DUE SERIE DI TITOLI E DI DATE Alberto Moravia, Gli indifferenti
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DUE SERIE DI TITOLI E DI DATE Alberto Moravia, Gli indifferenti
DUE SERIE DI TITOLI E DI DATE Alberto Moravia, Gli indifferenti, 1929 Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, 1930 Ignazio Silone, Fontamara, 1933 Carlo Bernari, Tre operai, 1934 Vasco Pratolini, Il quartiere, 1944 Elio Vittorini, Uomini e no, 1945 Alberto Moravia, La Romana,1947 Domenico Rea, Spaccanapoli, 1946 Silvio Micheli, Pane duro, 1946 Cesare Pavese, La casa in collina, 1949 Beppe Fenoglio, La malora, 1952 Giose Rimanelli, Tiro al piccione, 1953 --Carlo Levi, Cristo si è,fermato ad Eboli, 1945 Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, 1944 Pietro Chiodi, Banditi, 1946 Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947 1 DUE TESTI A CONFRONTO Gli indifferenti Spazi: la centralità della casa, una vita che si svolge negli interni. Già nell’incipit uno sguardo rivolto al ―dentro‖ L’abbondanza degli oggetti Personaggi: - una famiglia (quasi) - personaggi subito individualizzati, l’esplorazione approfondita dell’interiorità. Vita verbale, vita mentale e attenzione per i corpi Fontamara Spazi: una storia all’aperto, la storia di una paese, condotta nelle piazze, sulle strade, davanti alle porte di casa. Un incipit panoramico, una vista d’insieme Un orizzonte di miseria, fatica e penuria Personaggi: - una collettività paesana - personaggi spesso raffigurati in gruppi, u romanzo di scene collettive, un romanzo corale - personaggi ―visti da fuori‖, rappresentati attraverso i comportamenti osservabili Intreccio: Una situazione di immobilità apparentemente immutabile. Un sistema sociale bloccato. Senza che sia quasi possibile immaginare un cambiamento. Intreccio: La percezione di un’esistenza che non cambia, spenta, vuota ridotta a una grigia e ripetitiva quotidianità borghese. E un desiderio vago, insistente ma indeterminato di cambiamento. La storia di una lenta crisi. La storia di un trauma. Un cambiamento abortito: accettazione e L’irruzione brutale del nuovo (un nuovo adattamento sistema politico-economico). Violenza, sfruttamento, espropriazione, imposizione di nuovi riti e codici. Berardo: l’emergere faticoso, non lucido, ma deciso della necessità della rivolta e del senso della solidarietà Un romanzo di psicologie. La messa in Un romanzo politico. scena di una crisi di valori. (La dimensione critica è esplicita, diretta) (La dimensione critica, il giudizio sulla società contemporanea, è implicito) UN NUOVO REALISMO, NON UNIVOCO, NON EGEMONE Un primo sguardo alle opere Alberto Moravia, Gli indifferenti, cap. I (1929) Entrò Carla; aveva indossato un vestitino di lanetta marrone con la gonna così corta, che bastò quel movimento di chiudere l'uscio per fargliela salire di un buon palmo sopra le pieghe lente che le facevano le calze intorno alle gambe; ma ella non se ne accorse e si 2 avanzò con precauzione guardando misteriosamente davanti a sé, dinoccolata e malsicura; una sola lampada era accesa e illuminava le ginocchia di Leo seduto sul divano; un'oscurità grigia avvolgeva il resto del salotto. "Mamma sta vestendosi," ella disse avvicinandosi "e verrà giù tra poco." "L'aspetteremo insieme," disse l'uomo curvandosi in avanti; "vieni qui Carla, mettiti qui." Ma Carla non accettò questa offerta; in piedi presso il tavolino della lampada, cogli occhi rivolti verso quel cerchio di luce del paralume nel quale i gingilli e gli altri oggetti, a differenza dei loro compagni morti e inconsistenti sparsi nell'ombra del salotto, rivelavano tutti i loro colori e la loro solidità, ella provava col dito la testa mobile di una porcellana cinese: un asino molto carico sul quale tra due cesti sedeva una specie di Budda campagnolo, un contadino grasso dal ventre avvolto in un kimono a fiorami; la testa andava in su e in giù, e Carla, dagli occhi bassi, dalle guance illuminate, dalle labbra strette, pareva tutta assorta in questa occupazione. Alberto Moravia, Gli indifferenti, Alpes, Milano 1929 (dal cap. III) Piccolo ma angoscioso tragitto attraverso il corridoio; Carla guardava in terra pensando vagamente che quel passaggio quotidiano dovesse aver consumato la trama del vecchio tappeto che nascondeva il pavimento; e anche gli specchi ovali appesi alle pareti dovevano serbare la traccia delle loro facce e delle loro persone ché più volte al giorno da molti anni vi si riflettevano, oh, appena per un istante, il tempo di esaminare, la madre e lei, il belletto, e Michele il nodo della cravatta; in quel corridoio l'abitudine e la noia stavano in agguato e trafiggevano l'anima di chi vi passava come se i muri stessi ne avessero esaltato i velenosi spiriti; tutto era immutabile, il tappeto, la luce, gli specchi, la porta a vetri del vestibolo a sinistra, l'atrio oscuro della scala a destra, tutto era ripetizione: Michele che si soffermava un istante ad accendere una sigaretta e soffiava sul fiammifero, la madre che compiacentemente domandava all'amante: "Non è vero, che ho la faccia stanca questa sera?"; Leo, con indifferenza, senza togliersi di bocca la sigaretta, rispondeva: "Ma no, al contrario, non l'ho mai vista così brillare," e lei stessa che ne soffriva; la vita non cambiava. Entrarono nel freddo oscuro salone rettangolare che una specie di arco divideva in due parti disuguali e sedettero nell'angolo opposto alla porta; delle tende di velluto cupo nascondevano le finestre serrate, non c'era lampadario ma solamente dei lumi in forma di candelabri, infissi alle pareti a eguale distanza l’uno dall’altro; tre dei quali, accesi, diffusero una luce mediocre nella metà più piccola del salone; l'altra metà, oltre l'arco, rimase immersa in un'ombra nera in cui si distinguevano a malapena i riflessi degli specchi e la forma lunga del pianoforte. Per un istante non parlarono; Leo fumava con compunzione, la madre considerava con una mesta dignità le sue mani dalle unghie smaltate, Carla quasi carponi tentava di accendere la lampada nell'angolo e Michele guardava Leo; poi la lampada si accese, Carla sedette e Michele parlò: "Sono stato dall'amministratore di Leo e mi ha fatto un monte di chiacchiere… il sugo della faccenda è poi questo: che a quel che pare tra una settimana scade l'ipoteca e perciò bisognerà andarsene e vendere la villa per pagare Merumeci..." La madre spalancò gli occhi: "Quell'uomo non sa quello che dice... ha agito di testa sua... l'ho sempre detto io che aveva qualche cosa contro di noi... ". Silenzio: "Quell'uomo ha detto la verità" disse alfine Leo senza alzare