http://it.wikipedia.org/wiki/Ponce_(bevanda) Il ponce

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PONCE
http://it.wikipedia.org/wiki/Ponce_(bevanda)
Il ponce (popolarmente detto anche "torpedine") è una bevanda alcolica nata a Livorno tra i
secoli XVII e XVIII e derivata dal punch, diffuso in città dalla numerosa comunità britannica.
La composizione originale del punch inglese (a sua volta versione meno rozza del grog)
prevedeva cinque ingredienti (da cui il nome, derivato dal termine della lingua hindi panca o
pancha, "pugno" o "cinque"): tè, zucchero, cannella, limone e acquavite (oppure acqua
bollente, succo di limone, rum delle Antille, spirito di noce moscata e arak, un distillato di vino
di riso originario dell'Indonesia).
Il ponce livornese nacque sostituendo al tè o all'acqua bollente il caffè concentrato, mentre al
posto del rum delle Antille (che mal si accorda con il sapore del caffè forte) fu usato il
cosiddetto "rum fantasia" (localmente detto anche rumme), un'invenzione locale costituita
da alcol, zucchero e caramello di colore scuro, a volte aromatizzato con un'essenza di rum
(ricetta originale del rag. Gastone Biondi della ditta Vittori).
La versione diffusa tra
Ottocento e Novecento
prevedeva una preventiva
bollitura
del
caffè
macinato in una pentola
piena d'acqua; da ciò si
otteneva un infuso che
veniva filtrato con un
panno di lana e immesso
nella caffettiera. Al caffè
che usciva dalla macchina
veniva poi aggiunto con
un misurino il rumme o la
"mastice", una versione
del mistrà, liquore di semi
di anice verde macerati in
alcol.
Varianti del ponce classico
erano il "mezzo e mezzo",
un caffè corretto con una
mistura di rum e mastice,
e il "ponce americano"
Ermanno Volterrani e Caterina Biondi 1
aromatizzato all'arancia.
al bar Civili, via della Vigna, 35 – Livorno – 08/12/2012
Fino ai primi anni del
Novecento, sia il rumme che la mastice erano generalmente fabbricate dal proprietario del
locale nel proprio retrobottega, in quanto la legge lo permetteva.
Nella sua versione originale, il ponce è praticamente scomparso negli anni cinquanta.
La torpedine è una versione "rinforzata" del ponce - si effettua aggiungendo alla polvere di
caffè una puntina di zenzero. Il risultato è un ponce particolarmente forte. Si trova ancora sui
bar vicino al porto e viene usato dai pescatori quando rientrano a tarda notte per scaldarsi
dopo una notte passata all'umido.
Ai giorni nostri, la preparazione del ponce, come comunemente si può osservare nei bar di
Livorno e delle zone limitrofe, avviene così: si utilizza un tipico bicchierino di vetro piuttosto
spesso (localmente detto "il gottino"), leggermente più grande di quello che normalmente si
usa per il caffè; si dosa lo zucchero e si aggiunge una scorza di limone (denominata "vela"); si
versa il "rumme": nella ricetta del ponce si può usare questo liquore da solo, un mix di
"rumme e cognac" o "rumme e sassolino": il giusto dosaggio del liquore si ottiene usando
come riferimento il bordo superiore dei semicerchi che si trovano alla base del bicchiere.
Quindi, con il beccuccio del vapore della macchina espresso, si porta la mistura ad ebollizione
e, prontamente, si colma il bicchiere con un buon caffè ristretto.
Il ponce deve essere bevuto caldo bollente, dopo una rapida mescolata dello zucchero che non
si fosse ancora disciolto.
Si consuma generalmente dopo pranzo o dopo cena. Alcuni lo consumano per scaldarsi dal
freddo, anche se è dimostrato che l'uso di alcolici, pur dando un'iniziale sensazione di calore,
comporta in realtà la perdita di calore corporeo attraverso le estremità. In alcune varianti può
essere servito con una spolverata di peperoncino tritato. Per esempio, una variante piccante è
la cosiddetta "Torpedine di Valdibrana" (familiarmente detta "Ponce del poeta", perché
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attribuita al poeta pistoiese Martino Baldi): caffè (rigorosamente preparato alla moka), scorza
d'arancia, zucchero di canna integrale, cioccolato fondente ecuadoreño grattugiato al
momento, polvere di peperoncino di cayenna e rum Brugal "extra viejo".
