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a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Aprile '08
Numero Aprile '08
EDITORIALE
Sommersi da una quantità di CD che sfiora il grottesco – ma, tranquilli: tutti vengono
ascoltati e valutati con il massimo rigore – rieccoci con un nuovo appuntamento con “Fuori
dal Mucchio”, inserto virtuale (ma non solo, basta stamparsi la versione in formato PDF
scaricabile dal link qui sopra) dedicato a quanto di più interessante avviene nel sottobosco
musicale italiano.
Tanta, come sempre, la carne al fuoco, tra recensioni, interviste e lo spazio “Dal basso”, e
molte le proposte interessanti analizzate e approfondite. Dovendo però indicarne una in
particolare, la scelta cade su quello che promette di diventare uno dei fenomeni discografici
della stagione, ovvero la compilation “Ministero dell’Inferno”. L’abbiamo recensita, e ne
abbiamo parlato con quello che è il suo primo motore, ovvero Lou Chano. Ciò che ne esce è
uno spaccato quanto mai vivace di una scena – quella hip hop – che sta vivendo un delicato
momento di passaggio, in bilico com’è tra integralismo underground ed esposizione
mediatica di massa.
Buone letture, quindi, buoni ascolti e a ritrovarci fra un mese.
Aurelio Pasini
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Bikini The Cat
Il trio aveva esordito con l’ottimo “Cold Water, Hot Water, Very Hot Water” tre anni fa. Dopo
qualche cambiamento nel line-up (batteria), rieccoli sorridenti e con sotto braccio delle
melodie sempre più elaborate e pungenti per proporci una personale visione sull’eroe o
l’antieroe di turno:“Me, You And The Superheroes”, appena uscito per La Valigetta/Self. Ne
parliamo con tutti e tre: Leila Gharib, voce e chitarra; Giorgio Pighi, bassista e Gianni Brunelli
alla batteria e percussioni.
Come vi siete avvicinati alla musica singolarmente?
Gianni: Mi sono avvicinato alla musica spinto da pura passione. È successo vent’anni fa,
quando ascoltavo ancora i Rockets grandissimo gruppo francese degli anni 70/80 e così
pian piano mi sono accostato a questo mondo fantastico. Ho iniziato da autodidatta
suonando la batteria con una band di amici con cui facevamo delle cover dei Metallica.
Dopodiché mi sono messo a studiare per qualche tempo e adesso sono arrivato a suonare
la batteria che è la mia passione, diventando anche un insegnante di questo strumento.
Leila: Canto da sempre, ma la primissima esperienza nella musica è stata come chitarrista
quando la cantante del gruppo è sparita: ho deciso di sostituirla sia nella chitarra che nella
voce. Mi sono avvicinata alla musica dopo aver visto Billy Corgan suonare “Bullet With
Buttlerfly Wings” e mi sono detta: “voglio suonare la chitarra!”.
Giorgio: All’inizio volevo suonare la chitarra, ma le ragazze mi hanno imposto di suonare il
basso e poi non ho più smesso. Sarà successo una decina di anni fa. All’inizio doveva
suonarlo Leila ma se lo sognava di notte, aveva gli incubi e così l’ho suonato io. E adesso mi
piace molto suonarlo.
Quando e come il vostro trio è diventato gruppo: i momenti più salienti di questi anni
assieme.
Gio: Ci siamo incontrati nel 2004. Il trio era nato con un altro batterista che l’anno scorso ha
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lasciato il gruppo e dopo una vastissima ricerca abbiamo trovato Gianni. Poi, qualche live
prestigioso e quei concerti in cui si crea un alchimia incredibile con il pubblico: queste sono
state finora le maggiori soddisfazioni.
L: Fare uscire due dischi è sempre un grande soddisfazione - al di là di tutti i live – così con
due pubblicazioni complete andiamo avanti migliorando sempre di più.
Componendo le canzoni di volta in volta di cosa vi siete accorti di avere bisogno per
essere soddisfatti di un pezzo.
L: Sicuramente aumentare lo studio delle melodie dei pezzi è stato uno dei cambiamenti più
grossi tra il primo e il secondo album. Oggi necessitiamo di molta più disciplina
nell’approccio. Una visione globale delle canzoni soprattutto dall’esterno, infatti abbiamo
ascoltato e riascoltato molto ciò che componevamo per sentire com’era l’impatto dal di fuori,
da ascoltatore per tenere in considerazione tanti aspetti, non solo la musica, ma anche il
palcoscenico, la resa e l’immaginario.
Una canzone comunque ci soddisfa quando gira bene.
Gio: Non è detto che segua un percorso. Può arrivarci velocemente o viceversa avere
bisogno di parecchio tempo per nascere.
Sentendo questo disco pare che - come avete ammesso anche voi – sembra avere
più carattere rispetto al vostro esordio – sentite di essere cresciuti?
Gio: Si indubbiamente è un disco più maturo, sicuramente per l’approccio compositivo e la
grande differenza è l’arrangiamento del pezzo stesso in sala prove. Ci sono stati tempi più
lunghi e la maturazione è arrivata dopo più tempo rispetto al primo album che era
particolarmente immediato
Cosa vi piace di più del fare musica assieme? Suonare dal vivo, comporre canzoni?
Andare in giro per l’Italia?
L: I cinquanta minuti di live.
Gio: Indubbiamente il live è il momento della realizzazione totale, però anche comporre le
canzoni è bellissimo: trovarsi con le idee e provarle, arrangiarle è un momento unico forse il
mio preferito. Poi il live lo raggiunge pure con la sua essenzialità che è fondamentale per un
gruppo o per la persona che vuole trasmettere, però quel momento di raccoglimento in cui si
dice questa è la mia idea sviluppiamola mi membra addirittura splendido.
Gia: Anche per me il live è la condizione migliore e anche quella che da maggior
soddisfazione però, nel momento in cui il live è stato assodato, personalmente sento
l’esigenza di tornare in sala prove per la composizione di nuove cose. Insomma sono due
cose che si bilanciano assolutamente perché l’una non può fare a meno dell’altra.
Questo disco racconta di killer, supereroi, attrici ma come avete pensato a questi
testi?
L: Ci sono un sacco di personaggi, come hai notato, nei dieci episodi che compongono
l’album e il supereroe è la tematica principale. Ci teniamo a raccontare il legame che
abbiamo con questa figura che ci assomiglia nelle dinamiche della vita per i musicisti e per i
creatori d’arte non solo nell’ambito della musica.
Gio: E tutti i personaggi che caratterizzano i vari episodi sono un po’ supereroi, ciascuno a
modo suo. Questa è una valenza molto importante per il nostro lavoro. C’è sia il supereroe
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nel vero senso della parola che il supereroe inetto.
E il personaggio “Kino” ad esempio chi è?
L: È la storia di tre personaggi che hanno strade differenti e comunque cerco di dire loro non
mollate in ambiti diversi: il cantastorie, l’attrice e Jack che va e viene perché non riesce ad
andare fino in fondo.
Tra i vostri ascolti musicali, chi è scalfito nella roccia?
L: Beatles.
Gia: Genesis
Gio: Queen, Police o U2. Ci hanno fatto crescere, accumulare esperienze, sensazioni e
momenti attraverso la loro colonna sonora, diventando colonna sonora.
L: Anche la personalità di questi leader ha influito per il loro carisma inimitabile.
Gio: E il carisma supera anche il livello musicale in alcuni casi.
Per la composizione dei brani sono intervenuti in alcuni momenti altri musicisti.
L: Negli arrangiamenti di alcuni brani ci è stata vicina Elisa Toffoli per tutto il resto è tutto
farina del nostro sacco.
Gio: Poi ricordiamo anche il contributo del vecchio batterista Arrigo Cestari che compare in
“Byron Bay”che chiude l’album.
A proposito, com'è avvenuta la collaborazione con Elisa?
L: Inizialmente c'è stato un grande interesse per il nostro sound e immaginario da parte di
Elisa, del tutto spontaneo. Dopo vari incontri, abbiamo accettato di scambiare i nostri punti di
vista sull'arrangiamento globale e sull'importanza di vari approcci alla composizione e alla
tecnica. Un'ottima maestra!
Come avete conosciuto i tipi della La Valigetta?
L: Li ho contattati tempo fa, in occasione del primo disco. È sempre rimasta in sospeso così
abbiamo scelto di collaborare con loro per questo album.
Il disco dov’è stato registrato?
P: Vicino casa nostra, a Valeggio Sul Mincio in uno studio che si chiama Sotto il Mare
(anche se non c’è il mare) dal bravo Luca Sacconi, una persona disponibile e un ottimo
uomo da studio che ha lavorato tanto sul suono e ci ha dato dei consigli sulle riprese.
Il vostro live l’avete strutturato in qualche modo?
L: Per il momento rimane fedele al disco. Ci sono delle finestre legate solo al live con delle
parti strumentali che faremo esclusivamente sul palco, ma adesso siamo focalizzati sul
disco. Pian piano faremo anche i vecchi pezzi visto che continuano a chiederceli.
Contatti: www.lavaligetta.it
Francesca Ognibene
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DonSettimo
Il progetto si chiama DonSettimo, ma in realtà si tratta di un ideale punto di incontro tra
tradizione popolare e canzone d'autore: quella delle bande di paese e di De Andrè, ma
anche quella di Tom Waits e Hugo Race. Ne abbiamo parlato con il titolare,Settimo
Serradifalco.
Chi è DonSettimo?
Prendo in prestito le parole di Barore Servegiu, noto Cristolu: “Mi chiamo DonSettimo, stato
civile celibe e professione nessuna. Un po’ frate e un po’ bandito, questo lo deciderà chi
leggerà un giorno la mia storia. Altezza un metro e ottantadue senza i cosinzos, capelli
pochi, occhi verdi e sempre tristi da quando il destino mi ha dato un calcio nel basso ventre
e il Signore non è riuscito a trattenere la mia collera. Segni particolari: una cicatrice da
forcipe sulla tempia sinistra e una da coltello sul fianco destro.” Il resto è un affare di legami
e, se non sono di sangue, vanno consacrati. Ci esibiamo in quattro: io, mio fratello, il fidato
guappo tuttofare e un suonatore di tamburi. Con quest’ultimo non avevamo nessun vero
legame. Per apparentarci, abbiamo fatto ricorso all’unica via possibile per quelli che parenti
non sono nati: il Sacramento. Dal giugno dello scorso anno è il mio padrino di cresima. Si
chiama Salvo Compagno, il Padrino Compagno.
“DonSettimo” è il tuo/vostro primo disco. L'impressione generale è che nelle dieci
tracce in scaletta sopravviva buona parte della canzone d'autore più “maudit” della
nostra tradizione, da Fabrizio De Andrè a Cesare Basile passando per Piero Ciampi e
Vinicio Capossela...
Io la vedo così: i nomi che hai fatto hanno attinto alla stessa grande fonte, si sono abbeverati
allo stesso fiume, ma sono, nel medesimo istante, gli stessi che alimentano questo fiume,
con le loro creazioni. Questo perché ci potrebbero essere altri viandanti – come me, ad
esempio - che al passaggio si fermano per bere.
