Numero Luglio/Agosto `10

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Numero Luglio/Agosto `10
Luglio/Agosto '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Luglio/Agosto '10
Numero Luglio/Agosto '10
EDITORIALE
Nonostante la temperatura torrida e l'umidità ben oltre i livelli del sopportabile, rieccoci qui
con un altro numero di “Fuori dal Mucchio”, l'ultimo prima delle tanto agognate vacanze
estive. E, per farvi compagnia al mare, ai monti oppure ovunque deciderete di trascorrere
questi due mesi, cosa c'è di meglio della solita, abbondante infornata di recensioni, articoli e
interviste incentrati sulla crema di quanto il panorama rock (in senso come sempre quanto
mai lato) italiano ha da proporre?
Per una volta, poi, approfittiamo di questo spazio per segnalare un'iniziativa che ci pare
degna di nota. Il nome del progetto è “La stagione della beneficenza” e vede coinvolto il
chitarrista Mike 3rd insieme alla cantante statunitense Cheryl Porter, gli Hypnoise e gli
Ex-KGB, impegnati con un brano a testa in vendita su iTunes, i cui ricavati andranno
all'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro nel primo caso, a Greenpeace negli altri
due. Detto che la causa è nobile, e il livello delle proposte è mediamente apprezzabile,
maggiori informazioni possono essere trovate qui:
www.synpress44.com/01Comunicati.asp?id=325.
Non ci rimane quindi che augurarvi come sempre buona lettura e buoni ascolti, oltre che
naturalmente buona estate. E a ritrovarci qui ai primi di settembre, per iniziare insieme una
nuova e immaginiamo ricchissima annata musicale.
Aurelio Pasini
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Arbe Garbe
I friuliani Arbe Garbe, sempre alla ricerca di contaminazioni interessanti, mentre pensavano
al loro sesto album hanno trovato lungo la loro strada il musicista statunitense Eugene
Chadbourne e così con il folk, la musica popolare e l’eccentricità come comune
denominatore, è nato un progetto e dopo due live un disco: “The Great Prova”, appena
uscito per CPRS/Venus. Ne parliamo con Federico Galvani.
Voi Arbe Garbe con Eugene Chadbourne, sicuramente avete in comune la voglia di
fare musica festante e giocosa anche un po’ circense. Come si è concretizzata questa
collaborazione?
La collaborazione con Eugene è avvenuta perché bazzicava per il Friuli. Lui suona in tutto il
mondo e fa dei tour lunghissimi. Penso suoni due giorni su tre in questi suoi tour, l’anno
scorso avevamo fatto un laboratorio assieme di improvvisazione e poi registrato “Birthday”
dei Beatles, perché uno di quei giorni sua figlia compiva gli anni e lui voleva regalarle una
registrazione. Questo anno abbiamo pensato di proporgli un live assieme con metà
repertorio a testa e ha detto di sì. Quindi noi felicemente abbiamo fatto due concerti: uno a
Trieste e uno a Udine e siccome il risultato ci sembrava buono abbiamo anche registrato.
Infatti avete avuto questa esperienza di suonare qualche data assieme, ma prima di
salire sul palco vi davate direttive da seguire?
No. Era tutto molto easy. Una delle più belle frasi di Eugene è stata: “I believe in freedom/ Io
credo nella libertà” ed è una delle persone più anarchiche che io abbia mai conosciuto. Un
fricchettone di quelli veri, controcultura americana tout court, per cui tutto quello che è
venuto fuori è stato messo su disco. Abbiamo giocato senza prevenzione. Tanto è vero che
il disco si intitola “The Great Prova”, perché noi avevamo riarrangiato i suoi pezzi, poco
prima che venisse e lui si è inserito improvvisando sui nostri. Una prova buona e via quindi,
ed è stato bello perché siamo partiti e già dopo il primo pezzo eravamo un gruppo.
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E dopo il concerto cosa vi dicevate? Vi scambiavate complimenti, critiche?
Beh, il risultato del concerto è stato apprezzatissimo anche da lui. Tra l’altro noi siamo stati
molto onorati di riprendere alcuni suoi pezzi che lui aveva registrato con gente dei Violent
Femme in alcuni dischi, quindi abbiamo messo mano, dove già dei mostri sacri avevano
lavorato prima di noi. E poi lui era felice quindi ci ha detto: “you are like my brothers” poi ci
ha guardati e ha aggiunto: “maybe my sons”, ha corretto il grado di parentela visto l’età un
po’ avanzata. Poi siamo ritornati a casa e siamo rimasti venticinque minuti a fotografare una
papera, perché alle due del mattino, non so come, dai campi da dove venivamo noi,
abbiamo visto una papera in mezzo alla strada che continuava ad anticiparci con
l’automobile, quindi questo è stato il ritorno rocambolesco dopo il concerto alle tre del
mattino abbiamo una foto di Chadbourne che fotografa una papera illuminato dai fari della
mia automobile.
Voi avevate visto Eugene Chadbourne, suonare prima di questa collaborazione?
Si, l’avevamo visto suonare. Tra l’altro io ricevetti un suo CD per un regalo di compleanno
da un mio amico, Max Mauro che suonava in un gruppo di qua di punk che mi regalò il disco
stampato all’epoca da Marco Pandin che è un personaggio del Veneto che si occupa di
musica underground. Ascoltai questo uomo strano tra Capitan Beefheart e contaminazioni
varie e rimasi abbastanza illuminato. Ha iniziato con John Zorn o John Zorn ha iniziato con
lui, in rapporto a chi la racconta credo e da qui ha collaborato con tutto l’underground
americano che per noi è stato la bibbia, da Jello Biafra ai Camper Van Beethoven che erano
i gruppi con cui bene o male, siamo cresciuti musicalmente.
Nel disco oltre a mescolarsi i generi, si mescolano anche diverse lingue, ma
Chadbourne vi chiedeva il significato delle parole quando ad esempio cantavate in
friulano?
Sì e questo è un altro motivo per il quale questa collaborazione è andata in porto, credo in
ottima maniera. Lui come noi è estremamente curioso e come tutti gli esseri umani ce l’ha
nel dna di apprendere abbastanza facilmente idiomi e lingue diverse quindi è assolutamente
incuriosito dal friulano o dallo sloveno e noi in questi anni abbiamo avuto la fortuna di
suonare, di avere legami con il sud America, con l’Argentina, con i Balcani o con il mondo
slavo, quindi abbiamo dovuto incominciare se non altro ad apprendere dei linguaggi che poi
abbiamo fatto nostri nella composizione.
Dov’è stato registrato il disco precisamente e com’è andata?
Il disco è stato registrato in due teatri: al Teatro Miela di Trieste e in un Auditorium
Comunale a Pagnacco vicino Udine. Per il CD abbiamo utilizzato solo la seconda delle due
date, il nostro fonico Marco Beltramini ha fatto le prese e il lavoro di missaggio insieme ad
Armellini, altro fonico di Udine. Dopodiché abbiamo fatto il mastering finale a Milano da Gigi
Galmozzi che è il fonico dei TARM con il quale collaboriamo già da un paio di dischi e che
ha dato il colore finale al lavoro sostanzialmente. Questo disco è gustosamente sporco
perché è un live dove c’è l’improvvisazione in maniera costante, ed è un disco che ha un
anima perché ci sono anche degli errori ma è fatto come nel jazz dove tutto quello che c’è lo
tieni.
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Come avete deciso che canzoni fare?
Le canzoni di Chadbourne vengono fuori da una selezione che avevamo scelto e che gli
abbiamo sottoposto. I nostri invece sono i pezzi più vecchi, perché quelli nuovi tendono ad
usare più idiomi, più lingue, più dialetti ecc. invece abbiamo scelto quelli più vecchi perché in
qualche modo volevamo radicare la cosa, perché Chadbourne è un radicato cantore di
musica folk popolare e quindi ci sembrava giusto dargli il nostro repertorio più tradizionale da
masticare in qualche modo.
Voi Arbe Garbe quando farete il prossimo album ufficiale?
Quest’estate testeremo nei live i pezzi nuovi e penso entro un anno, tempo di rivedere
alcune cose, l’album sarà pronto. Comunque Chedbourne, ci ha dato la possibilità di
contaminare ulteriormente il nostro suono e di poter offrire una scelta di generi più vasta,
rispetto a quella che avevamo un tempo quando eravamo focalizzati sul folk.
Invece la copertina chi l’ha curata?
Cecilia Ibanez che è una fotografa argentina con la quale collaboriamo già da tempo che in
Italia sta lavorando anche abbastanza bene con vari gruppi, collabora con la Tempesta,
quindi anche coi Tre Alelgri Ragazzi Morti. Abbiamo fatto insieme tra l’altro un libro
fotografico su un tour che avevamo fatto in Argentina. La scelta della capra in copertina
rimanda all’immagine ruspante che comunque voglia ci dobbiamo rassegnare ad incarnare e
l’art work è di Lorenzo Manià: un disegnatore di Udine ci ha dato una mano a rendere bene
l’idea della capretta che a noi piace tanto.
Contatti: www.arbegarbe.com
Francesca Ognibene
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Dino Fumaretto
Anticonvenzionale scambio di e-mail con l’anticonvenzionale cantautore Elia Billoni, alias
Dino Fumaretto. Al suo esordio ufficiale con il brillante, imprevedibile “La vita è breve e
spesso rimane sotto” (Trovarobato/Audioglobe).
Come si sono conosciuti Elia Billoni e Dino Fumaretto?
Dino è mio concittadino, ma ci siamo conosciuti a Roma, ognuno era lì per scopi diversi, e
mentre diversamente fallivamo ci siamo uniti artisticamente.
Cosa pensa Elia di Dino e cosa pensa Dino di Elia?
Io penso che Dino sia un autore tra i più interessanti in circolazione, ma gli manca forse un
po’ di ironia, quella ce la metto io nell’interpretazione. Lui di me pensa probabilmente molto
bene, visto che mi ha affidato le sue canzoni, e però dice che faccio troppo il pagliaccio.
A partire dal 2005 Elia è divenuto interprete delle opere di Dino, che però nasce come
autore già nel 2002. Si può riassumere cosa è successo in questi otto anni?
Nel 2002 Dino teneva un blog: era il periodo in cui ancora andavano molto di moda (il
Facebook di allora, diciamo), e Dino ne faceva la parodia, schematizzando i sentimenti,
fondando senza soluzione di continuità periodi depressivi, periodi regressivi, eccetera. Era
molto divertente, ma anche inquietante e schizofrenico. Noi ci siamo conosciuti allora. Ci
siamo confrontati per due/tre anni e poi abbiamo tentato questo sodalizio. Io ho cominciato a
suonare in giro, facendo molte aperture “eccellenti” tra cui quella a Vinicio Capossela. Ho
autoprodotto un album, “Buchi” (ora esaurito), e finalmente siamo arrivati all’esordio ufficiale
con Trovarobato.
È stato difficile mettersi d’accordo su una formula scarna, basata prevalentemente
sul binomio voce/pianoforte o viceversa è stata una scelta naturale?
Ero molto solo prima di conoscere Dino, registravo a casa mia su cassetta dei versi senza
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senso accompagnandomi con un pianoforte “tribale”. Dino ascoltò i nastri e pensò che
questo fosse il modo giusto per interpretare le sue canzoni.
Il disco, registrato in un solo giorno, propende per arrangiamenti prossimi alle
teatraleggianti esibizioni dal vivo: a entrambi piace più stare sul palco che in studio?
Dino non si è mai visto sul palco né tantomeno in studio. Quindi a lui non interessa niente di
tutto ciò. In studio non ho particolari difficoltà, ma ancora non mi sento di aver trovato la
chiave giusta, mentre sul palco ho più dimestichezza.
Hai suonato e prodotto tutte le canzoni in completa autonomia: un’esigenza pratica o
una necessità artistica?
Tutt’e due le cose.
A proposito dei video realizzati per “Nella casa” e “Nuvole e meraviglia”: si diverte
più Elia a girarli o Dino a interpretarli?
Dino non interpreta proprio nulla. Anche qui sono sempre io che faccio tutto. E i video sono
frutto della mia mente, e della mia ritrovata autonomia degli inizi: faccio tutto io,
interpretazione, cameraman, montaggio, tutto rigorosamente con Windows Movie Maker.
Sul piano dei testi, surreali e curatissimi, qual è la procedura? Le varie immagini
sono ispirate da fatti di vita vissuta o da ciò che ci circonda? Chi ti piace oggigiorno
in Italia come paroliere?
In genere sono tante cose mischiate insieme: angosce personali, fatti d’attualità, idiozie
quotidiane, e un pizzico di rabbia. Si mettono sul tavolo tutte queste cose, lasciandole lì. Il
giorno dopo le si riprende, le si elabora, si taglia molto, si ricuce, si aggiunge sarcasmo
dovuto al distacco di un giorno, e presto o tardi nasce una canzone, a volte completamente
diversa dalle premesse iniziali. Secondo me i migliori a scrivere parole sono Emidio Clementi
e Alessandro Fiori.
Chi fra Elia e Dino è più ironico e chi, invece, è più cinico, dato che “La vita è breve e
spesso rimane sotto” congiunge al meglio le due caratteristiche? Chi è più ottimista e
chi più pessimista, dato che la descrizione della società è desolante ma vi sono
occasionali raggi di luce?
