Cap. VIII - Paleomagnetismo terrestre

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Cap. VIII - Paleomagnetismo terrestre
Cap. VIII - Paleomagnetismo
Cap. VIII - Paleomagnetismo terrestre
VIII.1. Poli magnetici e primi risultati
Se Dm, e Im sono la declinazione media e l’inclinazione media della magnetizzazione
principale M di un certo numero di campioni relativi a una certa epoca geologica e a una
certa località S di coordinate geografiche
( S, S), si chiama polo paleomagnetico di
magnetizzazione di S a quell’epoca il polo
geomagnetico virtuale nord (v. cap. VI,
par.10.5) corrispondente alla declinazione e
all’inclinazione della magnetizzazione osservata nei campioni; dette ( P, P) le coordinate
geografiche di questo polo (P nella fig.
VIII.1/1), per esse valgono le relazioni:
[VIII.1*1] sin P=cos sin S+sin cos ScosDm,
con = arctan(2cotIm) , e
[VIII.1*2] P = S – arcsin(sin sinDm/cos P) .
È importante osservare che un polo paleomagnetico è significativo soltanto se esso deriva da campioni (di un determinato sito) riguardanti un periodo di tempo abbastanza
lungo perché si possano ritenere sufficientemente mediate le variazioni temporali del
CMT, e allora può essere assunto a rappresentare il polo geografico all’epoca considerata. Per es., nella fig. VIII.1/2 sono rappresentati i poli paleomagnetici desunti da campioni del Plio-Pleistocene negli ultimi 5 Ma [megaanni, cioè milioni di anni]) riguardanti
l’intera Terra. Questi primi risultati, in particolare mostrando l’addensarsi dei poli paleomagnetici intorno al polo nord attuale, hanno confermato il carattere dominante di
campo di dipolo centrale con asse all’incirca parallelo all’asse della rotazione terrestre da
attribuire al CMT medio anche nel passato; diciamo meglio, nel passato relativamente
recente, perché via via che si retrocede nel tempo numerosi sono i poli paleomagnetici
“dispersi” (qualcuno è visibile anche nella fig. VIII.1/2): come vedremo, ciò deriva dai
movimenti dei continenti nei lontani tempi geologici,
VIII.2. Cronologia geologica
Attualmente la determinazione dell’età delle rocce e, in genere, dei materiali terrestri –
vale a dire del periodo di tempo trascorso dalla formazione della roccia o del materiale, e
ciò si chiama datazione geologica – si effettua principalmente misurando, con opportuni strumenti, il contenuto di componenti radioattivi nel materiale, la quantità dei quali
diminuisce nel tempo con legge nota; questa datazione radioattiva, che dà un’età assoluta, entrò nell’uso nei primi decenni del XX sec. e attualmente il metodo più usato è
quello potassio-argon ; essa è integrata dai metodi usati in precedenza, in particolare
stratigrafici e paleontologici.
La datazione stratigrafica è di tipo “relativo”, nel senso che è sostanzialmente basata
sull’apparentemente ovvio criterio che materiali recenti sono sovrapposti a materiali più
antichi; abbiamo detto “apparentemente ovvio” per questo criterio poiché esso è spesso
falsato da movimenti, talora così ampi da avere determinato inversioni nella successione
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verticale dei materiali, intervenuti nelle fasi di orogenesi (“formazione dei rilievi”), talché
questa datazione non è sempre di facile applicazione.
Carattere simile, ma tutto sommato più attendibile, ha la datazione con le varve, introdotta sul finire del XIX secolo. Le varve sono sedimenti argilloso-sabbiosi stratificati
che sono depositati dalle acque di fusione di un ghiacciaio, di spessore tra qualche mm e
qualche decina di cm, costituiti inferiormente da limo e argille di colore chiaro, depositati
in estate, e superiormente da argille fini e oscure, depositate in inverno, cosicchè due
strati consecutivi di questi due colori corrispondono a un anno. Questo metodo consente
di misurare con accuratezza l’età di depositi vecchi qualche decina di migliaia di anni; la
sua ovvia limitazione è costituita dalla sua applicabilità a zone dove siano stati presenti
ghiacciai.
La datazione paleontologica è basata sul riconoscimento e sullo studio dei fossili
presenti nelle rocce sedimentarie e sulla loro collocazione nella scala temporale evolutiva
della loro specie; se possibile, si utilizzano cosiddetti “fossili guida”, che hanno avuto
una larga diffusione in periodi relativamente brevi.\
Sulla base di questi criteri sono state proposte, in successione di tempo, scale
geocronologiche, sia globali sia regionali. Riportiamo qui – opportunamente semplificata rinunciando alle molte suddivisioni regionali – quella proposta dall’Unione
Geologica Internazionale (UGI), che è periodicamente aggiornata (l’età è in milioni di
anni [Ma]).