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Parallelamente emerge uno spiccato interesse per un folk ibrido, mutuato da modelli
stranieri – pensiamo in particolare a Hugo Race e Tom Waits –, ma anche fortemente
legato alla musica popolare e alla tradizione bandistica di paese...
Io direi pure Robert Wyatt. Hugo Race, Tom Waits e non so chi altri sono la formazione. È
un po’ come cucinare: il soffritto è la base di tutto. Poi, ci sono le spezie, che danno un taglio
diverso al piatto. Sono quelle che, in senso buono, ti fanno torcere le budella. E Wyatt è un
torcibudella.
Al disco partecipano vari musicisti, primo fra tutti proprio Cesare Basile, chiamato
anche a produrre. Come sei riuscito a coinvolgerlo e come è stato lavorare con un
musicista come lui?
Al disco partecipano circa una quindicina di musicisti, artisti ispirati e maestri di
conservatorio. La scelta è caduta su Cesare in modo molto naturale. Ascoltai un suo album,
“Closet Meraviglia”, sapendo già che mi avrebbe impressionato anche senza avere un’idea
di cosa stavo per affrontare. Così fu. Mi sembrò naturale proporgli la produzione del mio
disco. Gli feci sentire i primi provini e non ci fu molto da spiegare. Per molti aspetti, abbiamo
una formazione musicale molto simile. Nulla di tutto ciò faceva presumere che ci sarebbero
stati momenti di tensione in studio, dovuti al fatto che ogni tanto mi scaldavo, non capendo
subito la direzione che prendeva. Fortunatamente lui si è comportato da saggio, da fratello
maggiore, riportando la situazione alla normalità.
L'impressione è che il rapporto che vi lega vada al di là di una semplice
collaborazione. Verrebbe da chiamarla quasi un’unità di intenti, almeno a giudicare
dalle analogie musicali ma soprattutto da testi che ricordano da vicino la poesia
obliqua dell'artista siciliano...
In linea di massima è così. In comune abbiamo, tra le altre cose, un’attenzione particolare
per i testi. E poi Basile è un bel personaggio, ha fatto tanto. Ha introdotto alla musica italiana
e alla collaborazione con essa personaggi del calibro di John Parish, ha ridato nuova linfa ad
artisti come Nada, è stato un prezioso aiuto per gruppi come Afterhours; tutti ospiti, insieme
a tanti altri, negli studi di registrazione catanesi che Cesare ha contribuito a far conoscere.
Esci per Malintenti Dischi. Come giudichi l'esperienza dell'etichetta palermitana e, di
riflesso, la tua personale?
Quando è nata, circa un anno e mezzo fa, Malintenti era la prima etichetta palermitana di
questo genere. Altre si occupano si jazz e musica neomelodica partenopea. L’unica con una
distribuzione nazionale, un ufficio stampa e un instancabile booking (ha prodotto più di 140
concerti lo scorso anno).
È un’ etichetta che ti sta addosso, ti lega a tutti gli altri suoi artisti e a sé. Io, il ventinove di
questo mese, con delega del sindaco, celebrerò al Castello di Carini il matrimonio di una
delle colonne portanti della Malintenti, Andrea Gullotta, che si sposa con una giovane e
splendida neozelandese di nome Lisa. Credo che questa etichetta nasca come Malintenti
ma sarà nota come “Malintenti e Sacramenti”.
Quali sono le difficoltà che incontra un musicista indipendente come te in un
contesto musical-culturale come la Sicilia del 2008 e quali differenze ci sono, se ci
sono, tra la scena di una città come Palermo e quella di una realtà come Catania, città
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di provenienza, tra gli altri, anche di Carmen Consoli?
Innanzitutto non contemplo la parola indipendente. Ha perso la sua connotazione originaria,
il concetto di indipendente si è smarrito. Palermo è semplicemente fatta da artisti che si
fanno in quattro per portare avanti la loro musica, macinano chilometri per tenere concerti in
tutta la penisola e consumano ore e ore di sala prove. A Catania siamo fortemente legati. È
la città dove la musica di DonSettimo ha preso forma, si è concretizzata, in uno studio della
provincia, il Sonoria di Vincenzo Cavalli. Ed è stata prodotta da un catanese, Cesare Basile.
Quali realtà musicali ti sentiresti di consigliare a chi che volesse avvicinarsi alla
scena siciliana?
Facciamo un giro a Palermo. Se bevessimo un bicchiere nella piazza del mercato di Ballarò
potremmo imbatterci in un concerto della Matrimia Klezmer Band; se ci spostassimo per
cena verso piazza Kalsa potremmo assistere alle rievocazioni sacre siciliane del Teatro
Ditirammu o alle improvvisazioni jazz dell’Orchestra Instabile in Disaccordo, sederci ad
ascoltare le morbide ballate west coast dei Second Grace, quelle low-fi di Herself, o, ancora,
il blues acido dei Waines o degli Omosumo. Oppure potrei prenotarti un posto ad una festa
della mia etichetta, dove il palco diventa un salotto con tanto di tavoli imbanditi ai quali
siedono tutti gli artisti Malintenti. Ovvero Donsettimo, Akkura, Om, Mimi Sterrantino, Sad
Pony e Toti Poeta, tutti pronti per suonare. Allora, andiamo?
Contatti: www.myspace.com/donsettimo
Fabrizio Zampighi
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Grimoon
I Grimoon non passano inosservati. La bellezza del loro secondo disco, “Les 7 vies du chat”
(Macaco/Audioglobe), ci dà l’occasione di parlare del loro universo a 360 gradi (dal cinema
alle etichette indipendenti). Solenn Le Marchand (voce, tastiere) e Alberto Stevanato
(chitarra, voce) ci introducono al mondo del gruppo italo-francese.
Questo vostro secondo disco sottolinea ancora di più la “tortuosità” del vostro
percorso artistico. Le vostre influenze possono essere inserite in una griglia
intertestuale dove, oltre alla musica, troviamo cinema e letteratura e magari anche
teatro? Il vostro stile sembra abbracciare l’arte a 360 gradi.
Sì, è vero. Abbiamo un rapporto molto forte con l’arte in generale e non solo con la musica. Il
cinema ci influenza molto. Non solo perché durante i nostri concerti proiettiamo i nostri
cortometraggi: il cinema è anche nascosto nei nostri testi, nel nostro immaginario. Anche nel
nuovo disco c’è un riferimento al film “Les enfants du Paradis” nella canzone “Cirque
Funambules”. In questo nuovo disco ci siamo anche avvicinati al circo e al teatro. Ma ci
interessiamo anche di arte figurativa: la grafica del nostro nuovo disco è stata affidata ad
una giovane artista francese, Camille Meslay. Non siamo solamente un gruppo musicale, ma
un vero e proprio progetto artistico che si evolve con il tempo, anche grazie agli incontri che
facciamo e alle cose che ci circondano.
Nel disco ci sono anche molti ospiti tra cui spicca il nome di Pall Jenkins dei Black
Heart Procession, come è stato confrontarsi con un nome importante della musica
indipendente? In cosa vi ha aiutato?
È da un po’ di anni che siamo in contatto con Pall. Due anni fa ci siamo anche incontrati di
persona in occasione del tour europeo dei Black Heart Procession. Abbiamo condiviso il
palco e, soprattutto, abbiamo fortificato la nostra amicizia. Pall è una persona molto umile e
disponibile. C’è una stima reciproca tra noi. Anche i Black Heart Procession sono molto
aperti all’arte in generale. Ha accettato subito di suonare in una nostra canzone. Ovviamente
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ha avuto carta bianca. Diciamo che la collaborazione di Pall è stata importante per noi
perché confermava l’affetto e la stima che c’è tra noi. Il suo intervento nella nostra canzone è
minimo ma assolutamente appropriato. Sono sicura che in futuro avremo nuovamente
occasione di lavorare assieme.
Com’è stato rimettersi al lavoro dopo tutte le buone parole spese per il vostro disco
d’esordio “La lanterne magique”? Sentivate il peso delle aspettative?
Infatti “La lanterne magique” era stato molto apprezzato e speravamo di fare un secondo
disco all’altezza del primo. Sicuramente qualcuno aspettava questo disco e sì, in un certo
senso sentivamo il peso delle aspettative. Comunque non abbiamo mai temuto di fare un
disco minore. Le nostre canzoni sono sincere, le scriviamo come piacciono a noi e avevamo
delle buone idee per i nuovi brani. Poi l’entusiasmo degli ospiti ci ha dato ancora più fiducia.
Solitamente ogni band si dice soddisfatta del disco di cui sta parlando e penso che si
possa dire anche per voi. Come pensate di muovervi per il futuro? Dove pensate di
migliorare?
Forse la cosa più importante per noi è che siamo riusciti a dare di nuovo espressione al
nostro mondo fatto di personaggi strani, di ambienti contaminati e di tanta fantasia. E, credo,
che sia quella la via da seguire per noi. Forse l’unico dispiacere di “Les 7 vies du chat” è
quello di non aver potuto allegare un DVD con le nostre immagini. Sicuramente cercheremo
di farlo di nuovo in futuro. Ci vorrà un po’ di tempo adesso prima di far un nuovo disco intero
ma faremo forse uscire qualche EP tra non moltissimo. Ci stiamo pensando.
La critica vi adora. Com’è invece il feedback del pubblico?
Il pubblico è ancora timido con noi. Abbiamo qualche fan convinto ma diciamo che siamo
ancora abbastanza ignoti in Italia. È difficile trovare gli spazi giusti per uno spettacolo come il
nostro. Anche se devo dire che solitamente il pubblico rimane abbastanza stregato dalla
nostra performance: l’incrocio tra video e musica crea un tutto poetico e sognante che sa
anche essere ironico e divertente. Se a fine concerto il pubblico va a casa pensando alla sua
infanzia, sognante, assente o pensante e divertito allora siamo contenti. Sarebbe bello
riuscire ad essere più presenti: portare lo spettacolo Grimoon ad altra gente, farci conoscere
dal pubblico. E non è cosa facile in Italia.
Come si confronta una band trasversale come la vostra con un panorama e una
scena spesso più attenta alle apparenze che non alla sostanza? Una scena forse
chiusa in certi compartimenti e pregiudizi… che esperienze avete?
