei processi decisionali di lavoratori (base e vertici), utenti, gruppi interessati all’attività; 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT ▪ avere come obiettivo esplicito la produzione di beni o servizi a valenza comunitaria; ▪ non fondare governo e sviluppo sulla proprietà del capitale ma sulla partecipazione fattiva dei lavoratori; ▪ prevedere una distribuzione limitata e il reinvestimento degli utili. L’interdipendenza, le responsabilità, i rapporti di potere fra chi mette a disposizione mezzi, risorse economiche, strumenti di produzione e chi mette a disposizione tempo, competenze, capacità, impegno, sono meno lineari rispetto al comparto profit. Tra gli elementi distintivi delle imprese sociali vi è la caratteristica dei prodotti: beni intangibili, servizi ad alto coinvolgimento relazionale, dove l’investimento degli operatori è sbilanciato rispetto ai benefici in termini di remunerazione economica, possibilità di carriera e sviluppo. Un ultimo aspetto risulta determinante, ai fini del nostro ragionamento. Alla coesistenza di differenti orientamenti valoriali del business for profit – etica del profitto, del prodotto, etica sociale e responsabilità sociale d’impresa – si contrappone, almeno nelle premesse, un indirizzo univoco nel comparto non profit. La condicio per cui cooperative, fondazioni, associazioni mobilitano e indirizzano risorse economiche sono le persone: fine ultimo, punto di partenza e/o di arrivo di qualsiasi azione economica messa in atto; le persone, sia come risorse interne (operatori) sia come risorse esterne (utenti). L’insieme di queste peculiarità trova, proprio nei comportamenti (ethos) e nei rapporti con le risorse umane, l’ambito più rappresentativo delle trasformazioni in atto nel non profit. Ogni ragionamento sulla gestione delle risorse umane, in questo settore, deve partire da queste consapevolezze. Relazioni e dinamiche decisionali Come è stato messo in luce in passato da importanti studi economicoorganizzativi, le condizioni in cui si sviluppano relazioni fra le persone in un contesto di lavoro sono alla base dei loro comportamenti e delle loro decisioni, che non sempre sono di carattere razionale e proporzionali al perseguimento di obiettivi personali. I processi decisionali sono infatti determinati da giudizi sulla realtà che possono essere empirici e verificabili (di fatto) o desiderabili, non verificabili razionalmente (di valore). Ne consegue che, anche in contesti organizzativi, le decisioni non sono considerate atti lineari ma processi a “razionalità limitata”, in cui fini e mez- 71 72 ANNA BIFFI zi (individuali e collettivi) vengono scelti e confrontati strada facendo (Bonazzi, 2008). Un’organizzazione può influenzare le decisioni e le scelte degli individui attraverso fattori come comunicazione, formazione, retribuzione, efficienza, lealtà, identificazione; e lo può fare in misura proporzionale a quanto questi fattori contribuiscono direttamente o indirettamente a perseguire i fini dei singoli soggetti. Il loro contributo è legato a un rapporto di scambio, economico o sociale, che associa gratifiche in denaro ad altre ricompense indirette, definite anche benefit intangibili. Per le peculiarità dei contesti di lavoro a economia sociale, sopra esposte, questo scambio prevede forte partecipazione e coinvolgimento, perseguimento di finalità d’interesse non solo individuale ma sociale, condivisione delle responsabilità e dei rischi. Identità, scopi, ricompense indirette di carattere materiale, o legate allo sviluppo dell’organizzazione, sono motivi sufficienti per partecipare o non partecipare a un’impresa. D’altro canto, questa è in grado di fornire gratifiche solo perché altri soggetti, con i loro contributi, generano le risorse necessarie. L’importanza e la centralità del concetto di “capitale sociale” (Olivetti Manoukian, 2004) riconosciuto, almeno in teoria, come il cuore di ogni unità produttiva non profit, sottende questa forte interdipendenza fra singoli e impresa, che orienta le scelte e la determinazione dei comportamenti lavorativi. Relazioni organizzative, norme comunicative e gestionali, attraverso le quali i gruppi dirigenti si espongono con le persone sui piani che più da vicino sollecitano il loro essere (persona che lavora) e il loro comportamento (persona che agisce dentro un’organizzazione), concorrono a definire un rapporto di riconoscimento-vicinanza o di disconoscimento-lontananza con l’organizzazione. La misura di questo rapporto è il bene essere o il male essere dei singoli all’interno di un ambiente lavorativo e ne determina la loro capacità di bene operare. Questo paradigma, a orientamento transazionale (Bonazzi, 2008), dimostra lo stretto rapporto fra clima organizzativo (cultura, significati, rappresentazioni e valori di un contesto) ed efficacia (coerenza nel rapporto mezzi-fini, azioni-scelte), messo in luce anche da molti ricercatori, che osservano con interesse le dinamiche organizzative del comparto non profit (Carpita, Manisera, 2007). 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT Ciò prevede di non separare la gestione del personale dal comportamento organizzativo generale e dalla vision sociale. Non solo i contenuti delle relazioni ma le modalità e la qualità delle stesse assumono un’importanza fattuale e generano un’ermeneutica del lavoro fatta di sistemi di significati (Pettigrew, 1979), che influenzano fortemente le azioni e le relazioni fra le persone. Comunicazioni e relazioni formali, frettolose, contraddittorie, scarsamente condivise, prescrittive o asettiche, non rappresentano solo una forma relazionale, sono già un indicatore di qualità del contenuto della relazione. Questo insieme di fattori porta a riconoscere in ambito non profit, anche se non sempre a praticare, che l’impostazione dei rapporti con i lavoratori è la cartina tornasole della qualità dei prodotti dell’impresa e della cultura del lavoro che essa esprime, sia per gli stakeholder interni sia per quelli esterni. Una tale prospettiva ribalta il tradizionale rapporto fra impresa e lavoro tipico del mondo for profit, in cui i singoli sono un mezzo per la realizzazione degli obiettivi di impresa, e costituisce una questione imprescindibile per programmare la gestione dei rapporti con le persone in ambito non profit. Il fattore umano In molti e differenti approcci della letteratura aziendale riferita alla gestione delle risorse umane, la programmazione delle dinamiche organizzative è permeata dal paradigma della razionalità tecnico-strumentale (Galimberti, 1999), il cui dinamismo si esprime nella ricerca di mezzi e comportamenti utili alla realizzazione di obiettivi prescritti. Gli oggetti di studio possono essere come motivare, come gestire i gruppi, come coordinare, come comunicare efficacemente; alle domande sul “come” viene data risposta proponendo procedure, strumenti e “tecniche di…”. Spesso queste prescrizioni fanno esplicito o implicito riferimento alle discipline psicologiche e sociologiche, utilizzate in modo frammentario, come indirizzo all’azione tecnica, perlopiù distorte rispetto alle loro originarie intenzionalità. Pur con differenti sfumature, negli approcci teorici normativo-comportamentali (Beck, 1984), nonché in quelli di stampo psico-sociale (Schein, 2001; Levati, Saraò, 2002), traspare la connotazione prevalentemente tecnico-strumentale. Questi orientamenti, negli ultimi anni, hanno intercettato anche i bisogni di molti dirigenti delle organizzazioni non profit e pervaso molte prassi messe in atto per gestire le risorse umane. 