NOTE SULLA FASE POLITICA – fine primavera 2016
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NOTE SULLA FASE POLITICA – fine primavera 2016
NOTE SULLA FASE POLITICA – fine primavera 2016 In un momento in cui la velocità degli avvenimenti molto spesso supera di gran lunga la capacità dei compagni di elaborarne una lettura di classe per poi orientare la propria pratica, il Collettivo Tazebao, attraverso la redazione e diffusione periodica delle note di fase, punta a socializzare il proprio dibattito e sintesi politica, al fine di contribuire alla confronto e alla crescita del movimento comunista e proletario. Auspichiamo che questo sforzo sia utile non solo alle realtà politiche e soggettive ad esso interessate, ma anche allo sviluppo e all'arricchimento della nostra stessa discussione e del nostro lavoro di propaganda. Per questo invitiamo tutti a farci pervenire osservazioni, critiche, proposte di confronto, collaborazione e quant'altro venga ritenuto giusto o necessario. Sulla situazione internazionale "I Brics sono morti. Lunga vita ai Ticks". Così, lo scorso gennaio, titolava un articolo di economia internazionale sull'edizione on line del Financial Times. Con una sorta di implicito compiacimento, il più noto giornale della borghesia imperialista britannica, puntava a lanciare un nuovo neologismo da spendere per descrivere l'attualità globale, prendendo atto, a suo dire, del decadimento definitivo dei Brics – acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – come guida delle nazioni emergenti e proclamando un rinnovamento nell'occupare questo ruolo da parte dei cosiddetti Ticks, ovvero Taiwan, India, Cina e Corea del Sud. Un'analisi e, prima ancora, un'espressione mediatica, subito fatta propria e rilanciata a livello internazionale da buona parte della stampa emanazione della borghesia imperialista statunitense ed europea e, in Italia, ripresa dal quotidiano padronale Sole24ore. Quest'ultimo si prodigava a precisare come anche i flussi delle esportazioni dal nostro paese stanno seguendo questo “nuovo ordine finanziario mondiale” e cioè aumentando la loro penetrazione in paesi come Corea del Sud e Taiwan, abbandonando invece mercati in ristagno come Sud Africa e del Brasile. Aldilà della propaganda, c'è certamente di che essere soddisfatti per le classi dominanti statunitensi ed europee. Se è vero che la condizione di aggravio della crisi, dopo il baratro del 2006-2007, rimane una costante nell'economia internazionale, nonostante i margini di crescita (comunque risicati e periodicamente rivisti al ribasso) negli Usa e nell'Ue, dall'altra parte rappresenta un risultato non da poco per i vecchi imperialisti assistere – almeno temporaneamente – al rallentamento della crescita economica di quello che doveva costituire un blocco alternativo alla loro tendenziale egemonia mondiale. Anche perché, laddove questo nemico è più aggredibile per debolezza politico-strategica, come in America del Sud, il rallentamento economico sta coincidendo con un progressivo tentativo di riconquista di influenza neocoloniale, liquidando governi e assetti di potere (i Kirchner in Argentina, il duo Lula- Roussef in Brasile) invisi agli Usa e alle potenze europee, nonché, in Venezuela, rimettendo in campo il copione della “rivoluzione arancione” contro la Repubblica Bolivariana1. Certamente infatti, parlare di Ticks è ben più rassicurante che di Brics. Si esclude dal campo dei paesi in ascesa nazioni come il Brasile, e con esso si tenta di seppellire l'ipotesi di uno sviluppo del 1 Questo tentativo di riconquista del Sudamerica non sembra dare i suoi frutti immediatamente e con la stessa efficacia in tutti i paesi. Mentre in Brasile le scelte economiche fatte dal governo brasiliano hanno fatto ben poco per risollevare le condizioni di vita delle masse popolari, in Venezuela, il governo bolivariano con Chavez prima e con Maduro poi, ha investito e puntato politicamente sulla riscossa sociale e culturale dei proletari venezuelani con riforme volte a migliorare le condizioni sociali: dalla casa alla sussistenza alimentare, dall'istruzione gratuita alle cure mediche. Questo fa si che oggi la “rivoluzione bolivariana” sia difesa dalle masse popolari che sono pronte a scendere in piazza nuovamente, contro la destra venezuelana, espressione