Non è facile. È anche difficile trovare gli spazi per uno spettacolo come il nostro (anche se in
realtà noi suoniamo ovunque: pensa che abbiamo suonato a casa di un amico
recentemente). Forse la gente pensa a priori che i Grimoon siano un gruppo intellettuale,
autocelebrativo e noioso. Il progetto Grimoon sarà anche colto ma sicuramente non
cerebrale: nel nostro spettacolo lasciamo molto spazio all’ironia, alla semplicità. I nostri
concerti sono densi di emozioni, di riferimenti, di cultura ma non sono mai forzati. Ti posso
assicurare che in furgone non si parla mai di cose intellettuali con i Grimoon. Stiamo
cercando di uscire un po’ dalla scena indipendente, proprio perché ci sembra poco propensa
ad interessarsi a questo progetto che descrivi giustamente come trasversale. Il concerto dei
Grimoon, forse più che al pubblico indie, piace alla gente semplice, curiosa. Ci troviamo
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molto bene in ambienti artistici ma abbiamo suonato anche per bambini, anziani, scioperanti,
ecc. La scena indipendente italiana tende ad essere troppo chiusa, ben poco curiosa e
difficilmente propensa alla contaminazione. Almeno così sembra…
Avete messo alcune canzoni sia in francese che in italiano. Come mai?
“La compagnie des chats noirs” è nata prima in versione francese. Il brano è stato registrato
con i Tre Allegri Ragazzi Morti e loro solitamente cantano in italiano. Appena abbiamo dato
loro il provino, Davide Toffolo ha abbozzato una traduzione. Io ci tenevo a fare la versione
francese ma mi sembrava anche giusto lasciare spazio agli ospiti quindi abbiamo tradotto la
canzone assieme e abbiamo registrato anche la versione italiana. “Circo Funambules” è
invece nata in italiano. Mi piaceva che nel disco ci fosse un brano in italiano perché l’Italia è
il paese dove viviamo e dove facciamo più concerti. È strano perché durante i nostri live il
pubblico che conosce le nostre canzoni non canta, tranne quando facciamo le poche
canzoni in italiano oppure “I’m Looking For Paris”. Era bello dar loro un brano in italiano
(anche se penso che nessuno lo canterà mai perché è parlato…ahimé). Comunque il brano
è nato in maniera un po’ buffa: la storia è stata inventata da me e Thibaut Derien, ovvero da
due francesi. Mentre la stavamo immaginando io la scrivevo in italiano. Poi Michele Orvieti
dei Mariposa ha anche lui dato il suo ritocco e “Circo Funambules” è nata. La versione
francese è stata fatta successivamente per dare più spazio alla parte musicale di questa
canzone.
Grimoon-Macaco, un matrimonio che sembra funzionare anche perché tre dei vostri
componenti sono i fondatori della label.
Le difficoltà sono numerose (anche per il fatto di essere sempre noi a gestire tutti gli aspetti,
dal booking all’ufficio stampa, alla produzione dei video) ma andiamo avanti così perché ci
piace e perché la musica è la nostra vita. La Macaco è nata perché volevamo contribuire
attivamente alla scena indipendente italiana. Abbiamo un’idea ben precisa del lavoro e delle
nostre possibilità. Siamo attivi nell’organizzazione di eventi, produciamo un paio di dischi
all’anno. Speriamo anche di riuscire a sviluppare l’etichetta sul territorio europeo. Ci stiamo
lavorando! La Macaco è anche la prova schiacciante che i Grimoon sono un gruppo
indipendente. Facciamo tutto noi, per noi, e per gli altri.
Voi siete una delle band “simbolo” della rinascita musicale – se si può dire – del nord
est. Negli ultimi tempi Veneto e Friuli si sono impegnate moltissimo per creare una
scena culturale attiva e fertile con etichette, gruppi, festival e concerti. Come sta
procedendo il progetto? Si avverte questo fermento? Questa voglia di fare?
Sai che noi siamo abbastanza all’oscuro di tutto questo? Nel senso che ci sembra che la
scena Veneta non sia molto attiva. Anzi, i gruppi e le etichette ci sono, l’assente è il pubblico!
I locali sono pochi e fanno fatica a portare avanti la programmazione. Io parlo in particolare
della provincia di Venezia, le altre province sono un po’ diverse. Ad aprile viene organizzato
il “Venetian Industries Festival”: una due giorni di musica veneta… là ci sarà occasione di
farsi un’idea della proposta della nostra regione.
Come vedete il futuro dei Grimoon?
Intanto abbiamo il tour italiano, poi andremo un po’ all’estero. Abbiamo un po’ di progetti ed
idee ma per ora niente è confermato. Posso accennarti che si parla di fare un altro
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lungometraggio, speriamo di farcela! Sicuramente continueremo a dare forma al mondo che
abbiamo dentro. E speriamo che ci sia sempre più gente curiosa di conoscerlo.
Contatti: www.grimoon.com
Hamilton Santià
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Lou Chano - Ministero dell'Inferno
Efficace spaccato di quanto di buono sta producendo il collettivo hip hop Truce Klan, la
compilation “Ministero dell’Inferno” (Propaganda/Self) si sta rivelando uno dei casi
discografici più eclatanti di questi ultimi mesi. Ne abbiamo parlato con quella che di fatto è la
mente del progetto, Lou Chano.
“È un disco del Truce Klan a tutti gli effetti: partecipano tutti, dai membri storici e più
affermati alle nuove leve. Ma al tempo stesso è anche un progetto a sé stante, più esteso,
con la volontà di racchiudere in un unico disco anche altre realtà, rap e non solo, a cui il Klan
si sente particolarmente vicino”: spiega subito tutto per bene Lou Chano, quello che un po’ è
stato il coordinatore di questo progetto che sta facendo non poco rumore (e che nelle sue
prime presentazioni dal vivo ha dato vita a sold out con decine se non centinaia di persone
fuori dal locale). Il “Ministero dell’Inferno” in effetti è un biglietto da visita completo, un
condensato perfetto dell’immaginario etico ed estetico del Klan, uscito in un momento in cui
questo folle e feroce collettivo romano sta uscendo dallo status di best kept secret per
diventare la cosa-di-cui-tutti-parlano. Magari anche a sproposito, o con un’enfasi quasi
sospetta… “Ora tutti ci esaltano? Certo, succede di continuo. Ma la storia del Klan è sempre
stata contrassegnata da odi ed amori, chi prima ci insultava poi chiedeva di lavorare con noi,
magari chi poi con noi ha lavorato dopo ha ripreso ad insultarci. Però è vero, adesso dire
che si ascolta il Klan fa figo, c’è questa ondata ben precisa, arrivata credo non a caso ora
che il nostro suono e la nostra identità si sono definite al cento per cento, tant’è che
cominciano ad esserci in giro anche dei nostri cloni in erba, cosa che un po’ ti lusinga, un po’
ti fa tristezza, perché ad imitare sono bravi tutti, il trick è fare qualcosa di nuovo. Su Internet
andiamo fortissimo, i concerti sono trionfali…”.
È anche vero che una nota stonata c’è, ed è quella del numero di copie vendute dei lavori
precedenti, alcuni dei quali davvero ottimi (vedi “Verano Zombie” di Noyz Narcos e “Cosa
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avete fatto a Metal Carter?” del suddetto). “Non nascondo che sì, un po’ ci siamo rimasti
male”, spiega Lou Chano. “Io arrivo dalla scena techno, quindi conosco bene la situazione
delle nicchie. Quando come Tekno Mobil Squad davamo alle stampe dei vinili, stavamo
sempre su cifre basse, mille, millecinquecento copie, il mercato alternativo in Italia non ha
mai fatto grossi numeri manco in passato, ma quelle copie le finivamo in tre mesi. Oggi, nella
scena rap nazionale, se raggiungi le mille copie vendute sei già un fenomeno, ed è un
traguardo alla portata solo dei migliori. È paradossale: ti comprano in trecento, ma poi scopri
che ti conoscono in decine di migliaia. Per noi va bene così, possiamo allora permetterci di
usare i dischi come biglietti da visita che diffondono il nostro Verbo, poi raccogliamo i frutti di
questo lavoro coi live. Ma in generale credo proprio che o si trovano nuove strategie per
vendere i dischi, o questi ultimi sono destinati a scomparire”. Non ditelo alle major. O anzi,
diteglielo. A proposito di major, però, Lou Chano ci ha raccontato un po’ di cose interessanti:
“Il ‘Ministero dell’Inferno’ è stato in ballo per uscire con distribuzione Universal. Tra noi e loro
era nato un rapporto all’epoca del featuring di Metal Carter nell’ultimo disco di Fabri Fibra
con ‘Cento modi per morire’, e quando poi si è cominciato a parlare del progetto del
‘Ministero’ si è manifestato subito un interesse di base a lavorare alla distribuzione del
prodotto. Poi si sono tirati indietro per la crudezza dell’artwork, e di tutto l’immaginario che
abbiamo costruito attorno al disco vedi anche le foto, curate Alessandra Tisato”. Fotografa
brava assai, che anche i lettori del Mucchio conoscono visto che la foto di copertina con
Miss Violetta Beauregarde (anche lei tra l’altro nel ‘Ministero’, come ovvio) è sua. “Era
normale che loro ci dicessero no, che non se la sentissero di distribuire materiale con questo
tipo di immaginario esplicito: sono una major, e in quanto tale se fanno qualcosa smuovono
meccanismi che altri non smuovono, sono più nell’occhio del ciclone. Però sui contenuti del
disco non hanno mai detto una parola, mai preteso ingerenze di nessun tipo. Invece, è
proprio dai distributori cosiddetti indipendenti che ho riscontrato il più alto tasso di bigottismo,
che ho sentito dei commenti disgustati o sprezzanti per il contenuto del lavoro. Proprio da
loro, che magari distribuiscono dischi dei Deicide o di Buju Banton senza fare una piega”.
E adesso? “Sicuramente il ‘Ministero’ è un ottimo modo per fare il punto della situazione,
fotografa il Klan in un momento in cui ha raggiunto la piena maturità. Ma di certo non ci
fermiamo qua. Il mercato del disco è depresso, vero, ma non per questo bisogna rinunciare
a mettersi sulla mappa e, una volta che ci si è sopra, a presidiare il territorio sfornando dischi
di continuo, per far vedere che si è sempre al massimo della forza creativa, che non si molla
di un centimetro, anzi. Abbiamo già in cantiere moltissime nuove uscite, alcune in realtà
sono già in giro vedi Noyz Narcos e altre sono imminenti, c’è l’album del Chicoria, c’è in
lavorazione il progetto Malarazza, il versante più bastardo e stradaiolo del Klan, c’è il nuovo
di Carter che si intitolerà ‘Vendetta privata’, e altro, altro ancora…”.
Contatti: www.myspace.com/ministerodellinfernoofficial
Damir Ivic
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Numero Aprile '08
AA.VV.
Ministero dell’Inferno
Propaganda/Self
Ora che il Truce Klan è diventato il fenomeno sulla bocca di tutti, anche della scena indie
nazionale (vedi quanto scritto su Rockit, recensione e intervista), e ora che le due date di
presentazione di questo “Ministero dell’inferno” sono andate sold out al Tunnel di Milano e al
Circolo di Roma con tanto di grumi di gente rimasta fuori, ci auguriamo che questo CD
diventi non solo uno dei più scaricati del periodo, ma anche uno dei più venduti. Diciamo
questo perché due album veramente ottimi usciti dalla prolificissima fucina Truce poco
tempo fa, quello di Metal Carter e quello di Noyz Narcos, alla fine si sono ritrovati con delle
vendite molto, molto relative. “Ministero dell’Inferno” è qualitativamente inferiore rispetto a
questi due lavori, ma è un compendio perfetto, esemplificativo ed esaustivo, della galassia
creativa della posse romana. Ovvero: rime tra il gotico e l’oltraggioso, immaginario
contemporaneamente crudo e fumettistico, schiettezza sospesa tra verità ed iperverismo.