Eone
Età [Ma]
F ANEROZOICO
ale-0,01
TAB. VIII.2-1 - C RONOLOGIA GEOLOGICA GLOBALE (UGI, 1989)
Era
Periodo
Cenozoica
Quaternario
Epoca
Olocene
Pleistocene
attu-
Superiore
0,01-0,3
Neogene
Pliocene
Miocene
Paleogene
Oligocene
Eocene
Paloecene
Mesozoica
Cretaceo
Giurassico
Triassico
Paleozoica
Permiano
Carbonifero
2
Medio
Inferiore
Superiore
Medio
Inferiore
Superiore
Medio
Inferiore
Superiore
Inferiore
Superiore
Medio
Inferiore
Superiore
Inferiore
Superiore
Inferiore
Superiore
Medio
Inferiore
Superiore
Medio
Inferiore
Superiore
Inferiore
Superiore
Inferiore
0,3-1,0
1,0-1,6
1,6-3,5
3,5-4,9
4,9-5,0
5,0-10
10-21
21-24
24-29
29-34
34-38
38-50
50-55
55-60
60-65
65-97
97-140
140-155
155-180
180-205
205-230
230-240
240-250
250-280
280-290
290-325
325-355
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Devoniano
Superiore
Medio
Inferiore
Superiore
Inferiore
Superiore
Medio
Inferiore
Superiore
Medio
Inferiore
Siluriano
Ordoviciano
Cambriano
ARCHEOZOICO
Proterozoico
Archeano
Azoico
355-375
375-385
385-410
410-424
424-438
438-464
464-476
476-510
510-517
517-536
536-570
570-2500
2500-3500
3500-4000
VIII.3. Le inversioni del CMT
Generalmente parlando – e tenendo conto del fenomeno della “deriva dei continenti” di
cui diremo più avanti –, tutte le analisi paleomagnetiche concordano sul fatto che il
CMT è stato sempre, anche nei lontani tempi geologici, per la sua gran parte un
campo di dipolo centrale all’incirca coassiale con la rotazione terrestre. Peraltro,
sono state rilevate in gran numero rocce (sia ignee sia sedimentarie) magnetizzate in
verso opposto al CMT attuale, nel passato qualificate come rocce magnetiche
anomale. Sono possibili soltanto due spiegazioni per questa circostanza: (a) ipotesi
dell’inversione del CMT: all’epoca della formazione delle rocce anomale il CMT aveva
la struttura di dipolo centrale come quello attuale, ma con una polarità inversa; (b)
ipotesi dell’autoinversione della magnetizzazione: quelle rocce si sono magnetizzate inversamente al CMT dell’epoca, che ha sempre avuto la polarità di oggi (a proposito della polarità del CMT conveniamo di chiamare polarità negativa quella del
CMT attuale, in quanto il momento magnetico dipolare è all’incirca antiparallelo alla velocità angolare della Terra, e di chiamare magnetizzazione normale oppure magnetizzazione inversa, anche per campioni antichi, la magnetizzazione rispettivamente
parallela oppure antiparallela al CMT attuale).
L’ipotesi dell’autoinversione della magnetizzazione, per quanto sorretta da alcuni studi
teorici sostanzialmente basati su particolari interazioni tra sottoreticoli ferrimagnetici, è
decisamente la meno plausibile alla scala planetaria, cioè globale generale e non locale
sporadica; gli argomenti più importanti contrari ad essa e favorevoli invece all’ipotesi
dell’inversione del CMT (a questa s’oppongono decisamente pesanti ragioni cosmologiche, come capiremo quando parleremo dell’origine del campo nucleare, nel successivo cap. VIII) sono i seguenti:
a) mentre si sono trovate meno di una decina di rocce (la più importante è la dacite
del vulcano giapponese Haruna) che manifestano con sicurezza in laboratorio una magnetizzazione antiparallela al campo applicato, circa la metà delle molte migliaia
di campioni di rocce delle più svariate specie (ignee e sedimentarie), provenienze ed
età che sono stati esaminati finora hanno esibito una magnetizzazione inversa (è da
notare che per le rocce sedimentarie non si conosce alcuna teoria né alcun esperimento di
laboratorio atti a spiegare o a giustificare l’autoinversione della magnetizzazione);
b) campioni con magnetizzazione inversa sono stati frequentemente tratti da
rocce coeve del Pleistocene inferiore, a prescindere dalla zona d’origine e dalla natura
delle rocce (ignee o sedimentarie);
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c) le magnetizzazioni inverse che sono state riscontrate sono sensibilmente uniformi nell’ambito di un esteso corpo di roccia, laddove la magnetizzazione per autoinversione dovrebbe avere, per sua natura, un carattere piuttosto casuale e locale nel corpo
roccioso.
L’esistenza di periodi d’inversione del CMT nel passato (l’ultimo in ordine di tempo, noto come “episodio
di Laschamp”, risale al Pleistocene Inferiore, circa 2 Ma
fa, cioè, alla scala geologica, appena l’altroieri) è ormai
un’accettata caratteristica del CMT, che negli utlimi
anni è stata oggetto di numerose e accurate ricerche
osservative. La fig. VIII.3/1 mostra, a titolo di esempio,
il modo con cui le inversioni si presentano nelle
misurazioni di campagna; qui si tratta di una carota di
sedimenti di fondo in una zona del Pacifico equatoriale,
lunga (come dire “profonda”) 25 m, e la grandezza magnetica misurata è la declinazione D; sono indicate in
nero le zone di magnetizzazione normale e in bianco
quelle di magnetizzazione inversa; sono anche indicate
le denominazioni dei periodi nei quali ha prevlso l’uno o
l’altro tipo di magnetizzazione. Come si vede,
l’inversione è a intensità circa costante, vale dire che
l’induzione, o l’intensità, del CMT cambia di segno, ma
praticamente non di valore assoluto medio, e qualcosa di
simile avviene per le componenti angolari (inclinazione e
declinazione); un’inversione si compie in un periodo di
tempo dell’ordine di 5000 anni.