73 74 ANNA BIFFI Esplorando gli approcci al management aziendale si osserva che essi implicano una concezione dell’essere umano parziale “di fatto”, scientifica “di diritto”. L’aura di scientificità che li caratterizza non solo presenta criticità intrinseche, ma legittima comportamenti che sono in realtà opzioni etiche, sulla base delle quali è accettabile trattare le persone come mezzi anziché come fini. Il rischio di molti interventi nelle organizzazioni è quello di rendere i soggetti strumentali a qualcosa, fino al paradosso per il quale le persone diventano “oggetto di” valutazione, osservazione, promozione, motivazione (Cecchinato, 2003). Anche le impostazioni più umanistiche, ispirate alla leadership trasformativa e simbolica, empowerment, governance diffusa e partecipativa, vicine nel linguaggio al settore non profit, sembrano mantenere, pur rifacendosi a modalità più evolute e a saperi più sofisticati, un indirizzo non meno tecnocratico dello scientific management di tradizione taylorista (Alvesson, 1996). La crisi di questi approcci è evidente per ragioni d’etica sociale ma anche perché, in larga misura, essi prevedono in ultima istanza di escludere le persone dai processi decisionali che organizzano le loro esistenze. Questo limite esplode quanto più il lavoro richiede un alto coinvolgimento personale: caratteristica strutturale del lavoro sociale e peculiarità fondativa di ciò che è Impresa sociale di comunità. 2. Superare le ambiguità per un differente approccio al management Venendo meno un’adesione spontanea al movimento cooperativistico e le motivazioni intrinseche di chi si affaccia a lavorare nelle organizzazioni non profit, i gruppi dirigenti di molte realtà del privato sociale hanno avvicinato questi orientamenti al management, rischiando ingenuamente di cadere in semplificazioni equivoche dei problemi. La tentazione di impiegare, in modo frammentario, l’apparato teorico e soprattutto strumentale di gestione delle risorse umane di matrice for profit per sollecitare motivazione, coinvolgimento, appartenenza, può condurre, nella migliore delle ipotesi, alla burocratica applicazione di nuove formule, in cui prevalgono inviti a fare piuttosto che suggerimenti per capire come risolvere i problemi. Spesso proprio con l’obiettivo di favorire lo sviluppo delle persone, le organizzazioni sono vittime di questi fraintendimenti; come testimonia la 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT diffusione, anche nell’ambito delle organizzazioni non profit, di alcune parole chiave come competenza, qualità, project management, team building, problem solving, team working, best practices, benchmarking, learning organization. Ciascuno di questi termini rimanda a studi sul comportamento organizzativo, per cui azioni come comunicare, ascoltare, incoraggiare, sostenere, educare, condividere rischiano di essere considerate solo nel loro profilo tecnico-razionale. Ad esempio, al bisogno di garantire autenticità, trasparenza, efficienza alla comunicazione interna, adeguandola allo sviluppo organizzativo (dimensioni, utenza, committenza), si risponde con l’introduzione di procedure indifferenziate: “come” raggiungere gli obiettivi desiderati mediante “tecniche di comunicazione”. Assunte come ovvietà, soluzioni di questo tipo vengono fatte spiovere, “applicate” e sistematizzate nelle organizzazioni, con il loro oneroso impianto strumentale, estraneo a storia, ambiente, linguaggi, e pertanto risultano sterilizzate del loro valore effettivo: emotivo, culturale, simbolico, creativo e diverso per ogni specifico gruppo. Solo per fare qualche esempio, l’utilizzo disorganico e distorto del concetto di competenza (potenzialmente efficace per aiutare le persone a riconoscersi nel proprio lavoro), introdotto negli ultimi anni nel settore non profit, rischia di ridursi al tentativo di “rappresentare le persone come risorse gestibili piuttosto che come agenti imprevedibili e autodeterminati” (Burgoyne, 1993), storicamente collocati in uno spazio e in un luogo. È indispensabile disegnare organigrammi, ma rischioso definire aprioristicamente ruoli e funzioni senza fare i conti con le persone concretamente implicate hic et nunc. Allo stesso modo, è una strategia miope per le organizzazioni non profit, contaminate a più livelli dal tema della gratuità (Manghi, 2007), impostare la selezione del personale su rilevazioni psicosometriche. Queste tecniche sono adeguate a rilevare potenziale e competenze specialistiche, meno per mettere a fuoco le competenze psicosociali, fondamentali per qualsiasi inserimento di successo nelle attività di relazione e di cura. L’impostazione del rapporto con le persone è una sfida complessa, non risolvibile con la sola strutturazione di procedure e strumenti nelle organizzazioni o con l’acquisizione di skill tecniche per i dirigenti. Il problema è di ordine completamente differente e chiama in causa le qualità etiche nonché la formazione dei “manager non profit”, per cui un approccio semplicemente tecnocratico-strumentale è inadeguato. Proprio perché le persone nella realtà sono libere e imprevedibili, il cuo- 75 76 ANNA BIFFI re del lavoro manageriale nel settore non profit deve conservare la ricerca continua di credibilità, affidabilità e autorevolezza come prerogativa della possibilità di “gestire”. 