Cinico è Dino Fumaretto, che non si preoccupa più di niente e di nessuno da un sacco di
tempo. È scomparso, le canzoni le ho dovute depositare a nome mio, perché Dino non si fa
trovare. Non è secondo me questione di ottimismo o pessimismo, ma di difendersi con il
paradosso e la risata. E per farlo si finge di essere più tristi di quello che si è... ma lo
sberleffo è sempre dietro l’angolo, come la morte per la vita.
Spesso chi esprime concetti col sorriso sulle labbra, seppur di spessore, non viene
recepito correttamente: o si è demenziali, o si è iper-seriosi. Come calza addosso a
Elia/Dino la definizione, per quanto estremamente sopra la righe, di cantautore? Ed è
più importante concentrarsi sulla robustezza strutturale del songwriting oppure sulla
stravaganza delle soluzioni sonore/liriche?
“Cantautorale”, purché ri-vitalizzato, ci può stare, demenziale meno. È vero che si fa più
fatica ad accettare chi si muove in bilico tra il patetico e l’ironico. A me quello che interessa è
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proprio questo camminare sul filo, e credo che sia importante tanto nella stesura della
canzone quanto nel suo accompagnamento sonoro: il pianoforte, strumento classico ma
suonato in modo arcaico, “punk”, è per me la migliore soluzione per le canzoni di Fumaretto.
Per ora. Ma in futuro si cambierà per forza.
Dagli studi al Conservatorio all’ambiente indie: come è stato vissuto il radicale
cambio di scenario?
Al Conservatorio, dico la verità, non ho mai studiato molto. L’approccio con il mondo indie è
stato buono: quando ho cominciato a suonare in giro era un momento favorevole per i
“singoli”, grazie a pionieri come Dente, che hanno riportato in auge il cantautorato (fino a
qualche anno prima uno che si presentava come cantautore rischiava il linciaggio).
“La vita è breve e spesso rimane sotto” è uscito per Trovarobato, una delle etichette
italiane, grazie a dio, più originali e coraggiose. Durante le registrazioni del disco, poi,
si legge che Enrico Gabrielli è passato in studio per ascoltare il tutto. Com’è muoversi
all’interno della factory dei Mariposa? Sulla carta ci sono sicuramente delle forti
affinità...
I Mariposa sono stati uno dei primi gruppi che ho visto dal vivo quando mi affacciavo
timidamente nel mondo dell’indie. Rimasi folgorato, volevo che mi producessero il disco.
Loro invece non volevano. Perciò quando l’anno scorso mi hanno proposto un contratto mi
sono sentito come un discepolo discolo che è maturato agli occhi del profeta. Sono
soddisfazioni.
Contatti: www.dinofumaretto.com
Elena Raugei
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Guignol
Terzo album dei Guignol, “Una risata... ci seppellirà” (CasaMedusa/CNI) è l’episodio più
“rock” nel percorso del quintetto milanese. Come ci conferma il frontman e paroliere
Pierfrancesco Adduce, la band non rinuncia a raccontare ” la commedia oscena del potere
con le sue tragicomiche maschere”.
Inizierei dal brano d’apertura del vostro nuovo album, “Cristo è annegato nel Po”,
una risposta al Cristo fermatosi a Eboli di Levi... Un pezzo animato da personaggi
come monsignori, milionari, tronisti. Ce lo racconti?
L’accostamento col Cristo di Carlo Levi è impegnativo, semplicemente ho voluto
scaraventare la figura religiosa, sacra per eccellenza della nostra cultura, in un paese, il
nostro, che lo strumentalizza a fini politici, di propaganda, per alimentare odio e avversione
verso ogni forma di diversità, etnica, religiosa, di pelle, per il calcolo di un facile consenso in
un momento di grave degrado culturale, sociale, economico. Il simbolo della misericordia
che si ritrova a passeggiare intorno al Po, non a caso, arbitrariamente adottato come
simbolo invece di una fasulla, becera rivendicazione identitaria da parte di certa politica che
purtroppo ci governa. Cristo, lo straniero, sacrificato ancora da chi ne fa vessillo da
sventolare in faccia a immigrati, stranieri e minoranze in genere, la negazione di ogni alterità,
comprensione e misericordia, con l’odio a fare da strategico ingrediente, specie se abilmente
manipolato dai media.
Per il titolo di questo lavoro avete scelto uno slogan sessantottino del maggio
francese. È una speranza, una certezza, un timore, cosa?
Lo slogan è stato sessantottino e anche di più lontana provenienza anarchica francese mi
piace ricordare, ma il senso voleva essere più ironico che politico. Non è una certezza, ci
mancherebbe, è un auspicio: speriamo sia una risata e non qualcos’altro a seppellirci!
Voleva essere anche letto come una presa di responsabilità questo titolo, una risata ci
seppellirà, perché riteniamo di essere tutti, in misura diversa, dentro e fuori e a vario titolo
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partecipi o in qualche modo colpevoli dello sfacelo di questo paese.
È sempre più difficile raccontare l’Italia. La cronaca è disarmante, la satira si spunta
da sola perché l’oggetto della satira è... troppo. Si avverte nelle vostre canzoni un
sarcasmo addolorato. Il vostro sguardo è quello di Guignol, una marionetta. Come
pensate si possano narrare oggi le nostre italiche miserie?
Non lo sappiamo, partendo da noi stessi, suppongo. Ci limitiamo a usare il linguaggio che ci
è proprio e proviamo a raccontare il nostro tempo in questo luogo, con i suoni e le canzoni,
spesso scritte come brevi narrazioni dal tono farsesco, tragicomico a volte con richiami
simbolici. Proviamo, senza troppe pretese, ad essere testimoni di quello che accade e così
facendo parliamo anche di noi stessi, in fin dei conti.
È questo il primo album, se non sbaglio, a non essere prodotto da GianCarlo
Onorato. Com’è andata in cabina di regia? E senza limiti per la fantasia, da chi vi
piacerebbe farvi produrre?
È andata ottimamente. Avevamo le idee molto chiare il resto è venuto da sé. È stata
l’esperienza di studio più appagante mai affrontata finora. Francesco Campanozzi e Paolo
Perego poi hanno coordinato, seguito tecnicamente e partecipato anche artisticamente alle
varie fasi. Non sapremmo dirti da chi ci piacerebbe farci produrre... magari un mix tra
Giovanni Ferrario, Hugo Race e Mauro Pagani forse. Con un tocco perverso di Jon Spencer
a chiudere!
“Polli in batteria” è un altro pezzo importante. Richiama i versi di copertina, tratti da
Gozzano: “che l’esser cucinato non è triste, triste è il pensare di essere cucinato”.
Possiamo anche ripensare al Gaber di “Polli di allevamento”? Cosa volevate
rappresentare?
“Polli in batteria” è stata scritta prima di pescare quei versi di Gozzano per la copertina,
recuperati poco prima di stamparla. Parla di alienazione lavorativa tipica, di quella per cui
non riconosci più nemmeno di essere ridotto come un automa ignaro perfino dei tuoi stessi
diritti, intendiamo quelli scritti, incapace a rivendicarli e più in generale incapace a prendere
coscienza che insieme, uniti si potrebbe anche ricominciare a dire, se non un grosso
“vaffanculo”, perlomeno un più dignitoso oltre che ragionevole “NO”. Almeno ogni tanto! In
questo si, può ricordare Gaber, ma il testo nasce da esperienza diretta nostra, quotidianità
lavorativa stile call center...
Mi sembra che vi siate allontanati da certe tinte più scure, in favore di un
folk-punk-rock rumoroso, vitalista. Nick Cave, sì certo, ma anche Bennato, il
rock’n’roll, la musica nera, gli Stones... Quali sono i vostri ascolti-chiave, le influenze
che vi mettono tutti d’accordo?
Quelli che hai citato ci sono tutti, la musica nera ultimamente ci preso di più la mano, il
garage, certo funky dei ‘70, la canzone d’autore italiana di sicuro, il punk dei ’70 e il post
punk dagli ’80 in avanti. C’è tutto questo e c’è sempre il blues a cucire un po’ insieme
Avvertite di appartenere a una scena? Se sì, quale? A quali autori/musicisti italiani vi
sentite affini o contigui?
Non ci sentiamo di appartenere ad alcuna scena e non ce lo siamo mai posto come
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problema, probabilmente pagandone anche qualche conseguenza, precisando che tutto ciò
non è dovuto a snobismo. Partiamo da Milano ma con Milano non abbiamo mai avuto un
particolare feeling, né il tempo per coltivarlo e ultimamente le cose sembrano pure
peggiorate! Andiamo molto più spesso fuori e spesso con esiti migliori. Ci sono musicisti con
cui avvertiamo affinità, tipo Amaury Cambuzat degli Ulan Bator o il cugino François
dell’Enfance Rouge, i LO.MO, gli Hikobusha, Fabrizio Coppola, gli Zen Circus forse, Lilith &
The Sinnersaints, Cesare Basile, Bachi da Pietra, Movie Star Junkies tra gli ultimi ascoltati.
Ecco, due amici che hai appena citato lasciano l’impronta: Cesare Basile che
macchia di allucinazione “12 marmocchi” e Amaury Cambuzat che rumoreggia, dilata
e incendia gli undici minuti finali del disco. Come nascono collaborazioni così?
Molto spontaneamente, ci si incrocia abbastanza spesso in giro, sono amici e persone
aperte e disponibili, quindi, tra un bicchiere e l’altro,essendo anche musicisti che stimiamo
molto viene facile invitarli a dare un contributo.
Siete un quintetto “democratico”? Come componete?
Sostanzialmente si. Generalmente io porto in sala testi e linee armoniche di chitarra su cui
poi lavoriamo tutti insieme arrangiando e costruendo la struttura ritmica, i suoni ecc. Talvolta
capita che da improvvisazioni in sala nascono i brani a cui aggiungo poi il testo
successivamente.
Come portate dal vivo “Una risata... ci seppellirà”?
Siamo già in tour dalla fine di marzo, appena dopo uscito il disco. Quando siamo al
completo, con un quintetto, batteria, basso, organo, due chitarre, voce con cori spesso a
sostegno, un insieme molto fisico, molto rock ‘n roll, con passione e intensità, come abbiamo
sempre cercato di fare in tutti questi anni.
Contatti: www.guignol.it
Gianluca Veltri
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Lombroso
Con i Lombroso si parla del nuovo “Una vita non mi basta” (Niegazowana/Venus), della
scena cantautorale milanese e dei Novanta di Afterhours e compagnia.. Sempre a volume
alto e col piede che tiene il ritmo di un groove ai confini con la melodia.
“Una vita non mi basta” suona decisamente più corposo rispetto agli episodi
precedenti, grazie a una ricchezza strumentale sempre meno da duo e sempre più da
band a tutti gli effetti. Che peso hanno avuto i contributi dei vari Enrico Gabrielli ed
Enrico Molteni - solo per citare un paio dei collaboratori - nell'ottica di un disco che
vive anche di sfumature oltre che, come di consueto, di groove?
Gli arrangiamenti sono stati importantissimi e ci hanno permesso di impreziosire brani che
principalmente erano eseguiti in sala da un trio, dal momento che sia in fase di stesura che
di registrazione dell'album ha partecipato il bassista Matteo Castiglioni (che ci accompagna
anche dal vivo). Tutto è nato in maniera spontanea, visto che ci si trova spesso a suonare
con questi musicisti e il rapporto è ormai qualcosa di ampiamente rodato.
Il terzo disco è da sempre un banco di prova fondamentale per una band. Come
giudicate il lavoro fatto e in cosa credete che il gruppo si sia evoluto rispetto agli
esordi?
Se un'evoluzione se c'è stata, lo lascio dire agli esperti. È il nostro terzo disco ed e'
completamente diverso dai due precedenti. Siamo piacevolmente sorpresi del risultato finale
e lo diciamo perché in un certo senso abbiamo capito cosa fosse solo a registrazione
ultimata. In sala di registrazione abbiamo cercato di lasciare molto spazio alla creatività,
senza esagerare con la pre-produzione. Tutto questo fa un po' parte del nostro stile anche
dal vivo, visto che suoniamo senza scaletta e ci piace improvvisare. Troppa disciplina ci
renderebbe meno vitali.
Per il disco vi siete affidati a Taketo Gohara, lo stesso produttore che ha curato
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l'esordio solista di Edda. Eppure il vostro stile va da tutt'altra parte rispetto a quello
dell'ex Ritmo Tribale, visto che rincorre un funk-rock-blues elettrico di ispirazione
Seventies. Cosa vi ha spinto a fare questa scelta?
Con Taketo è il terzo disco che facciamo. Ci si conosce da molti anni e lui sa come tirare
fuori il meglio da noi. Nel suo lavoro riesce a spaziare da un'atmosfera all'altra e non è
legato a un solo genere musicale.
Estrema varietà formale, richiami stilistici tra i più disparati e una vena melodica
obliqua ma credibile. Ma come nasce un brano dei Lombroso?
Sempre in maniera diversa e in qualche caso da un semplice giro di chitarra acustica. In
realtà, un brano diventa veramente “lombrosiano” solo quando lo suoniamo con
l'amplificatore e la batteria. È bello pensare di avere un suono riconoscibile, come potrebbe
confermarti anche chi ci segue.
Un altro termine di paragone per il vostro sound è indubbiamente il Battisti dei primi
dischi (e azzardiamo anche un Alberto Fortis). La naturale conclusione a cui si arriva
è quella che rock e canzone d'autore (o per lo meno pop alto) possano felicemente
convivere...
Questo e' un complimento che ci lusinga. Sicuramente a noi piace la forma canzone, ma è
anche vero che ci poniamo l'obiettivo di suonarla in maniera un po' aggressiva. Sempre in
funzione di una melodia vocale forte, a completamento di un binomio inscindibile.