Osserviamo subito che la scoperta delle inversioni del
CMT, che si può fare risalire agli anni Trenta, è stata di
enorme importanza per quanto riguarda le conoscenze
sull’origine del CMT: infatti essa – come avremo modo
di ricordare più avanti, nel successivo cap. IX – costrinse a rivedere radicalmente le teorie che erano state sviluppate fino ad allora sull’origine
del campo magnetico nucleare, come dire della parte fondamentale del CMT. Le ricerche
e gli studi riguardanti le inversioni del CMT sono tuttora portate avanti con grande intensità, soprattutto con lo scopo di determinare col migliore dettaglio possibile le caratteristiche morfologiche. La situazione avutasi negli ultimi 18.000 anni 18 Ma) è sintetizzata nella fig. VIII.3/2, dove il nero indica polarità normale e il bianco polarità inversa e
le indicazioni numeriche sono età geologiche, in Ma. Chiamando periodo geomagnetico
(taluno preferisce parlare di epoca geomagnetica) il periodo di tempo in cui il CMT ha
presentato una ben definita polarità prevalente, si vede che, andando a ritroso nel tempo,
negli ultimi 7 Ma fa si sono succeduti quattro periodi, rispettivamente ‘normale di
Bruhnes’, ‘inverso di Matuyama’, ‘normale di Gauss’, ‘inverso di Gilbert’ (le denominazioni si riferiscono al nome di importanti cultori di geomagnetismo); le assai più
brevi inversioni che si presentano in un periodo sono dette episodi d’inversione, o
eventi d’inversione, e anch’esse denominate con la polarità e con il nome di una località: “episodio di Jaramillo”, ‘di Olduvai’, ecc. (nella figure sono state omesse, per
semplicità, le indicazioni delle epoche e degli episodi oltre 7 Ma fa). Si riconosce imme4
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diatamente la mancanza di una qualunque regolarità temporale nelle inversioni.
Quel che si può dire è che andando indietro nel tempo la durata dei periodi si allunga: per
es., il periodo di Kiaman, durato tra circa 230 e circa 290 Ma fa (tra il Triassico Medio e
il Permiano Inferiore), cioè ben 60 Ma, può essere considerato un vero e proprio periodo
di staticità del CMT, almeno nrll’America Settentrionale. Questa circostanza potrebbe
dipendere dal numero relativamente scarso di campioni così longevi, ma elementari considerazioni di probabilità portano a dubitare di questa spiegazione.
F IG . VIII.3.2 - SITUAZIONE DELLA POLARITÀ DEL CMT
5
NEGLI ULTIMI 18
Ma.
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VIII.4. Anomalie magnetiche dei fondi oceanici
Un fenomeno che costituisce un’ulteriore recente scoperta del geomagnetismo è costituito dalle anomalie magnetiche dei fondi oceanici, che sono collegate all’altro
fenomeno dell’espansione dei fondi oceanici; si tratta di due fenomeni di grande interesse geologico, in quanto appartenenti all’ambito della cosiddetta tettonica a zolle.
Ricordiamo che l’ipotesi geologica della tettonica a zolle (ingl. plate techtonics <pléit
tektòniks) consiste nell’immaginare la litosfera (o crosta terrestre, la parte superficiale
della Terra), costituita da zolle, o placche, tettoniche, sensibilmente rigide e spesse
circa 50-100 km sotto i continenti e circa 5-10 km sotto gli oceani, che “galleggiano”
sull’astenosfera, il sottostante strato superiore fluido del mantello terrestre
(quest’ultimo è lo strato, tra qualche decina di km e 200-300 di profondità, che circonda
il nucleo della Terra: v. cap. II, par. II.3).