Qua in più si accelera sul versante pesante del suono, con sconfinamenti metallari (nel
senso di rock) e in generale un hip hop bello spesso, grezzo, “ignorante” (ma un’ignoranza in
realtà studiata assai e benissimo rifinita, altro che lo-fi), sulla scia horrorcore di certe
produzioni rap anglosassoni nei primi anni ‘90. Se non ci accodiamo al coro unanime di lodi
e meraviglia è solo per dire che per noi il Klan può raggiungere vette ancora migliori (anche
in trucidità, pure se qua si va giù pesante); però questo lavorane collettivo, coordinato da
Lou Chano e impreziosito da varie ospitate (pure Kaos e Fabri Fibra, ma anche i Cripple
Bastards), parla forte e chiaro. Si respira sostanza, non posa. Hai detto poco(
www.myspace.com/ministerodellinfernoofficial).
Damir Ivic
Pagina 16
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Numero Aprile '08
Christian Rainer
Turn Love To Hate
I.E.G.
Austriaco, classe 1976, da un buon numero di anni parte integrante della nostra scena
artistica, non solo musicale (andate a darvi un’occhiata al curriculum che si trova sul suo
sito, vi imbatterete in un impressionante elenco di romanzi, racconti, saggi, installazioni e
videoarte), Christian Rainer ha partecipato finora a dischi di Ronin e dato alle stampe le sue
composizioni circoscrivendole agli ambiti di confine tra musica colta e rock di ricerca. A
quanto ci risulta, a parte il recente disco realizzato in collaborazione con i Kiddycar, questo
“Turn Love To Hate” è il suo primo disco totalmente dedicato alla forma canzone classica.
Un lavoro che colpisce subito per la maturità e la solidità della visione d’insieme. L’area
d’azione prescelta dal Nostro è quella della canzone romantica dalle coloriture noir e
cameristiche, un tema che non è certamente nuovo ma che è di difficile trattazione. E a
Rainer viene benissimo l’alternanza tra scorci strumentali (davvero splendidi i due interludi di
“Schneeberg”) e canzoni solenni e densamente abitate da emozioni e fantasmi, guidate dalle
tastiere e dal crooning crepuscolare del titolare, con risultati eccellenti in pezzi come “Fish
‘N’ Chips” e una “Le jongleur” che trascina i Tindersticks nel mondo di Yann Tiersen. Molto
più di una scommessa vinta: un songwriting di nobile ascendenza e di spessore notevole,
che magari non è ancora arrivato dove vorrebbe essere ma ci è dannatamente vicino. Il CD
è accompagnato da un DVD contenente i videoclip dei brani realizzati da vari artisti(
www.christianrainer.com).
Alessandro Besselva Averame
Pagina 17
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Numero Aprile '08
Cipelli – Fresu – Garcia - Testa - Zanchi
F. - à Lèo
Fuorivia/RadioFandango
Viene da lontano l’idea su Ferré del pianista Roberto Cipelli. Nacque a Liegi dall’incontro
con un birraio, ch’era stato amico di Léo. Si è sviluppata in anni di concerti, infine è diventata
un disco. Ma non è un disco di cover, semmai la composizione affettuosa d’un mosaico di
suoni e parole, ispirato allo chansonnier di Monaco. In osmosi con il Ferré artista e uomo,
Cipelli realizza un album di struggente bellezza, nel quale si sostengono la melodia allo stato
puro (“Les poètes”, “Les Forains”) e le oblique riletture del jazz (l’originale “Free Poétique”).
Grazie anche al lirismo perentorio del trombettista Paolo Fresu e alle interpretazioni vocali
del più francese dei nostri cantautori, Gianmaria Testa. Marziale e sferzante in “Monsieur
William”, onirico e sentimentale come in “L’Adieu”, “F. – à Léo” sfoglia pagine di un
canzoniere imprescindibile per la canzone d’autore di ogni latitudine. Il mood del lavoro, nato
da una consuetudine live d’oltre un lustro, ha fatto sì che trovassero posto in scaletta episodi
extra-Ferré, come le citazioni da Pavese e Verlaine, e l’omaggio per niente scontato a
Tenco: una “Lontano lontano” arrochita e distante, standard messo al sicuro. Il manifesto
“Avec le temps” apre (con delicata intro pianistica) e chiude (in versione bilingue) la tracklist.
L’ottimo ensemble, oltre a Capelli, Fresu e Testa, schiera Attilio Zanchi al contrabbasso e
Philippe Garcia alla batteria (www.produzionifuorivia.it).
Gianluca Veltri
Pagina 18
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Numero Aprile '08
Damien
Mart/Art
Suiteside/Audioglobe
I Damien* sono la risposta a chi ancora dubita che in Italia si possa fare rock’n’roll surfando
sulle nuove tendenze d’oltremanica senza sembrare dei poveri dementi. La giovane band di
Pesaro ha passato gli ultimi anni su ogni tipo di palco qui in Italia, accumulando oltre un
centinaio di concerti ed è quasi sorprendente notare come “Mart/Art” sia il loro vero esordio.
Un esordio folgorante in quanto si tratta di un disco di tiratissimo “dance-power-rock”
maturato grazie all’incessante attività live e che trova in quella situazione il suo naturale
sfogo. Il peso specifico di brani come “Fix It” e “Street Fighter 2 Turbo” si avverte sin dalle
prime battute, con la cassa che pesta e le chitarre, mai meno che distorte, che costruiscono
un turbine melodico che coinvolge e diverte. Insomma, si tratta di un disco abbastanza
maturo, proprio perché la band viene da una gavetta che raramente si riesce a fare qui in
Italia (… intesa come maturazione live dopo live) e da una voglia di confronto che non si
limita alle prime sensazioni. Le scelte di “Mart/Art” sono sì istintive, ma calibrate e pensate
per sortire le giuste sensazioni e i giusti effetti (come il singolo “Bunburying”). La produzione
è furbetta ma se riesce a rendere questo disco maggiormente appetibile, va anche ammesso
che non rende tutto quello che la band riesce a dare dal vivo (www.damienlive.com).
Hamilton Santià
Pagina 19
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Numero Aprile '08
Daniele Brusaschetto
Circonvoluzioni
Bosco Rec
Ci sono degli artisti di questo mondo che non lo sembrano affatto, anche se parlano di cose
“concrete” come respirare o camminare. “Se mi tocchi mi rompo”come titolo di una canzone,
ma anche come immagine che personalmente intravedo pensando alla persona di Daniele
Brusaschetto. “Circonvoluzioni” è il sesto album del cantautore torinese – la cui attività
solista ha avuto inizio nel 1995 – nell’ambito di un percorso profondo e oscuro alla ricerca
del personale modo di cantare senza trasbordare ma anzi andando sotto tono. Usare la voce
cantando quasi sussurrando è caratteristica di questo come dell’album precedente del 2005
“Mezza luna piena” ma qui il cantautore, raggiunge la sua stabilità emotiva, che emoziona
molto fin dalla prima canzone “Ego mangiato crudo”, dove il tremore della voce di
Brusascetto giunge dritta agli interstizi. Le sue visioni nella successiva “Il ruscello nella
tazza” portano a sentirsi parte di una potenza infiammatrice che non fa scena, non ha vestiti
luccicanti e rumorosi del rock, ma assomiglia più a una carezza di un amico diventando un
tuo ricordo felice e per questo potente, forte e personale. Le fondamenta di questo album
sono fatte di cemento per proteggere i propri pensieri, le saggezze ereditate da tramandare
ai propri figli, i sentimenti provati e da provare. Storie che cercano un senso come “Ai
bambini si mente” dove si ammette che ci sono attività incontrollabili come la voglia di
caramelle nonostante l’adrenalina esplode per la paura di essere scoperti. Il disco, oltre che
suonato e composto è stato anche prodotto da Brusaschetto, attraverso la Bosco Rec,
ovvero lui medesimo. Spero possiate usare un’ora della vostra vita per questo album, così
sarete più ricchi (www.danielebrusaschetto.com).
Francesca Ognibene
Pagina 20
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Numero Aprile '08
Don Turbolento
Don Turbolento
Circolo Forestieri
Nella loro pagina MySpace, alla voce “Influenze” i Don Turbolento citano Yello, Trans Am e
Kraftwerk. E già così si potrebbe avere un’idea sufficientemente chiara della loro proposta.
Per inquadrarla ulteriormente, però, si potrebbe allargare ancora il campo e includere – in
ordine sparso – New Order, Q And Not U, The Rapture e LCD Soundsystem. Insomma,
l’ambito primario in cui ci si muove è quello di un’elettronica martellante affrontata e
riproposta però in una chiave a metà strada tra estetica indie e approccio (post)punk. Non
esattamente una novità, d’accordo, ma di fronte a un risultato di questi livelli c’è davvero
poco da dire, ché il duo bresciano non ha davvero nulla da invidiare a tanti più blasonati
nomi d’Oltreoceano o di Oltremanica. Bordate di tastiere gommose e una umanissima
batteria creano tappeti sonori di fronte ai quali è davvero difficile rimanersene fermi tanto è
travolgente il loro groove, mentre la voce di Dario Bertolotti dà vita a melodie ossessive ma
dotate di una loro perversa orecchiabilità. Guardano agli anni 80 ma anche al presente, a
New York così come alla Washington D.C. della Dischord, e così facendo danno vita a un
disco che è un esplosivo concentrato di energia, in cui i “martelli” da dancefloor (“Jingo &
Nina”, “Take It Up”) si alternano a momenti in cui la posta viene alzata (come per esempio
nel caso della scurissima “Snapshots” o nella coraggiosa cover della stoogesiana “I Wanna
Be Your Dog”), quasi sempre con risultati degni di nota. “Non voglio sentirti suonare la
chitarra”, cantano in “DWHYP Guitar”, e in effetti della sei-corde non si sente affatto la
mancanza; già questo è un risultato da non sottovalutare (www.myspace.com/donturbolento
).
Aurelio Pasini
Pagina 21
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Numero Aprile '08
Donvito e i Veleno
Hell Mundo!
La Tempesta/Venus
Al primo ascolto, questo “Hell Mundo!”, esordio di Donvito e i Veleno, nome dietro al quale
si celano una vecchia conoscenza come Manuele Fusaroli (qui con l’alias anarco-filosofico di
Max Stirner), fondatore di quei National Head Quarter che hanno accolto nel tempo gente
come Tre Allegri Ragazzi Morti, One Dimensional Man e Giorgio Canali, non a caso presenti
come ospiti, e il chitarrista Jack Tormenta, mi ha fatto venire in mente il primo album di Mao
e la Rivoluzione: stessa scanzonata profondità e stesso spirito d’osservazione per le
contraddizioni del mondo esterno e di quello interiore, stessa voglia di giocare con rock ed
elettronica unendo i due elementi all’insegna di una lineare e vivace immediatezza pop.