Milano sembra diventata una succursale del Premio Tenco: cantautori in ogni dove e
una girandola di stili diversi. Formazioni come i Baustelle e gli Amor Fou ibridano
flessibilità pop e impegno, i Cosi recuperano la tradizione dei Modugno innervandola
di nuovo vigore (nostalgico), Cesare Basile richiama il De Andrè più scuro, voi
combinate melodia e rock enciclopedico. A cosa credete sia dovuto questo nuovo
fermento attorno alla tradizione cantautorale?
Credo che dipenda dal fatto che i nomi che hai citato abbiamo composto bellissime canzoni.
Ogni autore contemporaneo ha bisogno di avvicinarsi a uno stile che si trasforma in
fondamenta. Una certezza a cui ispirarsi per poi crescere autonomamente, con l'idea di
scrivere qualcosa di ancora superiore.
Nei Novanta Milano è stata un po' il centro nevralgico del rock indipendente italiano.
Qual è attualmente la situazione di una delle scene artistiche più floride del Paese dal
punto di osservazione privilegiato di musicisti che nelle formazioni protagoniste di
quel periodo hanno effettivamente militato e in cosa si differenzia rispetto a un
decennio fa?
Nei Novanta la musica milanese sembrava qualcosa di veramente innovativo e in
controtendenza con il resto della scena musicale italiana più classica. Ci sono voluti anni per
farla conoscere, i locali erano diversi e si trovava molto spazio anche nei centri sociali. Oggi,
invece, tutto sembra più prevedibile e in linea con una concezione di musica di massa...
Contatti: www.myspace.com/duolombroso
Fabrizio Zampighi
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Marco Iacampo
Marco Iacampo è stato cantante degli Elle e poi songwriter in proprio col nome
Goodmorningboy. Chiusa quest'ultima esperienza, il Nostro è andato alla ricerca di una
dimensione nuova e pare averla trovata con questo disco, pubblicato a suo nome (da
Adesiva Discografica/Edel) e cantato in italiano, un lavoro che segna il netto avvicinamento
ad una dimensione pop più lineare e immediata ma non per questo meno densa, una nuova
vita artistica nel quale l'artista si riconosce per la prima volta pienamente, di cui ci ha parlato
rispondendo alle nostre domande.
Ti lasciamo Goodmornigboy e ti ritroviamo Marco Iacampo, per di più con canzoni
scritte in italiano. Un mutamento di cui avevamo avuto un assaggio con l'inclusione di
“Che bella carovana” ne “Il paese é reale”, brano che apre questo disco. La domanda
è: che cosa ti ha spinto a cambiare rotta e a compiere una scelta di questo tipo, a suo
modo rischiosa e di certo non automaticamente “premiante”?
Cercare la mia voce. Parlare con parole sincere e coscienti, nella mia lingua e con una
musica che oltre alle influenze dovute alle mie passioni e alle mie conoscenze avesse anche
un gancio con la realtà in cui vivo. È stato un processo naturale, artistico. Rischioso si, ma
non c'erano altri posti verso cui potevo andare. Tom Joad, da “Furore” di Steinbeck, mi ha
insegnato che “non serve coraggio a fare una cosa che devi fare per forza”. Aggiungo che
serve fede per restare attaccati alla strada. Per quanto riguarda i “premi”, per me uno grande
è già arrivato: fare certi passi, vale a dire crescere e migliorare. Per l'oro c'è ancora tempo.
Le registrazioni sono frutto di un sodalizio artistico piuttosto stretto con Paolo
Iafelice, ingegnere del suono dello Officine Meccaniche. Un rapporto che immagino ti
abbia portato a volerti confrontare anche con una impostazione musicale un po'
diversa rispetto a quella che avevi con Goodmorningboy, che non era per forza meno
“tecnica” o “commerciale” ma di sicuro si muoveva in direzioni molto diverse...
Ognuno su Goodmorningboy la pensa come vuole, io so solo che ad un certo punto mi dava
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troppo poco. Il livello espressivo e tecnico della cosa era diventato per me insoddisfacente.
Era un prodotto affascinante ed evocativo, ma in cui non mi sono mai riconosciuto
veramente, e che ad un certo punto non faceva più per me. Poi mi son fermato, ho respirato
e mi son rimesso in cammino. Per questo disco avevo bisogno di affidarmi ad un produttore
sensibile che oltre che ad aiutarmi a fare un bel disco a livello sonoro cercasse di entrare in
quello che stavo cercando nelle canzoni, che sentisse dove stava andando la mia voce.
Paolo ha lavorato con quelli veri, e me ne sono accorto subito.
Ci sono stati cantautori che in qualche modo ti hanno accompagnato in questa
riscoperta dell'italiano, una lingua che già utilizzavi con gli Elle ma che qui utilizzi in
modalità, se mi consenti, più classica?
Per scrivere queste canzoni mi son fatto ispirare dalla storia della canzone americana, dalle
ballate folk italiane, dai proverbi del nord e del sud e dalla lingua che parlavo e che sentivo
tra la gente. Qualche cantautore nostrano l'ho ascoltato, ma senza particolari attaccamenti.
Sono nella catena della canzone italiana, ma mi faccio ispirare di più da quello che voglio
dire e dalla musica che voglio suonare (ma penso questo lo facciano anche gli altri a cui
guardo). Classico è una parola che mi piace molto. È questo quello che sono, è questo
quello che ho negato per tanto tempo.
Mi pare di percepire, nei testi i testi, una certa spinta a trovare una chiave universale.
Sono storie personali ma volutamente scritte in un linguaggio accessibile. Non è una
semplificazione o un cedimento ad esigenze mercantili, ma proprio un tentativo di
arrivare ad un pubblico più vasto possibile. È così?
Penso che le parole che uso le possa capire chiunque, anche uno straniero. Ho sempre
scritto di cose personali, sia con gli Elle che con Goodmorningboy, ma la scelta del
linguaggio era sempre una maschera, sia nei confronti di me stesso che nei confronti degli
altri. Ora uso parole semplici, quelle che mi piacciono e quelle che mi fanno esprimere
meglio. Che la tua musica arrivi a più gente possibile è un fatto normale, ma non è la molla
che mi ha fatto scrivere le canzoni. Certo è che cercando insieme qualcosa di personale e
universale si può “incappare” in un linguaggio semplice.
 Lì mi son fermato e ho
trovato casa. Tendo a scrivere partendo da come parlo e poi cercando di trovare qualcosa in
più.
Contatti: www.adesivadiscografica.com
Alessandro Besselva Averame
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Speedjackers
Dopo il mini-album di debutto “Secularization” e l’EP “Feeling You”, entrambi del 2008, gli
Speedjackers ci provano sulla lunga distanza col nuovo “Favourite Sons” (New Model
Label). Il suono della band vicentina è un rock’n’roll che mischia vecchio e nuovo, garage e
un pizzico di punk in lunghe cavalcate veloci e prepotenti.
Un anno fa Giorgio Sala vi chiedeva se foste soddisfatti di “Secularization”. Allora
aggiorno la domanda: soddisfatti di “Favourite Sons”? Reazioni ne avete già avute?
Ricordi delle session?
Sì siamo parecchio soddisfatti del risultato finale, anche perché questo giro abbiamo potuto
lavorare nella registrazione dall’inizio alla fine all’Hate Studio e ciò ha inevitabilmente
premiato una maggior cura dei suoni e una maggior attenzione sui piccoli particolari. I
precedenti dischi invece erano stati registrati in home studio solo di sera, dopo il lavoro, in
tempi più diluiti e non concentrati in due settimane come con il nuovo album. La gente è
contenta del disco, ne abbiamo venduti già molti contando che l’abbiamo presentato solo a
febbraio. Ricordi sella session ne abbiamo pochi, sarà a causa di tutta la birra che abbiamo
bevuto in studio.
Avete due EP, o mini album, alle spalle. Stavolta, invece, fate uscire un disco di tre
quarti d'ora e pregno di suoni. Come cambia, al momento di fare un disco “vero”, il
modo di comporre e di progettare il lavoro?
Beh diciamo che al giorno d’oggi registrare bene un disco è un investimento ed è giusto
metterci tutta la nostra visone musicale, avevamo voglia di metterci ancora più d’impegno
perché credevamo nelle canzoni che stavamo scrivendo, e la miglior maniera per valorizzare
i propri brani è proporli in un album che ha sicuramente un aspetto più professionale di
quello di un EP, senza nulla togliere all’esistenza degli EP ovviamente. C’è da aggiungere il
fatto è che da un anno e mezzo a questa parte abbiamo una procedura di scrittura brani
abbastanza efficacie, nel senso che ci continuano a nascere nuovi brani, e quindi
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approfittando della situazione abbastanza “fertile” in cui ci troviamo abbiamo scritto un intero
disco.
In “Favourite Sons”, mi sembra, c'è un bel po' di Hives, di Vines e Jane’s Addiction,
ma anche una vena southern ben definita. Come unite, in fase compositiva, le
influenze vecchie e nuove?
Non vediamo tanto il “vecchio” e il “nuovo”, sentiamo solo ciò che ci piace della musica;
cerchiamo di fare tesoro dell’insegnamento dei “grandi” indipendentemente dal periodo in cui
hanno scritto i migliori brani. Nei nostri stereo girano tanto i Deep Purple quanto i Mars Volta.
Il nostro obbiettivo resta comunque quello di poter sempre più definire una chiave di lettura
continuamente più personale, che ci identifichi non come band che prende spunto da questo
o quell’artista ma come band che ha saputo spostarsi in una strada che altri non hanno
calcato; è difficile ma noi cerchiamo di arrivarci.
Siete in sei. Tre chitarre. Forse per questo che i vostri pezzi sono così pieni di
intrecci, cambi e melodie. Come vi mettete d'accordo, quando li scrivete?
Beh solitamente la linea base non arriva subito con le tre linee differenziate di chitarra, nella
maggior parte dei casi “sfruttiamo” le tre chitarre dopo aver gettato la base del pezzo, altre
volte invece creiamo il pezzo partendo da una base a tre chitarre direttamente. È una cosa
che ci viene naturale, comunque. Mentre scriviamo i pezzi cerchiamo di diversificare le varie
parti tra le chitarre. Sono tre anni ormai che suoniamo con tre chitarristi e ci siamo abituati
bene a cercare di usare in ogni momento tutta la potenza e l’apertura che possono dare.
Non torneremmo indietro per nessun motivo.
E sono anche pezzi lunghi, in media.
Non ci possiamo fare niente, a noi un pezzo viene come viene a istinto, e cerchiamo
sempre di seguire lo spirito del brano. Se vengono lunghi i pezzi comunque cerchiamo di dar
loro il maggior tiro possibile per non renderli pallosi, ma come ho detto prima crediamo in ciò
che facciamo, quindi anche un pezzo lungo ha il suo perché, cerchiamo sempre di non
lasciare nulla al caso.
Vicenza e il vicentino come vi accolgono? Com'è l'atmosfera, da quelle parti?
Mi è capitato spesso di parlare con musicisti che non sono del Veneto e tutti mi chiedono
sempre come mai a Thiene (la nostra città), in particolar modo, ci sia scena così ampia. Molti
in giro per l’Italia conoscono la nostra città per via delle decine e decine di band che vi
nascono. Qui nel bene o nel male suonare è quasi una prassi, praticamente ognuno per un
lungo o breve periodo ha suonato uno strumento e fatto una piccola band. Noi siamo
fortunati perché siamo parecchio seguiti e ogni live è travolgente, siamo molto contenti del
nostro pubblico.
E nelle altre parti dello stivale dove vi capita – se vi capita – di suonare?
Per com’è messa la situazione attuale, suonare in giro è molto difficile a causa di una
politica nei locali che sfiducia in primis le band. Partire dal niente e suonare generi
abbastanza fuori dal mainstream come il nostro è equivalente di grosse difficoltà nel trovare
concerti fuori dal Veneto. Ma non ci scoraggiamo, le date che abbiamo fatto fuori dalla
regione ci hanno premiato e abbiamo ricevuto molti complimenti, non ci resta che andare
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avanti per la nostra strada.
Nel disco ci sono due pezzi in italiano. So che non è la prima volta, già in
“Secularization” ce n'era uno. Perché mettere due brani in lingua madre in un disco
prettamente anglosassone nell'attitudine.
Non è stata una scelta il cantare in italiano, se mentre scrivo un brano con gli altri
componenti della band sento che la musica risalterebbe di più con un testo in italiano invece
che in inglese allora scrivo il testo in lingua madre. Infine è giusto fare le cose per renderle al
massimo delle potenzialità, no?
Però, secondo me, i due pezzi in italiano sono gli episodi migliori di “Favourite
Sons”: i testi si incuneano perfettamente nella musica, non sono banali e viaggiano
che è un piacere. C'è quasi da sperare in un futuro in italiano, per voi. Cosa ne dite?
Ci avete pensato o non v'interessa?
Grazie! Mi fa molto piacere questa tua considerazione, l’idea di scrivere solo in italiano però
è difficile suonando un genere principalmente anglofono, perché, come ho risposto alla
domanda precedente, rischierebbe di penalizzare certe musiche predisposte all’inglese. La
scelta della lingua in cui cantare negli Speedjackers è tutto il contrario di una scelta, diciamo
che prendo quello che arriva.
