Finché morte non ci separi

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Finché morte non ci separi
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Finché morte non ci separi: Il femmicidio in Italia, ovvero, La soluzione 70%. 1
(Alessandra Calanchi)
Per prima cosa vi invito a guardare il manifesto che ho scelto per introdurre la mia lezione. In
particolare, le parole “Ti amo tanto da farti morire – La prossima volta odiami” si riferiscono a un
dialogo immaginario fra una vittima (donna) e il suo assassino (uomo). Il gioco di parole è legato
all’espressione idiomatica italiana “ti amo da morire”.
http://improntedichina.blogspot.it/2012/10/ce-chi-coniuga-male-il-verbo-amare.html
In secondo luogo, passo a spiegare il mio titolo. La prima parte, Finché morte non ci separi, si
riferisce naturalmente al matrimonio, che dovrebbe essere basato sul rispetto reciproco, sulla fedeltà
e sull’amore, tutti sentimenti che si auspica possano durare, come recita la formula, fino al
sopraggiungere della morte. La seconda parte del titolo è ispirata al famoso investigatore letterario
Sherlock Holmes e in particolare al suo uso della cocaina nella percentuale del 7 % diluita in acqua.
Qualcuno di voi ricorderà probabilmente il film di Herbert Ross La soluzione Sette per Cento
(1976). Bene: 70 % – che è molto più di 7 – non ha nulla a che vedere con le droghe né con
Sherlock Holmes, ma è la vergognosa percentuale di donne uccise dal proprio partner sul numero
complessivo di vittime del femmicidio in Italia.2
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Questa è la traduzione di una lezione per gli studenti dell’Università di Bristol, da me tenuta presso il Dipartimento di
Italianistica il 29 aprile 2013.
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Si definisce genericamente femmicidio l’uccisione di una donna, ma le definizioni variano a seconda del contesto
culturale e di chi utilizza il termine. Il termine “femicide” esisteva già nella lingua inglese nel 19° secolo. Poi la
sociologa e criminologa femminista sud-americana Diana Russell diede al termine un valore politico nel 1976, e infine
l’antropologa messicana Marcella Lagarde inventò il termine “feminicide” nel 1993; ma curiosamente entrambi i
termini sono tuttora considerati “neologismi” in Italia (http://femminicidio.blogspot.it/ e molti altri siti web). Diana
Russell è comunque ritenuta una delle pioniere del termine, e la definizione che ne dà è “l’uccisione di una donna per
mano di un uomo per la ragione che è una donna”. Altre femministe pongono l’enfasi sull’intenzionalità dell’atto,
mentre altre ancora includono l’uccisione di donne da parte di donne quando queste incarnano una logica maschile. La
maggior parte comunque pone l’accento sul fatto che l’assassinio è motivato, direttamente o indirettamente, dalla
misoginia o da ragioni sessiste. Questo include forme di femmicidio meno appariscente come la criminalizzazione
dell’aborto, che può portare alla morte, o la mutilazione genitale. Il femminicidio invece comprende tutte le forme di
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L’Italia è uno strano paese. Da un lato abbiamo la chiesa cattolica, che insiste da sempre
sull’importanza e sulla sacralità della famiglia, e la pubblicità televisiva, con il suo lavaggio del
cervello quotidiano a suon di immagini di famiglie allegramente riunite a fare colazione o a
mangiare pasta, perché “Dove c’è Barilla c’è casa”, e il Mulino Bianco rappresenta un “mondo
buono”. Dall’altro lato, la consapevolezza di genere è drammaticamente scarsa, per non parlare
dell’eguaglianza di genere: entrambe sono precipitate a livelli drammatici negli ultimo 20 anni. Per
non parlare dei delitti, talmente numerosi e all’ordine del giorno che rendono insopportabile una
pubblicità di detersivo come questa (che pure è controbilanciata da una “gemella” dove la vittima è
un uomo):
http://www.napolitoday.it/cronaca/pubblicita-clendy-femminicidio.html
E’ vero che nel mondo una donna viene assassinata ogni 8 minuti. Ma in Italia, che è un paese
davvero piccolo in confronto all’intero pianeta, e non è un paese sottosviluppato, una donna viene
uccisa ogni due giorni e questo è decisamente drammatico. Il femmicidio e il femminicidio sono
una specie di sport nazionale, anche se in passato si cercava di riderci sopra come accadeva in film
come Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961) o Pasqualino Settebellezze (Lina Wertmüller,
1976).