3. Sistemi e processi: dall’etimologia alle possibili interpretazioni di valore Dopo avere messo in luce alcune peculiarità delle ISC e le ambiguità di alcuni indirizzi teorico-valoriali per la gestione delle risorse umane in ambito non profit, possiamo avvicinarci al quesito iniziale. Esiste ampia letteratura del lavorare per processi in ambito for profit e una cultura del lavoro per processi diffusa nel settore non profit. Un gran numero di filosofie economico-aziendali e di strumenti gestionali a loro connessi propongono, con differenti intensità, la gestione per processi. Per capire se e quali sono le differenze fra i concetti di sistema e processo nella gestione organizzativa, senza i condizionamenti dovuti ad alcune interpretazioni largamente diffuse, richiamiamo i significati originari dei termini. L’etimologia di sistema (da syn e stema, attinente al poco usato stenai) riconduce al verbo istemi che significa stare, collocare. La radice del termine processo deriva, invece, dal participio passato del latino procedere: procedere, uscire fuori, camminare, avanzare. Il termine processo contiene, in nuce, una propensione al movimento, al cambiamento, all’andare oltre, dove sistema rappresenta un arresto, un’inerzia, una stasi; potremmo quasi azzardare, l’esito di un processo. Se osserviamo l’utilizzo di questi termini nel linguaggio organizzativo, essi assumono significanti differenti, distanti, talvolta antitetici al significato originario. Sia in ambiente for profit che non profit, termini come sistema (produttivo, organizzativo, gestionale…), sistematizzare, sistematizzazione, tendono a “stressare” il significato originario di stare nella direzione di stabilità, ordine, programmazione, all’occorrenza, controllo. Tuttavia, è soprattutto l’impiego del termine processo, in ambito organizzativo, a nascondere interpretazioni interessanti, sia nei contesti profit sia in quelli non profit. L’espressione gestione per processi, nella letteratura manageriale più diffusa, attiene a una concezione trasversale dell’organizzazione, non più concepita, come in passato, quale sommatoria di funzioni e/o divisioni da coor- 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT dinare, ma come insieme di processi interdipendenti fra unità produttive in grado di creare valore (per il cliente). Tale concezione è alla base dell’approccio introdotto dal Total Quality Management (TQM), secondo cui la gestione per processi è un requisito fondamentale per orientare l’azienda verso la qualità e il suo continuo miglioramento (Compagno, 1999; Galgano, 2008). Se si osservano alcune definizioni del termine, è evidente che viene valorizzato l’aspetto sequenziale del concetto di movimento. Il processo viene definito come: “Sequenza di attività tra loro logicamente interrelate al fine di gestire una risorsa durante il suo ciclo di vita e raggiungere uno specifico obiettivo” (Toscano, 1993). Oppure “ogni processo ha dati di ingresso. I dati di uscita sono i risultati del processo che sono i prodotti sia tangibili che intangibili. Lo stesso processo è una trasformazione che aggiunge valore e coinvolge in qualche modo persone e/o altre risorse” (ISO 9000-1). Pur fedeli alla dinamicità strutturale del significato originario di processo, queste definizioni tendono a edulcorare gli aspetti di novità, esplorazione, rischio, possibilità che ogni movimento, cammino, avanzamento effettivamente comporta. D’altro canto, osservando come il termine viene impiegato nell’ambito delle organizzazioni non profit, notiamo alcune differenze di linguaggio, ma ritroviamo la medesima tendenza a rimuovere la parte imprevedibile e incontrollabile del concetto di movimento. La cultura del lavorare per processi presente nel settore non profit deriva da una spontanea e autentica capacità organizzativa, sviluppata nella fase pionieristica della sua storia, che ha spontaneamente agito a favore dello sviluppo di modalità di lavoro innovative e collaborative. L’espressione lavorare per processi, in ambito sociale, richiama anche la psicologia di comunità (Amerio, 2000; Lavanco, Novara, 2002), una metodologia di lavoro processuale e partecipativa, impiegata in molte attività psicosocio-educative. Proprio in virtù delle risonanze a partecipazione e coinvolgimento, questo approccio viene richiamato da molti dirigenti non profit per descrivere i processi organizzativi interni: gestione delle équipe, rapporti con il personale, definizione di ruoli e funzioni. Purtroppo, tuttavia, in non pochi casi l’utilizzo delle locuzioni processo decisionale, dinamica processuale, processo partecipativo sono espressioni retoriche che rassicurano chi dirige le organizzazioni, dietro cui si può facilmen- 77 78 ANNA BIFFI te nascondere un po’ di approssimazione, dovuta alla difficoltà di gestire la dimensione plurale, imprevedibile e composita dei rapporti con il “fattore umano”. Possiamo dire che, mentre il profit tende a orientare il significato della parola processo a una cultura organizzativa di “produzione e controllo”, il non profit accoglie il potenziale del suo significante, ma fatica a praticarlo, nei fatti, all’interno delle proprie strutture. 4. Sperimentare un canone inverso Tornando alla radice del termine, proviamo dunque a scandagliare la dimensione più temibile e scabrosa, quella parte del movimento incontrollata e imprevedibile, che viene rimossa sia nell’interpretazione di matrice profit che non profit. Il movimento, l’avanzamento, lo spostamento da un punto a un altro, da un prima a un poi, da un fuori a un dentro, porta in sé la dimensione del possibile: la possibilità che qualcosa accada oppure no, che accada come lo abbiamo previsto e programmato o in modo inaspettato e incontrollato. Ogni possibilità è sempre una possibilità che sì… o una possibilità che no …, ma senza questo rischio non c’è trasformazione, cambiamento, innovazione. Cosa può significare introdurre questa visione processuale, nell’attuale sviluppo del rapporto con le persone inserite in sistemi organizzativi ormai strutturati e complessi come quelli non profit? Negli attuali contesti di lavoro, le realtà produttive possono o devono accogliere questo margine di imprevisto? È possibile “modellizzare” un approccio per processi, così inteso? Per il management chiamato a gestire le risorse umane, ciò significa valorizzare un’ottica che ribalta la valenza della locuzione stessa “gestione delle risorse umane”, esplodendo il significato di risorsa rispetto a quello di gestione. Questo ribaltamento apre una prospettiva intenzionalmente diversa sulle dinamiche organizzative: il punto di vista dei singoli, della loro storia professionale, della loro biografia, delle loro rappresentazioni del lavoro, immaginando ricomposizioni possibili con il punto di vista organizzativo. Il processo del pensiero Cosa può differenziare un reale lavoro per processi dall’impiego seriale di procedure per raggiungere gli obiettivi dell’impresa? 