Insomma, la freschezza che emana l’idea del disco, l’intenzione di raggiungere questa
freschezza soprattutto, è la stessa. Certo, ammettiamo che manca qualcosa alla quadratura
del cerchio, ma va detto che lo spirito è quello giusto, e che a tratti l’esperimento funziona. In
particolare gli incalzanti e contagiosi slogan di “Molto meglio ora” e le eleganti geometrie di
“Tutto dipende da te”, che ci sembrano gli episodi più riusciti. Altrove la voglia di alleggerire il
tutto rischia di sottrarre spessore alla cifra poetica del progetto (i jovanottismi un po’ gratuiti
di “Disilluso e Leggero”), ma nell’insieme l’ipotesi di rock vagamente nazionalpopolare – in
senso buono - ma non per questo banale tiene e pare credibile, soprattutto nell’ottica di futuri
sviluppi (www.myspace.com/donvitoeiveleno).
Alessandro Besselva Averame
Pagina 22
Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Aprile '08
Drink To Me
Don’t Panic, Go Organic!
Midfinger/Audioglobe
Il mio primo approccio coi Drink To Me è stato a un concerto. Erano ancora un quartetto
(ora sono un power-trio) e avevano idee abbastanza confuse sul da farsi. Erano casinisti e
non mi dicevano un granché. Ma, fortunatamente, gli eporediesi non sono rimasti fermi e
sono maturati passo dopo passo, raggiungendo un riuscito compromesso tra il furore
post-punk-iconoclasta e certe velleità melodiche che si possono accostare al pop. La
gestazione di “Don’t Panic, Go Organic!” è stata lunga e faticosa, ma ne è valsa la pena.
Disco registrato a Londra e mixato tra Londra (Andy Savours, assistente di Alan Moulder) e
Torino (Davide Tomat dei NAMB). Un lavoro che cattura lo spirito del tempo della band, che
mescola la scarica di rabbia degli Wire, l’acidità perversa dei Liars e le melodie che
spuntano fuori qua e là non come intruse, ma come elemento rafforzativo che riesce a dare
un senso al tutto. Le canzoni sono tredici e alcune di queste – lasciando da parte i riempitivi
– sono davvero lontane dallo stato ideologico dell’esordio. I Drink To Me sono ambiziosi e si
capisce dalla ruffianeria melodica di “Frozen George”, dal mantra oltretombale di “Dancin’
On TV” e dalla scarica di rabbia kraut di “Put Your Head In The Sky”. Molti spunti. Molti
stimoli. Molte direzioni da prendere. L’unico peccato è che questo disco non riesca a
catturare al 100 percento quello che la band è, nel frattempo, diventata dal vivo. Un buon
motivo in più per andarli a vedere. Oltre che per ascoltare “Don’t Panic, Go Organic!” con
un’attenzione che spesso l’indie-rock di casa nostra non si guadagna (www.drinktome.net).
Hamilton Santià
Pagina 23
Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Aprile '08
Ettore Giuradei
Era che così
Mizar-Novunque/Self
Avevamo parlato con toni appena meno che entusiastici dell’esordio di Ettore Giuradei,
“Panciastorie”: un disco maturo e pieno di buone canzoni, che attingevano dalla più classica
tradizione cantautorale rileggendone le istanze all’insegna di una elettricità e una tensione
tipicamente rock. In altre parole, la sensazione di trovarsi di fronte a una personalità di tutto
rispetto era forte; ora, a un paio d’anni di distanza, “Era che così” ci dimostra di averci sentito
giusto nella maniera più eclatante: raggiungendo cioè risultati altrettanto degni di nota
partendo però da premesse quasi antitetiche. Staccata completamente la spina agli
strumenti, Giuradei appoggia le sue composizioni su trame totalmente acustiche, in cui a
farla da padrone è il pianoforte del fratello Marco, e allo stesso modo il rock è lasciato da
parte in favore di uno spettro sonoro che ora comprende tanto la chanson d’Oltralpe quanto
il tango, il Sud America quanto le ballate jazz. Un contesto rinnovato in cui anche la voce
suona diversa, più leggera e in alcuni casi anche più ironica (tanto che in un paio di episodi
vengono in mente i Mariposa) nel descrivere con uno sguardo divertito e insieme profondo
piccole e grandi vicende quotidiane Un cambiamento sottolineato in maniera inequivocabile
da una nuova versione di quello che era il brano più significativo del debutto, “Un attimo
prima di dormire”, che da ballata elettrica si trasforma in travolgente cavalcata
completamente unplugged, e ben evidente anche nel resto del programma, con “La zingara”
e l’intensa “Pasolini” a rappresentarne due dei vertici qualitativi ed emotivi. Fino a quando,
nella conclusiva “Epilogo (purificazione)” riemerge il nervosismo del disco precedente, riletto
però con gli occhi (e la strumentazione) di oggi. Una sintesi che lascia le porte aperte a mille
possibilità; aspettiamo curiosi di vedere quali di esse il cantautore bresciano sceglierà di
cogliere, certi comunque che i risultati saranno degni di nota (www.ettoregiuradei.it).
Aurelio Pasini
Pagina 24
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Numero Aprile '08
Ex-p
Carpaccio esistenziale
Fratto 9 Under The Sky/Jazz Today
Trio atipico dalle dinamiche interne tanto semplici quanto efficaci, ovvero una batteria
eclettica e due bassi che si dividono appigli melodici, pulsazioni robuste ed incursioni
destabilizzanti, gli Ex-p praticano una disciplina dell’improvvisazione che non disdegna le
aperture di ampio respiro, e la divertente intro, ironicamente solenne, di “Eigender”, fa venire
in mente subito certe destrutturazioni dada proprie di gruppi come gli Henry Cow, mentre i
serrati fraseggi de “L’ultimo funk” sembrano provenire direttamente dalle pagine più
irrequiete di Soft Machine e Matching Mole. Attenzione, il trio canavesano, al quale si
aggiunge nella jazzistica “5terre” il sax di Alessandro Cartolari (Anatrofobia), corresponsabile
della registrazione del disco, non ha comunque tendenze derivative troppo accentuate: è la
disposizione degli elementi in gioco a ricordarci un certo modo di intendere la
sperimentazione, una modalità che in tutti questi anni non ha esaurito il proprio potenziale di
idee. C’è poi il lavoro sugli effetti che emerge nelle forme oblunghe ma avvolgenti di “Tre
punti sotto il livello del mare” e de “Il ragno di Foucault”, e che convive benissimo con la
psicotica pulsazione dell’ultima sezione di “Carpaccio esistenziale in salsa insondabile”.
Gusto per il paradosso e vie inconsuete alla melodia (dolcissima e notturna quella al
clarinetto che si insinua tra gli spigoli di “Attacco al tram”) si sostengono a vicenda in un
lavoro decisamente riuscito (www.ex-p.it).
Alessandro Besselva Averame
Pagina 25
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Numero Aprile '08
Fratelli Calafuria
Senza titolo
Massive Arts
Per inquadrare l’attitudine dei Fratelli Calafuria basta forse il sottotitolo di questo omonimo
esordio: “Del fregarsene di tutto e del non fregarsene di niente”. Di certo ben chiarisce
l’attitudine di questo power-trio capace di far parlare di se senza compromettersi in nulla. La
prova più eclatante? Fiorello e Baldini che trasmettono “Non so perché” in quella bolgia che
è “Viva Radio2”. Ed è proprio come dice Fiore: ogni tanto la voce di Andrea ricorda quella di
Prince, anche se l’impianto sonoro è decisamente più fracassone rispetto a quello del folletto
di Minneapolis. Rock che diventa a tratti punk ma che sa nascondere molta melodia tra le
distorsioni, il tutto punteggiato da testi semplicemente intelligente, o intelligentemente
semplici se preferite. Le registrazioni, curate – così come le incombenze distributive – nei
milanesi Massive Arts studios da Ivo Grasso e Bicio Grenghi, sono tutte improntate a
restituire l’energia che questa band sa trasmettere live, e la mancanza di orpelli produttivi
rende quest’opera ancora più godibile. Per una maggiore popolarità manca solo il singolo
giusto, e noi affianchiamo alla candidata designata “Non so Perché” anche l’iniziale “La
nobile arte”, ovvero un’ode all’ozio più radicale, ma anche la destabilizzante “(Uachi) La
merendina” con i suoi echi crossover. Simpatici, divertenti ed ironici al punto giusto; e poi
con un nome del genere non corrono certo il rischio di passare inosservati (
www.fratellicalafuria.com).
Giorgio Sala
Pagina 26
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Numero Aprile '08
Hiroshima Mon Amour
Embryo Tour 2005
Danze Moderne
Esistono davvero gli Hiroshima Mon Amour, oppure sono una burla architettata dal buon
Carlo Fruii per prendersi gioco del sottoscritto? Nella sua sorprendente indagine sul rock
abruzzese (Il Rock In Abruzzo - 2000, Ecam Lab) Luigi Di Fonzo non li nomina neppure.
Articoli su di loro, a parte i miei, ne ho visti ben pochi; né è mai capitato che venissero a
suonare da queste parti. Tuttavia nel mio archivio conservo gelosamente i tre CD – due
album e un'antologia – usciti con il loro nome tra il '99 e il 2005. Giorni fa Carlo mi riscrive:
“Abbiamo pubblicato un live: te lo spedisco… fammi sapere che ne pensi!”. Un disco dal
vivo? allora non li conosco solo io: c'è gente che li ha addirittura visti in concerto. Per di più
vengo anche a sapere che nel teramano godono di un grande seguito… Misteri della
provincia. Mi sorprende parecchio "Embryo Tour 2005". In primo luogo perché è rarissimo
che un live autoprodotto abbia un suono così pulito ed equilibrato; poi perché quella sera del
30 settembre 2005 – sul palco del Jammin' Music Pub di Sant'Egidio alla Vibrata – il
quartetto era davvero in gran forma. Così ascolto di nuovo con piacere "Anno zero", "Nume",
"Fuga dall'Eden", "Play For Today" (strappata al repertorio dei Cure) e mi compiaccio per il
sound frizzante e incisivo che esce dagli amplificatori. Riscopro un gruppo rock a tutto tondo,
in bilico tra post punk e psichedelia, che suona con grande perizia e professionalità (
www.hma.it).