Contatti: www.myspace.com/speedjackers
Marco Manicardi
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Trabant
Un gruppo con molte cose da dire; forse ancora di più di quanto lui stesso possa rendersene
conto. L'impressione ascoltando il secondo e omonimo album dei Trabant da poco uscito (su
Moscow) è questa, e parlandone un po' col cantante Giovanni De Flego questo sospetto non
fa che uscire rafforzato. Chiacchierata molto sostanziosa su una band che ha margini di
crescita enormi, ma che già ora si situa nella Serie A del panorama indie italiano.
Ok: ecco il solito snobismo di frontiera triestino per cui non ci si abbassa a cantare in
italiano ma si pensa internazionale, e quindi in inglese... giusto?
Ahahah, ovviamente sì! ...no, a parte gli scherzi l'inglese è una lingua profondamente
ritmica e che quindi meglio si presta ad una musica come la nostra – tanto più che i nostri
gusti musicali spaziano molto verso l'Oltremanica e l'Oltreoceano. E' vero però che ci pizzica
l'idea di scrivere qualcosa in italiano. Se lo facciamo, però, vogliamo farlo bene; quindi ci
vorrebbe un po' di tempo, perché paradossalmente l'italiano è come se lo dovessimo
imparare, visto che non è mai presente negli ascolti musicali che facciamo. Ultimamente
comunque la faccenda ci sta appassionando, giusto pochi giorni fa io e il batterista
viaggiando in macchina ci siamo messi ad ascoltare un po' di vecchi pezzi in italiano dando
molta attenzione ai testi.
Ma sempre a proposito di triestinità: quanto c'è di Trieste nel vostro suono e nella
vostra scrittura?
Beh, Trieste è la città di tutti e quattro i componenti della band. È un luogo di frontiera, pieno
di contraddizioni, da un lato guarda con interesse a ciò che succede fuori dal confine,
dall'altro ne è se non spaventata almeno insospettita. Tutto questo forse nella nostra musica
si sente. Forse. L'autoanalisi sulla propria musica è un terreno insidioso... Tuttavia va detto
che i Trabant si distaccano non di poco rispetto al contesto cittadino: Trieste è una città
molto rock, ma un rock di quelli belli, di quelli genuini, energetici, rudi, sporchi e sinceri. Ci
sono molte band che fanno l'occhiolino ai Motörhead, MC5, Stooges; noi invece abbiamo un
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flirt in atto con la disco, la house, la musica latinoamericana.
Rispetto al vostro materiale precedente, salta all'occhio la voglia di esplorare nuove
soluzioni e suggestioni negli arrangiamenti. E' stata una scelta fatta a tavolino prima
di iniziare ad incidere, o è un approccio che si è manifestato da solo nel corso delle
registrazioni?
Si tratta di soluzioni e suggestioni nate giusto in sala prova prima di registrare, in totale
spontaneità. Nessuno di noi è una persona particolarmente brava a progettare, siamo
piuttosto gente che in certi frangenti si annoia facilmente e allora deve trovare il modo di
divertirsi. Soluzioni che all'esterno possono sembrare molto pensate sono in realtà nate non
dico con totale ingenuità, ma di sicuro per la necessità di ravvivare un po' la giornata, mica
per altro.
Ora che è passato il periodo di maggior hype, cosa resta dell'ondata sul, ehm,
cosiddetto punk-funk, dai Rapture agli Arctic Monkeys passando per i Franz
Ferdinand? Ha fatto bene o male alla scena indipendente italiana?
Una premessa va fatta: quello che molto chiamano punk-funk è, a mio modesto parere, ben
poco punk-funk. Analizza per esempio i giri di basso di un disco come “Echoes”: non è che ci
senti tutto 'sto Bootsy Collins... non è che ci siano quei bei pattern morbidi ma pieni di groove
che trovi, chessò, nei dischi di Prince... che poi sono le cose che a noi piacciono. Sulla
scena indipendente italiana... Non so, non vorrei dire strafalcioni, molte cose le conosco
appena; quello che noto è che, esattamente come nei più illustri modelli americani o inglesi,
in quel cosiddetto punk-funk a farla da padrone è più il punk del funk. Se poi questo faccia
bene alla scena italiana è difficile a dirsi; da Trieste, sai, si ha una visione un po' “esterna”
della situazione. Riconosci l'originalità in alcuni, la sua mancanza più totale in altri, però
personalmente mi risulta molto, molto difficile concepire una visione unitaria. Un bel gruppo
che ho sentito da poco che con originalità fa tesoro della lezione di Eno su gruppi come
Contortions, DNA, Teenage Jesus & The Jerks sono i Craxi – gran bella band, bravi,
originali, preparati, modesti. Non vedo l'ora di risentirli (ci abbiamo suonato assieme una
decina di giorni fa). Tornando alla scena italiana più in generale, che dirti? Facciamo parte di
quei tanti che ci mettono cuore, voglia e ferie, ma che in termini economici guadagnano
poco; non facciamo parte di quelli per cui le ragazzine vestite come Madonna nel 1985 (oh,
io le percepisco così, e significa per forza che non mi piacciano) impazziscono; facciamo
parte di quelli che fanno il video con quello che possono, senza uno straccio di brand più o
meno in che ti appoggi; siamo tra quelli che lavorano e suonano, e non facciamo lavori tipo
disegnare fumetti; siamo tra quelli che alcuno invidiano, ma non siamo tra gli invidiosi.
Sentendo “Hahahahaha” o l'inizio di “Scorpio vs. Gemini” risulta chiaro che anche
quando non vi muovete su ritmiche allegre e danzabili avete non poco da dire – anzi.
Eppure il novanta per cento del vostro materiale tende ad essere a battuta veloce e/o
danzabile. Scelta che sarà portata avanti anche in futuro, o magari ci sarà un
riequilibrio nel dosaggio tra lento e veloce?
Trabant è un progetto che guarda molto alla dimensione live. Il pendere dell'ago della
bilancia verso i pezzi a battuta sostenuta è profondamente correlato al doverli suonare poi
dal vivo, ove amiamo l'impatto, la forza che i BPM medio-alti ci sanno dare. Direi che il cuore
dei Trabant batte sempre sopra ai 120, quando siamo sul palco. Quello che dici è comunque
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vero. Siamo rimasti noi stessi stupiti dall'intensità raggiunta in alcuni episodi più trattenuti
contenuti nell'album. È un territorio per noi in gran parte nuovo ed elettrizzante; non
mancheremo di esplorarlo maggiormente in futuro, credo. Se noti, comunque, seppure i
brani nell'album nuovo risultino prevalentemente veloci tendono però ad emergere degli
ammorbidimenti che in “Music For Losers” non c'erano quasi per nulla (e che invece era già
emersi di più in occasione del nostro split con i My Awesome Mixtape).
Contatti: www.myspace.com/trabant
Damir Ivic
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Clouds In A Pocket
Ten Blown Feathers

Canebagnato
Paolo Tedesco arriva da Mazara del Vallo, ma non lo diresti. Almeno a giudicare dalla
musica che produce, un folk in punta di piedi che rimanda ai cantori romantici d'Albione
(ascoltatevi i Mojave 3 di “Rabbits & Fairytales”) e nel contempo riesce a suonare piuttosto
sognante (“Run Milan Run”,). In realtà tutto si spiega riconducendo la sua proposta
all'etichetta che la pubblica, una Canebagnato ormai sempre più incline a mantenere una
linea editoriale fedele a certe cadenze cantautorali eteree ed elettro-acustiche. Le stesse
che hanno fatto la fortuna - si fa per dire - di artisti di casa come Paolo Saporiti, Gabriel
Sternberg o Christian Alati, quest'ultimo presente anche nei crediti di “Ten Blown Feathers”
in veste di musicista aggiunto.
 L'esordio in questione non fa eccezione in questo
senso, raccogliendo un mucchietto di canzoni che sottintende certi Beatles fuori contesto
(“Oh, Elizabette!”), omaggia i progenitori (i Simon & Garfunkel di “24:Today”), si perde nel
chiarore di un pugno di mezze luci sussurrate (“Tunafish Can For Lunch”) o di qualche
lentezza evocativa al pianoforte (“So Sorry - Still Bleeding”). Declinando chitarre acustiche,
flauti, violini, basso, batteria e synth in un linguaggio codificato, per certi versi classico, ma in
grado di reggere sulla distanza senza perdere un filo di credibilità.
Contatti: www.myspace.com/cloudsinapocket
Fabrizio Zampighi
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Colya
54 e non sentirli
autoprodotto
Arriva il momento in cui un uomo si pone la fatidica domanda: “riusciremo mai a quantificare
i danni fatti dai Muse”? La domanda si profila all'orizzonte ascoltando il nuovo album dei
fiorentini Colya, un trio che non si (e ci) risparmia le chitarre urlanti e fragorose, che tira in
ballo l'hard rock aggiornato ai suoni lustri del presente, sul quale far veleggiare una voce
posseduta dal demone della melodia, insomma, tutta una serie di trucchi che Bellamy e soci
portano da anni in giro, di fiera in fiera. Quando tirano a freno certa esuberanza pacchiana, i
Colya si producono in un onesto rock melodico, magari un po' datato ma abbastanza
godibile (“L'aria”, ad esempio), altre volte la voglia di riempire ogni millimetro di spazio
sonoro risulta di non facilissima digestione (“I saldi”, quasi melodrammatica), altrove ancora
la cover di “Vivere una favola” di Vasco Rossi dà origine a un aggressivo esempio di rock in
levare che a ben vedere lascia poche tracce. Se vi piace il genere di rock delineato qualche
riga più in su, però, troverete un gruppo che sa suonare, sa piuttosto bene quali corde
toccare e di certo non manca di entusiasmo e dedizione. Come esempio di via italiana ad un
certo tipo di rock, insomma, ai Colya non si può davvero dire nulla.
Contatti: www.colya.net
Alessandro Besselva Averame
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Diana Tejera
La mia versione
SunnyBit/Edel
Pur arrivando soltanto ora all'esordio in proprio, la capitolina Diana Tejera ha già alle spalle
un curriculum bello corposo, in virtù della militanza nei Fiori d'Acqua Dolce prima e nei
Plastico poi, fino alla recenti collaborazioni con Tiziano Ferro – insieme al quale ha
composto due brani per i di lui dischi (uno di essi, “Scivoli di nuovo”, è presente anche qui) –
e Barbara Eramo e alla scrittura di musiche per il cinema. È quindi un'artista matura quella
che emerge dalle tracce de “La mia versione”, coraggiosa nel muoversi in quel territorio ricco
di insidie che si trova grosso modo al confine tra pop e canzone d'autore. Prendendo
l'accessibilità del primo e lo spessore della seconda, la Tejera compone canzoni solide,
interpretate con la giusta efficacia e il trasporto necessario a trasmetterne la portata
introspettivo-emotiva, sostenute da puliti arrangiamenti in cui strumenti acustici ed elettrici
(plettri, archi, tasti) convivono alla perfezione, con magari qualche lieve tocco di synth a fare
da collante. Ballate moderne – a volte avvolgenti e soffici, altre più ruvide e potenti
(“L'artista”, in primis) – che mettono in mostra uno spessore tutt'altro che scontato e un
passo decisamente sicuro. Forse manca ancora qualcosa in termini di riconoscibilità
immediata, ma nel complesso il lavoro scorre via bene, e non ci stupirebbe ottenesse buoni
consensi tra gli amanti di determinate sonorità – come si diceva – al guado tra accessibilità e
piglio autoriale, a patto naturalmente che riesca a ottenere sufficiente visibilità.
Contatti: www.myspace.com/dianatejera
Aurelio Pasini
Pagina 24
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Dilaila
Ellepi
Pippola/Audioglobe
Tempo di ricominciare per i lombardi Dilaila, di lasciarsi alle spalle istanze musicali in
qualche modo più legate alla tradizione anglosassone e tuffarsi nel cuore della tradizione
della canzone tricolore. Una sfida rischiosa, come del resto lo è mettersi in gioco in maniera
tanto radicale, che il sestetto dimostra con “Ellepi” – il suo terzo album – di avere vinto, non
sappiamo se facilmente o meno, ma senza dubbio in maniera inequivocabile. Le canzoni al
suo interno, infatti, hanno il pregio di suonare classiche, non però nel senso di “datate”,
bensì di “senza tempo”: questo grazie a intrecci strumentali che rifuggono le mode e le
classificazioni di comodo per dar vita a raffinati scenari che non si possono che definire
come pop (con solo qualche puntata in territori apertamente rock), mentre la voce di Paola
Colombo disegna melodie a volte anche parecchio drammatiche e le canta con grande
trasporto, mantenendo però una leggerezza di fondo invidiabile. Certo, si respira l'aria un po'
nostalgica dei decenni andati, ma allo stesso tempo la modernità del tutto è innegabile. In un
ideale Sanremo alternativo sarebbero senz'altro da podio; in quello vero difficilmente
potrebbero andare avanti, ché la loro proposta è sì immediata, ma tutt'altro che facilona,
nazional-popolare o adatta al pubblico di “Amici”, anche se con ogni probabilità si
aggiudicherebbero il premio della critica. In sintesi: un'aggiunta importante al canone
dell'attuale pop d'autore italiano.