dell'imperialismo e della borghesia compradora locale. Inoltre il controllo dell'esercito da parte del governo bolivariano, ha finora impedito il verificarsi di golpe. subcontinente latinoamericano fuori dagli artigli gringos; si depenna il Sudafrica, e con esso le velleità di indipendenza del continente nero, già pesantemente colpite con l'affossamento della Libia nel 2011; sopratutto si squalifica dall'essere una potenza economica la Russia, nel momento in cui, invece, Mosca si sta dimostrando una temibile concorrente politico-militare, con l'intervento in Siria che ha sbaragliato i piani statunitensi-europei per la regione. Si inserisce nella lista dei paesi-guida delle nazioni emergenti tradizionali satelliti yankee come Taiwan e Corea del Sud. Ma c'è qualcosa che non quadra in questa “vittoria” delle vecchie potenze imperialiste. Innanzitutto il fatto che, a denti stretti, l'India e soprattutto la Cina si confermano paesi in ascesa e dunque solo parzialmente il cosiddetto “nuovo ordine finanziario mondiale” incarnato dai Ticks esce fuori dallo sviluppo della contraddizione interimperialista rappresentata dai Brics. E poi questi Ticks sarebbero costituiti solo da paesi asiatici e dunque l'Asia costituisce, o meglio si conferma, l'area capace di mutare gli equilibri economico-politici mondiali. Difronte all'oggettività di questo dati, l'economia capitalista deve cedere il passo alla sua naturale prosecuzione, la tendenza politica generale alla guerra imperialista. Nell'ultima fase del suo mandato, Obama sta spingendo a più non posso su quel “pivot to Asia” che proprio il suo ex segretario di stato, Clinton - nonché quasi sicuramente colei che gli succederà alla presidenza – aveva annunciato nel 2011 come asse strategico della politica statunitense nei prossimi anni. Con mosse mediatiche di vomitevole ipocrisia, come la visita a Hiroshima, il caporione imperialista vuole rilanciare le strategie politico-militari per il continente asiatico, ovvero l'accerchiamento della Cina, passando per il rilancio dei rapporti con paesi come il Vietnam, che nei piani yankee va sottratto ad ogni influenza cinese e russa, dando ulteriore via libera al revanscismo di Taiwan e Giappone, adoperandosi per alimentare la faglia politica tra India e Cina e provocando una permanente condizione di guerra nella penisola coreana. E anche l'aggravarsi dell'azione militare in Afghanistan, con il tentativo disperato di venire a capo di una Resistenza che prosegue imperterrita da oramai quindici anni, fa parte integrante di questa politica, perché, ricordiamolo, il paese che subì per primo la sanguinosa “guerra al terrorismo e agli stati canaglia”, è incastonato al centro dell'Asia, tra Russia a nord, Pakistan e India a sud e Cina ad Est. Non a caso, un tempo veniva definito la “porta dell'Asia”! La Cina, dal canto suo, non sta propriamente a guardare. Dopo aver tuonato contro il nuovo governo recentemente instauratosi a Taiwan, che ha rotto il dialogo per la riunificazione avviato dal precedente esecutivo, ha condotto almeno tre prove di sbarco militare, una delle quali proprio nella provincia di Fujian, dall'altra parte dello stretto di Malacca. Dunque, una minaccia concreta e diretta alla nuova dirigenza politica dell'isola secessionista. E tanto per far capire che la continuità del blocco dei Brics non si misura solo in termini economici-finanziari, ha inviato a fine maggio navi da guerra in Sudafrica per esercitazioni congiunte con la marina militare di Pretoria. Oltre a ciò, si è presa la sua prima base militare all'estero, nell'Africa di cui oramai è il primo partner commerciale e precisamente a Gibuti, affiancandosi a quelle di Stati Uniti, Russia, Italia, Francia e Giappone, già presenti in questo paese, tanto piccolo e povero quanto strategico per il controllo dello stretto di Aden. Insomma, se la crisi capitalistica internazionale unita alle mosse strategiche in campo economico e politico ha effettivamente indebolito e disarticolato - in parte - il blocco dei Brics, certamente la tendenza alla guerra imperialista, in particolare rispetto allo scontro interimperialista, non fa che rafforzarsi. Sulla situazione interna «Sono fiducioso che una deviazione significativa sarà evitata»: queste le parole del ministro dell'economia Padoan rispetto