Per troppo tempo il femmicidio è stato chiamato “delitto passionale”, e la psicologa Roberta
Bruzzone ha assolutamente ragione quando, nella sua Prefazione alla raccolta di racconti Nessuna
più (a cura di Marilù Oliva, 2013) insiste: “Non chiamiamoli delitti passionali” (pp. 13-19). E ha
ragione anche Oliva a usare termini come “uccisione barbarica” e “olocausto” nella sua
Introduzione alla stessa a (p. 9). Per quanto riguarda l’Italia, il CEDAW3 ha frequentemente
sottolineato l’inefficienza italiana nelle politiche di genere. Ha anche denunciato il silenzio delle
istituzioni e la persistenza di atteggiamenti socio-culturali che tollerano o giustificano la violenza
violenza contro la donna e ogni tipo di discriminazione e ha una valenza più politica. Riconosce come colpevole non
solo il maschio che perpetra il crimine ma anche lo Stato, il potere giudiziario, i media.
3
CEDAW = Committee on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women (Commissione
Internazionale per l’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne).
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contro le donne, per non parlare dell’informazione, che è spesso sessista e scandalistica (Oliva, pp.
9-10).
Per quanto possa sembrare strano, fu solo nel 1981 che un articolo riguardante il “Delitto
d’onore” fu eliminato dal Codice Penale. Si trattava di un articolo (risalente al Codice Zanardelli e
al Codice Rocco di ispirazione fascista) che garantiva un’attenuazione della pena se l’assassinio era
motivato da adulterio. Il “delitto d’onore” tuttavia, così come il “delitto passionale”, persiste ancora
a livello di pregiudizio culturale ed è difficile liberarsene. Ma il femmicidio non ha nulla a che fare
né con l’onore né con la passione. L’allarmante numero di donne vittime di stalking, umiliazione
private o pubblica, molestie, violenza psicologica e assassinio significa che le donne vengono
ancora considerate una proprietà sessuale nonché la causa ultima della frustrazione maschile,
dell’incapacità dell’uomo di affrontare il fatto che le donne non sono più gli angeli del focolare.
Come sottolinea Oliva, non è casuale che la domesticità caratterizzi non solo la scena del crimine,
ma anche le tipiche armi usate dagli uomini: “svariati oggetti d’uso consueto, … coltelli da cucina,
padelle, ferri da stiro, mattarelli, bottiglie, … calze di nylon, spilloni, cinture, … il manico del filtro
della macchina da caffè, … forbici…” (p. 7). Come scrive la conduttrice televisiva Serena Dandini,
“la famiglia è per noi il luogo più pericoloso” (p. 33).
Ho deciso di parlare di questo argomento perché è centrale nel panorama sociale italiano e
anche nella rappresentazione letteraria. Una quantità di romanzi criminali si focalizzano proprio
sulla scomparsa di ragazze, oppure sulla violenza contro le donne; in altri casi, l’investigazione è
portata avanti da donne detective. Non solo molti, in realtà, i romanzi che problematizzano questa
tematica, ma quelli che lo fanno forniscono un ottimo materiale di studio. Certamente le cose
cambiano se l’autore è un uomo o una donna, un ex poliziotto o un giornalista, un bestseller o un
accademico: per questo cercherò di presentare una tipologia variegata di casi.