Contatti: www.dilaila.it
Aurelio Pasini
Pagina 25
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Dulcamara
Il buio
Semai/Hevenel
La costante e il primo motore della proposta artistica del ventottenne faentino Mattia Zani, in
arte Dulcamara, sembra essere il viaggio, sia tra i generi che da un paese all’altro. Partito
dall’hip hop, infatti, si è successivamente avvicinato alla canzone d’autore italiana, per poi
allargare i propri orizzonti verso i Balcani e gli Stati Uniti. Di conseguenza il suo è uno stile
ricco di sfaccettature e di idee, il tutto mescolato all’insegna di una leggerezza che però non
è mai sinonimo di carenza di spessore. Si muove tra parlato e cantato, tra strumenti acustici
ed elettricità, tra pop e ska, intimismo folk e torridi fiati. Sa comporre canzoni solari il
romagnolo, seppure attraversate da una lieve vena di malinconia, e allo stesso modo sa
esplorare paesaggi interiori più oscuri, mantenendo sempre una certa sicurezza di scrittura e
la capacità di guardare il mondo con uno sguardo personale. Un discorso, quest’ultimo, che
bene si applica anche agli arrangiamenti dei brani che compongono “Il buio” (il suo secondo
disco, a tre anni di distanza da “Lasciami ad Est”), che non si limitano a svariare tra gli stili,
ma sovente li mescolano in una chiave tutta particolare e, alla lunga, riconoscibile. Un buon
lavoro, dunque, fuori dai soliti schemi e insieme estremamente accessibile; fresco e
moderno ma potenzialmente in grado di resistere bene all’assalto del tempo.
Contatti: www.dulcamara.com
Aurelio Pasini
Pagina 26
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Echo
Parte prima EP
RareNoiseRecords
Cinque brani come biglietto da visita per i torinesi Echo che debuttano, con questo EP, su
RareNoiseRecords: la cura per i suoni, quelli di un rock-pop piuttosto classico e parecchio
radiofonico, con qualche infiltrazione elettronica (che diventa preponderante nella subsonica
“Pillole”), è notevole, lo stesso non si può dire della scrittura, che rivela assai poche
sorprese, accodandosi su stilemi melodici piuttosto abusati e su una visione del rock che ha
più in comune con i dARI che con altre proposte più sostanziose legate al cantato in italiano.
Restano le intenzioni e la buona volontà, che non mettiamo ovviamente in dubbio, ma va
detto che nel marasma di uscite del presente, un EP come questo, levigatissimo ma poco
propositivo a livello di personalità, rischia di passare inosservato.
Contatti: www.myspace.com/echoweb
Alessandro Besselva Averame
Pagina 27
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Edipo
Hanno ragione i topi
Produzioni Dada/Jestrai
Perché poi uno si fa l’idea che qui si parli male di dischi cantati in italiano a prescindere. E
invece il problema sta in gente che non dedica alla musica l’attenzione e il rispetto che
merita e, soprattutto, mancano le idee. Quando ci sono, nessun problema ad ammetterlo.
“Hanno ragione i topi” è il nuovo progetto solista di Fausto Zanardelli, ex tastierista degli
Edwood, ed è di gran lunga il migliore esempio di pop in italiano che abbiamo avuto
occasione di ascoltare quest’anno. Per la bellezza della musica – un pastiche di melodia,
indie-rock ed elettronica che da noi potrebbe ricordare Mao e Bugo – e per l’intelligenza dei
testi. Non è facile scrivere e mettere in musica una frase apparentemente “ovvia” come: “Se i
sensi fossero quattro mi sentirei più adatto a questa società, eliminando il tatto” o stravolgere
il senso del famoso “tavolo” di Sergio Endrigo in un inno ironico al nightlife contemporaneo.
Sono le canzoni di un personaggio che cerca di guardare la realtà che lo circonda con un
distacco, un gusto ludico e una certa vena d’amaro sarcasmo scrivendo liriche semplici
all’apparenza ma ben più profonde. L’etichetta di “postmoderno” qui non pare appiccicata a
caso. Si sente che Fausto ha osservato molto l’Italia e ha studiato parecchio la sua cultura,
ne ha letto gli autori più rappresentativi. “Hanno ragione i topi” non è un lavoro “per caso” e
non si cerca di ammiccare verso niente e nessuno. C’è una sorta di politica coerenza che
non ci può che far piacere e che consigliamo a quanti abbiano voglia di dedicarci la giusta
attenzione.
Contatti: www.myspace.com/edipomastersystem
Hamilton Santià
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Eniac
Unknown Language
Chew-Z
Musicista e sound designer si autodefinisce Fabio Battistetti, attivo da un decennio con lo
pseudonimo di Eniac, e questo suo nuovo lavoro - il secondo sulla lunga distanza conferma la natura del progetto, sintetizzata dalla formula di cui sopra: sette brani che
rileggono l'IDM e i suoi cascami passati e presenti con mano ferma e una buona dose di
personalità, utilizzando soluzioni che amalgamano impulsi melodici e ritmici in un composto
che va dalla ambient alla techno. L'attitudine è simile a quella di gruppi come i Mouse On
Mars o i Pan Sonic più isolazionisti, i risultati sufficientemente autonomi da non richiedere
troppe stampelle comparative. Nella versione fisica del supporto, stampata in un numero
limitato di copie - supporto che è disponibile anche gratuitamente in rete: la net label di cui lo
stesso Battistetti è co-fondatore, la Chew-Z (www.chewz.net), è da sempre sintonizzata sulle
possibilità offerte da Creative Commons e altre modalità di condivisione musicale aperta sono presenti anche due lunghi remix a cura di Riga e Arbdesastr: non una semplice
appendice ma un prolungamento dell'estetica di Eniac che sottolinea la duttilità del progetto.
In buona sostanza, un ottimo disco di elettronica, eclettico e variegato, che non cade mai
nella trappola del già sentito.
Contatti: www.myspace.com/theeniac
Alessandro Besselva Averame
Pagina 29
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Fauve! Gegen A Rhino
Geben
autoprodotto
Questa sarebbe un'autoproduzione molto interessante. Se solo fossimo nel 1995. Già:
perché i pistoiesi Fauve! Gegen A Rhino (nome complesso, la spiegazione sta nel fatto che
è l'unione di due progetti – Fauve! e Rhino Therapy) di sicuro hanno buoni gusti e buoni
intenti, visto che mettere insieme noise ed elettronica con piglio ieratico e composto alla fine
è, massì, scelta educata ed interessante. C'è però un problema: in un'epoca in cui i mezzi
tecnici (di produzione, di incisione, di mixaggio) grazie a Santa Madre Tecnologia sono bene
o male alla portata di tutti, così come la circolazione di idee spunti e suggestioni, le cose non
basta pensarle bene, no... bisogna farle bene. È un imperativo categorico. Non destinato più
a chi ha la fortuna di essere sotto contratto ed avere una label che gli paga produzioni coi
controcazzi, ma standard minimo da adottare indistintamente vista la fiumana di dischi
(anche autoproduzioni, oh yes) da cui tutti quotidianamente siamo sommersi. E qui “Geben”
frana. Il momento peggiore il tentativo massimovolumico di “Carol”, imbarazzante, ma anche
gli episodi migliori – vedi il noise di “Buzkashi” – stanno decisamente tre metri sotto il minimo
qualitativo a livello di suoni, di impasto, di cura dei materiali sonici. Rimandati in pieno,
insomma. Però ecco, visto che il gusto di base ce l'avrebbero, non ci sorprenderemmo se fra
un po' tornassimo a parlare di loro – facendolo decisamente con toni più benevolenti.
Contatti: www.myspace.com/fauveisaband
Damir Ivic
Pagina 30
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Numero Luglio/Agosto '10
Giovanni Truppi
C’è un me dentro di me
Cinico Disincanto/CNI
Interessante, l’esordio del cantautore napoletano Giovanni Truppi. Trasformismi resi
omogenei da un’attitudine giocosa. Una voglia post-moderna, post-indie, post-tutto, di
giocare senza preconcetti con la canzone d’autore d’ogni epoca, in un ventaglio
personalissimo di declinazioni. L’attacco, “Dormiamo nudi”, ha qualcosa di Sergio Caputo
che si rifaceva a Fred Buscaglione, dentro un’aria d’antan anni Trenta. Ma sarebbe assai
superficiale fermarsi qui, perché c’è ancora molto da scoprire, a partire dalla ruvidità elettrica
di “Mario”. Qui scoviamo un po’ il manifesto di Truppi: “prendersi sul serio”, ma facendo finta
di non farlo, per esempio con il falsetto autoironico di “Mandorle”. “Scomparire” si muove
dentro un solco cantautorale naïf, il lo-fi ruffiano di “Manuela” precede immediatamente
la quasi-title track “C’è un me”, nella quale il tentativo di utilizzare tutti i mezzi più immediati –
la voce, una percussività varia e diffusa – serve alla ricerca di un’originale espressività.
Obiettivo che il songwriter napoletano non esita a perseguire coverizzando niente meno che
Raffaella Carrà e la sua sempiterna “Tanti auguri” (quella di “com’è bello far l’amore da
Trieste in giù”). Insomma, giù gli steccati. A ricordarci che Truppi le canzoni le sa anche fare
in modo, per così dire, serio, arriva “l’uomo dei piccoli sogni” protagonista di “Soffiando”, con
l’evocatività tagliente di chitarre elettriche che ricordano in qualche modo Jeff Buckley.
Giovanni Truppi: il suo nome è sul taccuino. Non perdiamolo d’occhio.
Contatti: www.myspace.com/giovannitruppi
Gianluca Veltri
Pagina 31
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Numero Luglio/Agosto '10
Gripweed
K
Belive
La radice è chiara: è quella dei Depeche Mode. Un po' quelli di Vince Clarke, i primi, un po'
quelli di Martin Gore, i migliori. Inutile chiedere troppa originalità ai Gripweed ma è un gioco
dichiarato, esplicito, e quindi come tale diventa al di sopra delle critiche. Quello che bisogna
chiedere è qualità nei suoni e nella scrittura. La prima c'è, e pure in abbondanza, vista la
saggia scelta di affidarsi al Dub The Demon, la tana di Madaski, per il mixaggio e la
masterizzazione: qui la qualità del lavoro è davvero ottima, non solo professionale ma
proprio azzeccata e gustosa. E la scrittura? Non è mica male. “Burst”, “Plastic Bag” e “The
Fool On The Bill” sono i momenti migliori, in particolar modo quest'ultima, ma in generale
non ci sono cadute di tono né banalità eccessive. Indubbiamente ancora un po' di strada è
da fare, non sempre i Gripweed suonano interessanti e si limitano in questi casi a essere
mediamente appropriati (e di questi tempi forse non basta, troppi cd escono, bisogna quindi
alzare il livello della sufficienza nel giudicare), in più non sempre il cantato ci convince – in
alcuni piccoli punti andava limato e incanalato meglio; però complessivamente “K” convince
e ha dignità nell'essere un esperimento di, come dire?, elettropop d'autore. Pare dalle ultime
notizie che il cantante del gruppo sia scomparso all'estero, dandosi alla macchia; lo
capiamo, perché l'Italia sta diventando sempre più un posto infame dove stare, ma se fa
ritorno dalle nostre parti si ricordi di continuare la storia dei Gripweed. Ché qualcosa
potrebbe venirne fuori.
Contatti: www.gripweed.com
Damir Ivic
Pagina 32
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Numero Luglio/Agosto '10
Hidden Place
Punto luce
Twilight
Circa un paio di anni fa ci occupammo sempre su queste pagine del debutto degli Hidden
Place, evidenziando la raffinata maestria con cui questa talentuosa band reinterpretava i più
classici stilemi dell’elektro wave e proponeva una chiave di lettura italica ad un genere
tradizionalmente anglofono. Scritturata dalla Twilight Records, rinomata etichetta argentina
specializzata in sonorità oscure, oggi la formazione guidata da Fabio Vitelli e Sara Lux riesce
ad approfondire la propria ricerca espressiva e ad ampliare gli orizzonti stilistici scrutati in
“Fantasia meccanica”. Senza rinunciare all’indole malinconica che da una trentina d’anni
rappresenta il denominatore comune della musica elettronica più oscura, nel loro nuovo CD
gli Hidden Place si destreggiano abilmente tra episodi dal piglio pop, brani più ritmati dai
connotati dance e momenti sognanti in tipico stile wave. Alternando testi in inglese, qualche
verso in italiano e svariate parti strumentali, il quartetto si attesta di diritto in quella zona
cinerina del nostro panorama indipendente, già frequentata da Kirlian Camera e Frozen
Autumn. Se proprio volessimo muovere una critica a “Punto luce” potremmo attaccarci al
modo un po’ freddo e manieristico di reinterpretare i suoni degli anni ’80, che invero erano
già algidi in origine; ma sarebbe come accusare un gruppo metal dell’ultima ora di copiare
pedissequamente gli Iron Maiden, ossia tradire il patto intellettuale che bisogna stringere
prima di mettere il disco nel lettore.
Contatti: www.myspace.com/hiddenplaceitalia
Fabio Massimo Arati
Pagina 33
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Numero Luglio/Agosto '10
Juta
Running Through Hoops
Arctic Rodeo
Sono per quattro quinti di origine italiane gli Juta, ma il loro approccio è quanto mai
internazionale. Ne fanno parte Pierluigi Aielli (chitarra), Pietro Canali (pianoforte e wurlitzer,
già al fianco di Moltheni), Ettore Formicone (contrabbasso), Dario Mazzucco (batteria) e la
cantante canadese Barbara Adly. E proprio in Canada è stato registrato “Running Through
Hoops”, più precisamente a Montreal, nei mitici studi Hotel2tango, dall’ex batterista di
Godspeed You! Black Emperor e Arcade Fire Howard Bilerman, mentre l’etichetta che lo ha
pubblicato, la Arctic Rodeo, è tedesca. Un progetto di ampio respiro, insomma, al pari delle
canzoni che propone, ideale colonna sonora per paesaggi sterminati, silenziosi, con la luce
della luna a rifrangersi sulla neve che ricopre tutto e ovatta i rumori degli strumenti. Raffinate
e mai troppo piene tessiture di tasti e plettri ben si sposano con la voce sottile ed evocativa
della Adly, collocabile da qualche parte tra il cantautorato statunitense al femminile più
introspettivo, quello che una volta sarebbe stato chiamato slow-core e la scuola della 4AD.