alla offerta della Commissione europea (Ce) riguardo i conti del bilancio italiano e rispetto alla richiesta di maggiore flessibilità avanzata dal governo Renzi verso la Ue. In buona sostanza, l'esecutivo comunitario si dice pronto a concedere la flessibilità di bilancio (in tutto lo 0,85% del PIL), in cambio però di “chiari e credibili impegni” sul fronte delle finanze statali, per il 2017. La lettera inviata al governo italiano nei primi giorni di maggio conferma che il vice presidente della Commissione Valdis Dombrovskis e il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici sono pronti a concedere flessibilità nei conti economici del debito pubblico del governo italiano: lo 0,50% del PIL per quanto riguarda le riforme economiche, dello 0,25% in relazione agli investimenti infrastrutturali, dello 0,06% per i costi dovuti all'emergenza sicurezza e dello 0,04% per i costi legati alla gestione della crisi rifugiati. Nella missiva, i due uomini politici della Ce prendono atto delle difficoltà italiane a ridurre il debito pubblico (sempre superiore al 130% del PIL), tenuto conto della congiuntura deflazionistica. In cambio della concessione della flessibilità e alla luce dell'elevato debito italiano, la Commissione europea, però, vuole da parte dell'Italia un impegno “chiaro e credibile” nel risanamento dei conti, a partire appunto dalla programmata legge di stabilità per l'anno 2017. La presa di posizione è dettata – oltre che dal debito che secondo Bruxelles non scenderà tra il 2015 e il 2016 – anche da un deficit 2017 che mentre per i conti del governo italiano sarà all'1,8% del PIL, per l'esecutivo comunitario, invece, si attesterà l'anno prossimo all'1,9% del PIL. Nel contempo, la Commissione vuole anche rassicurazioni sull'aggiustamento strutturale del 2017. In questo senso, Bruxelles avverte che il previsto aumento dell'IVA non potrà essere cancellato senza misure compensative. In cambio di questa flessibilità sui conti, il governo italiano si impegna a sanare il 'gap' evidenziato da Bruxelles sul 2017, pari a 0,15%-0,20%, circa tre miliardi di euro, così da evitare un'eventuale “deviazione significativa” dagli obiettivi. Ciò significherà che nella manovra finanziaria per il 2017 il governo attuerà misure di tagli e riduzione delle spese pubbliche complessive aggiuntive a quelle già programmate per ulteriori tre miliardi di euro, misure economiche che si scaricheranno sulle già sovraccariche spalle dei lavoratori e delle masse popolari. Infatti, nonostante i continui proclami del governo renziano, l'economia italiana non vive periodi di rilancio e continua nell'avvitarsi intorno alla spirale della crisi e queste richieste nei confronti della Ue per una maggiore flessibilità, cioè più larghi margini di investimenti pubblici a favore del capitalismo nazionale, ne sono una ulteriore dimostrazione. Ma oltre alla partita da giocare in merito alla gestione della crisi economica, il governo Renzi e la borghesia imperialista italiana sono impegnate ora nella partita della ristrutturazione della sovrastruttura istituzionale e politica dello stato, in funzione dell'ottenimento di un maggiore potere decisionale e indipendenza del governo dai percorsi parlamentari. La cosiddetta riforma costituzionale Renzi-Boschi dovrà infatti passare per il referendum dell'ottobre prossimo. Una controriforma che mira ad ottenere un assetto istituzionale dello stato dove la funzione esecutiva dell'azione del governo diventa preminente rispetto a tutte le altre forme di compensazione stabilite con la precedente costituzione, in una fase contrassegnata dalla perdurante condizione di crisi e che è frutto della necessità per la borghesia imperialista di attuare misure e azioni in materia economica e sociale che non debbano essere procastinate nel tempo e che soprattutto non debbano essere messe in discussione. Un ulteriore passo verso il decisionismo governativo che ora mira a raggiungerne anche la forma giuridica e istituzionale che dovrebbe essere più consona alle necessità della borghesia imperialista. Questo progetto, comune alle altre borghesie dei paesi imperialisti, anche se magari attuato in forme diverse, si colloca in quella che viene politologicamente definita “democrazia governante”, cioé di svolta autoritaria delle funzioni