Si hanno sei zolle principali (pacifica, antartica, americana, africana, eurasiatica, indoaustraliana) e alcune altre minori (arabica, filippina, caraibica, ecc.); queste zolle sono a
contatto tra loro in distretti oceanici, lungo “linee”, dette dorsali ocaniche, che, se non
altro a causa delle intensissime sollecitazioni di pressione e di trazione esercitate reciprocamente, sono molto attive sismicamente. Nel planisfero della fig. VIII.4/1 sono ade-
F IG . VIII.4/1 - PLANISFERO DELLE DORSALI OCEANICHE. S ONO INDICATE LE DIREZIONI E LE INTENSITÀ
(in mm/anno) DELLE SPINTE
guatamente evidenziate tali dorsali, le sollecitazioni ivi esistenti tra le zolle (frecce) e le
velocità medie di allontanamento o di avvicinamento dalla o alla dorsale,
Nella fig. VIII.4/2 è schematizzato ciò che avviene in una dorsale. Le dorsali di contatto tra zolle litosferiche sono sui fondi oceanici, laddove lo spessore delle zolle è
minimo (pochi km), e quindi la crosta si frattura facilmente sotto la spinta esercitata dal
sottostante magma fluido dell’astenosfera/mantello, in risalita per semplice convezione
termica; il magma fuoriesce, spingendo da una parte e dall’altra le zolle a contatto (dorsali attive, con sollecitazioni di allontanamento: frecce divergenti); queste ultime scorrono sull’astenosfera (espansione dei fondi oceanici) fino a immergersi
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nell’astenosfera/mantello infilandosi sotto altre zolle (fenomeno di subduzione) in corrispondenza delle cosiddette fosse oceaniche (dorsali di subduzione, con sollecitazioni
di compressione: frecce convergenti); si ha quindi un situazione di equilibrio dinamico
per la configurazione delle zolle, come dire della superficie terrestre e, in particolare,
delle terre emerse: per dirla in breve, le
zolle si accrescono lungo le dorsali attive (qui “nasce” crosta nuova) e, per
compenso, diminuiscono nelle zone di
subduzione (qui “muore” una parte di
crosta). Si tratta di un fenomeno dinamico di piccola entità spaziale in
quanto è caratterizzato da velocità
molto piccole se viste alla scala temporale della vita comune (le
massime velocità di allontanamen-to/avvicinamento delle zolle sono dell’ordine di meno
di 20 cm/anno, cioè dell’ordine di meno di 200 m/millennio), ma comunque capaci di
provocare giganteschi effetti nel corso dei lunghissimi tempi geologici (dire 20 cm/anno è
come dire 200 km a milione di anni).
Orbene, le prospezioni magnetiche nelle aree oceaniche mostrano caratteristiche
anomalie magnetiche dei fondi oceanici nei pressi di dorsali; se si misura l’induzione del
CMT trasversalmente a una dorsale attiva, da una parte e dall’altra di questa, si ottiene
un diagramma simile a quello della fig. VIII.3/1, relativa a un carotaggio magnetico; la distanza dal centro della dorsale può essere letta come una scala di tempo e le caratteristiche
transizioni brusche sono interpretabili come dovute alla magnetizzazione propria, alternativamente normale e inversa, acquistata dalla roccia al momento del suo consolidamento superparamagnetico dal magma affiorante, secondo il CMT presente al momento
dell’effusione. Le zone dalle due parti di una dorsale oceanica attiva costituiscono quindi
una sorta di diagramma della magnetizzazione in funzione dell’ordine di effusione, interpretabile come diagramma dell’intensità del CMT nel tempo (fig. VIII.4.3, nella quale è
indicata, con gli stessi simboli, la correlazione con il ciclo delle epoche della fig. VIII.3/2).
Questa interpretazione è piuttosto delicata, perché occorre ammettere che il flusso del
magma effluente e quindi l’allontanamento della roccia in consolidamento dal centro della
dorsale (velocità di espansione della zolla) sia sensibilmente continuo e uniforme nel
tempo – e questo è tranquillamente ammissibile in media sui lunghi tempi geologici – e
occorre anche conoscere, o almeno stimare, la velocità media di espansione della zolla;
confrontando le misure della magnetizzazione dalla dorsale con la successione delle inversioni del CMT rilevate su campioni analoghi datati con metodi radioattivi (che sono
praticabili sulle rocce degli ultimi circa 5 Ma) si è visto che esiste un accordo temporale
soddisfacente sul piano geologico – non altrettanto soddisfacente, invece, sul piano
geofisico – se si assume una velocità di espansione da scegliere nel piuttosto ristretto intervallo di 1÷6 cm/anno.
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Cap. VIII - Paleomagnetismo
VIII.5. L’intensità del CMT nel passato
La questione di determinare l’andamento dell’intensità del CMT nel passato, anche
molto lontano, è di grande importanza per gli studi riguardanti l’origine del campo nucleare, di cui parleremo nel capitolo successivo.
La difficoltà intrinseca in determinazioni di questo genere sta nel fatto che il punto di
partenza è, ovviamente, la misurazione della magnetizzazione attuale di un campione di
roccia di età nota; per risalire da questa misura alla magnetizzazione, e quindi
all’induzione magnetizzante, che si aveva all’epoca di formazione della roccia in esame
occorre avere una qualche idea sulla legge con cui la magnetizzazione iniziale è andata
riducendosi nel tempo in virtù dei meccanismi naturali di suo decadimento nel tempo,
come capita per tutte le sostanze magnetizzate. Le rocce che danno affidamento sono
quelle ferrimagnetiche ignee, che – per il processo, loro caratteristico, di superparamagnetismo di cui si parlerà nel cap. X, par. 8.3 – acquistano nel raffreddamento da magma
lavico a roccia consolidata una magnetizzazione intensa e piuttosto stabile, molto maggiore di quella che ci si aspetterebbe nel tutto sommato debole CMT ambiente (cosiddetta magnetizzazione termoresidua). L’esperienza di laboratorio mostra che in queste
condizioni è accettabile una dipendenza lineare tra induzione magnetizzante e magnetizzazione termoresidua. La procedura adottata è la seguente. Dopo aver “lavato” il campione in modo che esso perda le magnetizzazioni secondarie conservando la sola sua magnetizzazione termoresidua (par. X.8.2), si misura questa magnetizzazione, Mf; quindi lo
si riscalda al disopra della sua temperatura di Curie, lo si raffredda in un campo noto, di
induzione B0 comparabile con quella del CMT e si misura la relativa magnetizzazione,
M0; in base alla detta ipotesi di linearità, si assume allora per l’induzione Bf del CMT
all’epoca di formazione della roccia il valore:
Mf
B0 .