gli occhi. Tutti lo guardarono. "Ma vediamo, Merumeci", supplicò la madre giungendo le mani; "non vorrà mica mandarci via cosi su due piedi?... ci conceda una proroga... " 3 "Ne ho già concesse due "; disse Leo "basta... tanto più che non servirebbe ad evitare la vendita...". Ignazio Silone, Fontamara, Oprecht, Zurigo 1933 (dalla prefazione) Gli strani fatti che sto per raccontare si svolsero nel corso di un’estate [nell’estate dell’anno scorso] a Fontamara […] A chi sale a Fontamara dal piano del Fucino il villaggio appare disposto sul fianco della montagna grigia, brulla e arida come su una gradinata. Dal piano sono ben visibili le porte e le finestre della maggior parte delle case: un centinaio di casucce quasi tutte ad un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d'ogni sorta. La maggior parte di quelle catapecchie non hanno che un'apertura che serve da porta, da finestra e da camino. Nell'interno, per lo più senza pavimento, con i muri a secco, abitano, dormono, mangiano, procreano, talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini. Fanno eccezione una diecina di case di piccoli proprietari e un antico palazzo ora disabitato, quasi cadente. La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l'intero abitato, e che è l'unica via dove possano transitare i carri. Ai fianchi di questa sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, coi tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l'abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo. L'intera storia universale vi si svolge: nascite, morti, amori, odii, invidie, lotte, disperazioni. Altro su Fontamara non vi sarebbe da dire, se non fossero accaduti gli strani fatti che sto per raccontare. Ho vissuto in quella contrada i primi vent'anni della mia vita e altro non saprei dirvi. Per vent'anni il solito cielo, circoscritto dall'anfiteatro delle montagne che serrano il Feudo come una barriera senza uscita; per vent'anni la solita terra, le solite piogge, il solito vento, la solita neve, le solite feste, i soliti cibi, le solite angustie, le solite pene, la solita miseria: la miseria ricevuta dai padri, che l'avevano ereditata dai nonni, e contro la quale il lavoro onesto non è mai servito proprio a niente. Le ingiustizie più crudeli vi erano così antiche da aver acquistato la stessa naturalezza della pioggia, del vento, della neve. La vita degli uomini, delle bestie e della terra sembrava così racchiusa in un cerchio immobile saldato dalla chiusa morsa delle montagne e dalle vicende del tempo. Saldato in un cerchio naturale, immutabile, come in una specie di ergastolo. Prima veniva la semina, poi l'insolfatura, poi la mietitura, poi la vendemmia. E poi? Poi da capo. La semina, la sarchiatura, la potatura, l'insolfatura, la mietitura, la vendemmia. Sempre la stessa canzone, lo stesso ritornello. Sempre. Gli anni passavano, gli anni sí accumulavano, i giovani diventavano vecchi, i vecchi morivano, e si seminava, si sarchiava, si insolfava, si mieteva, si vendemmiava. E poi ancora? Di nuovo da capo. Ogni anno come l'anno precedente, ogni stagione come la stagione precedente. Ogni generazione come la generazione precedente. Nessuno a Fontamara aveva mai pensato che quell'antico modo di vivere potesse cambiare. La scala sociale non conosce a Fontamara che due piuoli: la condizione dei cafoni, raso terra, e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari. Su questi due piuoli si spartiscono anche gli artigiani: un pochino più su i meno poveri, quelli che hanno una botteguccia e qualche rudimentale utensile; per strada, gli altri. Durante varie generazioni i cafoni, i 4 braccianti, i manovali, gli artigiani poveri si piegano a sforzi, a privazioni, a sacrifici inauditi per salire quel gradino infimo della scala sociale; ma raramente vi riescono. […] Però l’anno scorso si produssero una serie di fatti imprevisti e incomprensibili che sconvolsero la vita di Fontamara, stagnante da tempi immemorabili. […] 5 IDEE INTORNO ALLA NARRATIVA ALLA FINE DEGLI ANNI VENTI Bontempelli: un secolo narrativo, l’importanza della produzione media mi sono ficcato in testa che il nostro secolo (che in realtà è a mala pena al suo cominciamento) debba riuscire, in arte, prevalentemente narrativo […]. La continuità della buona produzione s’interrompe da noi di continuo. E appunto di questa dobbiamo occuparci, non dei geni e dei capolavori (Speranza, marzo 1928) Alvaro: un’epoca della prosa, la prosa di un mondo contemporaneo Un’epoca della prosa […] Il prosatore è dunque il creatore dei mondi reali, il trasformatore di questi in mondi fantastici, cioè evidenti e decifrabili a chiunque. […] Noi siamo in un tempo in cui si sta ricreando un mondo. Si sta formando una società, un costume contemporaneo, agglomerati sempre più vasti e nello stesso tempo diversità di uomini sempre più segnate. […] Lentamente la provincia diventa popolo, spariscono i costumi e i caratteri esterni, si rafforzano i caratteri psicologici e la terra si sente come vita e non come scenario (La prosa, «900», III, 2, 1° agosto 1928) Cajumi: una «irrimediabile rottura» nella «tecnica romanzesca» Il romanzo europeo negli ultimi anni ha cambiato – o sta cambiando – risolutamente tecnica [in base a nuove] teorie della personalità, [a nuove concezioni del soggetto], a cui ha non poco contribuito proprio un italiano, Pirandello. […] Un’irrimediabile rottura è avvenuta nella tecnica romanzesca il giorno in cui l’autore non si è più considerato il padreterno dei propri personaggi, colui che ne sa vita, morte e miracoli e tiene a mostrare al lettore anche le fibre di legno dei burattini essendo persuaso di saperle analizzare; [sappiamo bene] che la visione è prodotto di subcoscienza, che la personalità umana è fuggevole e si presenta di fianco, di sbieco, non si lascia comprendere ma soltanto frammentariamente intuire. Orbene questo graduale rinnovamento della tecnica romanzesca, iniziato da autori per letterati come Huxley, Conrad, Proust, Giraudoux […] è passato da noi fra l'indifferenza più sconcertante. Scrittori e scrittrici leggono – se pur li leggono – i loro confratelli, e poi si rimettono a tavolino e cominciano: «Capitolo I. Era una bella giornata d'aprile...»; sono fermi al 1850 o giù di lì. Non c'è verso di smuoverli dalle vecchie faccende adulterine o politicheggianti e provinciali, e se toccano del cosidetto gran mondo ritraggono una società che non esiste più, e che è ancora quella di Cosmopolis [di Bourget, 1893] o addirittura di Balzac: 1880-1830, ecco le date eterne: Rovetta e D'Annunzio, ecco l'impasto-base. Deplorevolissima è