Fabio Massimo Arati
Pagina 27
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Numero Aprile '08
I Treni all'Alba
Folk Destroyers
Smartz/L’Amico Immaginario
Quando si scrive di esordi spesso si ha a che fare con band di ragazzini, gente in piena
gavetta che alle spalle non ha che pochi chilometri. Non è certo questo il caso in questione,
perché I treni all’alba sono una realtà torinese-aostana consolidata da sei anni di concerti,
progetti e musica. Migliaia di chilometri macinati in giro per l’Italia, una miriade di palchi divisi
con praticamente ogni artista underground e collaborazioni aperte atte a sottolineare la
natura del gruppo. Gruppo capace di suggestioni d’autore nella sua proposta interamente
strumentale di musica popolare “mutante” e “mutevole”. Molto diverso seppur
ideologicamente vicina alla proposta dei Ronin, “Folk Destroyers” si propone come colonna
sonora in continuo movimento, supporto musicale ad un progetto più ampio (si guardi il
booklet con bellissimo disegni del pittore Domenico Sorrenti) che non accenna a fermarsi o
ad adagiarsi. I quattro membri fissi della band – più gli ospiti, tutti – provengono dal giro
punk, hardcore torinese e l’anima DIY che ha movimentato quei giorni si rispecchia
nell’animo di qusto progetto, molto più attento alla sostanza che non alla forma, che non si
perde in inutili svolazzi pur senza lesinare in ambizione. Esordio da scoprire.
Consigliatissimo (www.itreniallalba.com).
Hamilton Santià
Pagina 28
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Numero Aprile '08
Il Torquemada
The Killer EP
Jestrai
Ad appena un anno di distanza dall’acclamato “Tales From The Bottle”, per chi scrive una
delle uscite più apprezzabili dell’underground italiano del 2007, ritornano con un EP
esplosivo edito da Jestrai Records i Torquemada, i più probabili eredi degli One Dimensional
Man. Per inquadrare la musica del terzetto bergamasco (Alfonso Surace alla chitarra e alla
voce, Luciano Finazzi alla batteria, Davide Perucchini al basso) immaginate una miscela
deflagrante del noise-rock più efferato (un nome su tutti, gli Unsane, specialmente quelli di
“Scattered, Smothered And Covered”, ma vanno menzionati anche i Jesus Lizard), dello
stoner più eclettico e obliquo (i Queens Of The Stone Age) e aggiungete al tutto una forte
matrice hard-blues: muri di chitarre, ritmi forsennati/infuocati, voci sgraziate e deliranti
segnano le coordinate di un suono ossessivo e devastante, a tratti claustrofobico. Questa
volta i Torquemada enfatizzano la componente noise e lo fanno con brani altamente
energetici come l’incalzante punk-noise di “The Killer”, dal micidiale tiro rock’n’roll, la
disturbata e convulsa “No!”, il brutale noise-core di “People”, l’agguerrito stoner di “Il
Torquemada”. Alla fine non poteva esserci un titolo più azzeccato per un disco come questo.
I complimenti vanno rivolti anche all’artwork di Emanuele Sferruzza, che rappresenta come
meglio non poteva i suoni ‘infernali’ della band (www.myspace.com/iltorquemada).
Gabriele Barone
Pagina 29
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Numero Aprile '08
La Stasi
L’estate è vicina
Bracca & Burattini/Audioglobe
Il contrasto tra la copertina del disco e il titolo è di quelli che non lasciano indifferenti: il cielo
plumbeo e le immagini scure a tutto fanno pensare tranne che all’approssimarsi della bella
stagione. Chiarisce tutto il testo della lunga ghost-track “Tre topolini e un ghiro” (en passant,
il momento migliore del programma), in cui la frase “l’estate è vicina” è preceduta
dall’avverbio “purtroppo”. Il che trova un perfetto corrispettivo nelle atmosfere evocate dal
quintetto lombardo, senz’altro suggestive ed evocative, ma non esattamente solari o –
appunto – estive. Colpisce fin dal primo ascolto la maestria con cui la formazione costruisce
gli arrangiamenti, dosando con perizia vuoti e pieni e giocando con abilità sui contrasti creati
da sonorità avvolgenti e improvvise e urticanti esplosioni di rabbia, intimismo e urgenza,
visceralità e spessore letterario. Una miscela interessante, dunque, frutto di una sicurezza
che raramente si riscontra in un’opera prima, ma che perde di efficacia nel momento in cui la
scrittura non sempre si rivela all’altezza. In altre parole, il disco si ascolta bene, e offre spunti
interessanti, ma già nella seconda metà inizia a mostrare un po’ la corda, e al termine
dell’ascolto non si lascia ricordare particolarmente. Con qualche eccezione – come una
“Shirley Temple” che inevitabilmente a molti ricorderà i Massimo Volume, o l’enfatica “Il
morto allegro” – che conferma quanto già detto: fanno le cose per bene i La Stasi, e
dimostrano di avere doti e fantasia non comuni, devono però lavorare ancora sulla
composizione, in modo che le loro canzoni non si ricordino solo per i suoni o per alcuni dei
testi (www.myspace.com/lastasiband).
Aurelio Pasini
Pagina 30
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Numero Aprile '08
Linea
Terra libera
Business
Già da tempo ho smesso di tenere il conto di quanti si sono, in quasi trent’anni di storia
musicale, accreditati come “il quinto Clash”, un po’ perché credo che certi paragoni siano
sempre e comunque scomodi, un po’ perché è limitante definire un percorso musicale come
identico a un altro, seppur mitico. Molto meglio seguire chi, come i lombardi Linea, piuttosto
che guardare il dito si sofferma sulla Luna indicata da Strummer e soci, una Luna fatta di
coscienza sociale e di nessuno schema predefinito. Un’idea che troviamo ben espressa di
“Terra libera”, terzo album che viene dedicato alle cooperative dei giovani siciliani che si
occupano di coltivare le terre sottratte alla mafia. Un messaggio di speranza che sembra
fare a pugni con i testi di “Cani neri”, che descrive una Milano senza speranza, o di “Blindati
e Contenti” che si prende gioco dell’ansia di sicurezza che domina questi nostri tempi. Il rock
stradaiolo la fa da padrone, ma le chitarre possono anche suonare ritmi in levare come in
"info@reggaesoundsystem” e sanno toccare i cuori, sempre. Negli anni questi cinque
ragazzi hanno poi saputo amalgamare al meglio le loro varie anime, per giungere qui ed ora
ad un suono sfaccettato eppur coerente. Non sono una nuova leva, difficilmente riempiranno
gli stadi con questi pezzi, ma di musica così oggi ce n’è forse più bisogno che mai (
www.i-linea.it).
Giorgio Sala
Pagina 31
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Numero Aprile '08
L'OR
Intimo Pensiero
VRecords/Venus
La neonata VRecords è un’etichetta nata con un progetto ben preciso e cerca di inserirsi nel
tessuto nazionale con alcune idee innovative e con la volontà di applicarne altre in futuro.
Poche produzioni mirate e di qualità, in modo da supportare i gruppi con ferrea
determinazione ed anche l’album stesso è gestito in modo originale. I primi a testare la
situazione sono i veronesi L’OR, un quartetto che si muove da dieci anni, alla ricerca di
un’identità, che solo oggi sembra ben delineata. Il CD ha avuto una sua prima uscita in
edizione slim, con dieci brani e bonus multimedia, vendibile solo durante i concerti, ma ora è
disponibile la versione ampliata (c’è lo spazio per inserire il primo dischetto), commerciabile
nei negozi, con tredici tracce, divise tra inediti e versioni – molto – alternative. Alla fine ci si
ritrova tra le mani un doppio album, che trabocca belle canzoni, con uno stile epico e
trascinante, in un misto di Afterhours (di cui coverizzano “Male di miele”) e Negramaro,
soprattutto per l’enfasi vocale del leader Emanuele Tinazzi. Rock e poesia verrebbe da dire,
con una produzione alcune volte abbondante, penso a “Sacro fuoco” e “Like Outside Rain”,
due potenziali hit radiofonici, il primo proposto anche con il supporto vocale di Jack dei
Miura, ma che sa essere anche essenziale, basti ascoltare “Amnesia”, “Virus”, “Morfina”,
ruvide e trascinanti. In un mercato che pare interessato solo alle mode, i L’OR prestano
attenzione alla musica e alle canzoni. Ne viene fuori “Intimo pensiero”, una raccolta di
emozioni, che spera verranno condivise non dai soliti pochi curiosi. Sul trampolino di lancio?
Lo meriterebbero (www.L-OR.it).
Gianni Della Cioppa
Pagina 32
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Numero Aprile '08
Meccaniche Invisibili
Meccaniche Invisibili
Taboo
Meccaniche Invisibli è un progetto ad ampio respiro del milanese Andrea Ponzano. Un
progetto che, partendo da punti geografici come Kingston e Bristol, incontra la canzone
d’autore all’Italiana e la sua tradizione fatta di suggestioni poetiche metropolitane e un’ampia
dose di disillusione mascherata da crudo realismo. Sotto questo aspetto, il disco è
ambizioso. Unisce il reggae (si sentano gli effetti sugli strumenti come basso e batteria) e il
trip-hop (possono venire in mente i Massive Attack, soprattutto come influenza… ascoltare
“Sottosuolo”) ad elementi che aumentano lo spazio visionario – la tromba intesa come
squarcio nella realtà della metropoli – ed un uso dell’elettronica molto “italiano” ma non per
questo provinciale. I lati positivi vanno però livellati con alcuni aspetti che paiono fuori fuoco.
Certe volte si ha la sensazione che si dia poca importanza alla sostanza della proposta,
preoccupandosi più dell’impressione che si vuol dare. Sembra quasi che tutto questo sia
stato fatto “come doveva essere fatto”. Intendiamoci, va benissimo, infatti il disco si ascolta
senza fatica. Ma alla fine si sente che c’è qualcosa che non torna e sarebbe davvero un
peccato sprecare le buone intuizioni in un prodotto medio, già sentito. Chiaro che le
potenzialità ci sono, altrimenti non ne avremmo parlato. Va però trovata la strada da seguire
e batterla con la testardaggine dei giorni migliori (www.taboo-records.net).
Hamilton Santià
Pagina 33
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Numero Aprile '08
Milagro Acustico
Siqiliah terra d’Islam
CNI
I Milagro Acustico sono un’orchestra mediterranea che a pieno organico arriva a
comprendere una decina di elementi: voci, lira, violino, chitarra, contrabbasso, percussioni e
poi un profluvio di timbri arabi e mediorientali. Santur, baglama, darbuka, che immaginiamo
accompagnare il faticoso incedere delle carovane e un aroma stordente di spezie. Secondo
capitolo di una trilogia sulla Sicilia araba, inaugurata dal precedente lavoro “Poeti arabi di
Sicilia”, “Siqiliah” canta la nostalgia e la grandezza perduta. Di quando l’isola era sulla soglia
della conquista normanna, dopo essere stata per quasi tre secoli l’Isola Giardino dell’Islam,
attorno all’anno 1000 (dall’827 al 1091). La Sicilia islamica è un ricamo di convivenza tra
costumi diversi, orientati verso il bello e soprattutto verso la coesistenza tollerante, ma tutto
questo stava per finire, ed è questa dolorosa consapevolezza immortalata dai Milagro. Bob
Salmieri ha raccolto le liriche dei poeti arabi siciliani e i racconti di viaggio dei mercanti
musulmani. Quelli che attraversarono il Mediterraneo quando la dominazione normanna era
appena iniziata, mille anni fa. Del “Giardino” era ormai rimasto un incerto profumo e un triste
ricordo, come canta Patrizia Nasini in “Iardinu ammucciatu”, mentre piange la viola suonata
da Carlo Cossu. Un disco frutto di studio accurato e certosino, com’è nello stile dei Milagro –
al loro quinto album –, ricco di risonanze segrete e di suggestioni (www.milagroacustico.com
).