I primi due libri di cui voglio parlarvi sono stati pubblicati recentemente da Luciano Garofano,
ex generale dei carabinieri e comandante del RIS di Parma, spesso invitato come esperto nei talk
show televisivi. I titoli sono Uomini che uccidono le donne (con Paul Russell e Andrea Vogt, 2011)
e I labirinti del male (con Rossella Diaz, co-direttrice con Francesco Zarzana dell’omonimo
progetto teatrale, 2013). Questi libri confermano che il femmicidio è in crescita. Più 120 donne sono
state assassinate in Italia nel 20124 contro le 137 nel 2011, 127 nel 2010, 119 nel 2009. Le
statistiche ufficiali (dati ISTAT) rivelano un crescente numero di omicidi all’interno della famiglia
e della coppia: all’incirca il 70% delle vittime muoiono per mano del proprio partner o ex partner.
Nei suoi libri Garofano invita le donne a denunciare tutti i casi di violenza, stalking e
molestie. I casi di cui parla in Uomini che uccidono le donne (gli assassinii di Simonetta Cesaroni,
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128 secondo la stampa, 170 secondo il rapporto Eures-Ansa (L. Garofano e R. Diaz, I labirinti del male, 2013.)
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Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea e molti altri) mostrano la tragica vulnerabilità della
donna all’interno della famiglia e/o della coppia, che dovrebbero essere i luoghi dell’amore,
dell’affetto e del rispetto. Al contrario, le donne vengono spesso assalite proprio dai compagni o
mariti o fidanzati che pretendono sesso o le considerano una proprietà esclusiva, non tollerando di
essere lasciati o traditi. Garofano insiste sull’importanza della prova scientifica, specialmente il test
del DNA, allo scopo di trovare il vero colpevole (o di scagionare persone apparentemente colpevoli
ma innocenti). Ma incolpa anche le sacche di arretratezza culturale e sottolinea l’importanza della
prevenzione, insistendo perché le donne denuncino tutte le situazioni che comportino violenza fisica
o psicologica. Auspica poi la creazione di un codice internazionale etico condiviso dai media.
La situazione descritta nel libro è estremamente grave. Nella stragrande maggioranza dei casi,
le aggressioni non vengono denunciate. Risulta poi che il 14.3% delle donne che hanno avuto
almeno una relazione con un uomo sono state vittime di molestie fisiche o sessuali almeno una volta
nella vita. Garofano cita anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in un
discorso pronunciato in occasione della decima Giornata Internazionale per l’Eliminazione della
Violenza contro le Donne (25 novembre 2009) sottolineò la necessità di sradicare il concetto di
donna come oggetto di proprietà e parlò di “una concezione della donna come oggetto di cui ci si
può appropriare: è infatti la persistenza di questi aberranti schemi mentali a favorire il riprodursi di
insopportabili atti di sopraffazione anche in ambito familiare” (p. 9).
Più recentemente Laura Boldrini, nel suo discorso inaugurale come Presidente della Camera
(17 marzo 2013), ha fatto riferimento alla condizione delle donne nel nostro Paese invitando tutti i
politici a farsi carico dell'umiliazione delle donne che subiscono “violenza travestita da amore” .5
Labirinti del male esplora invece i molti tipi di femminicidio, dallo stalking allo stupro, e
insiste sull’importanza di rompere il codice del silenzio che troppo spesso circonda le donne (“La
società, omertosamente, tace”, p. 13), anche ricorrendo all’aiuto dei social network, dei blog e delle
campagne d’informazione. Garofano definisce “ignobile” il “ritratto che il nostro Paese registra,
anche in questo settore” (p. 15) e chiama “aberranti” le accuse di quanti incolpano il modo di vestire
delle donne (p. 16). Secondo l’autore, il femminicidio è la conseguenza di un “possesso negato” (p.