l'abitudine di scimmiottare la moda, ma ci sono, al di là delle formule superficiali e frivole e degli orpelli che rilucono per una stagione, dei cambiamenti di mentalità che è impossibile trascurare. (La crisi del romanzo, «Il Baretti», V, 2, febbraio 1928) Cajumi: un’era delle masse Una forza nuova è entrata nel gioco della società: l’equilibrio delle masse, lo schiacciamento dell’individuo da parte di queste, e un’intiera serie di modificazioni psicologiche ne è derivata. L’americanizzazione di molti strati sociali non è stata da noi punto studiata. I romanzieri vivono su delle nozioni incartapecorite e guidano i loro personaggi con pensieri di cento anni fa. (La crisi del romanzo, «Il Baretti», V, 2, febbraio 1928) 6 Vittorini: conoscere in un luogo E’ per conoscere Recanati che leggiamo Leopardi? […] Per questo anche: che cos’è un quartiere suburbano o un villaggio, una spiaggia, un ―ermo colle‖ […] Non è per conoscere UN luogo; è per conoscere IN UN luogo; e conoscervi qualcosa del mondo, che sia anche la più piccola, un modo anche minimo del mondo, un aggettivo, un accento, ma aggettivo o accento di tutto il mondo. (Diario in pubblico, p. 190). 7 Erich Auerbach, Il calzerotto marrone Qualche scrittore ha trovato un metodo proprio o ha fatto tentativi per rappresentare la realtà con un’illuminazione mutevole e una stratificazione varia, o per rinunciare al terreno della rappresentazione apparentemente obiettiva o di quella puramente soggettiva, in favore di una prospettiva più ricca. Questi sono gli ordinamenti e le interpretazioni che gli autori moderni qui trattati cercano di cogliere di volta in volta, e non sono uno, ma molti, sia di persone diverse, sia della stessa persona in momenti diversi, cosicché dall'incrocio, dal completamento e dal contrasto, sorge una concezione sintetica del mondo, o per lo meno un compito per la volontà di sintesi interpretativa del lettore. Siamo cosí di nuovo arrivati al molteplice rifrangersi della coscienza. Si comprende facilmente come una simile tecnica abbia dovuto formarsi a poco a poco e specialmente negli anni attorno alla prima guerra mondiale. L'allargarsi dell'orizzonte e l'arricchirsi di esperienze, pensieri e possibilità, incominciati nel secolo XVI, procedono nel XIX con un ritmo sempre piú celere, per assumere nel XX una tale velocità da produrre e superare nello stesso momento i tentativi d'interpretazione sinteticooggettiva. I cambiamenti veloci produssero una confusione tanto maggiore, in quanto non era possibile abbracciarli nel loro insieme; essi si manifestarono contemporaneamente in molte singole sfere della scienza, della tecnica, e dell'economia, cosicché nessuno, neanche coloro che ne erano a capo, poterono prevedere e giudicare le situazioni nuove che ne risultarono. D'altra parte, gli effetti di questi cambiamenti non erano dappertutto uguali, e cosi le differenze dí livello fra i diversi strati dello stesso popolo e fra i diversi popoli divennero, se non maggiori, almeno piú sensibili. La diffusione della pubblicità e l'avvicinarsi degli uomini sulla terra diventata piú piccola, li rese piú consapevoli delle differenze delle condizioni e concezioni di vita, mobilitò gli interessi e le forme di vita incrementati e minacciati dai cambiamenti; dappertutto nel mondo sorsero crisi di adattamento, si accumularono e si fecero minacciose, condussero a quegli sconvolgimenti che non abbiamo ancora superato. // Con questo cozzo violento delle forme di vita e aspirazioni piú eterogenee, vacillarono in Europa non soltanto quelle concezioni religiose, filosofiche, morali ed economiche, che appartenevano al patrimonio del passato e che, nonostante gli sconvolgimenti precedenti, avevano conservato un'autorità rilevante; non soltanto i pensieri rivoluzionari dell'Illuminismo, della democrazia e del liberalismo dei secoli XVIII e XIX, ma perfino le nuove forze rivoluzionarie del socialismo, sorte in pieno capitalismo: esse minacciavano di sgretolarsi, perdettero la loro unità e fisionomia, sia per i numerosi gruppi ín lotta fra di loro, alcuni dei quali arrivarono a curiose unioni con correnti di pensiero non socialiste, sia per la capitolazione interna della maggior parte di loro nella prima guerra mondiale, e infine per la tendenza di alcuni dei loro seguaci piú radicali a passare nelle file dei loro piú radicali avversari. Anche intorno a poeti, filosofi e scienziati si formarono in numero sempre crescente delle sètte di carattere pseudoscientifico, sincretistico e primitivo. La tentazione di affidarsi a una setta, che con un'unica ricetta risolvesse tutti i problemi, che desse incremento alla comunità con una forza di suggestione interna ed escludesse tutto ciò che non vi si adattava e non vi si inseriva, fu tentazione cosi forte, che per molta gente il fascismo non aveva quasi piú bisogno d'una forza esteriore, quando si diffuse nei paesi civili d'Europa e assorbi le piccole sètte. // 8 Ancora nel secolo xix e anche al principio del xx, in questi paesi regnava tanta comunanza di pensiero e di sentimento, chiaramente chiaramente formulata e riconosciuta, che un autore ritraendo la realtà aveva in mano dei criteri sicuri per ordinarla, o per lo meno era in grado di cogliere indirizzi precisi dentro il movimento contemporaneo di fissare con una certa chiarezza i limiti di concezioni o di forme di vita in contrasto fra loro. Col tempo la cosa si era fatta sempre piú difficile; già Flaubert (per parlare solo di autori realisti) soffriva della mancanza di basi sicure per la sua opera, e la tendenza che andava accreditandosi, di far prevalere le prospettive soggettivistiche, ne è un sintomo ulteriore. Negli anni che precedettero e seguirono la prima guerra mondiale, in un'Europa priva di equilibrio, alcuni scrittori dotati di intuito trovano una tecnica per dissolvere la realtà che passando per il prisma della coscienza si frange in aspetti e significati molteplici. (pp. 333-335) 9 Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Le Monnier, 1930 (dal cap. I) Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro coi lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e invernale. I torrenti hanno una voce assordante. Sugli spiazzi le caldaie fumano al fuoco, le grandi caldaie nere sulla bianca neve, le grandi caldaie dove si coagula il latte tra il siero verdastro rinforzato d'erbe selvatiche. Tutti intorno coi neri cappucci, coi vestiti di lana nera, animano i monti cupi e gli alberi stecchiti, mentre la quercia verde gonfia le ghiande per i porci neri. Intorno alla caldaia, ficcano i lunghi cucchiai di legno inciso, e