dell'esecutivo rispetto agli altri ruoli istituzionali. Oltre a essere intesa come modello per compattare le varie fazioni della classe dominante e le loro rispettive rappresentanze politiche, rendendo così stabili e coesi gli esecutivi, tramite tale ristrutturazione istituzionale si vuole indebolire e reprimere la lotta di classe, impedendo preventivamente che le lotte dei lavoratori e delle masse popolari intacchino le decisioni governative assunte nell'interesse della classe padronale. In questo senso un esempio di determinazione governativa è stata dimostrata nella attuazione del jobs-act, dove il governo Renzi ha tirato dritto nella attuazione della controriforma, soprattutto a causa della mancanza di direzione coerente di un fronte di lotta da parte dei sindacati confederali. E un altro esempio ci viene dalla lotta in Francia, dove nonostante la grandiosità del livello di lotta espresso dalle masse, il governo del premier Hollande non recede dai propositi di attuazione della controriforma sul lavoro. Non è un caso, del resto, che il modello più vicino alla controriforma Renzi-Boschi sia proprio quello costituzionale francese. In questo contesto di necessità di schiacciare ogni forma di potenziale opposizione ai progetti padronali e governativi, esemplificata come detto dalla controriforma istituzionale, continua la lotta dei lavoratori metalmeccanici contro la destrutturazione del contratto collettivo nazionale imposta dalle proposte di Federmeccanica, e ribadita come necessità padronale anche nel discorso di insediamento del nuovo presidente di confindustria Boccia. La volontà di continuare nella lotta da parte della base dei lavoratori metalmeccanici è emersa con gli scioperi del 20 aprile, del 9, del 10 e del 15 giugno, che la direzione confederale ha convocato da un lato per gestire il malcontento nelle fabbriche, dall'altro per pesare nella trattativa rispetto ad un disegno padronale che, depotenziando i contratti collettivi nazionali, rischia di mettere all'angolo anche le burocrazie sindacali. Ovviamente, però, in coerenza con il loro ruolo di garanti interni del controllo sulla classe lavoratrice e della compatibilità delle sue forme di lotta, da parte della direzione dei confederali continua l'atteggiamento di non voler dare pieno corso alla battaglia contro i progetti governativi e padronali. Ne sono esempio anche i tentativi di repressione dei delegati interni della Fca di Termoli e Melfi, che stanno subendo sanzioni sindacali per aver voluto continuare con azioni di sciopero e di lotta contro il modello Marchionne, il quale impone sabati lavorativi obbligatori. Oltre al rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, che è considerato dai padroni come modello, ovviamente peggiorativo per gli interessi della classe operaia, da imporre anche al resto della totalità dei lavoratori degli altri settori della produzione e dei servizi, vi sono anche altri importanti rinnovi contrattuali in atto, come negli enti locali, nell'istruzione e nei servizi pubblici, quali quelli ambientali ed ecologici, che riguardano complessivamente circa tre milioni di lavoratori. Pure in questi settori la impostazione padronale mira ad elargire aumenti salariali irrisori (8 euro lordi mensili per i lavoratori della scuola) e interventi drastici nei livelli di contrattazione, con aumenti di orario e declassamento degli inquadramenti contrattuali, come è il caso delle associazioni padronali degli operatori ambientali (raccolta rifiuti, spazzamento, centri di raccolta, ecc). Anche in questi settori le iniziative di mobilitazione e sciopero, seppur sempre guidate in maniera maggioritaria dalle burocrazie confederali, hanno raccolto alte adesioni, dimostrando come sia chiaro ai lavoratori la necessità di difendere i propri interessi specifici sul terreno dei contratti. Oltre alle lotte per la difesa dei contratti collettivi nazionali, continuano le mobilitazioni di difesa dei posti di lavoro attaccati dalla crisi capitalista, e in questo senso citiamo la lotta dei lavoratori dei call center Almaviva, che da mesi lottano contro i 3 mila licenziamenti imposti dall'azienda e che a fine maggio scorso hanno parzialmente concluso questa fase di lotta, con l'accordo tra confederali e azienda, siglato al ministero. La mobilitazione è stata