29) e generalmente è riconducibile alla decisione da parte della donna di interrompere una
relazione; avviene più spesso nell’Italia del nord, e con maggior frequenza all’interno della
famiglia. Un lungo capitolo è dedicato allo stalking, che in Italia viene considerato un reato solo dal
2009, in parte a causa di una resistenza culturale contro la demonizzazione di qualcosa che potrebbe
essere percepito come analogo al corteggiamento. Garofano analizza in modo esaustivo le tipologie
5
<http://blog.panorama.it/woman-in-web/2013/03/17/laura-boldrini-il-discorso-da-presidente-della-camera/>
5
sia degli stalker sia delle vittime di stalking, e offre anche molti consigli preziosi. Dopo aver passato
in rassegna un numero di casi, il libro termina con un capitolo intitolato “Cosa fare se si è vittima
di violenza” con tanto di numeri telefonici, indirizzi, e suggerimenti circa i propri diritti.
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Veniamo ora alla seconda parte del mio discorso. In campo letterario, c’è stata una sorta di
accelerazione negli ultimi due anni, dopo molti anni di silenzio interrotti dai contributi di alcune
grandi protagoniste della nostra storia culturale (penso soprattutto a Franca Rame e Dacia Maraini).
Tra le opera di narrative più recenti, ho scelto Undicesimo comandamento: Uccidi chi non ti ama
(Elena Mearini, 2011) che è scritto in un suggestivo stile anticonvenzionale misto di poesia e prosa,
e Ferite a morte (Serena Dandini, 2013), una serie di monologhi che sono anche stati portati sul
palcoscenico. Citerò anche i romanzi di Barbara Baraldi e Grazia Verasani, due scrittrici che hanno
dato vita a straordinari personaggi femminili nei loro romanzi “gialli”.
Ciò che tutte queste opera hanno in comune è l’ovvia ineguaglianza fra donne e uomini, sia
nella società civile sia dentro le istituzioni. I femmicidi vengono percepiti ancora, almeno in parte,
come una colpa della donna, qualcosa di cui le donne – e non gli uomini – dovrebbero vergognarsi.
Ricordo un libro che fu pubblicato in Italia molti anni fa, nel 1979. Era basato su un documentario
diretto da Loredana Rotondo e intitolato Processo per stupro.6 Era una storia vera, in cui la
protagonista, una donna che era stata violentata, veniva percepita sia dalla gente per strada sia in
tribunale come la colpevole anziché la vittima. E’ passato molto tempo ma le cose non sono
cambiate molto, come potete vedere da questa presa di posizione che ha fatto molto discutere.
http://www.mondoinformazione.com/notizie-italia/femminicidio-donne-quante-volte-provocano-pontifex/76936/
6
<http://www.youtube.com/watch?v=RLurjfwjI4g>
6
In Undicesimo Comandamento abbiamo una voce narrante femminile in prima persona. La
vicenda è raccontata sotto forma di un lungo e quasi ininterrotto monologo durante il quale il lettore
apprende gli eventi principali della vita della protagonista. Serena ha perso i genitori in un incidente
d’auto quando era bambina e pertanto è stata allevata da uno zio. Poi si è sposata con un uomo
violento, un professionista istruito che la costringe a non lavorare e la umilia costantemente. Un
giorno, scoprendo di essere incinta, Serena prima pensa di eliminare il bambino, poi spera che il
marito lo accetterà: invece lui è furioso e la rinchiude in un ripostiglio. Quando finalmente la libera,
implorando di perdonarla, e dicendo ripetutamente che la ama, lei ha già preso la sua decisione: non
si libererà del marito, bensì del bambino. Quindi va in cucina, prende un coltello e lo uccide con tre
coltellate. Il suo gesto estremo è descritto come un atto di difesa non tanto per se stessa quanto per il
figlio. Spostando la sua identità da quella di moglie a quella di madre, il suo crimine viene per così
dire attenuato; ma la protagonista, tuttavia, rivela in questo modo la sua incapacità di considerarsi
semplicemente una donna.