buttano dentro grandi fette di pane. Le tirano su dal siero, fumanti, screziate di bianco purissimo come è il latte sul pane. I pastori cavano fuori i coltelluzzi e lavorano il legno, incidono di cuori fioriti le stecche da busto delle loro promesse spose, cavano dal legno d'ulivo la figurina da mettere sulla conocchia, e con lo spiedo arroventato fanno ii al piffero di canna. Stanno accucciati alle soglie delle tane, davanti al bagliore della terra, e aspettano il giorno della discesa al piano, quando appenderanno la giacca e la fiasca all'albero dolce della pianura. Allora la luna nuova avrà spazzata la pioggia, ed essi scenderanno in paese dove stanno le case di muro, grevi delle chiacchiere e dei sospiri delle donne. Il paese è caldo e denso più di una mandra. Nelle giornate chiare i buoi salgono pel sentiero scosceso come per un presepe, e, ben modellati e bianchi come sono, sembrano più grandi degli alberi, animali preistorici. Arriva di quando in quando la nuova che un bue è precipitato nei burroni, e il paese, come una muta di cani, aspetta l'animale squartato, appeso in piazza al palo del macellaio, tra i cani che ne fiutano il sangue e le donne che comperano a poco prezzo. Né le pecore né i buoi né i porci neri appartengono al pastore. Sono del pigro signore che aspetta il giorno del mercato, e il mercante baffuto che viene dalla marina. Nella solitudine ventosa della montagna il pastore fuma la crosta della pipa, guarda saltare il figlio come un capriolo, ode i canti spersi dei più giovani, intramezzati dal rumore dell'acqua nei crepacci, che borbotta come le comari che vanno a far legna. Qualcuno, seduto su un poggio, come su un mondo, dà fiato alla zampogna, e tutti pensano alle donne, al vino, alla casa di muro. Pensano alla domenica nel paese, quando si empiono i vicoli coi loro grossi sospiri, e rispondono a loro, soffiando, i muli nelle stalle e i porci nei covili, e i bambini strillano all'improvviso come passerotti, e i vecchi che non si possono più muovere fissano l'ultimo filo di luce, e le vecchie rinfrescano all'aria il ventre gonfio e affaticato, e le spose sono colombe tranquille. Pensano alla visita che faranno alla casa di qualche signore borghese, dove vedranno la bottiglia del vino splendere tra le mani avare del padrone di casa, e il vino calare nel bicchiere che vuoteranno tutto d'un fiato, buttando poi con violenza le ultime gocciole in terra. Quel vino se lo ricordano nelle giornate della montagna come un fuoco dissetante, poveri ed eterni poppanti di mandra. Accade talvolta che dalle mandre vicine arrivi qualche stupida pecora e qualche castrato che hanno perduto la strada. Conoscono gli animali come noi gli uomini, e sanno di chi sono, come noi riconosciamo i forestieri. 10 (dal cap. II) L'Argirò e il figliolo arrivarono al paese che era l'alba. Risalito il poggio, le case addossate una all'altra come una mandra si presentarono ai loro occhi. Da secoli questo paese si era cacciato nella valle, e vi si era addormentato. Intorno, a qualche miglio di distanza, gli altri paesi che si vedevano in cima ai cocuzzoli rocciosi si confondevano con la pietra, ne avevano la stessa struttura, lo stesso colore, come la farfalla che si confonde col fiore su cui è posata. Sembra un mondo spento, lunare. Attraverso i letti dei torrenti, i viandanti che tentano di raggiungere le vallate, nel silenzio reso più solitario dal ritmo della cavalcatura, sembrano abitatori di spelonche. Ma a inoltrarsi appena fra gli speroni dei monti, sulla striscia del torrente, si vede la montagna che nasce tra la valle animarsi della sua vita segreta, e sembra di udir le voci di tutte le sorgenti che scaturiscono da essa. Si rivelano i paesi coi loro fiocchi di fumo, le voci disperse, i suoni intermessi, la voce soprana delle campane. E’ una vita alla quale occorre essere iniziati per capirla, esserci nati per amarla, tanto è piena, come la contrada, di pietre e di spine. Ora la strada cui lavorano da vent'anni sta per bruciare all'arrivo con l'ultima mina. Già arriva qualche forestiero dove arrivava soltanto qualche carabiniere in occasione di qualche delitto, o il merciaio ambulante che raccatta gli stracci e compera i capelli che le donne nascondono nei buchi dei muri. Ancora i puledri col monello a bisdosso cavalcano pel sentiero secolare, e i buoi portano dall'alta montagna i tronchi d'albero legati a una fune trascinandoli in terra senza carro. È un fatto che qui manca la nozione geometrica della ruota. Ma per poco ancora. Come al contatto dell'aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzò così questa vita. È una civiltà che scompare, e su di essa non c'è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie. La liberazione del reame delle Due Sicilie trovò qui un ordine stabilito da secoli. Il parapiglia che avvenne col riordinamento dei beni demaniali, ingrossò alcune fortune già pingui. Il paese rimase quello che era: un agglomerato di case rustiche composte di una stanza a terreno, con la terra naturale per impiantito, la roccia per sedile e per focolare, intorno a una sola casa nobile con portici, stalle, cucine, giardini, servi. Il popolo si agitava e si affannava intorno a questa casa che era attigua alla chiesa, e dove era tutta la ricchezza, tutto il bene e il male del paese. (dal cap. V) [Poi se la diedero a gambe nella notte. Antonello sentiva un gran dolore, e caldo, sulla nuca. Vi passò sopra una mano, se la guardò poi al chiarore della luna. Non c'era sangue. Ma gli doleva.] Zitto zitto prese la strada di casa. Non disse nulla a nessuno, sbocconcellò il pane e le pere che la madre gli diede nel buio, poi si buttò in terra su una tela di sacco distesa, come faceva lassù nella sua capanna, mentre suo padre si era sdraiato al fresco, dietro la porta. Anche attraverso il tetto di tegole senza il riparo del soffitto filtrava la luce lunare. Si vedeva, nella casa, dopo un poco, tutto quello che c'era: la grande giara dell'acqua un canto, il cestone del pane appeso al soffitto, il focolare che faceva nel buio come una macchia grigia e il letto cui era stesa sua madre, alto alto. Accanto al focolare lo sprone della roccia, su cui era costruita la casa, stava con un'ombra inginocchiata. Egli sentiva respirare forte suo padre, e sua madre s'indovinava dal sonno tranquillo e immobile come se fosse morta. Dalle case vicine giungevano grossi sospiri, e nelle stalle soffiavano contro gl'interstizi della porta i maiali e gli asini. Tutte queste voci sentiva Antonello per la prima volta, dopo gli assorti silenzi del montagne. Il mondo era un'onda sonora