[VIII.5*1]
Bf =
M0
La prima consistente applicazione di questo metodo avvenne nel 1938 ad opera di
Johann Georg Königsberger <kenigsbèrgher (1874-1946, prof, di fisica matematica
nell’univ. di Friburgo in Brisgovia) su campioni dal Paleozoico al Quaternario (circa da
500 a 2 milioni di anni fa), con risultati che mostrarono subito le grandi difficoltà
d’interpretazione dei risultati; secondo alcuni di questi, infatti, il CMT nel Paleozoico
avrebbe avuto un’intensità pari a circa un decimo di quella attuale, mentre risultati successivi hanno mostrato che il CMT, a parte i cambiamenti di polarità le inversioni, è rimasto mediamente costante intorno al valore attuale, almeno per il periodo di tempo finora esplorato (fino a circa 500 milioni di anni fa). Quei primi risultati anomali di
Königsberger erano relativi a un periodo vicino a un’inversione, quando la situazione è
particolarmente dinamica, specialmente se si presentano più inversioni relativamente
vicine tra loro nel tempo; indicativa a tale riguardo è la precedente fig. VIII.3/1, che
riguarda il periodo all’incirca tra 600.000 e 1.600.000 di anni fa, in cui si sono succedute
ben quattro inversioni: come si vede, pur essendo il valore medio dell’induzione praticamente coincidente con quello attuale, nell’ambito di ogni fase di polarità (normale oppure
inversa) sono evidenti molto ampie oscillazioni di essa.
Nella pratica di queste misurazioni è apparsa un’altra difficoltà (invocata anch’essa per
dare conto di risultati anomali) propria della procedura indicata, e cioè che nei riscaldamenti e raffreddamenti ai quali è sottoposto il campione da esaminare, in questo possono prodursi alterazioni chimico-fisiche capaci di modificare le sue proprietà mag8
Cap. VIII - Paleomagnetismo
netiche (ciò potrebbe verificarsi per via naturale nella vita della roccia in esame, ma
un’accurata storia geologica di essa è di norma in grado di fare capire se qualcosa del
genere è avvenuto, e allora si scarta il campione, oppure no). A questo inconveniente ovvia una particolare procedura (metodo Thellier) di magnetizzazioni ripetute a differenti
intervalli di temperatura.
VIII.6. Evidenze geomagnetiche della deriva dei continenti
VIII.6.1. Polodie magnetiche apparenti
Sono possibili due modi per presentare su scala planetaria i dati paleomagnetici relativi
a una data regione della Terra.
Il primo modo consiste nel tracciare per ogni data epoca una carta geografica della regione che interessa il cui reticolo sia costituito dai paleoparalleli e paleomeridiani di
quella regione a quell’epoca, cioè da paralleli e meridiani corrisponenti al polo paleomagnetico di quella regione a quell’epoca; si ottiene così una serie di carte in ordine storico.
Questa rappresentazione – alla quale fanno ricorso, per es., gli studiosi di paleoclimatologia – è, come ben si comprende, piuttosto onerosa e non dà un’idea immediata di
come siano andate le cose nel corso degli anni prima e dopo l’epoca considerata.
Da quest’ultimo punto di vista è più significativo il secondo modo di rappresentazione, che consiste nel tracciare, più semplicemente, nel reticolo geografico paralleli/meridiani attuale la posizione, epoca per
epoca, del polo paleomagnetico della regione
considerata; la linea che congiunge,
nell’ordine cronologico, tali posizioni ha il
nome di polodìa magnetica apparente
(ingl. apparent polar-wander path) per la
detta regione.
La prima rappresentazione con polodie
magnetiche risale al 1954 (K.M. Creer e altri). A titolo indicativo, possiamo fare riferimento alla fig. VIII.6.1/1, che mostra, in
proiezione stereografica polare, le polodie
magnetiche dal Cambriano al Cretaceo (55065 Ma fa) per l’America Settentrionale
e per l’Europa (simboli: C, Cambriano; S, Siluriano; D, Devoniano; Cu, Carbonifero; P,
Permiano; Tr, Triassico; TRl, Triassico Inferiore; Tru, Triassico Superiore; J, Giurassico; K, Cretaceo. Il problema che si presenta immediatamente riguarda le regole per interpretare rappresentazioni di questo genere.
VIII.6.2. Polodie magnetiche e movimenti delle zolle tettoniche
Abbiamo visto in precedenza che un carattere mantenuto dal CMT anche nel lontano
passato – almeno quello documentato da misure geomagnetiche attendibili – è, inversioni
di polarità a parte, la natura prevalentemente dipolare, con momento dipolare quasi par9
Cap. VIII - Paleomagnetismo
allelo all’asse della rotazione terrestre; questo consente d’identificare – in prima approssimazione per regioni con piccola declinazione magnetica – poli geografici e poli magnetici. Se le polodie magnetiche fossero poco differenti per le varie regioni, verrebbe
spontaneo di correlarle con variazioni dell’assetto dell’asse della rotazione terrestre; a
parte l’impossibilità di spiegare soddisfacentemente queste variazioni – oltretutto ampie
e irregolari –, la grande varietà delle polodie osservate per le varie regioni rende più accettabile l’ipotesi che esse siano in relazione con movimenti delle regioni interessate sulla
superficie di una Terra l’asse di rotazione della quale – anche considerando la componente di precessione – s’è sostanzialmente mantenuto costante nel tempo; questa ipotesi
si è rivelata ben fondata ed è attualmente universalmente accettata; l’essere stata verificata costituisce un potente aiuto che il paleomagnetismo ha dato e dà agli studi
sull’evoluzione della superficie terrestre.