L’ambientazione è quasi esclusivamente domestica. La casa è il luogo dove la violenza viene
consumata abitualmente, ogni giorno, in un’alternanza sadica di brutalità e pentimento. Serena esce
di casa solo due volte: la prima volta va in chiesa, la seconda arriva fin sulla soglia del Centro di
Aiuto, ma non riesce a entrare. In chiesa, Serena prega Gesù di aiutarla a “indossare la corona di
spine” e a “portare la sua croce”. Il background cattolico della protagonista dovrebbe aiutarla a
trovare consolazione e ad accettare la sofferenza che le viene inflitta fin dal matrimonio, ma la
religione rivela la sua totale inadeguatezza di fronte al dramma della donna, anzi rischia di
diventarne complice chiedendole un sacrificio umano di proporzioni inimmaginabili:
Alzo la testa. Guardo la statua del Signore. Piedi scalzi e un viso scarno.
Apri la bocca. Cristo, lascia che ti sfami. Ho un banchetto di colpi sopra la pancia, Quattro lividi per
il tuo pranzo. So che è porzione misera per te, abituato alla razione del flagello, al piatto pieno di
spine e chiodi. Ma per adesso non ho altro. Accetta questo dono in segno della mia passione. Ti
prego, ringraziami Signore.
Appoggio le mani alla balaustra di marmo e contemplo Cristo. Aspetto che un grazie gli si stacchi
dalle labbra, cada in crosta di vernice rossa. Ma la sua bocca resta zitta. E’ gesso muto dipinto a
mano.
Vuole che io gli porti un pasto completo, altri lividi in offerta. Prima di farsi carne e voce. (pp. 7-8)
La seconda via d’uscita è rappresentata dal Centro di Ascolto a cui Serena decide di rivolgersi,
salvo non trovare poi il coraggio di oltrepassarne la soglia e tornare a casa, sconfitta.
Una tachicardia forte. […]
Cammino decisa. Voglio provarci. […]
Alla mia destra il civico trentadue. Scorro i nomi sul citofono. Al terzo il dito si ferma. E’ tendinite
all’indice. Nervo che incrocia e brucia.
Reagisco a scatto d’estintore. Forzo la mano e prendo il pulsante.
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Un getto forte sopra la scritta. Sportello Donna – Centro d’Ascolto. Apro il portone. Scala a destra.
Terzo piano. Salgo contratta. […]
La psicologa scuoterà la testa. Riderà in faccia all’aorta evaporata, al ventricolo bollito. Una vita
ormai spacciata. […]
Un’ultima rampa di scale. Forse sono ancora in tempo. Bastano alcuni passi. Altri otto. […]
Afferro il corrimano. Due gradini. Apro e chiudo le mandibole. Provo le vocali sulle labbra.
La bocca si allena a chiedere aiuto. Ma è parola troppo grande, ci sta scomoda nel palato, soffoca
contro le gengive. E muore prima di essere voce.
Sul pianerottolo è già funerale, terra e lapide al soccorso.
Guardo la porta dello studio. Arretro, gambero verso l’ascensore. Rossa di vergogna per averci provato, a
rompere il patto con la mia croce. (pp. 35-36)
La cucina è il palcoscenico e l’arena della sua umiliazione, delle percosse subite, e anche della
vendetta finale, e pertanto contraddice le migliaia di immagini di pasti felici e allegre riunioni
intorno al desco familiare che affollano le pubblicità televisive. Inoltre questa cucina diventa una
scena del crimine, ma questo non avviene nel momento in cui la donna uccide il marito – questa
trasformazione era avvenuta molto prima, nel corso della vita matrimoniale di Serena, giacché è lei
la vera vittima.
Questo non è un esempio classico di detective fiction – non ci sono detective – ma di sicuro è
una crime novel ed è anche molto interessante, poiché affonda le sue radici nel tessuto profondo
della società italiana i cui pilastri sono la famiglia e la chiesa cattolica, allo scopo di denunciarne
apertamente l’ipocrisia.