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT Come passare dagli enunciati sull’efficacia del lavoro per processi alla loro concreta attuazione? Rispondere a queste domande è tutt’altro che banale perché richiede la volontà di aprire autentiche comprensioni di senso, a tutti i livelli, nei contesti di lavoro, ma anche definiti orientamenti metodologici e di ricerca che pongono il pensiero, come processo di osservazione critica della realtà, al centro del rapporto fra singoli e organizzazioni. Nonostante la proclamata attenzione alle persone, il soggetto continua a suscitare interesse come portatore passivo di bisogni (malesseri, sostegni, richieste…), o come risorsa al centro di strategie che altri hanno determinato; meno invece come protagonista attivo e consapevole, in grado di assumersi la responsabilità delle proprie scelte professionali e di vita. Mettere in moto il pensiero degli individui è un modo di sperimentare la valenza trasformativa della riflessione su argomenti e problematiche vicine ed esperienze che spesso sono considerate scontate. Al contrario di quanto si è portati a credere nei contesti produttivi, pensare non è una disciplina astratta, ma un modo d’essere che si rinnova attraverso il contributo di chi vuole condividere con altri un’esperienza riflessiva e argomentativa, in grado di proporre inedite e più efficaci riorganizzazioni del lavoro. Alcuni recenti indirizzi di ricerca sociale ed economica sui comportamenti organizzativi avvalorano le caratteristiche peculiari dell’impresa sociale, mettendo al centro delle strategie organizzative i soggetti, senza offrire “ricette” di pronto intervento. Tuttavia, modelli quali organizzazioni temporanee (Nannicini, 2001), reti, gruppi relazionali o clan e tutti gli altri approcci della razionalità limitata (Bonazzi, 2002), più aderenti alle dinamiche delle strutture non profit, in molti casi coesistono dentro alle organizzazioni, non tanto come strategie organizzative predeterminate, ma come effetto di singoli processi di lavoro e di collaborazione reale fra persone. Accogliere la logica processuale del pensiero implica costi organizzativi, gestionali, e psicologici. Mobilita denaro, emozioni, entusiasmi e delusioni, libera scintille di pensiero, richiede tempo dedicato, volontà e capacità di analisi dentro le organizzazioni; tollera un certo grado di disordine, perdita di controllo, divergenza; ammette il fallimento. L’investimento è bilanciato da quello necessario per selezionare, formare, motivare continuamente nuovi operatori, fronteggiare il turnover, gestire alti livelli di conflittualità. 79 80 ANNA BIFFI Per accogliere le turbolenze del mercato, dei collaboratori, degli utenti-clienti, delle ambivalenti richieste delle istituzioni, senza rimuoverle o lasciarsene travolgere, talvolta può essere efficace esaminare le dinamiche organizzative dentro una sorta di epokè, in cui il giudizio è sospeso, lo sguardo è “altro”, distante, libero di smontare consuetudini e costrutti organizzativi, per ricomporli o rinnovarli. Il montaggio e rimontaggio cognitivo, in cui consiste questa pratica, non va inteso come semplice procedura ma come occasione per mettere in discussione valori, prospettive, opportunità reali o fittizie, ridefinire scelte, solo apparentemente obbligate, ipotesi e soluzioni non immaginate. La natura “interrogante” e proattiva di questo approccio, di indirizzo più filosofico (Vitullo, 2006) che psicosociologico, contribuisce a scomporre e, in qualche misura, a “semplificare”, non per manipolare la realtà, ma per recuperare uno sguardo ingenuo che aiuti a trovare nuovi codici di interpretazione della complessità, più funzionali ai singoli ma anche all’organizzazione. L’analisi dei fatti è un processo che coinvolge sempre le persone e pertanto non si può risolvere in un indirizzo diagnostico distaccato; si configura piuttosto come un invito pratico, non per forza programmatico, in situazioni reali. In questo esercizio di autonomia e responsabilizzazione, importanza particolare hanno la comunicazione e il linguaggio, poiché, anche nelle visioni più solipsistiche, il pensiero-logos è sempre un dia-logos. È necessario sostenere la possibilità, non occasionale e non solo informale, di nominare i problemi, configurandoli nella loro reale o immaginaria entità (individuale e organizzativa), evitando che l’attribuzione di valore e di senso al lavoro svolto sia lasciata in gran parte a elaborazioni personali, poco comunicate e condivise, che finiscono per costituire un vissuto personale piuttosto che organizzativo. Lavorare per processi dentro le organizzazioni, per come lo intendiamo, significa storicizzare il pensiero, dare sostegno a occasioni reali di incontro di voci, sguardi, corpi, parole, argomentazioni, di luogo e di tempo, anestetizzando i quali si favoriscono altri tipi di esperienze, che rischiano di essere architetture grossolanamente sovrapposte a quelle reali. Molto più spesso di quanto non accade, le organizzazioni devono prendersi il lusso di una riflessione a tutto tondo, attraverso azioni di reframing, in cui nulla è dato per scontato ed è possibile “parlare di qualsiasi cosa a condizione che si parli anche del fatto che se ne stia parlando” (Kojève, 1996). La radicalità di un gesto di questo tipo consente di riscoprire il valore della domanda, con l’entusiasmo di esplicitarne il potere euristico-interpretativo. 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT Si tratta di un cambio di prospettiva che implica a volte l’abbandono di soluzione certe, rassicuranti, conformi, spesso sterili, per misurarsi con il dubbio, l’incertezza, il conflitto secondo una prospettiva più articolata forse, ma paradossalmente più aderente alla storia e all’esperienza quotidiana. Solo una manutenzione continua struttura un modo di lavorare in grado di sostenere il cambiamento, l’acquisizione di nuove competenze, la flessibilità delle risposte organizzative, il rinnovo della motivazione e della creatività, con evidente vantaggio in qualità ed efficacia del lavoro; occorre salvaguardare la volontà intenzionale e metodica di tenere aperti spazi di riflessione critica con le persone dentro le organizzazioni. La parola sintetizza, struttura, conforma il pensiero. Prima di “prendere parola”, invitiamo a “prendere pensiero”, libero movimento cognitivo e dinamico processo ideativo nei contesti di lavoro. L’ermeneutica dei concetti di sistema e processo è una possibile interpretazione, volta a comprendere un punto di vista rispondente all’economia sociale. Senza l’obiettivo di presentare un nuovo modello organizzativo processuale o nuove best practices, presentiamo l’osservazione e l’esperienza quotidiana di situazioni concrete di dialogo con le persone: aspettative, richieste, problemi, capacità… volti reali. Le architetture organizzative strutturali rappresentano modelli macrofondati (teorie, sistemi, strumenti) che difficilmente hanno riscontro nella pratica se non come esito di microfondazioni quotidiane. La parzialità e la non “esportabilità” di molte di queste esperienze non ne inficiano l’efficacia, qualora esse non siano solo frutto di casualità e spontaneità ma rispondano a orientamenti organizzativi consapevoli, che ricercano e perseguono obiettivi specifici e metodi di lavoro centrati sui soggetti, i loro pensieri, le loro competenze, le loro azioni. 