Sulla base dell’accettabile identificazione di un asse paleomagnetico con l’asse terrestre
a quell’epoca, un polo paleomagnetico a una certa epoca per una certa regione – meglio,
per la zolla tettonica cui appartiene la regione – situa direttamente quest’ultima in latitudine e longitudine attuali per quell’epoca. Facciamo un esempio banale, supponendo che
per una certa regione attualmente a media latitudine risulti incontestabilmente per una
certa epoca una paleoinclinazione nulla e una paleodeclinazione parimenti nulla; il polo
paleomagnetico competente dista 90° lungo il meridiano locale, come dire che
quell’epoca quella regione si trovava all’equatore.
L’interpretazione geografica – meglio, geotropica (in quanto volta alla determinazione di movimenti terrestri) – dei dati paleomagnetici non è però sempre così semplice.
Un procedimento che è spesso seguito – quando si è sicuri di avere risultati univoci –
è quello d’introdurre opportuni
centri di rotazione virtuali (J.
Francheteau, 1970), che taluno
chiama poli di rotazione (denominazione che potrebbe introdurre
qualche confusione con i poli geografici e quelli paleomagnetici).
Come mostra la fig. VIII.6.2/1, se il
polo paleomagnetico PgZ a una
certa epoca di una certa zona Z ha
coordinate geografiche attuali Z Z,
una rotazione rigida della zona sulla
sfera terrestre intorno a un punto R
dell’equatore (attuale) di longitudine Z–90° (il detto ‘centro di rotazione’ per Z; O è l’origine delle
longitudini: N è il polo nord
geografico) nel verso antiorariocon un’ampiezza = 90°– Z piazza la zona considerata –
sia essa una regione oppure una zolla tettonica – nella posizione Z´ che essa aveva
all’epoca considerata nel reticolato geografico attuale.
Quanto ora detto non deve però portare a pensare che sia sempre possibile ipotizzare
una corrispondenza univoca tra spostamenti dei poli paleomagnetici e spostamenti corrispondenti delle relative zolle tettoniche; spesso, infatti, non esiste una corrispondenza
1
0
Cap. VIII - Paleomagnetismo
di questo genere e questa situazione sfavorevole si dà, in particolare, quando il centro di
rotazione viene a cadere in vicinanza dei poli geografici oppure dell’equatore geografico.
A tale riguardo è istruttivo l’esame dei tre casi schematizzati nella fig. VIII.6.2/2.
Nel caso (1) la regione B si sposta rispetto alla regione A (che è nella posizione a), portandosi da b in
b’, con un movimento che può essere descritto come una rotazione, di ampiezza , intorno a un centro di
rotazione R che coincide col polo nord geografico N; la latitudine del polo paleomagnetico è stazionaria a
90°, e viene a mancare una polodia da cui partire per ricostruire il movimento della regione. Una situazione di questo genere è stata riscontrata, per es., per la zolla tettonica dell’America Meridionale, il cui
polo paleomagnetico dal Triassico (205-250 Ma fa) al presente è rimasto quasi fermo vicino all’attuale
polo geografico sud; il grande spostamento che in realtà quel continente ha avuto (v. successiva fig.
VIII.6.3/3) è effettivamente avvenuto per latitudine, come risulta da probanti considerazioni geologiche, e
il metodo del centro di rotazione dà un risultato clamorosamente errato.
Errori notevoli si hanno anche se il centro di rotazione cade sull’equatore, particolarmente grandi se la
zolla in movimento è piuttosto vicina a questo centro, come nel caso (2), risultandone una polodia SS´
amplificata, per così dire, rispetto allo spostamento reale; l’errore sarebbe particolarmente piccolo e al
limite nullo se, come nel caso (3), il centro di rotazione sull’equatore stesse a circa 90° dalla zolla in
movimento, risultandone allora una polodia che ripete lo spostamento reale. Questa situazione singolare
si è verificata, per es., nel’era Paleozoica (250-570 Ma fa) fra l’Australia e l’Antartide: la prima ha rotato
intorno a un centro quasi equatoriale (ca. 6° S, 41° E) e a circa 90° dal centro del continente.