intorno alla sua casa, e il cielo, e le montagne che lo sostengono con le loro cime e i loro alberi, come un baldacchino, ora pesava immenso sul paese e sulla valle. Era come un fiume alto tenuto in un fragile letto, da 11 cui poteva filtrare e rovesciarsi. Ma soprattutto era il continuo chiacchiericcio dell'abitato che gli faceva sentire d'avere iniziata una vita nuova. La vita in comune gli sembrava una curiosa invenzione e accordo fra gente che ha paura. Si addormentò di colpo con un suono di campane nella testa, là dove gli doleva. Carlo Bernari, Tre operai, Rizzoli, Milano 1934 [primo volume della collana “I giovani”, curata da Cesare Zavattini] (dal cap. I, Da una domenica all’altra: la prima settimana di lavoro). E’ domenica, di marzo. Luigi Barrin e il figlio Teodoro sulla via Poggioreale. In fondo, il cimitero coi suoi alberi folti e neri, poche nuvole gelate nel cielo chiaro. Nella piazza Nazionale vi sono due baracconi da fiera e un organetto che suona lentamente la Marsigliese. Vecchi cartelloni di propaganda elettorale pendono fradici dai muri. «Ora ti mostro la fabbrica, così domani ti saprai regolare» ha detto stamattina Luigi Barrin al figlio, che ha fatto assumere nella lavanderia dove è capoperaio. Davanti alla lavanderia, che sorge dietro un muro dipinto di rosa, i due si fermano. Luigi Barrin bussa al portoncinno. Spira vento gelato. «Buon giorno, Don Luigi» dice il custode, aprendo. «Questo è vostro figlio? Si vede; vi somigliate come due gocce d'acqua!» Luigi Barrin è fiero poiché Teodoro è un bel ragazzo. «Non vi meravigliate di vederci di domenica» dice Barrin; e indicando il figlio: «Sono venuto per mostrargli la fabbrica, in modo che domani non si senta spaesato». Luigi Barrin precede il figlio. Già di fuori si sente un puzzo di muffa e di sapone marcito. Una scatola di latta brilla su un mucchio di rifiuti. Dietro il tetto spunta la ciminiera corta e arrugginita. Teodoro entra nel primo capannone. «Ecco» gli dice il padre «questa è la macchina a vapore che manda avanti tutta la fabbrica; questa poi è la caldaia. In queste vasche si preparano i bagni di soda e di sapone, di acido solforico, di bisolfito, di permanganato. In questa macchina che si chiama lavatrice si lava la biancheria; qui invece la roba bagnata viene messa ad asciugare. Questo si chiama "diavolo" nel mestiere, ma in italiano si dice idroestrattore.» Teodoro guarda quelle cose svogliato. Si aspettava di entrare in una vera fabbrica con un complesso macchinario, invece si trova in un ambiente stretto, macchine panciute e primitive, che hanno nomi goffi: "battosa", "diavolo", "lavatrice", "vaporatore", "sciacquatrice"; nulla che faccia pensare all'industria, alla grande industria che lui sognava abbandonando la scuola. Il lunedì Teodoro è già operaio apprendista nella lavanderia. Gli operai più anziani lo squadrano, se lo mangiano di occhíate. Che vogliono da lui? Vogliono sapere se è un crumiro. Dalle vasche gomitoli di denso vapore salgono verso i lanternini: sembra fumo d'un incendio. Qualche muro è sgretolato, e dal tufo umido affiorano cristalli salmastri e su ogni punta brilla una goccia d'acqua. I muri dietro le caldaie della tintoria sono neri o rossi o addirittura violacei schizzati di anilina. Sul ritmo cadenzato dello stantuffo della vecchia macchina a vapore si ode il battito degli zoccoli tra rigagnoli di sapone sporco e di acqua tinta che acquista colore via via che si avvicina allo spiraglio di una porta chiusa, dove si scontra con una lama di sole: fuori sarà bel tempo. Nell'ora di sosta Teodoro si avvicina al fuochista Marco De Martino; e Marco gli dice che la sera egli studia, perché quel poco di intelligenza che ho non voglio perderla dietro le sciocchezze. 12 «Il fatto è che nessuno vuol stare più al suo posto» commenta Luigi Barrin, che durante il riposo diventa loquace e ragionevole. «In quest'epoca maledetta chi ti vuol diventare questo e chi ti vuol diventare quest'altro; e nessuno s'accontenta della sua posizione.» Il martedì, appena al secondo giorno, Teodoro è già stanco del lavoro. Vede per la prima volta i suoi principali, tornati appena da un lungo viaggio; e i suoi principali non si scomodano neppure a guardarlo troppo: un'occhiata furba, e via, insieme col padre. Che diranno di me? Forse si metteranno d'accordo sulla paga; e Teodoro, mentre aspira gli effluvi di vapore che si sollevano da una vasca, pensa al paio di scarpe nuove che potrà comperarsi dopo due settimane di lavoro. In tutta la giornata non ha pensato che alle scarpe, a un bel paio di scarpe nuove da mettere la domenica, e credeva di tornare a casa con questo pensiero allorché s'è imbattuto in Anna Giordano, la ragazza che controlla la biancheria in entrata e in uscita, al piano di sopra. È bella, ma esile e pallida; ed è pensando a lei che si corica la sera. Si sente stanco e non riesce a pensare ad Anna e alle scarpe, se pensa alle scarpe Anna si dissolve in una nube di vapore, e preferisce Anna. Il mercoledì piove a dirotto. È tragico alzarsi dal letto quando piove, chi è che ha stabilito che bisogna alzarsi alle sei, per essere puntuali sul lavoro? Ma Luigi Barrin è inesorabile, gli dà la sveglia col fischio e spalancando la finestra dice che quando si è svogliati non si combina mai nulla di buono nella vita. In fabbrica, sotto lo zoccolo della porta chiusa, si vede la pioggia brillare sul selciato del cortile dove s'incontrano i diversi rigagnoli di tinta e di acqua saponata che rigurgitano dagli scoli. A mezzogiorno il cortile era rosso come di sangue. La lavanderia è vuota, i tubi ebollitori, che fanno tanto fracasso, tacciono; c'è silenzio e vapore, e c'è anche Anna in un angolo che aspetta di vedere Teodoro. L'ipoclorito e il bisolfito danno nausea. Eppure i due odori si avvertono solo a mezzogiorno quando ci si accorge che le valvole non funzionano e molte perdite di vapore si spandono nell'aria greve appannando i vetri del lanternino. Il caseggiato che si vede dal lucernario s'alza obliquo conro il cielo grigio con le sue finestre strette e nere e con la grondaia che fa un lungo scolo di ruggine. Il giovedì si lavora ininterrottamente per approntare la biancheria di due vapori inglesi che partono la sera. Quando Teodoro esce dalla lavanderia è tardi. Aspetta Anna al passaggio a livello della ferrovia Nola-Baiano. Il treno ogni tanto s'annunzia con un lungo fischio; pare che venga da lontano, invece è fermo nella campagna deserta. Il cielo è lucido come d'estate. La stanchezza, dopo la giornata di lavoro, dà dei brividi nella schiena. Teodoro è già un operaio. Sabato prenderà