5. Investire in strumenti o in processualità? Tradizionalmente la gestione e le trasformazioni organizzative si realizzano per strutture; negli attuali contesti socio-produttivi, pensiamo che lo sviluppo per processi genera valore più che la strutturazione di funzioni. Una progettazione organizzativa processuale, come è stata intesa, non è in antitesi alla strutturazione e alla codifica di strumenti e procedure, né esclude a priori il ricorso a competenze specialistiche. 81 82 ANNA BIFFI È opportuno tuttavia avere chiari gli orizzonti nei quali orientare la strategia organizzativa. In alcuni casi è possibile e funzionale “modellizzare” i processi, strutturandoli; in altri, l’efficacia del processo è data in sé, si compie e si esaurisce nel processo stesso: non è mutuabile né esportabile. La gestione delle risorse umane, in un orizzonte processuale, avvalora la capacità acquisita dalle organizzazioni non profit di sistematizzare e strutturare il lavoro più che in passato ma deve salvaguardare una precisa e consapevole strategia organizzativa fondata sui soggetti. Ciò può avvenire dopo aver messo in circolo domande sul significato del lavoro sociale, sulle attese e le rappresentazioni che le persone hanno del loro operare in un preciso contesto, su ciò che l’organizzazione vuole, chiede, è realisticamente in grado di offrire a chi vi lavora. Mettere a punto criteri e strumenti di selezione, formazione, motivazione, la descrizione delle competenze, la produzione di job description, la valutazione di standard e performance individuali, è efficace in modo proporzionale alla capacità che essi hanno di intercettare le reali aspettative dei singoli. È conveniente interrogarsi su come, quanto, con quali strumenti solo dopo aver evidenziato la portata e gli oggetti veri di un lavoro sulle risorse umane e aver aperto domande capaci di aderire realmente ai contesti: perché, chi, cosa? Molti strumenti e procedure di gestione delle risorse umane in uso nelle organizzazioni sono processuali per chi li ha progettati e sperimentati in origine, non per chi li assume sic et simpliciter come sistemi costituiti; eliminando il cosa, il come diviene sistema. I concetti di equità, fiducia, partecipazione, valutazione del lavoro, qualità del rapporto con gli utenti, trasparenza delle comunicazioni, rendicontazione sociale del lavoro (accountability) non sono tabù da difendere o da abbattere, ma concetti da vivificare dentro processi di riflessione reali. La necessità di sistematizzare poco o molto il rapporto con gli individui può dipendere dalle dimensioni e dalla cultura interna a ogni realtà. Un approccio processuale, per come lo intendiamo, è la premessa logico-metodologica del rapporto con le risorse umane: luogo e spazio del pensiero più che dell’azione, dell’analisi più che della sintesi, del ragionamento spontaneo più che strategico di qualsiasi organizzazione, grande o piccola che sia. Assunti di base per progettare un processo organico di gestione delle risorse umane È evidente che l’ipotesi messa a tema non prevede solo di assegnare qualche voce nei budget alle risorse umane o introdurre funzioni negli orga- 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT nigrammi, quanto piuttosto considerare, un po’ controcorrente, investimenti in un pensare che si colloca fra teoria e prassi, esprimendo il suo potenziale nella progettualità organizzativa. Esemplifichiamo alcuni ambiti nei quali tradurre operativamente quanto detto, per innescare processi virtuosi di gestione delle transazioni fra persone e organizzazione. Senza la possibilità di approfondire, né l’ambizione di esaustività, interessa dare la traccia dell’organicità di un impianto che descrive un’esperienza reale (Spazio Giovani ONLUS), nella quale sono maturati la mia esperienza e il mio pensiero e che articolo nei seguenti passaggi: ▪ individuazione di un ruolo-luogo organizzativo dedicato alle risorse umane, coerente con il sistema interno; ▪ osservazione, analisi e rilettura dei processi organizzativi secondo sguardi multistakeholder; ▪ formulazione di ipotesi condivise sul valore delle risorse umane all’interno dell’organizzazione; ▪ osservazione di modelli di riferimento presenti in letteratura o in altri contesti; ▪ ricerca di metodologie di lavoro sinergiche a funzioni, cultura, risorse economiche e umane già presenti; ▪ definizione di oggetti di lavoro e messa a punto di un modello di gestione; ▪ progettazione di modalità di funzionamento e/o strumenti ad hoc che coinvolgano i destinatari; ▪ individuazione di indicatori di valutazione a valenza individuale e organizzativa (efficienza, efficacia, motivazione, innovazione, partecipazione, economicità...); ▪ individuazione di modalità formali e informali di comunicazione dei passaggi più significativi e della gestione delle risorse umane nel suo complesso; ▪ valutazioni periodiche ex-ante ed ex-post a partire dai soggetti direttamente implicati; ▪ manutenzione e aggiornamento continuo dei processi. Questo tracciato, prevede che si individui dentro all’impresa un ruolo organizzativo formalizzato e riconoscibile, deputato allo sviluppo, alla manutenzione e alla gestione dei rapporti con le persone. Descrivere il suo mandato e “dare un nome” non sono questioni puramente nominalistiche, ma sostanziali. Un “luogo”, una funzione specificamente dedicata al capitale umano dell’impresa può rappresentare una risorsa significativa solo se è in grado di 83 84 ANNA BIFFI tradurre le complessità individuali e collettive in prassi organizzative codificate, che indirizzino l’azione gestionale e coinvolgano i vertici dell’organizzazione. A questo proposito è fondamentale definire il suo posizionamento, gli ambiti di lavoro, gli interlocutori dentro il sistema organizzativo. Il centro del mandato sono le risorse umane in quanto tali. La posizione deve essere apicale rispetto all’organigramma ed è opportuna una delega del coordinamento, della presidenza, della direzione generale. Chi assume la responsabilità delle risorse umane deve poter effettivamente trattare questioni che riguardano assegnazione di incarichi, retribuzioni, motivazioni, sviluppo professionale, ricollocazione degli individui, di cui “porta le istanze”. Allo stesso modo, per poter rappresentare autenticamente agli operatori