Fortunatamente, deduzioni univoche relativamente al movimento reciproco di zolle possono trarsi dalle
polodie magnetiche se le zolle interessate facevano parte a una certa epoca di una medesima zolla, come i
due continenti indicati con A e B nella fig. VIII.6.2/3, in cui le posizioni dei loro poli paleomagnetici e
le epoche corrispondenti sono indicate con i numeri 1, 2, 3,....Si sa, da dati geologici, che dall’epoca 1
all’epoca 8 i due continenti costituivano un’unica zolla, per cui i loro poli paleomagnetici coincidevano
sensibilmente, e così le loro polodie; dopo l’epoca 8 essi hanno preso ad allontanarsi e attualmente (epoca
12) mostrano polodie differenti (fig. a); il movimento relativo può essere ricostruito imprimendo alla
zolla B traslazioni e rotazioni rispetto alla zolla A che portano a coincidere tra loro le due serie dei poli
paleomagnetici dall’epoca 1 all’epoca 8 (fig. b). Risultati particolarmente buoni s’ottengono nel caso di
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oceani in espansione, in cui due o più zolle vengono a separarsi perché un oceano prende a separarle,
com’è il caso degli Oceani Atlantico e Indiano attuali; a titolo di esempio, nella fig. VIII.6.2/4 è
mostrata l’espansione dell’Oceano Atlantico tra 170 e 40 Ma fa, ricostruita considerando le rotazioni, a
coppie intorno a vari centri di rotazione, delle sei zolle rigide interessate (America Settentrionale, Groenlandia, Europa continentale, Penisola Iberica, Africa, America Meridionale). Questo metodo può applicarsi, all’inverso, per ricostruire il movimento reciproco di zolle affacciantisi su un oceano in contrazione, in cui le zolle tettoniche interessate sono entrate in collisione tra loro anziché distaccarsi tra loro. La
situazione è quella b, l’epoca 1 essendo ora quella attuale; la coincidenza dei poli paleomagnetici da 1 a 8
porta a fissare intorno all’epoca 8 l’“istante di collisione” tra le due zolle A e B.
In tutti i casi che per qualche ragione risultino ambigui, si possono comunque avere
risultati attendibili se è possibile integrare gli esposti schemi di traslazione e rotazione
con dati storici di natura geologica sulle rocce coinvolte e anche con dati di natura geografica (per es., sulla conformazione delle coste).
VIII.6.3. Deriva dei continenti
Già negli Anni Trenta del sec. XX, da cui datano i primi lavori di paleomagnetismo, era
stata avanzata l’ipotesi che i (pochi) dati allora disponibili potessero trovare una coerente interpretazione in termini di scorrimenti opportuni delle masse continentali terrestri; la quasi contemporanea introduzione delle idee sulla tettonica a zolle e soprattutto
– ma per questo bisogna attendere gli anni successivi alla fine della 2a guerra mondiale –
l’acquisizione dei metodi sperimentali paleomagnetici (e dei risultati ottenuti con essi) ricordati nel paragrafo precedente hanno dato dignità di teoria ampiamente verificata a
un’ipotesi che nel lontano 1919 era stata avanzata, su una base completamente differente, da un naturalista austriaco, Alfred. Wegener <véghener> (1880-1930), prof.
nell’università di Amburgo e poi di Graz, e da lui espressivamente denominata teoria
della deriva dei continenti.
Wegener osservò preliminarmente che, semplicemente osservando un planisfero, salta agli occhi la corrispondenza geometrica del profilo costiero di continenti affacciati da un lato all’altro di un Oceano; per
es., la costa orientale dell’America Meridionale (prominenza del Brasile) sposa abbastanza bene la rientrante costa occidentale dell’Africa Centrale (Golfo di Guinea), l’Antartide s’inserisce abbastanza bene tra
la costa orientale dell’Africa Meridionale e la costa meridionale dell’Australia, e così via con altri casi; a
questa osservazione di tipo analogico-geometrico egli aggiunse il fatto che la fauna e la flora di zone “corrispondentisi” presentavano marcati casi di somiglianza e addirittura d’identità, pur essendo le distanze
reciproche così grandi da rendere assai problematica e in pratica inaccettabile l’idea che ciò conseguisse a
qualche forma di trasporto naturale (per un trasporto mediato dall’uomo nei lontani tempi occorrenti per
le osservate evoluzioni biologiche di differenziazione mancava un qualunque documento al riguardo, di
qualsivoglia natura). La spiegazione che spontaneamente s’affacciò alla mente di Wegener – e dei non pochi scienziati che presto condivisero le sue vedute – era che in tempi lontani i continenti fossero riuniti
insieme e che poi si fossero instaurati lentissimi movimenti di allontanamento reciproco, fino al determinarsi della situazione geografica attuale; nell’ambito della nascente geofisica tale spiegazione traeva
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un’indubbia attendibilità dal fatto che misurazioni geodetiche di grande accuratezza davano come tuttora
in atto piccoli e lentissimi movimenti reciproci delle masse continentali.
Un gran numero di lavori di geomagnetismo è tuttora volta allo studio dei movimenti di
“deriva” delle zolle tettoniche. Rinviando per i dettagli a trattati specializzati, ci limiteremo qui a ricordare alcune tra le principali vedute attuali su questo fenomeno.
Euramerica. La precedente fig. VIII.6.1/1, mostra, in proiezione stereografica polare,
le polodie magnetiche dal Cambriano (550 Ma fa) a oggi per l’America Settentrionale
e per l’Europa; orbene, con una rotazione di
38° intorno a un centro di rotazione di coordinate 88,5° N e 27,7° E (in pratica, la
chiusura dell’Oceano Atlantico, provata
anche dalla fig. VIII.6.2/4) si ottiene il risultato illustrato nella fig. VIII.6.3/1: c’è una
coincidenza pressoché perfetta per i poli
paleomagnetici dell’America Settentrionale e
dell’Europa dal Siluriano al Triassico (438205 Ma), dopo di che le polodie divergono;
ciò è interpretato nel senso che i due continenti sono stati uniti fino al Triassico, formando un supercontinente chiamato
Euramerica, e poi si sarebbero separati, in
accordo con quello che hanno mostrato gli
studi particolari sulla forma-zione e sulla
progressiva espansione del-l’Oceano Atlantico (la detta fig. VIII.6.2/4).