Aldo Santini, La cucina livornese, Padova, Franco Muzzio editore, 1988.
IL PONCE A VOLTERRA
http://www.lavenadivino.com/ponce.html
Già dall’Ottocento a Volterra il ponce era amato un po’ da tutti, signorotti, operai, alabastri e
professionisti. Sarà per i continui viaggi che venivano intrapresi alla volta del porto di Livorno,
per i commerci dell’alabastro, sarà che l’inverno a Volterra è particolarmente freddo e il ponce
riscalda l’anima e il corpo. Livorno per i Volterrani oltre che viaggi e affari rappresentevava
anche le mangiate nelle taverne che proponevano il pesce pescato fresco, il poncino e…i
casini.. le case di tolleranza… che a Volterra erano state chiuse alla fine del ‘600. Erano così
ben frequentati dai nostri concittadini che tutt’oggi alcuni anziani continuano ad imprecare
così: “Accidenta a quel budello della Sitrì!”. La Casa di Madam Sitrì era una delle più lussuose
di Livorno e d’Italia..quante volte squattrinati alabastrai e ragazzacci avevano provato ad
entrare e quante volte non gli era riuscito!!! Da qui lì originale imprecazione!! Il cacciucco, la
Sitrì e il ponce…quest’ultimo tra le tre pecularietà della città labronica…poteva essere
riprodotto in serie e di continuo nella città etrusca…e così è stato fino ad oggi. La Vena di vino,
incontrastato regno dei poncini a Volterra propone l’originale Vittori, il Morelli imbottigliato con
la nostra etichetta in un mix che mette così d’accordo le due parti concorrenti. Provatelo!!!
Ultimi giorni sempre alla Bottega del Caffè anche della mostra "Attraverso l'Anima" di Caterina
Biondi. Un’ esposizione di 10 opere con le quali attraverso piccoli dettagli si sottolinea la forza
dell'interiorità e la necessità di esplodere con immenso entusiasmo.
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Bevanda del mese: il Ponce
http://www.intoscana.it/intoscana2/opencms/intoscana/sitointoscana/Contenuti_intoscana/Canali/Enogastronomia/visualizza_asset.html?id=1175407
Alla scoperta di uno dei "monumenti enogastronomici" della città labronica
Si parla di Livorno e se si pensa a cosa mangiare ed a cosa bere due cose saltano subito alla
mente: il cacciucco e il ponce. Proprio questa speciale bevanda alcolica, composta da caffè e
rum, è un'istituzione dell'enogastronomia locale e la sua nascita vanta una storia molto
particolare, come riporta il sito ufficiale del turismo del comune di Livorno. "Era una mattina
del 1614 quando nel porto di Livorno, che già rappresentava, su volontà dei Medici, la porta e
l'emporio sul mare del Granducato di Toscana, approdò una feluca saracena con a bordo
alcune balle di caffè e barilotti di rhum Questi chicchi profumati e misteriosi suscitarono subito
l'interesse di alcuni osti che nelle loro taverne provarono a utilizzarli, aggiungendo del rhum
caldo, per preparare una bevanda forte e ricostituente per i marinai infreddoliti che a causa del
brutto tempo non potevano uscire per mare. E quale grande invenzione! Era nato così il ponce,
ovvero una miscela veramente esplosiva (citando Aldo Santini "mistura da corsari"), in grado
di confortare gli animi e aiutare nei momenti difficili, talmente unica che ancora oggi è
presente a pieno titolo nelle abitudini di ogni famiglia livornese sigillando con grande
soddisfazione una bella mangiata.
Ma Livorno non è soltanto la città dove è nato il ponce; qui nell'Ottocento sono nati i primi
caffè frequentati da gente di ogni ceto e cultura ed anche da donne, un particolare importante,
che offre un'idea della mentalità del tempo e sottolinea ancora una volta le origini cosmopolite
e libertarie di Livorno. Così ancor prima che a Venezia questi locali da sempre sono stati un
luogo dove cittadini e visitatori possono incontrarsi per discutere di tutto e per cui vale la pena
entrare in uno dei tanti bar della città, come lo storico e pittoresco Bar Civili (via del Vigna non
lontano dalla Stazione Ferroviaria). E' qui che si scopre un po' della "livornesità" ed è qui che
inizia il percorso da proseguire nelle tante trattorie e ristoranti della città dove è fortemente
consigliato assaggiare un piatto dal sapore deciso e caratteristico: il "cacciucco"... ma questa è
un'altra storia.