le complessità organizzative, deve averne consapevolezza e in qualche misura responsabilità; non può parlare “in conto terzi”. Il “potere di mediazione” di chi gestisce le risorse umane deve risultare rilevante sia nei confronti dei vertici che della base. Solo in questo modo il mandato è credibile: la fiducia riposta in questa figura dai dirigenti dell’impresa deve essere speculare a quella degli operatori. Questo è il motivo per il quale la sua posizione è centrale, ma il suo posizionamento variabile. Non può essere solo l’interfaccia del management, come accade nelle aziende, né il rappresentante dei lavoratori, il sindacato interno. Di volta in volta, si troverà a mediare e rappresentare le varie parti. Il suo ruolo è quello di un manutentore dei rapporti fra persone e organizzazione. Le sue relazioni e le sue alleanze si sviluppano in eguale misura e intensità con il management, con i livelli di responsabilità intermedi e con quelli operativi, per favorire un reale scambio di punti di vista, interessi, opportunità e ricercare soluzioni ai problemi. Le funzioni del suo mandato comprendono responsabilità e scelte su contratto, retribuzione, organizzazione, qualità e sicurezza del lavoro, formazione, motivazione, sviluppo professionale, e costituiscono parti di un processo che si potrebbe definire olistico (fig. 1). 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT Figura 1 - Processi di gestione e sviluppo integrati, ispirati al modello delle competenze di Hay Group Valutazione del lavoro Valutazione del potenziale Aree di attività Competenze Valutazione Formazione Selezione Descrizione dei profili/ruoli Sviluppo personale Comportamenti per eccellere Crescita e motivazione “Misurare” i risultati attesi Sistema delle ricompense Ciascuno di questi ambiti ha proprie specificità ma l’approccio deve essere integrato e omogeneo. Essere dialogici nella formazione e direttivi nelle politiche retributive o nell’attribuzione degli incarichi genera contraddizioni e malumori. La scelta fra differenti opzioni non è di natura ideologica, ma frutto di un reale processo di analisi fra i soggetti in gioco e pertanto motivata, coerente, pertinente al contesto. Il presidio della mediazione schietta e costante fra bisogni soggettivi e organizzativi si può sviluppare su pochi ma significativi elementi: ▪ ricercare e formalizzare convergenze possibili sulle differenti rappresentazioni del lavoro fra singoli e organizzazione; ▪ favorire il confronto trasparente tra operatori e responsabili sulle aspettative (economiche, professionali, di vita) e sulla effettiva possibilità di poterle o meno realizzare dentro l’organizzazione; ▪ verificare e comunicare se il progetto professionale individuale ha la possibilità di esprimersi nell’ambito organizzativo nel breve, medio e lungo periodo; ▪ ipotizzare e programmare tappe di sviluppo; ▪ considerare e mettere a tema la distanza fra aspirazioni soggettive e vincoli organizzativi o di mercato; ▪ scegliere alcune priorità su cui indirizzare le azioni; ▪ orientare processi di sviluppo e di responsabilizzazione individuali. 85 86 ANNA BIFFI 6. Un’esemplificazione operativa: monitoraggio dei percorsi professionali Per avvalorare la cifra operativa di quanto detto fino ad ora, proponiamo la descrizione sintetica di un processo organizzativo reale e ancora in atto, che consideriamo paradigmatico non per il valore in sé, quanto per le dinamiche innescate e per la mobilitazione di pensiero e progettualità che si è rivelato in grado di alimentare. Ci riferiamo al monitoraggio dei percorsi professionali, una sperimentazione intrapresa con l’obiettivo di ribaltare il punto di vista in cui solitamente la valutazione è attuata nelle organizzazioni. Legittimamente ogni impresa implementa processi interni a partire “dal proprio punto di vista”. Équipe, gruppi di lavoro, supervisioni, colloqui individuali, formazione, valutazione delle prestazioni sono finalizzati a migliorare i prodotti, l’efficienza del lavoro, aprire nuove opportunità di mercato, innovare le attività, contenere i conflitti, definire sistemi di ricompensa. La necessità di valutare è bidirezionale; l’organizzazione ne ha bisogno per riconoscere le differenze, garantire la qualità del lavoro, l’efficienza delle programmazioni; gli individui la richiedono per riconoscere il valore del proprio operato, per motivare il loro impegno, per materializzare l’efficacia di chi lavora su relazioni intangibili. Tuttavia le priorità delle persone sono diverse e variano nel corso del tempo: crescita professionale, aspetti retributivi, gratificazioni, sviluppi di carriera, qualità del lavoro. I fraintendimenti e i malintesi che possono nascere fra impresa e operatori sui differenti significati attribuiti a queste priorità, a volte, assumono più importanza dei problemi in sé. La pretesa di poter valutare e misurare tutto, tipica dei più diffusi strumenti di valutazione psicosometrici, in ambito sociale spesso viene neutralizzata dalla rimozione del tema: il lavoro è complesso, le competenze relazionali troppo soggettive, le implicazioni intricate, per cui è impossibile valutare (“tanto peggio tanto meglio!”). Ciò accade in virtù del fatto che il processo valutativo è molto complesso e lo diventa quanto più la propria identità professionale fatica a essere riconosciuta socialmente ed economicamente; ancor di più quando le competenze tecniche messe in gioco nel lavoro sono fortemente contaminate da competenze psicosociali, relazionali, motivazionali, difficilmente “valutabili”. L’apertura di uno spazio specifico per le risorse umane all’interno dell’or- 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT ganizzazione ha reso possibile lo sviluppo di un processo di valutazione in grado di ribaltare la prospettiva iniziale e di osservare i fenomeni lavorativi a partire dal soggetto, da bisogni e aspettative di sviluppo, crescita, formazione, non escludendo le sue stanchezze. Incontrando concretamente le persone appare evidente che la valutazione delle loro “prestazioni” non può fare a meno di ampliare il campo di osservazione, diventando un’occasione di scomposizione della realtà lavorativa non circoscritta all’ottica organizzativa. Paradossalmente, partire dalle biografie degli operatori non ha allontanato gli oggetti reali di valutazione, ma ha consentito anche all’organizzazione di uscire dall’astrattezza, avvicinando la concretezza delle progettualità e dei servizi. Introdurre procedure di valutazione del lavoro o delle prestazioni non può prescindere dal considerare aspetti più ampi quali aggiornamento, formazione, motivazione, le condizioni reali di lavoro (iperstrutturazione-destrutturazione), le