molto ampia, coinvolgendo i centri di Roma, Napoli e Palermo, con manifestazioni e picchetti partecipati e compatti. Anche in questo caso si è rivelato fino in fondo il ruolo di pompieraggio dei confederali che hanno siglato un'intesa che prevede dapprima i contratti di solidarietà, poi la cassa integrazione in deroga e infine il “ridimensionamento” degli esuberi da 3 mila a 2400, già contenuti in un precedente accordo tra sindacati e padroni di aprile. Alcune riflessioni sulle mobilitazione in Francia Come accennato precedentemente, in Francia, da più di tre mesi i lavoratori, gli studenti e le masse popolari sono in lotta contro la controriforma del lavoro, conosciuta come “legge El Khomri” dal nome del ministro che l'ha proposta, un progetto che vuole abbattere le conquiste dei lavoratori francesi in nome di maggior flessibilità e precarietà e maggiore libertà di licenziamento per i padroni. Nel progetto governativo si vogliono inoltre abbassare la remunerazione sugli straordinari, aumentare le ore lavorative giornaliere, arrivando fino a 12 e fino a 60 ore settimanali, demandandone l'attuazione attraverso degli accordi di categoria o interni azienda per azienda. Nulla di nuovo sotto il sole della crisi generale del sistema capitalista, dove i padroni attaccano le conquiste dei lavoratori su salario, orario, precarietà e licenziabilità, per garantirsi sempre maggiori margini di profitto e questi attacchi vengono portati da tutti i governi dei paesi capitalisti, tanto più dove le lotte dei lavoratori in passato hanno ottenuto maggiori conquiste, a prezzo di dure lotte e sacrifici. Ma la novità che l'esempio francese sta dimostrando è la determinazione e la radicalità della lotta espresse per la difesa delle proprie conquiste dai lavoratori e dalle masse popolari. Questa lotta ci mostra che quando la classe operaia scende in lotta compatta mette in pericolo la tenuta dei governi e dei loro progetti di controriforma. Infatti se la lotta contro la “loi du travail” è partita in primo luogo dalle mobilitazioni degli studenti e delle università delle principali città francesi nel febbraio scorso, è stato con il protagonismo della classe operaia che ha raggiunto una dimensione estesa a livello nazionale, interessando più vasti settori delle masse popolari francesi, con scioperi generali, picchetti, manifestazioni e coinvolgendo più categorie di lavoratori, dai chimici ai metalmeccanici ai lavoratori pubblici, ai trasporti fino ai piloti d'aerei e con continue manifestazioni cittadine che stanno preoccupando la gestione governativa la dell'ordine pubblico. Merito di questa lotta, infatti, è anche di essersi sviluppata rompendo la cappa autoritaria del governo Hollande, che dopo gli attacchi del novembre 2015 ha instaurato lo stato d'emergenza in tutto il paese, anche in funzione di controllo sociale e di pacificazione forzata delle contraddizioni che il sistema capitalista scarica sulla pelle dei lavoratori, per reprimere, blindare e prevenire le lotte e soprattutto l'organizzazione degli sfruttati. Questa lotta dei lavoratori francesi sta dimostrando che quando una classe lotta determinata per la difesa dei propri interessi riesce a trovare spazio per le proprie rivendicazioni anche in regime di controllo e paura, dispensate a piene mani da governo, padroni e dai loro servi (giornali, tv, forze di polizia, ecc). Nel caso francese saltano agli occhi le similitudini con l'Italia per ciò che riguarda la gestione governativa degli interessi padronali. Come diceva il padrone Agnelli: "serve un governo di sinistra per fare una politica di destra"; se Renzi ne è l'ultimo tragico esempio in tal senso nel nostro paese, anche in Francia è con il governo di centrosinistra Hollande e Valls che viene perpetrato l'attacco ai lavoratori e alle masse popolari francesi. Gli attacchi che il governo e padroni francesi stanno attuando sono gli stessi che il governo Renzi e i padroni italiani hanno attuato prima con il jobs-act e ora con il progetto di controriforma del contratto dei lavoratori metalmeccanici, che, come già affermato precedentemente, vuole demolire il salario di base e demandarne la contrattazione al solo livello interno, azienda per azienda, in cambio di maggiore produttività, ovvero di maggiore profitto per i padroni. Ma, a