Non vi sono particolari scossoni nel corso dei quasi cinquantacinque minuti del disco, ché
più che a stupire o a smuovere l’ascoltatore il quintetto sembra interessato ad avvolgerlo ed
ammaliarlo, e alla lunga l’attenzione rischia di venire un poco meno; nel complesso,
comunque, il lavoro convince pienamente, e sprigiona un fascino notturno a cui chi ama
determinate sonorità difficilmente potrà resistere.
Contatti: www.myspace.com/jutamusic
Aurelio Pasini
Pagina 34
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Numero Luglio/Agosto '10
Kalamu
Costruiamo palazzi
Sana-CPSR/Venus
Dodici tracce per la nuova uscita dei Kalamu. Un lavoro che prosegue la rielaborazione del
patrimonio popolare da parte del sestetto di Scalea. Si comincia con la cantilena di “Ciaula”
(con qualche indizio di omaggio a Rino Gaetano), e si finisce con il tarlo levantino di “Il
temporale”. In mezzo folk elettrico, cantato dalle voci di Irene Cantisani e Paolo Farace. Il
canto pauperistico “Non tengo denaro” con insistente filastrocca finale è vestito di una strana
aura progressive; “L’acqua fa male” è invece una taranta elettrificata, ormai un po’
stereotipata però. Atmosfere gitane e da domeniche meridionali in campagna disegnano
“L’ellera”, dominata dalla fisarmonica. Alzati, che si sta alzando la canzone popolare(sca).
L’ossessione palazzinara del cemento e del profitto è il tema della title track, con il mantra
“costruiamo palazzi” proposto come soluzione a tutti i problemi; “Tutti giù per terra” è un
rosario delle stragi italiane (Piazza della Loggia, Stazione di Bologna...), un canto civile per i
morti senza colpevoli. “L’aria della festa” flirta con un cantautorato folkeggiante, “Il sogno
s’avvira” è rock’n’roll. È un lavoro, questo, in ogni caso godibile e onesto; ma lo è soprattutto
quando il sestetto calabrese decide di “tradire” la tradizione, elaborandola con la giusta
distanza. Assai riuscito l’insert, nel ritornello di “Sangue avvelenato”, del tormentone “Viva
Micuzzo”, tarantella calabrese augurale e nuziale, che qui ha il compito di sottolineare come
tutto rimanga immobile, con l’obbligo di un’immotivata allegria, nonostante tutto.
Contatti: www.kalamu.org
Gianluca Veltri
Pagina 35
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Numero Luglio/Agosto '10
Kitsch
Mentre tutto collassa
Prismopaco/Venus
Partiamo dal raccontare l’origine della band di Como, formatasi nel 2006: Attilio Kitsch
(chitarra e voce) sviluppa l’idea di base con Ale Kitsch (batteria), raggiunti un paio di anni
dopo da Massi Kitsch (basso) e Adri Kitsch (chitarra). Letta così, potrebbe strappare più d’un
sorrisetto, siamo d’accordo. Specifichiamo, allora, che la sigla sociale è stata scelta per
rappresentare al meglio, anzi al peggio, i tempi correnti: l’ispirazione proviene nientemeno
che da “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera (“Un mondo dove la merda
è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si chiama
Kitsch” poiché “Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è
essenzialmente inaccettabile”). Prodotto artisticamente da Diego Galeri, proprietario
dell’etichetta Prismopaco, e impreziosito dalla partecipazione di Andrea Rovacchi dei Julie’s
Haircut al minimoog, pianoforte, synth e wurlitzer, il disco di debutto del quartetto lombardo,
intitolato in maniera emblematica “Mentre tutto collassa”, mette sul piatto un rock in italiano
che preme sull’acceleratore dell’indignazione, che sia rivolta ai moderni mezzi di
comunicazione, alla mercificazione della musica, alle inconcepibili logiche dell’apparenza,
alla pochezza dei valori odierni e via proseguendo. Dieci brani, scritti da Luca Galli, che
sanno farsi piacevoli, vivaci e canticchiabili, pur senza colpire mai veramente a fondo. Nota
di merito per l’artwork di Alessio Nunzi.
Contatti: www.kitschmusic.it
Elena Raugei
Pagina 36
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Numero Luglio/Agosto '10
Le Borg
Ohm City
Videoradio/RAI Trade
Ha senso al giorno d'oggi mettere in piedi un terzetto ed emulare i Kraftwerk? La domanda
è retorica tanto quanto chiedersi a che serve continuare a produrre dischi, se si ammette che
tutto quanto è stato già scritto, cantato e suonato. Eppure qualcuno continua a correre dietro
ai musicisti, a comprare i loro album e ad affollarne i concerti. Nulla di strano: la spiegazione
è sentimentale, non razionale. Non importa pertanto che "Autobahn" abbia più di
trentacinque anni se c'è chi ancora si emoziona con certi enigmatici motivetti sintetici. E se
questo qualcuno è Paolo Di Cioccio, musicista classico di professione ma rockettaro
d'indole, le chiacchiere stanno a zero; perché Paolo vive per suonare e il suo amore spazia
dalla maniacale passione per i sintetizzatori, alla devozione per il krautrock, all'ingenua ma
genuina goduria nel vedere i propri cd recensiti sulle riviste specializzate; e se lui ci mette il
cuore, chi ascolta la sua musica può fare altrettanto. Nel progetto Le Borg l'artista romano è
affiancato da altri due abili manipolatori di suoni sintetici: Felice Lechiancole e Ivano Nardi; il
loro primo CD - "Ohm City" - uscito da un paio di mesi su edizioni RAI Trade, rispetta i più
elevati standard in fatto di ortodossia elettronica, eleganza estetica e citazioni colte. Vale
davvero la pena ascoltarlo e goderselo fino in fondo, spaziare con la mente, mentre il Moog
e i sintetizzatori Doepfer, tessono eleganti trame; alla faccia di ancora crede che il rock sia
morto.
Contatti: www.paolodicioccio.it
Fabio Massimo Arati
Pagina 37
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Numero Luglio/Agosto '10
Lute
Dietas para no existir Chapter V: Tesi per la fine del problema di Dio
BleuAudio/Allure/Happyness
Dei Lute si sa ben poco. Si sa che sono di Cremona e che un trittico di etichette, che più
che indipendenti potremmo definire autarchiche, negli anni pubblicano una “pentalogia” dal
titolo “Cinco dietas para no existir”. Quella che abbiamo tra le mani, quindi, a rigor di logica,
non avendo ascoltato gli altri quattro atti, portando nel titolo la dicitura “Chapter V” dovrebbe
trattarsi della conclusione. “Tesi per la fine del problema di Dio” è anche un titolo perfetto per
la fine di un ciclo e calza perfettamente in un artwork costellato di immagini e iconografie tra
il sacro e il profano; un artwork bellissimo, peraltro. Cinque tracce, venti minuti, niente titoli. Il
primo brano è una specie di filastrocca cantata da un bambino. Dal secondo in poi è
post-rock all'italiana con tratti matematici e una certa devozione per il suono mogwaiano:
arpeggi intrecciati, batteria ricca di charleston e colpi sghembi. La terza traccia esplode e
l'elettricità avanza, gigante ed epica come un caterpillar, fermandosi qualche istante per
lasciare le chitarre a lamentarsi. La quarta è un'omelia di vocoder e basso di quattro minuti.
La quinta parte con arpeggi in delay e gong dall'oltretomba, per poi canonizzarsi in un
post-rock come si deve, cavalcata finale compresa e coro di vergini a chiudere. Sette minuti,
poi il finale, ancora post-rock, ma dolce e aggraziato. Fine. Ciò che sappiamo dei Lute è tutto
qui. Vien voglia di andarsi a cercare gli altri quattro capitoli, ma per farlo bisogna immergersi
nel cuore della massoneria underground nostrana. Lo faremo.
Contatti: www.myspace.com/lutelutelute
Marco Manicardi
Pagina 38
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Numero Luglio/Agosto '10
Magnetic Sound Macine
Chances & Accidents
Lizard/BTF
Giovani, non ricchi e famosi, ma umili e pieni di coraggio, i trevigiani Magnetic Sound
Macine si sono fatti conoscere due anni fa con l’esordio “Chormatic Tunes”, e ora tornano
con questo secondo capitolo, sempre sotto l’ala protettrice della Lizard Records, un’etichetta
che, salvo rare eccezioni, ha una sola prerogativa: non amare le cose facili. Eccoli quindi alle
prese con suoni ora sperimentali, ora d’avanguardia; e nel caso di questo quartetto, il gusto
è scoprire che non c’è una definizione, nemmeno scavando nel futuristico. Rispetto
all’esordio citato, questa replica ha un’attitudine più musicale, mano soffusa, gioca insomma
più di suoni e note che di sensazioni, resta l’impressione forte che ai MSM piaccia tanto il
jazz quanto il post rock. Un’apertura mentale sorprendente per cinque musicisti così giovani,
ma capaci e soprattutto desiderosi di assorbire influenze da ogni latitudine musicale e di
rileggerle con quella punta di sfrontatezza che ogni artista dovrebbe avere. Si spiegano così
le fantastiche divagazioni tra il jazz, il rock, direi persino l’avanguardia e la sperimentazione,
ovviamente strumentale, di “Camel Trouble”, “Queanova”, Chancis”, “Axidentes”, “900 Bills”
e “Wake Up With Me II”, stralunate, sempre imprevedibili, ma – credetemi – assolutamente
musicali e godibili, risultato non facile se si vuole solcare il sentiero della sperimentazione.
L’ho già scritto e lo ripeto ad alta voce: questa è una band di caratura superiore, e “Chances
& Accidentes” è uno dei dischi dell’anno in fatto di originalità e coraggio, dove però il
traguardo è farsi ascoltare senza inciampi.
Contatti: www.myspace.com/webmsm
Gianni Della Cioppa
Pagina 39
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Numero Luglio/Agosto '10
Malavida

Agit prop
Filottrano City Rockers/Goodfellas
Il combat rock ha scritto le sue pagine importanti anche in Italia, e basterebbe fare il nome
dei Gang per non essere smentiti. Nome che è inevitabile associare ai titolari del presente
disco, marchigiani anche loro, una realtà musicale che fin dall'inizio, una decina di anni fa, i
fratelli Severini – qui presenti con voci e chitarre in “60 anni” – hanno accolto sotto la loro
ala protettrice. Il punto è che i generi vivono i loro momenti di gloria e poi capita, non sempre
ma spesso, che si avvitino su se stessi, lasciando sul campo, il più delle volte, i gusci di
forme musicali datate e poco efficaci. A maggior ragione quando si parla di dinamiche
musicali così inflazionate e a rischio costante di luogo comune. Di un disco del genere, nel
2010, possiamo apprezzare alcune cose: la voglia di dire, il bisogno espressivo, l'indubitabile
buona fede, il bisogno di non accontentarsi delle verità piovute dall'alto. Caratteristiche
pregevoli, che però aiutano pochissimo a godersi un disco che intreccia con foga brani in
levare, momenti à la Clash e slogan facili e troppo spesso immersi in una retorica tanto
sincera quanto indigesta, per di più a forte rischio di populismo. Chi ama il genere troverà
sicuramente qualche appiglio per cantare questi brani insieme ai Malavida (e la già citata “60
anni” ha una marcia in più rispetto al resto, dobbiamo ammetterlo), chi cerca nei dischi una
musica a tutto tondo e al passo con il presente, e ama farsi sorprendere dall'inaspettato,
resterà molto molto deluso.
Contatti: www.malavida.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 40
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Numero Luglio/Agosto '10
Mano-Vega
Nel mezzo
Domus Vega
Se ascoltando un nuovo misconosciuto CD capita di ricordare un vecchio demo di anni or
sono, pur disperso fra scatoloni di reperti digitali e relativi tentativi underground, significa che
deve aver lasciato, anche inconsciamente, un segno distinguibile, qualunque esso sia. È
successo col progetto laziale Mano-Vega: le stesse forti tensioni electro-alternative-rock, con
una propensione ossessiva, a tratti claustrofobica, finalmente raccolte nel primo album
ufficiale “Nel mezzo”. Tratti dunque decisi, riconoscibili perché in simbiotica connessione con
la dimensione poetica di Valerio D'Anna, addetto a voce, piano, synth, handsonic e
programmazioni, ma soprattutto interessante personalità e con un considerevole amore per
la parola e dunque per i testi. Parole urlate aspramente o sussurrate, a dettare sequenze ed
intermittenze, tra sfuriate ritmiche modern-metal (buon lavoro del chitarrista Giovanni
Macioce e del bassista Lorenzo Mantova, spiace solo la mancanza di un vero batterista,
peraltro già individuato in prospettiva live), sospensioni di piano e digressioni di elettronica
allucinogena. Ci appare uno scenario tormentato ed affascinante, sin dal primo
brano"Ondanomala", caratterizzato da alternanze climatiche, rabbia ed intimismo,
particolarmente convincente nell'amniotico fluttuare progressive di "Sinestesia". L’ipnotico
commiato di “Dal nero al bianco” recita: "proprio ora, mentre il mondo dorme ed il nostro
Primo Dio è alle porte, mi spingo oltre". Ci fidiamo sulla parola, intravedendo nuovi inquieti
orizzonti, già piacevolmente colpiti dall’intrigante intensità di questo debutto.