Bar Civili
http://www.comune.livorno.it/_nuovo_notiziario/notizia.php?id=5952&lang=it
Il Bar Civili di Livorno è un luogo di ritrovo tradizionale dei giocatori di carte che durante le
loro serate, tra una scopa ed una briscola sorseggiano in ogni stagione il bollente ponce nero,
bevanda classica della tradizione livornese.
Il locale nasce come antica fiaschetteria Civili, nella scia della tradizione dei lavoratori livornesi
di sorseggiare vino tra le pause del mestiere, ma si trasforma presto, all’inizio del Novecento,
in trattoria, grazie all’abilità in cucina di Eleonora, la proprietaria, conosciuta da tutti col nome
di Norina. La macchina da caffè, per la miscelazione col rum del Vittori e per fare il ponce,
arriva solo negli anni ’60 con la trasformazione del ristorante in bar. Ben presto il bar Civili
diventa il luogo canonico per l’assaggio della profumata bevanda perché i livornesi considerano
quello del Civili il migliore fra i ponci prodotti in città ed anche per la grande abilità del Rosso, il
mitico barman dell’epoca.
Il locale è caratteristico per la sua atmosfera retrò, i tavolini in formica, il vecchio bancone, le
vetrine per niente contemporanee sempre piene di frati e “pezzi” da servire. L’atmosfera è
sempre vivace per la numerosa presenza dei ponciaioli e delle ponciaiole intente a sfidarsi
rumorosi tornei di carte; ma le caratteristiche peculiari del posto sono i tanti quadri appesi alle
pareti, eredità dell’amore per il collezionismo d’arte di Attinio, uno dei fratelli antichi proprietari
e i mille “gagliardetti”, gli stendardi colorati di tantissime squadre di calcio appesi dovunque
nel locale che un po’ fumosi ed ingialliti ricordano il grande amore per lo sport di un altro dei
fratelli, il Gaetano detto Nanni. Ma il ricordo, la testimonianza sono proprio il biglietto da visita
del locale, ci sono foto, firme, souvenir di numerosi sportivi, uomini di spettacolo ed amici che
hanno lasciato la loro impronta, passati almeno una volta a ristorarsi con la bevanda
miracolosa. E l’amore dei livornesi per il ponce non sembra subire battute di arresto; i
frequentatori del Civili sono sempre di più, di tutte le età; uomini e donne, dai vecchi ponciaioli
alle comitive di giovanissimi, dai più noti intellettuali locali ai più semplici lavoratori. E tutti
insieme fanno sì che l’odore del ponce in certe sere, partendo dalla mitica via del Vigna, ti
raggiunga anche molto lontano fino sul viale Carducci.
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Gastone Biondi. Storia e segreti del ponce al rumme
http://arlara.blog.kataweb.it/2012/12/11/ermanno-volterrani-gastone-biondi-storia-e-segretidel-ponce-al-rumme/
di Patrizia Poli
Ermanno Volterrani
Debatte editore, 2012
Atmosfera calda in una giornata fredda, sabato 8 dicembre, al bar Civili. Lo scrittore Ermanno
Volterrani - noto in ambiente livornese soprattutto per la sua rivalutazione del vernacolo in
raccolte di poesie come “La mia amica triglia”, ma autore anche di testi in italiano, fra cui
spicca il commosso racconto delle vicende vissute dal padre durante la guerra in Albania - ha
presentato la sua ultima fatica, la biografia romanzata di Gastone Biondi.
Hanno collaborato alla stesura del testo la figlia di Gastone, Caterina, e Otello Chelli, figura di
spicco della cultura e tradizione livornese che ha scritto la prefazione del libro.
Gastone Biondi era il proprietario della famosa fabbrica di liquori Vittori che produceva, e
ancora produce – anche se adesso è stata rilevata dall’Arkaffè – il rum fantasia, lo speciale
ingrediente per la preparazione del ponce al rum, anzi, al “rumme”, non confondiamo per
carità!