ricompense. Il contributo della persona diventa centrale anche nell’atto della ricerca proattiva delle ricomposizioni possibili che, più di quanto si creda, apre piste inimmaginabili da una prospettiva puramente organizzativa. Il monitoraggio dei percorsi professionali si configura come un percorso formalizzato, che prevede tempi, oggetti, contenuti, strumenti specifici, esiti tracciabili e verificabili, frutto di un lavoro trasversale dentro l’organizzazione. I colloqui che gli operatori realizzano con il monitor (responsabile diretto) due o tre volte l’anno, intercettano e monitorano alcune aree di interesse considerate centrali nel lavoro sociale, differenziandole per tipologia, anzianità, competenze tecniche dei soggetti implicati. Gli indicatori e gli strumenti (scheda di monitoraggio) sono procedurali e pertanto l’organizzazione è in grado di avere un quadro d’insieme. Tuttavia hanno maglie sufficientemente larghe per poter essere individualizzati e soprattutto restano un’occasione preziosa e formalizzata di incontro fra ottica individuale e ottica organizzativa. Solo per evidenziare una complessità che non può essere qui articolata maggiormente, esemplifichiamo gli elementi cardinali del processo (tab. 1). 87 88 ANNA BIFFI Tabella 1 - Monitoraggio dei percorsi professionali Beneficiari del processo Conduttori del processo Nome del processo Strumenti Aree di interesse prevalente Competenze tecniche e competenze psicosociali di base Modalità Tempi e durata Operatori in ingresso Tutor: diretto responsabile dell’operatore Tutoraggio Colloqui su indicatori di osservazione individuati Etero valutazione 6 mesi Operatori junior Coordinatore: diretto Monitoraggio responsabile tecnico del junior Colloqui guidati da scheda Competenze tecniche Etero e auto valutazione 2/3 colloqui all’anno e osservazioni intermedie Operatori senior Coordinatore: diretto Monitoraggio responsabile organizzativo del senior Colloqui guidati da scheda Competenze Etero e auto organizzative valutazione 2/3 colloqui all’anno e osservazioni intermedie Pur dentro i limiti di una rappresentazione schematica, il modello esposto è l’esito di un esercizio compatibile e integrabile con le dinamiche e le strategie organizzative che è talvolta l’esercizio stesso a orientare. Più importante del risultato della valutazione è comprendere e riconoscere oggetti comuni di valutazione. Il processo messo a punto ha consentito di individuare alcuni indicatori per definire priorità e fuochi di interesse specifici e differenziati fra alcuni gruppi di operatori, sui quali far convergere le strategie di gestione delle risorse umane. Se si considerano tre importanti indicatori quali il clima, l’organizzazione del lavoro e le competenze tecniche, il monitoraggio mette in luce non solo che queste variano di importanza e di intensità a seconda dello status professionale di ciascuno, ma anche che ciascuno attribuisce ad essi pesi e valori differenti (fig. 2). Figura 2 - La tabella rappresenta l’incidenza che ciascun indicatore ha rispetto allo status professionale Operatori in ingresso Operatori junior Operatori senior Progressioni organizzative Operatori senior Progressioni tecniche Ruoli manageriali Clima 2 3 Organizzazione 3 2 Competenze 1 1 2 1 3 3 1 2 1 2 3 Legenda: 1 = molto importante 2 = mediamente importante 3 = meno importante 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT La pura valutazione delle competenze tecniche dice poco su come migliorare la prestazione professionale nel suo complesso, concetto ben più sofisticato da monitorare, che comprende caratteristiche personali, competenze psicosociali, attitudini, motivazione al lavoro, aspettative soggettive. Ampliare la valutazione a queste componenti favorisce l’acquisizione di reciproche consapevolezze che portano benefici tangibili: consentono sia all’organizzazione sia alle persone di programmare attività, attribuire incarichi, ruoli, funzioni, stabilire alleanze o trovare compromessi e accordi, valutando di volta in volta in modo più coerente le aspettative reciproche. Fatta salva l’autenticità del processo, alcune procedure organizzative formalizzate e strumenti ad hoc favoriscono l’osservatorio costante delle dinamiche organizzative e soprattutto permettono di mantenere aperto un pensiero progettuale in grado di connettere le strategie dell’impresa con le persone che devono concretamente praticarle. Trovare un delicato ma necessario equilibrio fra differenti posizioni e bisogni implica la fatica di fermare per un attimo ciò che sappiamo essere sfuggente, descrivere ciò che magari domani cambierà, argomentare comportamenti che non riconosceremo. In questa prospettiva, anche un tema scabroso come quello della valutazione è utile per ricomporre la frammentazione, accrescere la motivazione, diventando occasione di apprendimento. Non è nostra intenzione proporre questa esperienza come modello di valutazione, perché, proprio in virtù di quanto detto fino ad ora, non ne esistono di preconfezionati, e soprattutto perché siamo i primi a riconoscerne i limiti. Tuttavia, proprio a partire da questi limiti, di cui a volte le organizzazioni sono artefici a volte vittime, abbiamo cercato di esemplificare un percorso processuale effettivamente praticato, volto a manutenere i rapporti con le persone, a tutti i livelli organizzativi. 7. Superare un complesso di inferiorità per vivificare la funzione sociale del lavoro Al contrario di quanto la retorica sul lavoro sociale porta a far credere, in nome di una storia non riproponibile oggi, autentici processi di pensiero dialogico a livello politico, gestionale, tecnico nelle organizzazioni richiedono trasformazioni, non sempre consapevoli nel settore non profit. In un paradigma culturale ed economico orientato al cambiamento, alla 89 90 ANNA BIFFI trasformazione veloce delle dinamiche sociali e produttive, che si deve misurare con un diffuso malessere sociale (Benasayag, Schmit, 2005), le visioni organizzative e individuali spesso non coincidono. Le pressioni del mercato, i rapporti con gli enti locali e l’ente pubblico, le spinte verso i privati alla ricerca di risorse economiche, pongono le organizzazioni di fronte a scelte che ricadono sugli individui. Anche in ambito non profit sono richieste risposte competenti, elevati standard di performance al minor costo. D’altro canto, gli operatori si aspettano stabilità, remunerazioni dignitose, sviluppo professionale, qualità del lavoro, partecipazione alle scelte. La capacità attrattiva che l’economia sociale può offrire loro non può essere solo di tipo economico ma valoriale, professionale, di qualità delle relazioni, di rilettura del valore sociale del lavoro, nel suo significato