Terra di Gondwana. La fig. VIII.6.3/2 mostra la posizione dei poli paleomagnetici
sud da 530 Ma fa (Cambriano) a 180 Ma fa (Giurassico), dedotti da campioni delle sei
zolle tettoniche America Meridionale, Africa, Arabia, India, Antartide, Australia,
sovrapposti al profilo della configurazione
dei relativi continenti; la polodia è stata
tracciata da un elaboratore elettronico che ha
analizzato i molti dati paleomagnetici e
geologici disponibili, e ha riposizionato i
continenti applicando il metodo accennato
in precedenza (Lottes e Rowley, 1990);
sono tracciate le linee corrispondenti ai meridiani e ai paralleli del reticolato geografico
attuale. Come si vede, a quell’epoca le zone
continentali nominate erano riunite a costituire un supercontinente, denominato Terra
di Gondwana <gonduàna> (denominazione
di una regione storica dell’India). È da
osservare che gli accurati studi su questo
supercontinente hanno fornito il più valido
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Cap. VIII - Paleomagnetismo
corpo di risultati per la convalidazione
dell’attuale teoria geofisica della deriva dei
continenti. Il gruppo dei poli più antico
cadeva nel-l’Africa nord-occidentale, mentre il gruppo
più recente si trovava al largo dell’Antartide e dell’Australia. Il notevole aggrupparsi dei
poli coevi indica una sostanziale unità del supercontinente, a parte minori movimenti di
allontanamento denunciati da alcuni poli eccentrici, come, per es., i poli dell’Australia già
a partire dal Siluriano (438-410 Ma fa).
La Pangea. La mera sovrapposizione dei risultati degli studi che hanno portato
all’ipotesi dei due supercontinenti Euramerica e Terra di Gondwana ha portato a ipotizzare un raggruppamento iniziale dei due a formare un supercontinente primigenio al
quale è stato dato il nome di Pangea (dal gr., “Terra universale”). La fig. VIII.6.3/3
mostra la forma della Pangea durante il Triassico (250-205 Ma fa), prima che la deriva
dei continenti la frantumasse, e la fig. VIII.6.3/4 mostra (con la stessa simbologia della
fig. VIII.6.1/1) la distribuzione su essa dei poli paleomagnetici sud.
Questi schemi sono consistenti con le deduzioni strettamente geologiche, a eccezione dell’intervallo di
tempo comprendente il Permiano e il Carbonifero Superiore (250-325 Ma fa), nel quale i poli si presentano addensati in tre gruppi alquanto lontani tra loro (indicati con le sigle S-C, P-C e M nella fig.
VIII.6.3/4). Per spiegare ciò sono state avanzate due ipotesi. La prima fa ricorso a consistenti campi non
dipolari esistenti alle epoche considerate; per quanto questa ipotesi non sia manifestamente irragionevole,
v’è una forte riluttanza ad accoglierla, in quanto essa fa venir meno l’asserita natura quasi dipolare del
CMT nei tempi geologici, che non soltanto appare come il prezioso caposaldo degli studi paleomagnetici, ma non è messa in discussione da altri fatti. La seconda ipotesi, ben più facilmente accettabile, riposa sull’esistenza di movimenti nella Pangea ed è ben in accordo con ciò che è stato accertato relativamente al movimento sulla Terra di Gondwana e quindi sulla Pangea del polo geografico sud (fig.
VIII.6.3/2). I dati anteriori al Siluriano (prima di 438 Ma fa) mostrano che l’Euramerica e la Terra di
Gondwana erano separati da un oceano in contrazione, riunendosi poi dal Siluriano al Triassico (438-205
Ma fa); ancora successivamente, le varie parti si sono separate in periodi differenti del Mesozoico (250-65
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Ma fa), andando ad occupare le posizioni attuali (questa separazione è rappresentata dalla stella di polodie
divergenti indicata nella fig. con M [=Mesozoico]).
Per quanto quallo che stiamo per dire sia abbastanza al di fuori dei temi del presente Corso di lezioni
sul Geomagnetismo, è bene sapere che la fratturazione dele zolle tettoniche in continenti e il successivo
allontanamento recioproco di questi ultimi potrebe derivare dal fatto che inizialmente la Terra in raffreddamento avesse un guscio esterno solido sferico (ben rispondente alle condizioni di raffreddamento isotropo di un corpo semifluido in rotazione, qual era la Terra) e successivamente, per un diminuire ‘cosmico’ della costante di gravitazione, il raggio terrestre sia aumentato e la crosta si sia spaccata in zolle,
che hanno preso a distanziarsi scorrendo sul sottostante mantello terrestre semifluido. Questa teoria
geologica della “Terra in espansione” sembra cosistente con alcune evidenze sperimentali.
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