Le origini della bevanda sono incerte, la leggenda vuole che nel seicento alcune balle di caffè,
provenienti da una nave saracena deviata dai cavalieri di Santo Stefano, si confondessero con
barili di rum. La mistura, invece di rovinare entrambi gli elementi, li esaltò. In realtà pare che
l’ammiraglio Edward Vernon, della marina inglese, per evitare l’ubriachezza dei suoi uomini,
ordinasse loro di annacquare il rum ed essi, per obbedire, lo bevessero col tè, creando la base
per il grog. I livornesi sostituirono il tè col più reperibile ed economico caffè, mantenendo la
tradizione “della vela”, la fettina di limone a cavallo del bicchiere, spesso utilizzata per
igienizzarne il bordo ma poi, ahimè, lasciata cadere nella mistura, con l’idea che “quel che non
ammazza ingrassa.”
Il ponce bollente va bevuto nel gottino, il bicchiere di vetro, tenendolo fra due dita per il fondo
spesso, altrimenti ci si ustiona. Insomma, come ci spiega Ermanno, va preso per i fondelli.
Il nome deriva dall’inglese punch che, a sua volta, risale all’hindi pancha, cioè cinque, come
cinque sono gli ingredienti della bevanda.
Il ponce, inglese come il rum e arabo come il caffè, era la bevanda prediletta prima della
guerra, metafora stessa della livornesità, incrocio d’identità in questa città meticcia, fusione
d’ingredienti apparentemente inconciliabili fra loro. Non c’era giorno che i livornesi non
bevessero almeno una volta il ponce che è sempre stato parte della nostra tradizione.
Nelle cronache del settecento e dell’ottocento (ci spiega Otello Chelli) c’era una vera e propria
corsa a creare il ponce migliore e i produttori vi mettevano dentro di tutto, dal caramello ai
grani di pepe. I bar erano luoghi di aggregazione per il popolo, dove si discuteva e si
familiarizzava ed anche salotti intellettuali. Vi passavano il tempo Francesco Domenico
Guerrazzi e Angelica Palli, Fattori, Natali, Modigliani, soprattutto nel celeberrimo caffè Bardi.
Il ponce è citato nell’Artusi come degno accompagnamento del cacciucco, si dice che abbia
fatto venire i lucciconi addirittura al rude Buffalo Bill, e il Carducci così ne scrive:
“Di nero ponce bevemmo e con saper profondo, non lasciammo giammai tazza o bicchiero
senza vedere il fondo.”
Livorno era la città dei cento teatri, ma anche dei cento e ventitrè bar, siamo stati noi a
costruire le prime macchine per il caffè, che, a quei tempi, erano torri di rame lucente “Nella
sola Venezia”, ci dice Otello, “ai miei tempi si trovavano diciassette fiaschetterie e la bevanda
d’elezione, dopo il vino Sammontana, era, ovviamente, il ponce, capace di stimolare quello
spirito livornese, quel motto salace, quella battuta fulminea che oggi si sta perdendo e
stemperando.”
In piazza Vittorio Emanuele c’era un bar, detto “Il Diacciaio” perché si trovava di fronte a un
albergo freddissimo, che vendeva il ponce peciato, cioè annerito da un pizzico di pece. In
piazza Cavallotti nessuno rinunciava alla mattutina “persiana” – acqua fredda, menta e anice Pagina 4 di 7
per smaltire le sbornie della sera precedente, poi, già alle dieci, per accompagnare un pezzo di
schiacciata col prosciutto o la mortadella, niente di meglio che il primo ponce, per passare
subito a quello digestivo del dopopranzo e agli immancabili ponci notturni .
Negli anni cinquanta, però, il ponce era decaduto ed è stato proprio Gastone Biondi a riportarlo
ai fasti di un tempo.
È con la voce rotta dall’emozione che la figlia Caterina ci racconta come il libro sia nato per
caso. Dieci anni dopo la morte del padre, ha riaperto due scatole, trovandovi dentro un mondo
di ricordi che l’hanno riportata a quando, bambina, giocava nella fabbrica del babbo,
assorbendo odori, assimilando voci, giocando con le vecchie fatture insieme alle amichette,
finché quel gioco si è trasformato in passione e mestiere anche per lei che ha lavorato per
tanto tempo gomito a gomito col padre.