storico culturale più allargato. I passaggi organizzativi sono solo apparentemente salti epocali e rivoluzionari. Investire sul processo del pensiero è un investimento sulle risorse umane che assomiglia a un cammino più che a una corsa; un incedere da una prospettiva a un’altra, da una visione a un’altra, da un obiettivo a un altro. Nella metafora che rappresenta le organizzazioni come complessi “organismi viventi” (Morgan, 1997), permanere in questo delicato equilibrio implica la volontà di spostarsi e la fatica di attivare muscoli e cervello. Tollerare l’incertezza di un orientamento organizzativo per processi, all’interno del settore non profit, può essere anche occasione di riformulare i propri valori (solidarietà, partecipazione, dialogo, imprenditività, responsabilità sociale…) e proporre rinnovate visioni del lavoro sociale, che da qualche tempo attrae giovani e adulti, per il sostantivo lavoro più che per la sua aggettivazione sociale. La comparsa del ruolo di responsabile risorse umane negli organigrammi del privato sociale e l’allocazione di risorse di pronto intervento per le emergenze (selezione, turnover, formazione, gestione dei conflitti) dimostrano la necessità di ridefinire il significato del termine sociale nell’attuale situazione economico-produttiva, rivalutandone anche il valore economico di mercato. La dimensione sociale del lavoro è un requisito irrinunciabile per le imprese non profit, impegnate a bilanciare l’elevato investimento personale dei singoli con lo scarso riconoscimento socio-economico dei prodotti. In questi anni le imprese sociali hanno investito molto su una maggior razionalità gestionale (controllo di gestione, certificazioni di qualità, sicurez- 5. LA GESTIONE DELLE RISORSE UMANE NELLE ORGANIZZAZIONI non PROFIT za...); il rischio, paradossalmente, è quello di trasformare la storica propensione all’innovazione, tipica dell’attivismo del terzo settore, in un appiattimento tecnocratico. L’espansione del mercato non profit è in gran parte dovuta al superamento della burocrazia dell’ente pubblico, nella gestione dei bisogni e dei servizi per i cittadini. Ciò si è verificato in virtù dell’imprenditività spontanea di persone che hanno operato secondo logiche organizzative destrutturate, dinamiche, duttili, molto più simili a uno sviluppo per processi che per strutture, ma anche in virtù di una capacità riflessiva che ha prodotto ipotesi e sguardi di valore sul contesto sociale. Pur in forme rinnovate, queste caratteristiche vanno tutelate, senza prestare il fianco alle logiche mercantili verso cui la pressione economica indirizza anche le imprese sociali. È sempre più difficile mantenere integri legami comunitari, troppo spesso scardinati da pressioni esterne e non cedere al ricatto di sacrificare le risorse che riguardano proprio la riflessione e la verifica del lavoro svolto, per abbassare i costi e semplificare le dinamiche di lavoro. Questa debolezza rischia di tradire la natura stessa delle organizzazioni non profit, per ragioni etiche, per le contraddizioni intrinseche che fa esplodere e, a lungo andare, per l’impossibilità di rispondere con efficacia alle domande che la committenza e gli utenti finali pongono. L’economia sociale è, e deve cercare di restare strutturalmente, nel mezzo, sopportando la tensione delle varie pressioni cui è sottoposta: i singoli, il mercato, le istituzioni, gli utenti. Imprimere un andamento processuale, parziale, faticoso, imperfetto, permeabile ai movimenti interni ed esterni, probabilmente non struttura le imprese sociali come altri modelli di riferimento ma le consolida e ne garantisce lo sviluppo, proprio a partire dalle persone. Sostenere queste fatiche rafforza la capacità di fronteggiare le criticità strutturali del sistema economico attuale che, come peraltro molti studiosi hanno messo in luce da tempo, inducono a ripensare completamente i tradizionali rapporti di lavoro in tutti i settori produttivi. Lavorare per processi favorisce lo stare dentro questa complessità sfuggente, liquida (Bauman, 2000), che peraltro accomuna settore profit e non profit, perché attiva le persone e mobilita il loro pensiero. Superando un complesso d’inferiorità, rispetto ai modelli organizzativi del mercato for profit, riconsiderare metodologicamente i processi organizzativi spontanei dello sviluppo del cosiddetto “terzo settore”, potrebbe offrire 91 92 ANNA BIFFI spunti interessanti anche ai sistemi organizzativi aziendali, proprio a partire dalle risorse umane, senza le quali, com’è sempre più evidente, qualsiasi impresa pubblica, profit e non profitnon può crescere e svilupparsi. Bullet point • considerare le peculiarità dei contesti organizzativi non profit (mercato, prodotti, stakeholder interni ed esterni), superando l’importazione acritica di strumenti di gestione esterni; • conservare uno sguardo ingenuo sulle organizzazioni, quello di tutte le persone che ne fanno parte. Una prospettiva garante della possibilità che, in certe fasi, l’organizzazione sia anche funzionale alle persone e non solo viceversa; • salvaguardare la bontà dei processi di lavoro prima che degli strumenti e delle procedure; • superare lo spontaneismo e l’approssimazione nella gestione delle risorse umane, formulando ipotesi specifiche, a cui far conseguire metodi di lavoro e strumenti coerenti, pur sapendoli parziali e transitori; • accogliere punti di vista differenti, partendo da quelli meno scontati e prevedibili, lasciandosi permeare dalle istanze individuali prima di ricondurle a quelle organizzative; • cercare sempre, nella pratica e nella teoria, una trasparente e coerente mediazione tra il punto di vista dei singoli e quello organizzativo (base, vertici, clienti/utenti, committenti), assumendosi pubblicamente la responsabilità di scelte anche difficili; • tenere in equilibrio, con determinazione, posizioni di disequilibrio per favorire innovazione e cambiamento. 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Oltre 100 persone – educatori, psicologi, formatori, ricercatori – realizzano progetti e servizi di informazione e comunicazione sociale, orientamento, sviluppo di comunità, prevenzione alle dipendenze, servizi aggregativi e socio-educativi, promozione della cittadinanza attiva, del volontariato europeo, ricerca sociale, formazione. Dal 2001 ha istituito e formalizzato una figura interna deputata alla gestione dei rapporti con gli operatori, attivando progettazioni interne specifiche e innovative sulle risorse umane. Toscano G. (1993), Aspetti organizzativo-contabili della gestione per processi, in «Sviluppo & Organizzazione», n. 139, settembre-ottobre. Vitullo A. (2006), Leadership riflessive, Milano, Apogeo. 93