la paga e con la paga comprerà molte cose; forse un paio di scarpe, e gli occorrerebbero anche delle mutande, e possibilmente un paio di calze di filo. Si sente felice per le cose nuove che indosserà domenica; se mi sarà possibile comprerò anche una cravatta. E pensa, Teodoro, con gli occhi chiusi, pensa alle cose nuove che avrà indosso domenica, quando sarà accanto ad Anna; e Anna gli si avvicina che egli nemmeno se ne accorge. «Hai aspettato molto?» «No, m'ero distratto.» E si spingono per la campagna. Carlo Bernari, Ciminiere e rifiuti, in Bibbia napoletana, Vallecchi, Firenze, 1961 napoletani e ―operai‖ si mostravano i miei primi compagni di lavoro: sarti, modesti artigiani a domicilio, frammenti perciò di un mondo amaro e privo di speranze. [...] Tra i miei compagni di lavoro non incontrai che uomini impauriti, uomini che guardavano con stupore e talvolta neppur guardavano ciò che accadeva loro intorno, senza capire da che cosa dipendessero la buona e la cattiva stagione, la buona e la cattiva sorte, il lavoro e la 13 disoccupazione. Non lo capivano perché essi non formavano un corpo sociale ben definito; ma una schiera eterogenea di piccoli artigiani, avviliti da interrotte delusioni, e sempre eccitati da inesauribili speranze. (...) Il dolore è arma troppo pericolosa perché, maneggiandola, non si corra il rischio di rimanere noi stessi feriti. Presto cominciai a sentire anch’io le punture di quelle spine che angustiavano la vita dei miei amici; durante la sosta per la colazione, che noi consumavamo all’ombra delle ciminiere del Pascone, tra le capre brucanti l’erba che germoglia a fatica tra i gasometri e le gru, essi mi chiedevano spiegazioni: - Tu leggi tanto, - mi dicevano. - E perché non ci spieghi come stanno le cose? Quand’è che finisce? [...] Eccitati dalle mie letture, s’aspettavano da me una ―storia della classe operaia a Napoli‖; ma gli anni passarono, e di quelle promesse non mi restano oggi che pallidi appunti a matita su un esile quaderno scolastico, e un ricordo incancellabile: i miei compagni che parlavano della loro vita maledetta e vogliono un libro, mentre attorno a noi le capre brucano l’erba avvelenata dal gas e i diseredati cercano ginocchioni pezzi di carbon fossile e di metallo fra i detriti. Dopo qualche anno mi misi all’opera, e il mio racconto si ambientò naturalmente fra i gasometri e le gru del Pascone, popolandosi di personaggi che avevano un nome e un cognome, una piaga da sanare, una paura da vincere. Fu così che invece della storia scrissi una storia, un romanzo, cioè, o se più piace, una ―favola‖; giacché favolosi sono sempre tutti gli inizi e tutte le fini del mondo. 14 REALISMO 1941 Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, Parenti, 1941 Guido Piovene, Lettere di una novizia, Bompiani, 1941 Vitaliano Brancati, Don Giovanni in Sicilia seguito da cinque racconti, Rizzoli, ―Il Sofà delle Muse‖, 1941 (G. Piovene, Lettera di una novizia, Prefazione) I personaggi di questo romanzo, sebbene diversi tra loro, hanno un punto comune: tutti ripugnano dal conoscersi a fondo. Ognuno capisce se stesso solo quanto gli occorre; ognuno tiene i suoi pensieri sospesi, fluidi, indecifrati, pronti a mutare secondo la sua convenienza, senza contraddizione né bugia né riforma; ognuno sembra pensare la propria anima non come sua essenzialmente, ma come un altro essere con cui convive, seguendo una regola di diplomazia, traendone di volta in volta o voluttà, o medicina, o perdono. Se noi, più esatti o meno pietosi di lui, vogliamo dare a questo comportamento il nome che gli compete, siamo forse costretti a definirlo malafede. La malafede è un'arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza. La sincerità e la chiarezza sono due grandi virtù; pure anche il loro culto non deve essere né passivo né cieco, e perde ogni valore morale se non è regolato e condotto dalla pietà [...]. Ognuno di noi, come medico, nel suo animo deve saper rischiarare o abbuiare, ricordare o, se occorre, lasciar cadere nell'oblio e regolare la chiarezza interiore con una specie di umana diplomazia [...]. I personaggi del mio libro possiedono quest'intima diplomazia, ma volta a cattivo scopo e ad esclusivo profitto della loro pigrizia e del loro egoismo. Il contenuto di tutto quello che fanno è dunque da biasimare; il metodo, direi la forma, è degno di riflessione. (Bàrberi-Squarotti, L’intrico delle finzioni: “Lettere di una novizia”, 28) Il massimo di conoscenza dei fatti, che la confessione dovrebbe, per la sua natura sacramentale, fornire, e che la lettera dovrebbe, sul versante puramente laico e mondano, offrire per la natura confidenziale che essa intrinsecamente possiede, è, invece, negato, impedito, escluso. Le lettere non danno nessuna informazione certa, non equivoca. Infittiscono le ombre e il non sapere; né si può comprendere chi abbia torto o ragione, chi si sia comportato positivamente o male, come le cose siano effettivamente andate, compresa l'uccisione di Giuliano a opera di Rita, per un colpo sparato dal fucile da caccia del giovane, accidentale o no che sia stato. E’ anche un discorso sull'impossibilità che ha il romanzo moderno di arrivare alla verità. Nel racconto di un'altra novizia, quella che sarà la monaca di Monza, il Manzoni si preoccupa di chiarire, dal di fuori, dalla posizione di narratore onnisciente, le ragioni e i torti, le colpe e le prevaricazioni subite, le tirannie paterne e le morbose fantasticherie della giovane candidata al chiostro. Piovene si pone da un punto di vista opposto. Non potendo più, modernamente, pretendere l'onniscienza dello scrittore classico, delega alla riproduzione delle lettere dei personaggi la testimonianza della verità, ma avverte che la verità non è un bene assoluto, e così pure chiarezza e sincerità possono essere pericolose e dannose, quando non vengano contemperate dalla pietà. Parrebbe, nelle lettere, essere contenuta tutta la verità, di cui il lettore è fatto partecipe attraverso la violazione del segreto epistolare: ma è esattamente l'opposto, poiché, preventivamente, lo scrittore dice che la verità è al di fuori dell'inganno e della menzogna su cui le lettere sono costruite 15 ANNI QUARANTA La “situazione” neorealista La forza del contesto Realtà, io, linguaggio Il neorealismo narrativo. Un quadro affollato e plurale Un nucleo d’attrazione: le scritture documentarie Narrativa d’invenzione. Voci e figure di popolani e intellettuali, immagini di collettività 16 LA SITUAZIONE NEOREALISTA La forza del contesto Carlo Levi, La città, in Dopo il diluvio - sommario dell'Italia contemporanea, 1947 Le