Nel romanzo La bambola dagli occhi di cristallo di Barbara Baraldi (2011), che è un “giallo”
più tradizionale, troviamo un crimine analogo, anche se in questo caso una giovane donna viene
assalita da uno sconosciuto a una fermata dell’autobus e quando sta per essere stuprata afferra una
pietra e colpisce il suo assalitore, uccidendolo.
L’uomo le balza addosso, cercando di chiuderle la cintura intorno ai polsi, e intanto cerca il suo viso
con la bocca. Le striscia un paio di baffi ispidi contro le labbra.
[…]
“Ti prego… no”
L’ombra le sbottona i jeans. Lei si dimena con le gambe e contorce il torace nel tentativo di sgusciare
via.
“Basta, troia!” e la colpisce con uno schiaffo. La ragazza si accascia, come svuotata. Singhiozzi
lacerano il silenzio.
“Smettila di agitarti. Lo so che lo vuoi.”, e lo tira fuori dai pantaloni. “Prendilo in bocca, dai”, e glielo
avvicina al viso.
La ragazza tasta il terreno alle sue spalle. Tra l’erba, un sasso appuntito. Lo afferra. Lo stringe forte.
Colpisce. (p. 38).
Penso che entrambe le autrici, Mearini e Baraldi, scelgano la vendetta come atto finale delle loro
protagoniste non solo per sottolineare la mancanza di una vera cultura dell’eguaglianza in Italia, ma
anche per implicare l’inefficienza della polizia e dei servizi sociali nel proteggere le donne, così
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come l’incapacità da parte della giustizia di trovare e condannare i colpevoli, e soprattutto
evidenziare la situazione di estrema solitudine anche dentro la famiglia e nonostante la religione.
Troviamo una prospettiva diversa nella serie di romanzi di Grazia Verasani incentrati
sull’investigatrice privata Giorgia Cantini. Giorgia non è né una vittima né un’assassina, ma
rappresenta per così dire la terza tipologia di donna che troviamo nella femicide fiction, cioè
l’investigatrice. Benché sia stato a lungo considerato “un lavoro inadatto a una donna”7, la detection
femminile non è una novità nel panorama italiano. Al contrario, le investigatrici donne apparvero
molto presto: la prima già nel 1909, quando Carolina Invernizio pubblicò Nina la poliziotta
dilettante.
Giorgia non è solo una detective, ma anche la narratrice (in prima persona) e come tale
comunica direttamente al lettore i suoi pensieri e le sue sensazioni. Poco per volta riusciamo a
costruire la sua personalità e filosofia della vita e appare presto chiaro che Verasani, attraverso
Giorgia, vuole denunciare proprio quell’ipocrisia della famiglia di cui parlavo poc’anzi:
La tv abbonda di prelati che straparlano della ‘famiglia normale’, ma basta spulciare le
mie scartoffie per rendersi conto che la famiglia della fantasia ecclesiastica è un Mulino
più rosso del sangue che bianco come la tovaglietta della prima colazione (Di tutti e di
nessuno, 2009, p. 38).
Desidero concludere il discorso citando il volume più recente, una raccolta di brevi monologhi
scritti nello stile della Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Ferite a morte è stato
pubblicato a marzo 2013 da Serena Dandini, che ha deciso di dedicare un libro alle storie non dette
delle vittime del femmicidio. Nei suoi monologhi dà voce a queste donne, inventando per loro una
sorta di prospettiva post-mortem. I nomi sono inventati, ma le loro storie sono fin troppo realistiche
e riconoscibili, sono le storie che troviamo ogni giorno nei giornali e alla TV. Dandini ha scelto di
dar voce a donne di tutto il mondo, ma quelle italiane occupano la maggior parte del libro e i loro
casi sono drammaticamente simili a quelli che conosciamo dai notiziari.