Gastone Biondi è rimasto orfano a nove anni, ha studiato e lavorato fino a iscriversi
all’università e trovare posto in banca. Ma l’incontro con la moglie, i cui parenti possedevano la
fabbrica dei liquori, è stato fatale, perché fu amore in entrambi i casi, fino a fargli lasciare
l’appetibile lavoro di bancario per occuparsi a tempo pieno della fabbrica, nata nel 1929 e che
lui ha rilevato negli anni cinquanta, trasformandola in ditta Vittori di Biondi.
A Livorno, in quegli tempi, la concorrenza era tanta, c’erano venti distillerie e cominciavano a
imporsi i liquori di marca, ma Gastone ha puntato sulla qualità, sugli ingredienti migliori per la
produzione del suo rum fantasia. “Veniva”, racconta la figlia, “dal vecchio Gigi Civili con i
campioncini del liquore per farlo testare.” Ne ha voluto ridefinire l’identità livornese anche
tramite le etichette.
Otello Chelli ci racconta di aver conosciuto il Vittori quando, con la famiglia, dopo la
deportazione, era “ospite” di una colonia adattata a campo profughi. Qui il giovane Otello
trafficava con gli americani che chiedevano gin e lui lo comprava nella distilleria Vittori,
riuscendo così a mantenere tutta la famiglia. Ha poi avuto molti contatti anche con Gastone
Biondi.
Per concludere, riportiamo la poesia che Ermanno, l’autore del libro, ha recitato meritandosi il
caloroso applauso della platea.
‘R ponce alla livornese, un lo sai fa’?
Un ti preoccupa’, t’insegno io!
Prendi ‘n bicchiere,
un po’ più grosso di velli da caffé,
basta ‘he c’abbi ‘r fondo bello doppio:
per un bruciassi ‘ diti,
‘r ponce, è risaputo,
va bevuto prendendolo dar fondo,
insomma…
va preso per ir culo.
Per benino scardi ‘r bicchiere ‘or vapore,
un cucchiaino di zucchero… abbondante,
‘na scorza di limone fa da vela
e rumme, Fantasia, nun ti sbaglia’,
‘r Bacardi e ‘r Pampero un vanno bene!
Ci vole la bevanda der Vittori,
l’intruglio ‘he ‘r ragionier Gastone ‘r Biondi
ha ‘nventato un fottio di tempo fa.
Dunque, torniamo a bomba:
di novo scardi ‘r rumme finché bolle
e ner finale,
riempi ‘r bicchierino di ‘affé,
di vello forte a bestia!
Se poi pensi ‘he t’aggradi,
l’ingredienti poi adatta’ ar gusto personale,
mischiando sassolino o cognacche Tre Stelle
e ‘r resurtato ‘ambia po’o o nulla:
a garganella l’aromati’o ponce
ir gargarozzo ti solleti’erà.
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Gastone Biondi. Storia e Segreti del ponce al "rumme"
http://www.comune.livorno.it/_cn_online/index.php?id=412&lang=it
Un lavoro storico, oltre che letterario, in cui spicca la figura di Gastone Biondi, il babbo del
'rumme originale' e del ponce, unico e inimitabile. Un'opera nata dalla volontà della figlia
Caterina di ricostruire l'avventura imprenditoriale e umana di un uomo coraggioso e creativo,
un livornese doc, che rinnova con fantasia una tradizione antica della sua città, immaginando
un futuro in tempi difficili: un esempio incoraggiante per l'epoca in cui viviamo.
“Quando un uomo sensibile e intelligente, amante quanto nessun altro della propria
professione, per una ammirabile tenacia e anche con una buona dose di fortuna, riesce ad
intrecciare il suo destino con quello di una leggenda qual è il Ponce a Livorno, il suo ricordo
non può che diventare appassionante come un romanzo”.
Sono le prime righe della prefazione che Otello Chelli ha dedicato al libro Gastone Biondi storia
e segreti del ponce al “rumme”, edito da Debatte Editore, e non poteva esordire in maniera
migliore. Gastone Biondi è considerato, a pieno titolo, il finalizzatore di una ricerca ben più che
bicentenaria, iniziata a bordo di una non ben identificata nave della Reale Marina Inglese, di
quella pozione altrimenti denominata “rumme” in grado di sposarsi ed armonizzarsi con la
giusta dose di caffè al punto da divenire uno dei simboli della nostra città.