città sembrano tornate quelle di una volta, i luoghi infantili e familiari di una vita regolata. Luoghi infantili e familiari che fanno parte della persona stessa degli abitatori, come un naturale prolungamento delle loro membra, come una cornice non separabile dagli atti e dai pensieri di ogni giorno. Ma sotto questo aspetto di normalità qualche cosa è cambiato: c'è come un distacco che deve essere superato: ci accorgiamo di questa invisibile cornice, sentiamo questi luoghi infantili e familiari come separati da noi: le città si vedono. Le città non sono più un dato, una eredità accettata naturalmente, ma un problema, che non è soltanto di ricostruzione, di architettura, di piani regolatori, ma il problema stesso dei rapporti umani, della vita sociale. Dietro l'apparente ritorno c'è il problema delle città, di cui appaiono l'ossa, la vita interna, il meccanismo. Esse si stendono sotto il sole come animali che mostrano, attraverso le ferite, le interiora aperte. Franco Fortini, Cos’è stato «Politecnico», 1953 Talvolta si andava nei circoli operai, nelle fabbriche, a parlare del ―Politecnico‖. Ricordo una sera, verso piazzale Corvetto, una specie di hangar mal illuminato, pieno di operai, di donne con i bambini sulle ginocchia; e ascoltavano parlare del ―Politecnico‖ come di una cosa loro, come si trattasse del loro lavoro e della loro salute, e interrogavano, volevano sapere. (Si arrivò a proporre una tournée di tutta la redazione attraverso l'Italia meridionale e la Sicilia). Capitavano in redazione i personaggi di quegli anni: operai affamati, giornalisti, avventurieri, ex partigiani, ragazze scappate di casa, mentecatti. Arrivavano montagne di manoscritti, la piú parte diari di guerra, di prigionia, di vita operaia, poesie esemplate sulle traduzioni degli americani, racconti di vita clandestina. Si aveva l'impressione che, dovunque il settimanale giungesse - ce lo confermava la fitta corrispondenza dei lettori molti animi che erano stati scossi dalla recente esperienza rispondessero alle nostre incerte astruse parole. Inchiesta sul neorealismo, a c. di Carlo Bo, ERI, 1951 ―Se in tutti [gli scrittori] si rintracciano alcuni degli elementi cui accennavo, tutti invece sfuggono per qualche parte, chi più chi meno, alla definizione‖ (Sergio Solmi); ―Via via che dici la parola tu la devi riempire di un significato speciale. In sostanza tu hai tanti neorealismo quanti sono i principali narratori‖ (Elio Vittorini); ―Quell'etichetta servì a tutta prima a coprire oggetti tutt'altro che omogenei, anzi i piú disparati che si potesse immaginare: dal lirismo esasperato e ansioso di simboli di un Vittorini, al moralismo chiuso e ostinato di Moravia, al cronachismo autobiografico di fertilissima inventiva di Pratolini, fino magari alla difficile solitaria tormentatissima esperienza di un Pavese o addirittura all'estetismo sapientemente ambiguo e raffinatissimo di un Levi: tanto per fare solo qualche nome scelto un poco a caso. Si dovrà dire se mai, che l'ambizione neorealistica nella letteratura del dopoguerra è stata soprattutto un'esigenza, l'espressione di una crisi sorta in un ambiente di forte pressione politica, per cui si acuiva nei letterati migliori la coscienza della disperata solitudine in cui si erano sviluppate le loro esperienze precedenti.‖ (Natalino Sapegno). 17 Italo Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d'oggi, 1959 ―le poche voci di veri scrittori furono soverchiate da una fiumana di libri grezzi, di voci anonime, di testimonianze sulle esperienze più crude, di nudi documenti della vita popolare, di tentativi letterari immaturi, di bozzetti naturalistici regionali, di una retorica popolaresca che si sovrapponeva alla realtà: tutti questi aspetti, buoni e cattivi insieme, caratterizzarono quello che è stato chiamato il neorealismo, e che fu, pur con tutti i suoi difetti, un'epoca letteraria piena di vita, che coincide all'ingrosso col primo decennio o forse solo col primo quinquennio del dopoguerra.‖ REALTÀ, IO, LINGUAGGIO Italo Calvino, Saremo come Omero, 1948 La scelta d'un linguaggio é un problema da cui non si può prescindere, perché in Italia, adesso e sempre, i linguaggi letterari sono personali come i fazzoletti da naso; e, legato a questo ma più pressante e importante, il problema di come sistemare quell'ingombrantissimo personaggio che per uno scrittore moderno è l’―io‖ (e che pure gli è indispensabile per aver esperienza del mondo intorno), se autobiograficamente, o simbolicamente, o trasfigurandolo in senso eroico, o riuscendo a far finta che non ci sia. / Perché bisogna sempre tener ben presente una cosa: che tra l'io che scrive e la realtà che deve essere oggetto dei suoi scritti (realtà completa, quindi storica e in divenire, ecc.) c'è l'io che vive e vede e si trasforma e migliora a contatto con la storia e gli uomini, e i conti son sempre da fare con quest'ultimo, perché se ci si limita a disciplinare l’―io che scrive‖ tutto rimane su un piano volontaristico, velleitario , e o non si riesce più a scrivere o si fanno degli aborti. A. Seroni, Inchiesta sul neorealismo Perché (e so bene che rischio di passare per "codino"), narratore per me è colui che riesce a narrare una storia, che abbia una inquadratura ben organizzata (si dice pure trama o episodio) logicamente svolta, sorretta "sempre" da una tesi da dimostrare, una tesi alla quale convincere il lettore. UN NUCLEO D’ATTRAZIONE: LE SCRITTURE DOCUMENTARIE Pietro Chiodi, Banditi, 1947 Questo libro non è un romanzo, né una storia romanzata. E' un documentario storico, nel senso che personaggi, fatti ed emozioni sono effettivamente stati. Franco Fortini, Documenti e racconti, in «Politecnico», 1946 L'attitudine di colui che scrive mosso da passioni pratiche per ottenere una immediata rispondenza nelle passioni sociali, politiche, morali del lettore è profondamente diversa da quella di chi si propone l'espressione di immagine e di ritmo che è nell'opera d'arte [...]; e quei lettori che preferiscono l'immediatezza dei documenti hanno certo trovato nel "Politecnico" il giornale che ne ha riconosciuto l'importanza storica [...]