Nella sua Introduzione, Dandini sottolinea il fatto che in molti casi il femmicidio sia qualcosa
che ci si poteva aspettare e che avrebbe potuto essere evitato. Parla infatti di “morti annunciate, che
tutto il vicinato aveva previsto ma nessuno ha mosso un dito” (p. 12). Così, la responsabilità di
questi omicidi secondo Dandini ricade almeno in parte sulla comunità di appartenenza, sugli amici,
sui parenti. Dandini cita anche l’importante lavoro di Dacia Maraini, che è da anni impegnata su
queste tematiche, e parla di “analfabetismo sentimentale” per descrivere la situazione (p. 17).
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Cfr. P. D. James, An Unsuitable Job for a Woman (1972).
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Ho scelto alcuni estratti dal primo monologo, intitolato “Il mostro”. Come potete vedere, il
brano inizia con la frase “Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorti”.
Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorti.
Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorti, l’ha detto mia mamma agli inquirenti,
Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorti…
Era lì che fumava vicino al caminetto e non ce ne siamo accorti, avevamo il mostro in casa e non ce
ne siamo accorti, guardava la partita e non ce ne siamo accorti.
Ma neanche il mio marito se n’è accorto, dico, lui che aveva proprio il mostro dentro non se n’era
accorto, poveraccio, c’aveva sempre da fare […]
Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorti, l’ha detto pure mia sorella, […] una volta che
mio marito l’ha strattonata ha cominciato a strillare come un’aquila. Ma che ti strilli? Ti vuoi far
sentire da tutti i vicini? E che vuoi che sia uno spintone? E allora io? Quando mi ha tirato la sedia in
testa che avrei dovuto dire? Sono sfoghi così, del momento, si sa, gli uomini hanno queste punte di
carattere, […]
Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorti, ma nessuno proprio se n’era accorto, neanche il
brigadiere, m’ha vista il mese scorso in fila alle poste con la faccia viola di pugni e m’ha detto: “Che
ti sei fatta, Teresa?” […] Poi, come un papà buono, mi ha consigliato di fare pace con il mio marito e
di essere più tranquilla, di non farlo arrabbiare… (pp. 19-20)
La ripetizione ossessiva della prima frase crea un’atmosfera di sconcerto. Una donna è stata
assassinata, ma di chi è la colpa? Pare che nessuno si fosse reso conto che il mostro viveva dentro
la casa – né la moglie, né i suoi parenti, né il poliziotto, nemmeno il mostro stesso. Ma sarà vero?
E’ davvero possibile che nessuno si fosse reso conto della gravità della situazione? Certamente
Dandini pone più domande che risposte.
Solo due parole prima di concludere. Come avrete notato, nei testi che abbiamo esaminato
troviamo, assieme al crimine, un miscuglio di tutte le caratteristiche più tipiche – o stereotipi – della
cultura italiana: il background cattolico, la famiglia, e anche – come si evince dai brani riportati –
la donna relegata ai fornelli e l’uomo sul divano a guardare la partita di calcio. Ritengo che questi
testi offrano pertanto un’interessante finestra sulla società e sulla letteratura italiana e rappresentino
una sfida per chi voglia studiarne la cultura.
Opere citate
Baraldi, Barbara, La bambola dagli occhi di cristallo, Castelvecchi, Roma 2011.
Dandini, Serena, Ferite a morte, Rizzoli, Milano 2013.
Garofano, Luciano, Paul Russel, Andrea Vogt, Uomini che uccidono le donne, Rizzoli, Milano 2011.
Garofano, Luciano, Rossella Diaz, I labirinti del male, Infinito, Modena 2013.
Mearini, Elena, Undicesimo Comandamento. Uccidi chi non ti ama, Perdisa, Bologna 2011.
Oliva, Marilù (a cura di), Nessuna più, Elliot, Roma 2013.
Verasani, Grazia, Di tutti e di nessuno, Kowalski, Milano 2009.