Nelle pagine che Ermanno Volterrani ha scritto, elaborando la proposta di Caterina Biondi e
usufruendo della sua collaborazione, la saga del Ragioniere ha trovato la strada giusta per
diventare storia. Le vicende narrate abbracciano un intero secolo, caratterizzato dal ventennio
fascista e dalle nefandezze del secondo conflitto mondiale alle quali Livorno ha saputo reagire
con vigore risalendo una china all’apparenza insormontabile.
E questa storia è piena zeppa di personaggi che entrano di diritto, al pari del ponce, nella
leggenda labronica, tutti accomunati da un unico fattore: Gastone Biondi, le cui doti di
intelligenza, onestà, carattere e generosità definivano l’uomo, piuttosto che il commerciante e
l’artigiano, oltre che l’artista in cerca della perfezione giunto a creare quel ponce che per i
livornesi è come l’araba fenice, finalmente imprigionata nel “gottino”.
Questo carattere emerge dalle interviste raccolte durante i lunghi mesi di gestazione
direttamente attraverso la voce dei protagonisti; l’entusiasmo e l’impegno profusi da Caterina
Biondi nella ricerca dei testimoni hanno trovato il giusto coronamento nelle elaborazioni di
Ermanno Volterrani il quale ha saputo rappresentare quanto di vero e di umano ci fosse
nell’ambiente della fabbrica di liquori, identificando nel ragioniere Biondi quel capo carismatico
in grado di lasciare il segno nel tempo.
GLI AUTORI.
Caterina Biondi, livornese di nascita e di residenza, è la figlia di Gastone, attaccata al padre da
un vincolo indissolubile che l'inesorabile trascorrere del tempo non ha intaccato minimamente.
E' pittrice, e nella sua arte sperimenta indedite tecniche di rappresentazione in grado di
adattarsi alle sensazioni di ogni attimo della propria esistenza: rappresentazioni dell'anima,
ventagli di emozioni, esplosioni di entusiasmo.
Ha partecipato da esordiente al premio Rotonda 2012 ricevendo dalla giuria una segnalazione
per l'opera "Frammenti di gioia". Caterina è anche autrice della copertina del libro.
"... i 15 anni trascorsi lavorando a fianco di mio padre sono stati gli anni più belli e di maggior
arricchimento della mia vita, la nostra affinità ci ha consentito di "alleggerire" quella fatica e
quelle responsabilità che il lavoro stesso richiedeva. Aver avuto un padre come lui, lo ritengo
un inestimabile dono che la vita mi ha concesso, a cui si è aggiunto il privilegio di averlo tenuto
fra le mie braccia fino all'ultimo respiro"
Ermanno Volterrani, Vada (LI) 28 settembre 1958, è alla sua quarta fatica letteraria. Dopo
l'esperienza con il romanzo da giugno a settembre del 2006 e la raccolta delle testimonianze
paterne Albania, racconti di un cavalleggero del 2008, ha deciso di dedicarsi all'idioma locale
pubblicando La mia amica triglia, racconti di poesie in labronico vernacolo.
E' inoltre autore di poesie e racconti e anche pubblicato numerosi articoli sulla storia, i
personaggi e le tradizioni labroniche.
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MARTINO BALDI
http://www.nazioneindiana.com/2008/03/18/su-capitoli-della-commedia-di-martino-baldi/
di Franz Krauspenhaar
Non poeta nero, non poeta della sperimentazione linguistica, il pistoiese Martino Baldi, nato nel
1970, fine saggista, ha da tempo scelto di usare la parola e il “mezzo” poetico per raccontare
la contemporaneità, per svellere tonnellate di terra coprente dai cimiteri dei vivi della nostra
società semiaddormentata.
E così nel 2005 ha dato alle stampe Capitoli della commedia, per le Edizioni Atelier, euro 7,50,
nella collana di poesia diretta da Marco Merlin, sorta a mio avviso di romanzo in poesia “a
sondaggio”. Baldi è sonda letteraria, va quasi random (e rabdom) a bucare nella casualità i
personaggi e le situazioni del suo poema casuale, nato dall’osservazione degli spurghi della
vita cosiddetta normale.