. Ma documenti appunto, tali cioè da suscitare immediate azioni e reazioni [...] non opere d'arte che sono raro frutto di contraddittorie esperienze e che possono pur spingere gli uomini all'azione e 18 alla lotta, e anzi ve li spingono con maggior coscienza e consapevolezza di quello che i documenti non facciano; ma che operano con un altro ritmo. TRE MODI D’IMPOSTARE LA VOCE Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra. La notte che Amelio si ruppe la schiena sulla strada di Avigliana, ero andato con tre o quattro a una merenda in collina — mica lontano, si vedeva il ponte — e avevamo bevuto e scherzato sotto la luna di settembre, finché per via del fresco ci toccò cantare al chiuso. Io suonavo — Pablo qui, Pablo là — ma non ero contento (C. Pavese, Il compagno) Poi fu inverno veramente, passarono dei mesi, e per scampare al terrore che incuteva idee di morte, ciascuno guardò piú attentamente alla vita. Margherita aveva ceduto la mascalcia ad Eugenio: non era piú tornata in via del Corno. Spesso i giovani approfittavano della domenica per recarsi a trovarla, al paese dei suoi dove ella si era ritirata e dove, da mattina a sera, si dedicava ai nipotini, figli della sorella, confondendo cosí la propria pena. Anch'ella inconsciamente, in un'espansione verso la vita. Poiché vivere è il nostro destino, fino al giorno di morire (V. Pratolini, Cronache di poveri amanti) A Calena, di marzo, incominciava il sole lungo. Per tutto l'inverno la cresta delle Mainarde, che era a ponente della città, faceva brevi i crepuscoli. I raggi, rotti dalle rocce, illuminavano breve tratto del cielo di luce folgorante, lasciando la città e le sue terre nell'ombra. Di primavera il sole si poneva al centro d'una forca tra il Timbrone e il Sellao, e dava, morendo, quasi a pelo delle terre piú basse, fin l'ultima ombra di luce. In una mattina serena di marzo l'avvocato Cannavale percorreva a cavallo le terre del Sacramento. Lo seguiva a distanza Felice Protto, suo fattore e affittuario d'una parte della tenuta. L'avvocato si era deciso a fare quella visita ai suoi poderi con il ritorno della buona stagione, non tanto per rendersi conto dei pascoli e delle coltivazioni, quanto per uscire dalla sua casa di città dopo giorni e giorni di pigrizia e di solitudine (F. Jovine, Le terre del Sacramento) Da quella piazzetta si domina un po' di Langa a sinistra e a destra le colline dell'Oltretanaro dopo le quali c'è la pianura in fondo a cui sta la grande città di Torino. I vapori del mattino si alzavano adagio e le colline apparivano come se si togliesse loro un vestito da sotto in su. (B. Fenoglio, L’andata, in I ventitre giorni della città di Alba) I partigiani si scrollavano come cani bagnati, e gridavano forte; col frastuono nessuno poteva udirli, e loro godevano a risentirsi la gola libera, dopo tanti giorni di parlare sottovoce (R. Viganò, L’Agnese va a morire) Il paese di Neive dormiva ancora quando vi entrarono. Però l'albergo in faccia alla stazione aveva una luce accesa a pianterreno. Entrarono lí, si fecero dare pane e lardo e tornarono fuori a mangiare pane e lardo. Masticavano l'aria del mattino col cibo e guardavano un po' il 19 cielo e un po' le finestre chiuse delle case (B. Fenoglio, L’andata, in I ventitre giorni della città di Alba) I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, d'ossa rosicchiate e nascoste sottoterra. Solo quando lo stomaco è pieno, il fuoco è acceso, e non s'è camminato troppo durante il giorno, ci si può permettere di sognare una donna nuda e ci si sveglia al mattino sgombri e spumanti, con una letizia come d'ancore salpate (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno) Gli uomini pensano, invece che al loro, al destino di quelle coperte che portano con sé: la perderanno scappando, forse s'inzupperà di sangue mentre loro muoiono, forse la prenderà un fascista e la mostrerà in città come bottino. Ma che importa una coperta? (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno) Il Dritto è un giovane magro, figlio di meridionali emigrati, con un sorriso malato e palpebre abbassate dalle lunghe ciglia. Di professione fa il cameriere; bel mestiere perché si vive vicino ai ricchi e una stagione si lavora e l'altra si riposa. (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno) Quel giorno il marinaio tedesco veniva su di cattivo umore. Amburgo, il suo paese, era mangiato dalle bombe ogni giorno, e lui aspettava notizie ogni giorno di sua moglie, dei suoi bambini. Aveva un temperamento affettivo, il tedesco, un temperamento da meridionale trapiantato in un uomo del mare del Nord. S'era riempito la casa di figlioli, e adesso, spinto lontano dalla guerra, cercava di smaltire la sua carica di calore umano affezionandosi a prostitute dei paesi occupati. (I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno) Ma guardando in basso vide la valle cieca e profonda come un lago d'inchiostro. E poi, tutto d'un tratto, dal versante dirimpetto venne il rumore di una motocicletta. Raoul non scorgeva il fanale della macchina, non la strada sulla quale essa correva, il rumore era intermittente come se si liberasse solo in certi punti e non aveva più niente di meccanico, era selvaggio, lamentoso e spaventevole come il verso del lupo errante sulle colline. Raoul rabbrividì. I partigiani erano in giro! Non partigiani di Marco, ma partigiani con la faccia ed il cuore di Kin e di Gancia, di Miguel e di Delio, ancora più terribili perché sconosciuti, che lui aveva il terrore d'incontrare di notte sulla cresta delle colline, nel fondo delle valli, alle svolte delle strade UN REALISMO DELL’EMERGENZA Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, 1947 (dal cap. V) Pin ha sempre desiderato di vedere dei partigiani. Ora sta a bocca aperta in mezzo allo spiazzo davanti al casolare e non può fissare l'attenzione su uno che ne arrivano altri due o tre, tutti diversi e bardati d'armi e di nastri di mitraglia. Possono sembrare anche dei soldati, una compagnia di soldati che si sia smarrita durante una guerra di tanti anni fa, e sia rimasta a vagare per le foreste, senza più trovare la via del 20 ritorno, con le divise a brandelli, le scarpe a pezzi, i capelli e le barbe incolti, con le armi che ormai servono solo a uccidere gli animali selvatici. Sono stanchi e incrostati di una pasta di sudore e polvere. Pin s'aspettava che arrivassero cantando: invece sono zitti e seri, e si buttano sulla paglia in silenzio. […] Pin, vuoi vedere passare il battaglione? Vai di sotto, sul ciglio, si vede la strada. Pin corre e si sporge dai cespugli. Sotto di lui è lo stradale e una fila d'uomini sta salendo. Ma son uomini diversi da tutti gli altri visti fin allora: uomini colorati, luccicanti, barbuti, armati fino ai denti. Hanno le divise più strane, sombreri, elmi, giubbe di pelo, torsi nudi, sciarpe rosse, pezzi di divise di tutti gli eserciti, ed armi tutte diverse e tutte sconosciute. Passano anche dei prigionieri, mogi e pallidi. Pin crede che tutto questo non sia vero, che sia un abbaglio del sole sulla polvere della strada. 21 22