Gianluca Veltri
Pagina 34
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Numero Aprile '08
Nobraino
Live al Vida Club
autoprodotto
Sembrano giustificarsi i Nobraino, che a distanza di un anno circa, dal loro esordio
ironicamente intitolato “The Best Of”, tornano con un nuovo CD registrato in concerto “Live al
Vida Club”. “Al di là della discografia, della critica e della logica che ci dovrebbe essere nel
fare un disco”: così sentenziano le note dell’album, ottimamente confezionato in un digipack,
apribile a tre facciate. In effetti sembra una mossa azzardata, ma l’urgenza artistica, alcune
volte deve sorvolare la ragione e così ci ritroviamo ad ascoltare otto nuove canzoni (“pezzi
che non sono finiti sul primo disco o che non hanno fatto in tempo ad entrarci”), che hanno lo
scopo, oltre che di offrire l’ennesimo saggio del talento di questa band romagnola, di
mostrare il volto più energico dei quattro protagonisti, che sul palco, soprattutto grazie alla
presenza istrionica e teatrale del cantante Lorenzo Kruger, assumono nuove sembianze,
rispetto al clima pacato dello studio di registrazione. Ascoltiamo così alcuni pezzi che mai
avrebbero meritato l’oblio, penso all’iniziale “Le tre sorelle”, alla storia felliniana della
stupenda “Notaio scarabocchio”, dove sonorità solari si inseriscono perfettamente sul telaio
lirico edificato del carismatico vocalist. E poi ci sono “Solito caffè”, “Ballerina straordinaria” o
“Ragioniere nucleare”, canzoni che i musicisti rendono piene di inventiva, documentate
anche dall’entusiasmo del pubblico. Ma forse la mancanza di logica avrebbe dovuto
convincere i Nobraino a pubblicare un DVD, perché sul palco sono davvero una creatura
anomala. Grande band (www.nobraino.com).
Gianni Della Cioppa
Pagina 35
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Numero Aprile '08
Okkupato/Virginia Madison
Split
Indie Box/Self
Dopo lo stillicidio di indipendenti dovuto a motivi ormai stranoti c’è in Italia qualche etichetta
che investe ancora qualcosa sulle nuove leve? Si, e si chiama Indie Box. L’ultima
scommessa di questi ragazzi porta due nomi: Okkupato e Virginia Madison, che si
spartiscono equamente le sorti di questo split-CD. Iniziando con le affinità notiamo che il
Veneto è la provenienza, Thiene per i primi e Verona per i secondi, e che musicalmente
entrambi sono dediti a variazioni sul tema dell’hardcore melodico anni 90. Le differenze
iniziano subito dopo, perché gli Okkupato cantano in italiano e cercano una via più melodica
rispetto alle divagazioni screamo dei Virginia Madison, che difatti trovano più congeniale
lavorare con l’inglese per le loro liriche. Le tematiche sociali e più adulte di questi ultimi
convincono poi maggiormente rispetto al testo di, ad esempio, “Quando le cose cambiano”.
Nel complesso però entrambe le formazioni ci sembrano in grado, seppur con un basso
indice di originalità, di dire la loro, evitando fortunatamente pericolosi ammiccamenti al
pubblico mainstream come sempre più spesso capita di sentire, anche recentemente sul
palco sanremese. Una risposta all’intorpidimento attuale? Sì, anche se non la migliore. Per
quel titolo sarà forse necessario un lavoro sulla lunga distanza sia per gli uni che per gli altri,
cosa che speriamo avvenga al più presto. Nel frattempo incrociamo le dita (
http://www.indiebox.org/).
Giorgio Sala
Pagina 36
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Numero Aprile '08
PortoFlamingo
Fabrizio
Upr/Edel
A due anni dal precedente “Toc toc”, tornano i PortoFlamingo con un nuovo album. Una
buona scusa per godere ancora una volta del rock acustico, battagliero, danzereccio,
energico, della band di Prato, prodotto in questa occasione da Alessandro Finazzo della
Bandabardò. La formula generale non cambia di molto rispetto al passato, se è vero che
nelle dodici tracce di “Fabrizio” ci si imbatte in un folk travolgente destinato principalmente
alla dimensione live e sospeso tra circolarità tipiche della tradizione popolare (“Fame”),
ballate malinconiche venate di Sud America (“Tranquillo Fabrizio”, “La prova”), battere in
levare (“Quieto d'incanto”), progressioni di scuola Bandabardò (“Sotto vuoto spinto”) e
reggae (“Briciole”). Derive stilistiche affrontate, come di consueto, con cognizione di causa e
con l'ausilio di chitarra, basso, batteria, fisarmonica, percussioni e cori, col fine di far
coesistere toni riflessivi (dei testi) ed energia (delle musiche) e di coinvolgere chi ascolta
sull'onda di “vecchi” successi – “Burububbubbubbubburu” e “Toc toc”, già presenti sul disco
precedente – e nuove good vibrations. Buono il risultato finale, anche se siamo sempre più
convinti che l'estetica del genere musicale in oggetto mostri, alla distanza, qualche segno di
invecchiamento dovuto ad una certa staticità formale nei modelli di riferimento (
www.portoflamingo.it).
Fabrizio Zampighi
Pagina 37
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Numero Aprile '08
Primochef del Cosmo
Primochef del Cosmo
Desvelos
Vede finalmente la luce il lavoro d’esordio dei sassaresi Primochef del Cosmo. Finalmente,
perché l’album era pronto ormai da tre anni, ma solo adesso trova uno sbocco sul mercato,
grazie all’etichetta cagliaritana Desvelos. Un lavoro dunque tutto isolano, tenuto a battesimo
dalla prestigiosa produzione artistica di Giovanni Ferrario dei Micevice. I riferimenti del
quintetto sono in prevalenza classici: il singolo “Estasi pura” è una zanzara insistente - alla
quale, infine, cedi volentieri - stile Velvet Underground; sono in chiara scia Stones “Quello
che ti ama” e “Ambipur”, giocate sul quel vizio contagioso chiamato riff. È a marchio-Edge la
chitarrina che sta sotto a scandire la pregevole “L’espressione del sorriso”; quella che sta
sopra, disturbata, è hendrixiana. Richiamano esperienze cantautorali pop-oriented la ballata
“Per rispondermi” e “Intento” (Ligabue, Negramaro, magari un po’ più imbronciati). Serpeggia
maggiore inquietudine nei vibrati di “Cadono per ore” e negli otto minuti finali di “Quando il
mondo riposa”. La fattura è buona, anche se questo album rischia già di non rappresentare
più la band, nel frattempo evolutasi e alle prese, presumibilmente, con un nuovo lavoro che
attendiamo con curiosità. PS: Il nome del gruppo proviene da un racconto di Stefano Benni
tratto da “Il bar sotto il mare”, che ha a che fare con la furbizia subalterna, col temporeggiare
per fregare il male (www.desvelos.it).
Gianluca Veltri
Pagina 38
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Numero Aprile '08
R.U.N.I.
Fula fula fular
Wallace/Megaplomb/MGS
Sono passati cinque anni dall’ultimo album dei R.U.N.I., il notevolissimo “Ipercapnia in
capannone K”, e la formazione proveniente dall’hinterland milanese sembrava ferma, per il
disappunto di tutti i fan dell’underground italiano più ludico ed estremo, e per estremo
intendo capace di stimolare l’intelligenza senza rinchiudersi in settarismi sterili. Quando tutti
pensavano che i quattro avessero definitivamente fatto perdere le loro tracce ritornano con
un 10’ (nessuna notizia di stampe su CD, ennesimo segnale dell’ormai inarrestabile declino
del mezzo?) di neppure mezz’ora di durata, ricco dei soliti sprazzi di follia no-wave, frenesie
a base di funk deviato e schegge kraute, spasmi ossessivi e trovate brillanti. “Fula fula fular”
è l’ennesima testimonianza di un percorso assolutamente atipico, che forse non ha inciso
quanto avrebbe potuto nel panorama circostante ma ha saputo creare un persistente culto.
“La marcia della merce marcia” è un calypso postindustriale che si perde in mille rivoli ritmici,
“Se vuoi essere un bassista” è un funk schizoide e iterativo nella migliore tradizione nella
band, altrove si spinge maggiormente sul pedale del free (“Dimmi che è inchiostro
simpatico”, la prima parte, un delirio pseudofolk rituale, di “Cacca Malata”), completano il
quadro una cover dei bergamaschi Anticlockwise (“Guerriero polacco”) e l’elettrorock di “Ti
piace l’upupa”, infiltrato da aperture melodiche stropicciate, che richiama le atmosfere
spasmodiche del brano di apertura. Risultato: ancora una volta il gruppo degli inseguitori si
trova notevolmente distanziato (www.runi.it).
Alessandro Besselva Averame
Pagina 39
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Numero Aprile '08
Saint Lips
Like Petals
Bagana/Edel
Sul MySpace della band, alla voce influenze, si parte con Elvis e si termina con Diaframma;
in mezzo, centinaia di gruppi, i più disparati. Alcuni isospettabili – i giganteschi e purtroppo
dimenticati Grand Funk Railroad –, altri logici, Smashing Pumpkins e Nirvana per esempio.
Ed è proprio a questi ultimi che sembrano ispirarsi i romani Saint Lips acclamati - tutto
documentato - da Steve Frisk (il produttore di Nirvana e Soundgarden!!). Oltre a rimasugli
del grunge che fu, la band si muove tra i sentieri dell’indie rock di ieri, oggi e domani (i Pixies
su tutti), con un suono ruvido e spontaneo, che solo la voce solida e scintillante di Valentina
Barletta, rende vagamente meno hard di quello che in realtà è. Un esordio su Bagana che
può godere della distribuzione Edel: mossa importante, se pensiamo alla mole di uscite che
attanaglia il mercato discografico, dove la visibilità e non la qualità è il vero problema di ogni
band emergente. Un booklet elegante e ruffiano, racchiude le dieci tracce di “Like Petals”, un
piccolo scrigno di emozioni, che si depositerà nel cuore di tutti gli innamorati degli anni 90,
quelli in rock, a base di chitarre e batteria e, beninteso, non quelli elettronici. Il vero pregio di
questo quintetto è quello di scrivere melodie semplici ed immediate, ma che profumano di
non ascoltato. Su tutto la title-track, un autentico ipotetico singolo spacca cuori. Per il resto,
solo buone notizie, dai torridi riff di “Desert Ship” e “Dogs”, agli intrecci melodici che
rimbalzano tra “Again” (scelta come primo video) e “Sev69”, alle ritmiche essenziali di “More
Fun” e “Missea”, fino all’ipnotica “Saint Lips”, che chiude il CD, registrato, prodotto e mixato
da professionisti come Alessandro Sportelli e Alessandro Paolucci, che vantano referenze a
nome Prozac+, Baustelle e Raw Power. Già prevista l’uscita americana su Renaissance
Records. I Saint Lips meritano il vostro tempo (www.myspace.com/saintlips).