differenza dell'Italia, in Francia, pur in rapporto ombelicale con la sinistra di regime, il sindacato CGT (speculare alla CGIL italiana) continua ad organizzare la mobilitazione di massa, perché non vuole perdere il proprio ruolo di rappresentante generale dei lavoratori nella contrattazione con il governo, pur avendo notevoli complicità con le gestioni governative e non essendo comunque garanzia di vittoria per gli interessi dei lavoratori. Nel nostro paese, invece, la CGIL e gli altri confederali hanno sostanzialmente fatto passare in maniera supina la controriforma del jobs-act, non solo per una subordinazione di fondo ai padroni e per il rapporto stretto con il Pd, ma per gli spazi di manovra più stretti, anche per le lotte di difesa, che il capitalismo monopolista italiano oggettivamente ha rispetto, ad esempio, a quello di oltralpe. Pur essendo entrambi stretti nelle maglie della crisi internazionale, la fragilità italiana è sicuramente maggiore e conseguentemente è forte il timore confederale che, lanciando il sasso della mobilitazione, essa sfugga di mano dal loro controllo. Basti vedere che, anche in Francia, soprattutto grazie all'azione di settori di giovani proletari e studenti, spesso la mobilitazione è sfuggita di mano dalle burocrazie della CGT, con manifestazioni di conflittualità aperta che hanno fronteggiato attivamente la repressione poliziesca. Ma le lotte che si sono sviluppate in Francia ci sono da esempio per rilanciare la lotta dei lavoratori italiani per la difesa delle proprie conquiste e in tal senso sono positive le iniziative di solidarietà internazionalista che sono venute dal nostro paese, così come l'eco della mobilitazione d'oltralpe si riflette nelle mobilitazioni e negli scioperi che, ad esempio nel settore metalmeccanico, si stanno sviluppando in Italia. Come riflessione politica di fondo, va rilevato come, a fronte di una mobilitazione di massa fra le più vaste e determinate negli ultimi anni in Europa, il governo francese non abbia finora recesso dalla controriforma del lavoro, portandola avanti e rispondendo alla lotta perlopiù con azioni repressive, che sono giunte fino allo sparo di proiettili di gomma contro i picchetti e le manifestazioni di massa. Solo recentemente, per indebolire la mobilitazione generale contro la “legge El Khomri”, l'esecutivo ha svolto qualche apertura nei confronti del rinnovo contrattuale dei ferrovieri. Ciò significa che, nella situazione oggettiva della crisi, lo scontro tra lotta di classe, pur esprimendosi sul terreno rivendicativo-difensivo, e politiche governative che rispondono ad interessi strategici padronali, tendenzialmente non porta a cedimenti da parte degli esecutivi, irregimentati dalla stretta necessità di colpire la condizione dei lavoratori per aprire nuovi margini di profitto ad un capitalismo permanentemente boccheggiante. Dunque, per i comunisti, le lotte di massa - soprattutto nella fase attuale - si confermano come “scuole di comunismo”, diventando lo strumento per l'avanzamento nella coscienza, nell'esperienza e nell'organizzazione della classe, pur anche nelle sconfitte o nelle vittorie parziali che esse strappano. Questo a patto che le avanguardie politiche della classe riescano a relazionarvisi e dunque a costruire internità, dibattito e percorsi che da un lato si stringano a queste lotte di massa e dall'altro siano volti a costruire le condizioni per accumulare forze in senso rivoluzionario, anche rilanciando la prospettiva della presa del potere da parte dei proletari, per l'abbattimento di un sistema basato sulla sfruttamento. Dobbiamo lottare per difendere le nostre conquiste ben consci che da questi esempi di lotta di classe, da questa scuola delle lotte, deve rinsaldarsi la coscienza che è solo con la lotta per il comunismo che potremo fare gli interessi reali, strategici e generali del proletariato. RAFFORZARE LE LOTTE NEI POSTI DI LAVORO PER DIFENDERE LE NOSTRE CONQUISTE! CONTRASTARE CON LA LOTTA DI CLASSE I PROGETTI AUTORITARI DEI GOVERNI IMPERIALISTI! IN ITALIA COME IN FRANCIA, SCIOPERO GENERALE CONTRO PADRONI E GOVERNO PER DIFENDERE I CONTRATTI COLLETTIVI! RILANCIARE IL MOVIMENTO CONTRO LA GUERRA IMPERIALISTA! FARE DI OGNI LOTTA UNA SCUOLA DI COMUNISMO! Collettivo Tazebao, 16 Giugno 2016 [email protected] www.tazebao.org