Contatti: www.domusvega.com
Loris Furlan
Pagina 41
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Numero Luglio/Agosto '10
Murder
Tu m’uccidi
Plumbea
Dopo un primo EP “Op. 01 in re” pubblicato dalla Plumbea Records che anticipava l’anima
dark, noise, orchestrale, dream-pop del duo, ecco la prova sulla lunga distanza per Sheson
Delay, voce e tastiere, e Carlo Marrone basso, chitarre e percussioni. Entrambi si occupano
dei loop e hanno una sicura propensione alle storie macabre e virulente che decidono di
affrontare con una delicata ironia che non disturba ed equilibra gli umori. “Tu m’uccidi”
pubblicato anche in questo caso dalla bolognese Plumbea, stupisce traccia dopo traccia.
L’inizio del disco con la title track, vi catapulterà tra le braccia della dimensione avvolgente,
ossessiva e enigmatica di queste note. “Non c’è ragione né emozioni e non c’è colpa”
sussurra nel silenzio la cantante e quando “Hope” parte sembra quasi un inabissarsi, un
lasciarsi andare. L’atmosfera di “Murder Is A Swimming Pool” è fatta di luci jazz nel cuore
della notte. Un cordone di suore masticate dal loop dell’apocalisse si avvicinano e poi di
dissolvono in “Responsorium”. Immagini prima arrotondate da una melodia della voce che si
raggomitola nel basso e poi stringe in “Dream”. Il dub-noise di “Wear And Tear” partito da
motivetto anni 30 che si attanaglia nel dark e Sheson diventa una dea del ghiaccio e
dell’ombra. Delle sirene raggiungono il bosco e si perdono incagliate tra mille loop in “Moro,
Lasso”. Ma la canzone più degna di chiamarsi tale è il capolavoro denominato “Pigs!” che è il
loro inizio: la strada maestra che li porta a quella sicurezza che ci vuole per destrutturare la
forma canzone dandole in dote il proprio senso artistico. Il disco si conclude con
“Mnemosine Lake” quasi punk, molto schizofrenico, post influenze interiorizzate.
Contatti: www.myspace.com/murderduo
Francesca Ognibene
Pagina 42
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Numero Luglio/Agosto '10
OM
Decapitalismo
Malintenti
Benvenuti nel frullatore degli OM. Riff chitarristici alla Jimmy Page, melodie balcaniche,
un’attitudine ironica e spiazzante tra Battiato e Elio, ma poi anche progressive, Battisti, new
wave. Su tutto, il gioco del citazionismo. La cantina buia e il treno dei desideri; bellezze in
bicicletta e posto delle fragole. Pezzi di canzoni e di cinema, a comporre un dizionario
condiviso. “Attualità” – che contiene anche una pillola della zeppeliniana “Immigrant Song” –
infila un rosario di titoli filmici, in un viaggio tra Bruce Lee e Spike Lee, “La notte dei morti
viventi” e “La morte che corre sul fiume”. Il singolo “Insonnia” – il pezzo più wave – è
dedicato all’iperstimolazione alla quale siamo sottoposti. L’immersione in una stordente
modernità è vissuta e raccontata dal quintetto palermitano con la certezza che essa finirà.
Con l’idea del passato che surclassa il futuro, come recita “Strade di cera”. “C’era una volta”
si incarica di proiettarci in un futuro che è tornato a essere in bianco e nero (“C’era una volta
ma non c’è più, il mondo a colori come lo vuoi tu”). È forse anche questo il senso del titolo
dell’album, “Decapitalismo”. Tra filastrocche crepuscolari e marce burlesche, rumorismo e
tempi in levare, il terzo album degli OM scorre abbastanza piacevolmente, magari senza
mantenere proprio tutto quello che promette nella prima parte della scaletta. La proposta si
fa via via sempre meno decostruzionista e più leggerina, virando dal rock e da Capossela e
le Storie Tese, su un più tranquillo Giuliano Palma.
Contatti: www.omnaif.org
Gianluca Veltri
Pagina 43
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Numero Luglio/Agosto '10
One Way Ticket
Ora et implora
Otium/CNI
Dopo “Fase di decollo”, esordio del 2006 per la Ululati dall’Underground, tornano gli One
Way Ticket, caso più unico che raro di band formata grazie ai solitamente famigerati annunci
su Internet. Nella ridda di proposte italiane in italiano che ci portano sempre a giudicare le
cose con un po’ più di cattiveria (se non altro per il livello mediamente ridicolo dei testi),
quella di “Ora et implora” può contare su alcuni punti di forza tipo la cocciuta coerenza della
proposta musicale – un rock italiano senza velleità artistoidi e che non disdegna sudaticce
virante “hard” che ricordano i Timoria – o la capacità di scrivere ballate robuste decisamente
più convincenti degli episodi tirati. Infatti, il brano migliore del lotto è “L’uomo con un sogno in
meno”. Anche se non è esattamente la tazza di the di chi scrive, canzoni come queste si
fanno ascoltare, apprezzare e notare come punto di partenza per i prossimi lavori. Nel
senso: in questa babele musicale che ci circonda bisogna cercare di valorizzare quello che
ci riesce meglio quindi perché continuare a fare esperimentini con elettroniche che non
convincono (“Supermarket”, “Ora @ implora”) quando invece la si potrebbe puntare –
dimostrando anche più coraggio, se vogliamo – ad essere veramente sudati e rocker,
puntare coerentemente su queste power-ballad che tanto bene ci riescono e tanto
potrebbero essere un bel marchio di fabbrica?
Contatti: www.owt-band.com
Hamilton Santià
Pagina 44
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Numero Luglio/Agosto '10
Pilar Ternera
Pilar Ternera
42
Pilar Ternera è un trio costituito da Oliviero Farneti dei Fake P, Andra Mancin dei My
Awesome Mixtape e Sara Ardizzoni dei Pazi Mine, un “supergruppo” estemporaneo il cui
repertorio è stato fissato su nastro in alcune session al principio del 2009. Ne è scaturito un
EP che coincide con la terza uscita della collana 24, una serie di mini album messi a
disposizione, a scadenza mensile, da 42 Records (www.42records.it): sta all'utente scegliere
quale prezzo dare alla musica. Il trio mette in campo i propri riferimenti senza dare troppo
peso all'unitarietà complessiva, riuscendo però a tirar fuori un eclettismo sempre piuttosto
centrato, tra certe pagine indie vicine a Karate o Yo La Tengo, inframmezzate però da
soluzioni più libere e free e inserti che manifestano una chiara genealogia post rock.
Canzoni sghembe ma mai gratuitamente bislacche, e una cifra stilistica volutamente
disordinata ma il più delle volte incisiva. Sarebbe interessante conoscere gli sviluppi del
progetto sulla lunghezza dell'album, per il momento la loro prova a medio raggio ci è parsa
decisamente convincente.
Contatti: www.myspace.com/pilarternera
Alessandro Besselva Averame
Pagina 45
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Numero Luglio/Agosto '10
Plurima Mundi
Atto I°
autoprodotto
In un misto di esperienza e gioventù, classicità e voglia di progredire, esordiscono questi
Plurima Mundi nati, cosa straordinaria a pensarci bene, dopo un’esibizione dal vivo in cui
sono stati convinti di trasferire su CD il materiale che avevano suonato in concerto.
Considerando che i sei musicisti hanno varie esperienze e numerosi impegni, non deve
essere stato facile far incastrare le parti di questo nuovo puzzle, ma la musica ha il potere di
farci scovare energie che pensavamo perse o nascoste e così questo primo atto ha trovato
forma. Solo quattro brani per iniziare, ma che svelano il talento di scrittura del violinista
Massimiliano Monopoli. L’apertura di “Ortus confusus” è emozionate con quel violino antico
che taglia una melodia che rievoca feste a corte, ma anche danze di paese, il passaggio a
“Nei ricordi del tempo” svela invece la vocalità elegante, ma forte di Grazia Maremonti, come
se canto jazz e blues si incrociassero in un solo colpo, per un prog-metal d’impatto aperto da
un’atmosfera quasi di bel canto. La lunga “Laboratorio 30” sembra davvero una bottega della
musica, dove si provano e riprovano nuove soluzioni, nel suo girovagare tra metal e fusion,
alimentati da incroci di violino e chitarra solista davvero interessanti ed una seconda parte
cantata, ricca di variabili ben strutturate. In chiusura “Aria”, un brano incalzante trascinato
dal violino, dove spicca la voce dell’ospite di prestigio Lino Vairetti dei ritrovati Osanna, che
duetta con Garzia, che qui spinge l’ugola su registri più alti. Quattro brani non sempre sono
sufficienti per svelare la maturità di un gruppo, ma in questo caso l’impressione è che i
Plurima Mundi siano riusciti a convincerci del loro valore e desiderio di provare a spostare i
confini del rock progressivo (e molto altro) un passo più avanti.
Contatti: www.myspace.com/plurimamundianno2009
Gianni Della Cioppa
Pagina 46
Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Luglio/Agosto '10
Quasar Lux Symphoniae
Synopsis
Artesuono
Quarto album (sei contando anche gli esordi stranianti a nome Quasar) in oltre tre decenni
di storia e quarto capolavoro per i Quasar Lux Symphoniae, di cui si erano perse le tracce
discografiche dall’inizio del nuovo millennio e che solo negli anni Novanta avevano dato
continuità al loro percorso. Oggi Roberto Sgorlon, uno dei due leader del gruppo, è solo un
compositore, mentre il maestro e direttore d’orchestra Paolo Paroni continua a suonare
tastiere e pianoforte e a contribuire con il suo eclettismo alle evoluzioni di questa
straordinario ensemble friulano che definire semplicemente di rock progressivo è offensivo.
Musica classica e rock si incastrano in continuazione, tra rievocazioni antiche e suggestioni
moderne, che si adoperano per dipanare bellezza tra i solchi di queste sette canzoni,
alimentate da melodie bellissime che scatenano un vortice di emozioni, con due voci –
femminile e maschile – che ingigantiscono le strutture armoniche e i testi del paroliere
Umberto Del Negro. Stupendi gli arrangiamenti e notevole il lavoro di chitarra solista di Elvio
Tavian, che pilota ogni melodia, e ascoltando “Arcano”, “Fightining Thoughts”, “Oblivion” e
“Moses”, si percepisce immediatamente che questa è una band di caratura superiore. Ma il
senso dei QLS non è rinchiudersi in una singola canzone, quanto regalare una sensazione
generale di euforia e bellezza, proprio come ascoltare un’opera classica o uno spettacolo
teatrale, è solo con questa predisposizione che si può entrare nel cuore di “Synopsis”, che si
avvicina per intensità e bellezza ad un loro precedente capolavoro, quell’“Abraham” del
1994, di cui da tempo si attende la ristampa. Senza tanti giri di parole, uno dei miei album
dell’anno, registrato nel 2008, ma disponibile solo da pochi mesi.
Contatti: www.glsprog.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 47
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Numero Luglio/Agosto '10
Robi Zonca
So Good
Tube Jam
Un respiro internazionale, un senso della musica che va aldilà dei confini. Questa è la
musica di Robi Zonca, musicista che è riuscito a crearsi una credibilità di tutto rispetto negli
States oltre al plauso della critica in Europa e nel resto del mondo. Questo quinto lavoro “So
Good”, quarto in studio, vede il consolidamento prezioso della band di supporto, fra cui
vogliamo citare Antonello “Jantoman” Aguzzi (Elio e le Storie Tese) per gli arrangiamenti. Un
equilibrio di fondo fra radici soul blues della chitarra di Zonca e raffinate trame funky ma
anche una ricerca melodica. Altro elemento a favore di questo disco è l’affiatamento fra i
musicisti (Paolo Legramandi basso e cori Cristian Rocco chitarra e cori Teo Marchese
batteria e cori) una cura dei particolari che rendono il lavoro adatto a un pubblico non solo
appassionato delle sei corde. Brani come “So Good” e “How Long” uniscono robustezza di
suoni rock blues granitici a un ritornello fresco e di facile presa. Il disco è impreziosito da
collaboratori eccellenti come Luther Kent, amico di vecchia data di Zonca, membro della Hall
of Fame di New Orleans che contribuisce in “Don’t Let The Sun”; Sabrina Kabua musicista
di grande esperienza affermatasi negli States che duetta con Zonca in “Save My Soul” e
infine Fabrizio Bosso , trombettista d’eccezione con collaborazioni eccellenti come Paolo
Fresu, Mario Biondi e Sergio Cammariere, che ascoltiamo in “Feel Like Dancing Reprise”.
Contatti: www.robizonca.it
Beppe Ardito
Pagina 48
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Numero Luglio/Agosto '10
S.U.S.