Gianni Della Cioppa
Pagina 40
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Numero Aprile '08
Sottopressione
1993-2000: a pieno carico
Bagana/Edel
Chi erano, o per meglio dire sono, i Sottopressione? Semplicemente un gruppo cardine
della scena hardcore italiana a cavallo degli anni 90. Un posto lasciato vacante
dall’improvviso stop del 2000 e che la band ha pensato bene di riprendersi dall’autunno
scorso, quando cioè ha ricominciato a calcare i palchi italiani ed europei come se niente,
nemmeno sei lunghi anni, fosse stato. E dato che le prove discografiche erano da tempo
fuori catalogo perché non pubblicare in un doppio album l’intera produzione della band?
L’idea era ottima, e per realizzarla è stata chiamata la Bagana, che ha pensato bene di
confezionare un doppio CD con un bellissimo libretto farcito di foto e, soprattutto, di ricordi
“illustri”, tra cui lo scrittore Marco Philopat e Vinnie Stigma degli Agnostic Front, che sfoggia
orgoglioso anche la sua t-shirt dei Sottopressione. Segnalare qualche brano in particolare?
Un’epoca piuttosto che un’altra? No, questo è un lavoro da assaporare tutto in blocco, e
sentire l’apporto di tutti quanti, a vario titolo, sono entrati nella storia di questa band. Per chi
c’era, per chi non c’era e per chi ci sarà, e speriamo siano tanti, giovani e vitali. Proprio
come quel signore in giacca che tira i capelli ad un malcapitato calciatore nella copertina:
proprio come i Sottopressione. A pieno carico (www.myspace.com/sottopressione).
Giorgio Sala
Pagina 41
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Numero Aprile '08
Stopper 72
Stopper 72
autoprodotto
Ci fu un periodo, nella seconda metà dei '90, in cui ci illudemmo che a Roma potesse
accadere qualcosa di grande: la scena era così fertile e viva che avrebbe potuto conquistare
l'Italia da un momento all'altro; Elettrojoyce, Frangar Non Flectar, Newest Industry: bei dischi
e un sacco di concerti. Non accadde nulla, invece: alcuni gruppi si separarono nel giro di
poche stagioni, altri continuarono nell'ombra, altri ancora fecero perdere le tracce. Tra questi
ultimi, La Claque di Dafne lasciò un segno davvero profondo nel cuore di tutti gli
appassionati. A giudizio di chi scrive, il loro unico mini-cd, rimane ancor oggi – a dieci anni
dall'uscita – uno dei migliori prodotti della new wave italiana di ogni tempo. Mentre il gruppo
ora medita il ritorno sulle scene, i suoi membri si dedicano a progetti solisti d'indubbio
spessore: se il cantante Emiliano Bortoluzzi – alias Gli Occhi di Faust (
www.myspace.com/gliocchidifaust) – ha inciso una manciata di brani che girano su eMule, il
chitarrista Gabriele Colandrea, sotto il nome di Stopper 72, ha prodotto un bel cd omonimo,
in cui suona da solo tutti gli strumenti. L'album riprende le coordinate di certo post punk di
matrice chitarristica: immediato, oscuro, trasognato. Poi incalza con episodi più incisivi e
trascinanti, recuperando quell'attitudine battagliera che era carattere distintivo de La Claque
di Dafne. E proprio dal repertorio inedito del gruppo che fu, recupera la superba "Novgorod",
unico brano cantato non strumentale, cantato guarda caso proprio dal Bortoluzzi (
www.myspace.com/stopper72).
Fabio Massimo Arati
Pagina 42
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Numero Aprile '08
Suntrack
Deeply Inside
Snowbit/Audioglobe
Progetto nato da due musicisti italiani (nascosti dietro agli pseudonimi, rispettivamente, di
Chris Black e Guy Chances) attivi nel campo della pubblicità e delle colonne sonore, i
Suntrack debuttano con un album sicuramente interessante, nel quale tuttavia l’utilizzo
accorto dei linguaggi non solo musicali (l’importanza dell’elemento grafico-visivo è evidente
fin dalla lettura del booklet) e un consapevole ricorso ad una sorta di “teoria dell’oscurità”
dalle vaghe reminescenze residentsiane, rischiano di lasciare in secondo piano la musica.
Che non ci pare del tutto all’altezza della – ripetiamo – intrigante appetibilità dell’idea di
fondo che l’ha prodotta. Addentrandosi nello specifico, i brani di maggiore impatto rock (ad
esempio “Battle” o “Flow”, vagamente floydiana nell’uso della voce) potrebbero far venire in
mente i disciolti Earthlings, ma sono penalizzati da basi elettroniche che risultano un po’
datate, e le ambizioni che scalpitano dietro alla pulizia del suono sono limitate dalla
prevedibilità di certe soluzioni. Viceversa, i momenti più ambient e cinematografici, come “It
Is Not Time” e “Imago Mundi” finiscono per essere i più efficaci nel disegnare un mondo
sonoro che, pur non avendo grandissimi meriti in termini di innovazione in senso stretto,
rispecchia con buona approssimazione la cifra poetica del gruppo. Se insomma le
potenzialità dei Suntrack sono enormi, per arrivare a sfruttarle al meglio, anche attraverso le
orecchie, c’è ancora qualcosa da fare. Probabilmente mettersi un po’ più in gioco (
www.thesuntrack.com).
Alessandro Besselva Averame
Pagina 43
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Numero Aprile '08
Three In One Gentleman Suit
We Build Today
Black Candy/Audioglobe
Arrivati al traguardo per molti versi fatidico del terzo disco – i precedenti sono l’esordio
omonimo datato 2003 e “Some New Strategies” di due anni più giovane – i Three In One
Gentleman Suit scelgono la strada della (comunque relativa) semplificazione. Pur rimanendo
inalterato l’ambito di appartenenza, ovvero un neanche troppo ipotetico crocevia tra noise,
post-core ed indie-rock obliquo, ora gli intrecci strumentali si sono almeno in parte alleggeriti
in favore di una maggiore immediatezza e di un accenno di ricerca melodic,a mentre
contemporaneamente fanno la loro timida ma significativa comparsa chitarra acustica e
tastiere. Quindi, non mancando assalti sonori non troppo distanti da certe cose dei Red
Worm’s Farm – tanto per rimanere in Italia – il loro impatto viene comunque mediato da
momenti altrettanto diretti ma, se vogliamo più accessibili. Un contesto familiare e nuovo allo
stesso tempo, compatto ma dotato di una certa varietà, come ben testimoniato dalla
presenza nella stessa scaletta della minacciosa “Torn Hidden Lost” così come delle ritmiche
punk-funkeggianti a rotta di collo di “The Colour Is Grey” e della più notturna “Seasons”,
dell’evocativa “Theme For Cuba” e della pulsante “Songs For Lovers”. Un’estetica ben
esemplificata da una “A Transition Era” che si pare racchiuda in sé gran parte delle
tematiche sonore di “We Build Today”: una transizione che ha tutta la solidità per piantare
radici, a mezza via tra cervello e stomaco (www.tiogs.com).
Aurelio Pasini
Pagina 44
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Numero Aprile '08
X Mary
Al circo
Wallace/Tafuzzy/Smartz/Marinaiogaio/Rebel Kid/Basura/Be Here/I Dischi di
Plastica/Donnabavosa/Escape From Today
Prodotto da una cordata di dieci etichette – precedente interessante visto il clima di
recessione che si respira nell’indie italiano, soluzione già utilizzata in passato ma mai con
numeri così estesi – il nuovo disco degli X-Mary possiede, come i precedenti del resto, il
coraggio che manca, dispiace dirlo, alla gran parte dei gruppi che si aggirano per la Penisola
attualmente. In parte perché, molto semplicemente, gli viene naturale così, e l’incoscienza
(relativa) è forse l’arma migliore che hanno nelle loro mani. Non manca qualche scivolata,
inevitabile visto l’eclettismo cialtronesco e un senso dell’intrattenimento innato ma non
sempre totalmente addomesticato. Un talento che però va al di là della semplice
demenzialità, solo apparente a dire il vero, di alcuni spunti. L’originaria matrice
hardcore-punk è ancora una volta presente in alcuni episodi (“Carlo Martello Magno”, “Derby
Crash”, titolo geniale), ma sono naturalmente le trovate italo-trash (“Parce que je pense à
toi”, “Marco ti amo”, omaggi stravolti e naif a Luca Carboni), i falsi etnici (“Mohamed Sahara”,
quasi la parodia di un incontro tra i Tinariwen e gli Os Mutantes), i tropicalismi rurali tra
Battisti e Fossati (“La sera dopo il raccolto”) e il tema circense e politicamente scorretto di
“Giacomino re del circo” a fare la differenza in questo delirio organizzato ma non troppo, di
certo funzionale all’espressione di una creatività che si mantiene autentica come poche altre
cose sentite in questi mesi (www.xmary.net).
Alessandro Besselva Averame
Pagina 45
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Numero Aprile '08
Pay + CSCH
Anche in Italia è tempo di esperimenti. E i PAY, un gruppo che di se stesso canta “è
evidente che io sono intelligente” (frase che per inciso non possiamo non condividere), ha
deciso di buttarsi in maniera totale. Dal punti di vista musicale infatti questo EP “Elettro 80”
rappresenta la rivisitazione di quattro brani del loro repertorio e due cover illustri (Ramones e
Nirvana) in chiave decisamente synth-pop. Un’idea inusuale e per certi versi fuori moda ma
che, sospirone di sollievo, funziona. E funziona bene. Le tastiere sintetizzate e quelle
batterie che sembrano tirate fuori da “Three Immaginary Boys” dei Cure gettano una nuova
luce su “Barattolo” oppure “Freccia”. E siamo convinti che anche Kurt Cobain, da lassù, se la
stia ridendo soddisfatto. L’altra rivoluzione è il canale distributivo, che memore della “lezione
Radiohead” è il web. Si va sul sito (in questo caso www.punkrockers.it) e si scarica tutto
quanto, copertina in alta definizione compresa e senza nemmeno la richiesta di un’offerta.
Grazie del regalo, davvero. Stesse modalità anche per avere il nuovo, e almeno da queste
parti molto atteso, album dei CSCH. Veneti, sboccati e fautori di un rock grezzo devoto a
band come Motörhead e Stooges ritornano con otto nuovi brani che equivalgono ad
altrettanti calci in pancia. Minime variazioni sul tema, ma divertimento ed energia in quantità,
e noi tifiamo sempre per loro.
Giorgio Sala
Pagina 46
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