L’inizio sembra mutuato da un racconto dello scrittore americano Ambrose Bierce, quello del
Club dei parenticidi: si intitola infatti Il giorno che uccisi mio padre. Per il resto, il parricidio
viene descritto senza particolari sanguinari, così che s’insinua il dubbio, in chi legge, che
l’assassinio non sia stato veramente tale, ma semplicemente sia avvenuto un avvicendamento
naturale, che il padre sia semplicemente venuto a mancare per lasciare campo libero al figlio,
in una questione di spazi vitali, come se la morte di un genitore corrispondesse, tutto
sommato, alla sua eliminazione, in quanto è cosa comune che i figli quasi sempre seppelliscono
i padri e spesso ne prendono il posto lasciato vacante. Un prologo per certi versi agghiacciante
ma mantenuto comunque a gradi di tiepidezza espressiva, perché questa è in ultima analisi la
cifra di Baldi: un poetare sommesso e ironico sulle scommesse perse della vita.
A questo punto di partenza, che coincide con la morte di chi ci ha generati (forse apparentabile
al “mezzo del cammin della vita” di Dante, età nella quale spesso, per motivi anagrafici, si
perde perlomeno un genitore nell’avvicendarsi delle generazioni al comando) segue Lattine,
brevi composizioni segnate dalla ricerca, da parte dell’autore, di piccoli piaceri contemporanei,
come il sorseggiare una birra fresca, il farsi delle domande importanti senza aspettarsi una
risposta, l’ascolto di una canzone di Carmen Consoli; siamo dalle parti di una leggera
meditazione, senza grosse pretese, siamo all’abbandono senza passione, in una semplicità
industriale, che non chiede nulla e a nulla di particolare è richiesto. In pochi tratti prosastici
Baldi ci raffina nella sensazione di essere nella poesia e al contempo completamente fuori, cioè
tornati nel mondo delle cose scadute e a poco prezzo; usa insomma la poesia per trasportarsi
nella prosa caustica della vita di tutti i giorni, si alimenta di una materia prima di riplendente
purezza per non osare un solo passo più in là, per rimanere ancorato sul posto. La poesia
insomma per Baldi serve per ripetere al mondo in distratto ascolto sempre lo stesso concetto,
vale a dire che nulla è davvero superiore a nulla, e dunque essa deve ormai cantare la strage
d’ogni superiorità, d’ogni altezza fissata verso il nulla, e che la poesia è fotografia rimpicciolita
della realtà, ed è meglio del romanzesco, perché non deve per forza trovare una storia, una
trama, un vero interesse nei personaggi. La poesia, così, può mimare i corti e tentennanti
passi della nostra corta e tentennante vita.
Segue Scripta volant, sull’affare poetico, sullo scrivere poesia. Anche qui brevi composizioni
che riportano a famosi poeti come Sereni, De Angelis, Carifi, dichiarazioni di effettiva non
belligeranza; quello di Baldi è un muoversi arreso per coraggioso principio, è un dare il KO alla
poesia per getto della spugna impregnata di sudore e lacrime dalla vita. E poi Capitoli del
romanzo, La casa gialla, Esodo e Canzonetta, dove l’approdo alle cose false e verissime al
contempo della nostra breve contemporaneità vengono maggiormente fuori dal verso
squadernato. Si cita Costanzo, Costantino, Schumacher, nomi importanti e nomi condannati
alla dimenticanza, quasi che il poeta desiderasse, tramite la sua opera, consegnarli all’eternità
barcollante della poesia. E’ il canto volutamente stonato dell’uomo chiuso in un vicolo, che non
vede più eternità né nelle parole né nel suo cuore appannato, e allora si lascia andare
all’osservazione e ai ricordi, prendendo gli oggetti di ogni giorno come importante prestito,
come cimeli di oggi che domani possano spiegarsi per frammenti esplosi a chi non si sa.
Capitoli della commedia è insomma un poema sfilacciato, parziale, e “a campione” della nostra
contemporaneità, nuda e cruda, che parla col linguaggio comprensibile delle canzoni ma che
sfugge, continuamente, a una comprensione univoca. Un piccolo caleidoscopio puntato sulla
vita personale di un uomo che si fa filmato senza colonna sonora di un modo di vivere
soprattutto le emozioni, un esperimento poetico che nulla lascia al “bel verso” e al “grande
concetto”; e proprio per questo, a mio avviso, merita attenzione da parte di chi con la poesia
cerca di avvicinarsi al cuore, dolente e a volte nero, delle cose.
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