Il cavallo di Troia
autoprodotto
In linea con la tipica goliardia toscana, i S.U.S. scelgono un acronimo in luogo
dell’espressione gergale “Succede una sega” ed esordiscono con “Il cavallo di Troia”,
registrato in quel di Firenze tra gennaio e marzo del 2009. Il songwriter Alessio Chiappelli
(voce e chitarra), Lorenzo Cammilli (batteria, rumori industriali e cori), Duccio Stefanelli
(basso e tastiera) optano per un rock energico e scattante, accompagnato da apprezzabili,
imprevedibili testi in italiano che sanno dosare immagini ironiche e un’esplicita insofferenza
verso gli attuali meccanismi societari. Da un parte c’è l’esigenza espressiva di suonare ruvidi
e diretti, dall’altra il desiderio filo-cantautorale di esprimere concetti di un certo spessore:
ecco così come si bilanciano influenze diverse tra loro come C.C.C.P. o Afterhours e Rino
Gateano o Giorgio Gaber. Tra episodi programmatici (l’iniziale “Succede una sega”) e
strumentali a tutto gas (“Digging For Birds”), le restanti nove canzoni in scaletta presentano
buoni spunti sonori: dal punk-rock di “Gli errori di Copernico” al groove sottopelle de “La
cura”, dal funk di “Dance” alle atmosfere soffuse di “Rimpiango l’utero” e “Questa città”
oppure all’utilizzo dei fiati nella conclusiva “Esplosione di una raffineria”. Non tutto convince
a livello di resa effettiva, ma il trio toscano dimostra a chiare note la voglia di ritagliarsi uno
spazio personale, risultare il più possibile originale e fuori dai canoni prestabiliti. Premesse, a
nostro modo di vedere, indispensabili.
Contatti: www.unasega.it
Elena Raugei
Pagina 49
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Numero Luglio/Agosto '10
Seh, Bau!
...ghe ghin gon ghen gho ghin gon ghe...
BleuAudio
Un titolo bislacco per un disco godibile dalla copertina illustrata con quello stile che piace
molto all'ambiente underground emiliano, la Bologna dei centri sociali in primis. Così anche il
suono: un post-rock a tratti post-punk, articolato e arpeggiato, plin plin di chitarre che
prediligono le tre corde alte e acute, batterie ricche di rintocchi e riempimenti, un basso che
fa da collante, andate e ritorni, inizi arpeggiati seguiti da repentine ascese e ricadute in
picchiata nel distorto. La voce sembra quella dei Three In One Gentleman Suit. La musica è
un miscuglio di Sonic Youth, dEUS, Mogwai e, appunto, Three In One Gentleman Suit.
“...ghe ghin gon ghen gho ghin gon ghe...” si staglia su tre quarti d'ora atmosferici in sette
tracce da ascoltarsi a occhi chiusi, alcune strumentali, quelle dispari (“Gente di Rosarno”,
“Seh, Paul!”, “Il mostro” e “Intro”; la prima, la terza, la quinta, la settima), alcune cantate con
la voce di cui sopra (“9 en quarto”, “Esserezio” e “Overmars”; la seconda, la quarta e la
sesta). Tutto qua. Non poco, in realtà. L'album si ascolta volentieri, e volentieri si fa
riascoltare. I Seh, Bau!, giovani parmensi, o parmigiani, come i Lute – compagni di etichetta
e recensiti in questo stesso numero di Fuori dal Mucchio – lasciano in rete poche
informazioni. Vien voglia, al solito, di risalire la china e scoprirne l'identità, magari dal vivo,
magari in un centro sociale emiliano, Bologna in primis, ma va bene qualsiasi posto.
Contatti: www.myspace.com/sebau
Marco Manicardi
Pagina 50
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Numero Luglio/Agosto '10
The Watch
Planet Earth?
Lizard/BTF
Alcune volte è necessario essere rassicurati, e così anche la Lizard, nel calderone di
produzioni di confine, piene di coraggio e ardore, che propone a un pubblico audace, sente il
bisogno di farsi cullare da un suono figlio di certezze e bellezza acquisita. Ecco allora
spuntare i Watch, un quintetto milanese che da anni porta avanti un duplice carriera: tribute
band dei Genesis, il cui valore è riconosciuto ed apprezzato in tutto il mondo per una qualità
di reinterpretazione che va ben oltre l’omaggio accorato e passionale ma ha indici di
professionalità assoluti, e gruppo con un proprio repertorio, derivativo dalla band a cui si
ispira ma assolutamente originale ed apprezzato. Si potrebbe dire che per i Watch il tempo
si è fermato ai tempi di “Nursery Cryme” e “Foxtrot”, una critica legittima, a cui i milioni di fan
della band (naturalmente era Peter Gabriel), vi risponderebbero con una gigantesco
“chissenefrega”. Resta comunque la certezza che i Watch vengono riveriti e amati anche
nelle vesti di musicisti autonomi, infatti è anche in questa veste che hanno fatto numerosi
tour e sono stati invitati a festival prog in tutto il mondo, dove hanno solo rinvigorito il proprio
repertorio con alcuni rifacimento dei Genesis. Questo “Planet Earth?” è il quarto album di
studio, il quinto in totale se si conta “Live” dello scorso anno ed è veramente bellissimo.
Impressiona la voce del leader di Simone Rossetti, ma è tutta la band (che conta anche su
un chitarrista di nome Giorgio Gabriel!), che dimostra attitudine, ma soprattutto abilità di
scrittura, in linea con quello che era lo spirito originale degli autori di “Trespass”. Tastiere
dispiegate, melodie barocche, una vocalità urgente e genuina, cori intensi, una ricerca del
suono giusto, e sempre una piacevole sensazione di grandeur che addobba canzoni come
“Welcome To Your Life”, “Earth?”, “All The Lights In Town” e “Tourist Trap”, che emoziona e
coinvolge. Insomma, i Watch sono un tuffo nel passato, ma senza nostalgia, solo bellezza.
Contatti: www.thewatchmusic.net
Gianni Della Cioppa
Pagina 51
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Numero Luglio/Agosto '10
Totò Zingaro
Il fazzoletto di Robert Johnson
Escape From Today
Dopo aver condiviso la sua prima apparizione discografica con lo scrittore Domenico Mungo
(“La salita”, a nome Totòzingaro Contromungo, 2006), Totò Zingaro ritorna questa volta con
una raccolta di brani che trasportano l'afa del Mississippi nel torinese e ricorrono alle parole
dello scrittore Luca Ragagnin (già partner di Subsonica e Delta V) per ricamare intorno al
“fazzoletto di Robert Johnson” e ad altre suggestive storie. La lunga esperienza dei
personaggi coinvolti, a partire dalla voce e dalla chitarra di Luigi “Gigio” Bonizio, con
elementi sparsi di Perturbazione, Chomski e Fratelli Sberlicchio ad infittire le trame, non
basta a spiegare quanto suonino bene questi brani: bene nel senso che non solo celano un
gran lavoro sui suoni e sugli arrangiamenti, ma catturano l'essenza di una musica e di un
luogo dell'immaginario con estrema naturalezza e senza la minima posa estetica, dotati
come sono di una onestà di fondo che se ne frega abbondantemente di quello che accade
nel mondo musicale circostante, rendendo credibile l'intera operazione. Tra omaggi espliciti
al Delta e rurali frammenti di poesia, questo vinile (è quello, rigorosamente, il formato scelto)
riesce anche a produrre una canzone struggente e memorabile come “Mia figlia di vento e di
sale”, uno dei brani più poetici che vi capiterà si sentire nella nostra lingua quest'anno. “Il
fazzoletto di Robert Johnson” trasuda polvere, accordi tirati fuori in veranda e soprattutto ci
offre la personalissima rilettura di un genere che ha sempre regalato le migliori vibrazioni a
chi lo tradiva con amore anziché ossequiarlo con freddezza.
Contatti: www.myspace.com/totozingaro
Alessandro Besselva Averame
Pagina 52
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Numero Luglio/Agosto '10
Wot
Handyman
P.O.V.
C'è della gente, in Italia, che negli ultimi anni è rimasta decisamente folgorata dalla perfida
Albione. I Wot, da Catania, quindi agli antipodi della vecchia Europa, ne sono un esempio
abbastanza emblematico. Di loro stessi dicono: “Alex Kapranos e soci andavano a palla
nello stereo delle nostre macchine nel 2004 [...] ed erano freschi e geniali in alcune
intuizioni, già con il secondo album hanno perso quel potere ammaliante, ma credo che
abbiano influito sul nostro modo di fare musica tanto quanto i Beatles, i Rolling Stones e
Mozart.” E Blur, ma anche Killers e Kaiser Chiefs, Artic Monkeys, eccetera, aggiungiamo. Il
suono è così, mettete insieme i nomi sopraccitati – togliete solo Wolfgang Amadeus – e
avrete un quadro perfetto di “Handyman” e dei suoi cinquanta minuti ripartiti in dodici
canzoni da quarantacinque giri, come lunghezza. Sono un po' tutti uguali, i pezzi del disco. O
meglio, intendiamoci, sono talmente diversi uno dall'altro da creare una specie di continuum
che parte con la prima nota per capitolare sull'ultima senza che ci si accorga dei cambi.
Viene da chiedersi, in tempi come questi, mentre miliardi di gruppi simili vengono lanciati
come fuochi artificiali dalla stampa anglosassone in giro per il mondo a mo' di ambasciatori
del brit, cosa mai ce ne possa fregare di un gruppo che fa le stesse cose nel nostro paese.
Ecco, non lo so. Però sono divertenti. Perché, comunque, c'è della gente, in Italia, negli
ultimi anni, che dalla perfida Albione è rimasta folgorata. A loro piaceranno non poco.
Contatti: www.myspace.com/wotmusic
Marco Manicardi
Pagina 53
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Numero Luglio/Agosto '10
Upload Festival 2010
Prati del Talvera, Bolzano, 17-19 giugno 2010
Non mancano, in Italia, i concorsi per band giovani e/o emergenti; quelli che vale veramente
la pena seguire si contano però sulle dita di una mano, o poco più. Un novero nel quale va
sicuramente incluso anche l’“Upload” di Bolzano, impeccabile a livello organizzativo e
stimolante nella varietà delle proposte in gara. Senza contare la possibilità per i finalisti di
suonare in apertura a un ospite di livello internazionale. Il tutto con la supervisione e la
direzione artistica di Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, presente anche in giuria.
Anticipata da un fitto programma di eventi collaterali e preparatori, la finale del festival ha
quest’anno avuto luogo lungo tre giornate: nella prima – purtroppo colpita dalla pioggia,
problema comunque aggirato bene dagli organizzatori – le “semifinali” del concorso, con
undici band in gara, dalle quali sono emersi i nomi dei quattro finalisti, esibitisi il giorno dopo
nell’ambito di una serata conclusa da una vitale performance degli Echo & The Bunnymen. A
prevalere sono stati i Sugar From Soul, compagine tedesca di Magonza autrice di un rock
muscoloso e trascinante, condito da una presenza scenica davvero notevole. Per loro, la
possibilità di suonare anche il giorno dopo, prima degli UNKLE. Quindi, in rigoroso ordine
alfabetico, i bolzanini Farbegy? e le loro sonorità parecchio indebitate con l’hard rock anni
70, interessanti ma ancora migliorabili dal punto di vista della scrittura; i Management del
Dolore Post-Operatorio da Lanciano, graffianti e incalzanti, probabilmente i più originali del
lotto con la loro esplosiva (e lievemente teatrale) miscela di elettricità ed elettronica,; e i
divertenti Passogigante da Scandicci, titolari di una spettacolare miscela di funk, r’n’b e rap.
Un ventaglio vario, insomma, con la qualità a fare da denominatore comune, e a rendere
arduo il compito dei giurati. E se, come crediamo, è proprio il buon alto dei finalisti uno dei
criteri fondamentali in base ai quali si giudica un concorso, per quanto ci riguarda l’“Upload”
è stato promosso a pieni voti.
Aurelio Pasini
Pagina 54
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Numero Luglio/Agosto '10
Nebbia
Attivi da otto anni, con alle spalle vari demo (tra cui una serie di quattro EP a tema
stagionale, “Cambi”), i torinesi Nebbia decidono di fare un po' di ordine nei propri archivi e
pubblicare una sorta di best of di quattro pezzi, un EP autoprodotto intitolato “Scorpione” che
sintetizza l'approccio del quartetto: un rock agile e robusto (a grandi linee, lo spettro che va
dai Placebo ai Queen Of The Stone Age) che cerca una mediazione con la melodia pop e la
canzone d'autore italiana. Non sono i primi e non saranno gli ultimi a fare un'operazione del
genere, ma i quattro brani sono freschi, compatti e trasmettono una energia che promette
molto bene.
Contatti: www.nebbiarock.it
Alessandro Besselva Averame
The Wildest Things In The World
“Le cose più selvagge del mondo”; sembra un’esagerazione, il titolo di questo 7” assemblato
dalla BossHoss Records in collaborazione con la Giuda l’Onesto e distribuito da Area Pirata,
ma bastano pochi secondi per rendersi conto che, in effetti, le cose stanno davvero così, o
quasi. Al suo interno, quattro brani per altrettante band, ognuna intenta a declinare a proprio
modo l’immarcescibile verbo garage-rock: gli italiani The Barbacans, gli inglesi Thee Vicars
e, sul lato B, gli argentini Los Peyotes e i messicani Los Explosivos. Sguaiati, potentissimi (i
quarti), a tratti vicini al blues-r’n’b (i secondi), sorretti non soltanto dalle immancabili colate di
fuzz ma anche da un felice uso dell’Hammond (i primi), e finanche spettrali (i terzi), i gruppi
coinvolti offrono una prestazione superlativa, tutta sudore e sostanza, in grado di solleticare
l’entusiasmo di quanti vivono e respirano certe sonorità sì legate al passato, ma ancora oggi
vitali più che mai. Nel suo genere, imperdibile.
Contatti: www.bosshossrecords.it
Aurelio Pasini
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